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Notizie dall’Irpinia... e non solo! Anno I - Numero I Dicembre 2011 Gennaio 2012 Tra LUCI e OMBRE

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Tra luci e ombre - Magazine della Fondazione Officina Solidale ONLUS

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Notizie dall’Irpinia... e non solo!

Anno I - Numero I Dicembre 2011 Gennaio 2012

Tra LUCIe OMBRE

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E D I T O R I A L E

Tra luci e ombreiamo sempre più proiettati verso gli effetti devastanti dello spread con il futuro incerto, con la ricerca di giustizia sociale e di equità. In questo mo-mento l’incertezza domina la nostra vita con gli interrogativi del caso per gli effetti del livello economico che rasenta l’impensabile. Tutti abbiamo

paura e tendiamo a rinchiuderci in noi stessi e ad aggrapparci a quello che ab-biamo. Siamo incerti tra progresso e la conservazione, combattuti tra un nomad-ismo avventuroso, alimentato dalla perdita delle certezze antiche, e il rimpianto di un sedentarismo improntato ai valori stabili della tradizione. La fiducia traballa verso un domani difficile da riempire nella sua quotidianità e nella costruzione di progetti per noi stessi e per i nostri figli. Sono giorni di Festa e di luci, di mercatini natalizi e di riunioni familiari all’insegna della tradizione e del brindisi per un domani migliore. Eppure…in giro c’è preoccupazione, voglia di riflettere, di rinchiudersi per affrontare le pagine della propria vita e quella collettiva con un nuovo sguardo e nuove sollecitazioni. Probabilmente più caute, imperniate sui sacrifici fremendo per le disuguaglianze sociali che rendono la vita individuale più sofferta e meno ottimistica. Eppure questo momento difficile per tutti noi nasconde una grande occasione: quella di trovare il nostro equilibrio interiore indipendentemente dalle circostanze esterne e di affidarci alla saggezza della vita. Qual è il punto calmo del ciclone? L’occhio del ciclone stesso! Se noi ci mettiamo al centro del ciclone, al centro di noi stessi, troviamo dentro di noi una forza che nessuno ci può portare via. Perchè nessuno ci può portare via quello che è veramente nostro. Per questi motivi, che possono apparire scontati, occorre mantenere il controllo e non get-tare la spugna. Viviamo tra ombre che si riaffacciano e luci che sono la nostra via di fuga e di speranza. E’ finito il tempo in cui accettavamo le conseguenze delle nostre azioni con fatalismo o addirittura con letizia perché in fondo non ne eravamo del tutto responsabili. Tante le ombre: quelle dell’ingiustizia dei costi della politica, per i falsi bilanci che sono stati coperti dalla voracità dei partiti, dall’illegalità diffusa, dalla mediocrità che sono ai vertici della burocrazia e delle decisioni finali, per l’instabilità e il caos che appaiono condizioni normali della nostra quotidianità . Tante le luci, non quelle effimere e legate al mondo dei virtuali. Gli esempi sono tanti, figli del mondo dei sacrifici, dei talentuosi che nel silenzio del proprio agire hanno vinto la scommessa con le proprie origini, delle persone normali che continuano a rimboccarsi le maniche e vincendo contro tutte le difficoltà. Il futuro si dispiega dinanzi a noi e si trasforma puntuale in presente e poi in passato. Occorre crederci: lavorando per una diversa cultura del proprio stile di vita, più legato alla sobrietà, meno all’ovvietà. La storia come è noto, non si piega alle nostalgie, non si cura dei rimpianti, premia e delude aspettative di ogni tipo. Le trasformazioni di cui siamo oggetto, potranno anche spaventarci, ma riusciremo a sorprenderci se saremo rapidi ed intensi. La nostra responsabilità individuale e collettiva sarà la sorpresa delle formiche e della consapevolezza per allontanare la dissipazione delle cicale e della loro leggerezza.

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Tra luci e ombreiamo sempre più proiettati verso gli effetti devastanti dello spread con il futuro incerto, con la ricerca di giustizia sociale e di equità. In questo mo-mento l’incertezza domina la nostra vita con gli interrogativi del caso per gli effetti del livello economico che rasenta l’impensabile. Tutti abbiamo

paura e tendiamo a rinchiuderci in noi stessi e ad aggrapparci a quello che ab-biamo. Siamo incerti tra progresso e la conservazione, combattuti tra un nomad-biamo. Siamo incerti tra progresso e la conservazione, combattuti tra un nomad-biamo. Siamo incerti tra progresso e la conservazione, combattuti tra un nomadismo avventuroso, alimentato dalla perdita delle certezze antiche, e il rimpianto di un sedentarismo improntato ai valori stabili della tradizione. La fiducia traballa verso un domani difficile da riempire nella sua quotidianità e nella costruzione di progetti per noi stessi e per i nostri figli. Sono giorni di Festa e di luci, di mercatini progetti per noi stessi e per i nostri figli. Sono giorni di Festa e di luci, di mercatini progetti per noi stessi e per i nostri figli. Sono giorni di Fnatalizi e di riunioni familiari all’insegna della tradizione e del brindisi per un domani migliore. Eppure…in giro c’è preoccupazione, voglia di riflettere, di rinchiudersi migliore. Eppure…in giro c’è preoccupazione, voglia di riflettere, di rinchiudersi migliore. Eppure…in giro c’è preoccupazione, voglia di rifletterper affrontare le pagine della propria vita e quella collettiva con un nuovo sguardo e nuove sollecitazioni. Probabilmente più caute, imperniate sui sacrifici fremendo e nuove sollecitazioni. Probabilmente più caute, imperniate sui sacrifici fremendo e nuove sollecitazioni. Probabilmente più caute, imperniate suiper le disuguaglianze sociali che rendono la vita individuale più sofferta e meno ottimistica. Eppure questo momento difficile per tutti noi nasconde una grande occasione: quella di trovare il nostro equilibrio interiore indipendentemente dalle circostanze esterne e di affidarci alla saggezza della vita. Qual è il punto calmo del ciclone? L’occhio del ciclone stesso! Se noi ci mettiamo al centro del ciclone, al centro di noi stessi, troviamo dentro di noi una forza che nessuno ci può portare via. Perchè nessuno ci può portare via quello che è veramente nostro. Per questi motivi, che possono apparire scontati, occorre mantenere il controllo e non get-motivi, che possono apparire scontati, occorre mantenere il controllo e non get-motivi, che possono apparire scontati, occorre mantenere il controllo e non gettare la spugna. Viviamo tra ombre che si riaffacciano e luci che sono la nostra via di fuga e di speranza. E’ finito il tempo in cui accettavamo le conseguenze delle nostre azioni con fatalismo o addirittura con letizia perché in fondo non ne eravamo del tutto responsabili. Tante le ombre: quelle dell’ingiustizia dei costi della politica, per i falsi bilanci che sono stati coperti dalla voracità dei partiti, dall’illegalità diffusa, dalla mediocrità che sono ai vertici della burocrazia e delle decisioni finali, per l’instabilità e il caos che appaiono condizioni normali della nostra quotidianità . Tante le luci, non quelle effimere e legate al mondo dei virtuali. Gli esempi sono tanti, figli del mondo dei sacrifici, dei talentuosi che nel silenzio del proprio agire hanno vinto la scommessa con le proprie origini, delle persone normali che continuano a rimboccarsi le maniche e vincendo contro tutte le difficoltà. Il futuro si dispiega dinanzi a noi e si trasforma puntuale in presente e poi in passato. Occorre crederci: lavorando per una diversa cultura del proprio stile di vita, più legato alla sobrietà, meno all’ovvietà. La storia come è noto, non si piega alle nostalgie, non si cura dei rimpianti, premia e delude aspettative di ogni tipo. Le trasformazioni di cui siamo oggetto, potranno anche spaventarci, ma riusciremo a sorprenderci se saremo rapidi ed intensi. La nostra responsabilità individuale e collettiva sarà la sorpresa delle formiche e della consapevolezza per allontanare la dissipazione delle cicale e della loro leggerezza.

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DIRETTORE RESPONSABILE Antonio Porcelli

HANNO COLLABORATO Riccardo De Blasi, Maria Stanco, Elisa Forte, Paola Liloia, Paola De Rosa, Antonio Lavanga, Francesco

Mainolfi, Toni Ricciardi, Stefano Ventura, Franca Molinaro, Luisa

Napoliello, Giancarlo Giarnese, Giusy Rosamilia,Tiziana Pianese.

DIREZIONE E REDAZIONECorso Umbero I, 61

83047 Lioni (AV)Tel. 0827-224975

[email protected]

STAMPAAzzurra Print, Via Calore,10

83051 Nusco (AV)

PROGETTO GRAFICOClaudio Zitola, Genni Perna

Le opinioni espresse negli articoli ap-partengono alla redazione a agli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di giudizi. La collaborazione alla rivista avviene solo per invito

TuSiNatInItalyPeriodico della

Fondazione Officina Solidale Onlus

Anno I n.1 - Dicembre 2011 Autorizzazione n.3/011

dell’ 8 aprile 2011 del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi

All rights reserved © 2011

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_8 RICHMOND CONQUISTA LA CINA

SOMMARIO

_34 VILLA GIOCONDA

_14 GIULIO, CON LA TESTA NEGLI STATES

_30 CARMEN GIANNATTASIO

_16 LA SOLIDARIETÀ INCONTRA L’ARGENTINA

_40 TIZIANA PELLECCHIA

_20 LIONI CHIAMA NEW YORK

_60 ORGOGLIO IRPINO

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Quando mi fu chiesto un articolo che parlasse dei talenti irpini, una folata di immagini e volti familiari mi giunsero alla mente, personaggi vivi e trapassati, uomini e donne, conosciuti e meno. Sarebbe stato un gran piacere scegliere il più anonimo e dargli voce grazie alla rivista e alla fiducia mia riposta in lui ma, per mia gioia, le persone che stimo, in provincia, sono tante, potrei scrivere a lungo partendo da chi mi è quotidianamente vicino nelle attività culturali e che di talento ne ha veramente tanto. Ma so che una tale scelta per me

sarebbe imbarazzante perchè non potrei escludere nessuna delle persone che stimo capaci nelle attività che compiono, dallo scrittore all’amministratore, dal pittore all’ambientalista al medico. È risaputo che ognuno di noi ha dei talenti: uno, due o tanti, non importa quanti, ciò che conta è attuarli e metterli al servizio della comunità, ognuno in relazione alle proprie capacità, alle proprie potenzialità. Riuscire a mettere in pratica i propri desideri è veramente un gran talento, naturalmente ci si augura che

questa volitività venga applicata da persone positive e il loro talento sia volto al benessere della società e del mondo tutto. Spesso capita, però, che qualcuno, come il servo della parabola di Matteo “andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone”(Vangelo secondo Matteo 25, 14-30). Ma perché accade questo? I motivi sono diversi: qualcuno non li riconosce, qualche altro pur riconoscendoli non sa come metterli in atto, come condividerli; altri ancora, abbagliati dal talento che vorrebbero avere,

Il talento dei talenti

di FRANCA MOLINARO

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perdono di vista ciò che realmente hanno. Se solo ci fossero delle regole, un iter precostituito per indicarci la strada, tutto sarebbe più facile, ma a riguardo non esistono libretti d’istruzione o guide in rete, sarà solo la consapevolezza e un intuito innato a guidarci nella giusta direzione. Ma esiste un talento che molti non definirebbero tale, un talento che opera sui talenti: questo talento consiste nell’intuire le potenzialità di una persona, accoglierla, aiutarla a crescere seguendo il suo percorso ottimale, per poi farla sbocciare in tutto il suo splendore e sostenerla durante il suo percorso. È questa una dote non comune, ma preziosa se messa al servizio della cultura e della società tutta. In verità, nell’attuale società del consumo esistono specialisti in questo settore che, però, fanno del talento umano un discorso economico. Insomma, in termini molto sconvenienti ma realistici, se hai i soldi ti paghi il manager che ti introduce in un particolare giro e, tramite questo o quello, con una esosa cifra, alla fine puoi anche raggiungere quel livello desiderato. Ebbene, non è di questo che voglio parlare, non è questo il luogo per polemizzare ma per costruire. In questo frangente vogliamo cogliere quanto di buono la nostra terra ci offre e farlo sapere a chi è meno informato.Dicevamo che, il talento è anche quello di saper trovare i talenti e valorizzarli inserendoli nel giusto circuito, sia esso letterario, artistico ecc., come dire un mecenate. Personalmente, dopo tanti anni di esperienza nell’editoria sia in Irpinia che fuori, ho incontrato due persone che hanno il tipo di talento descritto. Queste due persone si somigliano per umanità e per metodo

lavorativo: Stefania Stefanini, fondatrice della casa editrice “La Bancarella” in Toscana e Donatella De Bartolomeis, fondatrice della casa editrice “Il Papavero”. Parlerò della seconda perchè mi si chiede un personaggio irpino senza nulla togliere alla prima per la quale nutro egual stima. Donatella De Bartolomeis, Ddb, come la chiamano i suoi scrittori, è una giovane irpina piena di energia e positività: ella ha un

grande talento, ha la capacità di intuire, ogni giorno, tra migliaia di scrittori, chi ha davvero preziose potenzialità. Allora si è posta una sfida che nessun editore irpino ha mai immaginato di affrontare: credendo realmente nelle competenze dei suoi autori, ha investito il suo denaro per dar loro la possibilità di pubblicare. Chi pubblica in Irpinia sa che occorrono migliaia di euro per poter presentare al pubblico sotto forma di testo, il prodotto

della propria mente poi, una volta pagato il conto e ricevuto il numero di libri pattuito, comincia a regalarli a chi difficilmente li legge, forzatamente ne riesce a vendere qualcuno perchè tutti, parenti e amici ritengono che quel regalo gli è dovuto. Intanto sul mercato arriva ogni sorta di materiale che confonde notevolmente i pochi lettori, dico pochi perchè il numero di chi scrive supera quello di chi legge. Occorre spostarsi

oltre la capitale per incominciare a trovare chi ragiona come la De Bartolomeis, chi rischia il proprio denaro per dar lustro ad altri e si entusiasma, si nutre della gioia dei suoi autori, gode dei loro talenti e li accoglie nel suo mondo dando loro gli spazi necessari per esprimere a pieno se stessi. Donatella gode dei loro successi, per lei diventano motivo d’orgoglio e così lotta al loro fianco affinché anche gli altri li riconoscano. “Non è un lavoro facile - spiega la De

Il Talento dei Talenti

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Bartolomeis - richiede energie, tempo e denaro, ma soprattutto richiede amore, amore per l’arte e per il prossimo. Presuppone un grande desiderio di condivisione, empatia e pazienza. Una dote innata, che ti spinge in apparenza a mettere da parte i tuoi successi per aprire la strada ai successi degli altri, fino a quando capisci che la tua affermazione è proprio nel valorizzare le capacità dell’altro e, nella luce degli altri, brillerà anche

la tua”. Parole straordinariamente forti che rivelano la profondità del suo spirito. Queste affermazioni mi portano a riflettere perché poche persone le pronunciano, allora il mio pensiero corre immediatamente a figure astratte che popolano la nostra dimensione spirituale. Chi è a digiuno di nozioni spirituali non mi prenda per pazza, ma cerchi di comprendere: in tutti io credo esistono figure che affiancano l’uomo nel suo cammino terreno,

per le religioni monoteiste sono gli Angeli, per i credo più evoluti spiritualmente sono i Maestri. Esaminando l’attività di queste figure scopriamo che loro compito e loro piacere è quello di aiutare gli uomini a realizzare la loro pace interiore in armonia con gli altri uomini e col creato tutto. Essi provano affetto per il proprio adepto e lo aiutano nelle scelte, sempre che egli allenti che sue resistenze interiori e accetti

consigli. Ora esaminiamo l’attività della Nostra: Donatella intuisce, con la sua mente sensibile, le capacità degli scrittori e li aiuta a realizzare il loro desiderio di rendere partecipe il prossimo di quanto sostenuto. Lo scrittore che ha una forte carica interiore, un potenziale intellettivo elevato, se non riesce ad esprimersi, a comunicare e farsi comprendere, è inquieto e insoddisfatto, anche perché, a volte, hanno successo opere di scarso valore culturale

mentre possono restare inedite opere valide di scrittori squattrinati. Con questo non critico chi scrive e pubblica di tasca sua, ogni piccola frase impressa su un foglio ha un valore illimitato per chi, in un preciso momento della sua vita, l’ha lasciata scritta ma, naturalmente, può avere o meno un valore effettivo. Tornando alla nostra Donatella, vediamo che è stata lei a veicolare il talento, a permetterne l’affermazione ed

infine realizzare la serenità del suo adepto. È sbalorditivo come un essere umano possa dedicarsi al prossimo con tanta dedizione e, soprattutto, con tanto poco guadagno in termini di denaro, questa eccezione, perché di eccezione si tratta, dimostra che c’è ancora qualcosa di buono nella razza umana, c’è ancora qualcuno che, insieme a pochi altri, fa dell’altruismo la sua strada maestra.

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L’espansione in Cina, dopo quella in Russia. È solo il tas-sello più recente del progetto di crescita di Saverio Mos-chillo. L’imprenditore irpino guida un gruppo da 360 milioni di euro il cui brand di punta è John Richmond, disegnato dallo stilista inglese che gli dà il nome, un creativo timido e gentile che da oltre dieci anni ha costituito uno dei più saldi- ancorché all’apparenza bizzarri- sodalizi creativo- imprenditoriali della moda italiana. Moschillo e Richmond, così lontani per cultura e formazione, si intendono alla perfezione, anche se ammettono di non aver ancora im-parato davvero le rispettive lingue. Il 18 giugno sarà inau-gurato il monomarca John Richmond di Changsha, nella Cina centro-meridionale, cui ne seguirà uno a Shanghai. “Stiamo crescendo a due cifre in tutti i mercati. E non è un dato degli ultimi mesi: le ultime due collezioni hanno registrato una vera e propria impennata. Lo stesso vale per il sell- out dei negozi: ci sono boutique che in aprile, rispetto al 2010, hanno quasi raddoppiatole vendite come quella di Parigi- spiega Moschillo-. Non sono risultati che arrivano per caso e non sono nemmeno legati alla ripresa economica generale, ammesso che davvero di ripresa si

possa parlare. Una crisi globale non può essere indolore, neppure per aziende sane come la nostra. Ma ci sono anche aspetti positivi: abbiamo lavorato sulla struttura dei costi analizzandoli in ogni singolo anello della catena produttiva e distributiva, ora siamo più leggeri e più forti allo stesso tempo”.

