Tra Metafisica e Storia

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Con questo volume la collana «Pensa-miento latino» cambia editore e vestetipografica. Nella precedente serie –edita dalla Città del Sole di Napoli –erano stati pubblicati i seguenti testi: E.Nicol, Metafisica dell’espressione, prefa-zione di G. Cacciatore, introduzione etraduzione di M.L. Mollo; E. Nicol, Ilproblema della filosofia ispanica, introdu-zione di L. de Llera, traduzione e notedi M. Porciello; G. Scocozza, La Spagnaalle origini della contemporaneità. Cánovase la questione cubana; J.M. Sevilla Fer-nández, El espejo de la época. Capítulossobre G. Vico en la cultura hispánica (1737-2005); P. Di Vona, L’ontologia dimentica-ta. Dall’ontologia spagnola alla «Criticadella ragion pura».

Siamo certi che con l’attuale editorenon solo verrà mantenuta, ma anzi mi-gliorata, quella qualità di contenuti e dieleganza grafica che fa della collana ununicum nel panorama della saggisticaispanica e ispanoamericana italiana.

I Direttori della collanaGiuseppe Cacciatore

Luis de Llera

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« Pensamiento Latino »

Collana di filosofia iberica e iberoamericanaDiretta da Giuseppe Cacciatore e Luis de Llera

(nuova serie)

n. 1

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Stefano SantasiliaTra Metafisica e Storia

L’idea dell’uomo in Eduardo Nicol

Prefazione di Pio Colonnello

L E C Á R I T I

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Questo volume è pubblicato con il contributo M.I.U.R - P.R.I.N. 2007 - Università de-gli Studi di Napoli Federico II, Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta”, e con il contri-buto del Dipartimento di Filosofia dell'Università della Calabria e fondi MIUR ex 60%.

Prima edizione: agosto 2010.Impaginazione e grafica: Augereau & Co., Firenze.Stampa: Digital Team, Fano (PU).Consulenza di Phasar, Firenze.ISBN: 978-88-87657-58-6. È vietata la riproduzione.

© Le Cáriti Editore, casella postale 1394, Succ. Fi 7, 50121 Firenzewww.lecariti.com; [email protected]

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S O M M A R I O

Prefazione di Pio Colonnello 11

Tavola delle abbreviazioni 20

TRA METAFISICA E STORIA.L’IDEA DELL’UOMO IN EDUARDO NICOL 21

Nota bio-bibliografica 247

Bibliografia 251

Indice dei nomi 261

Indice generale 265

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Prefazione

Nel variegato orizzonte della filosofia latinoamericana, oggi – sipensi a correnti come la filosofia della liberazione o la filosofia dell’in-terculturalità, alla riproposizione critica del marxismo o alla rielabora-zione originale di molti temi propri della filosofia della scienza, dellafilosofia del linguaggio, del pensiero ermeneutico, della filosofia dellareligione e di una serie di questioni che ruotano intorno alle scienzesociali – occorre operare senza dubbio opportuni distinguo, e non soloperché non è possibile parlare in blocco di «filosofia latinoamericana»senza tenere conto dell’articolata e complessa realtà delle espressioninazionali, politiche, culturali, geografiche e linguistiche del continenteamericano centro-meridionale, ma anche perché all’interno delle sin-gole correnti culturali si possono individuare molteplici diramazioni,che, sebbene sorte da un unico tronco, presentano comunque una loroprecisa peculiarità. Ad esempio, all’interno della filosofia della libera-zione si possono individuare diverse anime: la corrente analettica (En-rique Dussel, Juan Carlos Scannone), quella ontologista (RudolfKusch, Carlos Cullen), quella storicista (Arturo Andrés Roig, Leopol-do Zea), quella problematizzatrice (Horacio Cerutti Guldberg, FranzHinkelammert) ecc.

