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Tribuna FOCUS 1 IL REATO DI ATTI PERSECUTORI (*) di Francesco Bartolini (*) Questo contributo è tratto dall’Opera di F. BARTOLINI, Lo stalking e gli atti persecutori nel diritto penale e civile, Collana Tribuna juris, Ed. La Tribuna. SOMMARIO 1. Lo stalking, come fenomeno di diffusione recente. 2. Le ragioni che hanno condotto all’introduzione del reato di atti persecutori. 3. Gli atti persecutori come fenomeno che non interessa soltan- to il diritto penale. 4. Gli atti persecutori ed il risarcimento del danno. 5. Gli elementi materiali del reato di atti persecutori; 5-1) La tipicità della condotta. 5-2) La clausola “salvo che il fatto costituisca più grave reato”. Concorso di reati. 5-3) La natura giuridica del reato di atti persecutori. 5-4) La reiterazione degli atti e la materialità della condotta persecutoria. 5-5) Reato di evento o reato di pericolo? 5-6) L’evento (anzi, gli eventi) del re- ato di atti persecutori. 5-7) Il tentativo. 5-8) Reato permanente? 6. L’elemento soggettivo del reato; 6-1) Reato doloso. 6-2) L’im- putabilità e le cause che la escludono o la diminuiscono. 1. Lo stalking, come fenomeno di diffusione recente Il termine “stalking” ha origine venatoria e significa, let- teralmente, fare la posta ad una preda. Per trasposizione dal mondo della caccia, esso descrive un comportamento tipizza- to dalla sorveglianza su una vittima, scelta come destinataria di condotte per essa moleste e resa oggetto di attenzioni molto spesso sfocianti in vere e proprie patologie. Il concetto essen- ziale che corrisponde al termine suddetto è quello di una per- sona che viene braccata da un’altra, fino al punto dall’essere avvertito come un persecutore. Il fenomeno dello stalking assunse questa denominazione all’inizio degli anni ‘80, negli Stati Uniti, a seguito di gravi fatti che ebbero per soggetti passivi personaggi famosi dello spetta- colo. Attori ed attrici furono letteralmente perseguitati da am- miratori che non concessero loro respiro e discrezione; ed una attrice in vista fu pugnalata dal suo Stalker, a Los Angeles. Seguirono altri casi ed essi si imposero all’attenzione di socio- logi, di medici legali e di psichiatri come emersione di un at- teggiamento che diventava ripetitivo ed assumeva diffusione. Fu nel 1991, che in California venne emanata la prima legge anti stalking. La giurisprudenza americana demandò nel 1992 all’Attorney General, massima autorità giudiziaria inquirente e requirente, di condurre ricerche attraverso il National Insti- tute of justice allo scopo di sviluppare un modello legislativo applicabile alle singole legislazioni degli stati membri. Altri Paesi seguirono l’esempio, posti di fronte ad episodi anche di sangue che evidenziavano la gravità della situazio- ne. Nel Regno unito fu emanato nel 1997 un Protection from harassment act che prevede una figura criminosa in larga par- te ispiratrice di quella italiana degli atti persecutori e che si realizza attraverso qualunque condotta che possa costituire molestia per una persona oppure possa indurla a temere una imminente violenza su di se. L’illecito ha contenuto piuttosto generico e ricorda per qualche aspetto la nostra contravven- zione ex art. 660 codice penale. Molto più specifica e detta- gliata è la previsione dell’art. 238 del codice penale tedesco (come riformulato nel 2007), il quale punisce chi perseguita illecitamente una persona cercando insistentemente la sua vi- cinanza, tenti di stabilire con essa un contatto tramite i mezzi di telecomunicazione o l’ausilio di terzi, ordini merci o servizi utilizzando abusivamente i suoi dati personali oppure induca un terzo a mettersi in contatto con esso, minacci con lesioni corporali l’incolumità, la salute e la libertà della vittima o di una persona ad essa vicina, oppure compia azioni simili che rechino grave pregiudizio all’organizzazione della vita di tale persona. In Italia il reato di stalking è stato introdotto con il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 dedicato alle misure urgenti in mate- ria di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessua- le, nonché in tema di atti persecutori, convertito in legge 23 aprile 2009, n. 38, che ha introdotto l’art. 612 bis del codice penale. Alcune delle disposizioni in esso contenute sono state estrapolate dal disegno di legge n. 733 (il “collegato sicurez- za”, destinato a completare il pacchetto di norme varato con il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125) che era stato già approvato dal Senato il 5 febbraio 2009; mentre le disposizioni sullo stalking sono state riprese dal testo parlamentare approvato, con il numero 1440 dalla Camera dei deputati il 29 gennaio 2009. Il provvedimen- to ha, dunque, alle spalle un intenso lavoro parlamentare, non giunto a conclusione per la difficoltà che il Governo ha incontrato di introdurre in tempi più rapidi correttivi di dirit- to positivo ad un ordinamento che non consentiva di interve- nire efficacemente in una materia drammaticamente portata all’attualità dai mass media. La risalenza delle previsioni di illecito contravvenzionale, la facile prescrivibilità dei reati, l’esiguità delle pene e l’impossibilità di pronunciare provve- dimenti cautelari e preventivi avevano determinato una grave lacuna normativa nell’ordinamento. 2. Le ragioni che hanno condotto all’introduzione del reato di atti persecutori L’introduzione del reato di atti persecutori è parte di una ini- ziativa mirata ad uno scopo per larga parte diverso. Il decreto legge, infatti, si prefissava di disporre misure di contrasto alla violenza sessuale e di protezione della donna, quale soggetto debole tipicamente vittima di intemperanze e di aggressioni maschili. I lavori parlamentari segnalano ripetutamente l’al- larmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale portati alla pubblica conoscenza dalle denunce e, spesso, dal ritrovamento delle vittime in condizioni inequivocabili. Una indagine dell’ISTAT nell’anno 2007, su “La violenza ed i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la fami- glia anno 2006”, con un campione rappresentativo di 25 mila donne tra i 16 ed i 70 anni, il 18,8% ha subito violenza fisica, sessuale o atti persecutori da parte di un ex partner. Quasi il

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Il reato dI attI persecutorI (*)di Francesco Bartolini

(*) Questo contributo è tratto dall’Opera di F. BARTOLINI, Lo stalking e gli atti persecutori nel diritto penale e civile, Collana Tribuna juris, Ed. La Tribuna.

SOMMARIO1. Lo stalking, come fenomeno di diffusione recente. 2. Le ragioni che hanno condotto all’introduzione del reato di atti persecutori. 3. Gli atti persecutori come fenomeno che non interessa soltan-to il diritto penale. 4. Gli atti persecutori ed il risarcimento del danno. 5. Gli elementi materiali del reato di atti persecutori; 5-1) La tipicità della condotta. 5-2) La clausola “salvo che il fatto costituisca più grave reato”. Concorso di reati. 5-3) La natura giuridica del reato di atti persecutori. 5-4) La reiterazione degli atti e la materialità della condotta persecutoria. 5-5) Reato di evento o reato di pericolo? 5-6) L’evento (anzi, gli eventi) del re-ato di atti persecutori. 5-7) Il tentativo. 5-8) Reato permanente? 6. L’elemento soggettivo del reato; 6-1) Reato doloso. 6-2) L’im-putabilità e le cause che la escludono o la diminuiscono.

1. Lo stalking, come fenomeno di diffusione recenteIl termine “stalking” ha origine venatoria e significa, let-

teralmente, fare la posta ad una preda. Per trasposizione dal mondo della caccia, esso descrive un comportamento tipizza-to dalla sorveglianza su una vittima, scelta come destinataria di condotte per essa moleste e resa oggetto di attenzioni molto spesso sfocianti in vere e proprie patologie. Il concetto essen-ziale che corrisponde al termine suddetto è quello di una per-sona che viene braccata da un’altra, fino al punto dall’essere avvertito come un persecutore.

Il fenomeno dello stalking assunse questa denominazione all’inizio degli anni ‘80, negli Stati Uniti, a seguito di gravi fatti che ebbero per soggetti passivi personaggi famosi dello spetta-colo. Attori ed attrici furono letteralmente perseguitati da am-miratori che non concessero loro respiro e discrezione; ed una attrice in vista fu pugnalata dal suo Stalker, a Los Angeles. Seguirono altri casi ed essi si imposero all’attenzione di socio-logi, di medici legali e di psichiatri come emersione di un at-teggiamento che diventava ripetitivo ed assumeva diffusione. Fu nel 1991, che in California venne emanata la prima legge anti stalking. La giurisprudenza americana demandò nel 1992 all’Attorney General, massima autorità giudiziaria inquirente e requirente, di condurre ricerche attraverso il National Insti-tute of justice allo scopo di sviluppare un modello legislativo applicabile alle singole legislazioni degli stati membri.

Altri Paesi seguirono l’esempio, posti di fronte ad episodi anche di sangue che evidenziavano la gravità della situazio-ne. Nel Regno unito fu emanato nel 1997 un Protection from harassment act che prevede una figura criminosa in larga par-te ispiratrice di quella italiana degli atti persecutori e che si realizza attraverso qualunque condotta che possa costituire molestia per una persona oppure possa indurla a temere una

imminente violenza su di se. L’illecito ha contenuto piuttosto generico e ricorda per qualche aspetto la nostra contravven-zione ex art. 660 codice penale. Molto più specifica e detta-gliata è la previsione dell’art. 238 del codice penale tedesco (come riformulato nel 2007), il quale punisce chi perseguita illecitamente una persona cercando insistentemente la sua vi-cinanza, tenti di stabilire con essa un contatto tramite i mezzi di telecomunicazione o l’ausilio di terzi, ordini merci o servizi utilizzando abusivamente i suoi dati personali oppure induca un terzo a mettersi in contatto con esso, minacci con lesioni corporali l’incolumità, la salute e la libertà della vittima o di una persona ad essa vicina, oppure compia azioni simili che rechino grave pregiudizio all’organizzazione della vita di tale persona.

In Italia il reato di stalking è stato introdotto con il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 dedicato alle misure urgenti in mate-ria di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessua-le, nonché in tema di atti persecutori, convertito in legge 23 aprile 2009, n. 38, che ha introdotto l’art. 612 bis del codice penale. Alcune delle disposizioni in esso contenute sono state estrapolate dal disegno di legge n. 733 (il “collegato sicurez-za”, destinato a completare il pacchetto di norme varato con il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125) che era stato già approvato dal Senato il 5 febbraio 2009; mentre le disposizioni sullo stalking sono state riprese dal testo parlamentare approvato, con il numero 1440 dalla Camera dei deputati il 29 gennaio 2009. Il provvedimen-to ha, dunque, alle spalle un intenso lavoro parlamentare, non giunto a conclusione per la difficoltà che il Governo ha incontrato di introdurre in tempi più rapidi correttivi di dirit-to positivo ad un ordinamento che non consentiva di interve-nire efficacemente in una materia drammaticamente portata all’attualità dai mass media. La risalenza delle previsioni di illecito contravvenzionale, la facile prescrivibilità dei reati, l’esiguità delle pene e l’impossibilità di pronunciare provve-dimenti cautelari e preventivi avevano determinato una grave lacuna normativa nell’ordinamento.

2. Le ragioni che hanno condotto all’introduzione del reato di atti persecutori

L’introduzione del reato di atti persecutori è parte di una ini-ziativa mirata ad uno scopo per larga parte diverso. Il decreto legge, infatti, si prefissava di disporre misure di contrasto alla violenza sessuale e di protezione della donna, quale soggetto debole tipicamente vittima di intemperanze e di aggressioni maschili. I lavori parlamentari segnalano ripetutamente l’al-larmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale portati alla pubblica conoscenza dalle denunce e, spesso, dal ritrovamento delle vittime in condizioni inequivocabili.

Una indagine dell’ISTAT nell’anno 2007, su “La violenza ed i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la fami-glia anno 2006”, con un campione rappresentativo di 25 mila donne tra i 16 ed i 70 anni, il 18,8% ha subito violenza fisica, sessuale o atti persecutori da parte di un ex partner. Quasi il

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50% delle donne vittima di violenza fisica o sessuale ha subito anche comportamenti persecutori. Il 68,5% dei partner ha cer-cato insistentemente di comunicare con le donne. Il 61,8% ha chiesto ripetutamente appuntamenti ed occasioni di incontro. Il 57% le ha aspettate fuori dalle loro abitazioni, da scuola, o dai luoghi di lavoro. Il 55,45% ha inviato messaggi, telefonate, e mail, lettere o regali indesiderati. Il 40,8% le ha seguite o spiate. Secondo l’Osservatorio nazionale Stalking, tra il 2002 e il 2007 almeno il 20% degli italiani, quasi sempre donne, è rimasta vittima di persecuzioni e nella metà dei casi l’autore è stato un ex: marito, fidanzato, convivente. Su 300 crimini commessi in un anno, l’88% ha per vittima una donna.

Il provvedimento contenente la normativa sui reati per-secutori nacque, dunque, in un contesto ben preciso e, po-tremmo dire, unidirezionale, in base alla constatazione non soltanto empirica per cui il soggetto da proteggere è quasi sempre un soggetto femminile. Ciò non toglie, naturalmen-te, che disposizioni quale quella relativa agli atti persecutori possano avere ambito di applicazione generalizzato, in quanto il terreno nel quale esse sono maturate ha fornito in pratica l’occasione per una operazione urgente ma non anche una de-limitazione a senso unico di tale ambito.