Alleggeriti, ma non nel personale, tiene a sottolineare Moschillo: “Negli stabilimenti produttivi della nostra azien-da, la Falber, non abbiamo avuto una singola ora di cassa integrazione e anche nei momenti più difficili non abbiamo ridotto l’occupazione, anzi. Il made in Italy è la forza del marchio John Richmond e della moda italiana in generale. Il rischio che dobbiamo scongiurare però è che gli anelli più deboli della catena, le aziende medie e piccole, a volte veri e propri laboratori artigianali, e tutte le imprese che non hanno un loro marchio, pian paino spariscano. Chi ha le dimensioni giuste e i brand affermati deve fare di tutto perché l’intera filiera del tessuto- abbigliamento soprav-viva. Ma anche le istituzioni devono fare la loro parte e il ruolo più delicato, in questa fase, spetta alle banche”. A

“RICHMOND CONQUISTA

LA CINA,L’OTTIMISMO

DELL’IMPRENDITORE MOSCHILLO”

di Antonio Lavanga

SAVERIO MOSCHILLO

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Moschillo piace definirsi un “uomo del fare”. Non gli è mai interessato schierarsi politicamente e ha sempre cercato il confronto con le autorità di turno. In Emilia Romagna, a Milano, dove John Richmond sfila con la donna sia con l’uomo e a Roma.

“Al Governo non mi stancherò mai di chiedere una vera riforma fiscale, che le aziende aspettano da troppo tempo. E una semplificazione burocratica e legislativa: siamo tenuti a una tale quantità di adempimenti che l’errore, senza alcun dolo, è sempre in agguato. E quando la Guardia di finanza entra in un’azienda, pur con le migliori intenzioni di salvaguardia della legalità, può fare danni enormi, paralizzando di fatto l’operatività”. Ma il tema che forse sta più a cuore a Moschillo, che alla mera democrazia preferisce il confronto, anche aspro, a patto che sia costruttivo, è la situazione di Milano. E qui l’imprenditore parla anche come vicepresidente vicario della Camera della moda: “Con il sindaco uscente Letizia Moratti, avevamo avviato una proficua collaborazione che spero continuerà con il suo successore, Giuliano Pisapia.

Con la Lombardia c’è già un progetto di finanziamento dell’incubatore per giovani stilisti, un’iniziativa importante, perché la moda italiana avrà un futuro se preserviamo la filiera produttiva e allo stesso tempo se costruiamo vivai per i talenti emergenti. Però c’è una cosa che mi ha davvero stupito della lunga campagna elettorale milanese: né il sindaco uscente né Pisapia, nei rispettivi programmi, hanno parlato della moda. Assurdo, se pensiamo che a questo settore è riconducibile un quinto del Pil della città e che Milano è la capitale del prêt-à-porter. Ma resto ottimista: come Camera della moda siamo pronti ad ogni tipo di alleanza e collaborazione con il Comune, credo che si vedrà già in occasione delle prossime sfilate uomo”. Per concludere, Moschillo si rimette il cappello di imprenditore ed anticipa una novità per John Richmond, il lancio della seconda fragranza da donna, dopo il grande successo della prima. “Continueremo poi a investire sugli altri marchi, Husky, Haute, Menudier. Perché dietro di me c’è una grande squadra, a cui cerco di trasmettere passione ed entusiasmo. Dobbiamo lavorare tutti insieme, divertendoci, come se fosse un gioco. Serissimo, però”.

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Storie di “ordinario” talento irpino

di Luisa Napoliello

L’INTERVISTA

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L a definizione di talento più semplice è quella che lo

descrive come “ l’inclinazione naturale di una persona a far bene una certa attività.” La definizione di talento più semplice è quella che lo descrive come “ l’inclinazione naturale di una persona a far bene una certa attività.”Nella Dichiara zione Internazionale di Navarra sul Talento, scritta da un gruppo di esperti durante il Primo Foro Mondiale sul Talento nell’era della conoscenza (tenutosi in Spagna nel febbraio del 2009), si fa riferimento, oltre che al talento associato alla conoscenza (e quindi al talento specializzato e al talento tecnico – legato alla capacità numerico-linguistica e alla capacita di problem solving), al talento innovatore (legato alla capacità creativa), al talento imprenditoriale (legato alla propensione ad assumere e gestire il rischio), al talento civico ed etico (legato alla difesa dei valori umanistici, al rispetto della legge e alla tolleranza verso altre culture), al talento sociale (legato alle abilità a integrarsi socialmente e interagire con altre persone) e al talento emotivo (legato all’abilità di gestire le proprie emozioni e di rispettare quelle degli altri). Spaziando tra queste tipologie di talenti, nella speranza che essi possano rappresentare il motore della ripresa nella “questione meridionale” (G. Viesti, “Più lavoro, più talenti”, 2010), la nostra attenzione si sofferma, per ora, sulle parole di Eleonora, talento innovatore che, da sola e a ventisei anni, ha pensato e creato un blog interattivo di ricette locali (e non). ►

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Eleonora raccontami di te, inizia pure da dove vuoiMi chiamo Eleonora Tiso, sono una ventiseienne originaria di Ariano Irpino. Ho trascorso buona parte della mia vita in questo paesino che si erge su tre colli e ho sempre avuto il desiderio innato di lasciarlo per andare a vivere altrove, prima per studio, poi per lavoro. All’inizio ho fatto proprio così: ho scelto di andare a vivere ad Urbino per conseguire, nel 2007, la mia laurea triennale in “Scienze della comunicazione”; ho vissuto poi, nel 2009, nove mesi in Francia, grazie al programma Erasmus e, tornata in Italia, sono approdata a Napoli per completare, nel 2010, il mio percorso accademico, laureandomi in “Comunicazione pubblica, sociale e politica”. Il mio ultimo spostamento, forse quello più importante, è stato a Milano dove, nel 2011, ho svolto uno stage in Mediaset. Anni trascorsi, dunque, in giro per l’Italia, pieni di novità, opportunità ed esperienze. Ho capito, tuttavia, che la metropoli non fa per me o, quantomeno, non fa per i miei progetti futuri. La precarietà del lavoro, soprattutto nel mio settore, è di certo meno avvertita a Milano, ma non per questo assente. Decido, quindi, di rinunciare alla possibilità della proroga del contratto in Mediaset e di tornare ad Ariano Irpino, ben consapevole dei rischi della sua realtà lavorativa.A quali rischi fai riferimento?Ariano riesce a stento a garantire ai giovani quelle opportunità che dovrebbero essere scontate, sia per le condizioni economiche poco floride in cui versa il territorio, sia per le idee poco innovative che vengono coltivate. Tuttavia, non sono pochi i ragazzi che hanno deciso di non abbandonare il proprio paese di origine e di creare concrete realtà di riferimento, per i giovani e non solo; faccio riferimento alle agenzie di comunicazione e di pubblicità, ai locali del centro storico, passando poi per la riscoperta dell’artigianato arianese.Parliamo, allora, della tua iniziativa.E’ stato relativamente semplice se si pensa che ho dovuto considerare le cose che più di tutto amo fare: scrivere, cucinare e interagire con i nuovi media. Ed ecco che nasce, nel 2011, Paciulina: un blog interattivo di cucina che raccoglie ricette facili e alla portata di tutti, fotografate passo per passo.Come è stato accolto il tuo progetto? L’idea è stata subito accolta con molto entusiasmo da tutte le persone a me più vicine, in pri-mis dalla mia mamma, vera ispiratrice nel progetto. I complimenti e i commenti degli utenti,

infatti, sono tutti per la grafica chiara e intuitiva del sito, per la qualità delle fotografie di ogni piatto ma, soprattutto, per i procedimenti, fotografati passo dopo passo. Progetti futuri?Paciulina si trova, attualmente, su una piattaforma non indipendente e, per-ciò, presto migrerà su un dominio tutto suo per cominciare a gestire sezioni dedicate non solo alle ricette di cucina, ma anche a tutte le tematiche legate al mondo dell’alimentazione e delle nuove tendenze in fatto di cibo. La prospettiva di poter, in futuro, continuare a lavorare con Internet e, dunque da casa, è molto allettante perché, in questo modo, si riesce a gestire meglio i tempi della giornata e non si hanno orari troppo vincolanti.

ELEONORA TISO

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Giulio, con la testa negli States

e il cuore in Irpiniadi Riccardo Di Blasi

“La famiglia, gli amici, il dolce far niente e la cucina di casa”. Potrebbe sembrare il classico esemplare di “bipide-peninsulare-meridionale” temporaneamente collocato fuori dal suo habitat. Non è così. Giulio Barrasso, quarto di cinque figli, non è quello che si definirebbe un “bamboccione”. E nemmeno un “mammone”. E’ solo uno che ama, allo stesso tempo, le cose semplici delle sue umili origini e quelle complesse con le quali si misura tutti i giorni nella terra che fu dei padri pellegrini. E’ un italiano a Washington DC. Come tanti. Con la testa negli States e il cuore ben ancorato dove è nato: Fontanarosa, Irpinia, Sud Italia. Nella Media Valle del Calore, Giulio ci resta fino all’età 19 anni, quando si trasferisce a Milano per laurearsi, presso il Politecnico, in Ingegneria Gestionale. Dopo gli studi, lavora prima all’Hdp-Rizzoli Editore, poi alla Vodafone. Ma il sogno americano lo attrae più delle prospettive possibili in Italia. L’orgoglio e la tenacia fanno il resto. L’inizio è difficile. Al suo fianco c’è Kate. C’è l’amore. Si sposa. E’ l’avvio di una vita nuova. Inizia a lavorare presso Bank of America, una delle più importati degli States, quindi, del mondo. Prende casa a Montgomery County, alle porte di Washington. Oggi, a 38 anni, racconta la sua condizione di emigrante con entusiasmo e un pizzico di nostalgia: “Non è vero che gli italiani siano visti male all’estero. Siamo, generalmente, ben accolti e invidiati per cose che solo il Belpaese può offrire al mondo. Gli americani amano l’Italia, invidiano il nostro “lifestyle” e la nostra cultura. Le cose che non comprendono di noi, sono le stesse che nemmeno noi riusciamo a spiegarci. Ad alcune delle domande che mi fanno non riesco a rispondere. Quando, ad esempio, mi chiedono delle vicende riguardanti l’ex Primo Ministro, francamente mi trovo in difficoltà. In ogni caso, nessun paese è perfetto. Ma non c’è niente di peggio, e mi riferisco all’Italia, di un popolo sottomesso e ubbidiente ad un sistema che funziona solo per pochi. Spesso, però, accettare la realtà spaventa e si preferisce far finta di niente”.

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IL RISCATTO

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Ma perché ha deciso di lasciare l’Italia?“Per mancanza di opportunità, per riscattarmi dalle mie umili origini. Prima di trasferirmi, ero stato in Ameri-ca già un paio di volte. E’ stata una scelta naturale e avvantaggiata dalla circostanza che la donna della mia vita è statunitense. La mia “fuga” è stata certamente più facile e piacevole rispetto ad altre, perché ho Kate, la migliore delle anime gemelle che potessi trovare. Senza di lei avrei dovuto avere molto più coraggio -e fortuna - per essere dove sono oggi”. E’ stato difficile integrarsi nella società e nel mondo del lavoro?“Inizialmente sì. Allo stesso tempo, però, affascinante. Penso che alcune delle barriere, degli ostacoli che uno si trova davanti, vengano messi lì più per misurare la tua voglia di superarli che per impedirti di farlo. Negli Statti Uniti intraprendenza e spirito di sacrificio sono premiati. Se uno ci crede ce la fa. E’ una società che ha tanti problemi, ma chiunque abbia buona volontà e un sogno per se e la sua famiglia, in America può perseguirlo. Nessuna garanzia di successo, certo. La maggioranza, infatti, fallisce. Ma è la voglia di provarci che arricchisce la condizione generale. La meritocrazia è al centro di ogni mestiere, di ogni profes-sione. Un sistema meritocratico è l’incentivo più efficace per ognuno che voglia provarci. E’ una condizione culturale, sociale, sistemica. Non è introdotta per legge. E’ nei fatti”. In Italia, invece…“In Italia purtroppo non è così - o almeno non lo è stato per me-, anche se sei fortunato, c’è chi rema contro e ti fa sentire come fuori dal “club dei vincenti”, a meno che tu non scenda a compromessi. Il divario sociale è troppo ampio e difficile da colmare senza un cambio di mentalità. Le caste e le corporazioni sono una cappa, nel senso che impediscono la crescita economica e culturale della società”. Cosa hanno da insegnarci gli americani? E noi, da loro, che cosa abbiamo da imparare?“Gli americani hanno tanto da insegnare al mondo. Al primo posto c’è l’accettazione del diverso, della diversità come ricchezza, come valore. Certo, c’è ancora discriminazione, ricordo che solo una sessantina di anni fa la “white supremacy” era legale. Washington DC è una città tuttora, per certi versi, dove c’è segregazione, ma sappiamo bene che questa è una nazione di immigrati dove c’è profondo rispetto per quelli che contribuiscono a fare del paese quello che è. Si parla tanto del declino degli Usa, della fine dell’America come superpotenza mondiale: la verità è che fino a quando ci saranno persone che hanno voglia di venire e vivere negli Stati Uniti, questa sarà sempre la nazione più potente del mondo. Gli immigrati sono una risorsa che l’Italia non ha saputo valorizzare fino in fondo”. Fontanarosa, ci pensa? Ci torna spesso? Crede che l’Irpinia sia peggiorata? “Penso a Fontanarosa ogni giorno. Torno una o due volte all’anno. Se l’Irpinia è peggiorata non lo so, ma so che è sicuramente avanzata meno di quanto avrebbe potuto. Meno delle sue potenzialità. I dati sull’incremento dell’emigrazione, rappresentano un segnale di allarme”.Che significa essere italiano, meridionale, per chi non abita più il proprio paese? “Significa avere molti più amici italiani quando si è immigrati all’estero. Nell’area metropolitana di Washington DC abitano circa 30 mila italiani o di origine italiana. La stragrande maggioranza hanno radici nel Mezzogiorno. E’ un grande vantaggio”.Si sente un cervello in fuga? “Sì, per definizione. Lo stato italiano per più di 20 anni, dall’asilo all’università, ha pagato la mia preparazione, e io ho portato questa formazione all’estero. Cosa ci ha guadagnato l’Italia con me? Non molto fino ad ora. Anche in America si parla di cervelli in fuga. E’ paradossale: cinesi, brasiliani, indiani vengono qui, studiano nelle migliori università e poi tornano ad arricchire i loro paesi dove c’è molta più crescita che negli Usa. Gli italiani non tornano perché lo “stivale” non è professionalmente attraente, piuttosto respinge chi potrebbe dare un contributo alla crescita della società” E a lei piacerebbe tornare? “Ce ne fossero le condizioni, sicuramente tornerei. Ci penso spesso. Una cosa che ho imparato in America è che le opportunità sono maggiori dove le cose non vanno bene. C’è così tanto da fare in Italia e mi dispiace non poter contribuire al suo miglioramento. Ma non credo di essere pazzo abbastanza fino al punto di tornare. Ci vuole tanto coraggio. Molto di più di quanto ne è stato necessario per emigrare”. Cosa le manca di più? “La famiglia, gli amici, il dolce far niente e il cibo di mamma. Certe cose puoi ritrovarle solamente dove sei nato”.