In questo quadro di riferimento occorre segnalare un evento chenon appartiene solo alla storia della cultura o alla storia delle idee o alcampo proprio della storiografia filosofica, un evento che ha inciso inmaniera significativa sugli sviluppi della filosofia latinoamericananella seconda metà del secolo ventesimo: mi riferisco all’esilio di moltedecine di filosofi spagnoli – senza contare le centinaia di intellettuali,tra professori, scienziati, giornalisti, scrittori, e così via – nei Paesidell’America latina, in seguito all’avvento del regime franchista.

È questo il caso dei diretti seguaci di Ortega y Gasset, come JoséGaos, Manuel Granell, Luis Recasens Siches, e dei filosofi detti della

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«scuola di Barcellona», come Jaime Serra Hunter, Joaquín Xirau,Eduardo Nicol, e, ancora, dei filosofi di orientamento marxista e so-cialista, come Fernando de los Ríos, Adolfo Sánchez Vázquez e JuanDavid García Bacca. Solo alcuni scelsero gli Stati Uniti, come FerraterMora, e pochi altri l’Europa.

Se è possibile parlare di un evento che ha inciso significativamentesugli sviluppi della filosofia latinoamericana nella seconda metà delNovecento, è perché non pochi dei filosofi esiliati hanno esercitato illoro influsso sulla contemporaneità sia attraverso i loro allievi diretti,sia attraverso le loro opere.

In Italia, se a partire da alcuni decenni, vi è una sempre maggioreattenzione per la cultura latinoamericana, nelle sue varie forme edespressioni, dalla letteratura al cinema, dalla poesia alla musica, al fol-clore e così via, nondimeno un’attenzione minore è stata riservata allafilosofia latinoamericana, che pure presenta tratti di indiscussa origi-nalità.

Tra i pensatori di maggiore spessore teoretico, un posto di rilievospetta indubbiamente a Eduardo Nicol. Nel filosofo, esiliato in Messi-co all’indomani del trionfo del franchismo, la filosofia acquista unaconnotazione tipicamente catalana, nel senso che si riferisce delibera-tamente alla tradizione del sentit comú. Anzi, la posizione filosofica diNicol è in contrasto con le intenzioni degli altri filosofi esiliati e deicolleghi ispanoamericani, come García Bacca e José Gaos, di creareuna filosofia in lingua spagnola. Tuttavia la questione è molto più arti-colata di quanto risulti a prima vista. Basti considerare, dello stessoNicol, El problema de la filosofía hispánica, che si avvicina per alcuniaspetti alle posizioni di un Maeztu e di un García Morente.

Rifugiatosi in America latina, in seguito alla derrota repubblicanaavvenuta in Spagna, Nicol si addottorò in filosofia in Messico ed eser-citò per quarant’anni la sua attività di docente nel Colegio de México.Disincantato dal personalismo di tipo unamuniano e dall’orteghismo,fu influenzato, in qualche misura, da Husserl, ma soprattutto daBergson, sebbene alla fine si sia allontanato anche da quest’ultimo.

L’originale riflessione di Nicol prende l’avvio dall’analisi sistemati-ca delle situazioni vitali, nelle quali è sempre immerso l’uomo in carnee ossa; esse sono di genere molto diverso e posseggono un contenutomateriale specifico. Alcune sono fondamentali, come le leggi di unici-

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tà, di moralità o di fallibilità della nostra esistenza, mentre altre sonoconsiderate permanenti, come la mascolinità o la femminilità, e altreancora transitorie, come le condizioni sociali ed economiche. Uno svi-luppo di questa linea di pensiero è poi nell’opera La idea del hombre.

Nella Metafísica de la expresión, Nicol esige una riforma radicaledella fenomenologia, che fa discernere, nel nucleo dei fenomeni, la pre-senza dell’essere: il suo è, in qualche modo, il tentativo di restaurareuna metafisica autentica, attraverso un’ontologia dell’espressione. Nona caso, questa metafisica si appoggerà sulla situazione espressiva, chesmetterà di essere semplice apparenza per convertirsi nella comunica-zione immediata dell’essere.

