Tuffatori, di Anna Capozzo

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16 brevi storie di uomini colti in un momento particolare della loro vita, istantanee di un passaggio esistenziale, uomini che cercano la salvezza, il riscatto di un’intera esistenza nel rapporto con una donna. Tante e diverse le situazioni di questi profili maschili e delle relazioni con il femminile che l’autrice analizza e descrive con fascinosa precisione. Come in un film, che scaraventa a capofitto dentro qualcosa…O, forse, dentro “qualcuno”. Il titolo è a tutto schermo. “Tuffatori”.

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Anna Capozzo

TUFFATORIStorie, vita, occhi di uomini

Presentazione di

Stefano Ferrio

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© Il Segno dei Gabrielli editori 2011Via Cengia, 67 – 37029 S. Pietro in Cariano (Verona)Tel. 045 7725543 – fax 045 6858595mail: [email protected]

ISBN 978-88-6099-146-1

StampaLitografia de “Il Segno dei Gabrielli editori’’ San Pietro in Cariano (VR)Novembre 2011

Progetto di copertina:Lucia Gabrielli

Foto copertina: © Corbis

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INdICe

Presentazione di Stefano Ferrio 7

1. AUGUSTO 11

2. NICOLA 25

3. ROBeRTO 42

4. CLAUdIO 56

5. ALdO 68

6. ALFRedO 80

7. GIOVANNI 99

8. eUGeNIO 112

9. VITTORIO 125

10. SABINO 139

11. ROCCO 153

12. dARIO 167

13. LUCIO 181

14. dAVIde 191

15. GILBeRTO 200

16. MAx 211

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PReSeNTAzIONe

di Stefano Ferrio

Buio in sala.Fra un istante sarà di nuovo luce.Oppure tenebre infinite.Come sempre, non si distingue dove la vita sconfina nella morte, l’io nel tu, la realtà nella finzione.Nell’attesa ci soccorre il trailer del “prossimo” film.Sono voci maschili. Un coro – oggi “merce” rara – di soli uomini. Messo assieme, non a caso, da una donna, Anna Capozzo.

Augusto: “ero tentato di porgerle il bicchiere dal quale avevo appena bevuto, sul cui bordo era rimasta traccia del passaggio delle mie labbra, rivoli appetitosi ai soli oc-chi che adesso le vedevo aperti. Ben aperti. Volevo che lei assaggiasse, mi assaggiasse in anteprima... Sapevo che avrebbe accettato e che i due al suo seguito avrebbero vo-lutamente ignorato quanto accadeva sotto i loro occhi...”.NicolA: “Tutti si sono accorti del mio stato, ma nessuno parla. Solo gli amici mi chiedono timidamente se ho biso-gno di qualcosa. Ma poi, di cosa ho bisogno?”.RobeRto: “Ho pensato a me e mia moglie quando al ta-volo di un ristorante parliamo senza tregua, senza darci la possibilità di pensare al prossimo argomento da affronta-re. Forse non siamo tanto dissimili da questa coppia che, di primo acchito, mi ha suscitato orrore. Noi parliamo per riempire forzatamente quei vuoti che ci mettono paura. I nostri silenzi sono così carichi di significati che ci affret-tiamo, entrambi, ad eluderli”.clAudio: «Cosa saresti disposta a fare per me? Ti taglie-resti i capelli per me? Te li tingeresti di blu per me? Man-