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di Paola De Rosa

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L’ Italia chiama

l’Argentina: quando l’ospitalità

è sacra

L’ACCOGLIENZA

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La ricchezza delle nostre terre è nella tranquillità dei suggestivi paesaggi, nell’aria buona e nella genuinità dei prodotti, è nel verde che offre ai suoi abitanti e a coloro che vi soggiornano. E’ l’altra faccia dell’Irpinia, quella delle possibilità e delle scelte, forse dell’unico probabile futuro, è l’Irpinia del turismo. Nel mese di Settembre la nostra terra, grazie a un progetto di promozione territoriale e un percorso di integrazione culturale voluto e sostenuto dalla Fondazione Officina Solidale, ha accolto e ospitato un gruppo di 21 Argentini provenienti da Santa Fe. Desiderosi di scoprire e ritrovare le loro radici italiane e dopo un viaggio costato ad alcuni molti sacrifici economici, sono arrivati sotto un capriccioso e mutevole cielo a Sant’Angelo dei Lombardi. La loro permanenza è durata una settimana, hanno alloggiato nella struttura alberghiera di Materdomini (Caposele). L’iniziativa è stata ambiziosa e ha costituito una vera e propria sfida per la Fondazione. Si è partiti dalla consapevolezza che, in un adeguato programma di accoglienza turistica, la promozione delle terre irpine va inserita in un più ampio percorso di valorizzazione del territorio campano globalmente inteso. Questa terra di incantevoli e inesplorate risorse non è ancora pronta al fenomeno turistico e necessita perciò di un’attività di coordinamento di più forze. Lo hanno dimostrato le facce incredule e incuriosite degli abitanti della zona o l’incapacità di rispondere alla semplice domanda di una cartina con la pianta della città di Avellino. Dall’altro lato, ancora una volta il popolo irpino ha dimostrato una incredibile generosità e capacità di accoglienza, segno che le novità non vengono necessariamente snobbate (anche perché non potremmo proprio permettercelo) ma vissute come una risorsa. Il lavoro fondamentale di chi ha lavorato per la Fondazione è stato quello di progettare, e quindi seguire, un percorso turistico che potesse soddisfare più aspetti: della cultura, delle tradizioni ed enogastronomico. E così accanto alle visite guidate alla città di Napoli, Caserta e Salerno, alla romantica Capri e alla suggestiva Costiera Amalfitana, è stata inserita la visita ai borghi irpini più caratteristici. I nostri “ospiti” hanno avuto la possibilità di spostarsi con facilità in Campania e nello stesso tempo conservare il piacere della genuinità dei sapori e della tranquillità una volta ritornati nella loro dimora

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irpina. Ciò che hanno amato della nostra terra, e che probabilmente rappresenta il principale desiderio di un viaggiatore, è la possibilità di entrare in contatto con le tradizioni, è l’immediatezza dei rapporti umani, la possibilità di assaggiare prodotti tipici e genuini, magari i frutti raccolti direttamente dagli alberi, ascoltare la musica popolare. La soddisfazione più grande è stata la scelta di uno dei ragazzi del gruppo, Adrian, di soli 22 anni, di rimanere a studiare musica al Conservatorio Cimarosa di Avellino. Adrian studia musica, il violino in particolare, dall’età di 8 anni. E’ stato invitato da uno dei professori del Conservatorio Santa Cecilia di Roma a venire a frequentare un corso di viola in Italia. La sua scelta di rimanere ad Avellino viene proprio dalle relazioni umane più facili e immediate che è riuscito a stringere in Irpinia. La Fondazione continuerà a seguirlo e supportarlo per tutto il periodo della sua permanenza, perché la sua presenza rafforza l’idea di integrazione culturale perseguita da Officina Solidale. Questa esperienza, nel complesso, va considerata come la base da cui partire e che andrà ulteriormente sviluppata e perfezionata, ma che ha regalato già enormi soddisfazioni e offerto spunti concreti su cui lavorare per il futuro. Non abbiamo che i nostri luoghi, è vero, ma abbiamo grandi capacità. D’altra parte, nessuna terra nasce ospitale, non basta qualche emozionante scorcio o borgo arroccato in collina per rendere turistica una località. E’ necessario l’attivismo alimentato dalla creatività e da una buona dose di coraggio.

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SALVATORE SALZARULO

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La tradizione irpina nel cuore di New York La storia di Lioni Latticini è tutta qui: in questo spicchio di mondo

di Paola Liloia

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Dal pane alla mozzarella il passo è stato lungo più o meno 7mila chilometri, quelli che separano Lioni in Alta Irpinia da uno dei quartieri newyorkesi a più alta densità di italiani, Brooklyn. La storia di Lioni Latticini è tutta qui: in questo spicchio di mondo attraversato nel dicembre del 1980 per tentare la fortuna negli States. E la sorte, Salzatore Salzarulo, fondatore dell’azienda, la cita più volte quasi a voler minimizzare il peso avuto da intuito e coraggio nella sua avventura americana. Due punti vendita, con quello di Brooklyn che funge da centro spedizioni; un capannone industriale il cui valore è stimato intorno ai 7 milioni di dollari, con copertura a pannelli solari che generano oltre il 40% dell’energia utilizzata per la produzione; 5 macchinari che lavorano a ciclo continuo per più di 12 ore al giorno; 50 dipendenti (molti dei quali emigranti ispanici): Lioni Latticini Inc. è ormai una realtà consolidata. In tre decenni ha portato la tradizione casearia e lo spirito imprenditoriale lionese in oltre 35 città degli Stati Uniti, dalla Florida a Los Angeles passando per Chicago e Boston, a bordo di tir refrigerati ultramoderni.

Quando si è trasferito negli States?“C’era da poco stato il terremoto e con mio padre e la mia famiglia decidemmo di raggiungere i miei zii che vivevano a New York. In Italia non ci mancava nulla, mio padre aveva un forno nel centro di Lioni, ma quell’evento ci aveva sconvolti tutti. Arrivati a Brooklyn, per due anni aiutai mio zio, anch’egli fornaio.”Quindi c’era ancora il pane nella sua vita. Come le è venuta l’idea delle mozzarelle?“Un altro mio zio, nel suo garage newyorkese, lavorava le scamorze e le vendeva nel quartiere, tra gli italiani. Aveva imparato a Lioni da dove, durante la seconda guerra mondiale, ogni mattina si recava a Foggia a vendere i latticini di contrabbando. A pensarci bene, così come il pane, anche le mozzarelle nascono dal miracolo della pasta che viene plasmata dalla paziente mano dell’uomo. E poi mi resi conto che quello della mozzarella era un mercato ancora inesplorato per gli americani, che conoscevano questo prodotto solo attraverso la pizza”.

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L’IRPINIA NEL MONDO

Una scommessa insomma. Non ha avuto timore di sbagliare mossa?“La paura c’era. Nei primi due anni più volte sono stato sul punto di mollare tutto e ritornare in Italia, ma mia moglie mi ha spronato a restare. Mio zio Salvatore, che è tuttora mio socio, si fidava di me, ma sul progetto “mozzarella” da solo non avrebbe puntato: mi disse chiaramente che se fossi partito, non lo avrebbe portato avanti. Comprammo un piccolo locale, in tutto due posti auto, e lo sistemammo improvvisandoci imbianchini e piastrellisti. Poi acquistai la prima macchina automatica: la presi a Modena su suggerimento di alcuni compaesani con un’antica tradizione casearia alle spalle (D’Amelio e Perna), cui mi ero rivolto per consigli e carpire qualche segreto. in qui, ordinaria amministrazione. Quando è arrivata la svolta?“Due episodi hanno segnato il cambio di passo. Fui invitato da amici a una partita di football e a termine dell’incontro ci fermammo in un ristorante: sul menù per la prima volta vidi la “Caprese”. Pensai che avremmo svoltato: le abitudini degli americani stavano cambiando! L’altro episodio si verificò poco dopo aver introdotto la produzione delle mozzarelle fresche: ci rendemmo conto che Brooklyn, in pieno centro abitato, era adatta al punto vendita ma l’area produttiva aveva bisogno di più spazio. Scegliemmo il New Jersey. Grazie a un colpo di fortuna, trovammo il capannone adatto a noi a un ottimo prezzo e lo comprammo. Ci presentammo anche al Consiglio Comunale (il Sindaco era un italiano) per avere l’approvazione del nostro progetto e partimmo coi lavori. Quando tutto fu pronto era il 2001”.L’anno dell’attentato alle Torri Gemelle…“Già! Sembrava proprio che le cose potessero volgere per il peggio. L’America era sotto choc e tutte le certezze erano venute a mancare. Però sapevo che quella gente non si sarebbe fatta schiacciare dal terrone, avremmo tutti rialzato la testa. E ne ebbi conferma quando una sera, entrando in una steakhouse di Manhattan, trovammo con un pizzico di sorpresa il locale pieno”.A proposito degli americani, ha notato diffidenza nei confronti della sua famiglia, in quanto immigrati che volevano fare impresa?“Negli anni ’80, complice la presenza sul posto di nostri parenti, noi siamo stati ac-colti bene. La diffidenza c’era agli inizi del secolo, nel dopoguerra o quando negli anni ’60 i miei zii avevano attraversato l’Oceano. L’America è un Paese che ha saputo creare la propria grandezza fondendo culture diverse e traendo forza dalle differenze. Se hai un’idea e voglia di fare, se hai il coraggio di investire sulle tue capacità, il tuo talento viene premiato. E’ una società fortemente meritocratica: se fallisci sei fuori, ma a tutti viene data almeno una possibilità. Anche la burocrazia è molto più snella e questo facilità un imprenditore”.Potendo tornare indietro, rifarebbe tutto allo stesso modo?“Avevo progetti di espansione anche dell’attività di panificatore a Lioni, ma no: non tornerei ora. Qui ormai ho legami troppo forti: con mia moglie Michelina abbiamo avuto tre figli, due ragazze e un ragazzo, e sono diventato da poco nonno”.Un’ultima domanda. Il nome: perché Lioni Latticini? “Perché l’amore per Lioni resterà sempre e non se ne andrà. C’è un pezzetto di Lioni in tutto quello che abbiamo costruito. A volte con i miei zii sogniamo di passeggiare tra il verde di “Calaviello”. Lioni c’è sempre mancato e infatti ci torno spesso”.

Nei suoi occhi compare un velo di commozione: non è più l’imprenditore a parlare, ma l’emigrante.

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di Francesco Mainolfi

L’ARTE DI EUGENIO GILIBERTI: GESTI SEMPLICI E QUASI SACRALI, COME SBUCCIARE, TAGLIARE E OFFRIRE AL PUBBLICO.

Se vi trovate nella valle Caudina e vi capita di deviare dalla strada statale Appia in direzione Rotondi, avete buone possibilità di imbattervi nei fabbricati che sono il centro di questa storia. Vi troverete in via Varco, e il fabbricato sulla sinistra è una piccola costruzione rurale. Quasi un rudere, in tufo, con vecchie porte cadenti in legno di castagno. E’ la masseria Varco, da qualche anno centro nevralgico del nuovo progetto artistico (e imprenditoriale) di Eugenio Giliberti. Negli anni novanta, tra una mostra e l’altra, sempre in viaggio “come un artista a un certo punto della sua carriera deve fare”, Giliberti si occupa della gestione delle proprietà di famiglia, in particolare delle selve che

circondano il santuario dedicato alla Madonna della Stella, nel territorio di Rotondi. Passeggiare nelle selve di castagno gli serve a capire molte cose del territorio. E di sé. Capisce, per esempio, che il degrado che le affligge si deve affrontare a partire dalla loro natura antropica; che la perdita di valore economico dei prodotti tradizionali del bosco che trascina l’industria boschiva in una crisi economica e di identità inarrestabile condanna il bosco stesso a un destino di abbandono e degrado; che bisogna fare qualcosa per cambiare la situazione; che intorno a questo impegno si svolgerà una nuova fase della suo lavoro di artista. Decide di trasferire il suo studio nella vecchia casa colonica

legno nello stagno residuo

della masseria Varco e intraprende una nuova vita. Una vita antica, potremmo dire, una vita quasi da barbone, direbbe lui, per l’assenza di confort della piccola casa colonica. Prepara, nella stalla che ancora risente della presenza delle vacche dell’ex colono, oggi collaboratore - consigliere, la sua mostra personale alla galleria Milano (siamo nel 2006) mentre nel campo, dall’altra parte della strada si innalzano i piloni dei capannoni in legno che racchiuderanno un nuovo originale progetto: un progetto naturalistico, antropologico, economico e artistico: Selve del Balzo. Dal 2007, grazie a un piccolo gruppo di amici che affianca con generosità ed energia il cammino dell’artista, nei capannoni di Selve del Balzo il legname proveniente dalle selve montane e dall’agricoltura si trasforma in parquet e tavolami pregiati per l’edilizia mentre, nella vecchia casa colonica, che Giliberti trasforma giorno per giorno adattandola alle sue esigenze vitali e di lavoro, l’artista

UNA SFIDA CONTINUA

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lavora alle sue nuove mostre e alle sue nuove opere che accolgono decisamente, nei materiali e nei contenuti concettuali la nuova esperienza di vita. Così in Working Class, sua prima mostra personale nella galleria Guidi di Roma ( 2008) , compaiono materiali nuovi, listelli di pioppo e di castagno utilizzati insieme alla cera d’api pigmentata che da sempre l’artista adopera nelle sue pitture, brevi racconti di vita degli operai di Selve del Balzo sono protagonisti di una video installazione. Il critico d’arte, Bruno Corà, già direttore del Museo Pecci di Prato, del Camec di La Spezia e del sistema museale del Canton Ticino, nel 2010, in occasione della sua ultima mostra personale, Il senso di Walden” scrive: .. in tal senso (…) si è voluto, di comune accordo, tirare in ballo il Thoreau del Walden, ovvero la vita nei boschi. Analogamente allo scrittore e filosofo statunitense, Giliberti, infatti, ha avviato un’esperienza di riflessione sul rapporto con la natura e il territorio silvano, in un luogo aspro e suggestivo dell’Italia meridionale, carico di risvolti non solo produttivo-ecologici (…) dall’avventura ormai avviata attorno alla masseria Varco di Rotondi, che lo impegna in una contiguità impensata con uomini e luoghi a lui poco noti e di cui alcuni resoconti video, già esibiti nella mostra del 2008 presso la stessa

galleria Guidi, hanno dato ampio conto, che inducono a parlare di una nuova incisiva fase ancorata a una nuova dinamo ideale che garantisce all’opera ulteriori sviluppi. Il singolare esperimento non resta inosservato, molti professionisti, in particolare legati alla ricerca architettonica in ambito universitario affiancano Selve del Balzo interessati al suo approccio complessivo e al suo porsi al limite di diversi territori. Così, lo scorso settembre in un workshop dell’IN/ARCH, glorioso Istituto Nazionale di Architettura, fondato da Bruno Zevi, tenuto dall’architetto Paolo Cascone in collaborazione della CMKM – architetti associati presso la Casa dell’Architettura di Roma è stata eretta una grid shell struttura in legno di castagno realizzata con il lavoro e con il legno di Selve del Balzo. Lo sguardo al territorio circostante non si ferma al bosco. La piccola falegnameria industriale di Selve del Balzo si trova in un meleto che diventa anch’esso oggetto della sperimentazione sia culturale che artistica di Giliberti: Nelle ultimissime opere piccoli dischi di legno di melo, ricavati dalle operazioni di potatura, sono disposti in ordine geometrico in grandi “teche” di vetro e legno di pioppo e mele annurche della masseria Varco, vere, piccole e bruttine sono l’oggetto di ripetute performance dell’artista, gesti semplici e quasi

sacrali, sbucciare, tagliare, offrire al pubblico. Di nuovo dallo scritto di Bruno Corà per la mostra “Il senso di Wolden”: cosa prova chi si reca in visita alla masseria Varco di Rotondi e osserva l’alchemico traffico che in essa si svolge? La qualità germinale sotto vari aspetti e gradi è una delle sensazioni più immediate e diffuse unita al sentimento di un vivere proto-urbano. Qualcuno potrebbe chiamarla ‘vita agra’, in opposizione a ogni forma di agio. Ma quegli aspetti che apparentemente sembrano denotare solo una condizione di disagio, col trascorrere delle ore o dei giorni si comprende che rivelano invece una più segreta qualità e perfino un gradevole sentimento di forza e affrancamento da molte necessità o pseudo bisogni indotti dai ritmi di vita consumistici. Quella di Giliberti e dei suoi compagni di avventura si rivela come un’esperienza che ‘forgia al di fuori della protezione’ (Rilke). Egli sembra in tal modo avere individuato una scelta qualificante per la maturazione del proprio linguaggio come della sua stessa attitudine all’arte. Reimmergersi criticamente nella natura, nel rischio vitale, nell’inedito, sinonimo d’invenzione e creazione, di vita nuova e di rinnovamento della propria arte.

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IL PENSIERO CREATIVO È

UN TALENTO DI TUTTI

di Angelo Coscia

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Si può partire da Platone, per parlare di talenti con i suoi “Daimon” ; oppure senza andare tanto indietro nel tempo, dal più vicino Disney con la sua fatina Trilly che alla nascita scopre il suo talento e prova a conviverci. Allora la domanda nasce spontanea: con un talento ci nasciamo? E se il nostro talento non ci piace?Il problema risulta solo uno: capire come si fa a riconoscere il proprio talento! Visto che non siamo come la fatina disneyana alla quale il proprio talento venne mostrato, può accadere quanto di più grave, che per un’intera vita non il nostro talento non lo riconosciamo e pertanto non lo sfruttiamo. A volte un talento diviene una cosa che si insegue per una vita, e anche per due, nella speranza di poter dare una svolta a una esistenza fatta di sacrifici; e questo lo sanno bene i tanti genitori che spingono i propri figli verso fantomatici sogni di gloria calcistici o di ribalta. Non è facile restare immuni a questo contagio continuo che ci viene dal mondo che ci circonda, siamo costantemente incitati a sviluppare un talento e a mostrarlo, a volte anche fingendo. Qui mi verrebbe da chiedere: con questa corsa forsennata verso la gloria non stiamo forse spingendo un talento? La capacità di sognare e di spe-rare non è forse un talento?Scuole di ogni genere si aprono per offrirci spazio per i nostri talenti, vere e proprie palestre per sogni, ma il risultato diviene sempre di più un annullamento di una capacità personale a favore di una continua immolazione di miti che c’è l’hanno fatta . Vivo a contatto con diverse fasce generazionali e fatico a difendere quanto di più prezioso possediamo, sento un continuo attacco al pensiero creativo e alla capacità dell’uomo di essere unico, un’invasione costante del pensiero razionale che ci dice che, se qualcosa non produce, allora non va sviluppata. Un mondo adulto che trasforma la stanza del bambino in una scatola di computer con lo spazio ridotto al minimo nelle quali il bambino può delegare al giocattolo la sua creatività impigrendo un cervello che dimenticherà presto i suoi talenti. I bambini non leggono … i bambini non scrivono … allora verrebbe da pensare che i bambini non pensano… Invece non è così! I bambini conoscono bene il potere di uno spazio vuoto , la semplicità di una scatola di cartone e, quando ci riescono, danno sfogo al loro talento creativo, ma questo sembra distante per adulti che hanno accantonato il loro talento di genitori. La natura è diventata il monito per il futuro sulle magliette che incitano a un mondo ecologico , o il soggetto di anestetici documentari , abbiamo tolto ad essa il suo talento educativo: l’uccello che gioca al primo volo, il felino che gioca alla prima caccia, tutti che giocano l’amore alla vita. Un mondo di attori pieni di talento, messi in disparte da … non voglio diventare polemico! Viene da pensare, con tutte le declinazioni che la parola “talento” può avere, come è possibile che esistano persone prive di talento?Vuoi vedere che hanno capito tutto i talent-scout che hanno il talento di scoprire talenti. Il talento non è la soluzione ai problemi, ma è la chiave di accesso a un mondo nel quale proviamo gioia a stare. Il talento è quella capacità che ci permette di sopportare il sacrificio donandoci quel pizzico di soddisfazione nel fare qualcosa che sentiamo di saper fare bene. In attesa di una macchina che ci riveli se abbiamo talento, come nei lunapark c’è il pungi-ball che ci rivela la nostra forza, io scrivo, leggo e continuo a giocare: vuoi vedere che un giorno da tutto questo ne verrà fuori qualcosa? Intanto tra strumenti musicali mai suonati e quadri mai finiti, io credo di aver scoperto il mio talento : amare la vita! E questo mi dona felicità.