L’esperienza dell’espressione, descritta da Nicol, è apertura e dialo-go, scoprimento del senso. Infatti, «l’identificazione primaria dell’uo-mo come essere dell’espressione definisce l’uomo realmente, cioè, nonsoltanto logicamente: lo comprende in maniera totale perché, nel rico-noscerlo attraverso la forma del suo essere che è manifesta, nello stessotempo lo distingue da qualunque altra forma d’essere»1 (Metafísica de laexpresión).

Un riferimento è d’obbligo anche a Los principios de la ciencia, nontanto per sottolineare l’intenzione di volere ristrutturare l’epistemo-logia sulla base della metafisica dell’espressione o la critica nicoliana alprincipio di non contraddizione e la sua sostituzione con principi«dialettici», quanto piuttosto perché va rimarcato che tra le relazioniessenziali che legittimano la conoscenza, – la relazione logica (l’ade-guazione del pensiero a se stesso), la relazione epistemologica (l’ac-cordo del pensiero con la realtà), e la relazione dialogica (il vincolocomune tra l’obiettivo di comunicazione e il contenuto significativodel logos) – incontriamo, non a caso, la relazione storica, espressa dalvincolo del pensiero con il flusso della storia.

1. E. Nicol, Metafisica dell’espressione, traduzione a cura di M.L. Mollo, Città del Sole,Napoli 2007, p. 193 [E. Nicol, Metafísica de la expresion, FCE, México 1974², p. 137]. Il testotradotto da María Lida Mollo e la traduzione de El problema de la filosofía hispánica, a cura diMichele Porciello (E. Nicol, Il problema della filosofia ispanica, Città del Sole, Napoli 2007)costituiscono, finora, le uniche traduzioni in lingua italiana di opere di Eduardo Nicol. Latraduzione della Mollo è preceduta da un interessante saggio di Giuseppe Cacciatore (Veritàe storicità nella metafisica dell’espressione di Eduardo Nicol, pp. 9-26). Entrambi gli autori, insie-me a Luis De Llera, sono tra i pochissimi studiosi italiani che hanno contribuito a far emer-gere ed approfondire il valore intellettuale e filosofico della figura di Eduardo Nicol.

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In Historicismo y existencialismo, seguendo il filo conduttore del con-flitto della ragione con la storia, da Parmenide fino a Heidegger, Nicolaffronta una serie di temi e di questioni, come il rapporto tra indivi-dualità e comunità o le relazioni tra storia e salvezza, etica e politica,temporalità e conoscenza, con la conseguente critica del solipsismo, delnichilismo e del naturalismo.

L’intento fondamentale di Nicol è quello di «darle la vuelta» siaallo storicismo che all’esistenzialismo; e «darle la vuelta» è qui assuntonel senso di un’operazione ermeneutica, che corrisponde a quell’atteg-giamento critico che è la Wiederholung heideggeriana: non la sempliceripetizione, non la pura ripresa di un tema, ma la ripresa deliberata perla valutazione e lo svolgimento delle possibilità effettive e del signifi-cato intrinseco di queste due correnti filosofiche, che Nicol giudica diimportanza centrale nella storia del pensiero. «Darle la vuelta» quindicome «ripetizione» e «superamento»: «Sapere da dove proviene unafilosofia, quali connessioni ha con le altre del suo tempo, e con il tem-po stesso, come epoca storica; qual è la sua idea direttrice – tutto questonon lo si ottiene se non superando il suo livello».2

Se uno dei problemi centrali della teoria della conoscenza nel No-vecento è quello di ripensare il nesso tra identità e dinamicità, tra unitàe pluralità e, in definitiva, tra essere e tempo, allora merito dello stori-cismo e dell’esistenzialismo è l’avere proposto un’inedita considera-zione della temporalità e, pertanto, della pluralità, ovvero della dina-micità dell’individuale. Nicol riconosce a Dilthey, nel fondare la scien-za storica, l’impegno di dare inizio ad una scienza rigorosa dell’indivi-duale, di contro alla svalutazione tradizionale dell’individualità comeciò che, privo di leggi e costanti, non avrebbe potuto appartenere al ter-ritorio della razionalità. E se lo storicismo posthegeliano ha posto ilproblema di uno statuto logico ed epistemologico dell’individualità, laconsiderazione temporale dell’essere, propria dell’esistenzialismo, hapoi condotto in maniera radicale l’analisi dell’«individualità ontica, cheè il Dasein». Nondimeno Nicol ritiene che sia giunto il momento diapportare una correzione al modo in cui queste due filosofie hanno ri-

