TRIANGOLO IT ROSSO · TRIANGOLO IT ROSSO Il lungo cammino del Memoriale italiano di Auschwitz, dal...

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www.deportati.it euro 2,50 Giornale a cura dell’Associazione nazionale ex deportati nei Campi nazisti e della Fondazione Memoria della Deportazione Nuova serie - anno XXXV Numero 1-6 Gennaio-Giugno 2019 Sped. in abb. post. art. 2 com. 20/c legge 662/96 - Filiale di Milano IT TRIANGOLO ROSSO Il lungo cammino del Memoriale italiano di Auschwitz, dal campo di sterminio fino alla sua nuova sede di Firenze è arrivato alle tappe finali. I lavori, come scri- ve qui il sindaco di Firenze Dario Nardella, sono a buon punto mentre scriviamo e si prevede la sua apertura nei primi giorni di maggio. Un impegno che l’Aned ha as- sunto su di sé fin da quando è giunta la prima notizia della decisione di chiudere il Memoriale nella sua se- de naturale ad Auschwitz. Da pagina 3 a pagina 7 Torna a Firenze il Memoriale italiano che era ad Auschwitz Avrà accanto una mostra su Memoria e deportazione I vecchi raccontano l’orrore i giovani ascoltano il futuro Il messaggio che arriva dal Giorno della Memoria Anche quest’anno la Giornata della memoria ha visto una lunga serie di iniziative che si sono svolte in tutta Italia. L’Aned ne ha organizzate molte in proprio o insieme ad Istituzioni e ad Associazioni. Ad altre ha partecipato su in- vito. Si è trattato di un momento di memoria e di sguardo spesso preoccupato sul presente e sul futuro di questo no- stro Paese e dell’Europa, mentre arrivano segnali di at- tentati fisici o verbali alle Istituzioni democratiche. I ragazzi del liceo hanno rifatto i mestieri dei deportati ELLEKAPPA Una mobilitazione antifascista a livello continentale Intervento del presidente nazionale dell’ Aned, Dario Venegoni, al convegno dell’Anpi “Essere antifascisti oggi” Pag. 8 Diamo alla Memoria la forza dell’attualità L’intervento di Floriana Maris alla cerimonia ufficiale del XIX “Giorno della Memoria” in ricordo della deportazione razziale, politica e militare Pag. 10

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www.deportati.iteuro 2,50

Giornale a cura dell’Associazione nazionaleex deportati nei Campi nazisti e della Fondazione Memoria della Deportazione

Nuova serie - anno XXXVNumero 1-6 Gennaio-Giugno 2019Sped. in abb. post. art. 2 com. 20/clegge 662/96 - Filiale di Milano

ITTRIANGOLOROSSO

Il lungo cammino del Memoriale italiano di Auschwitz,dal campo di sterminio fino alla sua nuova sede diFirenze è arrivato alle tappe finali. I lavori, come scri-ve qui il sindaco di Firenze Dario Nardella, sono a buonpunto mentre scriviamo e si prevede la sua apertura neiprimi giorni di maggio. Un impegno che l’Aned ha as-sunto su di sé fin da quando è giunta la prima notiziadella decisione di chiudere il Memoriale nella sua se-de naturale ad Auschwitz. Da pagina 3 a pagina 7

Torna a Firenze il Memorialeitaliano che era ad Auschwitz

Avrà accanto una mostra su Memoria e deportazione

I vecchi raccontano l’orrorei giovani ascoltano il futuro

Il messaggio che arriva dal Giorno della Memoria

Anche quest’anno la Giornata della memoria ha visto unalunga serie di iniziative che si sono svolte in tutta Italia.L’Aned ne ha organizzate molte in proprio o insieme adIstituzioni e ad Associazioni. Ad altre ha partecipato su in-vito. Si è trattato di un momento di memoria e di sguardospesso preoccupato sul presente e sul futuro di questo no-stro Paese e dell’Europa, mentre arrivano segnali di at-tentati fisici o verbali alle Istituzioni democratiche.I ragazzi del liceo hanno rifatto i mestieri dei deportati

ELLEKAPPAUna mobilitazioneantifascista a livello continentale Intervento del presidentenazionale dell’ Aned, Dario Venegoni, al convegno dell’Anpi“Essere antifascisti oggi”Pag. 8

Diamo alla Memoria la forza dell’attualitàL’intervento di Floriana Marisalla cerimonia ufficiale del XIX “Giorno della Memoria”in ricordo della deportazionerazziale, politica e militarePag. 10

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QUESTO NUMERO

Pag. 3 Sarà un mosaico della deportazione attraverso pietre, immagini e parole di Elisa Guida - Bruno Maida

Pag. 4 Firenze. Perché ospitiamo nella nostra città il “Memoriale di Auschwitz”di Dario Nardella, sindaco

Pag. 6 Cronaca dei lavori per il Memoriale di Auschwitz di Gavinana Aned Firenze

Pag. 8 Una mobilitazione antifascista a livello continentale di Dario Venegoni

Pag. 10 Diamo alla Memoria la forza dell’attualità di Floriana Maris

Pag. 12 Per la memoria un gemellaggio particolare è giunto al decennale tra il comune di Firenze e quello di Mauthausen

di Raffaele PalumboPag. 14 Gli studenti di Udine e la Memoria (di tutti) della deportazione Pag. 16 Attivo “Il Passaggio del Testimone”, progetto di Servizio Civile

alla casa della Memoria

SERVIzIPag. 18 La Tregua di Natale, il calcio oltre la trincea della Grande GuerraPag. 20 Con cento treni gli ebrei olandesi sono portati all’Olocausto

di Luigi Offeddu

NOTIzIEDa pag. 22 Monza, la Spezia, Bergamo, Busto Arsizio, Bari, Milano, Lugano,Anzio, Torino, Savona.

I NOSTRI LUTTIPagina 32 Venanzio Gibillini, Marisa Scala, Raffaele Capuozzo, Enzo Cavaglion

DOSSIERPag. 34 Dopo 10 anni sono 190 le pietre d’inciampo in Italia

di Marco SteinerPag. 36 La preziosa eredità di un uomo controverso

di Dario VenegoniPag. 42 “@fondazionememoria”. Il ruolo dei nuovi media nel processo di memo-

ria storica di Alberto Rosati Pag. 44 Il carcere di Trieste e la deportazione nazifascista

di Franco CecottiPag. 48 “Forse domani si parte per dove non si sa, chi dice Dalmine chi in

Germania” di Laura Tagliabue

LE NOSTRE STORIEPag. 50 Codè, operaio milanese, arrestato perché comunista è confinato, poi

deportato a Mauthausen dove muore di A. GentileschiPag. 52 Baldanza, contadino siculo emigra a Sesto S. Giovanni. Antifascista poi

deportato finirà a morte in Germania di Luigi MartinelliPag. 54 L’eroe dell’Exodus che salvò migliaia di bambini ebrei giocando a palla

in Francia e “goal” al confine svizzero di Stefano MontefioriPag. 56 Il “saio della carità”ospita fuggiaschi: così i tedeschi massacrarono i

monaci della certosa di Farneta di Stefano Coletta Pag. 60 Anna Botto, la maestra scrive l’epitaffio in memoria di un comunista fuci-

lato. Arrestata, finisce deportata di Ferruccio BelliPag. 63 Scappano dal lager con un Maggiolino Volkswagen del ‘42 tutto da

aggiustare di Martina Riccò

BIBLIOTECAPag. 64 Omicidi e violenze, quotidiane e “straordinarie”, nel lager di BolzanoPag. 65 Storia dell’ebreo errante nato su un treno mentre la città bruciavaPag. 66 Il deportato Gorup che invita a non odiare maiPag. 67 Lettera a un padre mai conosciuto: una Pietra d’Inciampo per Renato

ForlinoULTIMA PAGINA

Prima vengono i Triangoli Rossi

ITTriangolo Rosso

Periodico dell’Associazione nazionale ex deportati nei Campi nazisti e della Fondazione Memoria della Deportazione

Una copia euro 2,50, abbonamento euro 10,00Inviare un vaglia oppure effettuare un bonifico a:

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Telefono 02 68 33 42e-mail Aned nazionale: [email protected]

Fondazione Memoria della DeportazioneBiblioteca Archivio Pina e Aldo RavelliVia Dogana 3, 20123 Milano- Tel. 02 87 38 32 40

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Triangolo Rosso

Direttore Giorgio Oldrini

Comitato di redazione Sauro BorelliBruno CavagnolaGiuseppe CerettiOreste PivettaAngelo Ferranti

Segreteria di redazione Vanessa Matta

Collaborazione editoriale Franco MalagutiIsabella Cavasino

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Chiuso in redazione il 4 marzo 2019Stampato da Stamperia scrl - Parma

TESSERA ANED E ABBONAMENTOSe non avete ancora rinnovato la tessera ANED e l’abbonamento a

Triangolo Rossovi preghiamo di contattare al più presto la vostra Sezione oppure dirivolgervi alla segreteria nazionale:

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Come raccontare la sto-ria del Memoriale ita-liano di Auschwitz da-

gli anni Settanta a oggi? Esoprattutto, come spiegareal visitatore il contesto chequell’opera d’arte ha pro-dotto? Accettare la sfida diquesta mostra ha significa-to porci queste e altre do-mande. Ha significato ra-gionare sul linguaggio ve-rosimilmente più adatto, sultaglio che ci sembrava piùefficace. Alla fine abbiamoscelto di costruire innanzi-tutto un sintetico quanto evo-cativo percorso nel qualeraccontare anche ai più gio-vani quei momenti dram-matici della storia italianache hanno reso possibili ledeportazioni dall’Italia nelbiennio 1943-1945. DallaMarcia su Roma alla co-struzione del consenso, dalrazzismo coloniale all’anti-semitismo di Stato, dallaguerra a fianco di Hitler al-l’occupazione tedesca, dal-la Resistenza al 25 aprile ab-biamo voluto ripercorrereuna parte della storia la-sciando il più ampio spaziopossibile a immagini, cartegeografiche ed elenchi ag-giornati. Abbiamo anche vo-luto che a guidare idealmenteil visitatore fossero propriogli ex deportati, le cui paro-le giganteggiano come mo-niti.

Ma non sono solo leparole scritte ad ac-compagnarlo, an-

che il suono della voce diCalamandrei dà significatoalla lotta degli italiani.Inconfondibile, dagli alto-parlanti, è l’esortazione alpellegrinaggio nei luoghi,tutti, dove è nata laCostituzione, «nelle mon-tagne dove caddero i parti-

Memoriale italiano diAuschwitz, inaugurato nel1980 e chiuso al pubbliconel 2011.

Anche in questa partedella mostra, la storiasi snoda in un per-

corso che è esistenziale epolitico, privato e pubblico.Abbiamo cercato di rende-re visibili alcuni dei princi-pali passaggi della storia del-

la memoria e dare conto deiloro diversi linguaggi: ar-chitettonici, museali, lette-rari, figurativi. Il visitatore simuove, quindi, tra la “me-moria di pietra” rappresen-tata dai memoriali, monu-menti e musei costruiti inItalia e in Europa nel dopo-guerra e le pietre d’inciam-po di Gunter Demnig, in-stallate in Italia a partire dal2010; tra i disegni di AldoCarpi e quelli, inediti, diLidia Rolfi. Grande rilevanzaè data anche a quei raccon-ti che testimoniano l’urgen-za comunicativa degli ex de-portati, che dal dopoguerraa oggi hanno scritto più di250 libri sulla loro espe-rienza. Attraverso pietre,immagini e parole si com-pone, insomma, un mosai-co della memoria italianadella deportazione, all’in-terno del quale il Memorialeitaliano di Auschwitz co-stituisce la tessera più im-portante.

Elisa Guida -Bruno Maidacuratori della mostra

Sarà un mosaico della deportazioneattraverso pietre, immagini e parole

giani, nelle carceri dove fu-rono imprigionati, nei cam-pi dove furono impiccati». Ci è parso necessario rac-contare anche, e per certiaspetti soprattutto, il dopo.Quel dopo a lungo taciuto ecosì importante per dare con-to dell’impegno e delle ener-gie profuse dall’ANED, dal-lo studio BBPR, da PrimoLevi e Pupino Samonà, chehanno dato vita e forma al

Opera diGiordanoQuattri la storicafotografia(sopra) cheritrae nel cortile di via Doberdò: da sinistra AbeleSaba, GiuseppeLanzani, MarioPupino Samonà,LodovicoBarbiano diBelgiojoso eGianfrancoMaris. Foto a destra, il montaggio.

Firenze: all’Ex3 saranno ospitati il Memoriale italiano di Auschwitz e una mostra,commissionata dall’Aned, che ne farà da premessa e da ampliamento

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Perché ospitiamo nella nostra città il Memoriale di Auschwitz

Tra le prime opere “multimediali”

Il contratto tra l’ANED e il Comune

Mai come in questo momento c’è bisogno dimemoria. Viviamo un tempo fuggevole,istantaneo, che dura lo spazio di una foto,di un tweet. La storia sembra durare pochi at-timi, per poi essere sommersa da altre nar-razioni. Leggere, concentrarsi, studiare, pro-vare a capire, sembra una fatica insormon-tabile. Eppure conservare la memoria, tra-mandare quello che è avvenuto, non rinne-gare ma ricordare il passato per imparare anon ripeterne gli errori, è essenza stessa del-l’agire umano.A Firenze ci vogliamo provare. Con le pic-cole azioni di ogni giorno che improntanola nostra amministrazione. Con le cerimoniedi ricordo, non vuote ricorrenze ma tradi-zionali momenti di raccordo e riunificazio-ne della cittadinanza intorno a un comunesentire. E Firenze, viva, attenta, solidale, sidimostra sempre partecipe e unita, pronta arespingere con forza chi nega i suoi valori difondo.Da quest’anno la nostra città avrà modo ditrovarsi insieme attorno a un nuovo, monu-mentale, simbolo: il Memoriale italiano diAuschwitz. Si tratta di un’opera d’arte con-temporanea collocata nell’ex campo di ster-minio polacco e poi lì smantellata, che hatrovato, dopo un lungo percorso, una nuovacasa proprio a Firenze.

Il Memoriale è una delle prime opere mul-timediali europee frutto di una progettazio-ne collettiva e corale a cui contribuirono lostudio di architettura di Milano BBPR (Banfi,Belgiojoso, Peressutti e Rogers), lo scritto-re Primo Levi, il pittore Mario “Pupino”Samonà, il regista Nelo Risi ed il composi-tore Luigi Nono. Fu inaugurato ad Auschwitznel 1980 e all’ingresso presenta una targascritta da Primo Levi in cui tra l’altro si leg-

ge: ‘Visitatore, osserva le vestigia di que-sto campo e medita: da qualunque paese tuvenga, tu non sei un estraneo. Fa che il tuoviaggio non sia stato inutile, che non sia sta-ta inutile la nostra morte. Per te e per i tuoifigli, le ceneri di Auschwitz valgano di am-monimento: fa che il frutto orrendo dell’o-dio, di cui hai visto qui le tracce, non dianuovo seme, né domani né mai’. Il Memorialeè costituito da una passerella lignea circon-data da una spirale ad elica all’interno del-la quale il visitatore cammina come in untunnel. La spirale è rivestita all’interno conuna tela composta da 23 strisce dipinte daPupino Samonà, seguendo la traccia del te-sto di Primo Levi, mentre dalla passerellasale la musica di Luigi Nono intitolata‘Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz’.

La proposta di ospitare a Firenze il Memorialearrivò nel 2014 da ANED, l’Associazionenazionale che raccoglie gli ex deportati neilager nazisti. Comune e Regione Toscanarisposero con entusiasmo, convinte del va-lore storico, culturale, artistico, civile del-l’opera. Il cammino è stato lungo. Il Ministerodei beni culturali, riconoscendo il valore diassoluto rilievo del Memoriale per la cultu-ra italiana del Novecento e quale testimo-nianza della deportazione italiana nei cam-pi nazisti, ha curato lo smontaggio e il tra-sferimento dell’opera a Firenze. Il percorsodi lavoro ha portato quindi alla sottoscri-zione di un Protocollo d’Intesa tra Comunedi Firenze, Regione Toscana, ANED e Mibactper tutelare e valorizzare il Memoriale nel-la pluralità dei suoi significati storici, arti-stici e di memoria civile, restituendolo a unafruibilità pubblica. L’ ANED, proprietariodell’opera, ha stipulato col Comune un con-tratto di comodato d’uso gratuito.

Uno scritto per Triangolo Rosso del sindaco di Firenze Dario Nardella

L’ incontro per accogliere nel 2016 il Memoriale. Nella foto Dario Venegoni presidente dell’Aned,Enrico Rossi presidente della Regione Toscanal’architetto Alberico Belgiojoso, il sindaco di FirenzeDario Nardella e l’allora sottosegretario ai BeniCulturali Ilaria Borletti Buitoni.

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Ed eccoci al restauro odierno

Tra poche settimane sarà visibile

Come un tunnel dentro il dolorePurtroppo i molti anni di mal conservazio-ne hanno reso necessario un restauro accu-rato così che, dopo l’arrivo a Firenze, ilMemoriale è stato sottoposto a un interven-to a cura dell’Opificio delle Pietre Dure, ve-ro e proprio ‘ospedale dei beni culturali’presente in città ed eccellenza italiana, gra-zie alla messa a disposizione da parte diFirenze Fiera di un locale sufficientementegrande e finanziato dalla Fondazione Cassadi Risparmio di Firenze con un ‘contributoin opera’ nell’ambito della normativa sull’ArtBonus. Questa operazione rappresenta uncaso eccezionale di restauro di un’opera diarte contemporanea, considerate sia le gran-di dimensioni che le sue caratteristiche mul-timediali intrinseche.

Intanto il Comune ha pensato al luogo: ilCentro Ex3 nella zona di Gavinana, dove ilprogetto per l’installazione del Memorialeprevede la completa ristrutturazionedell’Auditorium e nel prossimo futuro, acompletamento dell’idea progettuale, un al-lestimento museale con attività didattichepensate in particolare per le scuole. Stiamo costituendo il servizio educativo chetramite mediatori culturali formati sui temidella storia delle deportazioni proporrà allescuole percorsi di visita e approfondimento.Dopo una sperimentazione nelle ultime set-timane del corrente anno scolastico le atti-vità riprenderanno in modo strutturato a set-tembre 2019.Tra poche settimane dunque il Memorialesarà aperto, visibile da tutti. Abbiamo pen-sato a una piccola cerimonia, a maggio, perricordare la fine della Seconda guerra mon-diale e di conseguenza la tragica scoperta

Visitatore, osserva le vestigia di questo campoe medita: da qualunque paese tu venga, tu non sei un

estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, chenon sia stata inutile la nostra morte. Per te e per i tuoifigli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce, non dia nuovo seme, né domani né mai

”da parte della maggioranza del mondo del-l’esistenza dei campi di sterminio.

Ci piacerebbe che il Memoriale fosse inau-gurato in un giorno simbolico, l’8 maggio,data convenzionale della fine del conflitto inEuropa, nel 1945, occasione per ricordarela fine di tutti i campi di concentramento maanche l’embrionale nascita di un nuovo spi-rito europeo, in seguito concretizzatisi nel-le prime Comunità europee, che poneva l’ac-cento sulla pace, sulla fratellanza, sul ripu-dio della barbarie della guerra.In questa occasione vorremmo che fosse connoi anche la senatrice a vita Liliana Segre,esempio straordinario di donna tenace e me-ravigliosa, da sempre infaticabile nell’eser-cizio di proteggere e tramandare la memo-ria di chi, in quei campi, è stato deportato.Grazie al consiglio comunale Liliana Segresarà cittadina onoraria di Firenze. Per noi èstato un onore ospitarla e ascoltarla.Quello che lei racconta non è successo trop-pi anni fa, in un continente lontano da noi.Sono vicende terribili, barbare, disumane,che pure sono avvenute, in una sorta di ne-gazione collettiva, in un paese europeo, vi-cino alle nostre case e alle nostre vite.Tutto serve. La voce libera di Liliana e de-gli altri testimoni della Shoah, le narrazio-ni di chi tornò, di Primo Levi, di Nedo Fiano,e poi l’arte, quella del Memoriale, un tun-nel dove avvertire tutto il dolore del mondoma anche trovare la via per uscirne, per su-perarlo, per imparare davvero a non ripete-re quegli orrori.

Abbiamo imparato? Questo solo conta. La ri-sposta, a volte, può fare ancora oggi paura.

Dario Nardella

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Avanzano i lavori al centro Ex3 di Gavinana peraccogliere il Memoriale italiano di Auschwitz,opera d’arte contemporanea collocata nel museo

presso l’ex campo di sterminio e poi smantellata, che hatrovato una nuova casa a Firenze. L’inaugurazione è prevista durante le manifestazioni peril 25 Aprile prossimo. Il costo del cantiere, un milione dieuro, è stato finanziato dalla Regione Toscana. Il Memoriale è arrivato in città ed è sottoposto ad un re-stauro da parte dell’Opificio delle Pietre Dure, graziead un finanziamento della Fondazione CR Firenze.

“Siamo lieti - ha dichiarato il sindaco Dario Nardella –che proprio nell’anno in cui ricordiamo l’orrore delle leg-gi razziali questa straordinaria opera d’arte stia pertornare visibile a tutti, monito contro le atrocità dellaseconda guerra mondiale e di tutta la barbarie umana.Il Memoriale stava per essere smantellato e dimentica-to e abbiamo fortemente voluto che fosse portato qui:Firenze, medaglia d’oro della Resistenza, è il luogo idea-le per parlare di memoria, ma anche di futuro, di pace,di vita”.Il progetto per l’installazione del Memoriale prevede lacompleta ristrutturazione dell’Auditorium Ex3 da par-te dei Servizi tecnici del Comune di Firenze. All’internodella sala espositiva principale, dell’altezza utile di ol-tre 11 metri, si realizza un soppalco che la divide oriz-zontalmente in due, in modo da raddoppiare la superfi-cie espositiva. All’area museale si accederà dall’ingressosu Viale Giannotti. A completamento dell’idea proget-tuale è prevista, per il piano terreno dell’edificio, la de-finizione di un allestimento museale con attività didat-tiche che richiede un ulteriore finanziamento da partedella Regione Toscana e impegno, per la gestione, daparte del Comune con la collaborazione di Aned.Contestualmente ai lavori all’Ex3, il Memoriale, usu-rato da troppi anni di conservazione in un ambiente nonottimale in Polonia, viene restaurato grazie all’inter-vento dell’Opificio delle Pietre Dure e alla messa a di-sposizione, da parte di Firenze Fiera, di un locale suffi-cientemente grande per ospitare l’opera durante il re-stauro, finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmiodi Firenze con un ‘contributo in opera’ nell’ambito del-la normativa sull’Art Bonus. Questa operazione sulMemoriale rappresenta un caso eccezionale di restaurodi un’opera di arte contemporanea, considerate sia legrandi dimensioni che le sue caratteristiche multime-diali intrinseche

Aned Firenze

Cronaca dei lavoriper il Memoriale di Auschwitz di Gavinana 

Aperti i cantieri al centro Ex3. In contemporanea è in corso il restauro c

La storiaIl Comune di Firenze e laRegione Toscana nell’ot-tobre del 2014 hanno ac-colto la proposta dell’Aneddi ospitare a Firenze ilMemoriale italiano delcampo di concentramentodi Ausch witz, che per de-cisione della Direzione delmuseo polacco non pote-va più restare nel luogo percui era stato concepito.La scelta di accogliere ilMemoriale si è basata sul-la convinzione del valorestorico, culturale, artisti-co, civile dell’opera e sul-la consapevolezza dellapresenza in Toscana di sen-

sibilità e competenze larga-mente diffuse sui temi del-la memoria, espresse neglianni con impegno sia dalleistituzioni che dalla societàcivile.Il Ministero dei beni cultu-rali, riconoscendo il valoredi assoluto rilievo delMemoriale per la cultura delNovecento e quale testimo-nianza della deportazioneitaliana nei campi nazisti,ha curato lo smontaggio edil trasferimento dell’operaa Firenze. Il percorso di lavoro ha por-tato quindi alla sottoscri-zione, il 20 maggio 2015, diun Protocollo d’Intesa traRegione Toscana, Aned e

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ompleto dell’opera grazie al finanziamento della Fondazione CR Firenze

Mibact con il Comune pertutelare e valorizzare ilMemoriale nella pluralitàdei suoi significati storici,artistici e di memoria civile,restituendolo ad una fruibi-lità pubblica. L’Aned, proprietario del-l’opera, ha stipulato colComune un contratto di co-modato d’uso gratuito.È stato costituito un comi-tato tecnico scientifico pertracciare i contenuti stori-co-culturali della riconte-stualizzazione delMemoriale ed è stato redat-to un progetto di ristruttu-razione dell’edificio con lacostruzione di un ulteriorepiano nell’attuale monovo-

lume, per consentire il po-sizionamento dell’opera alprimo piano. Il progetto esecutivo predi-sposto a cura dei servizi tec-nici del Comune è stato fi-nanziato dalla RegioneTosca na e conseguentementeè stata approvata e stipulatala convenzione fra Comunee Regione che consente l’ef-fettiva erogazione dei fon-di e l’avvio dei lavori, chiu-dendo così la prima fare del-l’intera operazione.Il Memoriale è una delle pri-me opere multimediali eu-ropee frutto di una proget-tazione collettiva e corale acui contribuirono lo studio diarchitettura di Milano:

BBPR (Banfi, Belgiojoso,Peressutti e Rogers), lo scrit-tore Primo Levi, il pittoreMario “Pupino” Samonà, ilregista Nelo Risi ed il com-positore Luigi Nono.Fu inaugurato ad Auschwitznel 1980 e all’ingresso pre-senta una targa scritta daPrimo Levi:

‘Visitatore, osserva le ve-stigia di questo campo e me-dita: da qualunque Paese tuvenga, tu non sei un estra-neo.Fa che il tuo viaggio non siastato inutile, che non sia sta-ta inutile la nostra morte.Per te e per i tuoi figli, le ce-neri di Auschwitz valgano

di ammonimento: fa che ilfrutto orrendo dell’odio, dicui hai visto qui le tracce,non dia nuovo seme, né do-mani né mai’.

Il Memoriale è costituito dauna passerella circondata dauna spirale ad elica all’in-terno della quale il visitato-re cammina come in un tun-nel. La spirale è rivestita al-l’interno con una tela com-posta da 23 strisce dipinteda Pupino Samonà, seguen-do la traccia di un testo scrit-to da Primo Levi, mentredalla passerella sale la mu-sica di Luigi Nono intitola-ta ‘Ricorda cosa ti hannofatto in Auschwitz’.

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Èstata questa spettacolaretrasformazione economica,sociale e culturale ad

alimentare nelle masse popolari unsenso forte di incertezza quando nondi paura per il proprio avvenire e perquello dei propri figli. E la paura, losappiamo, è il carburante principaledei nazionalismi, dell’ostilità verso iforestieri e i migranti, della nostalgiaper il passato. Se le cose stanno così, le risposte cheogni singolo movimento democraticoe antifascista può prospettareesclusivamente su base nazionalenon possono che dimostrarsivelleitarie. Per questo io plaudoall’iniziativa dell’ANPI chefinalmente pone il problema su basecontinentale.

il problema, ancora una volta,

sono i valori... perduti

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Una mobilitazioneantifascista a livello continentale

Intervento del Presidente nazionale di Aned Dario Venegoni al Convegno dell’Anpi “Essere antifascisti oggi”

Sono tra coloro che collocano ladata di inizio della crisi che haportato l’Europa e il mondo alla

situazione attuale ben prima delloscandalo dei mutui sub-prime del2007-2008.

Ritengo che non si possacomprendere la situazione odiernasenza considerare la straordinariarivoluzione tecnologica digitale cheha sconvolto tutto dalla fine deglianni ‘80, quando si sono diffusi ipersonal computer ed è nata Internet.

È stata la rete, infatti, a creare lecondizioni di quel fenomeno chedefiniamo “globalizzazione”. Ed è stata la globalizzazione asconvolgere le economie e gli assettisociali dei Paesi più avanzati come diquelli più poveri, a creare lecondizioni per un gigantescotrasferimento delle produzioni, agenerare in ultima istanza la radicaletrasformazione del mercato dellavoro, sia in tutte le Nazioniindustrializzate che in quelle dette“in via di sviluppo”, e a porre ipresupposti delle imponentimigrazioni di massa di oggi.

In quegli anni si è dissolto ilblocco sovietico; macontemporaneamente si sono

disintegrate le classi socialiall’interno dei Paesi occidentali;decine di milioni di persone hannoperduto il lavoro o sono statecomunque costrette a cambiarlo; lenuove generazioni hanno smarritoogni certezza di occupazione e diaffermazione personale; sonocresciute a dismisura le divaricazionisociali, con piccole élite sempre piùricche e una grande massa dipopolazione sempre più povera.

IT

“”

Èvero: avanza un’onda che nonpossiamo non definirereazionaria, se non in qualche

misura fascista in tutta Europa.È giusto allora porre con forza iltema di una nuova mobilitazioneantifascista a livello continentale. Su quali obiettivi?

Lasciatemi dire con franchezza chenon ritengo che l’obiettivo possaessere quello della lotta alla politicadi austerità praticata dall’UnioneEuropea. Le forze più avvertite delmovimento ecologista internazionale,se è per questo, si sono spinte ben aldi là dell’idea dell’austerità,giungendo a ipotizzare addirittura laparola d’ordine della decrescita. Nonè quello il punto, dunque.

Il punto è che l’Europa cheabbiamo conosciuto in questiultimi decenni si è dimostrata

lontana, refrattaria alle istanzepopolari, sensibile esclusivamentealle esigenze dei mercati finanziari edelle politiche economiche dei Paesipiù forti. E che questa UE haperduto completamente l’ispirazioneche era stata alla base del progettooriginario, quello di Altiero Spinellie dei padri dell’idea europea. Il problema, ancora una volta, sono ivalori. L’Unione Europea, nata dallemacerie della guerra, ha perduto illegame con la propria storia, con leproprie ispirazioni. Nel continente, adistanza di due generazioni, sembrasmarrita la memoria della guerra,degli orrori, delle responsabilità delfascismo e del nazismo in quellaimmane catastrofe.

Oggi il primo obiettivo chel’antifascismo europeo deve porsi èquello di sconfiggere i nazionalismi

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punto in bianco quasi due elettori sutre in questo Paese siano diventatifascisti.

Come è stato detto recentementea Berlino, in una riunione deiComitati Internazionali dei

maggiori Campi di concentramentonazisti, dovremo unire le nostre forzeper difendere contemporaneamente lepietre, le persone e le idee.