Si legge, nell’intervento che concludeva i lavori sul progetto di legge n. 1440 davanti alla Camera dei deputati (On. Giulia Buongiorno, relatore del disegno di legge poi trasfuso nel decre-to legge del Governo): “… la violenza nei confronti delle donne e gli omicidi con movente sessuale o passionale sono spesso “annunciati” da una serie di atti insistenti e ripetuti (telefona-te notturne, appostamenti, pedinamenti) che attualmente non trovano nel nostro ordinamento idonei strumenti di contrasto. Del tutto inadeguata ad arginare tale fenomeno è la configura-zione del reato di molestie. Da qui, la necessità di creare una nuova fattispecie che dilati, e al contempo anticipi, la tutela della vittima. Ecco, dunque, che il disegno di legge … è diretto a colmare un vuoto normativo e di tutela non più sostenibile”. E, con riferimento alle condotte di stalking, spesso contrassegnate da una vera e propria escalation, nella stessa relazione si affer-mava: “… viene lesa sia la libertà personale sia la riservatezza delle persone. E talora i danni riguardano la stessa incolumità fisio-psichica, nella forma dello stress psicologico. I beni giuri-dici messi in pericolo o lesi dalle condotte di stalking sono dun-que di grande rilevanza, anche nelle ipotesi in cui l’esito delle vicende non sia drammatico. A fronte di un fenomeno così grave e in forte aumento nella moderna società tecnologica, ed in un ambiente sempre più anonimo e di perdita di coesione sociale, l’ordinamento reagisce con misure troppo blande. Non stupisce dunque che in tutto il mondo si siano adottate misure penali e non penali per fronteggiare il problema e anche in Italia è final-mente giunto il momento di approvare una legge sul tema”.

3. Gli atti persecutori come fenomeno che non interessa soltanto il diritto penale.

Il caso paradigmatico dello stalking, nel nostro ordinamen-to denominato atti persecutori, è quello di un soggetto agente

(lo “stalker”) che individua un soggetto sul quale polarizzare il suo interesse ideo affettivo e nei cui confronti pone in esse-re numerosi comportamenti di sorveglianza, di contatto e di ricerca di comunicazione. Il profilo psicologico dell’agente ha punti in comune con chi è colpito da dipendenza affettiva. Si tratta, in genere, di personalità deboli, che per paura di essere abbandonati e per la ricerca di una identità si attaccano mor-bosamente a qualcuno.

Lo stalker è, per primo, vittima egli stesso della persecu-zione ossessiva che attua nei confronti del destinatario della sua attenzione. Lo strumento legislativo e, in particolare, quello della repressione penale, non costituisce pertanto un mezzo sufficiente ad impedire eccessi ed a riportare ad un comportamento ordinato l’autore di condotte persecutorie. Ad un siffatto strumento vanno affiancate terapie e forme di vi-gilanza che incidano sull’individuo al fine di fargli recuperare un equilibrio psichico quasi sempre compromesso. Lo stalker è spesso un individuo con temperamento border line. O un soggetto esaltato ed eccitato da un sentimento obnubilante e totalizzante, con perdita del senso delle proporzioni. Le fatti-specie di minore gravità sono quelle che hanno per autore per-sone giovani ed immature, smaniose di sentirsi protagoniste ed esclusive nel loro modo di vedere il rapporto con gli altri.

Per la vittima dello stalking le molestie assillanti possono costituire un intralcio nelle normali abitudini di vita ma pos-sono diventare un incubo esasperante che costringe a mutare quelle abitudini. È comune il caso di ragazze che non osano uscire più da sole dall’abitazione e che si fanno accompagnare a scuola od al lavoro da adulti. Ma le molestie possono diven-tare vere e proprie situazioni condizionanti l’equilibrio psichi-co, soprattutto se accompagnate da minacce, da aggressioni fisiche, da lesioni. Le ripercussioni sulla psiche e sul carattere possono diventare gravi e cronicizzarsi, trasformandosi in sta-ti di ansia permanente, in disturbi da stress ben identificabili in medicina legale. È, questa, una delle fattispecie tipiche del reato di atti persecutori, per la cui sussistenza si richiede, tra l’altro ed in alternativa con altri possibili eventi, il verificarsi di uno stato di ansia perdurante e grave. Ai fini della prova in giudizio, si profila come difficile, senza una consulenza tec-nica o una perizia, fornire dimostrazione di una condizione necessaria per la sussistenza del reato e che rimane legata all’interiorità della persona fisica. Ove l’effetto degli atti per-secutori si traduca in una vera e propria patologia, non sarà sufficiente esibire al riguardo un certificato medico ma occor-rerà un accertamento tecnico me dico legale. In quanto ele-mento costitutivo del reato, di un siffatto evento deve dare la prova la pubblica accusa.

4. Gli atti persecutori ed il risarcimento del dannoL’illecito costituito dalla perpetrazione di atti persecutori

si presenta, per chi ne rimane vittima, come fatto che è titolo per chiedere il risarcimento del danno. Sul punto è indubbia l’applicabilità degli artt. 185 codice penale e 2059 codice civi-

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le, per i quali è dovuto il risarcimento del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale.

La strada più breve per ottenere un indennizzo passa per la costituzione di parte civile nel processo penale. Molto spesso, però, per l’impreparazione o per la negligenza dei difensori, l’indennizzo non viene limitato neppure alla liquidazione di una provvisionale, posto che al giudice deve essere non soltan-to allegata l’esistenza di un danno risarcibile ma anche fornita una indicazione di massima sulla natura di questo danno e sulla sua consistenza. Fuori dei casi in cui la sussistenza del danno e la sua entità siano desumibili da una consulenza o da una perizia medico legale (che, ad esempio, accertino un danno biologico in una determinata percentuale), nel giudi-zio è necessario produrre le ricevute degli esborsi sostenuti e descrivere in qual modo è stata vissuta la vicenda, con i muta-menti apportati alle abitudini ordinarie.

In particolare, è dovuto il risarcimento del danno non pa-trimoniale, in relazione ad un reato che colpisce direttamente la sfera della libertà morale della persona, la sua quiete, la sua tranquillità, l’ordinarietà dei suoi comportamenti e l’am-bito dei sentimenti e degli affetti. Non si pongono problemi particolari, in proposito, posto che al giudice è demandato di provvedere ad una determinazione ed alla conseguente liqui-dazione secondo una valutazione equitativa che rimedia alla difficoltà della prova sul quantum. Qualche problema può sor-gere in tema di danno esistenziale.

Il reato di atti persecutori, per definizione commesso attra-verso una serie di azioni reiterate e determinante una inciden-za negativa sulle abitudini di vita e sulle condizioni normali di equilibrio psichico ed affettivo, appare quale fattispecie tipica di determinazione di un danno definibile come esistenziale.

È noto che a lungo la nozione di danno esistenziale è stata controversa e che è stata discussa la sua utilità nel quadro di un bipolarismo tra danno patrimoniale e non patrimoniale che limita quest’ultimo, per il disposto di cui all’art. 2059 co-dice civile, ai soli casi previsti dalla legge. Per danno esisten-ziale si è inteso il pregiudizio, oggettivamente accertabile, che alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri del soggetto, inducendolo a scelte di vita diverse, quanto all’espressione ed alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, da quelle che avrebbe compiuto ove non si fosse verificato il fatto dannoso (in tal senso, ad esempio, Cass. civ., sez. III, 6 febbraio 2007, n. 2546; Cass. sez. III, 28 agosto 2007, n. 18199; Cass. sez. lav., 16 maggio 2007, n. 11278). Da ultimo, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno affermato la non am-missibilità nel nostro ordinamento di una autonoma categoria di “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona (sent. 11 novembre 2008, n. 26972). Nella pronuncia si spiega che se nella detta nozione si ricomprendono i pregiudizi scaturenti dalla lesione di inte-ressi della persona tutelati dalla Costituzione ovvero derivanti da fatti-reato, di essa non v’è necessità perché siffatti interessi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 codice civile interpre-tato in modo conforme alla Costituzione. Se, per contro, nella

medesima nozione si dovessero includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, per il divieto del citato art. 2059 c.c. Ne segue, che, a prescin-dere dalle terminologie, il danno non patrimoniale derivato dal reato di atti persecutori è risarcibile come danno morale in senso stretto, per le afflizioni, i patemi d’animo e le mortifica-zioni subite (ne costituisce titolo il dettato dell’art. 185 codice penale); mentre il danno non economico ma non strettamente morale è risarcibile nei limiti in cui possa essere ricondotto a lesioni di valori riconosciuti e difesi dalla Costituzione (quale il diritto alla salute) o, comunque, a valori inalienabili della persona fisica (che la stessa Costituzione, in ogni caso, tutela: art. 2 della Carta Repubblicana).

5. Gli elementi materiali del reato di atti persecutori

5-1. La tipicità della condottaUn problema di rilievo che la Camera dei deputati e, ancor

prima, le Commissioni Affari costituzionali e Giustizia dovet-tero affrontare nel formulare una norma descrittiva del reato di atti persecutori fu quello di trovare espressioni sufficien-temente ampie per ricomprendere la multiformità delle fat-tispecie suscettibili di essere annoverate in quella nozione e, nello stesso tempo, adeguatamente sintetizzate per coniugare il principio di tassatività delle previsioni di illecito penale con l’opportunità di evitare diffuse casistiche, mai esaurienti. Il problema era ben avvertibile nelle soluzioni adottate da al-cune legislazioni straniere. Ad esempio, nell’ordinamento tedesco si era scelto di dettare disposizioni che scendevano all’esemplificazione ed all’elencazione di comportamenti configuranti lo stalking, per poi ricorrere, in calce alla norma incriminatrice, ad una clausola conclusiva e riassuntiva che evitasse vuoti normativi. Il raffronto con questa ed altre legi-slazioni straniere invitava a reperire strade più confacenti alle regole del nostro diritto penale.

Il problema fu risolto rinviando, semplicemente, a nozioni ormai acquisite in dottrina e in giurisprudenza, fatte diveni-re elementi componenti della nuova figura di reato. Gli atti persecutori consistono, in definitiva, in atti di minaccia e di molestia. Tanto la minaccia quanto la molestia costituiscono oggetto di norme di diritto positivo che hanno subito una va-sta elaborazione nel tempo e che hanno raggiunto un risultato interpretativo stabile e idoneo a rappresentare l’elemento di certezza necessario a soddisfare l’esigenza della tassatività, per legge, delle norme incriminatici.

Il Governo ha trasfuso il progetto approvato dalla Camera in un decreto legge che ha recepito il testo uscito dalla di-scussione parlamentare. I primi commentatori hanno ricono-sciuto che l’impasse è stata superata e che il rinvio ai concetti di minaccia e di molestia soddisfa pienamente il requisito di cui agli artt. 25, secondo comma, Costituzione, e 1 del codice penale. Di certo, si prevede, questi concetti potranno deter-minare qualche “tensione” dei detti principi di tassatività e di determinatezza; ma la robusta tradizione interpretativa uti-

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lizzabile al riguardo può consentire di sciogliere ogni riserva. La Corte di cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 612 bis con l’affermare che la fattispecie incriminatrice ivi prevista non viola il principio di determinatezza ma è delineata in tutte le sue componenti essenziali, in quanto il fatto costitutivo del reato assume i con-notati dell’antigiuridicità attraverso la realizzazione reiterata di condotte dotate di un elevato grado di determinatezza, do-vendo consistere in minacce e molestie, non meramente ge-neriche, ma tali da assumere una gravità idonea a cagionare nella vittima uno degli eventi alternativamente previsti dalla stessa disposizione normativa (Cass. pen., sez. V, 13 giugno 2012, n. 36737).

Le questioni concrete cui ha dato luogo l’applicazione pratica della nuova normativa hanno riguardato soprattutto, piuttosto, il rapporto tra le minacce o le molestie e l’effetto occorrente a configurare il più complesso e diverso reato di atti persecutori. Il punto delicato della normativa, anche sotto il profilo della prova, non è tanto di stabilire se una certa con-dotta (o, meglio, una serie di condotte) costituisce minaccia o molestia; quanto di accertare se ad essa è conseguito l’effetto pregiudizievole per la libertà morale del soggetto passivo che l’art. 612 bis esplicitamente pretende e descrive.