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“Festival del Acordeon en San Jorge: Ivan Monti gano’ el concurso y competira en Italia”. Era il 20 giugno scorso, e così

è cominciata l’avventura del giovane fisarmonicista di fama internazionale. Come una rondine è ritornato Ivan dall’Argentina, che per raccontare la sua storia,

prende in prestito l’allegoria fra l’emigrazione delle rondini e quella umana, che non conosce le sue origini, ma riconosce l’appartenenza a questi luoghi come naturale e immutabile. Diciannove anni, nato a Santa Fè, emigrante di seconda generazione, Ivan Monti è il vincitore del premio internazionale fisarmonico di Castelfidardo, ad Ancona, un premio che ha ritirato a settembre, e che gli ha consentito di visitare la terra natia dei suoi nonni. “Questa è la prima volta che vengo in Italia, e per me è un onore visitare i luoghi dove sono nati i miei nonni, e dove vive oggi la mia famiglia d’origine. Mio nonno è nato a Torella dei Lombardi, mentre mia nonna è nata qui a Sant’Angelo” - racconta Ivan, che studia fisarmonica all’università, per affermarsi come professionista. La vittoria del primo premio San Jorge in Argentina è un riconoscimento oltremodo prestigioso, famoso in tutta l’America del Sud, che seleziona appena quindici partecipanti in tutti i Paesi del continente e che apre le porte all’ascesa a livello internazionale. Dopo aver incassato un enorme successo in Argentina, infatti, Ivan è stato chiamato a Castelfidardo per concorrere al premio internazionale di fisarmonica, un appuntamento che accende i riflettori sulle industrie di Ancona che producono fisarmoniche. “Aver messo piede nelle industrie di Castelfidardo è stato come stringere la mano a Maradona”, rivela Ivan. “Poi i miei parenti sono venuti a prendermi per visitare l’Irpinia e conoscere finalmente i luoghi tanto cari ai miei nonni, che ho sempre cercato di immaginare dai loro racconti. Quando sono arrivato qui non ho avuto sorprese, anche se le descrizioni oggi non potrebbero corrispondere alla realtà, perché le cose credo siano cambiate”. Sprizza italianità da tutti i pori Ivan, che stringe la mano con affetto a chiunque si presenti, per puntellare senza sosta il legame con le proprie radici e con la propria cultura. Non solo tango argentino nelle note dello strumento dal quale non si separa mai, ma soprattutto la tarantella: “Ho ereditato la passione per la fisarmonica da mio nonno, che suonava la tarantella e mi raccontava dell’Italia, di quando fu fatto prigioniero dai tedeschi, durante la Seconda guerra mondiale, e del suo viaggio in Argentina alla ricerca di fortuna. Ho iniziato a suonare a dieci anni, le note della tarantella, senza mai poter vedere la terra che aveva dato origine a tutto questo. Ora che sono in Italia, il legame è sicuramente più forte. Sono molto contento di essere stato qui; sono stato anche ospite della scuola del paese, dove ho ricevuto una calorosa accoglienza e ho suonato con i ragazzi”. Oltre alla passione per la tarantella, Ivan racconta di aver scoperto quella per il cibo, in particolare per il caffè, e di essere attratto dalle montagne che sovrastano l’Alta Irpinia. “La prima cosa che ho notato quando sono arrivato qui, sono state le montagne; non ci sono zone di pianura come in Argentina, e poi ho subito notato le differenze nelle abitudini quotidiane. Il caffè qui è un’abitudine, da noi non è così. Credo che abbiamo molte affinità come modi di vivere, abbiamo lo stesso modo di fare… insomma qui mi sento a casa; siamo

Le note della seconda generazione

IVAN MONTI

di Elisa Forte

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diversi ma simili”. A detta del fisarmonicista di fama internazionale, gli italiani che vivono oggi nel nuovo continente tendono a conservare le loro radici, ma hanno assorbito anche la cultura del posto, hanno reciso non il legame che li unisce al Bel Paese, ma la malinconia che non gli consentirebbe di diventare argentini. “In Argentina frequentiamo gli italiani, anche se non ne conosciamo molti, al massimo posso elencare due o tre comunità di italiani, ma non sono ghettizzati, anzi. Incontrare persone di origini italiane o spagnole non è una rarità, ma si considerano argentini, tant’è che ci interessiamo dell’Italia nella misura in cui se ne parla al telegiornale. Il mio sangue è italiano, ma io sono argentino”. L’idea di trasferirsi in Italia non è fantascienza, né irrealizzabile. “Mi piacerebbe molto venire a vivere qui, ma non ho pensato a questa possibilità, anche se qui c’è la mia famiglia, e sarei a casa. Questo viaggio per me sarà sempre un’esperienza incredibile che ho vissuto e che non dimenticherò mai. Spero di ritornare, il prossimo anno, per approfondire uno studio sulla fisarmonica perché i migliori insegnanti sono in Italia”.

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30 ANNI DOPO ...

Le fabbriche, il terremoto e il destino delle aree interne

Produrre discussione a partire dai dati della ricerca, dando possibilità di espressione a giovani ricercatori, giornalisti, grafici, videomaker, promotori culturali, è l’idea che sta alla base del lavoro dell’Osservatorio sul Doposisma, struttura totalmente finanziata dalla Fondazione Mida, che gestisce le Grotte dell’Angelo di Pertosa, con budget annui limitati, a dimostrazione che non sono i soldi che determinano il successo o lo sviluppo del Sud, ma le idee originali e il sacrificio quotidiano di difenderle e realizzarle. L’Osservatorio ha promosso a fine agosto 2011, insieme alla Fondazione MIdA, un festival intitolato “Felicità interna lorda – Il Sentimento dei luoghi”, perché è proprio dalla passione, la cura e l’amore per i luoghi che si può mutare l’orizzonte del tempo presente. Il rapporto 2011 dell’Osservatorio sul Doposisma, intitolato “La fabbrica del terremoto. Come i soldi affamano il Sud”, mette le mani nella piena attualità di una crisi industriale e produttiva drammatica per le aree interne della Campania. L’idea di partenza che ha animato il lavoro di ricerca del gruppo dell’Osservatorio è l’attualità e il destino delle aree industriali della 219. Partendo quindi dal contesto globale e analizzando diversi casi recenti di terremoti e ricostruzioni (la ricerca è stata curata da Lucia Lorenzoni e Nicola Zambli dell’Area Ricerche del Monte dei Paschi di Siena), si è poi arrivati ad esplorare le venti aree industriali campane e lucane, le loro difficoltà ma anche le piccole eccellenze, cercando di carpire quali dinamiche produttive riscuotono risultati migliori e quali potrebbero essere le future linee di investimento Nel rapporto è inserito anche un censimento aggiornato di quante aziende e quanti addetti lavorano oggi nelle aree industriali (il saggio si intitola “Passarono gli anni e il nuovo non venne”, curato da Pietro Simonetti e dal sottoscritto). Poi, attraverso gli strumenti dell’ antropologia, Teresa Caruso ha cercato di raccontare come

di Stefano Ventura

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il popolo di Caposele ha attraversato questi trent’anni di doposisma e quali sono oggi i segni di quell’evento spartiacque. Completa il volume un’intervista a Gianfranco Viesti, noto economista e presidente della Fiera del Levante. Il punto focale dell’indagine è ben presto diventato il problema del riequilibrio demografico tra l’osso e la polpa del Sud. La proposta che emerge dal rapporto è quella di un equo bilanciamento tra aree metropolitane e costiere, che passi attraverso la mobilità reticolare, un’operazione che potrebbe compiersi attraverso la riattivazione e il ripristino di un sistema ferroviario efficiente che potrebbe garantire una mobilità sostenibile alle aree interne ormai disabitate. Ad esse il terremoto ha lasciato in eredità un enorme surplus di case inutilizzate; di contro le aree costiere, sovraffollate, producono la fabbrica mangiasoldi dell’emergenza. Si tratta di uno squilibrio che restituisce un territorio ingovernabile, rendendo la vita impossibile sia a Napoli sia in Irpinia. A Napoli gli ospedali sono sovraffollati e si rischia di essere dimenticati in una corsia in attesa di essere curati, qui per raggiungere il primo pronto soccorso occorre percorrere chilometri e chilometri. A Napoli la spazzatura è l’eterno marchio d’infamia, qui si fa la raccolta differenziata con percentuali svizzere. Ma il problema non può essere così semplificato, va declinato in un contesto globale ampio, e nel rapporto a farlo è Gianfranco Viesti, uno dei massimi esperti di politica economica e Mezzogiorno. L’Italia è poco attrattiva per gli investimenti, e ancor meno lo è il Sud; anche i consumi e la domanda interna sono in forte calo, e lo saranno anche nei prossimi tempi senza interventi forti in economia. L’unico gancio possibile è il mercato internazionale, l’export, valorizzare quello che già abbiamo rendendolo competitivo e puntando sulla qualità. I limiti maggiori verso questo obiettivo sono tuttavia quelli infrastrutturali e di contesto; nel Mezzogiorno è più

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scadente il sistema di trasporti e mobilità, il sistema dei servizi, il binomio scuola-lavoro e la effettiva incisività delle Università nel formare nuove classi dirigenti. Un esempio lampante è dato dal turismo; le bellezze paesaggistiche, gastronomiche e culturali del nostro Mezzogiorno possono essere attrattore di flussi importanti di nuovi turisti dai paesi emergenti (Cina, India, Brasile), ma sulle professionalità e sulle strutture (aeroporti e vie di comunicazione, marketing territoriale, servizi) c’è ancora un netto svantaggio del Sud rispetto ad aree più competitive in Italia e nel resto del Mediterraneo. Secondo lo studio, anche il recente flusso miliardario dei fondi europei non ha invertito la rotta e “l’ esondazione finanziaria costruisce rivoli di spreco i quali contribuiscono a irretire ogni angolo della coscienza civile, ad anestetizzare l’iniziativa privata e rendere la società totalmente piegata dall’attesa dell’intervento pubblico salvatore. Le terre del Sud hanno invece bisogno di un’attenzione costante attraverso una manutenzione ordinaria del suo territorio”. Al Sud, a questa parte del Sud, non serve l’alta velocità. Basta la velocità normale, accettabile, compatibile con i tempi della vita quotidiana: “ad esempio - dice il rapporto - un numero di corse sufficienti in un sistema reticolare di trasporto”, per migliorare la qualità della vita di chi vive il soffocamento delle metropoli e la desolazione dei paesi. Ma al Sud serve anche passione e comunione d’intenti e, come dice Viesti, non si può più pensare di “fare da soli”, perché anche la migliore comunità locale non può essere pienamente autonoma e in tempi grigi come questi. Bisogna guardare anche agli stimoli e alle possibilità che vengono dal Mediterraneo e dal panorama globale e pensare fuori dagli schemi; per farlo sarebbe senza dubbio lungimirante puntare di più su giovani, donne e nuove tecnologie che sulla vecchia politica.

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questa la sfida più difficile- spiega Arcangelo Iapicca, il giovanissimo imprenditore che ha deciso di investire in questo progetto- la nostra principale intenzione e innovazione è proprio quella di concentrare intorno agli ospiti il nostro interesse a 360 gradi, cercando di soddisfare tutti i loro bisogni grazie alla preziosa collaborazione di operatori OSA, in struttura 24 ore su 24, di fisioterapisti e di animatori. Da non dimenticare la massima attenzione che noi dedichiamo all’aspetto sanitario garantendo la costante presenza del medico e del personale infermieristico. La nostra residenza - continua il Dott. Iapicca- non è moderna solo nell’aspetto, lo è sopratutto nel concetto che ci ha spinto a crearla, abbiamo cercato di strutturarla in modo da risultare accogliente e dinamica, attraverso la costruzione di una palestra, di una moderna sala ristorante, di una sala lettura e di diverse sale tv. Ogni cosa è pensata per far sentire l’ospite a proprio agio ed accolto in un clima familiare che ha come sfondo del personale fortemente qualificato”. Cosa spinge dunque un giovane ad investire in un settore così particolare è presto detto “Aldilà delle questioni strettamente imprenditoriali- ha spiegato Arcangelo- è davvero soddisfacente affiancare al mio lavoro un profondo arricchimento personale derivato dal rapporto che si stringe con gli ospiti della residenza, lo stesso che ci porta ad essere attenti e disponibili alle esigenze di ognuno di loro con partecipazione e passione. Villa Gioconda- continua- offre servizi di

Villa Gioconda,

il rispetto

della personaCi sono preconcetti che si smentiscono con un solo sguardo. Entrare a Villa Gioconda la ‘Residenza per anziani a 5 stelle’, ti fa immediatamente dimenticare il vecchio e superato concetto di ‘Casa di riposo’.Niente di più lontano da ciò che è questo elegante e funzionale edificio situato a Rocca San Felice, nel verde dell’Alta irpinia, a pochi km dalle terme di san Teodoro. Si sperimenta qui un nuovo concetto di accoglienza per gli anziani, molto vicino ad un vero e proprio albergo nel quale svolgere attività ricreative, cure fisioterapiche e trascorrere le giornate nella normalità. “E’ proprio

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riabilitazione attraverso interventi di fisioterapia di gruppo che si svolgono settimanalmente nella palestra attrezzata, sono inoltre previsti degli interventi personalizzati”. La Dott.ssa Maria D’Adamo è la direttrice della struttura e le sue parole fanno eco a quelle di Arcangelo ”Le persone che accogliamo - spiega- arrivano con un pesante carico di diffidenza, abbattere questo muro è la parte più difficile, lo facciamo attraverso la professionalità del personale e la collaborazione tra le varie figure professionali prevedendo per ogni ospite un’accoglienza personalizzata adatta alle diverse esigenze di ognuno”. Villa Gioconda esiste da poco più di un anno ma ha al suo attivo già una lunga serie di progetti, ognuno dei quali è studiato e pianificato dopo un’attenta riunione di equipe che coinvolge l’intero personale: ‘Le stanze del piacere’ laboratorio per la stimolazione dei 5 sensi, ‘Giochi cognitivi’ dei veri e propri allenamenti per il cervello per tenerlo attivo, ‘Raccontiamoci’ momenti di aggregazione nei quali ci si scambiano esperienze e si narrano le proprie storie. Un fiore all’occhiello è il ‘Progetto intergenerazione: anziani e bambini insieme’. “Grazie a questa esperienza- spiega la dott.ssa D’Adamo- abbiamo aperto le porte della Residenza anche al territorio, coinvolgendo le scuole e le associazioni locali. Nel mondo occidentale la vecchiaia è vista come una malattia noi vogliamo sfatare questo tabù aprendo le porte alla condivisione attraverso la musica, le uscite e i laboratori. I bambini non hanno pregiudizi- aggiunge- sono i soggetti ideali da coinvolgere anche perchè, è stato accertato, che il contatto con gli anziani li costringe a ritmi più lenti portandoli ad essere più concentrati”. Villa Gioconda è completamente aperta e libera, la residenza è visitabile e gli ospiti possono recarsi ovunque vogliano andare autonomamente, qualora non fossero in grado di uscire da soli, ci sarà del personale a disposizione per accompagnarli. Le specificità della struttura si uniscono ai classici servizi, dall’assistenza medica ed infermieristica al supporto psicologico fino agli incontri di animazione.” L’età media si è allungata- conclude il dott. Iapicca- i ritmi frenetici a cui siamo costretti spesso ci spingono a non poterci prendere personalmente cura dei nostri cari, noi vogliamo fornire loro un servizio completo attraverso il quale possano sentirsi a casa, per tale ragione ci preoccupiamo anche di mettere a disposizione parrucchieri ed estetisti per coprire ogni esigenza che si presenti. Il nostro interesse intorno alla persona è totale e va oltre l’impegno lavorativo”. Un’efficace sintesi di quanto detto è affidata alle parole di Cesare Pavese che si leggono sul sito www.villagioconda.it ‘L’unica gioia del mondo è cominciare. E’ bello vivere perchè vivere è cominciare sempre, ad ogni istante’la sfida più difficile -