• Le pietre, e cioè i luoghi – iopenso per esempio ai monumenti ailiberatori di tanta parte d’Europa, oanche a quanto resta dei Campi diconcentramento nazisti; pensiamo poiai veri e propri attentati che l’Austriaha portato ai danni del campo diMauthausen; pensiamo infine alle 20pietre d’inciampo deposte a Roma aricordo di altrettanti componentidella famiglia ebraica romana dei DiConsiglio, uccisi a Birkenau, chequalcuno ha divelto e rubato.

• Le persone – È evidente cheoggi sono drammaticamenteminacciate le conquiste delle donne,contro le quali c’è una autenticacrociata oscurantista. Ma i più inpericolo sono oggi i migranti,oggetto ogni giorno didiscriminazioni odiose e divessazioni. Nella DichiarazioneUniversale dei Diritti dell’Uomo c’èla risposta al tema dell’accoglienza edell’inclusione dei migranti. Tutti iPaesi hanno firmato quel documento,battiamoci perché quelle parole sitrasformino in fatti concreti.

• Le idee: penso ai giuramenti deideportati a Buchenwald e aMauthausen, all’indomani dellaliberazione. Erano le idee cheispirarono, dalle rovine del conflittomondiale, la creazione di uno spazioeuropeo capace di dare risposta alleistanze di pace, di convivenza, disviluppo dei popoli del continente,così duramente provati da tanti luttidel conflitto mondiale. Difenderequelle idee oggi è davverosovversivo, rivoluzionario.

Sapremo fare tutto questo?Dobbiamo farlo, agendo conspirito unitario, con apertura,

senza settarismi, ma anche sapendoche si apre davanti a noi un periododi straordinaria durezza. Altri primadi noi hanno resistito in condizioniben peggiori: noi dobbiamo saperfare la nostra parte.

contrapposti, creando una più largaunità all’interno di ciascun Paese enel continente.Il fascismo non è sinonimo dicapitalismo. I due termini non sonointercambiabili. Abbiamo conosciutogoverni borghesi e capitalisti checertamente non erano fascisti.Ricordiamo tutti che la Resistenza inFrancia e in Gran Bretagna è stataguidata da esponenti dellaconservazione, De Gaulle eChurchill. E che in Italia RaffaeleMattioli, il più influente dei banchieridella sua epoca, nascose per anninella cassaforte della BancaCommerciale Italiana i Quaderni delcarcere di Antonio Gramsci, cheinfine recapitò al Partito Comunista.

Allo stesso modo, il contrariodel fascismo non è ilcomunismo, né la rivoluzione

proletaria. Il contrario del fascismo èla democrazia. E dunque oggi – come si è fatto intanta parte d’Europa nel corso dellaResistenza – l’antifascismo deveessere un movimento capace di uniretutte le forze contrarie alla reazione efavorevoli alla democrazia.

Non è questo il momento di farel’esame di antifascismo alleorganizzazioni e ai singoli che sidicono democratici. È l’ora di unirsi in un fronte unicoche abbandoni le polemichecontingenti per combattere l’ondatareazionaria. Questo succederàsoltanto se sapremo tutti insiemeguardare avanti, ponendo obiettiviambiziosi al movimento democraticoe antifascista. Anche per questo sonod’accordo con il titolo che l’ANPI hadato a questo convegno, “Essereantifascisti oggi”, precisando che c’è

difendere quelle idee oggi

è davvero sovversivo,

rivoluzionario

“”

Significa indicare obiettivi ambiziosidi cambiamento, di libertà chedevono diventare patrimonio anchedelle nuove generazioni in tutti inostri Paesi.

Oggi parlare della pienaaffermazione della libertà distampa e di associazione, di

accesso allo studio e al lavoro, dilibertà da ogni discriminazione, dilibera espressione della propria fede,del proprio orientamento personalesignifica battersi per obiettivirivoluzionari in una Europa dovecrescono tendenze oscurantiste ediscriminatorie.

In Italia a mio avviso non c’è dubbioche dobbiamo proporci di parlareanche con gli elettori dei partiti chesono al governo oggi, e che cosìfortemente contrastiamo. I più recentisondaggi dicono che oltre il 60%degli italiani sarebbe pronta a votareper Lega e M5s. Io semplicemente non credo che di

una grande “urgenza democratica”:quella di dare una risposta unitaria epopolare a “vecchi e nuovi fascismi”.Concordo con questa indicazione:oggi occorre una risposta “unitaria epopolare”.

Per fare che cosa, lungo qualeasse ci dovremo muovere?Penso che il punto di

riferimento ideale di questomovimento democratico debba essererappresentato dalla DichiarazioneUniversale dei Diritti dell’Uomo,un documento di enorme forza, chepuò sintetizzare i valori comuni atutti i popoli d’Europa. Quella dichiarazione è stata firmatada tutti gli Stati ma non è rispettatapienamente da nessuno. Avere queldocumento come orizzonte dellanostra iniziativa politica non vuoldire rivangare nostalgie di un passatosempre più lontano.

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L’esigenza di dare un “futuroalla memoria” è stata ed è sen-tita anche nel mondo ebraico:

David Bidussa, scrittore, giornalista,“storico sociale delle idee”, nel suosaggio del 2009 “Dopo l’ultimo testi-mone”, scrive: “quando rimarremosoli a raccontare l’orrore della shoah,non basterà dire MAI PIU’, né rifu-giarsi tra le convenzioni della storia”.

Già in questa edizione della ceri-monia del Giorno dellaMemoria non abbiamo più

presenti i testimoni diretti di tutti gliorrori, dolori, terrori, crudeltà, sevizie,disumanità innominate e innominabilidi quel mondo fuori dal mondo chefurono i lager nazisti.

Quest’anno ascolteremo le testimo-nianze di figli di deportati: GiulianoBanfi, figlio di Gianluigi Banfi detto“Giangio”, deceduto in seguito allepercosse, alle sevizie, al lavoro schia-vo, al freddo e alla fame, il 10 aprile1944 nel Revier di Gusen -Mauthausen. Gadi Schoenheit, figliodi Franco Schoenheit, deportatoall’età di 16 anni a Buchenwald,sopravvissuto alle innumerevoli cru-deltà del lager, ritornato in Italia, dopola liberazione del campo, il 27 mag-gio1945. L’anno scorso era qui connoi, a questa cerimonia, VenanzioGibillini, antifascista, oppositore poli-tico, deportato nei campi di sterminiodi Flossenburg e di Dachau, testimoneappassionato e lucido della Resistenzae dell’esperienza nel lager. Si è spentoil 16 gennaio scorso all’età di 94 anni.Noi tutti lo ricordiamo con infinitoaffetto e chiedo a tutti un minuto disilenzio in sua memoria.

Sulla locandina (qui sotto) che que-st’anno promuove la cerimonia delGiorno della Memoria si vedono

intrecci di filo spinato su uno sfondonero e muri rosso cupo, il buio dell’obliodella storia da cui nascono i mostri ed ilsangue della sofferenza e dell’orrore. Poi la scritta, grande, MAI PIU’ed infila, una sotto l’altra, le parole: reticolati,fili spinati, porti e frontiere chiusi, fasci-smi, guerre, discriminazioni, razzismo. Con questo manifesto si è voluto dare alricordo, alla memoria, la forza dell’at-tualità, una memoria come rivisitazionedel passato di sofferenza ed ingiustizia,non solo cronaca del dolore ma strumen-to di conoscenza, di lettura e di interpre-tazione del presente da cui nasce lacoscienza che impegna gli uomini sullestrade della giustizia. Memoria per trovare le ragioni e le con-dizioni per qualsiasi scelta di vita ma chepossa essere veramente libera, senzacondizionamenti.

Memoria come “cosa viva”

La memoria ha valore soltanto se con-sente di rielaborare concettualmente iprocessi che nel passato hanno portatoad un risultato di morte, di miseria, seconsolida una conoscenza indelebile diciò che hanno veramente rappresentato,in Europa, il fascismo ed il nazismo nelsecolo degli stermini, con il loro disegnodi un “ordine nuovo” basato sul razzi-smo come ideologia e sulla violenza cri-minale come sistema di governo.

La memoria, dunque, come “valoredi prevenzione”. Nei giorni depu-tati dalle leggi memoriali e anche

nelle feste del nostro calendario politicosono sempre pronunciate parole nobili,

Intervengo e coordino a nomedella Fondazione Memoria dellaDeportazione, biblioteca

archivio Pina e Aldo Ravelli,centro studi e documentazionesulla Resistenza e sulladeportazione nei lager nazisti,costituita nel 1999 per dare un“futuro alla memoria”, perché lamemoria, coniugata alla ricercastorica, scientifica e documentaledella lotta contro il fascismo ed ilnazismo, della Resistenza, delladeportazione, vivesse al di là deltempo della vita dell’ultimo degliex deportati.

Una “Fondazione per il futu-ro”, per diffondere gli idealidella cultura antifascista e

della Costituzione, quelli, cioè, dellaattività politica come servizio verso ilPaese, della uguaglianza tra gli uomi-ni, della tolleranza pluralista del pen-siero, della solidarietà.

Diamo alla Memoria la forza dell’attualità

L’intervento di Floriana Maris alla cerimonia ufficiale del XIX “Giorno della Memoria” in ricordo della deportazione razziale, politica e militare

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delle diversità, l’accoglienza, l’inte-grazione, il “diritto al futuro” (PapaFrancesco, giornata mondiale dellagioventù). Il nodo epocale del trasferi-mento di dimensioni bibliche di popo-lazioni imposto dal bisogno, dallamiseria, dalla fame, dalle guerre deveessere affrontato attraverso diritti edoveri garantiti a tutti, nella sicurezzapersonale e collettiva e nella certezzache tutti conseguiranno il giusto sod-disfacimento.

La risposta populista, xenofoba,sull’onda di una paura irrazio-nale, diffusa in ampi strati

sociali, del timore di perdere, a segui-to delle immigrazioni, il benessere e

con accenti appassionati, ma non èquasi mai adeguata la rivisitazione deifatti, i quali soltanto, se conosciuti,rappresentano un serio contributo allacultura storica e democratica, la cuiconoscenza è, perciò, condizione fon-damentale ed assoluta per la stessanostra libertà e democrazia. Non basta delegare alla società civileun giorno per la memoria, è nellescuole che i giovani devono conosce-re una storia che sia insegnamento divita, di etica, di dignità.

Il messaggio della memoria dice oggiche presupposto di qualunque pacesono i diritti fondamentali dell’uo-mo: il riconoscimento e il rispetto

l’identità, a prescindere dalla sua inu-manità, innesca soltanto gravi e nefa-sti conflitti sociali.

Èdi pochi giorni fa la notiziadello sgombero dei migranti diCastelnuovo di Porto. Così ha

reagito un uomo di cultura, AndreaCamilleri: “ci tengo, quale cittadinoitaliano, a dire questa frase: ‘non innome mio’, mi spiego meglio: losgombero avvenuto a Castelnuovo diPorto di una comunità di 540 migran-ti che erano riusciti perfettamente aintegrarsi nella società italiana , con ibambini che da due anni frequentanole scuole italiane, con gente che lavo-rava e pagava le tasse in Italia, que-sto sgombero è persecutorio, cioè adire: attenzione stiamo entrandoassolutamente in un regime di violen-za, di prepotenza, non solo di difesacontro l’emigrazione, oscena, poiché iporti devono essere aperti a tutti, maichiusi, perché i porti spesso sono lariva sognata da gente, da migliaia dipersone, gli si chiude la porta in fac-cia. Non solo, ma si comincia a per-seguitare coloro che ormai sono ita-liani, integrati perfettamente. Questaè una ossessione, rendetevene conto.‘Non in nome mio’. Io mi rifiuto diessere un cittadino italiano complicedi questa nazista volgarità”.

Anche Liliana Segre, nella suatestimonianza al Teatro allaScala, il 22 gennaio scorso, ha

ricordato cosa vuol dire essere clande-stini: “sono stata “– ha detto – “unaclandestina con documenti falsi, hocercato di varcare con mio padre lafrontiera svizzera, un ligio gendarmeci ha respinti dicendo che in Italianon si correvano pericoli: si sonoaperte le porte di Auschwitz”.Siamo nel centenario della nascita diPrimo Levi, concludo, pertanto, conle sue parole tratte da “Se questo è unuomo”:

“A molti individui o popoli può acca-dere di ritenere, più o meno consape-volmente, che ‘ogni’ straniero è nemi-co”. Per lo più questa convinzionegiace in fondo agli animi, come unainfezione latente; si manifesta solo inatti saltuari e incoordinati, e non staall’origine di un sistema di pensiero.Ma quando avviene, quando il dogmainespresso diventa premessa maggio-re di un sillogismo, allora, al terminedella catena, sta il lager”.

Ha coordinato Floriana Maris, presidente della Fondazione Memoria dellaDeportazione. Sono intervenuti Giuseppe Sala, sindaco di Milano, CarloBorghetti, vicepresidente del Consiglio Regionale, Giuliano Banfi, Aned, Gadi Schoenheit, Comunità Ebraica. Sopra la sala Alessi durante l’incontro.

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Per la memoria un gemellaggio particolare è giunto al decennale tra il comune di Firenze e quello di Mauthausen

Vent’anni fa tra Prato ed Ebensee

Un primo “patto di fratellanza”

Due momenti irrinunciabili

Andava spiegato e fatto capire

Quando si usa la parola – un po’ desueta –“gemellaggio”, immediatamente si pensa al-l’incontro cercato tra due comunità, profon-damente affini per storia, idee politiche, mi-grazioni. Non casualmente il comune diMontemurlo – in provincia di Prato – è ge-mellato con il comune di Bovino – in provin-cia di Foggia. O il comune di Scandicci, ge-mellato con il comune di Francoforte sull’Oder,per volontà di un vecchio sindaco socialista,sodale all’ultima città tedesca prima del Soledell’avvenire.Altri tempi, altre storie.

Di natura diversa è invece il gemellaggio,giunto quest’anno al decennale, tra il comu-ne di Firenze e quello di Mauthausen.

Qui, ad incontrarsi, non ci sono stati due co-muni che hanno condiviso una massiccia mi-grazione o un ideale politico. Qui si è tratta-to di mettere insieme i carnefici con le vitti-me, i massacratori con gli ex deportati, glieredi dei costruttori della scala della mortecon gli eredi di chi su quella scala aveva per-so tutto.Utile fu all’epoca il percorso analogo – dolo-roso e accompagnato da discussioni, ripen-samenti, sapienti tessiture, poi felicementeandato in porto – del gemellaggio tra Pratoed Ebensee, fatto vent’anni fa.

La storia dell’incontro fiorentino partì da unarichiesta dell’Aned, consapevole dei limiti bio-logici degli ultimi deportati rimasti in vita. Era il 2007 e l’embrione del gemellaggio fu un

primo “patto di fratellanza”. L’accordo ave-va come sostanza il voler “obbligare” le duecomunità a ricordare. Protagonista di questafase, l’ex deportato fiorentino Mario Piccioli,l’ultimo del lungo elenco di quanti erano par-titi l’8 marzo.

Il gemellaggio vero e proprio venne forma-lizzato nel 2009. Decisivo l’interessamentoe l’azione dell’allora vice sindaco di FirenzeGiuseppe Matulli. Decisivo perché questo ge-mellaggio con un comune dal nome così im-pegnativo, andava raccontato, spiegato, fattocapire. Non c’era nulla di scontato e di automatico. Era necessario crederci, anche politicamente,e decidere di investirci dei soldi pubblici.

L’8 marzo del 2009 è la data della deliberadel Comune di Firenze e dell’incontro con ladelegazione arrivata dall’Austria. In quel-l’occasione Mario Piccioli abbracciò per laprima volta il sindaco di Mauthausen, ThomasPunkenhofer. Da allora, da quel giorno, il gemellaggio ha fun-zionato come una macchina, capace di tesse-re la trama di una relazione che è diventatanel tempo, profonda amicizia.

Con molti punti fissi, nel corso di ogni anno,ma con due momenti irrinunciabili. La visitadella delegazione austriaca a Firenze, per l’8marzo, e il pellegrinaggio fiorentino aMauthausen, per l’anniversario della libera-zione del campo, il 5 maggio.Da allora, Firenze ha cambiato tre sindaci, la

Più di 800 giovani: la nostra delegazione è la più numerosa a sfilare

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La spinta a far arrivare i giovani

provincia, che tanta importanza aveva gioca-to in questa partita sin dagli anni ‘70, non esi-ste più con le competenze di allora, mentre iconsiglieri di tanti comuni, i presidenti dellevarie istituzioni cittadine e regionali, gli as-sessori e i rappresentati di tanti comuni, sonoentrati a far parte di una grande vicenda col-lettiva, che è la storia viva di questo gemel-laggio.Nell’agosto del 2010, Mario Piccioli è dece-duto, e la presidenza cittadina dell’Aned èpassata ad Alessio Ducci, il figlio dell’ex de-portato Alberto.

Mentre nel ruolo di Piccioli, ad animare l’as-sociazione, arrivò Laura, la nipote di Mario.Il “motore del gemellaggio”, ha generato ini-ziative continue, dalla lapide al Binario 6 del-la stazione Santa Maria Novella, alla targacon i nomi degli oltre 1800 deportati appostaall’interno della Galleria della Carrozze inpalazzo Medici Riccardi, dalla targa nel giar-dino di Villa Vogel, alla mostra fortementevoluta dal direttore degli Uffizi Schmidt,“Sopravvissuti”, inaugurata alla presenza deisuperstiti Andra e Tatiana Bucci, Vera MichelinSalomon e Gilberto Salmoni.

Ma, sopra ogni cosa, ha nutrito la spinta adorganizzare un pellegrinaggio sempre piùaffollato di giovani toscani, precedentemen-te formati durante gli incontri a scuola.

Più di 800, a irrobustire la delegazione ita-liana, la più numerosa durante la cerimoniainternazionale di Mauthausen.

Raffaele Palumbo

alla cerimonia internazionale che si svolge ogni anno a Mauthausen

Nella foto ilprimo incontrofra l’exdeportatoMario Picciolied il sindaco diMauthausenThomasPunkenhofer

Èstato consegnato, lo scorso 20 gennaio a Firenze inPalazzo Sacrati Strozzi, il Pegaso d’oro, massima ono-rificenza della Regione Toscana, ai testimoni Andra

e Tatiana Bucci, Marcello Martini, Vera Michelin Salomon,Kitty Braun, Vera Vigevani Jarach, Gilberto Salmoni e adAntonio Ceseri (alla memoria), scampati agli orrori del-la Shoah o delle persecuzioni nazifasciste e che negli an-ni si sono assunti il compito di essere testimoni vivi diquello che è stato.È stato il presidente della Toscana, Enrico Rossi, a con-segnare il riconoscimento attribuito, questa la motiva-zione, agli otto sopravvissuti che con la loro testimonianza«hanno ispirato migliaia di giovani toscani a rifletteresulle conseguenze delle leggi razziali, dell’indifferenza,del razzismo, del fascismo e della sua terribile guerra,mostrando con la propria vita un esempio di resilienza, dispessore umano e morale capace di arricchire chi li ascol-ta».La cerimonia, fissata alle 9.30, ha preceduto la partenzadel Treno della memoria, l’11°, organizzato dalla RegioneToscana per il Giorno delle memoria. Quest’anno sono550 i ragazzi a bordo del convoglio che li porterà in Poloniaper visitare i campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau.

Pegaso d’oro della RegioneToscana a 8 sopravvissuti

Cerimonia a Palazzo Sacrati Strozzi di Firenze

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Gli studenti di Udine (come esempio)e la Memoria (di tutti) della deportazione

minarono la terribile vi-cenda che coinvolse ebreie, in generale, tutti gli in-dividui considerati “di-versi”, in qualche modo sistiano riproponendo anchese con differenze attualiz-zate ai nostri giorni. Fare memoria, allora, si-gnifica leggere quello cheè accaduto, comprenderele ragioni che hanno de-terminato l’Olocausto e ri-portarle all’oggi, per faredi quella tragedia un mo-nito e non un puro ricor-do.Una delle cose che più miha colpito e fatto ribrezzodi quel periodo sconvol-gente è che gli esseri uma-ni non erano concepiti co-me persone, ma come co-se, oggetti privi di dignità. La storia, anche negli an-ni successivi e in altri Paesidel mondo, ha dimostratoche ogni volta che si ripe-te questo modo di consi-derare l’altro, il diverso danoi, siamo al preludio diuna tragedia. Perciò penso che di frontea questo non possiamo ri-manere indifferenti. È nostro compito non di-menticare, imparare daglierrori già commessi in pas-sato per non regredire. Tuttavia, come dicevo al-

“Individuare lecause di questo terribile evento”

La Giornata della Memoriaè una ricorrenza impre-scindibile: ogni anno, nelmondo, in questo periodovengono ricordate più di15 milioni di vittime del -l’Olocausto rinchiuse e uc-cise nei campi di stermi-nio nazisti prima e duran-te la Seconda Guerra mon-diale.Non bisogna però far sì chequesto si traduca in unamera osservanza di un do-veroso rito, ma deve dive-nire un’occasione per ri-flettere e cogliere il verosenso di un’azione, che pursembrando banale, non loè affatto: ricordare.Fare memoria significa inprimo luogo rivolgere unpensiero a tutte le vittimeche questo terribile even-to ha trascinato via con sé;ma non basta: fare memo-ria significa anche com-prendere le ragioni chehanno causato un eventostorico, con esiti così ter-ribili.È evidente che stiamo at-traversando un periodo nelquale i rigurgiti delle stes-se ragioni che poi deter-

l’inizio, non basta l’atto diriunirsi una volta l’anno,leggere un discorso e poitornare a casa, compor-tandosi poi come se nien-te fosse di fronte a fatti oeventi sociali che ci ripor-tano in un clima di odioverso persone o gruppi con-siderati “altro da noi”.Ci vogliono pensieri e azio-ni, di ognuno di noi, attentea ogni singolo seppur pic-colo allarme che si con-trappongano a ogni formadi odio, razzismo, omofo-bia, sentimenti che pur-troppo sono ancora presentinella nostra società, per-ché, come disse GeorgeSanta yana: “Il progresso,lungi dal consentire il cam-biamento, dipende dallacapacità di ricordare …Coloro che non sanno ri-cordare il passato sonocondannati a ripeterlo.”

Jacopo Conza Liceo Scientifico N. Copernico

“L’eredità di miononno”, un’ideache non deve eva-porareVorrei innanzitutto ringra-ziare a nome dell’interaConsulta provinciale degliStudenti e le qui presenti au-torità per condividere connoi questo momento di ri-flessione su ciò che è pas-sato e non deve più accade-re. Vorrei, inoltre, ringra-ziare particolarmente l’Asso -cia zione Nazionale ExDepor tati per mantenerne lamemoria nel susseguirsi ge-nerazionale, e proprio sullaMemoria che questo picco-lo intervento vorrà vertere.Parliamo di idee, le idee han-no il dannato vizio di eva-porare e cambiare stato nonappena danno odor di con-densa. Se ben ci si pensa, èben connaturata in qualsia-si rappresentazione la lorovolatilità, tanto che, a vol-te, ci si persuade che il con-trario di un ricordo possa es-sere il suo oblio. Quante vol-te abbiamo visto il ritornodell’intolleranza totalitariaverso il diverso, da parte del-le stesse persone che si riem-piono la bocca di parole co-me identità, libertà, affer-mazione, obliando faziosa-

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mente gli insegnamenti chedovrebbero essere radicatiin tali termini, risultato di at-ti di ben più alto retaggio?Eppure, quando si parla dioblio, esiste sempre l’og-getto ad appannaggio del-l’azione, ovvero quel ricor-do che prima ancora dell’attodell’uomo dimentico, vienea riverberarsi nel corso del-la sua vita. In tal senso laMemoria comunque esiste,assume materialità, diventaconnessione fisica tra le epo-che, diviene comunque ere-dità dei nostri tempi. Non sielimina la Memoria, ma siafferma la sua esistenza inmodo negativo. Come ciòche abbiamo a portata di ma-no non è mai già nostro, co-sì l’appropriarsi della pro-pria eredità non è qualcosa diautomatico, non esistono nénotai né avvocati, e neppu-re garanzie riguardo la ca-duta del ricordo nell’oblio enell’indifferenza: si è solocerti della sua esistenza oltrela nostra indifferente di-menticanza. In tal senso, laritualità di alcune espressioninon fa altro che amplificaretali comportamenti negli-genti, dove l’eredità vieneridotta a pura funzione for-male, asettica; una celebra-zione senza oggetto che, nel-la ripetizione sclerotizzata

dell’azione, inflaziona lasimbologia pedagogica afondamento del valore ce-lebrato: ciò che deve venir ri-cordato non è la celebrazio-ne in sé, ma il momento diregresso individuale, il mo-mento del mea culpa del-l’intera umana specie, fintroppo spesso implicata nelfomentare il seme sperso-nalizzante che diede vita al-la scientificità dello stermi-nio nazista. Entro tal sfor-zo, l’eredità assume i tratti diuna rapina che avviene a spe-se di quell’estraneo che siannida proprio nel familia-re di cui, volente o nolente,siamo legittimi eredi. Maquesto prenderne possessonon è un’operazione pacifi-ca né indolore che, nella fo-ga della caccia al tesoro, sifa intima, personale: divie-ne la volontà di ereditare ilproprio tempo mediantequell’aspetto del familiareche, nel proteggerci, ci espo-ne al futuro.Ma cosa vuol dire ereditareil proprio tempo? «Nes suno— diceva Pascal – muorecosì povero da non lascia-re nulla in eredità». Miononno, mancato dolorosa-mente pochi anni fa, in que-sto senso non era affatto unapersona povera: mi ricordosempre quando i suoi occhi

diventavano lucidi mentreraccontava di Mauthausen,mentre riviveva lo strazio diun diciasettenne troppo adul-to per un mondo troppo cru-dele. Orfano, partigiano, de-portato, sopravvissuto. Edè proprio perché è soprav-vissuto che ha fatto ciò dicui il nazismo aveva più pau-ra: ha avuto la forza di rac-contare. Quando il tema del-l’eredità rappresentò la que-stione centrale per una ge-nerazione di intellettualiebraico-tedeschi - costrettidalla furia nazista a lasciareciò che era, per loro diritto,loro eredità presente – miononno, senza alcun titolo distudio, volle tramandare lapresenza della sua eredità,che non è una pura remini-scenza storica, ma è la fedeincrollabile nell’emancipa-zione umana che, da ogget-to ancora da ambire, rimar-ca con tutte le forze la suaattualità. È l’invito a riap-propriarsi delle possibilitàche molti come mio nonno,con la loro lotta, hanno of-ferto alle nostre generazio-ni. Ebbene, attualmente sia-mo riusciti, quasi pasoli-nianamente, a fare ciò che ifascismi non sono riusciti afare: aver dato un nome al-la negazione della Memoria,all’eliminazione sistemica

dell’eredità: è il nichilismomoderno che, si badi bene,non è l’oblio ma è il disin-teresse generalizzato, è il ri-fiuto della responsabilità sto-rica dell’uomo prima anco-ra che questa giunga nellemani di ciascuno. E, in que-sto qualunquismo, oltre ascavar la fossa attorno l’at-tualità della Memoria, sipianta una lapide silente: inun terreno fertile rinasconoquelle voci malevole, assorteda quella collera repressadata dall’impossibilità di re-cepire quell’eredità, troppopesante, troppo attuale.Quante volte abbiamo do-vuto sorbirci le illazioni delrevisionismo storico e ve-dere il fior fiore di accade-mici europei dargli appog-gio?Cosa spetta a noi? Ripren -dere quell’eredità, quella lot-ta senza quartiere, oppurevedere la Memoria spe-gnersi, disillusa, fragile,sconfitta. Che muore per au-toconsunzione, ma della cuiagonia , purtroppo, noi uo-mini non faremo in tempoad assisterne la fine, impe-gnati come siamo ad assue-farci nei centri commercia-li o a buttare salari nei vi-deopoker. Elia Pupildelegato dalla Consulta provin-ciale Studentesca di Udine

Una 4adel liceo scientifico Copernico

ed altre scuole di Udine hannopartecipato alla cerimonia per il Giornodella Memoria presso il Monumentodedicato alle vittime della Deportazione nei campi nazisti.

Gli studenti Jacopo Conza e Elia Pupilhanno condiviso con i presenti, le autorità civili e i rappresentanti delle associazioni ANED e ANPI le loro considerazionisull’importanza della memoria.

A marzo, inoltre, un gruppo di allievi del Copernico parteciperà al Viaggio della Memoria ad Auschwitz, organizzatodall’ ANED di Udine, assieme a più di 150 ragazzi degli istituti superiori di Udine e Tolmezzo.

Questa esperienza del progetto Percorsidella Memoria permetterà ai giovanidi conoscere le condizioni delladeportazione sotto il Terzo Reich e di vedere con i propri occhi gli orroricompiuti dalla dittatura nazista.

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Nella sede della Casa della Memoria in via Confalonieri a Milano un susseguirsi di eventi. Saranno un’ottimapalestra di civiltà per i tre giovani.

Da metà gennaio chi viene alla sededell’Aned nazionale alla Casa dellamemoria di Milano vede tre giova-ni in piena attività. Sono i ragazzi che si sono propostiper svolgere qui il Servizio civileuniversale. Abbiamo chiesto di spiegare perchélavoreranno con noi.

Attivo “Il Passaggio del Testimone”, progetto di Servizio Civile alla casa della Memoria

Georgia Mariatti

“15 gennaio 2019 inizio del Servizio CivileUniversale e per noi dell’anno in cui condivi-deremo l’esperienza di lavorare con e dentroANED. Le storie che ci hanno messo in con-tatto e resi partecipi dell’associazione sonodiverse e ve le vogliamo raccontare”.

Tutti noi abbiamo sentito parlare della depor-tazione, che sia a scuola o semplicemente ac-cendendo la televisione, e ci è sempre stato in-segnato che i nazisti cattivi vennero in Italia, la“conquistarono” e portarono nei campi di con-centramento tutti gli ebrei e chiunque si tro-vasse sul loro cammino.Molti però ignorano che il primo “nemico” eragià da tempo nel nostro paese. Erano i nostri con-cittadini, i nostri amici o i nostri vicini di casa,che denunciavano ed, in alcuni casi, arresta-vano persone innocenti o coloro che lottava-no per i loro diritti e per un futuro migliore persé e per l’Italia intera.Questo è proprio quello che successe a mio

Ai tre ragazzi che si sono proposti per svolgere qui il Servizio civile univ

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Andrea Giovarruscio

Leonardo zanchi

nonno: si rifiutò di continuare a rimanere alservizio dell’esercito, l’unica cosa che volevafare era tornare al suo paese, dalla sua fami-glia, alla sua vita normale. Poco dopo fu arre-stato nel posto per lui più sicuro, casa sua, pro-prio da uno dei suoi migliori amici.Storie come queste ce ne sono a migliaia. Storiesconosciute o che pian piano, con il passaredel tempo, la gente sta dimenticando. Storieche non andrebbero mai dimenticate.