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geresti un piatto di fegato alla veneziana per amore mio? e la pastina in brodo di merluzzo? Baceresti i piedi ad un barbone? Hai accettato caramelle da uno sconosciuto per me... Faresti l’amore con un animale per me?»Aldo: “Con i colori ho ottenuto una serie di effetti mera-vigliosi che prima non mi erano mai riusciti. Pensavo a lei e mi affrettavo a fissare con ansia il suo colore del giorno, prima che il pensiero nella mente evaporasse. Mi sedevo e chiudevo gli occhi. Senza sforzo il suo pensiero nasceva sotto forma di colore, in tonalità cruente e decise che ri-chiamavano il più delle volte il vestito che aveva addosso durante i nostri incontri, la pietra del suo anello, le righe della sua camicia. Ma durava sempre poco”.AlfRedo: “dopo la scuola serale, comunque, decisi di fare il salto di qualità e frequentare un corso specifico per ascensoristi, invogliato dai consigli del manutentore in vi-sita alla mia cabina preferita e poi perché mi ero messo in testa di vincere le paure legate a quei viaggi: il chiuso, il buio, il vuoto, gli sconosciuti. Così ora mi occupo di gua-sti, faccio il dottore degli ascensori, curo e prevengo tutti i loro mali, dopo aver conosciuto il mio”.giovANNi: “esistono relazioni appaganti in fiale? Baci sinceri in pillole? Gocce di amore (attenzione: leggere at-tentamente le avvertenze e non eccedere nell’uso) in boc-cetta? Supposte?”.eugeNio: “Ho avuto la febbre alta per quattro giorni. Quattro giorni senza alzarmi dal letto, mangiando frutta e biscotti e strisciando per raggiungere il water. Ora sto meglio, ma non riesco ancora ad uscire di casa. Mi sento debole e sfinito. di fatto, non voglio guarire. Non voglio chiamare il medico né prendere medicine. Ho bisogno di morire. di sentirmi morire lentamente. Voglio abbando-narmi perché so di non meritare più la vita”.vittoRio: “La mia casa era il mio inferno personale, non volevo farvi ritorno. Almeno, non per quella sera. Così, svoltai per l’infinito”.sAbiNo: “Spiegazzata agli angoli per le numerose volte che

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le mani l’avevano portata alla bocca per baciarla, come facevamo con i santini che le suore ci regalavano a scuola nel mese di maggio dopo aver mentito sul fioretto appe-na compiuto, quell’immagine ritraeva una giovane donna seduta sul bordo dello schienale di una panchina in un parco pubblico”.Rocco: “L’ho rigirata tra le dita infinite volte, la tua croce, e dopo l’ho sempre portata alle labbra, a venerare non il simbolo, ma la tua persona. e a differenza di ogni altro freddo metallo, la griglia di quella croce sapeva di te, ema-nava il tuo odore, che poi era il nostro odore... L’odore dei corpi in amore”.dARio: “Mi aggrappo alla visione del lampione, sotto il quale la vidi seduta sulla sua valigia, contemplo con estasi l’unica immagine che di lei mi rimane: la foto che le scat-tai di nascosto mentre sui gradini dell’albergo leggeva il mio biglietto da visita e che ora è appesa, ingigantita, nella parete bianca di casa mia”.lucio: “Per questo, per costringermi a pensare, ho deci-so di conservare questa piccola maniglia nella stessa tasca dove finì distrattamente quel pomeriggio, questo articolo monco, orfano delle viti che gli permettevano una volta di stare in piedi, privo del cassetto che doveva essere la sua ragione di vita, ormai tornato all’utilità per cui era stato pensato: aprire ciò che c’era di chiuso. e non mi riferisco ai cassetti”.dAvide: “Il mio amico, intuita la criticità della situazione: un principio di soffocamento – forse già era al corrente della debolezza della donna, questo era chiaro –, la trasci-nò come una furia fuori dal locale, la spinse con forza in macchina e l’accompagnò a grande velocità all’ospedale più vicino. Rimasto solo al tavolo, tramortito dalla rapidità degli eventi, fui attratto dalla forma assunta dai loro tovaglio-li abbandonati e scompigliati nella concitazione del mo-mento: erano rimasti l’uno sopra l’altro, scomposti, ma uniti in maniera armonica in un groviglio romantico che

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ben poco faceva intuire la drammaticità all’origine delle loro pieghe”.gilbeRto: “Sulle mani è concentrata la mia vita, tutta l’at-tenzione degli astanti è paralizzata dal loro movimento. Con le mani sposto soldi di qua e di là, sposto fortune, rovino vite e assisto alla nascita di altre, decido sull’esi-stenza dei comuni mortali... Senza, però, né vincere e né perdere... Io sono il sacro sacerdote pagano che, ieratico, dispensa con le mani fortune e sfortune...”.e, infine, MAx: “Tu urlavi nella rincorsa, ma so che eri l’unica a non aver paura. Ti guardavo nella frazione di tempo prima di toccare l’acqua fragorosamente con i pie-di. eri serena, le labbra socchiuse... Cosa guardavi l’atti-mo prima di tuffarti in acqua? Guardavi dritta davanti a te... Cosa guardavi che ti calmava? Sembravi una statua di marmo. Cosa guardavi?”.