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Un momento di incontro importante per discutere di un tema attuale e scottante come quello dell’emigrazione. L’occasione è data dalla presentazione del rapporto Migrantes nel convegno organizzato da Officina Solidale in collaborazione con il Comune di Conza della Campania e la Fondazione Migrantes. Rosanna Repole presidente di Officina Solidale ha spiegato il motivo dell’incontro “La Fondazione lavora sinergicamente con tutte le forze sociali per valorizzare il territorio e per tutelare i diritti dei cittadini. La scelta di Conza della Campania non è casuale, questo si è dimostrato un paese ospitale e sensibile e lo dimostra la presenza sul suo territorio di una casa per rifugiati politici. Questi ragazzi, provenienti dall’Africa, non sono ospiti, è importante sottolineare che sono perfettamente integrati nel tessuto sociale. E’ necessario- ha aggiunto- recuperare il contatto con chi è andato via, e per tale ragione qualche mese fa Officina ha ospitato un numeroso gruppo di argentini che ha avuto la possibilità di visitare l’Irpinia e la Campania. In quest’ottica il rapporto Migrantes diventa una occasione di riflessione, parlarne oggi a 150 anni dall’unità d’Italia è una ulteriore risorsa da coltivare attraverso uno scambio relazioni e rapporti”. A prendere la parola anche il padrone di casa Vito Farese primo cittadino del paese altirpino “L’ emigrazione qui è un tema ricorrente. Io stesso sono nato in Belgio, mio padre è stato minatore quando lo Stato Italiano pagava la manodopera straniero con il carbone. I nostri padri hanno rischiato giorno per giorno la vita, con la speranza di poter rientrare in Patria, tanti non ce l’hanno fatta ma in molti all’estero si sono distinti. Credo sia normale aprire le porte del proprio paese a chi è in difficoltà, quelli che attualmente stiamo ospitando fanno parte di un progetto che è in piedi dal 2006 ed è unico nel suo genere in provincia di Avellino. Da qualche giorno- ha aggiunto il sindaco- ci è giunta notizia della possibilità di ampliare il numero di richiedenti, da 15 passeranno a 20 il tutto nel giro di qualche settimana”. Anche Stefano Farina sindaco di Teora e consigliere provinciale ha testimoniato quanto sia vasta la presenza di italiani all’estero portando Teora come esempio “Nella difficoltà del mondo che ci ospita parlare di emigrazione equivale tristemente a parlare di spopolamento. La particolarità attuale rispetto agli anni ‘50 è che oggi chi parte lo fa in modo definitivo. Nel passato c’era la consapevolezza che la permanenza all’estero fosse solo una fase transitoria nella quale ci si preparava al meglio al rientro. Viviamo un paradosso, i giovani vanno via per mettere la loro professionalità a disposizione di altri popoli

Fondazione Officina Solidale Conza, nasce l’idea di un museo

regionale dell’emigrazione

MIGRANTES

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e di altre nazioni, non dobbiamo però rassegnarci e pensare che questa sia una condizione irreversibile, c’è la necessità di comprendere che l’integrazione può essere una risorsa per il tessuto sociale”. Un punto di vista diverso quello del consigliere regionale Rosetta D’Amelio che ha trattato l’argomento in ottica femminile “Come è noto- ha detto- l’Italia in passato ha subito una forte ondata migratoria ed è altrettanto vero che si è distinta ovunque, i nostri compatrioti hanno portato la loro professionalità all’estero contribuendo all’arricchimento dei paesi ospitanti. Credo- ha spiegato- che dovremmo impegnarci nel recupero delle nostre radici e nella valorizzazione della nostra lingua che, in molte parti del mondo, è considerata fondamentale. Se fossimo in grado di approfondire questo aspetto potremmo farne un punto di forza per lo sviluppo del turismo e dell’economia, è una strada percorribile come ha dimostrato la visita degli argentini nelle scorse settimane. In questa particolare analisi fondamentale è la figura della donne che fungono da custodi della tradizione. La Campania è la regione con il più alto numero di immigrate questo dovrebbe farci riflettere sulla necessità di una diversa struttura di welfare che consideri l’ importanza della politica dell’accoglienza e della solidarietà con particolare attenzione alle differenze di genere” E’ stata Delfina Licata caporedattrice del rapporto a spiegare l’importanza di questo documento giunto ormai alla sesta edizione “Dal 2006 c’è stata una svolta- ha spiegato- abbiamo deciso di approfondire l’aspetto storico valutando come il ‘diverso’ molto spesso rappresenti una occasione di arricchimento e di confronto. Il maggiore flusso migratorio italiano attualmente riguarda il meridione mentre le mete preferite restano Stati Uniti e centro Europa.” Rilevante il dato che riguarda i giovani “Il 40% dei ragazzi intervistati tende, per studiare e per approfondire il percorso formativo, a spostarsi all’estero”. Coautore del rapporto Toni Ricciardi che ha spiegato l’importanza dell’immigrazione come viatico di sviluppo anche attraverso una proposta concreta” In questa sede- ha spiegato- potremmo iniziare a pensare alla creazione di un museo regionale dell’emigrazione che potrebbe diventare un faro per il turismo locale e nel contempo creare una sorta di identità condivisa”. Interessante il contributo di Franco Vittoria che insieme a Silvio Sarno ex presidente di Confindustria hanno posto l’accento sulle contraddizioni della realtà meridionale e nazionale: “In una società globalizzata- ha detto poi Sarno- è improprio parlare di emigrazione, lo straniero, mai come in questo forte momento di crisi, può rappresentare una risorsa lavorativa. E’ indubbio che sia più semplice confrontarsi con una società che sia aperta e disponibile al confronto: queste comunità possono essere create solo lavorando intelligentemente sul tessuto territoriale. Un grosso contributo può arrivare dalla politica che dovrebbe creare le condizioni per sviluppare la collaborazione e la convivenza”. Una battuta anche dal Vescovo Alfano che ha raccolto la provocazione del giornalista Antonio Porcelli evidenziando quanto sia importante in questo mondo fatto di indignati e di disagiati, rinnovare la reale speranza “La Chiesa- ha dichiarato Mons. Alfano- dovrebbe essere al loro fianco con maggiore coraggio e partecipazione”. Anche Enzo De Luca ha voluto portare il suo contributo alla discussione rimarcando ancora una volta l’importanza dell’emigrazione come occasione di crescita e di confronto “Gli stranieri- ha spiegato- nel nostro territorio oltre a rappresentare una risorsa contribuiscono notevolmente ad aumentare il tasso di natalità che nella provincia di Avellino è bassissimo. Condivido e sostengo- ha concluso- l’idea del Museo credo che possa essere uno strumento importante per la valorizzazione del territorio e un luogo di interscambio tra famiglie per non disperdere la memoria e l’identità”

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Carmen Giannattasio

di Tiziana Pianese

Forse non tutti sanno che l’Irpinia ha dato i natali al Maestro Carmen Giannattasio, artista soprano molto apprezzata nel panorama mondiale della lirica, il cui incontro con la musica è avvenuto nel Convento dell’ordine delle carmelitane di Solofra, dove all’età di due anni “scappava” dalla sala dei giochi per ascoltare una suora suonare Chopin al pianoforte. Chiese ai suoi genitori di averne uno in regalo e successivamente si iscrisse al Conservatorio “Cimarosa” di Avellino per studiare pianoforte e canto, trovando anche il tempo di laurearsi in russo e inglese presso l’Università di Salerno. Abbiamo approfittato della sua presenza a Solofra, per qualche giorno di visita ai genitori, per porle alcune domande dato. Il soprano infatti vive a Londra, città che praticamente l’ha adottata.

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Come mai ha scelto proprio questa città, lei che gira per il mondo?E’ una città cosmopolita, internazionale, molto centrale, che mi permette coi numerosi collegamenti aerei di raggiungere velocemente tutte le destinazioni del mondo. E’ una città che ha molto da offrire sia a chi fa un lavoro artistico come il mio, sia a chi conduce - diciamo - una vita più normale. Nello stesso giorno ci sono decine di eventi, concerti, mostre, si ha solo l’imbarazzo della scelta! Mi piace questo melting pot, questa mescolanza di lingue, razze e culture integrate tra loro: lo trovo affascinante

Preferisce lavorare nei teatri italiani all’estero? E perché?Preferisco lavorare nei teatri esteri perché sono più efficienti e professionali e c’è maggiore rispetto per le esigenze di noi artisti. L’Italia è diventato un Paese dove la cultura attraversa un periodo molto difficile, che non consente soprattutto ai giovani di esprimere le proprie capacità, di sfruttarle al massimo e farle maturare. Inizialmente, è stato difficile lasciare il mio Paese, ma oggi sono contenta di averlo fatto. La Gran Bretagna ha favorito lo sviluppo della mia carriera sul piano internazionale. Nemo Profeta in Patria!

Qual è l’opera in cui si è immedesimata di più?Ermione di Rossini… Venivo fuori da un periodo particolare della mia vita, dove gli eventi personali s’intrecciavano con quelli interpretativi. L’incisione di quest’opera è stata molto convincente, forse proprio perché molto sentita!

Quali emozioni prova quando si esibisce sul palcoscenico?E’ molto difficile da spiegare. Si provano talmente tanti sentimenti in tre ore di performance. Quasi come quelli di una intera vita.

Qual è il compositore che secondo lei è più adatto alla sua vocalità?Giuseppe Verdi…

Un giornale ha scritto che le sue capacità attoriali e la sua fisicità mediterranea sono state paragonate alla “grande attrice del neoralismo italiano Anna Magnani”. Cosa risponde a tal proposito?Sono molto lusingata, anche un po’ imbarazzata a essere stata paragonata a una delle attrici italiane più grandi di tutti i tempi. E’ un mostro sacro! Intoccabile!

I l suo lavoro la porta continuamente a calcare le scene dei più grandi teatri e sale musicali del mondo e a lavorare con direttori e registi di fama internazionale. Quale teatro l’ha affascinata maggiormente? E quale direttore d’orchestra predilige?Sicuramente la Scala: avevo 24 anni quando ho fatto il mio debutto nel mondo dell’opera. Ho iniziato dal livello più alto che di solito si consegue a carriera inoltrata. Ci sono molto direttori ai quali sono affezionata. Ognuno ha una peculiarità e una dote differente dagli altri. Diciamo allora che mi piacerebbe lavorare al più presto con Pappano, col quale non ho avuto ancora l’onore e il piacere.

In ultimo, cosa suggerisce ai giovani che amano la musica e studiano per diventare dei grandi talenti?Di studiare tanto, ma proprio tanto. Non solo il proprio strumento, ma interessarsi anche alla pittura, alla letteratura, alle lingue che sono strettamente collegate alla musica e che creano un bagaglio completo. Inoltre leggere quanto più possibile, è un allenamento per la mente e leggere quanto avviene nel nostro Paese e fuori dai nostri confini. Bisogna sempre essere informati su tutto. Il nostro lavoro ci porta a viaggiare in tutto il mondo e a conoscere persone di culture, credo e lingue diverse. Non c’è niente di meglio che poter conversare di altre realtà sapendo ciò di cui si parla. Infine credere nelle proprie capacità e lottare per affermarle. Mai arrendersi al primo ostacolo. Tutti ce la possono fare!

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ARTE IN CAMMINO

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Tiziana Pellecchia, la forza dell’ anima

Tiziana Pellecchia ha al suo attivo molteplici e poliedriche esperienze artistiche che spaziano dalla musica alla recitazione collaborando con persone di chiara fama, ricordiamo tra queste il recital teatrale “Femminile Napoletano” al fianco di Annamaria Ackermann, ed il Musical “C’era una volta Hollywood” di e con Carlo Buccirosso. Ha interpretato il ruolo di Clitemnestra nella rappresentazione teatrale “Orestea”, tratta dall’omonima tragedia greca di Eschilo, con la regia di L. Galassi; ha recitato nella rappresentazione teatrale “Orazio-Odi” ed ha, inoltre, recitato in diversi spettacoli del Teatro Bellini durante la frequenza dell’Accademia d’Arte Drammatica. Da sempre cantante versatile sfrutta la sua abilità canora passando abilmente dall’Opera Lirica alla musica leggera ed al Jazz; si è esibita in concerti, manifestazioni ed eventi organizzati su tutto il territorio nazionale, ed in Spagna, Svizzera e Francia, in luoghi di interesse storico-culturale nonché auditorium e teatri cantando con formazioni che vanno dal duo all’ensemble. Riguardo alle esperienze locali si è esibita in qualità di voce solista nel recital “Blue Note”, in occasione della Notte Bianca della città di Avellino presso il Teatro “C. Gesualdo”; in qualità di soprano nello “Stabat Mater” di G.B. Pergolesi in collaborazione con l’ensemble “Zenit 2000” presso il Teatro Comunale di Agnone e l’Auditorium “S. Della Porta” di Avellino; sempre in qualità di soprano ha cantato in diversi concerti con l’orchestra “Collegium Philarmonicum” composta da Maestri del Teatro San Carlo di Napoli, in luoghi di interesse storico-culturale come l’Anfiteatro Santa Barbara di Castel Sangiorgio, il Parco Archeologico di Mirabella Eclano, la chiesa di Santa Maria dell’Incoronata di Napoli ecc. .Ha, inoltre, partecipato all’opera “I Cantori di Brema” di G. Panariello ed al Coro Inter-Universitario di Roma per Papa Giovanni Paolo II in occasione della Giornata Mondiale Della Gioventù, presso la “Sala Nervi” in Vaticano.Vincitrice del concorso “Nuovi Talenti per VOGUE”, ha realizzato uno shooting fotografico ed un video per la rivista di moda più nota al mondo: “VOGUE”.Ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie “Le Infinite Schiere Angeliche” per la Casa Editrice Albatros-Il Filo, per cui ha già partecipato alla Fiera Internazionale del Libro di Torino, alla Fiera Internazionale del Libro di Francoforte; parteciperà alla prossima Fiera “Più Libri Più Liberi” di Roma, alla Fiera Internazionale del Libro di Londra ed alla Fiera Internazionale del Libro Book Expo America. Presenterà ufficialmente il

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suo libro il prossimo 10 dicembre presso la libreria “Il Filo” di Roma. Ha promosso la sua opera attraverso l’intervista per la trasmissione televisiva “Se Scrivendo”, “Book Shelf”, “10 Libri” e la trasmissione radiofonica “La Luna e i Falò”, per i quali rilascerà una seconda intervista il prossimo gennaio. “Le Infinite Schiere Angeliche” è presente nelle Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze. L’opera è distribuita dalla “Feltrinelli” su tutto il territorio nazionale, oltre ad essere presente nelle maggiori librerie on-line e già disponibile nelle librerie di Avellino.A breve verrà iscritta ai maggiori concorsi e premi letterari; è, inoltre, disponibile una pagina web dedicata alla sua opera. Presentatrice e voce recitante in varie manifestazioni, tra cui lo spettacolo “Vivaldi & Friends” presso il Teatro Regina Margherita di Avellino. Ha lavorato in qualità di giornalista ed interprete nonchè traduttrice per la Tv Satellitare Family Life TV nel Campo Internazionale della Croce Rossa per i Paesi dell’Area Mediterranea “Atlantis 2005” e come speaker radiofonica presso emittenti pugliesi. È stata aiuto-regista di A. Callipo per lo spettacolo ”Venera lo spirito, Mozart tra Genio e Massoneria”, ed ha prestato la sua collaborazione, sempre in qualità di aiuto-regista, per lo spettacolo “Musica a corte”.E’ stata relatrice in qualità di esperta della voce nel canto in occasione in occasione di convegni promossi dall’Associazione Internazionale F.I.D.A.P.A.E’ agente dell’orchestra “Collegium Philarmonicum”, nonchè di artisti del mondo musicale, teatrale e delle arti figurative per i quali organizza eventi e manifestazioni culturali su tutto il territorio nazionale. Ha, inoltre, completato la sua formazione studiando per sette anni danza classica e per tre anni danza moderna presso la scuola di Valeria Lombardi (ex prima ballerina del Teatro S.Carlo di Napoli).

“Le Infinite Schiere Angeliche”La prima silloge di Tiziana Pellecchia è eterea, delicata, capace di tratteggiare i contorni di un mondo parallelo, di una dimensione che sfiora l’onirico, trasportandoci in un luogo senza tempo, né spazio, dove le regole del mondo quotidiano sono sovvertite, dove è l’emozione a far da padrone, e il cuore il centro di tutto. Le sue parole, associate in versi sciolti, partono dai frammenti più nascosti dell’anima per arrivare oltre la carta stampata, per staccarsi dalla scrittura stessa e toccare il segreto io del lettore, muovendolo a commozione. C’è una chiara volontà di intraprendere un percorso, qualunque sia il prezzo da pagare, un cammino intimo, vitale, che va di pari passo con la maturità poetica; se la vita è intensa, anche la poesia lo sarà, dal conflitto nascono i versi più alti. La sofferenza è il prezzo da pagare per arrivare, per giungere al vertice. Tiziana Pellecchia non ha paura, non si ferma di fronte alle avversità, ma le affronta a testa alta per andare avanti, sempre più lontano. E’ ciò che si prefigge all’inizio del suo lavoro, e quest’obiettivo diventa, nello stesso tempo, punto di inizio e di fine del suo incessante viaggio, in cui si troverà a fare i conti con l’inevitabile scorrere del tempo, con la forza della natura, ma, soprattutto, con l’amore, tema centrale e portante delle sue pagine.

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Pasta Baronìa: l’intuizione imprenditoriale finita sulle tavole di tutto il mondo

La conversazione con Gabriella De Matteis, responsabile della comunicazione della De Matteis S.p.a. si apre con una precisazione “La generazione che oggi guida questa azienda- spiega- è ‘beneficiaria’ di un’intuizione nata dalla mente di mio padre e dell’ingegner Grillo, due amici, che da veri imprenditori, hanno avuto la lungimiranza di cogliere il momento giusto per rendere reale un’idea che poi si sarebbe rivelata vincente”. Quell’intuizione oggi si chiama pasta Baronìa ed è sulle tavole di tutto il mondo dal 1993. “L’investimento di mio padre e di Grillo, risale a 18 anni fa. Decisero allora di rilevare il vecchio pastificio e mulino ‘Pallante’, con l’idea di rilanciare l’antica tradizione molitoria irpina, risalente già al lontano 1870, anno di nascita dell’antico Molino di Lioni, crollato durante il sisma del 1980, delocalizzando la produzione nell’entroterra irpino”. Pasta Baronìa porta la tradizione e l’appartenenza del nome ma, come sottolinea la stessa De Matteis, è ben lontana dal semplice ambito locale “ Oltre ai prodotti a marchio Baronìa produciamo pasta per le private labels di alcune delle principali catene distributive italiane, inglesi, tedesche e americane, con un piccolo rammarico…quello di vendere poco in Irpinia. Baronìa non è leader nel suo territorio, in sintesi il paradosso è che nel Triveneto si mangia più Baronìa che in Irpinia. In ogni caso il nostro sviluppo all’estero con l’approvazione delle grandi multinazionali della distribuzione dimostra il livello di qualità”. Cosa rende credibile a livello internazionale il gruppo De Matteis è presto detto “I pastifici esistono in tutto il mondo- dice la De Matteis –ma ciò che rende speciale un’azienda è la cura che mette nel proprio lavoro, l’attenzione e la versatilità con la quale agisce in un settore incredibilmente variegato e tipicamente italiano”. L’ambiente conviviale, fortemente intriso di passione, si nota a prima vista entrando nel pastificio di Valle Ufita. Quanto conta dunque, nel pieno della globalizzazione, basare le fondamenta dell’azienda su una struttura familiare? “Questa azienda è la mia famiglia- spiega la Dott.