Ed è per questo che io personalmente ho deci-so di dare il mio contributo all’ANED attra-verso il servizio civile. Perché c’è bisogno digiovani come noi che portino avanti le loromemorie, che continuino a raccontare le lorostorie soprattutto ad altri giovani, che sono ilfuturo di questo paese, affinché gli orrori e gliavvenimenti del passato non si ripetano più.

Ho ventitré anni, sono della provincia diBergamo e ho appena concluso i miei studi dicinema, per ora. Quando dico ai parenti o allepersone che mi conoscono che ho iniziato ilservizio civile con l’Associazione Nazionale exdeportati il minimo di reazione è un filo di per-plessità. Servizio civile? È diventata la levadel 2000? Specialmente mi sento dire di nonmollare la mia strada nell’audiovisivo. Personalmente questo anno di servizio all’in-terno dell’associazione è tutto fuorché scolle-gato dal mio percorso di studi e, si spera, lavoro.

Uno dei motivi per cui ho scelto di investirenel progetto “Il Passaggio del Testimone” èche per me si tratta di ricerca sul campo, nonsolo di “volontariato”. Come cineasta quello di cui voglio occuparmisono i documentari e per fare questo il minimo

sindacale è conoscere radicalmente il sogget-to di cui si vuole raccontare, oltre ad avere poiun punto di vista significativo sull’argomento.Perciò da questa esperienza a contatto conANED quello che spero di ricavare non sonosolo competenze legate alla gestione delle at-tività dell’associazione ma soprattutto idee sucome si comunichi la memoria a persone cui ma-gari la questione non è mai interessata, trami-te il viaggio con le scuole, gli incontri, le ri-cerche. Me lo auguro sia per rivitalizzare la se-zione di Bergamo sia per potere portare avan-ti dei progetti di cinema legati alla memoria eper fare memoria.

Lo scorso maggio, durante il viaggio della me-moria a Mauthausen con ANED Sesto SanGiovanni – Monza e Ventimila Leghe, ho co-nosciuto alcuni ragazzi che stavano effettuan-do il Servizio civile presso la Casa dellaMemoria. La loro esperienza mi aveva incu-riosito e così ho cominciato a considerare l’i-potesi di prendere parte anch’io a questo pro-getto, in concomitanza con i miei studi uni-versitari. Sono convinto che questa esperien-za mi arricchirà, permettendomi di conoscerel’ANED e il suo operato più da vicino, e ren-derà più solido e consapevole il mio impegnopresso la sezione di Bergamo di questa asso-ciazione.

Intrecciando nuove relazioni e sperimentandoiniziative nuove, spero di arricchire il valore del-la memoria trasmessomi da mio nonnoBonifacio Ravasio, sopravvissuto alla depor-tazione politica nel lager di Buchenwald, ri-badendo l’attualità del “fare memoria”, comepunto di partenza necessario per guardare ad unfuturo costruttivo e condiviso.

Nelle foto uno dei tantissimi eventi che vi sisvolgono e l’ingresso della sede della Casa dellaMemoria di Milano

ersale abbiamo chiesto le motivazioni che li hanno spinti a questa scelta

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La Tregua di Natale, il calcio oltre la trinceadella GrandeGuerra

La storia a cui solitamente siamo abituati daimanuali e programmi scolastici è scandita daguerre, conferenze diplomatiche per risolver-le ed è piena di uomini: regnanti, politici, sol-dati, sarà per questo motivo che alcuni episo-di - conosciuti solo dagli appassionati e tal-volta scoperti dal cinema - diventano sopren-denti, perché raccontano aneddoti insoliti,talvolta incredibili e in grado di ribaltarecompletamente l’immagine mentale di unadata epoca o di un evento.

Cara viaggiatrice e Caro viaggiatore, oggivogliamo proprio raccontarti una di questestorie incredibili ambientata nella Primaguerra mondiale, di cui da poco si è celebratoil Centenario della conclusione. Una storia che forse conoscerai, grazie alfilm e ai tanti articoli degli ultimi anni: laTregua di Natale.

Siamo nel 1914, fronte occidentale nelleFiandre. Si è da poco combattuta la battagliadi Ypres al termine della quale le trincee,dopo l’illusione di una “Guerra lampo”, sonodiventate la quotidianità per migliaia di sol-dati.I militari di entrambi gli schieramenti sonostremati, dormono in letti di fango e gelanosotto la neve; solo gli auguri dei superiori equalche regalo mandato per posta dalle fami-glie ricorda loro che è la vigilia di Natale.La nostalgia punge e qualcuno inizia a canta-

re e a bere per dimenticare il luogo in cui sitrova. Presto ci si accorge che chi è dall’altraparte, nella trincea di fronte, stà facendo lamedesima cosa solo in un’altra lingua. E allora i canti si alzano di volume come perincontrarsi e diventano un tutt’uno. Si osasollevare la testa oltre il fossato ma non sirischia di perderla, si cammina sul campo dibattaglia ma non si muore.Inizia così la Tregua di Natale, un cessate ilfuoco spontaneo in cui i franco-inglesi dauna parte e i tedeschi dall’altra depongono learmi, cantano assieme e si scambiano doni.Il giorno dopo la tregua continua, permetten-do agli schieramenti di seppellire i rispettivimorti e di celebrare funzioni religiose a cuitutti partecipano, come per condividere quel-lo strano momento di sospensione della vio-lenza.A un certo punto spunta anche un pallone e siorganizzano partite di calcio: tedeschi controinglesi. Il calcio non era ancora uno sporttanto famoso ma era già diffuso, perché ha ilpregio di potersi giocare con una palla distracci cuciti, due sassi a far da porta, regolesemplici e divertimento assicurato.

Negli anni successivi di tregue ce ne sonomolte altre, in diversi punti del fronte, tutta-via, man mano che la guerra si prolunga eche le perdite aumentano, questi momentidivengono sempre più rari e molti dei parte-cipanti puniti dai superiori.

A ricordodell- evento èstatoinnalzatoquestomonumen-to nellaCatte-derale diLiverpool.

Cent’ anni dopo la fine della guerra

Le tregue si fanno sempre più rare

Proprio in una di queste lettere si è poi scoperto il risultato della partita. S

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Per ostacolare la diffusione di pericolosi gestidi intesa i comandi - di tutti gli schieramenti- decidono sempre più di trasferire rapida-mente i battaglioni da un campo di battaglia aun altro in modo da non lasciare il tempo difraternizzare con il nemico.Per scoraggiare le tregue i generali aumenta-no le incursioni alle trincee avversarie neigiorni prima delle festività e minaccianopesanti ripercussioni contro chi dovessedisobbedire agli ordini.

Di questi momenti di umanità si è venuto aconoscenza tardi – fatta eccezione per qual-che sporadico articolo durante la guerra accu-sato però di disfattismo-, soprattutto graziead alcuni storici che cercarono di ricostruireil trauma dell’esperienza delle trincee attra-verso le lettere inviate dai soldati alle propriefamiglie; qui, talvolta, si trovano raccontatepartite di pallone con il nemico e la descri-zione di scambi.Fu così che la partita di calcio di Ypres, certa-mente una delle prime, grazie anche ad alcunestraordinarie fotografie è divenuta il simbolo diquegli incontri, di una guerra voluta troppo inalto per essere evitata ma davvero poco condi-visa da chi dovette viverla.Proprio in una di queste lettere si è poi sco-perto il risultato della partita: ma importarealmente? Sarà banale scriverlo ma inevita-bile: probabilmente, quel giorno senza morti,vinsero tutti. da Istoreco (RE)

Foto della partita del 25 dicembre 1914. Ci mettonoimpegno, tanto che indossano sempre il cappello d’ordi-nanza, quello della divisa ma le azioni sono le solite: tuttesul pallone!

Truppebritanni-che e ger-manichesi incon-tranonellaterra dinessunodurantela tregua

In una lettera si conobbe il risultato

Si svolse a Ypres, la città che ha dato il nome all’Iprite, il gas “vescicante”

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Con cento trenigli ebrei olandesisono portatiall’Olocausto

I treni corrono fra i campi dei tulipani, inun Paese pieno di pace, lungo le spiaggedove quelle stesse famiglie un tempo an-davano in vacanza, o in gita verso leFiandre belghe, o a visitare le grandi di-ghe che fronteggiano il mare. Come tuttii cittadini olandesi.Ma da un certo giorno in poi, per alcunefamiglie i convogli hanno una nuova de-stinazione: il campo di sterminio. Metapuntualissima, inesorabile.Nella simbologia dell’Olocausto, il trenoè rimasto un’ombra centrale in Olanda co-me in altri Paesi: ad Haarlem o aRotterdam, però, con un significato forseancora più triste, impressionante. Nella nostra memoria sono rimasti incisii nomi di Anna Frank, e dei suoi familia-ri. Ma fra quelli dei martiri ve ne furononaturalmente molti, moltissimi di più.

I punti di partenza dell’orrore inchiodatisui binari, gli snodi ferroviari, furono intutto tre: Westerbork (il più tristementenoto), Amersfoort, Vught. Dal 15 luglio 1942 al 3 settembre 1944, se-condo i dati dell’Holocaust Memorialamericano, 100 treni trasportarono versoSud-Est dai 102 ai 107 mila esseri umanidi tutte le età: 60 mila finirono adAuschwitz, 34 mila a Sobibor, il resto ne-gli altri lager di Bergen-Belsen eTheresienstadt.

Anna Frank la giovaneolandese dive-nuta un sim-bolo dellaShoah per ilsuo diario,scritto nelperiodo in cuilei e la suafamiglia sinascondevanodai nazisti, eper la sua tra-gica morte nelcampo di con-centramentodi Bergen-Belsen.

Il treno un simbolo

Dal 15 luglio ’42 al 3 settembre ’44 furono deportati dall’Olanda tra i 102 e i 107

La fotografiaclandestina (sopra) dellacolonna di pri-gionieri chemarcia versoDachau è statascattata dallafinestra delsecondo pianodella casa diuna famigliadel luogo men-tre la madre alpianterrenodava patate aiprigionieri.

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Le ferrovie olandesi di Stato garantivanogli aspetti tecnici e organizzativi del tra-sporto: ma gli ordini, e buona parte deifinanziamenti, arrivavano da Berlino. Un notevole affare economico, si può pre-sumere.

Solo 5.200 ebrei olandesi, sempre secon-do i dati dell’Holocaust Memorial, allafine si salvarono. Tutti gli altri non avrebbero rivisto maipiù i campi dei tulipani.

Luigi Offeddu

Uno dei tram che ad Amsterdamfurono usati perportare via gliebrei.

La foto è dell’aprile 1943 inWijttenbachstraat.

Queste operazionivenivano fatte solola sera o nellanotte. Raramentedurante il giornocome quando èstata scattata que-sta fotografia.

Donne sopravvissute a Bergen–Belsen sorridono con lebraccia cariche, finalmente, di pagnotte.

I fiori sui binari del treno che portò gli olandesi allo sterminio. Un momento per ricordare.

In una piazza della capitale una grande installazionericorda la spaventosa tragedia.

Solo 5.000 tornarono

mila esseri umani di tutte le età: 60 mila finirono ad Auschwitz, 34 mila a Sobibor

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Hanno riproposto a scuola i vecchi mestieriraccontando così il cammino dei sette prigionieri monzesi

Il liceo artistico di Monza ricostruisce la vita dei deportati raccontando i loro mestieri

Èstato un modo emozionante di ricordare la deporta-zione di 7 lavoratori monzesi quello che ha messo inscena il liceo artistico “Nanni Valentini” di Monza a

febbraio. Le ragazze e i ragazzi hanno ricostruito fisica-mente gli ambienti di lavoro ed hanno poi recitato le par-ti, interpretando ciascuno una o uno dei prigionieri.Tutto era partito tempo fa per impulso del Comune di Monzae dell’Aned che hanno chiesto a professori e ragazzi di in-terpretare in modo originale il Giorno della memoria. Milena Bracesco, vice presidente dell’Aned di Sesto Monzae figlia di un deportato morto ad Harteim, ha regalato un an-no fa un bel libro di poesie di Raffaele Mantegazza, “Al dilà del niente” ai docenti del liceo Laura Riva e MakioManzoni e questo volume è stato la base del lavoro. Si trat-ta di poesie che Mantegazza ha scritto ricostruendo il cam-mino dei 7 deportati monzesi, dopo una ricerca accuratasugli archivi dell’Aned e intervistando i famigliari. Gli studenti sono partiti dallo studio dei lavori che i de-portati facevano. Hanno dovuto e voluto capire cosa fosseun attrezzista, cosa facesse un’operaia avvolgitrice, o an-cora una ribattitrice. Il passo successivo è stato quello di costruire nei sotterra-

nei della scuola in legno compensato i banchi di lavoro egli attrezzi di quel tempo. Due dei deportati protagonisti della rappresentazione era-no Ilona Lebovics e Giuseppe Rizzati e per loro professo-ri e ragazzi hanno ricostruito totalmente l’ambiente di la-voro con scaffali, scrivania, telefono e tutto quello che ri-creava il loro luogo in fabbrica, il magazzino. Una storia spe-ciale la loro. Deportati si sono conosciuti nel lager diLangenbielau, si sono innamorati e finalmente liberati si so-no sposati a Budapest il 30 agosto 1945, per tornare a Monzail 29 settembre di quello stesso anno. Ma non sono stati ricostruiti solo gli ambienti dove lavo-ravano gli operai arrestati. Persino, nel cortile della scuo-la, è stato rifatto, in legno, un angolo della città, una pa-lazzina accanto alla quale Stefano Belli distribuiva i vo-lantini contro la guerra e il nazifascismo. Il 2 febbraio poiin questi ambienti ricostruiti in compensato gli studentihanno recitato i personaggi dei deportati. Particolarmentecoinvolgente la ragazza che recitava la parte di SantinaPezzotta, una operaia avvolgitrice di soli 16 anni. Mentrela studentessa recitava girando la manovella della sua mac-china ricostruita a distanza di decenni, piangeva per l’e-mozione e ha coinvolto il pubblico nel suo pianto.“I professori mi hanno detto di non avere mai visto gli stu-denti tanto impegnati come in quei mesi. A volte si ferma-vano a lavorare fino a tarda sera” ricorda con ammira-zione Milena Bracesco. “Per me, figlia di uno dei depor-tati rappresentati nello spettacolo è stata una emozioneforte e come dirigente dell’Aned un motivo di grande or-goglio vedere il lavoro svolto da professori e studenti”. Nell’aula magna del Liceo una mostra di disegni e bozzettiricostruiva le tappe del grande lavoro. In particolare da professori e studenti sono stati ricordati i7 deportati monzesi: Stefano Belli, Angelo Beretta, DomenicoBonfanti, Enrico Bracesco, Santina Pezzotta, Ilona Lebovicse Giuseppe Rizzati.

Tutto ha avuto inizio nel cortile e proseguito nella scuola.

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Rubata a Selvino la targain memoria dei bimbiebrei accolti a Sciesopoli

La sezione di Bergamo dell’ANED condanna il vilegesto antisemita che si è verificato a Selvino e au-spica che le autorità competenti rintraccino i re-

sponsabili. Fra il 1945 e il 1948 nella ex colonia di Sciesopolifurono accolti più di 800 bambini ebrei scampati allo ster-minio, reduci dai ghetti e dai campi della morte. Questi bambini ritrovarono proprio a Selvino la gioia divivere che qualcuno voleva strappare loro. Studiarono l’e-braico e si prepararono al loro nuovo futuro in Israele. Mapiù di tutto conobbero l’ospitalità e la generosità del popoloitaliano, valori e atteggiamenti che nella società di oggisembrano essere rigettati e dimenticati come qualcosa di de-sueto. 70 anni dopo, nel 2015, i bambini di allora avevano volu-to ringraziare la comunità di Selvino con la targa che ieriqualcuno ha fatto sparire, illudendosi così di poter cancel-lare un passato che ha ancora tanto da insegnare a tutti noi.

Torniamo indietro di 70 anni per vedere la foto dellafelicissima bimba che sorride nel riquadro con“Sciesopoli” sullo sfondo. Qui sotto l’amara constatazio-ne di uno dei volontari del tempo (vedasi i capelli bian-chi) davanti al trespolo vuoto della targa ricordo.

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La sezione ANED di LaSpezia nel novembrescorso ha commemo-

rato il “grande rastrella-mento di Migliarina”, quar-tiere della città tragicamen-te colpito in quei giorni del1944 da arresti di antifasci-sti con conseguente depor-tazione nei campi nazifa-scisti.Le commemorazioni si sonosvolte in due luoghi divenutisimbolo della Deportazionespezzina: l’ex caserma XXIReggimento Fanteria, oggidivenuto Complesso scola-stico “2 giugno”, e la chiesaSan Giovanni Battista inMigliarina.

Il 22 novembre la comme-morazione della deporta-zione spezzina e del “ra-strellamento di Migliari na”si è svolta presso il Mo nu -mento ai Caduti nei Campinazisti situato nel Complessoscolastico “ 2 giugno”. Sitratta del Monumento inau-gurato nel 1980 alla presenzadell’allora presidente na-zionale dell’ANED, Gian -fran co Maris.In tale sito sorgeva una ca-serma, poi completamentedemolita negli anni, intitolataal primo Re d’Italia, VittorioEmanuele II. Gli Spezziniancora oggi ricordano il luo-go semplicemente come il

“Ventunesimo”, in quantosede del XXI Reggimentodi Fanteria della DivisioneCremona del Regio Esercito.All’inizio della secondaguer ra mondiale il Reg -gimento fu trasferito ad Astie l’edificio rimase inutiliz-zato; dopo l’armistizio dell’8settembre 1943 e gli eventiconseguenti, il “Ventu ne -simo” divenne il luogo piùtriste della città, sede delleBrigate Nere, trasformatodai fascisti locali e dall’oc-cupante tedesco in tremen-do luogo di prigionia, dovevennero inflitte torture atro-ci a uomini di ogni età e con-dizione sociale, compresi

sacerdoti e uomini di chie-sa: a centinaia vi furono im-prigionati, interrogati, se-viziati dalle Brigate Nere fa-sciste e dai nazisti, costret-ti ad autoaccusarsi e firma-re confessioni che rappre-sentarono la loro condannaa morte, a volte solo differitanel tempo, dopo la deporta-zione nei Campi. Alla ceri-monia hanno partecipato au-torità civili e militari, rap-presentanti delle Istituzioni,docenti, studenti e familia-ri di deportati; hanno porta-to il loro saluto il Sindacodella Spezia e il Prefetto, se-guiti dall’intervento dellapresidente dell’Aned della

Il grande rastrellamento di Migliarinaper deportare gli antifascisti di La Spezia

NOTIzIELe commemorazioni nell’ex caserma XXI ReggimentoFanteria e nella chiesa San Giovanni Battista

Monumento presso l’ex Caserma XXI Reggimento

Momenti della cerimonia del 22 novembre Stele nel sagrato della Chiesa

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Spezia. Toccante il momentodella deposizione della co-rona dell’Aned accompa-gnato dall’esecuzione del“silenzio” , suonato da unostuden te del liceo musicale“V. Car darelli” della Spezia.Per i numerosi studenti lacerimonia si è conclusa conla visita guidata del vicino“Sacrario della Libertà” do-ve è intervenuto il parrocodi Migliarina.

Il 23 novembre la sezioneAned La Spezia e l’Istituto spezzino per la storia dellaResistenza e dell’Età con-temporanea hanno organiz-zato l’incontro “Voci e suo-ni della Memoria. A 80 an-ni dalle leggi razziali”.Grazie alla disponibilità eal pronto sostegno alle ini-ziative da parte del Parroco,la cerimonia si è svolta al-l’interno della chiesa SanGiovanni Battista in Miglia -rina, gremita di studenti dei

plessi scolastici del quar-tiere e di cittadini.Era il 23 ottobre 1982 quan-do in questa Chiesa fu inau-gurato il “Dipinto in ricor-do dei morti nei campi diconcentramento” in cui lapassione e resurrezione diGesù hanno come sfondo ilmuro di cinta del campo diMauthausen. Nel sagrato il 21 novembre2016 la Curia vescovile haconsentito che si collocas-se un monumento dell’ Aneddella Spezia “In memoriadella deportazione miglia-rinese e spezzina nei Cam -pi di sterminio nazisti”. IlMonumento era stato inau-gurato alla presenza del pre-sidente, Dario Venegoni.Dopo il saluto delle auto-rità, la direttrice dell’Istitutospezzino per la Storia dellaResistenza e dell’Età con-temporanea ha tracciato unexcursus sul tema delle“Leggi razziali” e la presi-

dente dell’Aned della Speziasi è soffermata in particola-re su due figure simbolo del-la deportazione “razziale”e “politica” spezzina: la pic-cola Adriana Re vere, di no-ve anni, uccisa ad Auschwitzil 26 febbraio 1944, giornostesso dell’arrivo, e FrancoCetrelli, quattordicenne diMigliarina, internato come“triangolo rosso” e fucila-to il 22 aprile 1945 a Maut -hausen.Il parroco ha spiegato la sim-bologia del dipinto presen-te nella chiesa del quartierecosì duramente colpito dal-la deportazione.Protagonisti dell’incontrogli studenti del liceo Musi -cale “V. Cardarelli” dellaSpezia che hanno eseguitosignificative letture e inter-mezzi musicali e corali e chehanno coinvolto emotiva-mente tutti i presenti.

Doriana FerratoAned La Spezia

Esecuzione del “silenzio”

Incontro con gli studenti nel “Sacrario della Libertà”

“Dipinto in ricordo dei morti nei Campi di concentra-mento”- Chiesa di Migliarina

Adriana Revere

Franco Cetrelli

Momenti della cerimonia in Chiesa

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A Busto Arsizio (Varese) un ricordo di Castiglioni, sopravvissuto a Flossenbürg

Piantati dai piccolii “fiori della memoria”  

Per ricordare tutte le vittime dello sterminio nazista,fiori simbolici realizzati da ragazzi disabili, sono sta-ti collocati -piantati davanti al Tempio Civico e alla tar-

ga dedicata ad Angioletto Castiglioni, sopravvissuto al la-ger di Flossenbürg e scomparso nel 2011. L’iniziativa è stata promossa dal comitato antifascista diBusto Arsizio.

Una pietra d’inciampo a Milanoricorda Chionna, partigiano pugliese

Era falegname alla Pirelli, già schedato come comunista in Puglia

Umberto Chionna era nato a Brindisi nel 1911. Giàschedato nel Casellario Politico Centrale viene ar-restato a Brindisi il 2 novembre 1926 per essere

dell’organizzazione giovanile comunista e condannato a3 anni di reclusione dal tribunale speciale con l’accusa diaver diffuso volantini firmati dal Partito Comunista italiano. Arrestato nuovamente e diffidato il 9 maggio 1931, fu in-viato al confino a Lipari per 3 anni. Venne liberato nel1932 in occasione dei festeggiamenti per il decennale fa-scista ma rimane vigilato fino al 1942.Trasferitosi al nord continua la lotta e si oppone al regi-me partecipando a scioperi nella Pirelli Bicocca dove la-vorava. Il 17 marzo 1944 viene arrestato di notte e con-dotto a San Vittore. Dal carcere è portato alla CasermaUmberto I di Bergamo, dove vede per l’ultima volta lamoglie e la figlia di soli 6 anni. In quell’occasione, altra carognata fascista, avevano det-to a tutte le famiglie che la partenza sarebbe avvenuta ilgiorno dopo. Menzogna crudele perché quando moglie efiglia arrivano a Bergamo vengono a sapere, come tutti ifamiliari, che il carro bestiame con i deportati era già par-

tito nella notte. Era il 5 aprile 1944, e così Chionna fu spedito dai tedeschia Mauthausen, numero di matricola 61606 comeSchutzhaftling, detenuto sotto protezione. Di seguito tra-sferito a Gusen e poi nuovamente a Mauthausen, muoreil 23 aprile1945.

Negli ultimi giornidi gennaio aMilano è stata po-sta una pietra d’in-ciampo a memoriadel suo impegno.Nella foto è con lafamiglia.

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Alla Fondazione una Memoria per ricordare il tenente Gaetano Garofalo

La Fondazione Memoria della Deportazione ha deci-so quest’anno di dedicare per il Giorno della memo-ria un incontro, tra storia e testimonianza, agli Internati

Militari Italiani. «Un racconto oltre il silenzio»: laborato-rio tra storia e memoria. La storia degli Internati MilitariItaliani e la testimonianza del professore di filosofia GaetanoGarofalo. L’incontro, patrocinato da Anei, AssociazioneRegionale Pugliesi, Aned e Anpi si è tenuto il 29 gennaio2019 Sono intervenuti Camillo de Milato, generaledell’Esercito italiano, presidente dell’associazione RegionalePugliesi, Diego Audero Bottero (Istituto italiano di cultu-ra di Cracovia), curatore della mostra 600.000 volte No –600.000 razy Nie. Storia degli IMI nel governatorato ge-nerale, che è stata presentata in numerose città della Polonianel corso 2018, Sonia Gliera archivista e curatrice del vo-lume Gaetano Garofalo, Un racconto oltre il silenzio. Dalfronte greco ai campi di internamento del Terzo Reich, pub-blicato da PensaMultimedia nel 2018.Hanno infine partecipato all’incontro Raffaella De Franco(professore ordinario di Bioetica all’Università di Bari),nipote di Gaetano Garofalo nonché prefatrice del volume,e Liboria Garofalo (Neuroradiologa, Azienda OspedalieroUniversitaria Policlinico di Bari), la figlia cui GaetanoGarofalo ha affidato i suoi ricordi.L’incontro è stato anche occasione per parlare del volumecurato da Sonia Gliera, a conferma del particolare interes-se dedicato in questi anni dalla Fondazione al tema degliInternati Militari Italiani.

Il diario di Gaetano Garofalo nasce da una testimonianzaorale raccontata al figlio Manrico e alla figlia Liboria e daquesta trascritta. Garofalo era un professore di filosofiaoriginario di Giovinazzo (Bari). Scelse di parlare a oltrequarant’anni da quelle vicende, gravato a lungo dal con-flitto interiore tra il rifiuto di un passato che gli aveva “tol-to ogni fiducia nel mondo”, perché lo aveva messo di fron-te alla ineluttabilità del male, apparentemente più forte del-lo spirito, della ragione e dell’etica, e la sua fiducia di fi-losofo e di insegnante in quello stesso pensiero generato-re di regole di vita morale. Solo nel 1985 raccontò la sua espe-rienza di guerra e prigionia: dall’addestramento militarein Italia, al fronte greco, all’internamento nei campi di pri-gionia di Benjaminovo e di Oberlangen.

Riportiamo qui le parole conclusive dell’introduzione alvolume scritta da Raffaella De Franco, in cui ritroviamo lemotivazioni che hanno spinto la Fondazione ad accoglie-re con convinzione questo progetto di pubblicazione, pro-posto con determinazione da tutta la famiglia Garofalo.

“Crediamo che questa narrazione abbia almeno due stra-tificazioni di senso che ne giustificano il motivo di ‘esserenarrata’ ed il motivo di ‘essere pubblicata’. La prima: chi narra del giovane tenente ventenne è lo sto-rico della filosofia che ha sempre creduto nella forza del-la ragione, nella verità della ragione, quella ragione chepermette di ‘spostare le colonne d’Ercole, il cielo di stellefisse … che non riconosce altra regola se non quella che laragione e la libertà individuale pongono’. Narrando la ne-gazione della ragione, affacciandosi sull’abisso della de-gradazione di un uomo da parte dell’uomo, con lo sguar-do disincantato del vecchio filosofo ma anche con qualchescintilla dell’innocenza e dell’inconsapevolezza del ra-gazzo, Garofalo onora anche la sua vocazione di inse-gnante. Spiega alla giovane figlia, ma pure ai giovani chepreferiscono la strada facile del non voler sapere o del di-storcere la storia, quanto la ragione, la morale, il ricono-scimento dell’altro come portatore di valore, siano fragi-li e non scontati. Sembra far proprie le parole dello stori-co ebreo Shimon Dubnow che, mentre era condotto a mor-te nel ghetto di Riga, ai suoi allievi che lo seguivano dalontano piangendo, raccomandava: ‘Ricordate, ricordatee scrivete tutto’. La seconda stratificazione di senso (perché pubblicarequesta storia che sembra avere una dimensione dolorosama in fin dei conti privata?) riguarda la figlia, che ha for-temente voluto questo volume non solo per onorare la me-moria del padre, ma per evidenziare un aspetto del suo rac-conto che non è solo il compiacimento della memoria, mail passaggio di consegne di uno storico alla generazione suc-cessiva. Obiettivo, forse non del tutto consapevole ma pie-namente riuscito della dottoressa Garofalo, che non è unostorico né un filosofo, ma un acuto osservatore, è che lamemoria del tenente Garofalo, il dolore del filosofo Garofalosiano di una qualche utilità a chi oggi ritiene che ricorda-re e sapere gli accadimenti siano un peso inutile di cui lagiovinezza può fare a meno”.

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MassimoCastoldi eDiegoAuderoBottero. Sopra lanipoteRaffaella De Franco.