2. E. Nicol, Historicismo y existencialismo. La temporalidad del ser y la razón, Fondo de Cul-tura Económica, México 1950. Il passo citato da quest’opera, da me tradotto, è tratto dallaristampa della terza edizione (1989), apparsa sempre nella Collana filosofica del Fondo deCultura Económica, p. 14.

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solto il problema della connessione dell’individualità con la comunità:ed è questo un compito che, iniziato con La idea del hombre, prosegue inHistoricismo y existencialismo.

Nicol ritiene che occorra riproporre, ancora una volta, la questionedel fondamento ontologico della storicità, una questione peraltro «ab-bandonata da Dilthey», nonché ampliare l’idea della storicità dell’es-sere, «correggendo, dove era necessario, la concezione di Heidegger,cioè, ponendo allo scoperto il presupposto dell’individualità assoluta diquesto essere storico». In un altro passo della sua opera, Nicol osserva:«Lo storicismo di Dilthey prescinde dal carattere ontologico dell’esserestorico, l’esistenzialismo di Heidegger prescinde dalla dimensione sto-rica generale dell’esistenza. Occorreva portare ancor più agli estremi ilconcetto della storicità dell’umano, perché comprendesse persino l’in-dividualità dell’essere».3

In realtà, per Nicol, tanto lo storicismo, quanto l’esistenzialismopresentano un vizio di fondo: l’esistenzialismo, con la sua attenzionepeculiare all’esistenza singola, finirebbe col perdere di vista la connes-sione tra individuo e comunità; d’altra parte, nel seno dello storicismosi anniderebbe quel relativismo distruttore del senso stesso dell’esi-stenza singola inserita nella comunità.

Questi, tuttavia, sono solo alcuni dei molteplici temi e problemi cheil pensatore catalano ha sviluppato nell’intero arco della sua riflessione.

Orbene, molto opportunamente Stefano Santasilia, che studia datempo in maniera appassionata la filosofia latinoamericana, riprende edelucida, nel presente volume, i caposaldi fondamentali del pensiero diEduardo Nicol.

Un’analisi del percorso filosofico nicoliano deve iniziare, a suoparere, a partire da tre momenti centrali: l’analisi dell’esistenza, la pro-blematica della storicità, la costituzione ontologica dell’uomo. Riguar-do al primo tema, Santasilia ritiene opportuno rimarcare la distanza diNicol rispetto ad altri protagonisti della storia del pensiero, dal mo-mento che nell’opera del pensatore catalano emerge la singolare tesiper la quale l’idea che l’uomo elabora riguardo se stesso costituisce in«atto» l’espressione del proprio essere e, in quanto tale, assumerebbeun carattere «performativo» nel momento stesso in cui viene formula-ta e comunicata; proprio per questo motivo, qualsiasi dibattito riguar-

3. E. Nicol, Historicismo y existencialismo, cit., p. 304.

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dante l’esistente uomo nella storia non può non iniziare con un’indagi-ne riguardante le categorie fondamentali che regolano la sua esistenza.