5-2. La clausola “salvo che il fatto costituisca più grave reato”. Concorso di reati

Il testo dell’art. 612 bis codice penale contiene la clau-sola “salvo che il fatto costituisca più grave reato” presente nell’originario disegno di legge esaminato dalla Camera dei deputati e, dopo l’approvazione con alcune modifiche, ripreso sotto forma di decreto legge dal Governo. La clausola suddetta fu soppressa dalla Commissione Giustizia della Camera e suc-cessivamente fu reintrodotta dall’Aula in sede di approvazione finale, in accoglimento del parere espresso dalla Commissio-ne Affari costituzionali. Così riassumeva i termini di quanto sino ad allora avvenuto la relazione del vicepresidente della II Commissione, On. Palomba:

“La reintroduzione dell’inciso - si legge nel resoconto som-mario della seduta del 10 dicembre 2008 della Commissione Affari costituzionali - sarebbe finalizzata ad evitare che uno stesso fatto, qualora integri contemporaneamente le fattispe-cie degli atti persecutori e di altro reato più grave, sia san-zionato con una pena eccessivamente dura e sproporzionata. In realtà, tale preoccupazione appare infondata non tenendo conto della reale gravità del fenomeno, che come tale merita una risposta sanzionatoria specifica ed adeguata. La Com-missione giustizia ha soppresso l’inciso al fine di rimettere ai principi generali in materia di concorso apparente di nor-me la questione dei rapporti tra il reato di atti persecutori e gli altri reati che potrebbero essere commessi da parte dello stalker nei confronti della vittima. In sostanza, eliminando la clausola “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, si è voluto evitare il rischio di non considerare come una ipote-si di concorso di reati il caso in cui, ad esempio, tra gli atti

reiterati ve ne siano alcuni riconducibili al reato di violenza sessuale. Tutti sappiamo che la giurisprudenza ormai ricon-duce nell’ambito della violenza sessuale non solo gli atti che coinvolgono la sfera genitale ma anche quelli che riguardano zone del corpo note, secondo la scienza medica, psicologica, antropologico-sociologica, come erogene. Con la soppressione della predetta clausola si è voluto evitare che, nel caso in cui tra gli atti reiterati ve ne fossero alcuni qualificabili come “atti sessuali”, la condotta di stalking venisse assorbita in quella della violenza sessuale. Ciò non sarebbe corretto, in quanto si tratta di condotte che coinvolgono beni giuridici diversi e che esprimono ciascuna un disvalore meritevole di una specifica e differenziata risposta sanzionatoria: del resto, come potreb-bero un bacio sulla guancia o una pacca sul sedere (per men-zionare alcune delle ipotesi che vengono ricondotte dalla giu-risprudenza maggioritaria alla nozione di atti sessuali) avere l’effetto “magico” di “cancellare” mesi o anni di vessazioni e di tortura psicologica, ovvero di “atti persecutori” ? La verità è che lo stalking è un reato abituale proprio, che si sostanzia in un comportamento reiterato e assillante, mentre le altre fat-tispecie che potrebbero in astratto concorrere con esso sono reati istantanei, che si consumano anche con una sola azione. Dunque, anche conservando la clausola di sussidiarietà, se correttamente interpretata, essa non potrebbe mai entrare in azione, dal momento che il “fatto” dello stalking è assai più complesso ed articolato rispetto al singolo episodio, realizzato all’interno del lungo iter di commissione delle molestie assil-lanti: il “fatto” di stalking, dunque, non “costituirebbe” più gra-ve reato di per sé ma sarebbe solo una piccola frazione di esso (esempio: il toccamento fugace della vittima) ad integrare il diverso reato istantaneo. Sarebbe dunque assurdo far preva-lere fra i due un fatto che si realizza in un istante rispetto ad un intero comportamento persecutorio che può durare mesi o anni. Insomma: si deve ritenere che vi sia una differenza ontologico/strutturale fra un fatto di stalking ed un reato istantaneo che costituisce uno dei vari episodi dello stalking. Per questo motivo, i “fatti” dello stalking e del singolo reato debbono dar luogo a più reati fra loro concorrenti e non posso-no essere ridotti forzatamente ex lege ad uno solo. Va, infine, sottolineato che, dal punto di vista pratico, le conseguenze della reintroduzione dell’inciso sarebbero nefaste: il giudice sarebbe costretto ad annullare il reato di stalking in favore di altri reati concorrenti (sempre che venisse superata la que-stione interpretativa della ricorrenza del medesimo “fatto”), e con ciò verrebbero meno tutte quelle garanzie per la vittima dello stalking che la nuova legge sugli atti persecutori mira a realizzare, attraverso le varie misure cautelari ad hoc, le uni-che capaci di prevenire gli esiti talvolta letali dell’escalation di violenza da parte dello stalker”.

Gli auspici del parlamentare non furono accolti. Osservò, nella medesima occasione, l’on. Gaetano Pecorella che: “Il primo punto attiene al non avere previsto nel testo della Com-missione l’inciso “salvo che il fatto costituisca più grave reato”. Probabilmente ciò è stato determinato dall’idea che il princi-

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pio generale della specialità lo rendesse inutile: non è così, non solo perché numerose norme del codice penale lo preve-dono, ma perché vi sono situazioni di rapporti tra norme che non sono basate sulla specialità, come nel caso del principio di continenza. In tal caso, vi è una norma che completamente tutela e riguarda quel fatto, anche se non vi è un rapporto di specialità. Soprattutto, non avere previsto l’inciso può far sì che, sulla base del principio di specialità, anche reati meno gravi siano speciali rispetto al reato di stalking, cioè al rea-to di molestie, per cui se non si dice che il reato di molestie non si applica se non quando vi è un reato più grave, potreb-be accadere che per il principio di specialità esso si applichi, ad esempio, ai maltrattamenti in famiglia, reato certamente meno grave ma speciale rispetto al reato di molestie. Credo, pertanto, che sia necessario ritornare al testo del Governo”. E la clausola, quindi, fu ripristinata ed è rimasta nel testo tra-sfuso nel vigente decreto legge.

Abbiamo riportato i passi di questi lavori parlamentari per segnalare la delicatezza di un problema che è stato, di fatto, lasciato all’opera risolutiva dell’interprete. E per segnalare, anche, una notevole confusione di concetti, ragione primaria per una clausola di sussidiarietà che non pare abbia alcuna giustificazione.

Per “reato più grave” deve intendersi quello sanzionato con pena edittale più severa e non anche quello che in concreto può risultare più grave conformemente ai parametri di cui all’art. 133 codice penale (così, a proposito della continuazione nel reato, Cass. sezioni unite 26 novembre 1997, Vannelli; sezioni unite 12 ottobre 1993, Cassata). Per ritenere la sussistenza di un reato in questo senso più grave, in vece e luogo di una figu-ra illecita di natura sussidiaria, occorre che di quest’ultima il reato più grave rivesta tutti gli elementi costitutivi. Non esiste il paventato rischio che il reato di atti persecutori rimanga assorbito in imputazioni di molestie o di minacce continuate, posto che queste imputazioni non coprirebbero l’ulteriore ele-mento materiale degli atti persecutori costituito dall’evento cagionato in danno del soggetto passivo: ansia, paura, timore di nocumento all’incolumità fisica o mutamento delle abitu-dini di vita. Soltanto se questa serie alternativa di eventi non ricorre (o non ne risulta prova), hanno fondamento le dette imputazioni, autonome, di molestie e di minacce continuate, ma ciò equivale a riconoscere che mancano gli elementi costi-tutivi del diverso reato.

Analogamente, il paventato rischio che un addebito di vio-lenza sessuale possa prevalere sul reato di atti persecutori, viene ad essere escluso a seconda delle circostanze di fatto emerse nel processo. Se nel corso di tutta una serie di molestie e di minacce l’agente non soltanto riesce a cagionare ansia, paura, timore per l’incolumità fisica o mutamento di abitudini di vita, ed in una o più occasioni eccede in violenze di tipo ses-suale, non si vede quale incompatibilità esista per un concorso tra le due diverse figure criminose. Soltanto dal loro concorso l’intera fattispecie risulta disciplinata; il ritenere addebita-bile il solo delitto di violenza sessuale lascerebbe impuniti i

comportamenti ulteriori, né sarebbe sufficiente degradarli ad una reiterazione di minacce e di molestie in quanto si trascu-rerebbe l’evento psichico o comportamentale sfavorevole per la vittima, che può essere estraneo alla violenza sessuale, se essa, ad esempio, si atteggia nelle sole forme che una volta erano note come atti di libidine violenta. Il delitto di violenza sessuale è, sotto il profilo della pena edittale, certamente più grave ma quando esso è riferibile ad una frazione soltanto della complessiva azione dell’autore non si vede per quale ragione, esista oppure no una clausola di sussidiarietà, esso non debba concorrere con reati di minore gravità, non necessariamente da esso presupposti o di esso componenti. Diverso, ovviamente, è il discorso se la serie di minacce e di molestie ha costituito il mezzo attraverso il quale si è pervenuti all’atto sessuale: del quale, in questo caso, essa integra il requisito della violenza, senza spazio per incriminazioni ulteriori.

Può porsi come reato più grave il delitto di violenza privata nei casi in cui questa è aggravata dall’uso di un’arma o dall’es-sere commessa da persona sottoposta a misura di prevenzio-ne. Ma la norma incriminatrice è generica, in quanto prevede unicamente che la vittima sia indotta a fare, tollerare, omet-tere un alcunché. È l’esame del fatto, in concreto, a far deci-dere se su questo risultato indeterminato della condotta di violenza o di minaccia prevalga un effetto negativo specifico, quale quello dello stato di ansia, del perdurante timore, del cambio di abitudini di vita; e se la condotta dell’agente non è trasmodata in violenze o in minacce ma si è mantenuta nel limite delle continuate molestie viene a mancare uno degli elementi costitutivi della violenza privata, con preclusione di ogni possibilità di comparazione. Per la giurisprudenza, men-tre la disciplina dettata dall’art. 612 bis è speciale rispetto a quelle che prevedono i reati di minaccia o molestia, non lo è rispetto all’art. 610 C.P. La violenza privata, infatti, è finalizza-ta a costringere la persona offesa a fare, non fare, tollerare o omettere qualcosa, perciò non genera solo il turbamento emo-tivo occasionale dell’offeso per il riferimento a un male futuro ma esclude la sua stessa volontà in atto di determinarsi nella propria attività, d’onde il quid pluris di cui all’art. 610 C.P., mentre lo stalking influisce sull’emotività della vittima; i due reati, pertanto, possono essere contestati in concorso tra loro (Cass. pen., sez. V, 7 aprile 2011, n. 20895).

Sempre con valutazione in concreto deve essere risolto il rapporto tra gli atti persecutori e le lesioni personali dolose, gravi o gravissime (malattia superiore ai quaranta giorni o ma-lattia insanabile). Il reato di atti persecutori ha, tra gli eventi che lo caratterizzano, la determinazione nel soggetto passivo di uno stato di ansia o di una condizione di perdurante timore che possono trovare riscontro, e costituirne manifestazione, in vere e proprie patologie indotte nella sua sfera psicofisica. Quando si accerti una situazione siffatta, può trovare fonda-mento una imputazione che consideri unicamente le lesioni personali quali risultato di una complessa ed articolata azione illecita. In questo caso, più che la clausola di sussidiarietà in argomento sembra doversi applicare il generale principio di

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specialità. Anzi, può sostenersi che il reato realizzato è non soltanto più grave ma è anche diverso, essendone diverso l’evento.

Più delicato appare il confronto con il delitto di maltrat-tamenti in famiglia o verso fanciulli, previsto dall’art. 572 co-dice penale. Esso si configura mediante la perpetrazione di “maltrattamenti” nella cui nozione possono essere comprese le minacce e le molestie caratteristiche del reato di atti per-secutori. Come quest’ultimo, i maltrattamenti in famiglia sono un illecito di natura abituale e richiedono il dolo. Ma, ancora una volta, è poi il concreto atteggiamento desumibile nella vicenda a far decidere in quale delle due figure di reato gli episodi in esame vadano compresi. Per i maltrattamenti fami-liari, infatti, hanno rilievo le percosse, gli abusi, le omissioni, le ingiurie, le dimostrazioni di disistima che sono estranee al concetto di minaccia e di molestia. Ed i maltrattamenti sono rilevanti, ai fini della sussistenza di siffatto reato, di per sé, indipendentemente da un effetto pregiudizievole cagionato nella psiche e nel comportamento del soggetto passivo. Men-tre per gli atti persecutori proprio questo risvolto di danno soggettivo costituisce l’evento del reato.

5-3. La natura giuridica del reato di atti persecutoriIl legislatore ha attribuito al delitto di atti persecutori na-

tura di illecito lesivo del bene giuridico costituito dalla libertà morale. Per essa si intende, tutelato in contrapposizione alla libertà fisica e di movimento, l’attitudine ordinaria del sogget-to ad autodeterminarsi. La libertà morale implica la possibili-tà di fare scelte autonome, senza condizioni esterne che non siano quelle comunemente accettate da tutti come regola del convivere sociale. Essa è un aspetto necessario della persona-lità del singolo individuo, che nella odierna società è soggetto di diritti e che deve poter esercitare le facoltà tutelate dall’or-dinamento senza intromissioni condizionatrici inammissibili secondo l’etica e secondo le disposizioni che regolano la vita nella società.

Gli atti persecutori, considerati nella loro natura sostan-ziale di comportamenti vessatori che conducono ad una mor-tificazione delle condizioni soggettive della vittima, incidono per definizione sulla sua autonomia di determinare le moda-lità del proprio comportamento e turbano quegli aspetti com-plementari ma indispensabili, di quiete e di tranquillità, sui quali una siffatta autonomia necessariamente si fonda.