Trailer appassionante, che annienta e incuriosisce, folgora e seduce, spiazza e ricompone. Ora, per vedere il film, occorre solo leggere il libro. Che, ormai è chiaro, ci scaraventa a capofitto dentro qualcosa…O, forse, dentro “qualcuno”.Letteratura, dunque.Il titolo è a tutto schermo.“Tuffatori”.

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1. AUGUSTO

era stata una giornata che definire morta sarebbe stato un eufemismo. Avevo mandato via prima di pranzo i miei collaboratori, visto che non c’erano state prenotazioni, tanto ce l’avrei fatta da solo a servire anche l’estempora-neo cliente che si fosse presentato all’ultimo minuto.

Mi sentivo un po’ triste e svogliato. Le decorazioni di cioccolato a cui mi ero dedicato in mattinata non erano riuscite alla perfezione perché sin dall’inizio mi aveva as-salito una sorta di incomprensibile insofferenza e la pa-zienza mi aveva abbandonato.

In tali circostanze è inutile insistere. Ci sono dei giorni “no” e questo era stato uno della serie, che negli ultimi tempi si stava allungando in maniera allarmante.

Mi sentivo solo, questa era la scoperta dell’ultim’ora. La solitudine cominciava a pesarmi e non mi riusciva di porre un freno allo stato di prostrazione in cui sentivo di precipitare. Mi mancava la progettualità, che da sem-pre mi teneva in vita, erano venute meno le motivazioni, molle della mia esistenza, l’ispirazione mi stava abbando-nando e l’entusiasmo era assente da tempo in tutto quello che facevo.

Quello che finora era stato un trampolino di lancio per le mie idee, adesso mi franava sotto i piedi e ogni giorno desideravo con tutte le mie forze che questo bisogno di novità riuscisse a costruire nuove fondamenta per il mio cammino esistenziale.

Nulla di meno attendibile. Nonostante la mia consape-volezza, mi scoprivo privo di energie e abulico, in sinto-nia con la mia vita scialba, incolore, neppure emozionante come a volte un’immagine in bianco e nero sa essere.

era una vita piatta, quella che mi toccava affrontare, e proprio non potevo accettarlo. ero depresso, questo sì

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lo accettavo con rassegnazione. Mi spalmavo addosso la mia razione giornaliera di depressione e affrontavo a testa bassa la vita, con le spalle curve come un vecchio.

Gli amici di sempre capivano che c’era qualcosa che non andava, eppure nessuno mi parlava direttamente, nessuno osava affrontare il problema che, mi dicevano, traspariva chiaramente dai miei occhi, dai miei gesti lenti, dalla mia attività che percorreva binari troppo usuali, senza guizzi né impennate, e registrava evidenti cadute di tono.

Non mi interessavano neppure gli articoli che i critici del settore mi dedicavano sulle riviste specializzate. Sape-vo che avevano ragione, ma non m’importava niente dei giudizi negativi perché in fondo li condividevo.

Tornavo da poco da un congresso di colleghi sulla cuci-na molecolare che mi aveva fatto intristire. Non riuscivo a capire il senso di tutto questo destrutturare, trasformare, alterare. Ridurre a scienza ciò che è arte solo perché si è a corto di fantasia, e si tenta di stupire, di attirare l’attenzio-ne su di sé utilizzando l’azoto liquido per i gelati, il vuoto spinto per i dolci, lo zucchero per la frittura, il tabacco per... Tutto ciò non riesce ad aprirmi la mente, contribui-sce soltanto a chiuderla a riccio ancor di più.

Pensavo quindi di ritornare con maggior vigore ai miei tradizionali fornelli e, invece, scoprivo che questa cucina mi incupiva. Avrei voluto cambiare l’arredamento della sala, i tovagliati, i piatti, i bicchieri, insomma l’immagine del locale, ma non avevo idee o spunti a cui ancorarmi. Avrei dovuto farmi aiutare, naturalmente, ma mi ritrova-vo incapace di esprimere giudizi su qualsiasi proposta... Forse sarebbe bastato cambiare soltanto il fiorista per le composizioni sui tavoli...

Proprio questo pensavo, appoggiato alla fredda parete d’acciaio del forno a microonde. erano ormai quasi le due del pomeriggio e stavo accingendomi a togliere il grembiu-le quando li vidi entrare. erano in tre, due uomini e una donna. Li guardavo, non visto, da una fessura di un pensile e già pensavo a cosa avrei detto per farli andare via.