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LE ECCELLENZE

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ssa De Matteis- quando ripenso al passato ricordo anche l’immensa fatica e i grandi sacrifici fatti principalmente da mio padre per arrivare dove siamo oggi. C’è stata una forte convergenza di forze e di passione che ci hanno spinti aldilà di quel limite che di solito hanno le aziende a conduzione familiare, abbiamo cioè imparato a delegare, a distribuire le cariche più importanti a grandi professionisti che ci hanno traghettati verso l’eccellenza”. E’ proprio di eccellenza parla quando spiega la nuova idea della pasta Baronìa che porterà il nome di suo padre: Grano Armando ” Si tratta- racconta orgogliosa- di una nuova linea di pasta, con grano selezionato 100% italiano. Il progetto è partito circa due anni fa e ha trovato la sua concretizzazione con un contratto di coltivazione denominato “Armando”, il quale prevede la semina di alcune tra le più selezionate varietà di grano duro della Coseme, il costitutore cerealicolo tra i più importanti a livello nazionale, e il rispetto di un disciplinare di coltivazione secondo le migliori pratiche agronomiche”. Si tratterà di una sorta di ‘do ut des’ con i coltivatori ” In cambio- sottolinea- la De Matteis riconoscerà agli agricoltori un prezzo minimo garantito e un premio di qualità. Armando è il nome di una nuova varietà di grano dalle caratteristiche straordinarie che sta terminando la sua fase di sperimentazione per poi aggiungersi alle altre varietà incluse nell’iniziativa e diventarne la punta di diamante. Inoltre- aggiunge- il grano coltivato secondo il disciplinare verrà destinato alla produzione di alta qualità prodotta con

grano selezionato 100% italiano. L’intero processo dal grano alla pasta avverrà all’interno dell’impianto De Matteis, che ricordo, è in grado di integrare la fase di macinazione del grano con quella di pastificazione. Accanto a questo vorremmo stimolare la produzione, cercando di ritornare, in qualche modo, ad uno sviluppo agricolo che tende a calare e che potrebbe essere volano di crescita per i nostri territori in forte crisi”. Gabriella De Matteis, è madre di due bambine di 9 e 11 e va da sé chiedere come faccia a conciliare la sfera privata con quella lavorativa “Voglio precisare- incalza- che io non amo definirmi imprenditrice, sono piuttosto una lavoratrice. Il vero ed unico imprenditore nella mia famiglia è mio padre colui il quale è stato capace di costruire tutto quello che oggi ci troviamo a gestire. Ci ha trasmesso l’amore per questo territorio al quale vorremo poter chiedere qualche servizio in più. Avremmo voluto- spiega- sviluppare un polo logistico, magari attraverso l’apertura del casello autostradale che potesse concorrere all’incentivazione dell’area industriale”. Un’ ultima considerazione è dedicata alla vera forza del marchio Baronia “ Quello che proponiamo – dice- è qualità reale che oggi spesso sparisce oscurata dall’economia e dalla finanza virtuale. Siamo molto fieri del gruppo di lavoro che abbiamo messo insieme, siamo al tempo stesso radicati, creativi ed impegnati in un progetto dinamico ed intriso del senso di sacrificio ereditato da mio padre e dall’ing. Grillo. Dedizione e passione, è questa in sintesi la ricetta di pasta Baronìa”

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Mattmark:

la Marcinelle dimenticata!Generalmente non siamo abituati a ricordare le tragedie dell’emigrazione italiana, forse perché la tendenza è quella di voler dimostrare agli altri, e a noi stessi, che la nostra emigrazione ha prodotto successi e conquiste, è servita alla crescita e allo sviluppo di tante nazioni e, in forma speculare, anche alla crescita dell’Italia stessa. Quest’ultimo è il Paese occidentale che più di ogni altro ha dato, e continua a dare, anche se in forme diverse e non solo in termini numerici, al fenomeno delle migrazioni internazionali. Ripensando all’infinita diaspora italiana, soffermandoci sulle tragedie umane e del lavoro, siamo portati a ricordarne diverse, ma non troppe, e generalmente la prima che ci viene in mente è quella di Le Marcinelle del 1956. Tragedia nella quale persero la vita 136 minatori italiani e che segnò inevitabilmente il lento e progressivo abbandono della direttrice belga a favore di Paesi che offrivano condizioni lavorative diverse, in particolar modo Svizzera, Francia e Germania. Marcinelle ha assunto importanza nell’immaginario collettivo italiano per due ragioni sostanziali: innanzitutto, la presa diretta dell’evento. Per la prima volta nella storia dell’emigrazione, un evento drammatico come quello della miniera belga fu ripreso in diretta dalle televisioni di tutto il mondo e dalla neonata Rai. Il secondo aspetto è molto più recente ed è dovuto al lavoro storico degli ultimi anni e soprattutto alla recente produzione cinematografica. In questa sede vogliamo ricordare una tragedia quasi dimenticata, che un decennio dopo – era il 1965 – colpì molto l’opinione pubblica italiana e quella svizzera, dato che i fatti di Mattmark accaddero in Svizzera. Ripercorriamo in sintesi quanto accaduto. Sono le 17.15 del 30 agosto 1965 quando una massa di due milioni di metri cubi, nella Valle di Saas, Canton Vallese, si stacca dal ghiacciaio di Allalin e precipita sul cantiere allestito per la costruzione della diga di Mattmark. Gli alloggi vengono completamente sotterrati dall’immensa massa di ghiaccio e 88 lavoratori perdono la vita. Pochi istanti prima della tragedia, i lavoratori sentono lo scricchiolio della lingua di ghiaccio che si stacca e istintivamente corrono verso le baracche alla ricerca di un rifugio. Ma la loro è una corsa verso la morte: rimangono sepolti sotto 50 metri di ghiaccio. Il recupero delle salme sarà estremamente difficile. Delle 88 persone rimaste uccise 56 sono italiani: 17 originari della provincia di Belluno, 7 di San Giovanni in Fiori (CZ), 3 sono campani di cui 2 irpini, e la restante parte proviene da diverse province italiane. La drammatica lista è completata da 24 svizzeri, 3 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide. La sciagura, però, avrebbe assunto dimensioni abnormi se fosse accaduta prima, come ci testimoniano le parole di Mario Rapassi, sopravvissuto per miracolo:“[…] se fosse accaduto verso le 13.00, i morti sarebbero stati 600!”La tragedia fu molto seguita dai media, un po’ come accadde, dieci anni prima, per quella di Marcinelle. Furono oltre duecento i giornalisti, svizzeri e corrispondenti esteri, che raccontarono al mondo con ampi servizi quel che era successo in una vallata sperduta del Vallese. Le immagini sconvolgenti della valanga che aveva stroncato la vita di 88 lavoratori furono

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IL RICORDO

di Toni Ricciardi

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viste da milioni di persone. Per la Svizzera fu “un vero e proprio shock”.La tragedia di Mattmark suscitò scalpore in tutta Europa: rappresenta la più grave catastrofe della storia svizzera nell’edilizia. Memorabili saranno gli articoli e i resoconti di Dino Buzzatti sul Corriere della Sera, in particolar modo l’amara favola (1 settembre 1965): “La valle del Saas è conosciuta in Italia dai fortunati che vanno in Svizzera a sciare, da quelli che vanno in Svizzera a giocare a golf che d’estate viaggiano all’estero con la loro automobile, frequentano i grandi alberghi o posseggono ville tra gli abeti. Ma a Cosenza, Avellino, Forlì, Belluno, i nomi di Saas, Allalinhorn, Saas Fee, Saas Almagell sono parole senza senso.[...] L’emigrazione è una favola che divora ma che può portare molto lontano e in alto. Una stag-ione? Un anno? Cinque anni? La vita? Anche il più povero e umile manovale che non ha finito neppure le elementari, mentre sale sul treno o sulla corriera, pensa a coloro che tornarono ricchi, che conquistarono le Americhe, che diventarono potenti e famosi. [...] Che importa se ai piedi di tante conquiste si stendono a perdita d’occhio i cimiteri? La ricchezza, la gloria, la grande occasione aspettano di là dei confini. Ecco-la, ahimè, la gloria, poveri ragazzi. Le prime pagine dei giornali sono per voi, a voi dedicate le trasmissioni radio e TV. I titoli che vi riguardano sono più grossi che per Sofia Loren e gli astronauti. I vostri nomi stam-pati a tutte lettere, telegrammi di capi di Stato, preghiere di vescovi, di cardinali e del papa, reggimenti mobilitati, aerei ed elicotteri che vanno e vengono [...].” In Italia, la reazione fu forte e, per la prima volta, l’intervento da parte del Governo italiano fu immediato. Il dibatto parlamentare, lo scalpore che la tragedia aveva suscitato, le pressioni che nel frattempo giunsero da parte della comunità degli italiani residenti in Svizzera, fecero sì che venisse promulgata una legge speciale, la n. 1231 del 29 ottobre 1965, la quale riconosceva un assegno alle famiglie dei lavoratori italiani periti nella sciagura di Mattmark.La vicenda del Mattmark, come le tante che hanno interessato, nell’arco della sua lunga esperienza, l’emigrazione italiana, si concluse come sempre nel modo peggiore. Se da un lato il governo italiano provvide, attra-verso al legge speciale per le famiglie delle vittime, ad intervenire con sollecitudine e in maniera diretta, lo stesso non valse per la giustizia elvetica. Di fatto, i tempi dell’inchiesta penale furono lunghissimi. Dopo quattro anni il processo penale non era ancora stato avviato. Il 22 febbraio 1972 diciassette imputati – tra cui direttori, ingegneri e due funzionari SUVA – furono chiamati a rispondere delle loro azioni di fronte al Tribunale distrettuale del cantone vallese. Gli occhi della stampa mondiale erano puntati sul processo. Il capo d’accusa era omicidio colposo. La pena massima richiesta dall’avvocato di Stato fu però solo il pagamento di multe da 1000 a 2000 franchi. L’opinione pubblica era incredula e accolse la notizia con severe critiche. Una settimana dopo il tribunale assolse tutti gli imputati, in quanto la catastrofe non era prevedibile. Nella motivazione della sentenza il tribunale spiegò che una valanga di ghiaccio rappresenta una possibilità troppo remota per essere presa ragionevolmente in considerazione. A ciò seguì una forte ondata di critiche in tutto il Paese e anche all’estero: le sentenze furono considerate ingiuste. “Mattmark: tutti assolti” – Corriere della Sera del 3 marzo 1972; “Mattmark: nessuno pagherà per la morte degli 88 operai” – Il Mattino del 3 marzo 1972; “Indignazione per l’ignobile sentenza su Mattmark” – L’Unità del 4 marzo 1972. Questi i titoli dei giornali all’indomani dell’inaspettata sentenza emessa dal tribunale di Visp. I tempi dell’inchiesta sono stati lunghissimi: oltre sei anni. Diciassette erano gli imputati chiamati a rispondere delle loro azioni dinanzi al tribunale vallese per omicidio colposo. Il Pubblico Ministero aveva chiesto come massima pena il pagamento di multe fino a 2 mila franchi svizzeri. Il tribunale assolse tutti gli imputati con la motivazione che la catastrofe non era prevedibile! Di sdegno e di incredulità fu la reazione dell’opinione pubblica, la stampa italiana espresse questo sentimento e le sue critiche si tradus-sero in articoli di forte denuncia. In definitiva in Svizzera, politici, economisti, intellettuali e gente comune trovarono nella tragedia di Mattmark un ulteriore stimolo per approfondire il dibattito, già in corso da alcuni anni, sul senso stesso di uno sviluppo economico pressoché incontrollato che richiedeva sempre più manodopera estera, soprattutto per le grandi opere infrastrutturali (di per sé molto rischiose) e per le attiv-ità a bassa intensità di qualifica abbandonate dagli svizzeri. Anche per la collettività italiana qui residente fu un’occasione forte per interrogarsi sul senso della sua presenza in un Paese in cui era parte attiva e persino determinante del benessere, senza peraltro sentirsi accettata e corresponsabile, anzi alle prese con ventate di ostilità. Erano gli anni della svolta. Quanto abbia inciso Mattamark (la Marcinelle elvetica) nel rifiuto delle campagne referendarie del 1965, 1970 e 1974, da parte dei cittadini elvetici, non ci è dato sapere. Certamente, però, questa tragedia segnò un momento di cesura nell’arco della lunga storia della presenza italiana in Svizzera.

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ELENCO DEI DISPERSI* Ecco l’elenco degli operai italiani che risul¬tano dispersi dopo un primo appello delle maestranze impegnate nella costruzione della diga. Se, come purtroppo si teme, tutti i dispersi so¬no sepolti sotto la gigantesca valanga di ghiaccio, le vittime italiane saranno 56. CAMPANIAARMINIO Donato, 20 anni, Bisaccia (Avellino); CESARANO Antonio, 40 anni, Pompei (Napoli); DI NENNA UMBERTO, Montella (Avellino).VENETOACQUIS Giancarlo, 22 anni, Belluno; CASAL Aldo, 19 anni, Sospirolo (Belluno); DE RECH Celestino, 39 anni, Sedico (Belluno); DAL BORGO Virginio, 43 anni, Pieve d’Alpago (Belluno); DE MICHIEL Arrigo, Lorenzago (Belluno); FABBIANE Mario, 40 anni, Sedico (Belluno); DAL DON Ottorino, 20 anni, Sagron Mis (Trento), DE CILIA Mario, 37 anni, Cormons (Gorizia); DEGARA Ferdinando, 29anni, Tirano di Sotto (Trento); PESACANE Luigi, 36 anni, San Giovanni Lupatoto (Verona); RENON Costante, 21 anni, Sagron Mis (Trento); ZAZIO Giovanni, 27 anni, Sedico (Belluno); APOLLONI Primo, Pieve di Bona (Trento); COFEN Leo, Valleselle di Cadore (Belluno); BARACCO Giovanni, Domegge di Cadore (Belluno); CIOTTI Fiorenzo, Sotto Ca¬stello di Cadore (Belluno); DA RIN Silvio, Pelos di Cadore (Belluno); DAMBROS Lino, Seren del Grappa (Belluno); FEDON Iginio, Valleselle di Cadore (Belluno); PINAZZA Ilio, Domegge di Cadore (Belluno); CECCON Alessio, Torreano di Cividale (Udine); SPECOGNA Luciano, Torreano (Udine); PINAZZA Rubelio, Domegge di Cadore (Belluno); TABACCHI Enzo, Sotto Castello di Cadore (Belluno); FURLETTI Gino, 39 anni, della provincia di Trento. PIEMONTECANDUSSO Mario, 36 an¬ni, Domodossola (Novara); ZAVATTIERI Angelo, Domodossola (Novara).EMILIAMINOTTI Primo, 60 anni, S. Carlo di Cesena (Forlì); MINOTTI Tonino, 22 anni, figlio di Primo; CORBELLINI Sergio, Pia¬cenza.TOSCANAFIGLIE Paolo, Carrara.ABRUZZONASUTI Camillo, 22 anni, Lanciano (Chieti); PETROCELLI Reginaldo, 30 anni, Acquaviva di Isernia (Campobasso); INNAURATO Raffaele, Gessopalena (Chieti); BOZZA Ginetta, Gessopalena (Chi-eti); PAPA Giovanni, 41 anni, Pagnoni Campoli (Tera¬mo).PUGLIEGRECO Giuseppe, 33 an¬ni, Gagliano del Capo (Lecce); SIMONE Antonio, 40 an¬ni, Tiggiano (Lecce); CORSANO Pio, Ugento (Lecce).CALABRIAAUDIA Giuseppe, 36 anni, San Giovanni in Fiore(Cosenza); COSENTINO Gaetano, San Giovanni in Fiore (Cosen¬za); LA RATTA Fedele, 48 anni, San Giovanni in Fiore(Cosenza); LA RATTA Francesco, 20anni, figlio di Fedele; LORIA Bernardo, 39 anni, San Giovanni in Fiore(Cosenza); TALERI CO Antonio 31 an¬ni, San Giovanni In Fiore(Cosenza). VELTRI Salvatore, 20 anni, San Giovanni In Fiore(Cosenza).SARDEGNAACHENZA Francesco, 38 anni, Uri (Sassari); DESSI’ Olivio, 35 anni, Senorbì (Sardegna); FLORIS Antonio, Orgosolo (Nuoro).SICILIAGUICCIARDO Giuseppe, 33 anni, Castelvetrano (Trapani); LO GIUDICE Salvatore, Giar¬dini (Messina); MARCIANTE Vincenzo, Partanna (Trapani).

*Del cinquantaseiesimo italiano disperso non si conoscono le generalità.