Va peraltro notato che una lesione del bene giuridico della libertà morale è particolarmente avvertibile nei casi in cui il reato di atti persecutori si configura per l’evento di far mutare al soggetto passivo le abitudini di vita. Questa fattispecie è assai vicina allo schema della violenza privata, che costituisce l’esem-pio più rilevante della categoria di illeciti offensivi del bene giuridico in questione. Meno avvertibile la stessa lesione è nei casi in cui gli atti persecutori cagionano un grave e perdurante stato di ansia o di paura od un fondato timore per l’incolumità, con risvolti che attengono all’equilibrio psicofisico. Vengono in rilievo, al riguardo, il danno alla salute e il danno all’incolumità

personale, quali beni ulteriori concretamente aggrediti dalla se-rie di atti persecutori. In questo senso può dirsi che il reato in esame ha natura eventualmente plurioffensiva.

Il reato di atti persecutori è tipico illecito di struttura abi-tuale (Cass. pen., sez. I, 8 febbraio 2011, n. 9117). Si intende con questa definizione un reato che richiede una pluralità di azioni come elemento materiale della condotta. L’art. 612 bis è chiaro nel richiedere una reiterazione di minacce o di mo-lestie, conformemente al modello astratto di una condotta ri-provevole perché continuativa, prolungata, ripetuta, nei suoi aspetti ed effetti sgraditi e disturbatori. La stessa rubrica del-la disposizione citata è esplicita nel completare la descrizione del fatto criminoso. Gli atti devono essere “persecutori” ed in questa nozione è essenziale il riferimento ad un comporta-mento che per la sua ossessività e ripetizione assillante assu-me il connotato della non ulteriore sopportabilità. Attraverso il requisito della reiterazione il legislatore ha recuperato de-terminatezza alla descrizione della fattispecie tipica, la quale richiede una pluralità di episodi minacciosi o molesti. Tanto premesso sulla natura del reato in esame, nei suoi aspetti cer-ti, deve poi dirsi che due aspetti ulteriori presentano elementi di dubbio, potendo per essi porsi interpretazioni diverse. Que-sti aspetti riguardano la natura di reato di evento, da attribu-ire all’illecito in questione, e l’elemento soggettivo necessario a configurarlo. Si rimanda, in proposito, al prosieguo.

5-4. La reiterazione degli atti e la materialità della condot-ta persecutoria

Reiterazione di atti significa ripetizione di comportamenti aventi le medesime caratteristiche. Riferita alle minacce ed alle molestie essa implica la pluralità di gesti e di azioni ca-ratterizzati dal contenuto intimidatorio e dal connotato mole-sto per chi ne rimane destinatario. Il reato di atti persecuto-ri, come si è accennato, richiede per definizione una serie di atteggiamenti dell’agente che conduca ad una situazione di insofferenza nel soggetto passivo e che venga da questi avver-tita come una compressione della sua libertà non più soppor-tabile. Per la giurisprudenza, la locuzione “condotte reiterate” va intesa nel senso che si è in presenza di un reato complesso la cui condotta criminosa può essere integrata da atti di per sé già costitutivi di condotte di minaccia o di molestia; il ca-rattere decisivo della condotta criminosa consiste, pertanto, nella ripetizione di atti qualificati persecutori in quanto il loro insieme cagiona l’evento ulteriore assorbente dei reati sopra menzionati (Cass. pen., sez.V, 7 aprile 2011, n. 20895). Ripe-tutamente, però, la Suprema Corte ha pronunciato decisioni riduttive della portata del principio così posto, in quanto ha affermato essere sufficienti a integrare il reato di atti persecu-tori anche due sole condotte (Cass.pen., sez. V, 7 aprile 2011, n. 20895, nella specie, rivolte a persone diverse; Cass. V, 11 gennaio 2011, n. 7601; Cass. V, n. 6417/2010). La reiterazione, nel senso della continuità dei comportamenti, è stata ritenuta anche nel caso di interruzione dovuta alla sottoposizione agli

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arresti domiciliari e di loro ripresa subito dopo la cessazione di tale misura (Cass. pen., sez. V, 10 ottobre 2012, n. 7541).

Gli atti possono essere omogenei tra loro oppure eteroge-nei. La norma incriminatrice li pone sullo stesso piano, essen-do indifferente che nel caso concreto si tratti di protrazione di intimidazioni oppure della prosecuzione di azioni avverti-te come disturbatrici; o che le une si alternino alle altre. La reiterazione comporta ovviamente che gli atti siano distinti l’uno dall’altro e, di conseguenza, che essi si susseguano nel tempo. Il reato non sarebbe configurato da una singola azione e neppure da una azione che si prolunghi per un certo lasso temporale, dando luogo a permanenza. In proposito la norma punitiva non indica limiti temporali, neppure in un minimo, occorrente ad integrare la “reiterazione”, salvo imporre il connotato della pluralità dei fatti. Va notato che ciascuno di questi fatti costituisce, di per sé, un reato e, in qualche caso, un reato procedibile d’ufficio, ove conosciuto. Si configura un reato diverso, comprensivo ed autonomo, soltanto se i singoli fatti vengono legati da un elemento comune, rappresentato dall’identità dell’agente, dalla ripetizione e dalla loro caratte-ristica di essere idonei a cagionare un determinato risultato sulla psiche o sulle abitudini del soggetto passivo.

La reiterazione dei comportamenti minacciosi o molesti fornisce anche una differenza rispetto alle tradizionali pre-visioni di illecito penale per l’altrui intrusione nella sfera di libertà privata del singolo. Il punto di vista era, in precedenza, quasi esclusivamente quello dell’episodio isolato, per la cui eventuale ripetizione si ricorreva all’istituto della continua-zione. La nuova figura di reato è finalizzata a colmare una la-cuna nell’ordinamento, che non prevedeva reazioni giuridiche adeguate per comportamenti delittuosi seriali, espressione di un profilo psicologico del tutto peculiare nell’agente. La se-rialità delle condotte è stata eletta ad elemento costitutivo dell’illecito perché proprio questa serialità, più che la gravità dei singoli episodi, caratterizza e costituisce la vera lesione del bene giuridico protetto.

Lo stalker non di rado giunge ad eccedere nelle sue manife-stazioni oppressive e proprio l’esigenza di impedire evoluzioni drammatiche della situazione formatasi in danno della vittima ha costituito lo scopo principale dell’introduzione della figura di reato degli atti persecutori. Può, dunque, avvenire, che alle minacce ed alle manifestazioni moleste si aggiungano le ag-gressioni fisiche, quali le percosse o le lesioni; e che vengano profferite ingiurie o si giunga ad atti di diffamazione, come è talvolta avvenuto per la diffusione di immagini intime riprese di nascosto o per l’invio a terzi di missive anonime insultanti. In questi casi si pone il delicato problema di stabilire se si ver-ta ancora nel generico ed elastico concetto di “molestie” o se i vari episodi che risultino corrispondere ad altrettante figure di reato siano perseguibili autonomamente, nelle forme del concorso di reati. La risposta è, in linea generale, certamente affermativa, dato che l’ultimo comma dell’art. 612 bis prevede la procedibilità d’ufficio se il reato di atti persecutori è con-nesso con altro reato per il quale si deve procedere d’ufficio.

Sulle nozioni di minaccia e di molestia richiamiamo quanto riferito nei precedenti capitoli di questo volume. Ricordiamo che si tratta di nozioni largamente note e sperimentate nella prassi giudiziaria e che proprio questa circostanza ha fornito determinatezza alla descrizione della nuova figura criminosa. In questa sede possiamo aggiungere le seguenti considerazio-ni.

L’esperienza ha insegnato che nei confronti delle persone prese di mira, le minacce e le molestie sono state poste in es-sere molto spesso attraverso lettere anonime o comunicazioni telefoniche. Sono stati frequenti i casi di missive contenenti frasi minatorie, ricattatorie od offensive, in relazione alle quali l’identificazione degli autori ha richiesto perizie grafologiche ed attente indagini nella ristretta cerchia di conoscenze della vittima. Ed altrettanto frequenti sono stati i casi di disturbo arrecato con il mezzo del telefono, attraverso squilli ripetuti, senza limiti di orario, talvolta muti e talaltra seguiti da in-sulti, rumori volgari o frasi incomprensibili. Un quesito che si era posto a proposito delle molestie mediante il telefono riguardava l’estensione della previsione legislativa in tal senso anche ad azioni di disturbo esercitate utilizzando strumenti diversi, quali il citofono e, progres sivamente seguendo lo svi-luppo tecnologico, il telefonino cellulare, i mes saggi di testo, i messaggi video, le e mail; e poi la rete internet con le sue occasioni di chat, di forum, di communities nonché di invio di virus, di spam e lo spyware. Se in talune ipotesi questi sviluppi tecnici non possono essere ricondotti alla fattispecie di cui all’art. 660 codice penale, che è riferita all’uso del telefono, sembra di poter affermare che esse pos sano, invece, essere annoverate a comporre una nozione di “molestia” più ampia e comprensiva, utile a costituire l’elemento materiale del re-ato di atti persecutori. Della nozione di molestia, tradizional-mente intesa, il legislatore ha certamente voluto richiamare il contenuto sostanziale di afflizione indesiderata comunque arrecata ad un soggetto, lasciando libera la forma per quanto attiene alle modalità in concreto adoperate: e ciò per rendere attuale, conforme ai tempi e rispondente allo scopo, la rea-zione giuridica avverso comportamenti di disturbo che hanno assunto multiformità di attuazione.

La giurisprudenza aveva ricondotto all’ambito di applicazio-ne dell’art. 660 codice penale la molestia cagionata con telefo-nate in cui il chiamante si limitava a pronunciare espressioni appena abbozzate ed incomplete, non tali da integrare ingiu-rie ma coerenti con la prassi di interrompere prematuramen-te la conversazione. Una siffatta condotta abituale nonché il fatto che il contatto fosse interrotto talvolta anche prima che il ricevente potesse rispondere e riuscire a stabilirlo, accom-pagnati dalla ripetitività degli episodi e dall’esistenza di un accertato movente, si è affermato, configuravano pienamente il reato contravvenzionale suddetto (Cass. sez. I, dep. 17 luglio 2008, n. 29971). Un caso come questo rientra a pieno diritto nella figura giuridica degli atti persecutori, quanto a mate-rialità della condotta, occorrendo, ancora, perché sussista il più grave reato, l’idoneità degli atti a determinare la specifica

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conseguenza pregiudizievole in danno del soggetto passivo che l’art. 612 bis esplicitamente richiede. La giurisprudenza aveva dichiarato compatibile la contravvenzione ex art. 660 con l’utilizzo di messaggi SMS, comunque spediti attraverso un mezzo telefonico (Cass. 26 aprile 2006, n. 16215). Su que-sta strada, sembra di poter dire che non viola il principio di determinatezza e quello di tassatività l’estendere la nozione di molestia telefonica alla comunicazione perturbatrice ef-fettuata con i moderni mezzi di trasferimento dei messaggi e delle immagini, quanto meno a mezzo di telefono cellulare.

Non è detto, naturalmente, che minacce e molestie debba-no avvenire per mezzo di espressioni verbali indirizzate alla vittima, direttamente o attraverso strumenti di comunicazio-ne. Esse possono concretarsi in atteggiamenti e condotte di-verse, quali gli appostamenti, i pedinamenti, le fastidiose ed insistite presenze, gli stazionamenti nei pressi dell’abitazione, della scuola, del luogo di lavoro, il compimento di atti vandali-ci allusivi e di dispetti, la collocazione di oggetti dal significato inquietante ed altre simili condotte. L’esperienza ha posto in luce la estrema varietà dei modi con i quali è stata attuata l’in-giustificata interferenza nell’altrui sfera di libertà, con risvolti altamente invasivi e capaci di instillare nella vittima un senso di oppressione, di tensione e di paura.

È stata ritenuta la sussistenza del reato anche nel caso di comportamenti reciprocamente molesti o minacciosi, essendo risultata una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due protagonisti, tale da dar luogo alla qualificabilità come persecutoria della condotta da lui posta in essere (Cass. pen., sez. V, 13 giugno 2012, n. 36737; Cass. V, 5 febbraio 2010, n. 17698). Il reato è configurabile anche se gli atti persecutori sono commessi a danno di più soggetti passivi (più persone abitanti nello stesso condominio) e anche quando siano di-retti singolarmente a persone diverse ma provochino uno o più degli eventi descritti nella norma (ansia, paura, modifica delle condizioni di vita) a tutte le altre (Cass. pen., sez. V, 7 aprile 2011, n. 20895; Ufficio GIP Milano 10 ottobre 2012). É configurabile il concorso di persone nel reato. In questo caso, per Cass. pen., sez. I, 26 settembre 2012, n. 40249, l’elemento soggettivo richiesto in capo al concorrente deve essere iden-tificato nella consapevole rappresentazione e nella volontà della persona del partecipe di cooperare con altri soggetti alla comune realizzazione della condotta delittuosa.

5-5. Reato di evento o reato di pericolo?Sino ad ora lo scrivente ha dato per certo che il reato di

atti persecutori abbia natura di reato di evento, di reato, cioè, che per la sua configurazione abbisogna di una modificazione del mondo esterno cagionata dall’azione tipica dell’agente. In realtà, si è trattato di considerare provvisoriamente risolto, per esclusiva comodità del discorso, un problema che indub-biamente sussiste, sia in forza del tenore letterale della norma incriminatrice e sia in forza di quanto si desume attraverso i lavori parlamentari che hanno preceduto l’iniziativa governa-tiva di trasformarne il risultato in un decreto legge.