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Uscito dal mio nascondiglio, non feci in tempo ad aprir bocca che lei si impose e parlò a voce alta. Con tono perentorio e guardandomi dritto negli occhi disse: «Ci mettiamo qui» ad indicare un angolo vicino al camino. e spostò la sedia dal tavolo continuando a tenermi gli occhi puntati addosso, quasi in segno di sfida. I suoi compagni, docili, la seguirono senza neppure attendere un cenno di consenso da me: era lei il capo o, perlomeno, questo dava ad intendere.

«Non so se sarò in grado di soddisfare le vostre richie-ste. La cucina è chiusa e io sono solo». Pronunciai questa frase con studiata lentezza, quasi calcando sullo stacco di ogni parola, a scongiurare il timore di non essere capito, come se avessi interlocutori bambini dai quali, ovviamen-te, aspettarsi capricci ed egoistiche imposizioni.

Il tono calmo e risoluto ebbe successo. Lei insistè nel guardarmi fisso negli occhi e mi rispose soave: «Ormai sia-mo qui e abbiamo fame. Ci porti pure qualcosa di freddo».

Rimasi un attimo a guardarla, sorridendo senza paro-le. era bruna e minuta. Aveva occhi a mandorla scuri. Le ciglia erano talmente lunghe da toccare, incurvandosi in maniera plateale, le palpebre. Bellissime le folte soprac-ciglia che le allungavano ancor di più lo sguardo senza appesantirlo.

Non potevo trattenermi oltre sui suoi occhi. Mi diressi verso la cucina soffermandomi sul modo in cui aveva pro-nunciato quel pronome, alla forma che avevano assunto le sue labbra, protese quasi a volermi dare un lieve bacio. “Ci”. dal tono arrendevole della sua affermazione sem-brava come aver detto: «Ormai sono qui. Fa’ di me ciò che vuoi».

Un po’ confuso, un po’ frastornato, mi sorpresi a sorri-dere a quegli occhi scuri sulla parete lucida del frigorifero.

e mi avvicinai ai miei occhi riflessi per scoprirli meno stanchi, solo un po’ più vivaci. Forzai con rinnovato inte-resse il maniglione del frigo e tirai fuori vari carpacci di pesce crudo che condii nei piatti con erbette e aromi. Af-

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fiancai alla composizione piccoli aspic di pomodoro. Quel giorno, per la prima volta, guardando quella forma bom-bata di gelatina che finiva con una piccola punta all’insù, pensai che somigliasse ognuna ad un minuscolo cuore rosso. Non palpitante, ma freddo e sodo.

In pochi minuti scongelai dei pani monoporzione ai semi di papavero che posai singolarmente su piattini d’ar-gento che li contenevano appena. ebbi cura di utilizzare dei piccoli tovaglioli dalla caratteristica forma circolare di lino rosso, che ben fungevano da sfondo al pane colorito e puntinato di nero.

Rossi gli aspic, rosso il centrino per i panini, rosso l’an-turium che campeggiava con la lucida foglia verde sul to-vagliato bianco. Queste forme sferiche e piene mi distras-sero e non mi fecero tornare a soffermarmi su di lei una volta tornato al tavolo per servire l’antipasto.

Mi dissi, ritornando in cucina, che mi sentivo imbaraz-zato perché intuivo che quella donna continuava a osser-varmi di sottecchi con rinnovato interesse.

di fatto, inconsciamente, stavo accostando quei cer-chi cremisi, che la mia mente andava appuntandosi come quadri su una candida parete, a un semaforo che con in-sistenza lampeggiava di una abbagliante luce rossa ad ini-birmi il passaggio verso quella che si prospettava essere un’accattivante esperienza. Magari l’immagine intermit-tente si coordinava anche con una sirena che cominciavo a sentire nelle orecchie.

Sorrisi a quell’immagine da cartoon e mi accinsi ad in-filare nel forno un branzino di grossa pezzatura imbottito di odori.