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Segre, al confine che le negò la libertà. «Non perdonerò maiquell’uomo»

Cinquecento ragazzi muti e attentissimi. È stato comese lei li avesse presi per mano ad uno ad uno e li aves-se portati nel suo passato, nella sua storia. Con parole

semplici e potenti. «Che cosa pensa delle persone che l’han-no perseguitata?» le chiede uno studente con la voce rottadall’emozione. E lei: «Ho una paura antica e un disprez-zo totale. Non perdono e non dimentico chi mi ha fatto delmale. Non ho nemmeno voluto sapere i loro nomi».Lei è la senatrice a vita Liliana Segre, classe 1930, so-pravvissuta alla Shoah e testimone del male assoluto, quel-lo che i suoi occhi videro nel campo di sterminio diAuschwitz-Birkenau fra l’inizio del ‘44 e il maggio del ‘45.Il numero di matricola che porta sull’avambraccio è 75190

e guai a ignorarlo o dimenticarlo, «sarà accanto al mio no-me sulla mia tomba, perché io sono quel numero», dice.Non è la prima volta che Liliana parla a una platea di gio-vani studenti ma questo è un caso speciale. Siamo in Svizzera,il Paese che il 7 dicembre del ‘43 respinse lei e suo padreAlberto al valico di Arzo. Si credevano salvi, e invece le au-torità elvetiche li riportarono al confine e il giorno dopo isoldati italiani li catturarono: quel no cambiò la rotta del-le loro esistenze, fu il primo passo verso la morte per AlbertoSegre, che poche settimane dopo finì in una camera a gasad Auschwitz. E per Liliana, allora tredicenne, fu l’iniziodi un tempo che lei oggi, come fece Primo Levi, definisce«indicibile». Per la prima volta dopo tutti questi anni, la donna che ilpresidente Mattarella ha voluto senatrice a vita in Italia, èvenuta in Svizzera a tenere un discorso pubblico (promos-so dalla Goren Monti Ferrari Foundation). E nell’aula ma-gna dell’Università della Svizzera italiana, a Lugano, perla prima volta il consigliere di Stato del Canton Ticino,Manuele Bertoli, le ha chiesto scusa a nome del suo Paeseper quel no sciagurato di 75 anni fa.«Io ho tanti amici qui. Sarebbe ingiusto generalizzare - ri-sponde lei a chi le chiede se ha perdonato gli svizzeri - macerto non posso dire di non provare rancore verso l’uomoche quel giorno ci rimandò in Italia. Mi buttai a terra co-me una disperata, abbracciai le sue gambe implorandolodi non mandarci via. Lui ci fece riaccompagnare dalleguardie con la baionetta puntata alle spalle. Ricordo chesghignazzavano...».«Che cosa si può fare perché i giovani non dimentichino?»le ha chiesto una ragazzina. «La risposta sei tu, qui» ha re-plicato la senatrice. L’ex direttore del Corriere Ferrucciode Bortoli, che è il presidente onorario del Memoriale del-la Shoah, nato sotto la stazione Centrale di Milano nel pun-to in cui partivano i treni diretti ai campi di sterminio, pre-sentando Liliana Segre, ha parlato dell’importanza dellamemoria, «un vaccino - ha detto - che ci fa essere cittadi-ni migliori». Giusi Fasano

NOTIzIELa senatrice ha raccontato agli studenti svizzeri il giorno in cui una guardia di frontiera rifiutò l’ingresso a lei e al padre

Anzio, alla rievocazione dello sbarco per il 75esimo anniversario dell’operazione

Anziana prende a colpi di borsetta il soldato tedesco: “Andatevene”

“Andate via, andatevene”. E giù colpi di borsettacontro un figurante in divisa militare tedesca. Èsuccesso il 21 gennaio scorso, a Nettuno, durante

la rievocazione storica dello sbarco di Anzio: alla vista deicarri armati e delle uniformi di quei soldati che per mesi han-no seminato il terrore anche sul litorale romano, un’anzia-

na non è riuscita a resistere. È riaffiorato tutto il terrore diquei lunghi mesi in cui, prima che gli Alleati riuscisseroad aprirsi la strada verso Roma, i civili erano alla mercédegli occupanti e dei loro alleati della Repubblica socialeitaliana. In occasione del 75° anniversario dello sbarco, traAnzio e Nettuno si stanno svolgendo numerose cerimonie

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Visita di cento carabinieri di Milano, con Liliana Segreal Binario 21, ora Memoriale della Shoah

Circa cento carabinieri del Comando Provinciale diMilano, accompagnati dalla senatrice a vita LilianaSegre e con la collaborazione dell’Associazione

«Figli della Shoah», hanno partecipato a una visita guida-ta al Memoriale della Shoah - Binario 21 in piazza EdmondSafra 1. Da questo binario Liliana Segre a 13 anni, il 30gennaio 1944, partì su un treno verso un campo di con-centramento. Come lei tanti altri, ma pochi hanno fatto ri-torno. Ora la Segre lancia l’appello ai milanesi, perché va-dano a conoscere questo tassello del passato della città, ea tutti coloro che possono promuoverlo. Si chiede: «Dal Binario 21 in superficie non c’è nessuncartello che rimanda all’altro, sotto. Perché mancano le in-dicazioni?». Lo stesso, nessuna freccia che dalla facciatadella Centrale porti in quella piazzetta, defilata rispetto alvia vai delle persone.

e vedere di nuovo per le strade di Nettuno uomini con l’u-niforme nera e i loro carri armati fermi nella centrale piaz-za Mazzini per un’anziana è stato troppo. La donna è unadi quelle che, all’epoca dei combattimenti, viveva nel vi-cino borgo, dove in tanti ricordano ancora la paura che in-cuteva loro il rumore dei chiodi degli scarponi dei tedeschisul selciato. L’anziana ha iniziato così a inveire contro i fi-guranti, colpendone anche uno con la borsetta.

Clemente Pistilli

Lo sbarco di Anzio in una immagine del tempo. Lo sbar-co degli alleati fu subito contrastato dai tedeschi. Ne vediamo in alto la rievocazione che ha scatenato la protesta dell’anziana laziale.

La senatrice ha anche fatto osservare come all’interno della stazione Centrale non ci siano indicazioni per arrivare al Memoriale

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Una targa ricorda a Torino l’impegno di Bruno Vasari

Nello stabile in cui si trovava l’appartamento del nostro “testimone della Deportazione”

Bruno Vasari nasce a Trieste, ancora austriaca, il 9dicembre 1911, in una famiglia medio borghese,frequenta il liceo classico, dove ha come insegnante

lo scrittore Gianni Stuparich. Dopo la maturità si iscrivealla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Padova econtemporaneamente viene assunto all’Eiar di Trieste.Nel 1938 si trasferisce a Torino dove allora aveva sede laDirezione generale e dove si laurea. Il 1° giugno 1943 viene licenziato dalla direzione fasci-sta per motivi politici; dopo il licenziamento si trasferi-sce a Milano e intensifica i suoi rapporti con la Resistenza.Il 6 novembre 1944 nel corso di una missione è arrestatoe incarcerato a San Vittore: di lì viene deportato al Lagerdi Bolzano, e da Bolzano a quello di Mauthausen, nume-ro di matricola 114119, dove viene liberato il 5 maggio 1945.Sulla sua esperienza scrive, già nel 1945, Mauthausen bi-vacco della morte, il primo libro di testimonianza sulla de-portazione pubblicato in Italia.Riassunto alla Rai nello stesso anno si occupa dei rap-porti con il Ministero della finanza e altri dicasteri fino al-la nomina a direttore centrale amministrativo dell’azien-da. Nel 1970 è promosso vice-direttore generale e nel1977 avviene il pensionamento per raggiunti limiti d’età.Dalla fine degli anni cinquanta lavora per tenere viva lamemoria della Resistenza e della Deportazione e dopo ilpensionamento intensifica gli impegni: dal 1974 e perventi anni dirige la rivista Lettera ai Compagni dellaFederazione italiana associazioni partigiane (Fiap) e dal1991 riveste la carica di presidente in seno all’Associazionenazionale ex deportati politici nei campi di concentra-mento nazisti (Aned). In questo ruolo, con la collaborazione della RegionePiemonte e dell’Università di Torino, promuove una va-

sta attività culturale volta a preservare la memoria dellaDeportazione e della Resistenza.Bruno Vasari è scomparso a 96 anni nel 2007.A ricordare la sua vita e il suo impegno, tra i tanti, ec-co le parole del presidente del Consiglio comunale FabioVersaci: “Vasari, torinese di adozione, è stato un uo-mo che ha scelto di stare dalla parte giusta. Grazie a don-ne e uomini come lui, siamo qui oggi come donne e uo-mini liberi. Con questa targa la Città rende omaggioad una persona che ha dedicato la sua vita a promuo-vere una vasta attività culturale...... Per Lea Marchiaro, ex vice presidente del ConsiglioRegionale, Vasari aveva la capacità di stabilire “rap-porti straordinari con persone di generazioni diverse.La sua grande intuizione fu quella di appoggiarsi alleistituzioni pubbliche, perché la memoria non si disper-desse in storie individuali o in semplici commemora-zioni ma tutte diventassero un insieme di dati con laforza della storia. .. Oggi, ha concluso, facciamo un gesto dovuto perché ilnome di Bruno Vasari deve essere consegnato alla Cittàe lasciato alla memoria dei passanti”.

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In alto: foto della cerimo-nia per lo scoprimentodella targa in ricordo diBruno Vasari presso la suaabitazione a Torino, in viaDei Mille 4, che si è svoltaalla presenza delle autoritàcomunali e di un vastopubblico di amici.

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Presentata nel Savonese la mostra sul“Trasporto 81 in viaggio con Teresio”

La documentazione della deportazione di 432 prigionieri dal campo di Bolzano al lager di Flossenbürg

La Sezione Aned di Savona e Imperia ha voluto pre-sentare, in tre momenti diversi in provincia di Savona,l’importante lavoro fatto dalla Sezione di Pavia in-

sieme all’Aned nazionale e alla Fondazione Memoria del-la Deportazione con la mostra dedicata al “Trasporto 81in viaggio con Teresio”: documentazione sulla deportazionedi 432 prigionieri partiti dal campo di Bolzano tra il 5 eil 7 settembre 1944 e giunti nel lager di Flossenbürg. Con questa mostra abbiamo voluto testimoniare ai citta-dini, e soprattutto alle scolaresche che hanno visitato neitre mesi l’esposizione, le sofferenze dei deportati, sotto-lineando che il treno, il vagone piombato trasformato inprigione nel quale avveniva il viaggio verso il lager, fos-se esso stesso strumento di sofferenza e per molti di mor-te. Purtroppo a Flossenbürg la percentuale di decessi trai deportati fu dell’80%. Qui la maggioranza dei prigio-nieri furono registrati come politici e dunque contrasse-gnati con il triangolo rosso. Dalla Liguria sono stati tra-sportati a Flossenbürg in 62.La sezione di Savona con la mostra ha voluto ricordare ideportati della zona, come il generale Costantino Salvi el’agente di polizia penitenziaria Andrea Schivo, oltre adun gruppo di savonesi, tra cui 6 residenti a Noli e il fra-tello del presidente della Repubblica Sandro Pertini,Eugenio.La mostra è stata inaugurata prima a Savona, presso laSala Mostre della Provincia, dal 29 settembre al 2 ottobre.I lavori sono stati aperti dalla Presidente Aned SavonaMaria Bolla, alla presenza delle autorità civili e militari.Dopo il taglio del nastro e la benedizione del Vescovoemerito mons. Vittorio Lupi, hanno portato i saluti il con-sigliere comunale Alberto Marabotto e la consigliera pro-vinciale Elisa Di Padova. Inoltre è stato consegnato il faz-zoletto della nostra associazione al Vice Presidente dellaBanca di Credito cooperativo di Pianfei e Rocca de’ Baldi,Giovanni Carlevarino, per il contributo concessoci. Hanno

concluso i lavori gli amici dell’Aned di Pavia Marco Savinie le professoressa Maria Antonietta Arrigoni che hanno pre-sentato la mostra sotto il profilo storico e il professorMarco Rebagliati che ha trattato il tema della partecipa-zione dei savonesi, soprattutto dei ferrovieri, nella lotta diLiberazione.Nei giorni successivi l’esposizione è stata visitata da al-cune classi delle scuole medie e superiori e dalle classi 3A e 3T dell’Istituto Boselli-Alberti, grazie all’interessa-mento della professoressa Elisa Falce, che collabora conla sezione Aned. Dal 18 al 20 ottobre la mostra è stata esposta a Celle Ligure,dove, insieme all’amministrazione comunale, Arci, Isrec,Anpi e associazione Italia-Cuba è stata organizzata una se-rata per ricordare la figura di Ester Bejarano, musicista te-desca sopravvissuta alla Shoah. Su di lei è stato girato ildocumentario “Dove si nasconde il cielo” che è statoproiettato in quella occasione.Successivamente, dal 29 novembre al 13 dicembre la mo-stra è stata portata a Cairo Montenotte presso il Palazzodi Città. L’inaugurazione è avvenuta alla presenza del sin-daco dott. Paolo Lambertini, del Prefetto della provinciadi Savona dott. Antonio Cananà, del Questore della pro-vincia di Savona dottoressa Giannina Roatta e del diret-tore della Scuola di Formazione della polizia PenitenziariaGenerale di brigata Giuseppe Zito, con il quale è stata ri-cordata la figura umana ed eroica di Andrea Schivo,Medaglia d’oro al Valor Militare, dichiarato Giusto tra leNazioni dal Governo d’Israele nel 2005 e al quale è stataintitolata la scuola di Formazione degli agenti di custodiadi Cairo Montenotte. Al termine dell’inaugurazione sonostati resi gli onori militari con il picchetto degli allieviufficiali della Scuola. Successivamente la mostra è statatrasferita nel comprensorio delle scuole medie e nellescuole superiori dell’Istituto Patetta della città di CairoMontenotte. Simone Falco

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Momenti della bella e partecipata inaugurazione della mostra.

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Deportato politico a Flossenbürg e Kottern (Dachau), aveva 94 anni

Si è spento a Milano ilcompagno VenanzioGibillini ex deporta-

to a Bolzano, Flossenbürge Kottern (Dachau). Aveva 94 anni; ne aveva20 quando fu arrestato edepor tato. Ancora pochi giorni fa ag-giornava il fittissimo ca-lendario degli impegni cheavrebbero dovuto portarlo,come ogni anno, a incon -tra re migliaia di ragazzi inogni parte d’Italia e a Flos -senbürg, dove la sua pre-senza era ormai una co-stante delle celebrazioniannuali.Il Comune di Milano gliaveva assegnato la massi-ma onorificenza cittadina(foto sopra) nel corso diuna seduta del ConsiglioComunale.L’avevo incontrato pochigiorni fa in ospedale, quan-do avevo saputo del suomalore, e l’avevo trovatoancora incredibilmentesorridente, nel suo letto alpronto soccorso. “Saluta tutti” mi aveva

Nel 2017 fu insi-gnito della mas-sima onorificen-za milanese,l’Ambroginod’Oro. Il ricor-do: «Portavasempre con sé ilcucchiaio che dinascosto avevaricavato inun’officina delleimprese tede-sche con suscritto “mam-ma” e“Milano”»

detto. E ancora una delleultime sere gli ho portatoil saluto e l’abbraccio “ditutti i tuoi compagni”, enon so perché ma sono si-curo che il messaggio glisia giunto. Con Venanzioperdiamo a Milano il te-stimone più conosciutodella deportazione politi-ca milanese, l’unico in gra-do di andare nelle scuole. È un momento di passag-gio in qualche modo pre -visto e ugualmente dram - ma tico: mai come que-st’anno il tema della de-portazione degli antifa-scisti e dei partigiani è sta-to sistematicamente ac-cantonato e cancellato nelcalendario delle iniziati-ve del Giorno della Me -moria. Saremo capaci di reagire,anche senza la voce deiprotagonisti?Al figlio Walter e agli altrifamiliari, sempre così af-fettuosamente vicini a Ve -nanzio, l’abbraccio e il cor-doglio dell’Associazione.

Dario Venegoni

La scomparsa di VenanzioGibillini uno degli ultimisopravvissuti ai campi

Aveva 99 anni la partigiana Marisa Scalaex deportata a Bolzano

Èmancata MarisaScala, classe 1919.Na sce a Verona ma

si trasferisce con la fami-glia a Torino nel 1939 eden tra in contatto con gliambienti di Giustizia e Li -bertà.Arrestata nell’agosto 1944,viene condotta alla caser-ma di via Asti a Torino, se-de delle Brigate Nere. Do -po una sosta al carcere LeNuove di Torino e SanVittore a Milano, è depor-tata al lager di Bolzano fi-no all’aprile 1945, nume-ro di matricola 6678.

La sua testimonianza fudecisiva per la condanna di Michael Seifert

A partire dal 2000 è statatestimone coraggiosa alprocesso contro MichaelSeifert, (nella foto in bas-so) detto Misha, terribileaddetto alla sorveglianzadel campo di Bolza no,contribuendone alla con-danna.

Suo fratello Remo, scom-parso nel maggio 2018, fuanch’egli operante nelleformazioni gielle del cu-neese, catturato e depor-tato a Dachau e Buchen -wald nel 1944.Ci lascia l’ultima testi-mone diretta dell’espe-rienza del lager di questastaordinaria famiglia diantifascisti, una donna digrande forza, tempera-mento e umanità.

La Sezione dell’Aned diTorino è vicina con gran-de affetto ai famigliari tut-ti. La scomparsa di Marisarappresenta per questa se-zione una perdita partico-larmente grave ed un vuo-to incolmabile.

I NOSTRI LUTTI

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Deportato a Bolzano, a Dachau il 9 ottobredel 1944 poi trasferito a Bad Gandersheim

Riferimento per la comunità religiosa cu-neese a giugno avrebbe compiuto 100 anni

Ci è giunta in questigiorni la triste noti-zia della scomparsa

di Raffaele Capuozzo, de-portato a Bolzano, Dachaue Bad Gandersheim, sottocampo di Buchen wald.Nasce a Milano nel 1924. Arrestato a Pacengo l’11maggio del 1944, viene in-carcerato e interrogato alPalazzo dell’INA a Verona.Deportato a Bolzano, giun-ge a Dachau il 9 ottobre del1944 (Matricola 113256)ed è classificato comeSchutz (arrestato per moti-vi di sicurezza). Il 27 otto-

bre è trasferito a Bad Gan-dersheim (sottocampo diBuchenwald), dove arrivail 18 novembre (Matricola94446) ed è classificatocome ‘Detenuto Politico’.È liberato nel maggio del1945 durante la marciadella morte da Buchen -wald.

Lo ricordiamo nel 71° An-niversario della Liberazio-ne a Verona durante il con-ferimento della Medagliadella Liberazione con l’im-magine qui sopra (da sini-stra il rappresentante delSindaco, Raffaele Capuoz-zo con la pergamena inmano, Matilde Lenotti Or-na Partigiana già Presiden-te onoraria ANPI Verona, ilrappresentante della Pro-vincia ed Ennio TrivellinPresidente Aned Verona).

Ricorderemo sempre conriconoscenza il suo impe-gno e la sua testimonianza.Con profondo cordogliosiamo vicini ai suoi fami-liari e all’ Aned di Verona.

Raffaele Capuozzo, da Verona, era classificato ‘Politico’

Enzo Cavaglion, fondòcon Duccio Galimbertila “Banda libera”

La Fondazione Memo -ria della Deportazioneapprende con com-

mozione la notizia dellascomparsa di EnzoCavaglion, personalità dispicco della comunità ebrai-ca di Cuneo e fondatore conDuccio Galim berti (nel fran-cobollo qui accanto) dellastorica formazione parti-giana “Banda libera”. Nella foto qui sopra è fe-steggiato per i suoi 99 anni.

Durante la guerra aiutò mol-ti ebrei francesi a trovare ri-fugio nel cuneese.Così lo ricorda l’Anpi diCuneo: «Enzo partecipa aduna delle più belle paginedella storia d’Italia “laResistenza”, fatta di movi-menti di operai e di conta-dini che per la prima voltapartecipano ad una guerrapopolare senza essere pre-cettati. Avevano un unicoobiettivo quello di conqui-stare la Libertà, la demo-crazia e la giustizia socia-le, dopo anni di guerre in-giuste e di conquiste fasul-

le, lasciando sui campi mi-lioni di morti e di dispersi. Grazie Enzo per i tuoi in-segnamenti, per la tua umil -tà e per la tua simpatia».

Alla sua famiglia, alla co-munità ebraica e all’ANPIdi Cuneo giungano le no-stre più sentite condo-glianze.

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Dopo 10 anni sono 190 le pietre d’inciampo in Italia

Le prime Pietre d’Inciampo furono posate a Roma il28 gennaio 2010 in Via della Reginella 2, a memo-ria di quattro componenti della famiglia Spizzichino,

una madre, due figlie ed una nipotina di appena due anni,tutti deportati per la sola colpa di essere nati e scomparsinel lager di Auschwitz.Forse la stessa Adachiara Zevi, l’artefice di quella primaposa, non si aspettava che nel decimo anno quel progettosarebbe diventato così diffuso su tutto il territorio del pae-se.Oggi l’appuntamento annuale con Gunter Demnig a gen-naio è un vero e proprio giro d’Italia che comincia dal sude gradualmente risale la penisola fermandosi sia nelle gran-di città (Roma, Torino, Milano ed altre) sia in centri minori,anche per l’installazione di una singola Pietra d’Inciampo.

In Italia sono sostanzialmente quattro le tipologie delladeportazione nazi-fascista: politici, razziali, internatimilitari, lavoratori coatti. Tutte hanno la medesima va-

lenza e tutte le vittime hanno lo stesso diritto al ricordo: trop-pi di loro stanno perdendosi nell’oblio. E tutte le tipologiesono oggi ricordate.I migliori dati attuali ci dicono che non tornarono dai la-ger circa 7.500 cittadini italiani di religione ebraica, oltre10.200 cittadini italiani tra oppositori politici e lavorato-ri coatti ed inoltre tra 40.000 e 50.000 militari italiani, in-ternati dopo la tragedia dell’8 settembre, che rifiutarono diaderire alla Repubblica di Salò.

di Marco Steiner

Gennaio 2019: Gunter Demnig, l’artista tedescoideatore del più imponente monumento diffusoeuropeo per mantenere viva la memoria diquanti furono vittime della persecuzione nazi-fascista, ha posato in Italia ben 190 Pietred’Inciampo.

Le nuove Pietre sono intitolate a personevittime di tutte le tipologie di persecuzione chesi è verificata nel nostro Paese, persone cheerano nostri concittadini e provenivano da tuttele regioni italiane.

“Le quattro tipologie della deportazione nazi-fascista:politici, razziali, internati militari, lavoratori coatti.

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Non sarà mai possibile coprire l’intero universo de-gli italiani che persero la vita nei campi di concen-tramento, di lavoro e di sterminio: è comunque im-

portante ricordare quanti essi furono, tenuto conto che tut-ti i dati storicamente provati sono validi per difetto per-ché, nonostante le più accurate ricerche, ci saranno sem-pre persone di cui è impossibile accertare il destino.Dietro ciascuna delle 190 Pietre d’Inciampo oggi presen-ti in Italia, c’è la storia di una persona e l’obiettivo del pro-getto è proprio questo: Una Pietra - Un Nome - UnaStoria.

Quello che oggi manca nel nostro Paese è un coordi-namento di tutte le iniziative che sono state avvia-te per la diffusione delle Pietre d’Inciampo. Nella

maggior parte dei casi si è mossa un’associazione, radi-cata localmente, che ha voluto così perpetuare la memo-ria di una persona che a quel territorio era legata; spessopiù associazioni si sono accordate per una proposta co-mune; talvolta la stessa amministrazione locale si è resa pro-motrice; in qualche caso una singola persona ha ottenutola Pietra per un familiare. Tutte queste iniziative sono as-solutamente da encomiare per il risultato raggiunto.

Occorre d’altra parte capire che proprio questa fram-mentazione di iniziative ha comportato che i crite-ri di intitolazione delle Pietre d’Inciampo e, talvol-

ta, anche le iscrizioni sulle stesse Pietre, non sono stati co-stanti e ciò potrebbe comportare delle domande proprioda parte di chi “inciampa” ed è indotto alla riflessione sulnome che legge,Un coordinamento nazionale, non per sottoporre a tutelale iniziative, ma per l’elaborazione di linee guida nazionali,che possano far sì che le motivazioni alla base delle scel-te delle persone siano uniformi lungo la penisola, potreb-be essere utile anche per poter raggiungere se non tutte al-meno la maggior parte delle località da cui vi furono de-portati; un altro compito di questo coordinamento potrebbeessere la formazione e l’aggiornamento di un archivio ge-nerale, una volta che la singola Pietra sia stata posata, checonsenta di soddisfare le richieste che certamente verran-no del tipo: “chi era costui?”

“Un coordinamento nazionale delle motivazioniper l’elaborazione di linee guida italiane

Sono state strappate dal selciato e rubate nella notte,a Roma, 20 «pietre d’inciampo» installate nellapavimentazione in via Madonna dei Montiall’altezza del civico 82 nel quartiere Monti. I sampietrini d’ottone rubati, erano dedicati adalcuni membri della famiglia Di Consiglio, il ramomaterno di Giulia Spizzichino - grande accusatricedi Priebke - ed erano stati installati il 9 gennaio del2012. Le pietre, erano state realizzate dall’artistatedesco Gunter Demnig. La denuncia arriva dall’As so ciazione Arte inMemoria che dal 2010 si occupa dell’installazionedelle pietre nella Capitale. «È un attacco inauditodi fascismo e di antisemitismo fatto da gente chenon scherza e purtroppo un governo come quelloche abbiamo, che aizza all’odio per il diverso,legittima questi atti». Queste le dure parole diAdachiara Zevi, presidente dell’Asso ciazione Artein Memoria, che ha denunciato il furto delle pietred’inciampo.Le pietre, posizionate sul selciato, erano staterichieste da Giulia Spizzichino, sopravvissuta allaShoah, per onorare la memoria della famiglia DiConsiglio, e finanziate dalla Comunità ebraica diRoma. La Spizzichino, scomparsa nel 2016, discen -deva infatti dalla famiglia di Mosè e Orabona DiConsiglio, in quanto la madre Ester era una dei 10figli della coppia. La famiglia fu tra le più colpite aRoma, non solo nella razzia al Ghetto del 16ottobre del ‘43, ma anche nella retata del 21 marzo1944: più di 20 persone vennero deportate adAuschwitz o trucidate nelle Fosse Ardeatine.

Roma, rubate venti «Pietre d’inciampo» in memoria della famigliadi Giulia Spizzichino

Il buco neisampietriniin viaMadonnadei Monti82 a Roma.Nella paginaaccanto l’artistatedescoGunterDemnig.

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Matricola 1022 - Fossoli 14.5.1944Don Giuseppe Celli,nato a Cagli (PS) il 3 set-tembre 1879, sacerdote.Arrestato a Cagli perchéaccusato di aver nasco-sto nella sua canonicasoldati alleati sbandati.Detenuto nelle carceri diBologna e poi aCastelfranco Emilia, èdeportato a Fossoli dovegli viene assegnata lamatricola 1022 e trian-golo rosso. Trasferito nelcampo di Bolzano il 25

luglio 1944, il 5 agosto 1944 viene deportato aMauthausen, vi arriva il 7 agosto e diventa il numero82326. Ucciso col gas ad Hartheim il 15 dicembre 1944.

Disegno eseguito da Maltagliati a Fossoli il 14.5.1944,matita su carta, 24x16,7 cm. Sul retro si legge: “D.Giuseppe Celli, Parroco a Secchiano di Cagli (Pesaro)”.

La preziosa ereditàdi un uomocontroverso

di Dario Venegoni

In occasione della Giornata della Memoria allaCasa della Memoria di Milano è stata inauguratauna straordinaria esposizione dei ritratti eseguitida Armando Maltagliati nei campi di Fossoli eBolzano, più due disegni di Lodovico Barbiano diBelgiojoso. Questa è la presentazione che ne ha fatto ilPresidente nazionale dell’Aned Dario Venegoni.

Vengono presentati per la prima volta al pubblicoin questa occasione eccezionali disegni e ritrattirealizzati da Armando Maltagliati nei Lager delleSS di Fossoli di Carpi (in provincia di Modena) edi Bolzano.Accanto ad essi anche due disegni altrettantoinediti di Lodovico Barbiano di Belgiojosodedicati allo stesso Maltagliati.

AFossoli e a Bolzano l’autore della maggior par-te di questi ritratti non era un prigioniero qua-lunque. Le SS lo avevano scelto come capo-

campo, e cioè come il prigioniero incaricato di assi-curare l’ordinato sviluppo delle attività del Lager, ilpunto di contatto tra il mondo dei reclusi e quello del-le guardie naziste. Il capocampo si avvaleva a sua volta della collabora-zione dei capi-baracca, che venivano eletti dagli stes-si prigionieri. Il capo-baracca era responsabile degliappelli quotidiani, attraverso i quali mattina e sera i na-zisti si assicuravano che i conti tornassero, che nessunofosse evaso, che tutto filasse come previsto. Niente ache vedere con i kapò dei Lager del Reich: nei duecampi italiani gli eletti non erano responsabili della di-

“La Casa della Memoria ha ospitato la mostra“Volti nei lager” ritratti eseguiti nel 1944

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Matricola 325 - Fossoli 4.5.1944Giorgina Bellak, nata aMilano il 10 marzo 1922da padre ebreo e damadre cattolica, arrestataa Pino (VA) l’8 dicembre1943 dopo essere statarespinta alla frontiera sviz-zera. Detenuta nel carceredi Varese, poi in quello diComo e in quello di SanVittore, dove riceve lamatricola 935. Deportata aFossoli il 27 aprile 1944 quile viene assegnata la matri-

cola 325 e il triangolo rosso riprodotto anche nel disegno.Deportata a Ravensbrück il 2 agosto 1944, dove diventa ilnumero 49533. Liberata dagli americani nel piccolocampo di Salzwdel il 14 aprile 1945. Nel 1960 pubblica con Giovanni Melodia il libro “Donnee bambini nei Lager nazisti”.

Disegno eseguito da Maltagliati nel campo di Fossoli il4.5.1944, matita su carta, 24x16,8 cm. Sul retro si legge:“Giorgia Bellak, Via Abamonti 1, Milano”.

Matricola 205 - Fossoli 2.5.1944Leopoldo (per tuttiPoldo) Gasparotto, natoa Milano il 30 dicembre1902. Avvocato, era unodei capi militari dellaResistenza a Milano,dove venne arrestatol’11 dicembre 1944.Detenuto nel carcere diSan Vittore, matricola864 cella 12 raggio 6, fupesantemente torturato.Deportato a Fossoli il 27aprile 1944 gli vieneassegnata la matricola

205 e triangolo rosso. Fucilato nei pressi del campo diFossoli il 22 giugno 1944. Nel campo tenne un diario che èstato pubblicato nel 2007 e che rappresenta uno dei docu-menti più importanti sul lager nazista emiliano.Nel 1945, a Roma, una copia di questo disegno venne con-segnata dal cognato di Maltagliati al padre di Poldo.

Disegno eseguito da Maltagliati nel campo di Fossoli il2.5.1944, matita su carta, 24x16,5 cm.