Nel testo della norma si legge che è punito colui che eser-cita reiterate minacce o molestie “… in modo da cagionare…” un certo effetto a danno del soggetto passivo. L’espressione uti-lizzata è compatibile con due diverse interpretazioni, cui con-seguono considerazioni significativamente difformi. Per l’una, quell’espressione descrive una idoneità oggettiva della condot-ta reiterata, che deve, appunto, essere tale da poter causare quel determinato risultato pregiudizievole ma senza che ne-cessariamente un siffatto risultato debba essersi verificato. In tal senso, il reato in questione è di pericolo, concreto, e l’even-tuale risultato prodottosi nel caso specifico sarebbe un quid pluris rispetto alla figura del reato (dal quale, se mai, desume-re la prova dell’effettiva idoneità della condotta a determinare il pericolo). Per l’altra possibile interpretazione il reato di atti persecutori ha natura di reato di evento ed implica che la serie di atti intimidatori o molesti produca realmente nel soggetto passivo lo stato di ansia, la paura, il timore o il mutamento di abitudini indicati specificamente nella norma punitiva.

La Commissione Giustizia della Camera dei Deputati pro-pose di modificare l’originario disegno di legge portato al suo esame nel senso di fare del reato di atti persecutori un reato di pericolo. Fu soprattutto la considerazione della difficoltà di dimostrare in concreto lo stato di ansia e quello di paura ad indurre la Commissione a suggerire di limitare i requisiti della condotta materiale ad una idoneità a cagionare, di per sé, quegli stati psichici negativi. Non sarebbe, dunque, stato necessario provare condizioni psicologiche intime per subor-dinare a questa prova la sussistenza dell’illecito. In assemblea il testo della norma incriminatrice fu riportato a quello origi-nario, poi letteralmente trasfuso nel decreto legge di iniziati-va governativa. Si ritenne che il consentire la configurabilità del reato già con la sola idoneità della condotta a cagionare situazioni pregiudizievoli avrebbe dilatato eccessivamente la soglia di applicazione della norma, con la conseguente puni-zione di condotte sostanzialmente di disturbo ma altrimenti inoffensive. Fu pertanto ritenuto opportuno configurare la nuova fattispecie delittuosa come reato di danno, per anco-rarla a situazioni effettivamente meritevoli di una risposta dell’ordinamento incisiva e pesante nella sanzione.

Può porsi in dubbio il fatto che quanto avvertito da una parte del Parlamento corrisponda all’intenzione di un legi-slatore estraneo alle elaborazioni di allora. E tuttavia il mero recepimento di quanto era frutto di discussione e di riflessio-ne in quella sede autorizza a ritenere che il frutto del lavoro parlamentare fu approvato e fu recepito sia nella forma e sia nel significato che si era inteso attribuirgli. Il “precedente” parlamentare pare pertanto costituire un valido elemento sul quale fondare una opinione ricostruttiva della portata della norma incriminatrice.

Va, inoltre, osservato che soltanto interpretando la detta norma nel senso che essa richieda un evento naturalistico si comprende appieno l’ambito di applicazione del nuovo istitu-to. Esso implica la perpetrazione di minacce e di molestie ma non si identifica in esse. Di per sé, le minacce sono per defini-

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zione adatte a cagionare timore e paura; e la gravità della mi-naccia è già presa in considerazione dal codice penale quale ragione per configurare una circostanza aggravante. Dunque, la differenza tra minacce, molestie continuate e atti perse-cutori non può risiedere nel grado minore o maggiore della intrinseca attitudine a provocare sensazioni afflittive nel de-stinatario. Lo stesso requisito della reiterazione non può comportare differenza, in quanto la pluralità delle minacce e delle molestie, se rispondenti ad un unico disegno criminoso, costituisce motivo per applicare la continuazione di reato. E neppure la rispondenza della serie di minacce e di molestie ad un medesimo piano disturbatore può dar luogo a differenza tra reati, posto che, come si è appena accennato, tali minac-ce e molestie possono essere addebitate all’agente nella loro forma continuata ma senza che ciò conduca ancora al delitto di atti persecutori.

Del resto, è parte integrante del concetto di atti persecu-tori, derivato dallo stalking angloamericano, quello di una situazione affittiva per un soggetto vittima di vessazioni conti-nuate ed opprimenti altrui. La lacuna che si avvertiva nell’or-dinamento ed alla quale si intese porre riparo era proprio la mancanza di risposta avverso comportamenti ossessivi attuati in forme, di per sé, ai limiti della punibilità ma idonee, per la loro continuità ed assiduità, a determinare, nel soggetto passivo, insofferenza ed insopportazione; e, nel soggetto agen-te, stimolo per condotte ulteriori e di più grave sopraffazio-ne. Questi aspetti debbono necessariamente costituire parte dell’elemento materiale del reato di atti persecutori, pena il suo identificarsi in meri atti seriali intimidatori e disturbatori, immeritevoli delle gravi pene per esso previste.

Lo stesso verbo (“cagionare”) utilizzato nel testo è signi-ficativo ad indicare il rapporto tra una azione ed un evento. Esso, infatti, è tipicamente usato per esprimere la causalità, nel senso di vincolo tra una determinata condotta ed un ri-sultato che essa determina e che deve esserne considerato il frutto proprio sotto il profilo di un nesso di causa ed effetto. Nel senso della necessità di accertare un nesso eziologico tra la condotta del soggetto agente e le conseguenze psicologiche pregiudizievoli in capo alla vittima, Cass. pen., sez. V, 28 feb-braio 2012, n. 14391.

Si deve, dunque, concludere nel senso di ritenere che il delitto di atti persecutori è reato di evento. La norma puniti-va esplicitamente pretende che le minacce o le molestie non siano soltanto reiterate, per dar vita al più complesso illecito, ma siano tali da cagionare effettivamente i ricordati stati sog-gettivi pregiudizievoli o il ricordato abbandono degli abituali modi di vita. Più particolarmente, l’evento del reato è alter-nativo, ovvero costituito da più eventi ciascuno dei quali è idoneo a integrare la realizzazione dell’illecito, essendo indif-ferente che se ne verifichi l’uno piuttosto che un altro (Cass. pen., sezioni unite, 21 marzo 2013, n. 7042; Cass. V, 10 gennaio 2011, n. 16864; Cass. V, 19 maggio 2011, n. 29872; Cass. V, 22 giugno 2010, n. 34015).

5-6. L’evento (anzi, gli eventi) del reato di atti persecutoriL’evento del reato di atti persecutori è indicato dalla norma

incriminatrice con riferimento a tre fattispecie ugualmente sufficienti e idonee ad integrare l’elemento costitutivo: il per-durante e grave stato di ansia; il fondato timore per l’incolu-mità fisica; il mutamento delle abitudini di vita. Il prodursi di uno di questi eventi costituisce il momento di consumazione dell’illecito. Le tre situazioni sono previste come alternative e pertanto una sola di esse è atta a trasformare la serie di minacce o di molestie in una fattispecie punibile più grave e più complessa. Nulla vieta che quelle stesse situazioni si so-vrappongano e concorrano, essendo, anzi, questa l’ipotesi che si profila come di maggior possibile frequenza. In questi casi il reato resta unico perché unitaria è la condotta dell’agen-te; la pluralità delle conseguenze pregiudizievoli influenza le valutazioni del giudice per quanto concerne il trattamento sanzionatorio.

Lo stato di ansia e lo stato di paura devono essere perdu-ranti e gravi. Con questi due aggettivi si è palesemente voluto escludere dalla rilevanza per la configurazione dello specifi-co reato in questione quanto costituisce l’effetto ordinario e comune delle minacce e delle molestie. Se i fatti che le inte-grano hanno un minimo di credibilità, ansia, preoccupazione, agitazione e paura rappresentano conseguenze normalmente avvertite da qualunque persona che le subisca. Queste sensa-zioni soggettive sono connaturate ad elementi (le minacce, le molestie) che sono costitutivi del delitto di atti persecutori. Ma perché questo si configuri occorre che quelle sensazioni soggettive assurgano ad un livello di intensità maggiore, sia per quanto si riferisce alla loro intrinseca entità e sia per la loro attitudine a costituire motivo di perturbamento prolun-gato nel tempo. La scelta dei termini lessicali ad opera del legislatore è volta ad evitare che una rilevante figura crimino-sa venga a dipendere da sensazioni momentanee o fugaci, di difficilissima prova e sostanzialmente trascurabili, se non nei limiti in cui è prevista la modesta pena per i fatti di cui agli artt. 612, primo comma e 659, 660 codice penale.

Le nozioni di ansia e di paura sono quelle del linguaggio corrente e non abbisognano di delucidazioni. Occorre tuttavia precisare che i connotati di gravità e di perduranza descri-vono ansia e paura come stati soggettivi dei quali è possibile conoscere all’esterno ed acquisirne la dimostrazione di loro sussistenza. In questo senso, anche per fornire la necessaria determinatezza alla norma incriminatrice, deve ritenersi che ansia e paura debbano poter essere diagnosticate da un esame medico legale o comunque assumere manifestazioni esterne chiaramente riconoscibili e concretamente apprezzabili. Il confine con le lesioni vere e proprie alla sfera psichica può diventare difficile da identificare, quando quegli stati sogget-tivi si trasformano in condizioni patologiche da stress o da altro, suscettibili di essere catalogate come “malattia” per la medicina legale. In ogni caso, sembra rispondere a coerenza esigere che degli stati di ansia si debba fornire una prova con-vincente e che, di conseguenza, le dette condizioni soggettive

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debbano essere trasparentemente apprezzabili per le loro ma-nifestazioni nel mondo esterno. Gravità e perduranza devono manifestarsi con alterazioni inequivoche del comportamento ordinario, quali l’insonnia, il ricorso a medicinali ansiolitici e tranquillanti specifici, la sottoposizione a cure mediche, la mancata resa scolastica o sul lavoro, il mutamento nel carat-tere, la facile irascibilità, la depressione, la scelta di non re-stare da soli, e simili atteggiamenti ugualmente espressivi di profonde alterazioni del normale equilibrio psicofisico.

La gravità richiesta dalla norma punitiva dipende, in ge-nere, dalla gravità intrinseca delle minacce ricevute, dalla pericolosità dell’agente e dalle circostanze che nel concreto ne fanno apprezzare la estrema probabilità di verificazione del danno ingiusto. La protrazione dello stato soggettivo può du-rare per quanto si susseguono le azioni disturbatrici ma pare più conforme alla lettera della norma punitiva (che utilizza gli aggettivi “grave” e “perdurante”) ritenere che essa corri-sponda ad una alterazione indotta nell’animo del soggetto passivo avente caratteristiche tendenzialmente irreversibili e patologiche.

Il timore per l’incolumità propria o di persone legate da vincoli di sangue o di affetto deve essere “fondato”. Esso, dun-que, non può essere immaginario o semplicemente ipotizzato. Per assumere rilevanza, deve trovare riscontro in elementi concreti ed univoci, denotanti proprio la possibile e probabile evoluzione di una vicenda oppressiva verso eventi aggressivi e drammatici. Nel corso dei lavori parlamentari praticamente tutti i membri delle varie Commissioni che intervennero nelle varie sedute ricordarono come molti episodi criminosi saliti alla ribalta dei mass media fossero stati in qualche modo “an-nunciati” da una rintracciabile escalation di violenze. Proprio questa era la situazione tipica alla quale si intendeva porre un freno ed un rimedio con l’introduzione della norma in ge-stazione, poi ripresa con il decreto legge. Costituiva dato di esperienza comune l’attitudine dei fatti di stalking a salire in virulenza ed a trasformarsi dalle iniziali interferenze nella vita quotidiana della vittima in sempre più gravi episodi di aggressione.

La configurazione del delitto di atti persecutori ha ad og-getto una situazione che si ferma ad una fase antecedente a quella di vero e proprio dramma, e mira a prevenirla. È suffi-ciente che gli avvenimenti dimostrino, con la loro reiterazione e con l’eventuale loro sviluppo, che un passo ulteriore di pos-sibile accadimento è quello dell’attentato all’incolumità fisica. Si tratterà di minacce che man mano diventano più dense di contenuto intimidatorio; di comportamenti protratti nono-stante tentativi di dissuasione e divenuti più ostili; di condotte progressivamente caricatesi di malanimo, di intenti di rivalsa, di scopo offensivo; di episodi già al limite della aggressione fi-sica, cercata e non riuscita, da ritenere sicuramente ripetibili nel le occasioni future. La prova di queste circostanze fornisce la necessaria dimostrazione della fondatezza del timore che il soggetto passivo denuncia di nutrire.