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A 31 anni dal sisma, Zamberletti a TeoraA 31 anni dal sisma dell’80 il ritorno di Giuseppe Zamberletti in terra irpina ha assunto un significato profondo e nuovo. Non c’era solo il ricordo nel convegno organizzato dalla Fondazione Officina Solidale in collaborazione con il comune di Teora e le associazioni che operano nel volontariato di Protezione Civile in Irpinia e a livello nazionale. Il momento è servito essenzialmente per dare un nuovo significato alla parola prevenzione, approfittando della presenza degli illustri ospiti, per discutere del ruolo della protezione civile e del volontariato in generale in situazioni di emergenza. Ad introdurre il convegno Rosanna Repole presidente di Officina Solidale che ha voluto sottolineare quanto la figura di dell’ex commissario straordinario sia stata importante nei momenti immediatamente successivi alla tragedia. ”Zamberletti - ha dichiarato - appartiene al tessuto sociale e umano di questo territorio, può essere considerato un pezzo della nostra storia. Questo non deve essere solo un momento di ricordo, ma anche un pretesto per parlare di volontariato, di protezione civile e dell’anno del volontariato”. Un ringraziamento particolare è andato a Stefano Ventura, giovane storico dell’Osservatorio permanente sul dopo sisma: “Avere il supporto di un giovane per l’organizzazione di questo convegno fa capire quanto il ricordo del sisma sia radicato anche nella mente di chi quella tragedia non l’ha vissuta direttamente”. Rosanna Repole fu eletta sindaco di Sant’Angelo dei Lombardi due giorni dopo il sisma e ha ripercorso la sua personale esperienza per ricordare l’importanza delle istituzioni in periodo di crisi: “In un momento sociale e storico così particolare è necessario puntualizzare quanto sia fondamentale la filiera istituzionale. All’epoca figure come Pertini o Zamberletti, il prefetto Caruso e Musino o il prefetto Sorvino hanno dato una mano forte valorizzando le amministrazioni locali per affrontare con equilibrio e saggezza sia l’emergenza che la ricostruzione. Bisognerebbe riprendere quella filiera istituzionale. Il volontariato e la protezione civile - ha sottolineato la Repole - hanno avuto un ruolo fondamentale e possono essere annoverate tra le ‘conseguenze buone’ della tragedia. L’Italia in quella occasione si è rimboccata le maniche per risolvere un’emergenza tragica attraverso gli impegni di quelli che oggi chiamiamo ‘angeli’, siano essi del fango o del terremoto”. Un monito quello lasciato dalla Repole alla fine del suo intervento affinché il volontariato si organizzi intorno al ruolo fondamentale della protezione civile.” La protezione civile in Italia esiste grazie a Zamberletti che può esserne considerato il padre. Il volontariato - ha concluso - è stato un ‘dono’ del terremoto, che può essere un forte stimolo per i giovani”. Stefano Farina, sindaco di Teora, all’epoca del terremoto era un 14enne e ha vissuto il sisma con gli occhi di un adolescente: ”Ieri, come accade da 31 anni a questa parte, è stato un giorno particolare che abbiamo vissuto nel ricordo di ciò che è accaduto. La memoria – ha aggiunto - deve però essere una molla che ci lancia verso il futuro e verso nuovi orizzonti. La presenza di Zamberletti ispira

IL RITORNO

di Maria Stanco

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tantissimi ricordi, è stata certamente una persona simbolo che ci ha accompagnati nella difficoltà e nella speranza. Ha avuto il merito di gestire una difficoltà enorme con rapidità e freddezza, ma allo stesso tempo con una grandissima umanità. Parlare oggi di volontariato e prevenzione mi rende estremamente orgoglioso perché vuol dire che abbiamo imparato qualcosa nella tragedia”. Luciano Passariello, responsabile della Scuola Regionale di Protezione Civile della Campania “Ernesto Calcara”, ha parlato proprio di organizzazione del volontariato attraverso l’insegnamento: “Deve essere questa - ha detto - la novità dalla quale ripartire e l’insegnamento che dobbiamo recepire dalla tragedia dell’80, il dolore delle perdite non potrà essere cancellato, ma si può proporre un riscatto, è un dovere per chi non c’è più e per chi vive nel ricordo di quello spettro. E’ importante capire - ha spiegato - che se non c’è organizzazione i singoli non servono. La formazione del volontario è un elemento fondante della gestione dell’emergenza: senza formazione non si insegna e non si agisce”.Tanta l’emozione nella voce di Giuseppe Zamberletti. L’ex commissario straordinario ha ripercorso, prima ad Ariano poi a Teora, quei giorni tragici ed incredibilmente difficili che visse accanto alla popolazione irpina. “Immediatamente dopo la tragedia - ha raccontato - la prima domanda che tutti ci facevamo era: ‘Ce la faremo?’, avevamo molti dubbi e ci chiedevamo quanto potevamo essere in grado di uscire da quella tempesta ricostruendo le comunità, dando un futuro di speranza e di vigore alla realtà. Vedendo che ce l’avete fatta rispondo a quella domanda: sento di aver vinto una sfida. Il volontariato - ha continuato - è un tema centrale del cammino della protezione civile nata dopo quell’evento, nel Friuli c’eravamo detti che bisognava far qualcosa in merito, ed erano i soccorritori i primi a riflettere su quanto potesse essere evitabile tutto quello. L’importanza della prevenzione era ed è nelle menti e nel cuore di tutti. Serviva allora e serve oggi - ha aggiunto - un sistema capace di operare nella prevenzione. Nell’ 80 la sfida era terribile e l’appello di Pertini sul ritardo dei soccorsi, lo testimonia. Al tempo esisteva un disegno di legge riguardante essenzialmente l’organizzazione del corpo dei Vigili del Fuoco; allora ma vale anche oggi, l’emergenza non poteva essere gestita da un singolo ministero, serviva al contrario un’attività interdisciplinare ed interministeriale. Apparve subito importante il ruolo della protezione civile come collante fra vari ambiti. Il coordinamento è infatti la chiave del successo della Protezione Civile”. Zamberletti ha voluto sottolineare la differenza tra due forme differenti di volontariato: uno spontaneo, l’altro organizzato: “Il volontariato - ha spiegato - è un modo di essere dello Stato Moderno, ne è un servizio, deve essere parte dello Stato. Non può essere organizzato né dallo Stato, né dal prefetto ma deve farlo autonomamente attraverso le grandi associazioni”. Il commissario straordinario ha spiegato come il disastro irpino fu di grosso insegnamento per la sua idea di volontariato. “Quel disastro - ha detto - era di portata nazionale, con un epicentro enorme, così come era vasta l’aria colpita soprattutto per la pluralità dei centri. In merito a questo nacquero dei problemi logistici gravi, ci venne in aiuto una cosa che oggi non esiste più ed era l’esercito di leva”. Riprendendo le parole di Passariello riguardo all’organizzazione Zamberletti ha spiegato quanto possa essere importante ‘istruire’ il volontariato: “E’ fondamentale far collaborare il volontariato con la comunità scientifica intavolando un dialogo costruttivo. Il volontario deve controllare una situazione drammatica e deve saperlo fare essendo preparato. La prevenzione in questo senso diventa importante anche per la preparazione del cittadino stesso, acculturare la gente e dare loro degli insegnamenti è di fondamentale importanza. Creare un volontariato attivo nella prevenzione è oggi una priorità”. In chiusura del suo intervento Zamberletti ha voluto ripercorrere le sue personali emozioni nel tornare in terra irpina: “Ho imparato ad amare questa terra in un momento di dolore. Il terremoto è come una guerra, in poco tempo si consuma una vita, si impara a conoscere le persone, valutandole attraverso il contributo dato alla società in un momento tragico. Condividere certe esperienze porta a conservare nella propria anima un carico di emozione e riconoscenza che si conserva per sempre”. Titti Postiglione è la dirigente del dipartimento nazionale di Protezione Civile. Il 23 novembre

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1980 aveva 9 anni e, come lei stessa ha rivelato, quel giorno ha segnato la sua carriera professionale. “Indagini sociali e studio degli eventi dovrebbero essere dei punti di partenza per le istituzioni. L’Irpinia ha segnato l’inizio di un percorso, fa da spartiacque. Ricordare il sisma deve essere un momento per cercare una sinergia fra territorio e volontariato, bisogna parlare attivamente di volontariato e prevenzione, sono due parole che si associano bene. Il volontariato deve spostare il suo baricentro verso una sorta di prevenzione strutturale che crei consapevolezza nella popolazione. Il primo passo è spingere i sindaci ad elaborare piani di protezione civile, agendo con il dipartimento, il ministero e la politica. Il volontariato - ha sottolineato - è libertà d’espressione e mantiene l’equilibrio con le istituzioni sposando l’autonomia. Il 2012 sarà l’anno degli Stati generali del volontariato durante i quali ci sarà una discussione e un confronto su temi concreti, parlando di risorse e di rappresentanza. La tutela sul luogo di lavoro sarà un punto centrale della discussione perché c’è bisogno di cultura della protezione civile. La vera scommessa è trovare un modo per aprirci alla cittadinanza e alle scuole, così potremo trasformare la memoria in concretezza.” L’assessore regionale alla Protezione Civile, l’on. Edoardo Cosenza, ha sottolineato l’importanza del volontariato non politicizzato: “Viva il volontariato moderno, organizzato, auto regolamentato e libero oltre che inquadrato in una catena decisionale complessa. Per quanto riguarda le competenze della Regione, c’è una legge di protezione civile che sta per essere approvata, ci sono ovviamente delle delibere che, per ora, ne compensano l’assenza. Deve esserci una commissione grandi rischi, c’è necessità di consiglieri. Se è vero che la Protezione civile è nata dopo il sisma dell’ 80 il nuovo modello è nato dopo Sarno e Quindici. Abbiamo bisogno di presidi territoriali e piani di protezione civile e di protocolli che non devono essere delle dichiarazioni di intenti, ma delle vere e proprie indicazioni per i cittadini”. Nel corso del convegno sono state donate delle targhe a due volontari che vennero in soccorso delle popolazioni terremotate: Umberto Fusco, all’epoca arruolato nelle Forze Armate, nel reparto operativo alle dipendenze della Protezione Civile, e Giovanni Cini, toscano doc ormai irpino d’adozione. Un ricordo di quella tragica sera è toccato anche al giornalista Franco Genzale, che ha ancora una volta sottolineato l’importanza della prevenzione come strumento di tutela per la nostra terra a forte rischio sismico.

IL RITORNO

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Camminare con la menteHo conosciuto Antonella Verderosa un’estate, a Lioni. Lei mi ha sempre incuriosita, piccina su una sedia a rotelle. Mi ha sempre ispirato tenerezza e fiducia. Siamo diventate subito amiche e le mie impressioni si sono rivelate vere. Antonella è speciale. E’ una ragazza combattiva e coraggiosa, piena di entusiasmo e voglia di fare. Figlia di emigrati, è nata e vive in America, West Hempstead, New York. Dopo il terremoto del 1980 che ha colpito la verde Irpinia, la madre si è trasferita in America in cerca di lavoro, in cerca di una vita migliore, in cerca di fortuna. Ha trovato l’amore, e insieme hanno dato vita a quattro figli. Antonella è la più grande. Di lei apprezzo l’umiltà, il gran cuore, la voglia di scoprire cose nuove, il suo es-sere “leader”, il suo sorriso contagioso. Stare con lei significa trascorrere momenti spensierati e sereni. Ama la sua vita, ama la sua famiglia, i suoi amici e l’università che ha frequentato: ingegneria aerospaziale. Ha 23 anni ed è già laureata. Ha un’intelligenza fuori dal comune, una mente brillante. Insieme ad altri dieci suoi colleghi ha presentato un progetto per il ripristino degli equipaggi sulla nave da guerra USS Intrepid. I giovani ragazzi sono aggiudicati l’incarico e il loro progetto sarà realizzato l’anno prossimo. Da quando aveva 4 anni ha il sogno di costruire aerei. Ha stretto i denti, ha combattuto, ha affrontato difficoltà e prove ed è riuscita a laurearsi in tempi record, affermando con tranquillità di studiare anche 14 ore al giorno. Non le è mai pesato: i libri sono la sua vita. E’ riuscita a trasformare il suo handicap in forza, non si è mai sentita “diversa” e non le piace essere additata per strada come un fenomeno da baraccone. E’ piena di entusiasmo e voglia di vivere.Le ho rivolto alcune domandeDove abiti?Abito a West Hempstead, New York, è un posto tranquillo, mi piace stare qui.Da quanto tempo?Io sono nata qui. Mia madre è originaria di Lioni (Av), ma dopo il terremoto del 1980 ha deciso, come tante altre persone, di venire in America. L’America allora veniva vista come una terra magica, ricca di risorse e benessere. Qui ha conosciuto mio padre ed è nata la loro storia d’amore dalla quale siamo nati io, mia sorella e i miei due fratelli. Io sono la più grande anche se non sembra. (ride)Il tuo problema ha mai ostacolato i tuoi desideri? No, mai. Al contrario, il mio problema mi ha spronato a lavorare di più, a impegnarmi molto più degli altri. E’ per me una

di Giusi Rosamilia

TALENTI

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motivazione in più per andare avanti con decisione e grinta. Non è un punto debole, ma un punto di forza. Non voglio essere considerata “diversa” solo perché non ho l’uso delle gambe, ho una testa, un cervello, vorrei esser considerata come tutti gli altri. Per questo mi faccio forza e cerco sempre di dare il meglio di me.Cosa vuoi fare da grande? Il 27 maggio mi sono laureata in Ingegneria Aerospaziale, il mio grande sogno. Da quando avevo 4 anni ho il desiderio di progettare aerei. Ma vorrei fare di più. Vorrei aiutare tutte le persone che si trovano nella mia stessa condizione, chi meglio di me potrebbe progettare sedie a rotelle? Io posso progettarle tenendo conto di ogni problematica, disagio o esigenza, io lo vivo sulla mia pelle.Cosa vorresti dire ai giovani della tua età che vivono il tuo stesso problema? Non vi scoraggiate mai, nemmeno quando tutto intorno a voi sembra buio. Ho attraversato anche io dei momenti meno belli, ma mi sono sempre data forza. E’ vero, non potete camminare o correre o ballare, ma potete farlo con la mente. Tenete sempre la mente in allenamento, coltivate le vostre passioni e vivete il vostro handicap con naturalezza, trasformandolo in punto di forza. Non rinunciate a nulla per colpa del vostro problema, siate sempre più forti di esso.Antonella Verderosa, grande esempio per tutti.

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Teoresi all’estero, un legame chiamato RADICI

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RADICI

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L’undici novembre ricorre la festa di San Martino; l’aneddoto legato alla storia di questo santo narra che in un giorno di autunno, mentre si trovava nei pressi della città francese di Amiens, Martino incontrò un povero anziano seminudo e in preda al freddo. Mosso a compassione, divise in due la sua tunica e ne diede una parte al vecchio; in quel momento le nuvole lasciarono spazio a un sole estivo. Per questo motivo è detto “estate di San Martino” il periodo di novembre in cui di solito la temperatura è più mite. Nella tradizione teorese questa data rappresenta un appuntamento familiare e di comunità; ci si ritrova con familiari e amici attorno alla “pizza di Sant’Martin’”, che altro non è che il gateau di patate preparato con patate, latte, uova, salame, formaggio, prezzemolo, mozzarella, sale e pepe. La particolarità, però, consiste nel fatto che nelle porzioni che vengono consegnate ai commensali è nascosta una moneta (”lu sold”, proprio perché alle origini della tradizioni era la moneta da un soldo ad essere l’ambito premio). Le porzioni sono messe in tavola e scelte in maniera casuale dai commensali. Chi trova il soldo acquista il potere di ordinare il pranzo ai commensali, il cosiddetto “cummit” (convito), che, come da tradizione, si svolgerà il 21 novembre, che secondo il calendario religioso è il giorno dedicato alla presentazione di Maria Vergine. Altra versione della tradizione, decisamente più pagana, si può rintracciare a Napoli ed è legata al convento in cima al colle di San Martino, dove erano soliti recarsi “i cornuti” in processione cantando; nel caso avessero incontrato nella salita una donna sconosciuta e l’avessero, per modo di dire, “conquistata”, le corna sarebbero per incanto sparite. Come tutte le tradizioni popolari, anche quella della pizza di San Martino rischia di andare perduta; tuttavia, grazie alla caparbietà degli emigranti teoresi, ogni anno si perpetua l’appuntamento dell’11 novembre che diventa motivo di incontro tra gli emigranti in diversi posti nel mondo. Anche quest’anno la tradizione è stata rispettata e in Svizzera, nei pressi di Stans, si sono radunate circa 300 persone, tra le quali una buona parte erano teoresi, anche se non mancavano altri irpini e altri italiani emigrati. Hanno partecipato alla manifestazione, organizzata da Rocco Casale e Antonio Ciccone, anche alcuni amministratori del comune di Teora, tra cui il sindaco, e altri cittadini arrivati per l’occasione dall’Alta Irpinia, e anche il console generale italiano in Svizzera, Mario Fridegotto. Dalla serata trascorsa insieme, che ha visto la partecipazione degli emigrati provenienti dai vari cantoni, è emersa l’idea di gemellare il comune di Teora e il cantone di Lucerna, per replicare in altre manifestazioni nel corso dell’anno il legame e il contatto tra emigrati e luoghi d’origine. Anche a Teora, Però, questa tradizione si rinnova ed è rispettata, anche tra i giovani. Il prossimo appuntamento individuato potrebbe essere legato al carnevale e agli “squaqqualacchiun”, una maschera teorese tipica del periodo del carnevale. Di certo l’appuntamento dello scorso 11 novembre ha rinfocolato quel legame mai interrotto tra emigrati e paese di origine. Negli anni passati, e ancora oggi, anche in Italia settentrionale “la pizza di Sant’Martin’” rappresenta una data cerchiata in rosso sul calendario dei teoresi e occasione di incontro e di condivisione. Infatti, nella condivisione e nell’amore per il prossimo sta il significato simbolico della pizza, proprio come il Santo divise il suo mantello con il prossimo infreddolito.