Matricola 22 - Fossoli 29.4.1944Pietro Arnaldo Terzi,nato a Sarzana (SP) il 20novembre 1883, avvoca-to, sindaco di Sarzananel 1921 quando la cittàrespinse l’assalto di 500squadristi fascisti.Arrestato a SestriLevante (GE) nel feb-braio del 1944. Detenutonel carcere di Marassi diGenova, è deportato aFossoli nell’aprile 1944,nella baracca 20, dovegli viene assegnata lamatricola 22. Deportato

il 21 giugno 1944 a Mauthausen, vi arriva il 24 giugno ediventa il numero 76672. Trasferito ad Hartheim e quiucciso con il gas il 13 novembre 1944.

Disegno eseguito da Maltagliati nel campo di Fossoli il29.4.1944, matita su carta, 24x16,5 cm. Sul retro si legge:“Sestri Levante (Genova) Carlo Alberto II”.

Matricola 321 - Fossoli 30.4.1944Maria Montuoro, nata aPalermo il 16 ottobre 1909.Partigiana in Lombardiacol nome di copertura di“Mara”, viene arrestata aBelgiojoso (PV) il 26 feb-braio 1944 e detenuta nelcarcere di San Vittore,matricola 1476. Deportataa Fossoli il 27 aprile 1944dove le viene assegnata lamatricola 321 e triangolorosso. Deportata aRavensbrück il 28 luglio1944, dove diventa il nume-

ro 49566 e viene costretta a lavorare alla produzione bel-lica presso la Siemens. Liberata a Ravensbrück. Neldopoguerra testimone attiva della deportazione femmini-le. Preziosi in particolare i suoi racconti sui continui sabo-taggi delle prigioniere alla produzione delle armi.

Disegno eseguito da Maltagliati nel campo di Fossoli il 30.4.1944, matita su carta, 24,5x16,7 cm.

“Chi era Armando Maltagliati, autore della maggior parte dei ritratti di prigionieri di Fossoli e Bolzano

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sciplina, né tanto meno infliggevano personalmentepunizioni corporali. Questi erano compiti che le SS siriservavano in esclusiva. Responsabile della disci-plina, amministrata con violenza e talora anche conspirito omicida, era il vicecomandante Hans Haage,di cui tutti i deportati – più a Bolzano che a Fossoli,in verità – ricordano il sadismo e la violenza.Il capocampo era responsabile della vita quotidiana,dai lavori edili alla manutenzione degli impianti, dal-la distribuzione del rancio alla riparazione delle sup-pellettili, dalla consegna di eventuali aiuti al recapi-to della corrispondenza.Capitava talora che a lui spettassero scelte con elevatotasso di discrezionalità, e questo contribuiva ad ali-mentare malumori e sospetti tra i prigionieri.Del resto, non si diventava capocampo se le SS inqualche misura non si fidavano di te.

Ma chi era l’autore di questi ritratti? UbaldoArmando Maltagliati nacque a Borgo aBuggiano (in provincia di Pistoia) il 1° mag-

gio 1913. Il 5 giugno 1937, a 25 anni, conseguì il bre-vetto di pilota militare presso l’Accademia di Caserta.In seguito divenne ufficiale dell’Aeronautica, col gra-do di capitano. Dopo l’8 settembre lasciò l’Aeronauticae passò nelle fila della Resistenza nella zona di Firenze,in collegamento con elementi del Partito d’Azione.Il 2 marzo 1944 fu arrestato a Lucca e incarcerato al-le Murate di Firenze, dove fu sottoposto a stringentiinterrogatori da parte delle SS.Nella seconda metà di aprile fu trasferito a Fossoli, do-ve fu tra i primi prigionieri a essere immatricolati (lotestimonia il suo numero, 101). Il 10 maggio fu scel-to come capocampo tra una rosa di militari prigio-nieri.In quella veste fu in qualche modo al centro della vi-ta del Lager, come trait d’union tra prigionieri e SS.Ci furono in quei mesi giornate molto drammatiche,segnate dall’orribile eccidio di 67 prigionieri fucila-ti il 12 luglio, e prima ancora dall’uccisione di Leopoldo

Gasparotto, il 22 giugno 1944. La lista delle persone dafucilare la compilarono le SS, ma fu il capocampo a leg-gerla, invitando i nominati a raccogliere le proprie co-se e a trasferirsi in una baracca, separati dagli altri.Fu ancora lui a leggere la lista dei partenti per i Lagerdel Terzo Reich che i nazisti avevano compilato in oc-casione delle deportazioni di massa verso Auschwitz overso Mauthausen. In quel periodo, tra aprile e luglio,il campo funzionò in effetti come un enorme manticeche si gonfiava a seguito degli arrivi incessanti dei pri-gionieri politici e degli ebrei dalle carceri del nord Italiae si svuotava con le grandi partenze collettive organiz-zate dai nazisti a più riprese verso i grandi Lager delReich: di regola Auschwitz per gli ebrei e Mauthausenper i prigionieri politici.

Il campo di Fossoli era diviso in due settori separatida barriere di filo spinato; uno per gli ebrei, l’altroper gli oppositori politici e i partigiani. Maltagliati

conservò tra le sue carte ritratti realizzati in entrambi isettori, cosa che autorizza a immaginare che godesse di

L’ultima immagine di persone inghiottite dalla macchina dello sterminio nazista

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una notevole libertà di movimento. Ma va notato che ilgrosso dei suoi ritratti precede la data del 10 maggio, ecioè la sua nomina a capocampo: forse all’indomanidell’assunzione di quell’incarico la sua possibilità diritagliare del tempo per il suo hobby diminuì drastica-mente.Figura controversa e discussa dentro e fuori il Lager,Maltagliati scelse personalmente alcune delle persona-lità di spicco tra i prigionieri per organizzare al megliola vita del campo. Tra questi Leopoldo Gasparotto, gliarchitetti Gian Luigi Banfi e Lodovico Barbiano diBelgiojoso, l’ing. Angelo Vallerani, il tecnico edileEttore Barzini, gli avvocati Giovanni Barni e OttavianoPieraccini e altri. Grazie a “quelle persone intelligenti– si vantò poi con gli americani che lo interrogarononel dopoguerra – riuscii a trasformare il campo da unporcile com’era in un giardino pieno di comfort. Il ge-nerale delle SS Harster, invitato a visitare il campo al-cuni mesi più tardi, fu così soddisfatto dei risultati delnostro lavoro che promosse Titho e gli altri e garantìdei premi agli altri cani, mentre a me fu promesso chein futuro avrei riacquistato la libertà, anche senza spe-cificare una data”.

Quando il Lager emiliano fu liquidato, alla fine diluglio del 1944, Maltagliati fu anch’esso trasfe-rito e impiegato nella riorganizzazione del Lager

nei nuovi ambienti in via Resia.La cosa durò fino al mese di novembre, quando venneannunciato che il capocampo sarebbe stato addiritturarimesso in libertà. Ovviamente questo avvenimento – piùunico che raro per un personaggio così in vista – ali-mentò i sospetti che già circolavano tra i prigionieri suireali rapporti tra Maltagliati e i nazisti. Molti arrivaro-no a fare congetture sui “servigi” che egli aveva evi-dentemente reso alle SS, tanto da meritarsi questo pre-mio eccezionale. D’altra parte, come annota il prigionieroEmilio Sorteni nel suo diario tenuto nel Lager: “La po-sizione del capocampo non è una cosa facile, dato chedeve essere più vicino ai tedeschi che a noi”.L’avvocato Luciano Elmo, esponente liberale deporta-to a Bolzano da Milano il 7 settembre 1944 ed evasodal treno che lo avrebbe dovuto condurre a Mauthausenil 20 novembre 1944, in un rapporto per il CLN di Milanoha tenuto a mettere in guardia il vertice della Resistenzamilanese sulla sua figura: “(Maltagliati) non ha maiaiutato i compagni, era amico personale del coman-dante del campo. Odiato da tutti, nessun partito lo so-steneva. Tutti lo ritenevano disonesto e lo evitavano. Invista della propria liberazione ha cercato di accostar-si prima al Partito d’Azione, poi ai comunisti, indi ai so-cialisti!”.

Dall’interno del campo, in alcuni messaggi clan-destini indirizzati a Lelio Basso, leader del par-tito socialista clandestino, anche Ada Buffulini,

coordinatrice del comitato interno di resistenza tra i pri-gionieri, non usò espressioni più tenere. Il 20 novembrecosì si esprime: “Domattina uscirà libero dal campo

Maltagliati, il quale ha promesso di occuparsi d’orain avanti dell’assistenza agli internati (…). È un in-dividuo infido, doppio, da utilizzarsi con grandissi-me precauzioni”.A conferma della scarsissima fiducia riposta da granparte dei prigionieri nell’ex capocampo, ancora nelgennaio 1945 Ada Buffulini così scrive a Lelio Basso:“Se tu per caso avessi occasione di comunicare conMaltagliati, che è ancora a Milano, fagli dire di nonritornare a Bolzano perché sarebbe per lui molto pe-ricoloso. Tra di noi, dei pericoli suoi mi importa as-sai poco, ma sarebbe estremamente pericoloso per noiche ritornasse da queste parti. E in questo noi non in-tendo soltanto persone internate”. L’interessato erainfatti a conoscenza di molti segreti dell’organizza-zione della Resistenza a Bolzano, sia dentro che fuo-ri del Lager, e un suo eventuale interrogatorio avreb-be potuto mettere a rischio tutta la rete dei contatticlandestini.

Diffidare di lui come cospiratore antifascista,però, non significava per diversi resistenti al-linearsi a chi lo riteneva un agente dei nazisti tout

court. A liberazione avvenuta, la stessa Buffulini rilasciauna dichiarazione scritta in difesa dell’ex capocam-po, contro il quale si sta ipotizzando l’apertura di unprocesso per collaborazionismo: “Su richiesta del-l’interessato dichiaro che Maltagliati sicuramente nonè stato una spia delle SS nel campo di Bolzano, né do-po la sua liberazione. Egli aveva in mano molti do-

Scrivono di lui: è un individuo infido, doppio,da utilizzarsi con grandissime precauzioni

Uno scorcio dall’esterno del campo di via Resia. Nella pagina accanto la pianta di come erano sistematigli edifici e un disegno prospettico di Cesare zillo.

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Bolzano il 26 ottobre 1944. Il 12 giugno 1945 Venegoniscrisse, sul retro della carta intestata dell’organizza-zione delle donne socialiste di cui la Buffulini era diri-gente nazionale: “Dichiaro che Maltagliati ha colla-borato con noi, socialisti e comunisti, nel mese di set-tembre e ottobre, al campo di Bolzano. Ha cercato dievitare la partenza di compagni per la Germania e si èadoperato per favorire la nostra organizzazione nelcampo”.

Rimane infine ancora avvolta nel mistero la vicendadei due disegni di Lodovico Belgiojoso presentatiper la prima volta in questa occasione e quella di

altri disegni e acquerelli dello stesso Belgiojoso ap-partenuti a Maltagliati e oggi conservati dalla famigliaLacchia. Non possiamo dire con certezza quando l’au-tore, che in alcune occasioni nel dopoguerra si espres-se in forma molto severa nei riguardi del vecchio ca-pocampo, affidò proprio a lui questi disegni e questi ac-querelli. Un’ipotesi plausibile è che ciò potrebbe essere avve-nuto il 5 agosto 1944 a Bolzano, nei minuti concitatiche precedettero la partenza di diverse centinaia di pri-gionieri – tra i quali lo stesso Belgiojoso – perMauthausen. Nell’incertezza del proprio destino, spes-so i partenti affidavano a chi restava quanto di più caroavevano ancora con sé. Con Belgiojoso partirono quel giorno da Bolzano perMauthausen alcuni degli antifascisti a lui più vicini:l’amico e collega di studio Gian Luigi Banfi, il finanziereAldo Ravelli, il partigiano Gianfranco Maris e la gran-de maggioranza dei prigionieri trasferiti da Fossoli so-lo la settimana prima. A chi affidare quei fogli, dunque,se non a Maltagliati, che aveva più probabilità di sottrarsialla deportazione verso i campi del Reich, e quindi di sal-varli dalla distruzione?

Entrambi i disegni di Lodovico Belgiojoso presen-tati in questa occasione riguardano il capocampo.Il primo è nello stile di quelli realizzati a Fossoli

e a Bolzano dallo stesso ex comandante dell’aviazio-ne: un ritratto a mezzo busto del prigioniero, con tantodi numero di matricola. Significativa è la data del dise-gno: Fossoli, 18 luglio 1944, neanche una settimana do-po l’eccidio dei 67 trucidati al poligono di Cibeno.Il secondo (in alto) è una caricatura, che riporta la de-dica “Al capocampo, il n. 190” (che era appunto la ma-tricola di Belgiojoso) e la data: 1 giugno 1944. Maltagliati è rappresentato sotto le sembianze di un ele-fante che cammina – schiacciandone molte – sulle uo-va, tenendo con la proboscide un cartello: “Buono perun Milione di zoccoli”.

Il riferimento è probabilmente alla distribuzione di pa-recchie decine di paia di zoccoli che il parroco di Carpi,don Venturelli, riuscì a fare recapitare ai prigionieri.Immaginiamo che la distribuzione di tali “ricchezze”

cumenti compromettenti per noi e per altri compagni,mentre risulta che nessuno è stato ricercato dai fa-scisti o dalle SS per colpa sua. Posso testimoniareinoltre che nel campo egli svolse un’opera attiva e in-telligente a favore di compagni di sinistra, special-mente socialisti, riuscendo ad evitare la partenza perla Germania di elementi segnalati da noi o dal PartitoComunista, e appianando questioni anche molto gra-vi sorte nel campo. Ricordo particolarmente il caso del-le rivoltelle trovate nel campo; questione che avreb-be potuto provocare la fucilazione di diverse personee che fu da lui risolta in modo soddisfacente, evitan-do ogni rappresaglia da parte del comando tedesco”.

La stessa Buffulini si procurò una analoga dichiarazionedell’esponente comunista Carlo Venegoni, che era sta-to a sua volta componente del comitato di resistenzaclandestino prima di evadere rocambolescamente da

Al momento della partenza, nell’incertezza si affidava a parenti o amici quanto di più caro si aveva

Ada Buffulini, detenuta per 8 mesi nel campo di Bolzano di cui due passati nelle celle e membro del CLN del campo, è qui in una rara immagine con la divisa del campo. Sulla tuta spicca il Triangolo rosso.

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dovette aver suscitato più di una polemica tra gli esclu-si: il fatto è che c’erano alcune decine di paia di zocco-li, e non il “milione” auspicato nella caricatura.Quali che fossero i rapporti tra i due allora, di certo nonsi ha notizia di un contatto diretto tra Maltagliati eBelgiojoso dopo il rientro di quest’ultimo da Mauthausen.

Poco dopo essere stato liberato dal Lager di Bolzanoe aver cercato inutilmente di farsi attribuire un ruo-lo significativo nella Resistenza a Milano,

Maltagliati riuscì a passare le linee e a fare ritorno nel-la Toscana già liberata, ponendo fine anzitempo alla suaguerra.In seguito, forse a causa di tanti commenti negativi sulcomportamento tenuto in Lager in cui comunque entròcome resistente prigioniero dei nazisti, egli cercò inqualche modo di farsi dimenticare. Lasciò la Toscana,compì lunghi e avventurosi viaggi all’estero, si spinsein molte regioni dell’Estremo Oriente e in Giappone.Qui in particolare soggiornò per lunghi periodi prima dirientrare e di stabilirsi definitivamente a Biella. Fu aBiella che conobbe e divenne amico della famigliaLacchia.

Poco prima di morire, Maltagliati donò a una caraamica comune una cartellina chiusa di cui non vol-le mai parlare. Questa signora, anni dopo, donò

quella stessa cartellina a Beatrice Lacchia, allora stu-dentessa, perché potesse studiarne il contenuto, così af-fascinante e misterioso.

Maltagliati morì senza aver mai detto una solaparola sul periodo della guerra e dei Lager. Ècome se la sua memoria di quegli anni fosse

stata chiusa e sigillata in quella cartellina che custo-diva i disegni che vengono oggi presentati al pubblico.

A oltre 70 anni dalla fine della guerra e a più di 30 dal-la scomparsa di Maltagliati quella cartella di disegni èstata infine donata all’ANED affinché questa testimo-nianza unica di due Lager nazisti in Italia sia conser-vata per le generazioni future, e sia resa accessibile airicercatori che vogliano studiarla.

L’ANED ringrazia Beatrice Lacchia e la sua famigliaper questo dono generoso che dischiude un filone d’in-dagine emozionante. Purtroppo questi ritratti costitui-scono in numerosi casi l’ultima immagine che ci ri-mane di persone inghiottite dalla macchina dello ster-minio allestita dai nazisti. Di costoro conosciamo orail numero di matricola, che nelle intenzioni dei nazistiera destinato a sostituire definitivamente il nome, masoprattutto conosciamo il volto, l’espressione in quel-le tragiche ore.

Quale che sarà il giudizio definitivo della storia suArmando Maltagliati e sul suo ruolo in quelle circo-stanze drammatiche di fronte ai nazisti dobbiamo es-sere grati alla sua matita e alla sua passione per il di-segno che ci propongono un aspetto inedito della vitadi tanti uomini, donne e bambini a Fossoli e a Bolzano.

Disegno - Fossoli 1.6.1944Questo disegno è da considerarsi come una caricatura diArmando Maltagliati eseguita da Lodovico Barbiano diBelgiojoso. Raffigura un elefante che cerca – senza riu-scirvi – di camminare sulle uova, trasparente riferimentoal difficile ruolo del capocampo, che cercava di barcame-narsi tra i suoi obblighi verso le SS del Lager e il rappor-to con gli altri prigionieri. Nella proboscide l’elefantestringe un biglietto su cui si legge “Buono per un Milionedi zoccoli”, mentre sullo sfondo si scorgono i profili dellebaracche del campo. Ci si riferisce al fatto che nel Lager,spesso inondato di fango, molti prigionieri erano senzascarpe, tanto che il parroco di Carpi, Don Venturelli,provvide a far fabbricare decine di paia di zoccoli dilegno che consegnò agli internati e forse la distribuzionedi queste calzature, evidentemente non sufficienti pertutti, provocò malumori contro le scelte del capocampo.Nella lettera con la quale Maltagliati inviava il ritratto diBanfi alla vedova, si legge: “So che Belgiojoso è tornato.Se lo conoscete rammentategli il ‘101’ il vecchio elefanteche sapeva camminare sulle uova”

Disegno eseguito da Belgiojoso nel campo di Fossoli l’1.6.1944, matita su carta, 20x23 cm.

Ora oltre al numero conosciamo il volto,l’espressione di quelle tragiche ore...

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“@fondazione-memoria”Il ruolo deinuovi media nel processo di memoria storica

Sostituirsi alla voce dei testimoni risulta impossibile,ma oggi esistono strumenti di comunicazione chepossono aiutare a diffondere e portare avanti il mes-

saggio che ci hanno lasciato in eredità.

Agnese Vigorelli, laurea in psicologia del marketing allaCattolica di Milano e nipote di Angelo Signorelli soprav-vissuto al campo di Mauthausen-Gusen, quando ha visto chela Fondazione Memoria della Deportazione e la stessa Anedhanno un rapporto con i social insufficiente ha deciso dimettersi in gioco e di dare una mano. “Mi sono chiesta co-me mai tante fondazioni che hanno molto meno prestigio etante cose in meno da dire della nostra sono invece moltopiù conosciute. Noi possiamo raccontare storie e valoriimportanti, sfruttando al meglio i diversi strumenti di co-municazione: molto spesso mi capita di parlare dellaFondazione e di ANED con i miei coetanei e altrettantospesso capita di scoprire che non ne sappiano l’esistenza”

Così Agnese nei mesi scorsi ha chiesto un incontro conFloriana Maris, presidente della Fondazione, e conMarco Bertoli, direttore, e si è proposta di lavorare

sui social per la Memoria. “Lo faccio per lavoro per azien-de private, lo posso fare come volontaria per una realtàche porta avanti mission e obiettivi che condivido, in omag-gio a mio nonno Angelo e ai valori che lui ha difeso nel la-ger e poi quando è tornato a casa”.

Il nonno, Angelo Signorelli, giovanissimo operaio allaFalck di Sesto San Giovanni, venne arrestato dai fascisti do-po i grandi scioperi del marzo ‘44 e deportato a Mauthausene poi destinato al sottocampo di Gusen. Sulla sua tremen-da esperienza di ragazzo strappato alla sua famiglia e aisuoi amici per essere precipitato nell’inferno del lager, hascritto un bel libro, “A Gusen il mio nome è diventato un nu-mero 59141”. E fino alla sua morte è stato un attivista ge-neroso dell’Aned, andando nelle scuole a raccontare la suaesperienza.

di Alberto Rosati

Quali sono gli strumenti che ad oggi abbiamo a disposizione per continuare a veicolare il messaggio della memoria?

Una memoria che negli anni è stata affidata -accanto al lavoro degli storici che tuttoracontinua - ai testimoni, sopravvissuti ai Lagerche, attraverso la testimonianza della loroterribile esperienza, si sono fatti portatori di queimessaggi di libertà, fratellanza, pace e rispettoper le diversità su cui si basa la società civile.

“Sempre meno le testimonianze dirette ma sempre più le prese di posizione attuali sulla diffusione delle idee

Agnese Vigorelli, laureata all’Università cattolica di Milano è nipote di Angelo Signorelli. Il nonno operaio allaFalck di Sesto San Giovnni è stato deportato a Mauthausen e Gusen. Fino alla scomparsa nel 2010 è stato un gene-roso attivista della nostra associazione. Ora la nipote Agnese si è proposta di lavorare sui “social” per la Memoria.

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Il settore dei nuovi media è sempre più importante nel-la nostra epoca e una esperta come Agnese può sicura-mente dare un contributo importante per fare in modo

che la voce di chi a volte non riesce a farsi sentire possa in-vece arrivare agli occhi e alle orecchie di tanti, soprattut-to giovani.

“Quando ho lavorato per un Istituto scolastico ed ho do-vuto confrontarmi con gli allievi mi sono accorta che an-che io, che in fondo ho solo pochi anni più di loro, uso unlinguaggio diverso. Si tratta dunque di riuscire a farci ca-pire usando i mezzi e le parole adeguate. Quelle che lorousano e comprendono meglio”.

Anche perché le notizie sul web possono essere rilancia-te e moltiplicate. Naturalmente il nostro compito è che sia-no giuste, serie. “Non c’è ancora un codice etico per i nuo-vi media – spiega Agnese – come quello che esiste per lacarta stampata. Dunque si è più indifesi rispetto alle fal-se notizie. Ma noi abbiamo un tesoro che è l’archivio del-la Fondazione, che sono le memorie, ma anche i valori ele iniziative che riusciamo a sviluppare e a organizzare.Dobbiamo moltiplicare proprio questo”.

Il compito che sta portando avanti la nipote di Angelo dun-que è quello di organizzare la presenza della Fondazionesu Facebook, rendendola sistematica e coerente.

“Abbiamo cominciato con la Giornata della memoria –spiega – Ma, per l’appunto, è solo l’inizio. Naturalmenteci sono momenti più intensi, altri meno. Ma essenziale èessere sempre presenti ed in modo coerente”. In fondo Memoria 2.0.

“La Fondazione è sui “social” per la memoriaL’Associazione sui “social” con la sua attività

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Il carcere di Trieste e la deportazionenazifascista

La prigione di via Coroneo a Trieste era configura-ta come carcere giudiziario, cioè per detenuti inattesa di processo, in pratica una custodia limita-

ta nel tempo e per condannati in transito. In città esiste-vano altri luoghi di reclusione, come il carcere dei Gesuitie una struttura destinata ai militari, ma non erano gli uni-ci luoghi di pena presenti nella regione: carceri giudiziariesi trovavano a Gorizia, Pola, Fiume e Udine, e altre lo-calità minori. Dai reclusori di Pola, Fiume e Capodistriai detenuti venivano di solito avviati verso il carcere diTrieste e da qui, con grande frequenza, destinati alla de-portazione.L’insieme dei trasferimenti verso il carcere triestino dipersone arrestate in Istria, nella zona di Fiume, nelle lo-calità del Carso triestino e in quelle più interne di Postumiarisulta elevatissimo nel periodo 1943-1945 e rientra nel-la strategia complessiva dell’occupante tedesco: da unaparte ridurre fisicamente la presenza di abitanti, spe-cialmente dei più giovani, nei territori da controllare, inmodo da limitare le adesioni al movimento di liberazio-ne, dall’altra estorcere informazioni sui gruppi di resi-stenza già attivi e organizzati, ricorrendo a metodi vio-lenti e terroristici. Accanto a queste motivazioni appare evidente anche lanecessità di inviare in Germania lavoratori per suppor-tare l’economia industriale e alimentare tedesca, indi-spensabile per continuare la guerra: da qui la centralitàdi Trieste, dotata di collegamento ferroviario per i trasportiverso la Germania, ma anche di un capiente lager, ge-stito dai nazisti nel rione di San Sabba, utilizzato sia persfruttare il lavoro imposto a quanti vi erano reclusi, siaper eliminare tanti partigiani combattenti e dirigenti delmovimento di liberazione, oltre ad essere utilizzato qua-le luogo di transito per cittadini di religione ebraica de-stinati a raggiungere Auschwitz.

I detenuti di via CoroneoLe fonti carcerarie permettono di quantificare con pre-cisione la presenza di detenuti durante gli anni del con-flitto: nel carcere di via Coroneo sono state rinchiuse ol-tre 19.000 persone tra giugno 1938 e luglio 1943 (circa61 mesi); il dato risulta significativo se confrontato conle entrate in carcere nel periodo successivo: oltre 20.000tra agosto 1943 e aprile 1945 (circa 20 mesi).

Il confronto tra i due periodi evidenzia un incremen-to elevato di reclusi dal settembre 1943, segno evidentedella capillare repressione attuata, dopo l’occupa-

zione tedesca, contro i civili e contro il movimento diliberazione nel Litorale Adriatico. L’analisi dettagliata di due mesi (marzo-aprile 1944)permette di riflettere sui costi umani e sulle modalità diazione dell’apparato repressivo, individuando da un la-to la frequenza e l’ambito geografico dei rastrellamen-ti che riempiono le carceri, dall’altro il destino di tantepersone deportate in Germania e sfruttate per gli scopieconomici e per la produttività bellica del terzo Reich.Nel marzo 1944 le persone incarcerate nella struttura di

di Franco Cecotti

La possibilità di consultare i documenti degliistituti carcerari di Trieste, in particolare il«Registro delle matricole» e il «Registro deidetenuti entrati e usciti», rende disponibile unanuova fonte, da cui si possono ottenere dati einformazioni rilevanti sul periododell’occupazione nazista, in particolare sulleprovince di Trieste, dell’Istria, in parte suquella di Fiume e di Gorizia (allora inserite nelLitorale Adriatico).

Le dinamiche locali della repressioneantipartigiana e le modalità di controllo delterritorio attraverso l’uso della violenza, di cuila carcerazione è un aspetto non secondario,permette inoltre di scoprire il destino di tantepersone passate per il carcere e destinate poialla deportazione nei Lager nazisti o allaRisiera di San Sabba.

“Da Pola, Fiume e Capodistria venivano avviati verso Trieste e destinati alla deportazione

Il Palazzo di Giustizia di Trieste in una veduta dell’an-teguerra. È collegato al carcere di via Coroneo.

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via Coroneo sono state 1.308 e in aprile 911, per un to-tale di 2.219, di cui 1.885 uomini e 330 donne (27 nomisono registrati due volte, quindi il totale effettivo risul-ta di 2.192 detenuti).

La maggioranza dei detenuti entra in carcere senzamotivazioni espresse, se non con la sigla «MPS»,cioè per Misure di Pubblica Sicurezza, una norma

introdotta nell’ottobre 1930 dal Codice penale del MinistroAlfredo Rocco, allo scopo di colpire gli oppositori del fa-scismo. Le cause della reclusione sono indicate solo per

una minoranza di persone: circa 100 casi di condan-nati per reati comuni; 78 casi riguardano militari italiani(insubordinazione, diserzione) e prigionieri jugoslavicatturati prima del 1943 dall’esercito italiano; 6 personeper motivi razziali; 5 antifascisti già condannati dalTribunale speciale per la Difesa dello Stato, prove-nienti dal carcere di Fossano (Cuneo).Tali detenuti, un gruppo di circa 200 persone, va tenu-to opportunamente distinto dalla maggior parte degli al-tri incarcerati senza specifiche accuse e senza alcunprocedimento giudiziario.

“Per avere informazioni sui gruppi di resistenza ricorrendo a metodi violenti e terroristici

Litorale Adriatico 1943-1945Detenuti entrati al carcere del Coroneoper Misure di Pubblica Sicurezzamarzo-aprile 1944

Mar Adriatico

Pola

STATO INDIPENDENTE CROATO

Isola di Cherso

Celje

Venezia

Trieste

Fiume

Lubiana

Radovljica

Udine

Gorizia

KlagenfurtVillach

Isoladi Veglia

Isola di Arbe

Isola di Pago

Provincia dell’Istria

Provincia di Fiume

Provincia di Lubiana

Provincia di Trieste

Provincia di Gorizia

STIRIA MERIDIONALE SLOVENA

ALTA CARNIOLA

TERZO REICH

Provincia di Udine

REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

PREALPI

992

73

146

942

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Questo gruppo più numeroso – oltre 2000 perso-ne, in gran parte antifascisti o partigiani, congruppi di ebrei e qualche “girovago” (ossia Rom)

– subisce la violenza repressiva nazista e fascista intutta la sua potenza, con la reclusione, gli interrogato-ri, la deportazione, l’eliminazione fisica in taluni casicome ostaggi, più spesso con lo sfinimento provocatodal lavoro schiavistico nei lager.La dicitura «Misura di pubblica sicurezza», con cuiviene genericamente motivata la reclusione di questepersone, sembra colpire indistintamente per età, perluogo, per stato sociale.

Gli arrestati di cui si conosce la data di nascita so-no in gran parte di età compresa tra i 21 e i 40 an-ni; tra loro 101 detenuti sono ventenni, 80 han-

no 24 anni, ma ben 276 reclusi sono giovanissimi, tra14 e 19 anni.L’insieme delle professioni dichiarate dai detenuti co-pre quasi tutte le attività economiche: 937 persone so-no attive nel settore primario (agricoltura e pesca), 406nel settore secondario (industria e cantieristica), 367 inquello terziario (commercianti, impiegati, insegnanti,domestiche). Ma non mancano studenti, professionisti(imprenditori, architetti, avvocati) e tre sacerdoti slo-veni e croati. Tra le donne 248 sono casalinghe.