Molto opportunamente la norma incriminatrice equipara il timore per l’incolumità propria a quello che si prova per l’inco-lumità di persone amiche. Si sono verificati casi di comporta-menti intimidatori e disturbatori rivolti a soggetti che suben-travano all’agente nella posizione di convivente, di fidanzato, di coniuge; e, dunque, episodi che manifestavano malanimo, gelosia ed odio verso figure sostitutive del proprio precedente ruolo, rivolte a colpire indirettamente colui che, per lo stalker, aveva la grave colpa di avergli preferito un altro. La norma in-dica innanzitutto i prossimi congiunti e con questa espressio-ne rimanda all’art. 307 codice penale che, con valore generale, definisce tali gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti; e preci-sa che non si comprendono tra gli stessi gli affini allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole. Il fondato timore per l’inco-lumità può riguardare una persona legata al soggetto passivo delle minacce o molestie da una relazione affettiva e questa indicazione consente di includere nel novero dei soggetti cui si riferisce la disposizione anche il convivente, il fidanzato, l’in-namorato, l’amico. Non v’ha, poi, dubbio che nella nozione di coniuge rientrino quella di coniuge separato, di fatto o di dirit-to, e di coniuge divorziato, posto che queste situazioni sogget-tive, se presenti nell’autore degli atti persecutori, costituisco-no circostanza di aggravamento della pena. In questo senso è giunta l’opportuna modifica chiarificatrice apportata dalla L. n. 119/2013 al secondo comma dell’art. 612 bis, per far compren-dere tra le circostanze aggravanti i fatti commessi in danno del coniuge separato o divorziato nonché di chi è o è stato legato da relazione affettiva con la persona offesa.

Il mutamento di abitudini di vita, anch’esso evento con-templato come idoneo a configurare uno degli elementi costi-tutivi del reato, è fatto constatato dall’esperienza come com-portamento necessitato cui la vittima di atti di persecuzione ricorre per cercare di sottrarsi a questi atti. È frequente che vittime di appostamenti e pedinamenti mutino il percorso che le conduce a scuola, a casa od al lavoro. O che non rispondano più al telefono e chiedano agli enti gestori il distacco degli apparecchi e l’eliminazione del loro nominativo dagli elenchi. O si facciano accompagnare da terze persone per la paura di rimanere da sole con chi le molesta o le intimidisce. Si trat-ta, in genere, di precauzioni adottate per non fornire ulterio-ri occasioni di essere disturbati, a prezzo, però, di alterare e modificare i propri ritmi di vita quotidiana, le proprie forme di distrazione, le scelte minute che ordinariamente regolano il rapporto con l’esterno e la fruizione dei beni collettivi. Per Cass. pen., sez. V, 27 novembre 2012, n. 20993 integrano il re-ato di stalking le condotte poste in essere dall’imputato nei confronti della persona offesa con caratteristiche di assillante insistenza ed ossessiva ripetitività, quali frequenti telefonate, massiccio invio di sms, appostamenti e pedinamenti, scenate di gelosia, che costringono la vittima a modificare le sue abi-tudini di vita quotidiana, con la diminuzione delle uscite da casa e delle frequentazioni sociali, la messa in atto di manovre diversive e la diversa gestione dei rapporti con i familiari.

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Di queste situazioni può darsi abbastanza facilmente la prova, come è necessario: attraverso testimonianze ed analo-ghi mezzi idonei a descrivere il modus vivendi precedente e gli espedienti difensivi escogitati in seguito. La prova deve riguar-dare, però, non soltanto la alterazione delle abitudini di vita, come diversità tra due differenti periodi temporali. Ma deve an-che fornire dimostrazione del fatto che questa diversità è stata cagionata dalla serie reiterata di minacce o di molestie altrui. La norma punitiva, infatti, precisa che le minacce o le molestie devono essere tali da “costringere” il soggetto passivo ad una alterazione della propria vita. Occorre, dunque, che esista uno specifico nesso causale tra le condotte disturbatrici e la reazio-ne posta in essere dal soggetto passivo. Ciò significa che dovrà darsi prova di questo nesso causale, tra condotte molestatrici o intimidatrici serie al punto da determinare in modo costrittivo una difesa del soggetto passivo e le soluzioni difensive da questi escogitate. Per Cass. pen., sez. V, 28 febbraio 2012, n. 14391, la prova dell’evento del delitto in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamen-to psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta po-sta in essere dall’agente e anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.

Va osservato che il decreto legge introduttivo, tra l’altro, del reato di atti persecutori, ha recepito il testo uscito dai lavori parlamentari di esame del disegno originario di legge n. 1440 nella parte in cui questo testo escludeva le “scelte di vita” dal novero degli eventi significativi per la configurazione del reato suddetto, che nel disegno iniziale invece vi erano previste. La decisione assunta in esito all’elaborazione della Camera fu ve-rosimilmente giustificata dall’esigenza di legare la punibilità degli atti persecutori ad una soglia minore di mutamenti della vita quotidiana di quanto possano esserlo le vere e proprie scelte esistenziali. È pertanto certo che sono sufficienti modi-fiche non irrilevanti ma neppure eccessivamente travolgenti a costituire quel mutamento di abitudini che il testo finale della norma punitiva oggi richiede.

Nella nozione del “costringere” è insito il significato di man-canza di una scelta alternativa. Chi è costretto a tenere un de-terminato comportamento è, in genere, obbligato a questa con-dotta perché non ha una possibilità diversa. Questo elemento può creare qualche difficoltà, in una materia disciplinata in modo da offrire alla vittima un aiuto ad opera delle autorità prima che la persecuzione della quale questi è destinatario si aggravi e diventi un dramma. L’ammonimento specificamente disciplinato dalla legge a tale scopo, come il ricorso comunque all’opera intermediaria di terze persone, dei servizi sociali, del vigile di quartiere, può costituire un elemento da opporre al querelante soggetto passivo per rimproverargli di non avere subito, in definitiva, una vera e propria costrizione, avendo potuto difendersi in uno dei modi suddetti. Va, peraltro, con-

siderato fenomeno naturale quello di cercare di evitare fastidi adottando accorgimenti verso i quali si nutre la fiducia che siano sufficienti allo scopo. Il ricorso alle pubbliche autorità rappresenta una sorta di ultima scelta cui ricorrere, sia perché rende nota una vicenda generalmente spiacevole e delicata e sia perché apre alla stessa vittima un futuro non facile di confronto in giudizio. E spesso si tergiversa nella decisione di chiedere la tutela giudiziaria per il timore che una denuncia aggravi la situazione e conduca ad esacerbazione gli animi.

5-7. Il tentativoQuale reato di evento, il reato di atti persecutori è, di per

sé, astrattamente compatibile con il tentativo. Ogni volta in cui non si verifichi l’evento della condotta e questa assuma i connotati della univocità e della idoneità, esiste spazio per la configurazione di un tentativo punibile; nonché, ove ne ri-corrano le condizioni, per una desistenza volontaria e per il così detto ravvedimento operoso. Questa è la teoria ma l’ap-plicazione pratica del principio alla specifica figura del reato in questione mostra qualche difficoltà, a causa della stessa struttura di questo illecito.

Il reato è costruito come una serie prolungata di comporta-menti idonei, ciascuno, a costituire autonomi illeciti penali, di minaccia o di molestia. Il fatto che non si verifichi l’evento di pregiudizio per il soggetto passivo (che questi, cioè, non versi in stato di grave e perdurante ansia, di fondato timore per l’in-columità o non muti le proprie abitudini di vita), per effetto di un fattore esterno (anche l’ammonimento?), impedisce la consumazione del reato ma lascia sopravvivere i distinti epi-sodi di reato commessi. Sarà assai difficile dimostrare, nel caso concreto, che se le azioni di disturbo fossero continuate si sarebbe verificato l’evento del reato; e che, per contro, il comportamento dell’autore non si sarebbe risolto in una mera serie di intimidazioni e di atti petulanti, sorti sotto lo stimolo dell’occasione e non volutamente cercati in attuazione di un intento persecutorio.

5-8. Reato permanente? Il reato di atti persecutori ha indubbia natura di reato a

condotta plurima, posto che si configura in forza di una reite-razione indeterminata di atti tipici. La questione che si pone è quella di stabilire se il detto reato ha anche natura di illecito permanente.

Come è noto, è tale l’illecito penale la cui perpetrazione si protrae nel tempo perché perdura nel tempo l’azione del soggetto agente. Lo stato dannoso o pericoloso derivante dal-la condotta dell’autore ha carattere continuativo, vale a dire, non si esaurisce in un solo istante ma prosegue nel tempo; e questo protrarsi dipende dalla condotta volontaria del reo, che normalmente è in grado di farlo cessare a suo piacimento. La distinzione tra reati istantanei e reati permanenti ha rilie-vo per vari effetti, quali la pre scrizione, la competenza territo-riale, la successione delle leggi.

Il problema che riguarda il delitto di atti persecutori è re-lativo alla sua peculiare struttura di figura criminosa che si

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realizza dopo che è stata perpetrata una serie di reati diversi e meno gravi, rappresentati dalle minacce e dalle molestie. Come si è accennato, il reato in questione richiede, per la sua realizzazione, il verificarsi di un evento; sino ad un siffatto mo mento l’agente compie plurime minacce e/o plurime mo-lestie, senza che si individui ancora una fattispecie delittuosa più grave ed assorbente. È dunque da ritenere che prima di questo evento sussista una fase prodromica ed incerta, nella quale, se interrotta, si tratterrà di stabilire se è ravvisabile un tentativo od un diverso reato continuato. Successivamente alla realizzazione dell’evento, il reato venuto a configurazione è certamente permanente, in dipendenza della protrazione delle condotte illecite del suo autore.

6. L’elemento soggettivo del reato

6-1. Reato dolosoIl moderno diritto penale ha abbandonato le concezioni

per cui, per il sorgere della responsabilità penale, era suffi-ciente l’oggettiva commissione di un fatto considerato dalla legge come punibile. In passato sono stati celebrati processi in effige, a simulacri di persone od a cadaveri; e non è sta-ta fatta distinzione tra la pazzia e la sanità di mente, quali profili cui legare un rimprovero per la condotta tenuta che potesse giustificare l’irrogazione di una pena. Da tempo si ri-chiede un nesso psichico tra il comportamento antidoveroso ed il suo autore, posto che il fatto antigiuridico è ravvisato alla stregua di una ribellione verso l’ordinato vivere civile, ove si configuri come intenzionale violazione della legge, o, comunque e almeno, come condotta illecita che una diligente applicazione della volontà avrebbe potuto evitare. Varie sono state le indicazioni dottrinarie relative al modo di intendere l’elemento psichico che deve contraddistinguere il reato come suo elemento costitutivo soggettivo e non è questa la sede per dilungarsi nel riferirle. È sufficiente, soltanto per chiarezza e completezza di esposizione, ricordare che il nostro codice penale, all’art. 42, dispone che nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come re-ato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà. In questa generale disposizione è ravvisato il richiamo del legislatore all’esigenza che nel reato, e nel singolo caso, venga reperi-ta concretamente la riferibilità volontaristica dell’azione od omissione, materialmente corrispondenti alla figura giuridica illecita, all’individuo che è chiamato a risponderne. Questa coscienza e volontà è spesso indicata con la denominazione di colpevolezza, ma, con giusta ragione, si è osservato che questo appellativo contiene in sé un connotato negativo, di respon-sabilità, che a rigore è estraneo al concetto di volontarietà, in senso lato, della condotta. Sulla precisa nozione di coscienza e volontà gli studiosi del diritto penale si sono affaticati a con-frontarsi con concezioni diverse, tutte comunque aventi come comune punto di arrivo un dato imprescindibile. Da questa nozione devono essere esclusi gli atti involontari, quelli, cioè, che un cosciente impulso del volere non avrebbe in ogni caso potuto impedire. Esistono atti che vengono compiuti come

gesti riflessi e dovuti ad abitudine, che una soglia vigile di at-tenzione avrebbe potuto evitare di porre in essere. Ed anche in questi casi l’elemento volontaristico deve dirsi sussistente, posto che esso deve essere inteso non soltanto nel senso di specifica intenzione di compiere una determinata attività ma come effettiva possibilità di esclusione di certi atteggiamenti se soltanto si fosse prestata attenzione.

Queste considerazioni, qui riassunte in modo estrema-mente succinto, fanno parte della teoria generale del diritto penale. In una trattazione che ha ad oggetto il reato di atti persecutori potrebbero non essere richiamate: ma non vanno mai dimenticate, posto che molto spesso azioni ossessive di vessazione sono compiute da soggetti della cui sanità mentale può dubitarsi. Due sono, allora, i problemi che possono sorge-re per chi è chiamato ad investigare sulla responsabilità del soggetto che di un siffatto illecito sia chiamato a rispondere penalmente.