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NICOLA PARADISO, UN PUGLIESE CON

L’IRPINIA NEL DESTINO

Nicola Paradiso è pugliese di Santeramo in Colle, lo si capisce dall’accento e dal nome, ma ha decisamente qualcosa di irpino negli occhi e nei ricordi. Un evento ha segnato la sua vita privata e in qualche modo anche quella professionale, ed è il terremoto del 1980. Paradiso è oggi il ‘supervisiore’, come ama definirsi, del nuovo supermercato Conad di Lioni, nato all’interno dell’area commerciale ‘La Fornace’. All’epoca del sisma era un giovane militare arruolato nel Genio Pionieri, quel particolare corpo pronto ed addestrato ad affrontare le emergenze e le crisi. Fu dunque nelle vesti di militare, che mise per la prima volta piede in Irpinia “Il mio compito, una volta giunto nel luogo del disastro, fu quello di fare da autista al mio responsabile. Insieme a lui ho avuto modo di vedere con i miei occhi l’entità della tragedia. Condividere quell’esperienza, mi ha legato fortemente a questo territorio. In quel periodo ho conosciuto mia moglie, e con lei, mi sono traferito a Solofra per costruirmi una famiglia: sono, in un certo senso, un irpino d’azione e per volontà del destino”. Paradiso, ha una storia lavorativa molto particolare, è un imprenditore tra i più stimati nel settore alimentare, e la sua storia parte da lontano “Ho cominciato- racconta- lavorando come muratore e successivamente, vivendo a Solofra negli anni d’oro della lavorazione delle pelli, sono stato assunto in un’ azienda conciaria. Proprio in quegli anni, seguendo le mie idee politiche, sono entrato a far parte del sindacato, sono diventato rappresentante dei miei colleghi ed è lì che ho imparato che l’altruismo è la chiave per essere un buon imprenditore. Nel 1989- aggiunge- c’è stata una forte crisi del settore ed eravamo tutti a rischio licenziamento. E’ stato dunque per volere del dott. Francesco Gentilucci , responsabile della ‘Coop Guido Rossa’ di Solofra, che mi sono spostato ad Avellino a lavorare in un supermercato con questo marchio. Ci sono rimasto fino al 2000 quando quel punto vendita ha chiuso per fare spazio all’Ipercoop. Io facevo parte del consiglio di amministrazione ed è allora che ho avuto la mia prima scintilla imprenditoriale. Proposi a 6 miei colleghi di rilevare il negozio che sorgeva in Via Bellabona, fu un rischio, ma la sfida vera era diventare finalmente imprenditori di noi stessi. Da Coop passammo a Conad e la nostra idea ebbe un tale successo che dopo qualche anno ci fu concesso di creare il Superstore che sorge sulla Variante e che è

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il primo in Campania per vendite”. A giugno di quest’anno Paradiso propone ai suoi una nuova sfida, quella di investire in Alta irpinia, un territorio che ama e di cui conosce eccellenze e limiti “Non sono arrivato a Lioni per fare profitto- spiega- il mio principale interesse è quello di creare posti di lavoro e di consegnare, un giorno, nelle mani dei 36 dipendenti questa attività. Devono prendere in mano il loro destino, così come feci io all’inizio della mia carriera imprenditoriale. Mi piace dire che io non assumo dipendenti, li adotto. Traduce bene la sinergia che si crea tra noi e sintetizza ciò che ho in mente di fare”. Paradiso ammette che è stato un gioco del destino a riportarlo a Lioni, lì dove aveva visto macerie e morte oggi vede innovazione e speranza nel futuro, ed è proprio di futuro cha ama parlare “Il limite di questa terra- aggiunge- è che resta spesso immobile, è necessario che si rinnovi spinta dall’entusiasmo dei giovani che sono una risorsa inestimabile per questi luoghi. L’Alta irpinia- spiega- è risorta da una tragedia immane grazie alle nuove generazioni, sono stati i ragazzi a prendere sulle spalle il peso del disastro, attraverso l’impegno e il volontariato e spetta a loro farsi carico di una nuova rinascita: quella industriale ed imprenditoriale. Le loro idee, il loro talento deve essere e sarà il nuovo motore grazie al quale ripartirà l’Irpinia”. Un ultimo appello il ‘supervisiore’ lo lancia alla politica “Vorrei che gli amministratori locali sviluppassero una sorta di piano comune che porti alla collaborazione e alla creazione di una rete tra la città e la periferia. Non solo- aggiunge- si potrebbero promuovere dei corsi di aggiornamento, degli stage o dei periodi di formazione durante i quali i giovani possano attingere a realtà diverse arricchendosi personalmente e trasferendo professionalità acquisita sul territorio. Attraverso il confronto si stimola la crescita”. Il destino ha però voluto giocare un ennesimo scherzo all’imprenditore “Mi avevano detto-racconta- che la sede di Lioni doveva essere inaugurata proprio il 23 novembre. Mi sono opposto con tutte le mie forze. Quella data è e sarà sempre un giorno dedicato esclusivamente al ricordo e alla memoria. Ho deciso, dunque, di posticipare l’apertura al giorno successivo, è stato il mio modo per restituire ad una terra che mi ha dato tanto una nuova, piccola, scintilla di rinascita”

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ORGOGLIO IRPINO A PIAZZA AFFARI:

DIMMS PRONTA A ENTRARE NELL’ÉLITE

DELLA FINANZA

L’Irpinia sbarca, finalmente, per la prima volta nella storia a Piazza Affari. Il merito è tutto da riconoscere alla Dimms Control Spa, società avellinese di servizi ingegneristici sulle grandi opere, dei fratelli De Iasi, Massimo, Maurizio e Serena. Il primo passo della quotazione è previsto per la fine dell’anno. Advisor dell’operazione, Continisio- Sanfelice di Bagnoli&partners srl. La Dimms sarà la prima avellinese, ma anche la seconda campana. Un esempio su come combattere la crisi: credendo nel proprio lavoro, investendo risorse, umane ed economiche, per sviluppare nuovi progetti creativi. Nelle parole del presidente di Dimms Massimo De Iasi vi è tutta la forza con cui l’azienda si prepara ad affrontare questo nuovo obiettivo, smentendo ogni luogo comune sugli imprenditori del sud, dipinti come assistiti e impauriti dai mercati esteri: “I motivi che ci hanno spinto alla quotazione sono diversi. Prima di tutto la necessità di consolidare i risultati raggiunti e crescere nel tempo - afferma De Iasi- Poi la visibilità in Italia e all’estero. Inoltre la possibilità di attrarre nuovo management al Sud, di essere alla pari con le grandi imprese, completare il processo di internazionalizzazione già avviato”.L’azienda è nata nel 1998 e dal 2005 si è imposta sul mercato italiano del settore con una posizione leadership. Dimms, che ha la sede principale ad Avellino, più due branch a Torino e a Bucarest, si occupa di indagini geotecniche, prove di laboratorio su materiali da

LE ECCELLENZE

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costruzione, analisi geofisiche e sismiche onshore, nearshore e offshore, progettazione in sotterraneo e geotecnica di fondazioni speciali, monitoraggi in tunnel, assistenza alle perforazioni su piattaforme offshore, previsione di fenomeni franosi. Tutto questo in relazione a grandi opere, quali autostrade, ferrovie, dighe, porti, centrali, metropolitane, tunnel, gallerie, per conto di clienti del calibro di Astaldi, Impregilo, Anas, Tecnis, Tecnimont, Italferr, Eni, Nakheel, Foster Wheeler, Cogei. L’azienda ha già annunciato numerose commesse per il 2012.“Siamo in grande espansione, stiamo raddoppiando il fatturato - dichiara il presidente- Triplicando e quadruplicando il numero dei dipendenti”. A conferma ci sono gli importanti numeri e report degli anni appena chiusi: il fatturato è cresciuto del 250% nel 2011 rispetto al 2009. Il dato estero del fatturato, invece, del 100% nel 2010 rispetto al 2009 e del 300% nel 2011 rispetto al 2010. I dipendenti stabili sono 60 senza considerare quelli esteri. Nel 2012 l’organico stabile arriverà a 80 unità e a 120 nel 2016. La sfida Dimms rappresenta non solo un orgoglio irpino nel mondo della finanza, ma anche una grande opportunità per i brillanti giovani laureati del nostro territorio, notoriamente con valigia pronta: “Siamo alla ricerca, nella nostra prospettiva di crescita all’estero, di geologi e ingegneri; qualificati e, soprattutto, motivati, con una buona conoscenza delle lingue”. Per il presidente De Iasi, Avellino e provincia non è solo la sede della propria azienda, ma “un territorio ricco di potenzialità, popolato da persone fantastiche”; ma che sconta i limiti propri dell’Italia: “Purtroppo la nostra nazione, in questo momento, paga una mancata progettazione imputabile a 20-30 anni fa. Difatti altre nazioni che condividono la nostra stessa crisi, come la Germania e la Francia, sono pronte a ripartire, essendo il loro, un sistema economico dagli importanti fondamentali - conclude Massimo De Iasi - Per quanto ci riguarda non possiamo che iniziare a programmare sperando in un rilancio quanto più vicino possibile: ma le prospettive a breve termine non promettono niente di buono. Si pensi alla sola Romania: ha da appaltare opere pubbliche per 10 volte la somma di tutte le opere previste in Italia, ponte di Messina compreso”.

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Cercare di definire il talento è come cercare di definire la bellezza. Quando lo guardi ti accorgi che ogni parola è inadeguata, che ogni tentativo di racchiuderlo in una formula serve solo a banalizzarlo. Il talento è un ragazzino di nome Diego Armando Maradona che nei primi anni settanta, durante l’intervallo delle partite dell’Argentinos Juniors, faceva palleggi e magie con il pallone mentre il pubblico incredulo gridava “…¡ que se quede, ¡ que se quede…” (fatelo restare). Il talento è la solitudine ombrosa di Ettore Maiorana, un ventenne siciliano che ascoltava i numeri come fossero le note di una canzone e, per non perderne il ricordo, si affrettava a scarabocchiare su pacchetti di sigarette formule strane e complicate. Poi, arrivato all’istituto di via Panisperna, ancora tutto assorto, col capo chino e un gran ciuffo di capelli neri e scarruffati spioventi sugli occhi, cercava di Fermi e, pacchetto di sigarette alla mano, spiegava le sue teorie. Nel pranzo a casa di Remy’ i protagonisti de “Le invasioni barbariche” colgono il senso di stupore che il genio induce.“… - Ma perché siamo stati così coglioni? - C’è da desumere una carenza congenita di discernimento? - Niente affatto. Contrariamente a quanto si crede l’intelligenza non è una caratteristica individuale, è un fenomeno collettivo, nazionale, intermittente. - Ecco una nuova teoria. - Assolutamente! Atene 416: la prima dell’Elettra di Euripide, sulle gradinate due suoi rivali: Sofocle e Aristofane e due suoi amici: Socrate e Platone. L’intelligenza c’era. - Io ho di meglio! Firenze, 1504, palazzo Vecchio: due pareti opposte, due pittori. Alla mia destra Leonardo da Vinci, a sinistra Michelangelo. C’è un apprendista, Raffaello, e c’è un manager, Niccolò Machiavelli. Evviva l’Italia! - Però! - Philadelphia, Pensilvanya, 1776 - 1787: dichiarazione di indipendenza e costituzione degli Stati Uniti - (citando a memoria) Quando nel corso degli eventi umani sorge la necessità... - Adam, Frankljn, Jefferson, Washington, Hamilton e Madison. Nessun altro paese ha avuto una simile fortuna.- L’intelligenza è scomparsa, e non per essere pessimisti, ma talvolta rimane assente a lungo.- Dalla morte di Tacito alla nascita di Dante, per quanto è mancata? Undici secoli?

LA ... BREVE STORIA

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“… Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti…”

di Giancarlo Giarnese

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- Sì, ma intanto allignava presso gli arabi…”.E se in questa nostra età confusa e scarmigliata il ricorso al potenziale umano è diventato un fattore decisivo di crescita, tanto che molti sociologi parlano apertamente di “human age” e alcuni economisti teorizzano il prossimo passaggio dal capitalismo al “talentismo”, va ricordato che il talento, in realtà, ha affascinato gli uomini di ogni epoca e ha sempre accompagnato ogni visione e ogni sviluppo umano. Nel 331 a.C, nella piana di Gaugamela, di fronte all’antica Ninive, il venticinquenne Alessandro, figlio di Filippo, reinventò completamente i canoni, fino ad allora conosciuti, della tattica militare e sconfisse definitivamente i persiani di Dario III, il Re dei Re, superiori di almeno quattro volte nel numero e negli armamenti. Quella battaglia avrebbe cambiato il modo stesso d’intendere la guerra e influenzato il pensiero e le gesta di decine di condottieri e generali nei secoli a venire. Il talento di Alessandro avrebbe ispirato Caio Giulio Cesare, quando nel 52 a.C.,durante l’assedio di Alesia, riuscì a immaginare il “doppio vallo” che consentì ai suoi ottantamila legionari di sconfiggere il mezzo milione di Galli, di tutte le tribù, venuti a liberare Vercingetorige. Ad Alessandro si sarebbe rifatto, in età moderna, un altro giovane comandante, Napoleone Bonaparte, il cui talento sconvolse le sorti dell’Europa e indirizzò la Storia in un senso che avvertiamo ancora oggi. Il talento rende inadeguata ogni altra cosa. Nei primi anni del Trecento anche un artista affermato nel suo tempo come Cimabue avvertì tutta la limitatezza dell’agire ordinario di fronte a una mosca dipinta da un adolescente di nome Giotto di Bondone. Il talento è l’ostinazione di Johann Gutenberg che ha impiegato tutta la sua vita, tutte le sue sostanze e tutta la sua tenacia per stampare la sua Bibbia a 42 linee che, di fatto, diede l’avvio alla società di comunicazione di massa. Qualche anno più tardi fu illuminato dal talento anche il coraggio prudente di Galileo Galilei il quale, pur vecchio, stanco e di cagionevole salute non se la sentì di abiurare completamente il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e, come racconta la leggenda, si congedò dai Giudici dell’Inquisizione pronunciando le famose parole “eppure si muove”. In realtà, ancora una volta, un genio visionario, sovvertendo ogni ordine costituito, aveva mutato i destini degli uomini aprendo le porte allo sviluppo e al progresso scientifico. Talento è il coraggio di Cristoforo Colombo, Vasco Da Gama, Ferdinando Magellano, Amerigo Vespucci, Marco Polo, James Cook e tutti gli altri navigatori ed esploratori che, tra il XV ed il XVIII secolo, partirono alla volta di luoghi sconosciuti, incontrarono popoli lontani, scoprirono nuovi continenti e ridisegnarono il volto della Terra armati solo delle stelle in cielo, di un astrolabio e del loro ardimento.

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Il Talento è l’umiltà di Isaac Newton che, in una lettera a Hooke datata 5 febbraio 1676, scrisse “… Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti…” e la sfrontatezza del quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart che, in visita a Roma in occasione della Pasqua del 1770, dopo aver ascoltato l’esecuzione del celebre Miserere di Gregorio Allegri, pretese, riuscendoci, di trascriverlo a memoria nota per nota. Un secolo dopo, al talento di due trentenni nati a Besançon, a pochi passi dalla casa di Victor Hugo, Auguste Marie Louis Nicholas e Louis Jean Lumière, dobbiamo la consapevolezza che le immagini immobili non sono sufficienti a esprimere la complessità dell’uomo moderno e a contenerne la voglia di spaziare e di conoscersi. Con questa idea in testa i due fratelli francesi produssero un singolare strumento, il cinématographe,il quale consentiva di animare le figure e rendere vive tutte quelle sfumature e quei moti dell’animo che le fotografie facevano solo immaginare. Da quel momento il cinema e i film accompagneranno la vita di ogni uomo a venire. Il talento è anche l’audacia quasi temeraria di John Law, il figlio di un orafo scozzese divenuto Controllore generale delle Finanze nella Francia del Re Sole, il quale introdusse nel mondo occidentale la moneta cartacea con largo anticipo sui tempi, ma la cui memoria è stata dannata a causa del fallimento della sua Compagnia Francese delle Indie Orientali. Soltanto dopo il 1971, anno nel quale gli Stati Uniti dichiararono il dollaro inconvertibile in oro, gli economisti avrebbero riconsiderato le intuizioni di quello oggi è ricordato come “…il più innovativo mascalzone in campo finanziario di tutti i tempi…” (John Kenneth Galbraith, Storia dell’economia, 1987). Talento è “Il capitale” di Karl Heinrich Marx e“L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud. Talento è “Impressione, sole nascente” di Claude Monet e “L’idiota” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Talento è la “radio” di Guglielmo Marconi e la “Modello T” uscita dalle fabbriche di Henry Ford, è la “corrente alternata” di Nikola Tesla e l’ “Apple II” costruito nel garage di Steve Jobs e Steve Wozniak. Talento è il “…Cause nothin’ lasts forever…” di “November Rain”, (Guns n’ Roses, 1991), è l’innocenza di “Forrest Gump” (Robert Zemeckis, 1994), è la voglia di liberarsi da ogni fardello sociale di “In the wild” (Sean Penn, 2007), è la pazienza di Florentino Ariza (“L’amore ai tempi del colera”, Gabriel García Márquez, 1985) e la femminilità sconfortata di Laila (“Mille splendidi soli”, Khaled Hosseini, 2007). Il talento è, sopra ogni altra cosa, l’immagine di uno scienziato ebreo dai lunghi capelli bianchi (Albert Einstein) che ha spiegato al mondo che la gravità altro non è che la manifestazione della curvatura dello spazio-tempo e il sorriso di un papa polacco (Karol Józef Wojtyła) che ha insegnato a ciascuno di noi che “…non c’è speranza senza paura e paura senza speranza…”.

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Notizie dall’Irpinia... e non solo!

Anno I - Numero I Dicembre 2011 Gennaio 2012

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