Controllo territoriale e rastrellamentiL’elenco dei luoghi di residenza di quanti furono rin-chiusi al Coroneo nei mesi di marzo-aprile 1944 è mol-to lungo: 427 località delle province di Trieste, Gorizia,Pola e Fiume nell’estensione del 1944. La provincia dell’Istria conta 979 detenuti, quella diTrieste 942 (vedi cartina), ma il comune di Trieste con371 persone arrestate è la città maggiormente colpitadalla repressione tedesca (con il circondario si arrivaa 556 abitanti incarcerati).

Igiorni in cui si registrano gli ingressi più consistential Coroneo sono i seguenti: 136 persone il 3 marzo,102 il giorno 13 e 204 il giorno 23; nel mese di apri-

le 1944 entrano in carcere 104 detenuti il giorno 17 e157 detenuti il giorno 29. È probabile che gli ingressi in carcere, molto più con-sistenti in tali giornate, corrispondano a rastrellamen-ti effettuati dai militari tedeschi; infatti frequentementesono colpite compattamente intere aree geografiche,gruppi di villaggi, spesso posti lungo la stessa strada.

Un riscontro è possibile considerando i detenuti pro-venienti dall’Istria nei mesi di marzo-aprile 1944, dacui emerge che i rastrellamenti hanno coinvolto total-mente il territorio, caratterizzato da numerosi centriabitati poco estesi e di limitato peso demografico:Pisino, il centro dell’Istria croata, con 60 detenuti è lapiù colpita, seguita a nord da Villa Decani (pressoCapodistria) con 57 e ad ovest da Rovigno con 50.

Tutte le località dell’Istria colpite dai rastrellamen-ti tedeschi presentano le stesse caratteristiche, cioèarresti non elevati nella singola località, ma dif-

fusi capillarmente su un’area estesa per colpire (e inti-morire) i partigiani e per raccogliere braccia da inviarein Germania.L’Istria è sottoposta a diversi rastrellamenti nei due me-si considerati: i più rilevanti il 23 marzo 1944, con l’ar-rivo in carcere di 133 persone del suo territorio e nuo-vamente il 29 aprile con 111 arrivi al Coroneo; in baseai luoghi di residenza dei detenuti si può individuare ilpercorso seguito dalle truppe tedesche. Il primo tragit-to coinvolge la zona meridionale della penisola istria-na, partendo dalla città di Rovigno, seguendo la stradacostiera verso Pola, per poi risalire lungo la strada costieraorientale verso Albona con l’arresto di 62 persone in 21località; la seconda zona coinvolta da un rastrellamen-to concomitante è una strada secondaria dell’Istria set-tentrionale che da Lenischie si dirige a Gelovizza e siabbatte su almeno 8 piccoli villaggi con 38 arresti.Qual è il destino delle tante persone recluse nei mesi dimarzo-aprile nel solo carcere triestino di via Coroneo?Il «Registro dei detenuti entrati e usciti» è la fonte chepermette di ricostruire la storia dei trasporti verso i la-ger tedeschi partiti dalla stazione di Trieste, ma anche al-tri esiti della reclusione.I Registri carcerari specificano la motivazione dell’u-scita dei detenuti, che poteva essere «Fine pena»,«Trasferito altro carcere», «Condono» (per reati comu-ni), mentre agli arrestati per Misura di Pubblica Sicurezzaviene riservata la formula più ricorrente «Consegnatoalle SS», utilizzata per 1560 persone, seguita dalla spe-cificazione «Rilascio» o «Liberato», ma altrettanto spes-so «Trasporto». In alcuni elenchi la formula «Rilasciato»equivale a «deportato».

Tra i detenuti di questi mesi ben 54 figurano tra i 71fucilati a Opicina (periferia di Trieste) il 3 aprile ealtri 44 risultano tra i 51 impiccati di via Ghega a

Trieste il 23 aprile 1944 (complessivamente le due stra-gi – come rappresaglie per due attentati partigiani – met-tono a morte 122 persone, tutte tratte dal carcere di viaCoroneo); il 29 maggio successivo altri sette detenuti siritrovano tra i 10 impiccati a Prosecco (Trieste), a cuivanno aggiunti 8 uccisi nei mesi successivi alla Risieradi San Sabba (tra cui sei donne). Il destino di gran parte dei reclusi di marzo-aprile 1944è stato comunque la deportazione, per molti dei quali siè trattato di una partenza senza ritorno. Come è noto da Trieste, secondo le indicazioni di ItaloTibaldi, partirono 74 convogli ferroviari con ebrei e de-portati politici (un numero elevato e forse da riconside-rare in base alle ricerche di Marco Coslovich rileva 51convogli effettivi, con 74 trasporti di persone da diver-si carceri e città della regione); nel mese di marzo 1944escono dal carcere di Trieste 353 persone destinate a«Trasporto» verso Dachau e Auschwitz e il 21 marzo al-tre 222 persone segnate come «Rilascio» ma destinate a

“Questo gruppo, in gran parte antifascisti o partigiani,subisce la violenza repressiva nazista e fascista

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Dachau (numerati come 31 e 35 da Tibaldi); nel mesesuccessivo 275 deportati escono il 27 aprile (n. 41 Tibaldi)destinati a Dachau; 379 persone segnate con «Rilascio»escono il 5 aprile 1944, ma alcuni risultano giunti aMauthausen e altri sono probabilmente lavoratori coat-ti.

Idati esposti si riferiscono a due soli mesi del 1944 eaiutano a comprendere l’ampiezza della deportazio-ne da Trieste e, in genere dal Litorale Adriatico, e le

difficoltà a documentare nei dettagli la sorte di migliaiadi persone. Si tratta di una ricerca complessa e lunga tut-tora in corso presso la sezione Aned di Trieste, da cuiemerge che almeno 3.927 deportati risultano rientratidalla Germania, mentre 3.665 sono i deceduti, per un to-

tale ancora provvisorio di 7.589 deportati (tra questi al-meno 1.139 risultano deportati politici ad Auschwitz co-me prima o secondaria destinazione).Le quantificazioni proposte sono parziali, in quanto siconcentrano su un solo luogo di detenzione, il Coroneo,mentre detenuti senza processo, senza diritti, soggettialla volontà degli occupatori erano contemporaneamentepresenti in altre carceri e luoghi di detenzione triestinicontrollati dalle SS, come la sede di piazza Oberdan e laRisiera di San Sabba, o gestiti da formazioni collabora-zioniste, come il palazzo di via Bellosguardo, sededell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza: luoghidel terrore nazista, in rapporto continuo con il carcere prin-cipale, luoghi di morte sotto tortura e di partenza diret-ta verso la Germania.

“Il comune di Trieste. con 371 persone arrestate, è la città maggiormente colpita

ingr

essi

giorni

ingr

essi

giorni

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“Forse domanisi parteper dove non si sa, chi dice Dalmine chi in Germania”

Era da tempo emerso che due, tra i cinque trasportidal Nord Italia del marzo/aprile 1944, partironoda Bergamo. Perché? Il dato comune di quei mesi

è certamente lo sciopero, la più grande mobilitazioneoperaia fra i Paesi occupati dal regime nazista: fin dai pri-mi giorni di marzo e per tutto aprile, infatti, gli arresti siintensificarono notevolmente.Hitler avrebbe voluto che venisse arrestato il 30% delpersonale delle aziende che in Italia producevano giàper la guerra nazifascista. Si addivenne a più miti con-sigli solo in considerazione del fatto che la manodope-ra rimasta non avrebbe potuto garantire la produzionerichiesta. Ma certamente la repressione fu considerevo-le e violenta, condensando in quei mesi una massa im-prevista e difficilmente gestibile nelle carceri. I depor-tati dovettero quindi essere dirottati anche in altri luoghidi detenzione fuori dalla città di Milano. Qui viene in luce il ruolo della Caserma Umberto I diBergamo, oggi Caserma Montelungo. In quel luogo e inaltre più piccole caserme della Città alta e della Grumellinavennero via via concentrati gli arrestati di Milano e del-la Lombardia, in attesa che si formassero i convogli –l’ot-timizzazione nazista prevedeva infatti “overbooking”,non si partiva a convoglio semivuoto. Grazie a questa dilazione di alcuni giorni i famigliaripoterono ricevere un ultimo saluto. Ebbero notizia del luo-go di detenzione fuori città grazie alla raccolta da partedei passanti dei bigliettini che gli arrestati gettavano nelvicolo vicino alla caserma, e poi col passaparola quasitutti furono informati. Una vedova racconta che ogni sera dopo il lavoro infor-cava la bicicletta per andare a cercare di vedere il pro-prio marito, magari solo per un saluto dalla strada alla fi-nestra. Gran parte della popolazione di Bergamo fu pro-tagonista solidale della presenza di queste centinaia dipersone: non solo col recapito dei bigliettini, ma con ce-stini di viveri che, fatta scendere una cordicella dai fi-nestroni, recapitavano ai detenuti generi alimentari, bot-tiglie di vino, cesti di pane. E si era in tempi di raziona-mento.

Oggi la Caserma Montelungo si sta trasformando inun’area universitaria, ma la città di Bergamo, gra-zie all’Amministrazione comunale e all’Istituto

per Storia della Resistenza, è intenzionata a conservare me-moria di ciò che fu quel luogo, di quello che fecero i cit-tadini. E così si è avviata una proficua e affettuosa colla-borazione tra Aned di Sesto San Giovanni-Monza e Aneddi Bergamo: vari progetti stanno ruotando intorno a quelluogo e molte iniziative si stanno svolgendo. Per primisono stati coinvolti gruppi di studenti delle scuole se-condarie, che, guidati da Elisabetta Ruffini dell’ISREC eLeonardo Zanchi dell’Aned hanno prodotto laboratori diriflessione, intervistando i figli di alcuni deportati seste-si: Ionne Biffi, Raffaella Lorenzi e Giuseppe Valota, checon le sue ricerche e la raccolta delle testimonianze dei fa-migliari ha acceso un faro su questa storia e ha comple-tato l’elenco di tutti i deportati.

di Laura Tagliabue

Ci sono momenti della storia che accomunanole persone. Questo è il caso di Bergamo e SestoSan Giovanni. Due città coinvolte prima nellemigrazioni di manodopera verso le nuove areedella grande industrializzazione del Nord Italia,poi nelle deportazioni a seguito degli scioperidel 1943-44.

Ma in questo macrocontesto, sono i dettagli checi interessano, a dimostrazione di quanto lestorie individuali traccino la storia con la Smaiuscola. Queste microstorie ci hanno guidatoalla ricerca e ricostruzione della relazione tra idue ambiti cittadini affratellati e protagonistioggi di una sorta di gemellaggio di ricerca ecostruzione della memoria.

“Dal biglietto di Angelo Biffi arrivato alla famiglia grazie alla collaborazione di un cittadino/a sconosciuto

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In occasione della Giornata della Memoria tra i conve-gni “Bergamo punto dell’universo concentrazionario” e“La Caserma Montelungo – Tra memoria e oblio, unluogo della città e della Storia” è stato anche rappre-sentato lo spettacolo “Matilde alla fermata del tram”con la regia di Renato Sarti tratto dai libri di Valota.

I trasportiIl primo trasporto che partì da Bergamo il 17/3/1944giunse a Mauthausen il 20/3/1944 con 562 deportati chevennero immatricolati dal n° 58656 al 59218. Altri tre pri-gionieri fuggirono dai vagoni piombati intorno a Villach:Giovanni Dean di Sesto S. Giovanni, evaso il 19.3.1944con Mariano Corrado che lavorava all’Alfa Romeo diMilano, e con Mario Bovo, saluzzese.

Ideportati provenienti dalle industrie lombarde eranoquasi un terzo, tutti concentrati alla Caserma diBergamo (94 dall’area industriale di Sesto San

Giovanni - Breda, Falck, Marelli-; 49 da Milano - AlfaRomeo, Caproni, Innocenti, Motomeccanica, IsottaFraschini; 32 dal Comasco Lecchese). Tra essi alcunibergamaschi, emigrati a lavorare nelle grandi fabbriche,come Giuseppe Arrisari, meccanico all’Innocenti diMilano, Francesco Costa, gruista alla Breda di Sesto,Ernesto Ghisleni, trapanista alla Bonaiti di Lecco, arre-stato con altri 14 compagni e 7 operaie della stessa fab-brica e come Guido Valota, venuto dalla Valle Brembanaa Sesto S.Giovanni, operaio alla Breda Aeronautica.

“Un luogo emblematico: la Caserma Umberto Io

di Bergamo – che oggi si chiama MontelungoLe donne a MauthausenInsieme a centinaia di uomini, furono inviate aMauthausen anche donne scioperanti del Comasco, delLecchese, del Varesotto e del Magentino, isolate daglialtri carri merci per uomini. Un caso che può sembra-re inspiegabile, poiché Mauthausen era un KZ di III li-vello, un lager “per irriducibili, per gente indesidera-bile, da condurre alla morte attraverso il lavoro” a cuivenivano portati uomini in grado di sopportare lavori pe-santi e fatiche enormi. Ma per le donne era previsto undestino diverso: giunte a Mauthausen il 20 marzo1944con tutti gli altri, non furono immatricolate, e a gruppiinviate a Auschwitz nei mesi di aprile e maggio. Tra lo-ro alcune operaie della Rocco Bonaiti di Lecco (ReginaAondio, moglie di Lino Funes deportato nello stessotrasporto, Emma Casati, Elisa Missaglia, AntoniettaMonti, Agnese Spandri); quattro operaie di Como(Adalgisa Casati e Giuseppina Parma di Rescaldina,Maria Ada Borgomainerio di Como e Ines Figini); diTeresa Pellicciari sappiamo solo che fu arrestata aMilano. Ines Figini è l’unica ancora vivente, a cui Bergamo hadedicato grande attenzione. Una donna energica, cheha lasciato una testimonianza della sua deportazione edel suo ritorno a casa, e che a Sesto viene ricordata in-sieme alle otto donne sestesi che furono deportate conlei. Ed è proprio grazie alle testimonianze concordi ditutte, malgrado la loro diversa provenienza, che è sta-to possibile mettere in luce molti dettagli di questa inu-suale vicenda.

Il secondo trasporto partì il 5/4/1944 da Bergamo con242 deportati che provenivano per la maggior partedalla Lombardia (98 da Milano e provincia, 70 dal-

l’area industriale di Sesto San Giovanni, 11 da Varesee provincia). Una parte di essi fu raccolta alla CasermaUmberto I, ma recenti ricerche hanno evidenziato cheal convoglio furono agganciati alcuni vagoni prove-nienti da Fossoli, con 83 deportati. Giunti a Mauthausenl’8/4/1944 vennero immatricolati dal n° 61543 al 61785.Tra essi Angelo Biffi, nato in provincia di Bergamo,operaio alla Falck Unione di Sesto S. Giovanni.Anche di questo trasporto fecero parte 19 donne, in-viate a Mauthausen per essere poi smistate, senza im-matricolazione, ad Auschwitz nei mesi successivi: ot-to che lavoravano alla Breda (Angelica Belloni, RosaBeretta, Maria Corneo, Rosa Crovi, Maria Fugazza,Vittoria Gargantini, Ines Gerosa, Giovanna Valtolina);tre operaie della Saffa di Magenta (Carlotta Boldrini,Maria Colombo, Adele Trezzi); Loredana Bulgarelli,operaia alla Caproni di Milano, e sempre da MilanoElena Bolinelli; Pierina Galbiati e Rosa Rossetti, ope-raie della Bassetti di Rescaldina-MI; Carla Morani,operaia alla Snia di Magenta-MI; Luigina Cirini eClotilde Giannini del calzificio Giudice di Cilavegna-PV; e ancora Angela Cipelletti di Maleo-MI, ArgentinaGaranzini di Robecco sul Naviglio e Angela Rolandidi Pontresa-VA)

Una scena dello spettacolo “Matilde e il tram per SanVittore”che racconta questa storia, con testo e regia diRenato Sarti dal libro “Dalla fabbrica ai lager” diGiuseppe Valota con Maddalena Crippa, Debora Villa,Rossana Mola e Marika Giunta. In tavola c’è un posto vuoto...

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Le nostrestorie

Ferruccio Mariani, il pronipote, lo racconta: partigiano, insignito dell’Ambrogino

Il padre, anch’egli di fe-de socialista, muore nel1918, quando lui era

molto piccolo, in conse-guenza a quella famosaepidemia di influenza de-nominata Spagnola. La madre, quindi, rimaneda sola con tre figli, a man-dare avanti la baracca, co-me si suol dire, come di-pendente di un negozio dialimentari situato a fiancodell’abitazione.Le idee erano assoluta-mente antifasciste, in-fluenzando quindi quelledel figlio.

La famiglia è sotto minac-cia costante perché ha sem-pre dato il massimo sup-porto alle idee di FerruccioCodè anche se non lo puòaiutare economicamente.Nel 1935 Ferruccio, arre-stato nuovamente, è man-dato al confino alle isoleTremiti come oppositoreideologico.Nonostante, le condizioniper gli oppositori politicifossero difficili e il peg-gioramento della sua salu-te, non ha mai rinnegato lesue idee. Dopo circa otto anni di

confino, esce grazie allacaduta del regime; ha avu-to anche contatti conAntonio Gramsci.Il confino era un carcerelibero, da dove non ci sipoteva muovere, si era sog-getti ad un regime di sor-veglianza, si potevano tro-vare piccoli lavori al mo-mento, per sopravvivere.Anche l’abitazione era difortuna.

Dopo aver scontato la pe-na, torna a Milano, dovecontinua a essere perse-guitato: ha difficoltà a tro-

vare un lavoro stabile per-ché chi aveva dei trascor-si al confino, veniva as-sunto con diffidenza, inquanto oppositore del go-verno fascista. Non avevauna dimora fissa, perchésenza preavviso e senzamotivazione poteva essereprelevato da casa e con-dotto in carcere.Nel 1943 con la caduta delfascismo viene liberato,ma con l’avvento dellaRepub blica di Salò, cheoperava a stretto contattocon il nazismo, incomin-ciò incalzante la persecu-

Ferruccio Codè nasce il 19 maggio 1910 aReggio Emilia, nonostante fosse di originimilanesi, perché il padre, per motivi di lavorosi è trasferito lì. Intorno ai sei/sette anni, torna

a Milano, e la sua vita si svolge in questa città. Il rione sichiamava la Pobbia.

Abitava a Milano in via Catullo al 10 e lavora-va come operaio stuccatore. Si iscrive nel 1926ai Giovani Comunisti. Nel 1927 è arrestato perla prima volta a Milano durante una riunione,

portato a San Vittore e successivamente a Roma: qui ilTribunale speciale lo condanna a tre anni da scontare nelcarcere minorile di Forlì.Nel 1935 è nuovamente arrestato e confinato alle isoleTremiti; torna a Milano dopo otto anni, molto malato.In seguito viene ancora arrestato nel febbraio 1944 econdotto nel campo di sterminio di Mauthausen, dovemuore il 12 aprile 1945.

Codè, operaio milanese,arrestato perché comunistaè confinato, poi deportato a Mauthausen dove muore

di A. Gentileschi

Da una intervista a Ferruccio Marianipronipote di Ferruccio Codè

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zione.Racconta il pronipote cheporta il suo nome,“Una volta lo zio stavaportando a passeggio miopadre che aveva sei/setteanni, passarono in piazzaSan torre di Santarosa aMi lano, dove c’era una se-de del fascio. Lì Codè è sta-to ferma to e picchiato asangue dagli squadristi,usciti dalla sede fascista,un pestaggio fatto sotto gliocchi di un bambino.

In seguito è stato cattura-to e spedito nel campo diconcentramento di Mau -thau sen, in Germania, do-ve ha concluso la sua esi-stenza. Da lì non abbiamopiù avuto sue notizie, per-ché la comunicazione erapressoché impossibile. Si sa che nei campi di ster-minio c’erano tantissimiantifascisti italiani di va-rio orientamen to ideolo-gico-politico che sono sta-ti sterminati”.

Dopo la Liberazione, mianonna (sua sorella Ernesti -na) si è rivolta alla CroceRossa per avere notizie eha preso contatti con chiha avuto la fortuna di usci-re vivo da Mauthausen,senza riuscire ad ottenerenulla: non si sa ancora co-me è morto. L’ipotesi più probabile èquella che Ferruccio fa-cesse parte di quelle per-sone che hanno perso la vi-ta nei giorni immediata-mente successivi la Libe -razione dei campi di con-centramento da parte de-gli americani. La causa può essere unasorta di sindrome da mal-nutrizione: alla prima som-ministrazione di cibo, mol-ti internati hanno avuto de-gli scompensi che ne han-no causato la morte. Pur troppo molti sono mor-ti in questo modo.

Continua il pronipote: “Ioe mia sorella che siamo na-ti nel dopoguerra (io nel1956 e mia sorella nel1960), abbiamo sempre sa-puto il senso della Resi -sten za, il significato pro -fondo che ha avuto il po-polo italiano nell’opposi-zione al regime fascista. Io mi ricordo, fin da pic-colo, le fiaccolate che si

tenevano in occasione del-la ricorrenza del 25 apri-le: si faceva il giro dei ca-duti della zona a deporre lecorone d’alloro alla lapi-de che tuttora esiste in viaCatullo 8 proprio in me-moria di mio zio. Alla fine degli anni set-tanta hanno fondato unasezione dell’ANPI, intito-lata a lui e a Mon tagnani-Marelli che era un farma-cista della zona, cioè la se-zione Codè-Monta gnani-Marelli con sede in viaAiraghi. Mio zio è stato inserito frale medaglie d’oro per laResistenza nel ‘75 per ilventennale della Libe -razione”.

A questo punto FerruccioCodè inserisce i ricordi suun’altra persona della suafamiglia: il nonno, l’anti-fascista Angelo Mariani.“Mio nonno è sempre sta-to fermamente antifasci-sta, fin dall’inizio con sim-patie e adesione anche alpartito comunista. Lui è stato fin da subito unmilitante di questo parti-to che si opponeva al re-gime più degli altri, e sibatteva per migliorare lecondizioni disastrose in cuierano i lavoratori: non esi-steva, infatti, nessuna re-

lavoro, non volevano ro-gne con la polizia. Diciamoche lui è stato più fortu-nato nel senso che è riu-scito, aggregandosi ai par-tigiani di città, ad evitarela deportazione. Duranteil periodo della Resistenzaha vissuto alla macchia. Mi raccontava mio padre,che purtroppo non c’è più,che lui ha vissuto la suainfanzia a fare da staffet-ta.

Con la famiglia abitava al-l’estrema periferia diMilano dove era tutta cam-pagna e in caso di perico-lo, nel senso che se qual-cuno della questura eraandato nelle case a cerca-re qualcuno o qualcosa oc’erano dei movimentistrani, mio padre fingen-do di andare a giocare, an-dava ad avvisare mio non-no sulla strada del ritor-no dal lavoro. Così eglinon tornava a casa a dor-mire e molte notti le hapassate lì, in quei campi,per eludere la sorveglian-za ed evitare l’arresto.

Succedeva una cosa par-ticolare, i perseguitati po-litici erano tutti schedati,c’era anche una sorta dipolizia segreta più o me-

gola che tutelasse i lavo-ratori, non esisteva nes-suna legge che garantissela sicurezza degli operai. Mio nonno era di originicontadine, però a seguitodella progressiva indu-strializzazione, era diven-tato tipografo, allora con-siderata una buona pro-fessione. Però a causa del-le sue idee politiche, nonriuscì a trovare una siste-mazione perché i datori di

Hanno intitolato una sezione dell’Anpi alui e a Montagnani, farmacista della zona

Stavo a giocare vicino a casa, così se arri-vavano fasci per arrestarlo, lo avvisavo

no che ne seguiva tutti glispostamenti e movimenti equando c’era qualcheevento importante a Mi -lano o in Lom bardia, adesempio un discorso delduce o di qualche altro ge-rarca fascista, onde evita-re fenomeni di disturbo del-l’ordine pubblico, utiliz-zava il cosiddetto carcerepreventivo: andavano adarrestare tutti i potenzialioppositori del regime e lichiudevano due o tre gior-ni in carcere finché non fi-niva l’evento. Questo ovviamente porta-va ad assentarsi dal lavo-ro per giorni senza moti-vo, non c’era la continuitàe quindi danneggiava il la-voratore che oltre a starein galera perdeva la pa-ga”.

Una veduta delle Tremiti di allora. Ferruccio Codè ci ha passato ben 8 anni.

d’oro a Milano alla memoria e nel 1975 anche medaglia d’oro per la Resistenza

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Dimitri e sua moglie Flaviasono stati colti di sorpresa esi sono emozionati per quel-la lettera inattesa. Subito sisono messi in comunica-zione con il professor Vetrie hanno fornito tutte le no-tizie che serviranno a ri-cordare, con una successi-

va iniziativa, Baldanza nelsuo paese natale. Era nato, appunto, a Geracinel 1899 Liborio in una nu-merosissima famiglia e ra-gazzino aveva cominciatoa lavorare nei Cantieri na-vali di Palermo, mentre stu-diava la sera. Era poi stato

Da giovane è arruolato in Marina, poi capisce che bisogna emigrare al Nord

“Buon giorno, mi chiamo Giuseppe Vetri, so-no un insegnante in pensione.

Risiedo a Palermo ma sono nativo di Geraci Siculo.Da tempo avrei voluto scriverle per informarla chesto’ facendo una ricerca su suo padre.Mi scusi se ho rinviato.Perché oggi? Suo padre, oggi pomeriggio, per la pri-ma volta, è stato conosciuto e commemorato a Geraci,nell’ambito della Giornata delle Memoria.I giovani di un’Associazione locale, nell’ambito delleattività socio-culturali promosse dall’Amministrazionecomunale avevano programmato di portare in pubbli-co quanto da loro personalmente visto, raccolto e rie-laborato dal campo di Auschwitz-Birkenau l’anno scor-so. Avendo saputo che stavo lavorando su “Liborio Baldan -za vittima dei lager”, mi hanno chiesto di presentarela persona e l’operato del tutto sconosciuti a Geraci.Ho pensato di fare cosa doverosa, e utile soprattutto aigiovani che mi sembrano desiderosi di sapere e di ca-pire. Tutto è andato bene.Da oggi, per la piccola comunità di Geraci ‘BaldanzaLiborio, oltre che uno sconosciuto migrante, è ancheun uomo giusto e un antifascista coraggioso e appas-sionato che si è dato da fare per lasciare a noi un’Italiamigliore’. Le chiedo se può aiutarmi a ricostruire alcuni pas-saggi della vita di suo padre.La ringrazio fin d’ora, esprimendole stima e vicinan-za. Prof. Giuseppe Vetri”

La lettera arrivava dal piccolo paese sicilia-no in cui il padre era nato nel 1899, GeraciSiculo in provincia di Palermo, circa 1.300abitanti.

La riportiamo qui per esteso

Le nostrestorie

La lettera è arrivata a Sesto San Giovanni alla casa di Dimitri Baldanza, figlio

Baldanza, contadino siculo emigra a Sesto S. Giovanni.Antifascista poi deportato finirà a morte in Germania

di Luigi Martinelli

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Uno degli organizzatori dello scioperoche fermò la Breda (armi) nel 1944

di Liborio, comunista operaio della Breda deportato poi morto a Mauthausen

arruolato in Marina e, unavolta congedato, aveva de-ciso di emigrare a Sesto SanGiovanni, come tanti altriBaldanza. Molti della fa-miglia salgono al Nord, al-tri vanno addirittura all’e-stero, compresi tanti negliStati Uniti. “Nostra figlia Andretta sufb ne ha scoperti molti ne-gli Usa, alcuni addiritturache si chiamano di nomeLiborio. Persino la segretaria delpresidente Barak Obamaper i rapporti con il Pen -tagono era una Baldanza”commenta divertita Flavia.“E ogni anno fanno un lo-ro raduno in Texas”.Liborio non ha avuto ugua-le vicenda. È diventato unoperaio della Breda, ma peressere entrato nel Pc clan-destino è stato arrestato edeferito al Tribunale spe-ciale nel 1931 e nel 1932.Nel 1935 è stato ammonito.Dal 1936 al 1939 per sfug-gire alle persecuzioni emi-gra in Francia e in Svizzera,ma al suo ritorno in Italiaviene di nuovo arrestato nel1939. Quindi torna a lavorare al-la III sezione della Breda, inquel momento una delle piùgrandi fabbriche produttri-ci di armi d’Italia e quindiimpegnata in uno sforzo in-dustriale straordinario. C’è bisogno di lavoratoriesperti e specializzati, eLiborio lo è.

Ma lui mantiene sempre isuoi rapporti con il Partitocomunista clandestino e conla Resistenza ed è uno de-gli organizzatori alla Bredadei grandi scioperi del mar-zo 1944. Come tanti altriviene arrestato nella nottedel 14 marzo a casa sua, cheper ironia della sorte è pro-prio accanto al commissa-riato. Del suo arresto e della suadeportazione ha parlato inuna intervista con PeppinoValota, pubblicata nel libro“Streikertransport”, un al-tro lavoratore e scioperan-te della Breda, BrunoZerbinati, che con Baldanzaera stato arrestato quellanotte ed aveva con lui con-diviso prima la carcerazio-

ne a San Fedele, poi a SanVittore, quindi alla caser-ma Umberto I. Da qui sultreno bestiame fino aMauthausen e quindi al sot-tocampo di Gusen. Poi leloro strade si sono divise eLiborio è finito a WienSchwechat. Non si sa mol-to della sua morte, che do-vrebbe essere avvenuta trala fine del giugno e i primidi luglio del 1944. A Sesto San Giovanni unavia ricorda quel deportatoarrivato dal Sud per lavo-rare nella fabbrica ed ora,grazie al prof. Vetri, ancheil sindaco di Geraci ha as-sicurato che la memoria diLiborio Baldanza verrà con-cretamente ricordata nel suopaese natale.

Baldanza Liborio (Libero)Nato il 2/8/1899 a Geraci Siculo (PA). Residente a SestoSan Giovanni in viale Matrelli 104. Lavorava alla BredaIII sezione Fucine come attrezzista. Processato e assol-to dal T.S.D.S. nel 1931 nuovamente processato e assol-to nel 1932.Fuoriuscito in Francia e in Svizzera 1936 – 1938. Arrestatonel 1939. Arrestato, ancora il 14/3/1944 in casa di notteè rinchiuso nel Carcere di San Fedele, poi nel Carcere diSan Vittore, quindi nella Caserma Umberto I di Bergamo.Partito il 17/3/1944 e giunto il 20/3/1944 a Mauthausen(matr. 58683). Trasferito il 24/3/1944 a Gusen. Trasferitoil 16/4/1944 a WienSchwechat (Mau.). Trasferito tra fi-

ne giugno/primi luglio 1944 a WienHinterbrühl (Mau.).Deceduto in luogo non noto tra Wien e Mauthausen il3/4/1945, durante una marcia forzata, chiamata anche“marcia della morte” per l’alta incidenza di decessi.