Da più parti si è sostenuto che la colpevolezza, nel senso della riconducibilità ad una persona sotto il profilo psichico di una certa condotta, richiede la coscienza dell’antigiuridicità di questa condotta. La responsabilità penale, si è sostenuto, sorge come contrasto cosciente e volontario ad un precetto di legge e dunque implica necessariamente, se non la piena cono-scenza della norma giuridica incriminatrice, quanto meno la consapevolezza della contrarietà del comportamento a quanto è generalmente considerato lecito in un certo momento sto-rico ed in un determinato ambiente sociale. Una delle difese in giudizio più frequenti a favore di soggetti psicolabili o che hanno agito in condizioni di anormalità comportamentale è quella del non essersi, costoro, resi conto di ciò che facevano e, segnatamente, di non essersi resi conto di comportarsi in un modo antigiuridico. La giurisprudenza aveva respinto questa concezione già con pronunce risalenti: “La coscienza dell’an-tigiuridicità della propria condotta non è una componente del dolo, perché ad aversi tale elemento del reato è necessario soltanto che l’agente abbia la coscienza dell’azione che com-pie e tale azione compia con volontà libera. Infatti, mentre la parola volontà è, nell’art. 42 codice penale, adoperata per indicare la convergenza della condotta con il fine, per indicare cioè l’intenzione - ed anche il pazzo morale quando carica l’arma, attende la vittima e spara, vuole ciò che fa - nell’art. 85 la stessa parola significa quella forza suprema dello spiri-to che consiste nel conformarsi all’ordine, cioè nel resistere all’impulso di agire nel modo che la legge vieta. E poiché la conoscenza di ciò che la legge comanda doversi fare o non doversi fare è presupposta, ai sensi dell’art. 5 codice penale, oltre la realizzazione cosciente e libera del fatto che la legge prevede come reato, conoscendo di tale fatto tutti gli estremi essenziali, non occorre che l’agente abbia anche la coscienza dell’illiceità del fatto medesimo, e la consapevolezza di com-piere una azione contraria alla legge penale, sia nel senso di consapevolezza della illegittimità o antidoverosità dell’azione sia nel senso di coscienza dell’immoralità dell’azione o di co-noscenza che la propria condotta è in contrasto con i fini della

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comunità organizzata” (Cass. sez. III, 2 febbraio 1960, Nevi-schio). Le pronunce successive sono conformi a questa deci-sione “storica” ed hanno posto in rilievo che l’art. 47 codice penale esclude la rilevanza dell’errore sul fatto, mentre sono irrilevanti per il diritto penale i motivi soggettivi, le credenze e gli impulsi che hanno dato causa al comportamento.

In secondo luogo, va ricordato che esiste una profonda differenza tra la coscienza e volontà dell’azione od omissione come la intende l’art. 42 citato e l’imputabilità del soggetto, che viene in considerazione quan do, appunto, si tratti di sta-bilire se un autore di reato sia compos sui, vale a dire, se ab-bia le qualità personali necessarie per essere assoggettato a responsabilità penale. Quasi sempre, nella materia suddetta, risulterà che le singole azioni furono sorrette da un elemento volontaristico sufficiente a far ritenere collegate tali azioni con nesso psichico alla persona; e vedrà il quesito concentrar-si sulla ricerca dell’imputabilità.

Lo stesso articolo 42 del codice penale, sopra citato, chia-risce che la responsabilità penale sorge per effetto del dolo o della colpa, salvi i casi, determinati dalla legge, nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conse-guenza della sua azione od omissione. Gli atteggiamenti nei quali l’elemento volontaristico del reato può concretarsi sono, dunque, per il nostro diritto penale, il dolo e la colpa; e ri-mangono da considerare quali fattispecie eccezionali i casi di responsabilità oggettiva, caratterizzati dall’essere ipotesi di responsabilità per la quale non è necessaria la ricerca, caso per caso, del dolo o della colpa.

La disposizione in questione ha, dietro di sé, una tradizio-ne che ha ravvisato il fondamento della responsabilità penale nella sussistenza di elementi in base ai quali muovere un rim-provero di tipo morale all’autore del fatto illecito. La possibi-lità di questo rimprovero è insita nella condotta dolosa, che presuppone intenzione e volontà dell’azione o dell’omissione. Ma deve essere rintracciata anche nel comportamento conno-tato da colpa, posto che senza un addebito di mancata diligen-za, di mancata attenzione, di mancata considerazione per gli altri, non si ritiene possa esistere la colpa. In realtà, questo profilo moralistico è estraneo al diritto penale ma può spie-gare che cosa debba intendersi per quell’elemento psichico minimo che occorre per poter addebitare un fatto come titolo per l’applicazione della sanzione penale.

È indubbio, per tornare alla materia del reato di atti perse-cutori, che questo tipo di reato non possa configurarsi a mero titolo di colpa. Esso ha natura di delitto e questa natura con-duce direttamente ad applicare il principio, desumibile dal più volte menzionato art. 42, secondo il quale il delitto è or-dinariamente doloso, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente previsti dalla legge. A parte questa considerazione, in ogni caso è la stessa struttura del reato in questione ad indicare che per la sua configurazione si richiede che l’autore abbia agito reiteratamente con intenzione, ren-dendosi conto della portata delle sue condotte.

Il reato di atti persecutori si configura per il compimento rei-terato di atti che l’art. 612 bis codice penale, introdotto dal D.L. n. 11/2009 indica come di molestia o di minaccia. In proposito, trattando dell’elemento materiale del reato si è affermato che l’esigenza di attribuire la necessaria determinatezza alla norma incriminatrice conduce a ritenere che per molestia e minaccia debbano intendersi quelle azioni che già il diritto penale co-nosce come fonti espressamente disciplinate di responsabilità penale. E molteplici, allora, sono gli aspetti che impongono di ritenere il reato di atti persecutori di natura dolosa.

Il primo di essi è rappresentato dalla reiterazione delle condotte, che di per sé implica una volontà ripetuta di per-petrare le medesime azioni moleste o minacciose verso un determinato soggetto. Un altro elemento è l’unidirezionalità della condotta complessiva, che deve essere rivolta in danno dello stesso soggetto passivo. Tanto si desume dalla previsione di legge per cui tale complessiva condotta deve essere idonea a cagionare determinati effetti negativi di ansia, paura, timore per l’incolumità o di mutamento di abitudini di vita: dunque, ripercussioni pregiudizievoli a carico di un soggetto - vittima e non certamente rivolte ad incertam personam. E gli ulteriori elementi si desumono dalla qualità dei comportamenti che, reiteratamente posti in essere, conducono a configurare il rea-to. La minaccia è, di per sé, un delitto che implica la sussisten-za del dolo. Della molestia prevista dall’art. 60 codice penale, si è affermata in giurisprudenza l’analoga natura dolosa, per di più caratterizzata dalla direzione della volontà verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà (Cass. sez. I, 23 aprile 2004, n. 19071, Gravina).

Come è noto, il dolo può atteggiarsi in varie forme. L’art. 43 del codice penale ne descrive la forma tipica, che è quella dell’agente che prevede e vuole come conseguenza della pro-pria azione od omissione l’evento dannoso o pericoloso che è la conseguenza di questa azione od omissione e dal quale la legge fa dipendere l’esistenza del reato. Questa definizione recepisce la nozione tradizionale e comune del dolo, che di per sé è volontà malevola e cosciente, intenzione e direzione della condotta ad un risultato vietato dall’ordinamento. Dot-trina e giurisprudenza hanno poi evidenziato varie gradazioni che possono differenziare questo tipo di elemento psicologi-co del reato, gradazioni che spesso hanno notevole rilevanza per contraddistinguere una figura giuridica di illecito penale dall’altra. Agli effetti della presente trattazione vengono in ri-lievo gli aspetti che contraddistinguono il dolo specifico ed il dolo eventuale. Il dolo si dice generico quando è sufficiente sia voluto il fatto descritto dalla norma incriminatrice come illecito. È, questo, in genere, il caso dei reati di mera condotta, privi, cioè di un evento naturalisticamente inteso. Il dolo si dice specifico quando la legge esige che l’autore agisca per un fine particolare. In genere questo fine non fa parte del fatto materiale (nel furto, ad esempio, tale fatto materiale è costi-tuito dall’impossessamento di una cosa altrui) ma contrad-distingue l’azione e la descrive (nel furto, preso ad esempio, occorre che l’impossessamento avvenga allo scopo di trarre

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un ingiusto profitto patrimoniale; se lo scopo è diverso, può configurarsi un diverso illecito). In alcune fattispecie il dolo specifico è un elemento costitutivo del reato, come accade nel caso riportato ad esempio. In altre fattispecie esso costituisce una aggravante. A proposito del reato di atti persecutori, l’in-terprete deve chiedersi se a realizzarne l’elemento soggettivo occorra questo tipo di dolo, dato che, come la minaccia, anche la molestia, suo componente essenziale, è stata ritenuta con-notata dal dolo in argomento.

Sembra necessario ritenere che il reato di atti persecutori richieda il dolo specifico. Le azioni moleste e di minaccia de-vono essere di per sé idonee a cagionare effetti lesivi e questa caratteristica deve essere conosciuta e voluta dall’agente. Di per sé la minaccia si configura anche soltanto per il dolo gene-rico ma il complesso reato suddetto si configura mediante una ripetizione di atti che non è soltanto rivolta a prospettare un male ingiusto, la cui attuazione dipende dal soggetto minac-ciante. Occorre, infatti e inoltre, che la reiterazione assuma il connotato della persecuzione, la quale comporta natural-mente effetti che sono ulteriori rispetto alla singola azione intimidatrice o molesta. certamente sarebbe più facile , per la tutela dell’offeso e per la pubblica accusa, reputare suffi-ciente il dolo eventuale, vale a dire la previsione nel soggetto agente dell’effetto lesivo come possibile conseguenza della reiterazione delle proprie condotte disturbatrici. Ad un certo punto della progressione diverrebbe impossibile per l’autore di queste condotte sostenere di non avere avuto la percezio-ne dell’effetto che la loro protrazione poteva cagionare sulla vittima o stava cagionando sulla vittima. E tuttavia, sia la spe-cifica intenzionalità della molestia di voler arrecare disturbo e interferenza indebita; e sia la necessità di differenziare non soltanto sul piano concettuale il reato di atti persecutori da quello di molestia continuata o di minaccia continuata, sem-brano imporre una conclusione restrittiva. La necessità di un dolo specifico corrisponde alla nozione dello stalking cui si è ispirato il nostro legislatore. Non per nulla la rubrica dell’art. 612 bis codice penale descrive l’essenza del reato da esso de-scritto con l’aggettivo “persecutori”. L’illecito si caratterizza proprio per il fatto che taluno sottopone consapevolmente e volontariamente ad una serie di comportamenti che egli sa bene essere produttivi, in volgere di tempo, di un risultato pernicioso che è previsto e che è parte stessa del la condotta attuata dall’agente. In senso contrario si è espressa la giuri-sprudenza: “In tema di atti persecutori, non è richiesto, per-ché si configuri il reato, che specifico fine della volizione sia anche l’evento di danno, essendo sufficiente la possibilità di fondatamente prevederlo come conseguenza del proprio con-tinuativo agire sulla psiche della propria vittima” (Cass. pen., sez. V, 28 febbraio 2012, n. 14391).

6-2. L’imputabilità e le cause che la escludono o la diminu-iscono

Dispone l’art. 85 del codice penale che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se al

momento in cui lo ha commesso non era imputabile; e che è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere. La capacità di intendere è generalmente ritenuta coincidente con la capacità di rendersi conto del disvalore sociale delle proprie azioni. Non è necessario che sia conosciuta la norma penale ma è sufficiente la generica consapevolezza che una determinata condotta è disapprovata nella vita in comune. La capacità di volere è l’attitudine del soggetto a determinarsi in modo autonomo ed a resistere ai propri impulsi, dominandoli e reagendo ad essi. L’una e l’altra, secondo la concezione tra-dizionale, mancano in coloro che non hanno ancora raggiunto un sufficiente sviluppo intellettuale e in coloro che sono affet-ti da gravi anomalie psichiche.

L’imputabilità è uno stato della persona, è un suo modo di essere, e dalla legge è riferito al momento nel quale fu com-messo il reato, perché è in quel momento che dovevano sussi-stere i presupposti per il sorgere della responsabilità penale. Essa in genere si presume in coloro che hanno raggiunto la maggiore età e versano in apparenti condizioni di normali-tà psichica. Ne è sovente sostenuta la mancanza nei giudizi contro persone resesi autrici di delitti sorretti da motivazioni oscure o contrassegnati da modalità particolari. La questione dell’imputabilità o, meglio, dei vizi che la escludono o la dimi-nuiscono può presentarsi con una certa rilevanza a proposito del reato di atti persecutori, che è caratterizzato per definizio-ne da aspetti di anormalità proprio sotto il profilo soggettivo nella condotta dell’agente.

Viene in primo luogo in considerazione il vizio di mente, totale o parziale, del quale si occupano gli articoli 88 e 89 del codice penale. Per tale si intende, nel nostro diritto penalisti-co, uno stato mentale derivante da una infermità. Questa deve avere escluso o grandemente scemato la capacità di intendere del soggetto o, alternativamente o cumulativamente, la sua capacità di volere. E, ovviamente, deve essere in stretto colle-gamento con il fatto illecito, posto che deve essere esistita nel momento di estrinsecazione della condotta e su questa deve avere influito.