Santasilia ritiene di grande importanza il punto di avvio dellaquestione antropologica in Nicol, che coincide con la pubblicazione,nel 1941, della Psicología de las situaciones vitales, testo il cui intento èquello di condurre un’analisi, quanto più approfondita possibile,riguardo l’esistenza dell’uomo: la psicologia si mostrerebbe non piùcome una scienza della natura, composta di tecniche di calcolo evalutazioni, ma delineerebbe un’analisi del modo in cui l’uomo stessoconcepisce la propria ek-sistenza: una psicologia intesa come saber delhombre non è per Nicol qualcosa di rivoluzionario, anzi essa è un’au-tentica creazione perché non è mai esistita e il suo intento, come asse-risce lo stesso Nicol, «non deve consistere nell’avanzare solamenteanalisi concrete dell’indole indicata, ma nel dare avvio a queste stessepartendo da una struttura di base articolata e rigorosamente costituitada concetti che inquadrino il campo di quella vita umana che bisognacomprendere e, infine, il campo stesso della psicologia».4

Nel seguire lo sviluppo di quest’opera, Santasilia rimarca i punticentrali di questa prima tappa della riflessione nicoliana riguardantel’uomo: la critica del soggetto, cartesianamente concepito, e l’indivi-duazione di una nuova categoria che permetta una comprensione piùchiara e completa di come si strutturi l’esistere umano, cioè la situa-zione.

A partire dalla situazione come espressione della relazione conl’altro o l’“alterità”, l’analisi nicoliana mostra come il valore delle si-tuazioni sia legato alla qualità stessa delle relazioni. Tale valore è giàespressione della situazione, sebbene sia soggetto a cambiamento. Se lasituazione è sempre espressiva, è perchè l’uomo stesso è espressione:espressione di se stesso in quanto essere-in-situazione. La teoria dellesituazioni vitali rimanda peraltro continuamente ad un nodo teoricocentrale: la questione del mutamento delle stesse situazioni, una que-stione che si radica nella storicità costitutiva dell’uomo.

Il problema della storicità del hombre è il secondo motivo fonda-mentale del pensiero nicoliano che Santasilia sviluppa, seguendone leimplicazioni teoretiche. La temporalità, che costituisce il cuore stesso

4. E. Nicol, Psicología científica y psicología situacional, in Id., La vocación humana, LecturasMexicanas, México 1997² (ristampa della prima edizione del 1953), p. 206.

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della soggettività non compromette la stabilità dell’ “io” e la sua mismi-dad, anzi la sviluppa. La mismidad vuole indicare semplicemente il sog-getto come dinamico, fondandosi il nostro stesso esistere sulla possibi-lità del cambiamento: appunto perché l’uomo è “essere storico”, puòriconoscersi come mismidad ed espressione. Ciò che avviene per l’indi-viduo ha valore anche per la comunità degli uomini.

Nel riprendere il confronto di Nicol con le correnti di pensieroesistenzialista e storicista, Santasilia evidenzia particolarmente, nelpensatore catalano, un’idea di ragione legata alla vita. Se la ragione de-ve essere legata, anzi radicata nella vita, allora pensare la realtà devesignificare pensarla razionalmente, nel senso del logon didonai, di darneragione, individuarne la forma stabile. Tuttavia, la ricerca della formaregolare del cambiamento non consiste in una razionalizzazione dellastoria, ma nel ritrovare nel corso stesso degli eventi delle costanti“storiche”. La ricerca della “forma” della storia mostrerebbe, così, cheil cambiamento stesso si fonda sulle categorie di base dell’esistenza eche queste hanno un valore fondamentalmente ontologico. È pertantonecessario stabilire una morfologia della storia, e tutto ciò implica unanuova idea dell’essere dell’uomo. L’uomo è l’essere che, auto-definen-dosi, modifica di volta in volta se stesso, vale a dire: la storicità del-l’uomo è, di per sé, la forma del suo essere, ossia il suo stesso manife-starsi come continuo cambiamento. La conoscenza che l’uomo ha di sée degli altri uomini differisce in maniera fondamentale da quella cheriguarda ogni altro ente; vero è che una sorta di “familiarità ontolo-gica” gli consente di ri-conoscere l’altro uomo in maniera immediata.È appunto la familiarità ontologica che permette di riconoscere l’altrouomo come prossimo, in base a una co-partecipazione nell’essere che siesplica in forma di dialogo. D’altra parte, la stessa familiarità ci mostraquanto sia problematico conoscere l’individualità del prossimo.Tuttavia, la questione dell’essere dell’uomo non può essere consideratasolo dal punto di vista esistenziale, bensì anche ad un livello più radi-cale, quello ontologico.