Liborio erauno dei piùvecchi tra ideportati diSesto SanGiovannicome ricor-da la lapidenella cittàlombarda.

Il volto di Baldanzasovrimpresso alla vedu-ta di Geraci, cittadinache aveva lasciato neglianni venti, quando tuttal’Italia era in una crisispaventosa e il meridio-ne era ridotto alla fame.La cittadina, arroccatasulla montagna nonaveva risorse se non l’agricoltura e il bosco.

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Le nostrestorie

Si è spento a 108 anni Georges Loinger, evaso da un lager, decano della Resistenza

Georges Loinger, de-cano della resisten-za ebraica francese,

è morto a Parigi all’età di108 anni. Finita la guerra,nel 1947, Loinger aiutò aorganizzare la partenza del-la nave Exodus dal portofrancese di Sète verso laPalestina allora sotto il con-trollo britannico. Qualche

anno prima riuscì a salvareoltre 300 bambini ebrei fa-cendoli passare in Svizzera.Lo stratagemma del campodi calcio non durò a lungo,perché si era sparsa la vo-ce di quelle strane partitenelle quali si perdevano siail pallone sia i giocatori.Allora Loinger decise di fa-re ricorso ai passeur.

Di notte i ragazzini piùgrandi, 15-16 anni, tene-vano per mano quelli di 7o 8 e raggiungevano le per-sone incaricate — e paga-te 300 franchi a bambino— in un luogo sempre di-verso. «Bisognava attraversareL’Hermance, il corso d’ac-qua che segna la frontie-ra tra Francia e Svizzera— ha raccontato anni faLoinger al Figaro. — I

bambini avevano capitoperfettamente il pericoloma ero con loro e avevanofiducia in me. Poi il passeur a un certopunto non voleva più cheli seguissi ed ero costrettoa lasciarli andare, spe-rando che lui non facesseil doppio gioco.L’operazione durava cir-ca un’ora, i gruppi com-prendevano da sette a die-ci bambini».

All’inizio Georges Loinger faceva passare ibambini dalla Francia alla Svizzera grazie aipalloni finiti in fallo laterale.

Ebreo di Strasburgo, insegnante di educazio-ne fisica, evaso da un lager nazista, accoglievai bambini ebrei arrivati da Lione alla stazioneferroviaria di Annemasse, in Savoia, e li porta-

va subito a giocare a pallone in un campo da calcio fuoricittà, proprio sulla frontiera. Quando la palla usciva, ibambini andavano a cercarla e finivano in territoriosvizzero, dove avevano l’ordine di rimanere.

L’eroe dell’Exodus che salvò migliaia di bambini ebreigiocando a palla in Franciae “goal” al confine svizzero

di Stefano Montefiori

I bambini dovevano passare un fiumeche era il confine tra Francia e Svizzera

Una gloria dello spettacoloin Francia era MarcelMarceau (sopra) cugino diLoinger, (a sinistra) il parti-giano centenario.

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a. Combattè i nazisti e poi aiutò la partenza della nave dal porto verso la Palestina

Fino al settembre 1943 lafrontiera era controllata daisoldati italiani. «Un gior-no uno di loro venne a cer-carmi imbracciando il fu-cile e mi portò dal coman-dante. Appena arrivo, que-sti mi mostra una lista contutti i nostri attraversa-menti e mi dice: “Approvoquello che sta facendo”. Ilcomandante italiano ave-va chiuso gli occhi». Le cose si fecero più dif-ficili quando al posto de-gli italiani arrivarono inazisti.

I passaggi in Svizzera di-ventarono più pericolosi equindi più rari, ma nellaprimavera del 1944Loinger riuscì a salvare an-che la moglie Flora e i fi-gli Daniel di sei anni e Guydi appena sedici mesi, pertornare a lottare nellaResistenza assieme al cu-gino e futuro mimo MarcelMarceau. Nel 2013, quando aveva102 anni, Georges Loingerè stato ricevuto con tuttigli onori dal presidenteisraeliano Shimon Peres.

I soldati italiani allora controllavano lafrontiera francese, poi furono i tedeschi

L’Exodus nel 1947 fu incaricata di trasportare in gransegreto ebrei che partivano illegalmente dall’Europa perraggiungere la Terra di Israele. Non ci arrivò e fu fermataa Cipro. I “passeggeri” tornati indietro arrivarono poi.

La nuova attività di Loinger in Palestina sempre con i bambini, come a casa sua in Francia, ad organizzare la lorovita dopo l’orrore delle deportazioni. Giochi e attività educative in vista della nuova nazione.

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Le nostrestorie

Un avvenimento del settembre 1944 nel convento nei pressi di Lucca: dodici

La Certosa di Farnetaera posta nei pressi delborgo omonimo, lun-

go la riva destra del fiumeSerchio, il toponimo deri-va dalla presenza di boschidi querce, anche dette farnie,dal latino «farnea».La Certosa occupava un va-sto territorio. La struttura, propriamente,religiosa era composta dalquattrocentesco piccolochiosco e dal cinquecente-sco grande chiosco, inoltrev’era un grande appezza-mento di terreno, che veni-va lavorato dai monaci lai-ci, oltre a stalle, pollai, unfrantoio, un mulino, un for-

no, una cantina con annes-sa una distilleria e una for-gia per la produzione degliattrezzi agricoli. Le terre esterne erano as-segnate a dei mezzadri chespartivano il prodotto con ireligiosi. Insomma un piccolo statoautosufficiente separato dalmondo: la regola cistercenseprevedeva che nessun lai-co potesse entrare e risie-dere all’interno del con-vento. Ma venne il giorno in cui ilprocuratore Costa decise diseguire l’insegnamento diGesù Cristo e aprire le brac-cia agli ultimi.

L’opera di accoglienza sisviluppò nei seguenti mo-di: a. quella nelle case di pro-prietà della Certosa (maesterne al muro di cinta delmonastero), che si trovava-no nelle località di For -mentale, Stabbiano eFarneta; b. quella all’interno deglispazi del monastero.La prima ebbe inizio nel set-tembre del 1943, mentre laseconda tra il luglio e il me-se d’agosto del 1944. Oltrea costoro, vennero accolti,in maniera legale, più di cin-quanta bambini provenien-ti dal «Rifugio Carlo DelPrete», un istituto di Luccaper l’infanzia abbandona-ta. In seguito alla caduta delfascismo, giunsero a bus-

sare alla porta anche ex fa-scisti accusati dai commi-litoni della Repubblica diSalò di tradimento. Nonmancarono anche gli ebreie i partigiani. L’accoglienza ebbe un ar-resto a seguito della satu-razione degli spazi e dellacrescente attenzione postadai comandi tedeschi. Tantoche a metà agosto, il procu -ratore Costa fu costretto arifiutare di accogliere unmedico ricercato con la se-guente motivazione: «Peril bene di lei e di quelli chesono qui non posso». La Certosa oltre a fornirerifugio, attirava, per le suerisorse, torme di gente af-famata che bussava in cer-ca di un tozzo di pane e diuna minestra calda.

La storia racconta la decisione dei monaci dicontravvenire alla regola cistercense per com-battere la crudeltà umana dei Nazi-fascistiaprendo le porte del loro convento a quanti

bussavano in cerca di aiuto, indipendentemente dalcredo politico, religioso, perché «fratelli in Cristo».

Il loro comportamento viene letto come unaprovocazione da parte delle SS, per questomotivo, nella notte tra il primo e il due settem-bre il comandante tedesco diede ordine di

compiere un’irruzione nel convento. Tutti i presenti ven-nero arrestati e condotti a Nocchi di Camaiore, prima, aMassa Carrara, dopo. Da questo carcere dodici monaciverranno prelevati e fucilati, il resto condannato alladeportazione.

Il “saio della carità” ospitafuggiaschi: così i tedeschi massacrarono i monaci della certosa di Farneta

di Stefano Coletta

Il procuratore Costa decise di seguireGesù e “aprire le braccia agli ultimi”

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religiosi fucilati, gli altri deportati in Germania

Nel frattempo giunse, il 23agosto, una lettera da partedi un sacerdote di Lucca al-lo scopo di segnalare l’im-minenza di un’irruzione te-desca. Immediatamente, ilPriore Binz indisse una riu-nione a cui parteciparono ilprocuratore Costa, il mae-stro dei novizi Egger, il vi-cario Nicola Gontier, l’u-nico dei «superiori» che so-pravvisse alla strage. Decisero d’inviare il mae-stro dei novizi, che parlavatedesco, a Lucca presso ilComando Tedesco allo sco-po di comprendere se esi-stevano dei rischi. Il frateparlò con il Comandanteche gli assicurò il rispettodel luogo sacro, ma gli ri-cordò che dovevano aste-nersi dall’occultare perso-ne o cose non permesse dal-la legge. In realtà, il pericolo era co-stituito dalla presenza di unreparto di SS, appartenentealla XVI SS PanzergrenadierDivision Reichsfuerer-SS,la stessa responsabile del-le stragi di Sant’Anna diStazzema e di Marzabotto.Infatti, il comandante ave-va subdorato il comporta-mento del Priore, per questomotivo decise di frequen-tarla e di andarsi a confes-sare regolarmente. Inoltre escogitò il seguenteescamotage: l’8 luglio «Tresoldati tedeschi dispersi si

sono presentati qui per man-giare. - annotò il procura-tore Costa- Sono partiti perdestinazione a noi ignota».In realtà, si ripresentano ilgiorno dopo ed essendo do-menica assistono alla mes-sa conventuale. I tre affer-marono di essere «sbanda-ti a causa di un bombarda-mento e d’essere stati ri-fiutati dagli altri comanditedeschi». Un pretesto surreale, cheavrebbe dovuto mettere inallarme i buoni padri e mo-tivarli a respingerli. Inveceli ospitarono, nonostante fraAgostino, ex agente segre-to del Comintern espressedei dubbi a seguito del lorosingolare comportamento:«Questi tre soldati li avevovisti anch’io una domeni-ca, sulla tribuna, di doveascoltavo la Messa, sedu-to sullo stesso banco conloro. Avevo però già alloranotato, non senza impres-sionarmene, il loro conte-gno tutt’altro che sponta-neo: non si voltarono mai,benché menomamente, a ri-guardare, anche sol per na-turale curiosità, chi entrasseo si movesse in tribuna, mainvece i loro sguardi eranocostantemente fissi a squa-drare tutti quelli che eranogià in chiesa, senza peròche nei loro lineamenti tra-sparisse la minima emo-zione, come se fossero di

pervaso da una strana ener-gia, come ebbe a ricordareil fratello laico slovenoGuido Percic:« Tutto quelgiorno spari; i ponticellid’intorno, per aria [sono lesquadre dei guastatori te-deschi che preparano la ri-tirata]; quella sera poi unsilenzio strano. Fuori del-la portineria, neanche un’a-nima viva. Soltanto PietroPellicci, operaio della fat-toria, discorre con sua mo-glie. Lei gli diceva: – Piero,vieni a casa, stasera; hopaura per te. – E lui non vo-leva. Dopo, fu proprio luiil primo a essere impiccatoe mitragliato».

Quella notte, intorno alle23.15, le SS fecero irruzio-ne nella Certosa, i monacivennero sorpresi nel Corodove erano riuniti per can-tare il Mattutino. Un ser-gente intimò loro: «Mani in

alto! Chi parla, grida, o fasegni, è fucilato immedia-tamente!». Nel chiostro pic-colo venne piazzata una mi-tragliatrice allo scopo di te-nere sotto mira le personeche venivano trovate.

marmo. So per esperienzache questa è una delle piùspiccate caratteristiche deipoliziotti e delle spie».Nonostante tutto, i tre ri-masero, in questo modo po-terono accertare, con i loroocchi, la reale presenza de-gli ospiti e comprenderequali frati erano responsa-bili dell’accoglienza. Versola metà di agosto spariro-no, o meglio rientrarono alvicino comando, dove rife-rirono tutto e permisero alcomandante di organizzarela retata. Giunse il primo settembreera, in apparenza, un gior-no come gli altri, anche se

Ecco in basso i certosiniuccisi dai tedeschi. Prima fila: padre GabrieleCosta, padre Pio Egger, efra Giorgio Maritano. In basso fra Michele Nota,fra Bruno D’Amico epadre BenedettoLapuente.

Da Lucca arrivò un avviso, si temevaun’improvvisa irruzione tedesca

E infatti i tedeschi arrivarono all’oradel “Mattutino” con i monaci nel coro

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Lorenzo Coturri, giovaneventiduenne renitente allaleva della R.S.I., rifugia-tosi nella Cersosa, riferìl’espediente usato dalle SSper introdursi nel conven-to: «Nella notte tra l’1 e il2 settembre si presentò al-la porta della Certosa ilsergente tedesco molto co-nosciuto dai superiori e dalpadre maestro al quale siera confessato più volte[…]. Quella notte suonò ilcampanello e disse al por-tinaio (fra Michele) cheaveva una lettera da la-sciare al padre maestro. Ilfratello lo pregò [di] aspet-tare, che l’avrebbe chia-mato subito; ma il Sergentegli disse [che] non valevala pena di disturbarlo, trat-tandosi di cosa da poco:una lettera e un pacchettoda consegnare a suo co-modo, e che avendo frettapreferiva lasciare in por-tineria». Vista la titubanza del fra-te, il sergente tedesco dis-

se al portinaio che avevafretta perché «doveva par-tire improvvisamente»: edera un trucco, ma era an-che vero perché il suo con-tingente il 31 agosto – cioèil giorno prima – aveva la-sciato l’acquartieramentodi Villa Caprotti, dal mo-mento che il comando te-desco, trasferito a Nocchi diCamaiore, aveva diramatol’ordine di ripiegare dallaLucchesia verso l’Apuania:gli alleati stavano pren-dendo Pisa e già puntava-no su Lucca. Nonostante tutto, il co-mandante delle SS trova iltempo per dare un esem-pio. «Il buon fratello [por-tinaio] nulla sospettando– ricordò Lorenzo Coturri– va ad aprire e in questomomento una squadra disoldati che s’era tenuta indisparte si avanzò e conviolenza spinse la porta,afferrò il fratello che fu rin-chiuso in portineria. Cosìcominciò la tragedia».

I militari dilagarono per ilconvento, usando la vio-lenza con ogni persona cheincontravano. «Il padre sa-crista avendo protestato perla violazione del luogo sa-cro, fu percosso e conti-nuarono la profanazione.Fatto questo veniva, simul-taneamente, assediata la fo-resteria, bloccate tutte lecelle e le altre parti dellaCertosa e catturati tutti co-loro che vi erano ospitati.Tutti gli arrestati furono fru-gati, derubati e tolti [loro]i documenti e posti lungo laforesteria, postati colla mi-tragliatrice, fino alla par-tenza».Tra le prime persone chevennero arrestate vi fu ilprocuratore Costa. Gli venne ingiunto d’in-dossare abiti civili. Ben pre-sto i tedeschi si rendonoconto che il numero di mo-naci è superiore a quelli che,secondo le loro informa-zioni, dovrebbero esserci,questo perché il procurato-

re Costa aveva detto agliospiti d’indossare il saio, incaso di rastrellamento. Per questo motivo, inizia-rono una selezione, AlbertoPalazzi ricordò: «Fummotutti passati in rivista unoper uno da un sergente checi scrutò attentamente inquanto cercava di capire sefossimo effettivamente ve-ri o falsi religiosi travesti-ti. Era biondo, molto catti-vo, parlava in italiano sten-tato ma si faceva capire.Seppi che era un sergente,dal padre maestro PioEgger, con il quale questosoldato aveva già avutocontatti in precedenza».Non riuscendo a raccapez-zarsi ordinarono a tutti d’in-dossare abiti civili, quindiiniziarono a smobilitare.Lasciarono solo un frate per-ché impossibilitato a muo-versi e un gruppo di milita-ri, rimase per tre giorni, for-se in attesa di qualche fug-giasco Il 9 settembre laCertosa era libera, e vuota.

La partenza avvenne in mo-menti distinti: dapprima par-tirono due autocarri coperti,carichi dei rifugiati e del pa-dre priore, del padre mae-stro e di qualche altro mo-naco, tutti stipati al centrosorvegliati dai soldati postisui sedili.La destinazione era un fran-toio nella località di Nocchi,un piccolo borgo del comu-ne di Camaiore, nei pressidel torrente Lucese. In que-sto luogo, da due giorni, erastato trasferito il ComandoTedesco della zona, a segui-to della smobilitazione daLucca. Un ultimo convoglioli raggiunse nel pomeriggio

dello stesso giorno. Alle 18tutti gli arrestati erano «riu-niti» nel frantoio. Renato Urru, tra i soprav-vissuti, così raccontò l’arri-vo a Nocchi del primo grup-po: «L’autocarro si ferma,ci fanno smontare e al gridodel loro “los los” [avantiavanti] ci fanno entrare inun grande locale – un ex-frantoio a quanto sembra –mentre in una rozza bottegada falegname, per la qualeci tocca passare, un solda-to calvo, panciuto, torso nu-do, calzoncini corti, ci ac-coglie con calci e grida manmano che gli passiamo in-nanzi. Ci pressano così col

Il “saio della carità” ospitafuggiaschi: così i tedeschi massacrarono i monaci della certosa di Farneta

La prigionia nel frantoio, dove si era trasferito il comando tedesco della zona

La riesumazione dei corpi dei frati fucilati nella Certosa

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fucilazione più numerosadei prigionieri della Certosaavvenne il 4 settembre aPioppetti, nella Valle dellaFreddana, tre chilometri aest di Nocchi, sulla provin-ciale che da Camaiore por-ta a Lucca. Ufficialmente itedeschi giustificarono la lo-ro esecuzione, come rap-presaglia a un assalto parti-giano a un autocarro tede-sco avvenuto, in quel luogo,due giorni prima e per l’uc-cisione, nelle vicinanze, diun capitano medico tedesco.Dopo i rifugiati, i Tedeschipassarono ai frati, costorovennero passati per le armi,non per decimazione, ma perpunire la loro intraprenden-za di aver ascoltato il cuoree assecondato la volontà dirispettare la dignità umana.I primi due frati a essere fu-cilati furono, il 7 settembre,il priore Martino Binz e l’exvescovo venezuelano Mon -tes de Oca, perché rallenta-vano la marcia dell’interogruppo verso Nocchi.

loro ostinato “los los”, tut-ti in fondo allo stanzone e ciobbligano a sedere per ter-ra. Ed ecco che verso mez-zogiorno – continua RenatoUrru – vediamo entrare dicorsa, vestiti in borghese,altri venerabili padri.La prima cosa che fanno èabbracciarsi e condividere imomenti che hanno vissu-to, al termine, ognuno ester-na la medesima domanda«Cosa ci riserva il futuro?».A cui seguiva la risposta delpadre maestro dei conversi:«O fucilati, oppure a lavo-rare». Al l’im provviso s’a-priì la porta e venne intro-dotto il carrello con il cibo,elemento che venne inter-pretato con la seguente fra-se: «Almeno per oggi non ciammazzeranno. Il pasto uni-co di questo giorno – ricordòUrru – è consistito in un toz-zo di pane, 2-3 etti, e un po’di broda calda». La prigio-nia durò quattro giorni: dalmezzogiorno del due set-tembre all’alba del sei. La

E ora i tedeschi “passano” i frati chevanno puniti per la loro intrapendenza

Finalmente liberi, ma solo in diecipossono tornare alla loro abbazia

I loro corpi vennero brucia-ti e dopo seppelliti alla me-glio. I frati giunsero a Massa,qui dieci vennero ritenuti co-spiratori e responsabili del-l’accoglienza, per cui il 10ottobre vennero prelevati econdotti nei pressi del tor-rente Frigido. Gianluca Fulvetti che, in qua-lità di storico ha studiato gliatti su richiesta del tribuna-le Militare di La Spezia, haipotizzato che fu «un’ese-cuzione mirata a colpire al-cune decine di persone sul-le quali questo reparto [diSS] ha accumulato, nelle set-timane precedenti, una se-rie d’indizi sufficienti a fa-

re catalogare le vittime comebanditi, traditori, collusi coni partigiani».Nel frantoio rimasero i fratidestinati al lavoro, il 6 otto-bre, dopo una selezione, i piùrobusti vennero inquadrati efatti salire su dei camion, de-stinazione Massa Carrara.Ai quattro se ne aggiunseroaltri sei, per un totale di die-ci. L’intero gruppo finì aBerlino. Non appena ilNunzio Apostolico fu infor-mato della loro presenza,chiese alle autorità tedescheil loro rilascio, ma la firmaestorta con l’inganno diven-ne motivo di contestazionida parte dei nazisti.

Questi avevano un bisognodisperato di braccia per li-berare le città dai detriti deibombardamenti.Fra Guido ricordò la loroesperienza, parlando in ter-za persona, nel seguentemodo: «I nostri sono de-stinati a Berlino, dove ar-rivarono il 1° ottobre. Liaccolse subito un grancampo di smistamento, do-ve il giorno dopo furonovisitati da un cappellanodegli italiani, che vestivaabito borghese, certo donAntonio Coderno. Da es-so apprendono che esisteuna chiesa in Berlino, do-ve funziona il servizio re-ligioso per gli italiani. Lepoche volte che i nostri viandarono la trovarono ab-bastanza affollata».Final men te, vennero libe-rati e, affidati al NunzioApostolico, i dieci mona-ci lo ringraziarono e lo pre-garono di permetter loro diritornare a casa: allaCertosa di Farneta. L’alto prelato gli conces-se di partire, così iniziaro-no un estenuante cammi-no di ritorno sempre sottoil pericolo di vita. Nonostante tutti gli stentie le angherie subite dai na-zi-fascisti, i frati manten-nero vivo il principio delrispetto della dignità del-l’uomo e della carità, per-tanto, mentre i nostri sta-vano rientrando allaCertosa, il 23 novembre,nel territorio tra Pontremolie Farneta incontrano deipartigiani che avevano cat-turato un tedesco e si sta-vano apprestando a fuci-larlo.

Invece di godere di questavendetta trasversale : «Ilpadre vicario si recò nellaprigione a confessare ilcondannato, il quale die-de segni di vero pentimen-to e si dispose alla morte inmaniera commovente.Intanto dietro l’insistenzadi don Francesco prima, eper le preghiere del padrevicario poi, il comandan-te [della formazione par-tigiana], ch’era un ottimogiovane, si lasciò indurrea sospendere per quellavolta l’esecuzione. Scherzi della Provvidenza!Quel prigioniero era unodelle SS tedesche, di na-zionalità ungherese, comeil sergente che eseguì lacattura della Certosa».Dimostrando che il rispet-to della dignità dell’uomova sempre perseguito, aprescindere dal risenti-mento e rancore che al-berga nel nostro cuore.

Tre immaginidella Certosa: asinistra il coro incui si erano rifu-giati all’arrivo deinazisti. L’ingressoe la veduta d’in-sieme dei chiostri.In basso unoscorcio interno.

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moria di Giovanni Leoni,geometra comunale assas-sinato in rappresaglia perl’uccisione di un fascista.Anna Botto viene arrestatadai fascisti, una prima vol-ta, il primo maggio del 1944,“rea” aver portato “inqua-drate” le proprie scolarettedi quarta a due messe di suf-fragio, in ricordo dello stu-dente Carlo Crespi, il gio-vane vigevanese fucilato daitedeschi a Varallo, e le ac-compagna anche a casaCrespi in modo che “ognibambina” riceva “la foto-grafia ricordo del giusti-ziato”, per di più spiegandoloro che si tratta di “giova-ne fucilato dai fascisti”…Nell’interrogatorio che nesegue mantiene un contegnodignitoso, oltremodo co-raggioso: bolla d’infamia isuoi carcerieri per i delitticinicamente perpetrati al ser-vizio dei nazisti.

Scarcerata il 10 maggio1944, si fa più guardingama continua, con rinnova-to ardore, la sua attivitàclandestina portando a ter-mine pericolose missioniaffidatele dai partigiani edai patrioti con cui rimanesempre in stretto contatto.In occasione di una delletante missioni, il 6 luglio1944, ormai strettamentesorvegliata dai fascisti, vie-

Anna Botto nasce da Giuseppe e GiovannaOrtica 31 dicembre 1895 ad Alessandria. Nelsuo curriculum didattico, ricco di quasi untrentennio d’ininterrotto insegnamento, prima

in provincia di Alessandria, poi a Como, figurano bendiciott’anni di attività dedicata nella Provincia di Pavia, aLangosco, Robbio, Palestro e Vigevano.

Quando Anna si trasferisce a Vigevano, abitain via del Littorio (oggi via del Popolo) 11,dove ha anche sede la locale casa del fascio, esvolge la sua missione di insegnante presso la

scuola elementare Regina Margherita.

Dopo l’8 settembre1943 prende contatticon esponenti anti-

fascisti, viene per questo sor-vegliata dagli agenti del -l’UPI. Si impegna a dareumana e coraggiosa assi-stenza ai militari inglesi fug-giti dai campi di prigionia, ri-fugiatisi nelle campagne del-la Lomellina; porta loro illatte e gli altri generi ali-mentari di cui hanno biso-gno, in attesa ch’essi possa-no intraprendere la via del-la libertà verso la Svizzera.Non solo, ma in quest’atte-sa molti ne ospita nella pro-pria casa, a Vigevano; unodi questi, ammalato, la cuigamba è minacciata dallacancrena, viene da lei assi-stito e ogni giorno condottoper le necessarie cure da unmedico di fiducia.Il 21 ottobre 1943 AnnaBotto scrive l’epitaffio di-stribuito alle esequie in me-

Le nostrestorie

Dopo qualche giorno ci incontriamo ai gabinetti e le dico: “Anna, come va?” M

di Ferruccio Belli

ne arrestata e portata allecarceri giudiziarie di viaRomagnosi a Pavia dove,ben lungi dall’attribuirle con-creta attività cospirativa, ilcapitano del l’UPI EnricoRebolino pensa di servirse-ne per risalire qualche filodella trama resistenziale cheanche a Vigevano deve es-sersi estesa. Durante la detenzione AnnaBotto incontra la professo-

È incarcerata una prima volta manon smette le missioni per i partigiani

Anna Botto, la maestrascrive l’epitaffio in memoriadi un comunista fucilato.Arrestata, finisce deportata

Anna Botto, la maestra, in una rara foto (forse l’unica).

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i guarda fissa, poi si mette a cantare: “Ritorneremo a maggio con tante rose”

A Innsbruck il convoglio si separa: le donne deportate a Ravensbrück

ressa Bianca Ceva, legata aParri e alla cospirazione mi-lanese, che la citerà nellesue memorie.Questo il “Verbale di denun -cia della nominata Botto An -na fu Giuseppe e di OrticaGiovanna, nata ad Alessan -dria il 31.12. 1895, residentea Vigevano, Via del Littorion. 11, di professione inse-gnante, per propaganda sov-versiva e favoreggiamentodi prigionieri inglesi, in ISP,FT, c.2, f. Denunce al Tribu -nale Speciale per la difesadello Stato, sf. Botto Anna,antifascista).” È un com-portamento che all’UPI de-ve esser giudicato sempli-cemente folle, né Rebolinoè tanto sciocco da attribuirea quella romantica cinquan -tenne una seria attività co-spirativa. Ma perché nontentar di risalire per suo tra-mite qualche filo della tramaresistenziale senz’altro ste-sa anche a Vigevano? Inge -nua com’è, per di più pro-vata dal carcere, quella com-pagna carina, intelligente esensibile, in prigione per ra-gioni non molto diverse, conla quale già un poco si è“confidata, potrebbe far giu-sto al caso”. Con questo pas-so, riportato da Guderzo, sivuole rappresentare AnnaBotto come una persona in-genua agli occhi della poli-zia fascista, ma il compor-tamento tenuto e il suo pen-siero espresso nell’epitaffioa Giovanni Leoni dimo-strano una persona retta ecoraggiosa.

Comincia probabilmente aquesto punto l’avventuraspionistica di Laura Berio.Venerdì 7 luglio 1944 laGNR di Pavia ferma all’al-bergo del Teatro di Pavia duesospetti, uno dei quali ve-stito da ufficiale, e li portaal comando provinciale peraccertamenti: sono GuidoDassori e Placido Milazzo.Alla richiesta di consegnadelle armi i due aprono ilfuoco e fuggono inseguitiper strada: nella sparatoriarestano uccisi tre passanti.Mentre Dassori si dilegua,Milazzo finisce intrappola-to in una casa: dopo un ra-pido interrogatorio il gio-vane catturato viene pub-blicamente fucilato dinanzia 300-400 persone contro ilmuro dell’Università. In cittàl’episodio suscita impres-sione. La Brigata nera fer-ma la ventunenne ligureLaura Berio sorpresa a com-mentare che i passanti sonstati uccisi non dal fuggiti-vo ma dai militi fascisti. Ilcapitano dell’UPI EnricoRebolino la mette in carce-re e poi la convince a pas-sare al suo servizio. In car-cere essa entra in confiden-za con Anna Botto.La Berio viene così inviataa Vigevano a casa Crespi perindurre papà Angelo a farqualcosa per Anna Botto:egli però resta diffidente. LaBerio allora visita Anna incarcere e, con lo spettro del-la deportazione, la induce ascrivere un biglietto di sup-plica a papà Crespi che a

questo punto fa il nome del-l’avvocato vigevanese “del-la stessa fede” EribertoRobutti e dell’“influente”amico viceprefetto ErnestoGragnani. A casa CrespiLaura incontra anche il pa-vese di schietta convinzioneantifascista GuglielmoScapolla: un elenco di no-mi a lui sequestrato guida ifascisti a due operai antifa-scisti pavesi, Carlo Bertonidella Snia e Pietro Gatti del-la Necchi. La Berio inoltrescopre l’antifascismo di unafamiglia di coinquilini, iPettenghi. Facendosi pas-

sare per partigiana, papàPettenghi le confida inge-nuamente che il figlio Ugoè in contatto coi partigianidella collina. La rete vienesubito gettata: a inizio set-tembre finiscono tutti arre-stati tranne Crespi e il figliodi Scapolla. Deferita alTribunale Specia le, AnnaBotto viene proces sata aMilano e quindi torna al car-cere di Pavia. Il 31 agostoAnna Botto è trasferita alcarcere di San Vittore, aMilano. Il 16 settembre vie-ne trasferita al reparto tede-sco, n. 3160 di matricola.