Per tradizione, il vizio di mente è stato identificato con uno stato patologico morboso del soggetto. L’indicazione legisla-tiva, di cui alle norme citate, per cui il vizio di mente deve dipendere da una infermità, ha sempre fatto ritenere che alla base di esso vi debba essere una malattia, intesa come un processo morboso capace di evoluzione che turba il norma-le e funzionale equilibrio dell’organismo. Proprio per questa ragione dall’ambito del vizio di mente sono state escluse le abnormità psichiche, come le nevrosi; nonché i disturbi della personalità e le condizioni che caratterizzano le personalità dette “border line”. Le sezioni unite della Corte di cassazione, tuttavia, con una importante decisione affermarono: “Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i «disturbi della personalità», che non sempre sono inquadra-bili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rien-trare nel concetto di «infermità», purché siano tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, esclu-

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dendola o scemandola grandemente, e a condizione che sus-sista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre ano-malie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità” (sent. 8 marzo 2005, n. 9163, Raso). Su questa strada, si è successiva-mente affermato: “Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, il disturbo della personalità, di consistenza, intensità e gravità tali da incidere sulla capacità di intende-re e di volere, a differenza delle anomalie del carattere, può essere preso in esame anche se non rientrante nel concetto di infermità mentale quando si traduce in uno status patologi-co in grado di escludere o scemare grandemente la capacità. Tale può essere anche uno stato emotivo e pas sionale, dovuto allo stress conseguente alla crisi di un rapporto coniugale, che determini una compromissione della capacità di volere e si associ ad uno status patologico anche se di natura transeunte” (Cass. sez. I, 12 gennaio 2006, n. 1938, Volonté). Il pericolo di abbandonare i limiti fissati dal legislatore con i ricordati artt. 88 e 89 codice penale è stato colto ed al riguardo si è voluto precisare: “… Al fine di non allargare eccessivamente il campo della non imputabilità, deve trattarsi di un disturbo idoneo a determinare (e che abbia, in effetti, determinato) una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingesti-bile (totalmente o in grave misura) che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente e liberamente determinarsi e, inoltre, deve essere individuabile un nesso eziologico tra il disturbo mentale ed il fatto-reato che consen-ta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo” (Cass. sez. I, 3 maggio 2005, n. 16574).

Come può desumersi dalle decisioni di cui si è riportata la massima, la nozione di “infermità” menzionata dal legisla-tore è stata estesa in misura notevole, sino a comprendervi i disturbi non propriamente patologici ma dovuti a situazioni transeunti, anche se dichiarate sostanzialmente travolgenti della ragione. Il caso riferito ai rapporti coniugali in crisi è emblematico della detta estensione rilevante, anche se nel caso concreto essa era stata giustificata con la concomitan-za, nel coniuge intemperante, di un suo status patologico preesistente. Ma in questo modo si rischia di giustificare sot-to l’etichetta del vizio di mente anche eccessi dovuti a stati emotivi e passionali smodati, sia per le caratteristiche con le quali sono avvertiti (ad esempio, gelosia morbosa, affetto te-nacemente esagerato ed oscurante della normale cognizione) e sia per le manifestazioni con le quali sono poste in essere (pedinamenti ossessivi, presenze esasperanti, e simili). Non va dimenticato il limite voluto dal codice penale della “infer-mità”. E proprio il tema dei reati persecutori offre lo spazio

più tipico per valutazioni di comportamenti di persecuzione sotto il profilo della sanità mentale di chi li pone in essere. Un importante argine ad una eccessiva dilatazione delle nozioni di vizio totale e parziale di mente può trarsi dal fatto che il reato in questione richiede una reiterazione di atti suscetti-bile di cagionare un determinato effetto pregiudizievole sulla persona presa di mira. Occorrerà, a chi invoca la mancanza o la riduzione dell’imputabilità, poter sostenere che lo stato psi-cologico viziato ricorreva per tutta la durata della protrazione delle condotte illecite.

Analoghe considerazioni possono essere effettuate a pro-posito dei vizi dell’imputabilità derivanti dall’ubriachezza cro-nica e dalla intossicazione cronica da uso di sostanze stupefa-centi (art. 95 codice penale). Anche in questi casi, l’esclusione o la riduzione dell’imputabilità non possono che derivare da condizioni che si risolvono in affezioni stabili del soggetto agente, tali da averne compromesso le facoltà intellettive e volitive per tutto il tempo per il quale è stata mantenuta la rei-terazione delle condotte di molestia o di minaccia. È, dunque, la perizia medico legale o psichiatrica a risolvere il quesito degli effetti che la prolungata ubriachezza e la condizione di tossicodipendenza hanno cagionato sulla psiche dell’agente.

Se l’intossicazione da alcool o da stupefacenti non è croni-ca e non è equiparabile, negli effetti, al vizio totale o parziale di mente per infermità, la regola fissata dal codice penale è diversa. Come è noto, per scopi di politica criminale di dis-suasione, gli artt. 92 e 93 del codice penale dispongono che l’ubriachezza e l’uso di stupefacenti non determinati da caso fortuito o da forza maggiore non escludono né diminuiscono l’imputabilità. La giurisprudenza ha giustificato una normati-va che è in contraddizione con il dato derivato dall’esperien-za: “La peculiarità della normativa degli artt. 92 e 93 codice penale comporta che l’autore del fatto previsto come reato debba rispondere penalmente come se egli fosse rimasto ca-pace di intendere e di volere nel momento in cui lo commise, e ciò postula che si debba guardare all’atteggiamento da lui tenuto in quell’occasione, per identificare l’elemento psico-logico che caratterizza la condotta e non quello della messa in opera della situazione che ha determinato la perdita o la menomazione dell’imputabilità” (Cass. sez. I, 7 giugno 1973, n. 607, Vulcano). Si è, più di recente, affermato: “Non è giu-ridicamente illogica l’individuazione dello stato di ebbrezza alcolica quale causale del reato, poiché la piena imputabili-tà dell’agente sancita dall’art. 92 codice penale nonostante l’alterazione psichica conseguente all’ubriachezza volontaria o colposa costituisce mera finzione giuridica imposta dalla necessità di difesa sociale, mentre permane sul piano natura-listico tale alterazione, che, soggiogando più o meno compiu-tamente le facoltà intellettive e volitive del soggetto, può essa stessa costituire causa efficiente del reato e la ratio della sua punizione (fattispecie in tema di omicidio)” (Cass. sez. I, 22 febbraio 1990, n. 2509).

Come si è accennato, la reiterazione degli atti, nel reato di atti persecutori, costituisce un limite fattuale alla deduzione

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del vizio di difetto o di riduzione della imputabilità. I singo-li atti, di volta in volta, possono essere sorretti da capacità piena od essere dovuti a disequilibrio valutabile come vizio di mente. Ma il reato in questione si configura per la serie di molestie e di minacce, sorrette da una ideazione e volizione finalizzata ad interferire negativamente nella vita altrui. Ed è dunque con riferimento al complesso delle condotte ed a quella finalità che le riunisce che va condotta l’indagine con-cernente l’imputabilità dell’agente.

Coloro che sono prosciolti per infermità psichica ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacen-ti sono assoggettati ad una misura di sicurezza personale. Nel sistema originario del codice penale (art. 222) questa misura di sicurezza era il manicomio giudiziario. L’evoluzione della normativa e delle conoscenze in queste materie ha condotto ad affermare che la misura in questione si applica negli ospe-dali psichiatrici giudiziari (art. 62 legge 26 luglio 1975, n. 354, Ordinamento penitenziario; art. 111 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, regolamento). Ed ha condotto altresì ad affermare che la misura è applicabile soltanto se la persona destinataria è ritenuta socialmente pericolosa (Corte cost. 27 luglio 1982, n. 139); che il giudice può sceglierne un’altra ugualmente ido-nea ad assicurare adeguata cura dell’infermo di mente ed a far fronte alla sua pericolosità sociale (Corte cost. 18 luglio 2003, n. 253); e che la misura in argomento non è applicabile ai mi-nori di età (Corte cost. 24 luglio 1998, n. 324). I condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente possono essere sottoposti alla libertà vigilata, nei limiti precisi di cui all’art. 232 codice penale. Si tratta di provvedimenti da adottare in esito al giudizio. Ma per il soggetto passivo che abbia proposto la querela per il reato di atti persecutori o che sia persona offesa nel procedimento intrapreso d’ufficio può avere rilevan-za una qualche forma di tutela che operi da subito, nel corso stesso del procedimento e fino alla eventuale esecuzione della pena applicata con la sentenza definitiva o fino all’applicazio-ne delle misure di sicurezza previste per il proscioglimento e per la condanna a pena diminuita.

È, questo, il tema delle misure cautelari, alle quali dappri-ma il D.L. n. 11/2009 e poi il D.L. n. 93/2013 hanno aggiunto quella del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Ed è, questo, il tema dell’ammonimento, misu-ra di prevenzione amministrativa intesa a prevenire in radice che il reato di atti persecutori sia portato a compimento. Si rinvia, al riguardo, a quanto riferito nei paragrafi successivi. Qui preme accennare alle possibilità di intervenire con l’appli-cazione provvisoria di strumenti idonei a tutelare la persona offesa per prevenire la reiterazione di atti vessatori e di di-sturbo perpetrati da autori in condizioni di incomplete o mi-norate facoltà psichiche.

L’art. 286 codice di procedura penale consente al giudice di disporre che la persona, la quale sarebbe da sottoporre a custodia cautelare, che si trova in condizioni di infermità di mente che ne esclude o ne diminuisce grandemente la capa-cità di intendere o di volere, sia ricoverata provvisoriamente

in una struttura del servizio psichiatrico ospedaliero ritenuta idonea allo scopo. Dispone, a sua volta, l’art. 284 stesso codice che in luogo degli arresti da eseguire nel domicilio possa es-sere applicata la misura degli arresti presso un luogo pubbli-co di cura o di assistenza. L’applicazione di queste misure di cautela è subordinata alla sussistenza delle esigenze di tutela della collettività menzionate nell’art. 274 codice di procedura penale (pericolo di fuga; pericolo di inquinamento probatorio; pericolo di reiterazione di reati con uso di armi o con violenza personale o contro l’ordine costituzionale dello Stato o di cri-minalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede) nonché al fatto che si proceda per delitti in ordine ai quali la pena edittale prevista sia non inferiore a quattro anni per la custodia cautelare in carcere ed a tre anni per le altre misure cautelari coercitive (art. 280 codice di procedura penale). Tra le dette esigenze di tutela si presenta come di particolare rilievo, per la difesa della vittima di atti persecu-tori, quella che si risolve nel pericolo di ripetizione di reati della stessa specie. A stretto rigore, dovrebbe intendersi nuovi reati di atti persecutori, i quali sono configurati da tutta una serie di azioni moleste o intimidatrici. Ma deve ritenersi che il pericolo suddetto sussista anche in relazione alla mera pro-babilità di ripetizione di singoli atti di molestia o di minaccia, del genere di quelli che hanno condotto all’addebito del più comprensivo delitto di persecuzione. Proprio la protrazione della medesima condotta, infatti, rappresenta, se non pro-prio la configurazione di un nuovo ed autonomo reato, quanto meno una nuova manifestazione di pericolosità del soggetto, per la cui prevenzione è apprestata la misura di cautela.

Si tratta di una misura facoltativa, per il giudice. Ed al ri-guardo si è affermato: “In presenza di una infermità di mente che escluda o riduca grandemente la capacità di intendere o di volere dell’imputato sottoposto o da sottoporre a custodia cautelare, il giudice non è necessariamente tenuto a disporre la custodia in luogo di cura esterno, ai sensi dell’art. 286 co-dice di procedura penale, ma può invece anche disporre, ai sensi dell’art.98, quinto comma, D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, recante norme di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, l’assegnazione dell’imputato ad un istituto o sezione specia-le per infermi o minorati psichici” (Cass. sez. I, 11 dicembre 1993, n. 4374). Si vedano ora, gli artt. 20 e 111 del nuovo rego-lamento D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230.

L’art. 206 del codice penale consente al giudice di appli-care provvisoriamente una misura di sicurezza (riformatorio, ospedale psichiatrico giudiziale, casa di cura e custodia) al minore di età, all’infermo di mente, all’ubriaco abituale, alla persona dedita all’uso di sostanze stupefacenti ed alla persona in stato di cronica intossicazione da alcool o da so-stanze stupefacenti. A sua volta, l’art. 312 codice di procedu-ra penale dispone che l’applicazione provvisoria è consentita quando sussistono gravi indizi di commissione del fatto e non ricorrono le condizioni previste dall’art. 273, secondo comma, stesso codice: presenza di cause di giustificazione, di cause di non punibilità, di cause di estinzione del reato e di estinzione

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della pena che si presume possa essere irrogata. Il rapporto tra l’applicazione delle misure cautelari personali e l’applica-zione provvisoria della misura di sicurezza è stato così risolto dalla giurisprudenza: “In tema di misure cautelari persona-li, l’art. 286 codice di procedura penale stabilisce che, se la persona da sottoporre a custodia cautelare si trova in stato di infermità di mente che ne esclude o ne diminuisce grande-mente la capacità di intendere o di volere, il giudice, in luogo della custodia in carcere, può disporre il ricovero provviso-

rio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, adottando i provvedimenti necessari per prevenire pericolo di fuga. Tuttavia, se la persona inferma di mente è anche socialmente pericolosa, nel senso che potrebbe commettere nuovi fatti preveduti dalla legge come reato (art. 203 c.p.p.) il giudice ben può, ai sensi dell’art. 312 c.p.p., applicare in via provvisoria la misura di sicurezza prevista dall’art. 222 codice penale e disporre il ricovero in un ospedale psichiatrico giu-diziario” (Cass. sez. I, 8 ottobre 1991, n. 3149).