Ritornai al loro tavolo. Lei era immersa in una conver-sazione animata con gli altri due. Parlava a ritmo serrato, senza alzare la voce e evitando di gesticolare platealmen-te. Solo la sua mano sinistra scandiva con tocchi precisi e secchi le pause tra le parole. Vidi che non portava anelli. Vidi che i due uomini la ascoltavano annuendo e le loro espressioni erano quasi esitanti, timorose, sicuramente

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soggiogate dalla sua personalità che si dimostrava essere impetuosa e incisiva. Nessuno di loro l’adorava o l’ammi-rava, si vedeva dai loro sguardi. Nessuno dei due lo imma-ginavo nelle vesti di suo amante. entrambi sembravano essere più giovani o, questo intuivo, meno esperti di lei. Sentivo che li aveva in pugno e non volevo interrompere il lavorio di quella donna che stava per conquistare, estor-cere magari, l’affare della giornata.

dunque mi avvicinai e accostai il tavolino supplemen-tare al loro per spinare con comodità il pesce che avrei servito poco dopo. Feci questo in punta di piedi, tentando di non disturbare. Ma lei, appena mi vide al suo fianco, in-terruppe di colpo il suo monologo e, costringendo gli altri al silenzio, riprese a squadrarmi. Avvertivo che mi fissava le mani, che sapevo avere belle e affusolate a dispetto del resto del corpo, appesantito dalle insidiose trappole del mestiere. Notavo che mi guardava le scarpe. Quel giorno indossavo delle bellissime Nike nere, fortunatamente non toccate da schizzi di salse impazzite.

decisi di prestarmi al gioco e rilanciai. Mi diressi in cantina quasi fluttuando nell’aria, lasciandola lì in sospe-so, in attesa del mio ritorno con le labbra socchiuse e le ciglia socchiuse, in quell’espressione sognante che appesi in mente vicino al semaforo rosso, e quando riemersi da quelle scale, anch’esse di cotto rossastre, lei era ancora lì con gli occhi fissi al vuoto della scena che avevo per un attimo abbandonato.

e la riacciuffai al volo, la presi per i capelli e la ricon-dussi a me e alle mie mani che adesso, esperte, si davano da fare attorno al duttile stagno che avvolgeva il collo del-la pregiata bottiglia, e sulle mie dita che si attorcigliavano armoniose sul cavatappi ad imprimere, con movimen-ti circolari a tempo di valzer, tocchi geniali finalizzati a stappare con moto teatrale il sughero che allontanai dalla bottiglia con morbido gesto e rapidamente avvicinai alle narici mentre socchiudevo impercettibilmente gli occhi.

Lei era estasiata. Ipnotizzata dai miei gesti. La sentivo

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pensare alle mie mani sul suo corpo, quella lentezza ro-tonda che l’avrebbe fatta vibrare, istante per istante.

e decisi, in quell’istante, che sarei riemerso dal mio torpore, che sarei rinato insieme con lei, resuscitando e diventando entusiasta per lei. In quell’istante realizzai che stavo tornando a vivere grazie ad un ineffabile sentimento che avvertivo stava per nascere.

e mi feci trasportare dal sogno e dall’immagine di ciò che sarebbe potuto essere se soltanto fossi stato in grado di gestire il germoglio di questo sentimento appena ac-cennato, soltanto abbozzato, solo pensato.

decisi di infierire e di infliggere la stoccata finale. e la rivoltai, le feci cambiare posizione con gli occhi, la co-strinsi ad abbandonare l’attenzione per le mie mani por-tandomela alle labbra. Le mie labbra che ora sfioravano appena quel grande bicchiere di cristallo a forma di tu-lipano, e che si inumidivano di quel liquido paglierino impastandosi in soffici movimenti altalenanti... avanti e indietro... lubrificate dalla salivazione eccitata dalla dol-cezza del vino.

I suoi occhi non si spostavano dalle mie labbra, la sua mente dall’idea delle sue labbra sulle mie. Sapevo che quella donna stava muovendo verso di me, sentivo che stava organizzandosi per approfondire la mia conoscenza. ero vivo! Fanculo la cucina molecolare!

ero tentato di porgerle il bicchiere dal quale avevo ap-pena bevuto, sul cui bordo era rimasta traccia del pas-saggio delle mie labbra, rivoli appetitosi ai soli occhi che adesso le vedevo aperti. Ben aperti. Volevo che lei assag-giasse, mi assaggiasse in anteprima... Sapevo che avrebbe accettato e che i due al suo seguito avrebbero volutamen-te ignorato quanto accadeva...

e invece presi il bicchiere che aveva davanti e versai qualche goccia di quel vino denso e, sotto i suoi occhi, lo ruotai evidenziandone lo scintillio in controluce e portan-do quella preziosità ad illuminare, questa volta di una luce gialla, preavviso del pericolo, i suoi occhi scuri.