Alla sera del 20 settembre1944 in camion la quaran-tottenne Anna viene tra-sportata dalle carceri mila-nesi di S. Vittore al campodi concentramento di Bolza -no con il quarantatreenneviceprefetto pavese, origi-nario di Sperone, ErnestoMaschera Gragnani (poi de-portato a Dachau) e la tren-taduenne moglie pavese, ori-ginaria di Salonicco, MariaLuisa Canera di Salasco. (poideportata a Ravensbrück),Mario Pettenghi (poi de-portato a Dachau), il figlio

Ugo Pettenghi (poi depor-tato a Dachau) e la moglieRosa Gaiaschi (poi depor-tata a Ravensbrück).Il 7 ottobre 1944 viene de-portata verso la Germania.Salendo sui vagoni-bestia-me, gli uomini sono divisidalle donne. A Innsbruck ilconvoglio si separa: gli uo-mini vengono diretti con iltrasporto n° 90 a Dachau, ledonne con il trasporto n° 91a Ravensbrück.Il viaggio dura cinque gior-ni; a volte distribuisconopezzetti di pane: quando il

Fin dall’insorgere delfascismo vi fu una partedella classe magistrale, fie-ramente risoluta nel pro-prio compito, disposta acombatterne con ognimezzo la propaganda.Anche quella nazista.Nel libro di MassimoCastoldi “Insegnare lalibertà, storie di maestriantifascisti” è raccontata,tra gli altri, la sorte diAnna Botto, maestra di Vigevano.

Il registro di San Vittore con la registrazione

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treno si ferma, le lasciava-no scendere a bere alle fon-tanelle delle stazioni. Invecei bisogni li fanno sul vago-ne: hanno fatto un buco nelvagone e a turno… All’arri vo a Ravensbrück,avvenuto la sera dell’11 ot-tobre 1944, alcune del va-gone son già morte.Anna Botto si ritrova insie-me a due donne pavesi MariaLuisa Canera di Salasco eRosa Gaiaschi Pettenghi,con cui aveva iniziato il per-corso prima al Carcere diSan Vittore a Milano e poial campo di concentramen-to di Bolzano.Il campo di sterminio diRavensbrück s’affaccia suuno dei tre laghi, lo Schwed -tsee, su cui sorge la “cittàd’ac qua” di Fürstenberg: unluogo idilliaco dove sorgo-no le case della SS e dei ci-vili impiegati nelle aziendedei dintorni. Forse per que-sto le deportate sono positi-vamente impressionate dalcontesto, cosa che le riempiedi speranze. Fin dall’arrivo

invece s’aprono le porte diun inferno. “Ai fiori si succedettero gliorrori. Ci vennero incontrosoltanto squallidi viali, ne-re baracche, sinistre torret-te con mitragliatrici e poi lecupe ciminiere dei forni cre-matori. Mentre procedeva-mo nella marcia, ormai sfi-duciate e depresse, scor-gemmo in lontananza uncarro trainato da buoi. Allaguida erano due ‘zebrate’.Una di queste imbracciavaun grande tridente e infor-cava – a quanto si poteva di-stinguere – fagotti di indu-menti dai colori uguali allesue vesti. Pensammo, lì perlì, fosse roba da macero oda lavare. Senonché, avvi-cinandosi sempre di più alcarro, ci accorgemmo, tralo sgomento e il terrore, cheinvece di mucchi di vestiariosi trattava di cataste di sche-letri di donne vestite, dagliarti penzolanti, alcuni giàrigidi e altri che si contor-cevano ancora negli spasi-mi della morte.

Venimmo poi a sapere da ve-terane del campo che quel-lo non era stato altro che un‘normale carico’ giornalie-ro di deportate morte e mo-ribonde destinate alla sa-ponificazione o ai forni cre-matori”. Senza poter parla-re né osar il benché minimogesto, passano in piedi l’in-tera notte all’aperto in atte-sa d’esser perquisite, regi-strate e private dei pochi og-getti personali.Al mattino del 12 ottobre

1944 Anna Botto, con le al-tre deportate sono per pri-ma cosa avviate in un“block”. Racconta MariaLuisa Canera: “Qui, spo-gliate di ogni nostro indu-mento, dovevamo sfilar nu-de davanti a un gruppo disedicenti medici. Essi ciscrutarono dalla testa ai pie-di, ci guardarono dentro al-la bocca; poi ci frugaronoalla ricerca di oggetti d’oroo preziosi che avremmo po-tuto nascondere durante la

spoliazione. Guai alle mal-capitate venti nerbate im-mediate e poi giorni e gior-ni di pena da scontare in unacantina allagata: lo ‘Straf -fblock’, il blocco di puni-zione”, Il procedimento più umi-liante è la rasatura. A tutte viene attribuita nuo-va identità: per le politicheitaliane il Triangolo rosso

con la scritta IT e il numeroprogressivo d’ingresso alcampo.Come primo vitto ricevonouna “miska”, una scodellacon una broda rossa, rossada far schifo, e bucce di pa-tate e di barbabietole.Rosa Gaiaschi finisce nellabaracca 17, mentre AnnaBotto e Maria Luisa Caneravanno in quella a fianco.

Ci si poteva incontrare lamattina nei gabinetti in co-mune dove ci si lavava, cin-que o sei per oltre cento per-sone: bisogna star attente afar in fretta, non sempre siriesce a lavarsi e far ciò chesi doveva. Durante la qua-rantena vengono svolti di-versi lavori: spalano, ta-gliano legna nei boschi.Paura e orrore accompa-gnano queste donne in ognimomento.Rosa Gaiaschi racconta:“Anna Botto era sfinita.Continuava a dire: ‘Io nonce la faccio, io non ce la fac-cio tutte le mattine ad an-dare all’appello; io a far tut-ta quella strada non ce lafaccio’ ”.Nella speranza di riuscire apassarsela meglio, AnnaBotto prova ad accettare laproposta di una nuova man-sione. Rosa Gaiaschi rac-conta: “Siccome avevanochiesto chi voleva andarenel blocco delle invalide alavorare a maglia, lei ha ac-cettato subito, anche se iola sconsigliavo perché nonc’era da aspettarsi buoncuore dai tedeschi”.L’esito però non deve esserstato quello che Anna Bottoauspicava. Rosa Gaiaschispiega: “Dopo qualche gior-no, una settimana neancheche era là, ci incontriamoal Wasser, ai gabinetti, e ledico: ‘Anna, come va?’ Miguarda con gli occhi fissi epoi si mette a cantare:‘Ritorneremo a maggio contante rose’. Era diventatamatta.”

Anche Maria Luisa Caneradi Salasco lo conferma rac-contando che a fine ottobre1944, “dopo soli venti gior-ni di quarantena la maestraBotto di Vigevano cominciòa dar manifesti segni di squi-librio mentale.All’appello del mattino nonla vedemmo più fra noi.Venimmo a sapere da un‘bracciale rosso’, una‘Lager Polizei’, che di not-te era stato effettuato un‘Transport’ con destinazio-ne camera a gas-cremato-rio”. Ed egual sorte toccò anchead Antonia, la segretaria del-l’avvocato Elmo di Milano,che “sin dai primi giorni eb-be segni premonitori di alie-nazione”.Nel novembre 1944 AnnaBotto viene vista per l’ulti-ma volta.Rosa Gaiaschi racconta:“Quando ormai non ero piùa Ravensbrück ho chiesto dilei, mi hanno detto che ilblocco delle invalide, dellepazze, era stato distrutto collanciafiamme”.Alcuni superstiti hanno te-stimoniato che nell’aprile1945, poco prima della li-berazione, “gruppi di SS in-cendiano coi lanciafiammeil blocco ove Anna si trovae che nessuno si salva”.

In un’aula delle scuole ele-mentari di Piazza VittorioVeneto, a Vigevano, una la-pide a bassorilievo ricordala nobile figura di educatri-ce, di donna, di patriota del-la maestra Anna Botto,

Anna risponde “Ritornerà Maggio...”capii che era diventata pazza

Per le “politiche” italiane il Triangolorosso e il numero progressivo

Anna Botto, la maestrascrive l’epitaffio in memoriadi un comunista fucilato.Arrestata, finisce deportata

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contare l’avventura di miopadre, quella fuga epica dallager che in famiglia mi rac-contavano fin da quando erobambino. Ma poi, via viache scrivevo, ho voluto da-re un taglio storico. La miaricerca è durata un anno, de-vo dire un grande grazie alcentro studi sugli InternatiMilitari Italiani di Padova.“Se vogliamo che il mondosi raddrizzi, che tutto quel-lo che sta capitando non suc-ceda più, dobbiamo com-battere e sconfiggere la pau-ra e l’ignoranza. Dobbiamocapire che l’altro non è sem-pre un avversario, ma puòdiventare anche un amico”.Cosa c’è di vero nel libro?E cosa è frutto della fan-tasia?Mi rendo conto che questoviaggio possa sembrare unafinzione, eppure è realtà. Idialoghi e le riflessioni so-no opera mia, il resto è sto-ria. Anche l’incontro con ilrusso, al confine traGermania e RepubblicaCeca, è vero. Mio padre e ilmeccanico di Reggio sonostati portati oltre il confinea bordo di un carro-attrezzi

guidato da questo russo.Erano diventati amici per-ché “Rino”, uscendo dal na-scondiglio in cui si era rin-tanato con mio padre, ave-va riparato il suo camion inpanne. È vero anche che miopadre e “Rino” sono statiospitati da una famiglia te-desca durante la fuga. E chehanno viaggiato con la ban-diera della Russia legata al-l’antenna dell’auto.Mio padre era capo pezzodel 36° Reggimento Arti -

Paolo Chiappero racconta: «Mio padre condi-vise la fuga con lui a bordo di un Maggiolino...poi non ne seppe più nulla»

Ad assemblare il motore (dopo una ricercaforsennata e pericolosissima di cinghia, cande-le e spinterogeno) sono stati GiacomoChiappero e un meccanico di Reggio Emilia.

Nel libro il reggiano sichiama Rino Serra,ma il nome non cor-

risponde alla realtà. Non co-nosco la sua identità, non sonemmeno che faccia aves-se. So solo che era di ReggioEmilia, città o provincia, eche è stato in grado di ripa-rare, pezzo dopo pezzo,un’automobile che non par-tiva. È stato un lavoro lungo,oltre che pericoloso: ognivolta che finivano di mette-re a posto qualcosa nel mo-tore, dovevano sotterrare lamacchina. Il mio sogno,adesso, sarebbe trovare que-sto meccanico con cui miopadre è fuggito dal lager, o al-meno qualcuno (figli, ami-ci, parenti...) che abbia sen-tito parlare di questa avven-tura e possa aiutarmi a com-pletare i pezzi mancanti.Quando ha deciso di rac-contare questa storia, eperché?Dopo la morte di mio papà.Il lutto ti impone una rifles-sione, spesso ti fa apprez-zare le cose che hai sempreavuto ma che non hai maitenuto in considerazione. Hoiniziato a scrivere per rac-

Le nostrestorie

Sembrava impossibile, ma ci riuscirono: la vita germoglia nella barbarie

di Martina Riccò glieria della Divisione Forlì(artiglieria alpina someg-giata). Fu catturato l’8 set-tembre 1943 ad Atene, dovefaceva la guardia carcerariain zona Faliro. Nel lagerStarke Stahle rimase due an-ni. Eppure come gli altri650.000 Internati MilitariItaliani si trovò a vivere un in-cubo, non solo nel campo diprigionia ma anche una vol-ta rientrato in Italia: gli Imi,infatti, a lungo sono stati con-siderati collaborazionisti.

A due passi dal confine ita-liano, sorpresi dai parti-giani di Tito, Giacomo eRino si separano. Nel librolei Rino lo ritrova. E se loritrovasse realmente oggi?

Sarebbe davvero bellissimo.Con questo Rino ho vissutoper sei mesi. Ogni mattinami svegliavo alle 5 per scri-vere, perché poi dovevo re-carmi al lavoro. Sono di-ventato amico di questa per-sona, gli devo quasi la vita.Sono entrato talmente tantonel personaggio che se lo do-vessi incontrare non so comereagirei...Anche perché, visto il suc-cesso del libro, la storia po-trebbe approdare sul gran-de schermo. È così?Incrociando le dita, il ro-manzo potrebbe addiritturadiventare un film. Nel casoparteciperò alla stesura delsoggetto perché vorrei chefosse rispettata la storia, sen-za spettacolarizzazioni a di-scapito della verità. Ed eccoche, ancora più di prima, de-sidererei dare a “Rino” il giu-sto carattere, oltre a una ade-guata fisionomia. È un so-gno, chissà...

Quasi arrivati in Italia, al confine,ecco l’incontro con i partigiani di Tito

Scappano dal lagercon un MaggiolinoVolkswagen del ‘42tutto da aggiustare

Il soldato GiacomoChiappero, genio del motore.

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Omicidi e violenze, quotidiane e “straordinarie”,nel lager di Bolzano

Documenti inediti e ritratti mai visti prima d’ora sul libro di Costantino Di Sante

Il paradosso dell’importante libro “Criminali delcampo di concentramento di Bolzano” è che il suo au-tore Costantino Di Sante ci offre documenti ineditie ritratti mai visti prima d’ora, ma che si avvalgonodi verbali redatti nel 1945 e di disegni usciti, come perincanto, da una tipografia sequestrata dai nazisti nel1944 e restituita decenni dopo al suo proprietario.

Di Sante è andato acercare la documen-tazione nell’archivio

dell’Ufficio storico delloStato Maggiore dell’Eserci -to a Roma, ma ha anche po-tuto consultare documentiinediti del National Archivesdi Washington, ritrovati emessi a sua disposizionedalla ricercatrice RobertaCairoli dell’Istituto storicodi Como. In questi casi sitratta dei verbali degli in-terrogatori condotti da agen-ti statunitensi agli aguzzi-ni e al personale ammini-strativo del campo di Bolza -no subito dopo la Libera -zione.Ne esce un quadro chiaro epreciso delle responsabilitàdi ognuno negli omicidi enelle violenze, quelle quo-tidiane e quelle “straordi-narie” che hanno portato al-la morte di vari detenuti edetenute. E risulta eviden-te che nelle cosiddette “cel-le”, che erano una sorta dilager nel lager, la Gestapo egli aguzzini più bestiali eser-citavano quotidianamente

la tortura e assassinavanoebrei e politici.Importantissima è la rico-struzione puntuale dell’o-micidio di Manlio Longon,uno dei capi della Resisten -za di Bolzano, la cui morteera stata fatta passare persuicidio. Era stato arresta-to il 15 dicembre 1944Longon ed era stato dura-mente torturato proprio per-ché i nazisti sapevano diavere catturato il capo diGiustizia e Libertà nellaprovincia. Per salvarsi, ave-va fatto alcuni nomi, ma so-lo di quelli che erano giàstati individuati. Il 30 di-cembre però Longon vedeentrare nell’ufficio del di-rettore della Gestapo AugustSchiffer il radiotelegrafistadella Resi stenza MarioPuecher che, una volta ar-restato, ha accettato di fa-re il doppio gioco e di usa-re la radio per tendere trap-pole ai partigiani e agli Al -leati.Ovviamente Longon cono-sce Puecher e dunqueSchiffer teme che possa in

qualche modo “bruciare”la sua talpa e quindi decidedi ucciderlo. È lo stesso di-rettore della Gestapo, in-terrogato dagli Alleati do-po la fine della guerra, a rac-contare l’assassinio. Sonogli aguzzini Ander gassen eStorz che materialmenteeseguono la sentenza e scri-vono una relazione per ilcapo, il quale confessa che“ho letto che il dottor Lon -gon era stato impiccato nelcollettore del Gruppo d’Ar -mata.Come ordinato, il suo ca-davere è stato portato nel-la sua cella e appeso per si-mulare un suicidio”. Gliaguzzini meritano un pre-mio da Schiffer: “È vero cheho dato a Storz e An dergas -

sen e a Matzken, se fossepresente, una bottiglia dicognac”.Dunque viene definitiva-mente smentita la menzo-gna, costruita a suo tempoproprio dai nazisti, cheLongon si fosse suicidato.Peccato che questa veritàfosse già scritta chiaramentenei verbali del maggio del1945 e ci sono voluti quasi75 anni perché quegli in-terrogatori venissero letti. Nel libro di Di Sante c’è uncapitolo inedito, che mo-stra le foto delle scampa-gnate degli aguzzini e del-le loro segretarie-amanticomplici. Fa impressione vedere que-ste immagini di gite e feste,mentre centinaia di donne

BIBLIOTECACostantino Di SanteCriminali del campo di

concentramento diBolzano

Raetia editorepag. 320

euro 24,00

L’autore Costantino Di Sante durante la presentazionedel libro alla Casa della Memoria di Milano. Sotto la presentazione del libro a Bolzano.

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e di uomini venivano in que-gli stessi momenti vessati,torturati, picchiati, assassi-nati. I volti sorridenti di uo-mini e donne sdraiati su unprato o in passeggiata su unsentiero di montagna o an-cora sulla terrazza di un ho-tel a fare merenda sono glistessi che i prigionieri delcampo di transito diBolzano avevano visto po-co prima e avrebbero vistoqualche momento dopo,mentre li vessavano fero-cemente.C’è poi un capitolo nel qua-le Dario Venegoni raccon-ta la storia infinita della ti-pografia di Sady Faccinetti.Era in via Fauché 9 a Mi -lano e tra l’altro vi si stam-pava materiale della Resi -stenza. Ma alla fine di aprile 1944fascisti e nazisti fecero ir-ruzione, arrestarono il di-pendente tipografo Cheru -bi no Ferrario e portarono imacchinari prima a Fos soli,poi a Bolzano, sempre conl’operaio appresso perchéogni volta reimpiantasse lestampanti. Salvo poi spe-dirlo a Gusen dove morì.Nel 1962 finalmente Facci -netti ha potuto riavere granparte della sua tipografiache ha rimontato. Quandonel 2000, a causa di una in-filtrazione d’acqua, ha do-vuto spostare una scaffala-tura è tornato alla luce unplico che contiene copia ditutti i materiali stampati daitedeschi a Bolzano. Un pic-colo tesoro utile a ricostruirela vita nel lager di transitodi via Resia, riemerso co-me per magia dall’incubo.

Giorgio Oldrini

Storia dell’ebreo errante nato su un treno mentre la città bruciava

Quella di Schulim èstata una vita da“ebreo errante”, na-

to su un treno “mentre lacittà bruciava”, perché lamamma aveva avuto lo do-glie mentre cercava di rag-giungere la casa dei geni-tori a Prze myslany inPolonia, che allora, era il1903, era ancora Impero au-stro ungarico. Fuggendo guerre e perse-cuzioni, il giovane Schulimarriva a Firenze e cominciaa lavorare come tipografoalla editrice Giuntina. Sisposa con Annetta, figliadel rabbino di Torino DarioDisegni e nel 1935 hannouna bella bambina, SisselEmilia.“A quel punto cosa poteva-mo desiderare di più? – sidomanda – Avevamo en-trambi un buon lavoro, unabella casa e soprattuttoun’adorabile bambina”. Maecco le leggi razziali, mam-ma e figlia espulse dallascuola dove la prima inse-gnava. E poi il tentativo difuga in Svizzera, la dela-

zione, l’arresto e il treno perAusch witz. “Fu qui che vi-di per l’ultima volta miamoglie e la mia bambina”ricorda con contenuto do-lore. Grazie alle sue capacità ditipografo viene spostato aPlaszow “a stampare ster-line false, che dovevano

Daniel VogelmannPiccola autobiografia

di mio padreGiuntina

pag.40euro 5,00

Autobiografia del padre scritta dal figlio come fosse Schulim

mettere in crisi la Bancad’In ghilterra”. Da lì poi al-la fabbrica di Schindler fi-no alla liberazione “il piùbel giorno della mia vita”. Quindi il ritorno a Firenze,il tentativo di annegare nel-l’alcol il dolore e l’orrore,l’impossibilità di spiegar-lo. Che raggiunge il colmoquando un conoscente cuistava raccontando di Ausch -witz e delle morti di mogliee figlia gli risponde “Nonmi parli dei tedeschi, a mehanno ammazzato il cane”.Schulim diventa proprieta-rio della Giuntina, si risposa,ha un figlio, Daniel, che og-gi racconta con dolcezza eeleganza la autobiografia diquel suo padre, parlando inprima persona, come peridentificarsi nel genitore. Econsegnare la memoria alleproprie figlie, le nipotine diSchulim. a.r.

Momenti felici: la moglie Annetta Disegni, la figlia SisselEmilia, entrambe morte ad Ausch witz, e Schulim.

È un racconto dolce quello che Daniel Vogelmann hascritto per ricordare suo padre Schulim, morto quan-do il figlio aveva “solo ventisei anni”.Ed ha scelto come espediente letterario quello di farparlare in prima persona proprio il genitore defunto, co-me se fosse lui a raccontare una sua autobiografia.

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Il deportato Gorupche invita a non odiare mai

Renato Sarti parla del bel libro di Dunja Nanut su Riccardo Gorup Goruppi che a 16 a

Riccardo Goruppi (il cognome vero Gorup era statoitalianizzato) diventa antifascista per motivi vari an-che se la molla definitiva scatta il giorno in cui, a causadi qualche parola detta in sloveno, viene preso e pic-chiato violentemente dai brigatisti neri che lo avevanosentito. Anche questo era il fascismo: il divieto catego-rico di usare la propria lingua madre.

Dici, il suo sopranno-me, si aggrega dun-que alle formazioni

partigiane a 16 anni, so-prattutto perché il fascismoera, ed è prima di tutto vio-lenza e sopraffazione.Nella vegetazione fitta delCarso e fra le forre, le do-line, le cave, le grotte e gliinghiottitoi “Dici” si muo-ve come una lepre impren-dibile. Le condizioni di vi-ta in cui operavano le for-mazioni partigiane eranotremende. Solo una temprae un sangue freddo davve-ro eccezio nali permettonoa Riccardo di farla francaper un lungo periodo e re-sistere al freddo, alla fame,al dormire all’addiaccio inuna natura ostile che luiperò conosce come le suetasche. Carriera fulminan-te la sua tra i partigiani: gio-vanissimo entra a far partedel gruppo dei sabotatorialle dipendenze dirette delIX Korpus. Ruolo rischio-so e delicatissimo perchéc’erano di mezzo le rap-presaglie spietate dei nazi-sti. Ma è impossibile noncitare l’episodio in cui, do-po aver collocato sulla fer-

rovia alcune mine cheavrebbero dovuto far sal-tare un treno di nazisti,Riccardo torna sui suoi pas-si perché sente un canto didonne che arrivano ina-spettatamente con un tre-no che precede quello deinazisti: si precipita sui bi-nari e, rischiando di salta-re in aria, disinnesca in po-chissimi secondi l’esplosi-vo che prima aveva postocon cura.Nessuna mitizzazione, maquesta prima parte del li-bro palpita di eroismo, for-se istin tivo per la giovaneetà e c’è qualcosa di ku-brickiano nella ostinazio-ne con cui Josef Kettner,l’incubo dei partigiani car-solini, cerca di catturare“Dici” e una volta, sparan-dogli dalle spalle, con lamitraglia trancia di netto ametà la bici sulla qualeRiccardo stava fuggendo. Per molti anni Riccardo èvenuto in tournée con meper gli incontri con gli stu-denti dopo lo spettacolo “Ime ciamava per nome:44.787”. Nonostante quel-lo che ha vissuto è capacedi “witz” (termine dialetta-

le triestino, di origine te-desca, che sta per battutadi spirito) meravigliosi euna volta mi fa: “Sai chi miha insegnato a sparare? Inazisti”. “Come i nazisti?”,“Sì, perché se non spara-vo prima io a loro, loro spa-ravano a me”.Poi Riccardo viene arre-stato per tre volte, picchiatoe quindi deportato, con suopadre, a Dachau. La seconda parte del libroparla di questo inferno.L’arrivo, la spogliazione,le rasature con strumentiinadatti, sangue, polveri di-sinfestanti che bruciano,docce gelide e bollenti, ilcomandante che dice:“Siete Stuke, pezzi, nume-ri e scheise, merda”, ap-pelli al gelo di un’ora e più,il trasferimento a Leom -berg, a costruire ali per ae-rei, con turni di dodici ore,tutti i giorni, sempre in pie-di, gelo, umidità, pioggia,neve, un pasto al giorno,brodaglia, sporcizia, botteper niente e tanti, tanti mor-ti. Fra questi, dopo una pol-monite, suo padre che peròprima gli aveva detto: “Unodei due deve sopravvive-

re!”. A Riccardo pare diaver visto il padre per l’ul-tima volta in una fossa co-mune. Poi anche lui si am-mala di tifo, ritorna aDachau e alla fine Kaufe -ring, allo sbando, lasciati ase stessi, mangiando l’er-ba sui tetti, con episodi dicannibalismo. Gli ultimi giorni di quel-l’inferno, con un soldato dicolore che lo salva, e delritorno a casa e alla “nor-malità” vanno appresi dal-la viva lettura e dalle paro-le che Dunja Nanut ha sa-pientemente saputo racco-gliere in un libro denso co-me la vita di Riccardo, unodegli ultimi deportati poli-tici ancora vivo, perché par-tigiano giovanissimo. La sua storia, la grandeumanità (“Non si deve odia-re”, dice sempre ai ragaz-zi delle scuole), l’ironia epacatezza con cui descriveil suo inferno, ne fa un te-stimone per me indimenti-cabile. Un punto fermo del-la mia vita, una sorta di pa-dre putativo di cui mi sonoappropriato anche perchéil mio, morto giovanissi-mo, che pure lui aveva fat-

BIBLIOTECA

Dunja Nanut e Riccardo Gorup - Goruppi in una dellepresentazioni del libro. Sopra Riccardo in una immaginetra le sbarre del campo di Dachau.

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to la guerra, di queste sto-rie non ha fatto in tempo araccontarmi nulla. Ma una cosa che ho comescolpito nella mia mente èun episodio: una ventina dianni fa, per un attimo sem-brò che il governatore del-la Carinzia Jorg Haider,simpatizzante dei nazisti,voles se visitare la Risiera.Mentre tutti i media e i rap-presentanti delle istituzio-ni triestine discutevano sulda farsi, Riccardo, con quelsuo fare placido che deri-vava dalla sua esperienza“quasi antica”, e dalla suaforza fisica (era mingher-lino e andava per i settantama ancora “tempratamen-te deciso”), disse: “Haider?Che el vegni, che el vegni(che venga, che venga).Orga nizzemo noi un bel co-mitato de accoglienza!”. Poche parole, chiare, pa-cate, con una giusta una do-se di ironia che non scalfi-sce però quelli che sono sta-ti i suoi principi fermi sul-l’antifascismo, sulla de-mocrazia, sulla libertà e sul-la fratellanza e solidarietàdei popoli. Renato Sarti

Riccardo Gorup-Goruppi,

Nanut DunjaPartigiano e deportato

Trieste ANED 2018

anni diventa antifascista

Alla memoria di Renato Forlino, già ricordato con la“Pietra d’Inciampo” collocata davanti alla sua ultimaabitazione, la scuola secondaria di primo gradoNorberto Bobbio ha organizzato questo concerto.

Lettera a un padremai conosciuto: unaPietra d’Inciampo per Renato Forlino

Il figlio aveva solo tre mesi quando il padre fu deportato

La posa della pietra di inciampo per Renato Forlino,nel 2016, ha spinto il figlio Aldo a scrivere un’auto-biografia per raccontare la vicenda del padre: natonel 1913 a Torino, è arrestato nel marzo del 1944 e de-portato a Mauthausen. Morirà poco dopo la libera-zione del campo.

Il libro si presenta comeuna lunga lettera, unaconversazione con un pa-

dre che di fatto è uno sco-nosciuto: nel marzo 1944,Aldo aveva solo 3 mesi. Orasi rivolge a lui chiamando-lo “Renato”, non riesce a di-re “papà”: ha superato lasettantina e quasi si sente luiil padre. Aldo gli raccontala sua vita, iniziando dal-l’infanzia in Barriera diMilano, quartiere operaiosorto agli inizi del ‘900 inprossimità di grandi fabbri-che. Poi Aldo trova il suoprimo lavoro e scopre quel-la che diventerà una dellesue grandi passioni: la mon-tagna. Fondamentali per luile domeniche in cui puòuscire da Torino, anche gra-zie alla bicicletta regalata-gli dal suo datore di lavoro.L’esperienza lo porterà, conamici, sulle cime più im-portanti delle Alpi e non so-lo (molte le foto, altra suapassione). Si iscrive al CAI:e con questa associazioneAldo avrà occasione, nel1970, di fare un viaggio ad

Auschwitz. Lo racconta aRenato, come a una personalontana, che non può parte-cipare alla sua vita. Il figlio non conosce i mo-tivi dell’arresto del padre,ma comincia a seguire le suetracce, ritrova i bigliettiniche Renato era riuscito a scri-vere a Bergamo - ignora co-me siano arrivati alla sua fa-miglia. Nel 1981, in un viag-gio a Mauthausen, conosce

Ferruccio Maruffi che gliparla di Renato: erano nellostesso trasporto, il 34 diTibaldi. Solo con la posa della pie-tra di inciampo, Aldo avràmodo di scoprire il ruolo disuo padre nella Resistenza.“Renato, sono riuscito achiudere quel cerchio di cuisei stato il centro in tutti que-sti anni”: se sia un addio o unarrivederci, lo scoprirà il let-tore nel commosso capitolofinale. Elena Cigna

Aldo ForlinoUna pietra d’inciampo.Lettere e pensieri ad un

padre vittima della deportazione nazista

Torino 2018pag. 167 ed. f.c.

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Io ne homemoria.

Ho memoria delrosso per icomunisti e glioppositori politicifossero anchesacerdoti.

Del giallo per gliebrei.

Del viola pertestimoni diGeova.

Ho memoria delnero per “gliasociali” cheerano “disabili”,o prostitute, cheerano malati osemplicioppositori: idiversi.

Ho memoria delmarrone deglizingari e del bluper i tedeschiantifascisti.

Ho memoria delrosa degliomosessuali.

Erano triangoli.Erano i mieifratelli e le miesorelle.A volte facevanola musica comeme.E io sono tuttiloro. Sono tuttiquei colori.Per questo homemoria di queitriangoli econtinuerò adaverla. Oggicome ieri, comedomani.

Ezio Bossoè un pianista,compositore edirettored’orchestraitaliano.

Prima vengono i Triangoli Rossi