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Servii il branzino con dei timballi di caponatina di ver-dure. Il nettare con la quale la tramortii era un inebriante vino siciliano bianco.

Pagò lei il conto. Andarono via subito. dalla carta di credito appresi il suo nome e lo feci mio. Mi tenne com-pagnia tutta la notte.

* * *

due giorni dopo tornò. Questa volta era sola. La in-chiodai al muro dicendole: «Ti aspettavo. Sapevo che sa-resti tornata, ma non pensavo così presto».

Fece spallucce, a sottolineare la pura casualità della sua presenza lì con me e non già la premeditazione. Si fece strada nella sala senza aspettare che la precedessi e scelse lo stesso tavolo della volta scorsa. Indossava un rigoroso tailleur gessato che su di lei perdeva l’impronta maschi-le per ammantarsi di un’aspettata femminilità: le esaltava le forme rendendola intrigante e attraente come solo una donna dal vago sentore androgino può essere.

Mi disse di non avere troppo tempo e io le risposi che non l’avrei fatta aspettare.

Le proposi un astice alla catalana sfidandola a destreg-giarsi con schiaccianoci e forchettina a due punte. Questa volta volevo invertire le parti: era lei che doveva esibir-si con le mani, magari anche detergendole nella scodella d’argento con acqua e petali di rose che le avrei portato a fine pasto... e accettò di buon grado la sfida, come un duellante che si rispetti raccoglie il guanto a testa alta.

Mi scusai e la lasciai sola rintanandomi in cucina, na-scosto dal solito pensile dietro il quale l’osservai per tutto il tempo necessario alla preparazione del piatto.

Non riuscivo a decifrarla. Mi attraeva, ma nello stesso tempo sentivo di non potermi fidare di lei. Aveva un certo che di altero che mi inibiva e mi attirava in egual misura.

C’era qualcosa di indecifrabile nel suo sguardo, non capivo cosa fosse e questa mancanza di chiarezza mi incu-

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riosiva e mi dannava. Forse mi seduceva perché mi lusin-gava. Sì, ero lusingato dalla sua attenzione. Pensavo che mi sarei sentito orgoglioso di averla al mio fianco. Lei mi aveva scelto, aveva scelto proprio me, che certo non ero un uomo degno della sua bellezza, della sua raffinatezza e, forse, della sua cultura. Sapere ciò che di me la incuriosi-va, questo mi attraeva: era troppo poco per sentirsi coin-volto? di certo avevo voglia di sperimentarmi in qualcosa di nuovo, di difficile, di inusuale... Lei era tutto questo. Sentivo che valeva la pena di ignorare il semaforo rosso che mi lampeggiava nella mente, come in ogni situazione di pericolo.

Mi chiedevo, ancora osservandola senza essere visto, quale fosse il rischio per me.

Aldilà di questa sensazione indefinibile, questo ricordo di acque torbide svaniva se rapportato alla sua fisicità che sembrava innocua, esile e perciò fragile, delicata e quindi raffinata. Intuivo non muscolose le sue braccia. Non ispi-ravano conforto, era molto magra... Forse le sue braccia non erano ospitali, ma di questo mi sarei occupato in un secondo momento...

Le servii l’astice su di un letto di croccante insalatina mista con spicchi di pompelmo rosa pelati a vivo e pistac-chi di Bronte.

Mi invitò a farle compagnia e, seduto accanto a lei, la osservai. era una donna molto sensuale, riusciva a man-giare con le mani senza che ciò potesse sembrare volgare. Fu proprio un bel vedere e mi riempii di desiderio. Non parlò molto di sé. Mi raccontò che era un direttore di banca e che viveva da sola in città. Mi spiegò che deside-rava vedermi fuori dal ristorante, così avrebbe imparato a conoscermi.

Mi lanciai in un’audace proposta. Le dissi, scusando-mi appunto per la proposta forse un po’ azzardata, pre-matura, che, se voleva, avrei cucinato per lei a casa sua. Naturalmente avrei portato tutto il necessario, vivande comprese.