L’ultimo capitolo del libro, dedicato appunto alla questione dellacostituzione ontologica dell’uomo, ha inizio con una critica della ragio-ne attraverso la quale Nicol si confronta col pensiero di alcuniesponenti della filosofia contemporanea – con Bergson per quanto ri-guarda il rapporto tra ragione e vita; con Dilthey e Ortega y Gasset per

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quanto riguarda il rapporto tra ragione e storia; e con Heidegger perquanto riguarda l’analisi dell’esistenza –, al fine di enucleare la sua ideadi metodologia necessaria allo studio dell’essere dell’uomo. Da taleindagine risulta evidente, per Santasilia, la nicoliana idea di ragionecome ragione “storica” in quanto fondata nella storicità che caratte-rizza l’esistenza umana, e “vitale” perchè espressione della vita stessa;tale ragione non può essere che “comunitaria” e, appunto per ciò, ènecessaria una critica che conduca alla corretta metodo-logia: «Questacomunità della ragione è il punto decisivo. Assente questa, il metodonon avrebbe senso, e il metodo è la condizione che la filosofia stabilisceaffinché sia efficace la conoscenza oggettiva. Senza metodo-logia il lo-gos può essere arbitrario. Condotta con metodo, la ragione può portareall’errore, ma mai all’arbitrarietà. Chi decide di impiegare un metodo,con esso depura il proprio pensiero da qualsiasi interesse soggettivo. Ilmetodo non è un mero tecnicismo, uno strumento di lavoro, ma segnodi una forma vocazionale della vita, di un atteggiamento assunto difronte alla realtà e al prossimo. Il metodo è ragione vitale perché formaparte dell’ethos della scienza».5

Il “contro-discorso” del metodo, elaborato da Nicol, ha lo scopo dimostrare l’unica possibile analisi metodo-logica dell’esistenza: unicaperchè il metodo non è che il manifestarsi delle caratteristiche dellaragione, del suo stesso essere. Per tale motivo, il metodo non potrà cheessere fenomenologico, sebbene fondato su una peculiare concezionedella fenomenologia, che rifiuta il “sospendere la questione dell’esi-stenza del mondo” tipico dell’epoché husserliana: l’autentica fenome-nologia, nella prospettiva nicoliana – rileva giustamente Santasilia –deve partire dall’affermazione che “l’essere non è problema, ma dato”.

«L’errore metodologico che ha costretto i filosofi ad intraprenderesentieri contorti al fine di costituire l’ontologia dell’occultamentodell’essere, consiste nell’aver creduto, a causa della temporalità ineren-te all’esistenza degli enti, che l’essere come assoluto non si manifestas-se sin dall’inizio, che non fosse dato primario. Il nuovo discorso sulmetodo elimina l’essere come problema, riconoscendolo come eviden-za primaria: “la tesi dell’immediatezza dell’assoluto non è una verità,né può essere definita tesi; non è che il riconoscimento filosofico di

5. E. Nicol, El falso problema de la intercomunicación [1958], in E. Nicol, Ideas de variolinaje, UNAM, México 1990, p. 154.

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un’esperienza comune”. Se è esperienza che fa ogni uomo, “non si ri-chiede alcun metodo per giungere all’assoluto; non c’è bisogno di giun-gervi: siamo nell’assoluto”».6 Il metodo fenomenologico, allora, dovràriconoscere la costitutiva dialettica storica dell’esistenza che è, inrealtà, manifestazione della ragione stessa.

Solo il metodo filosofico che dovrà essere fenomenologico e, allostesso tempo, dialettico, permette di conoscere l’uomo nella sua auten-tica struttura, ossia come essere dell’espressione: tale condizione, chemostra la realtà della scienza nella sua essenza dia-logica, aggiunge almetodo la sua ultima connotazione fondamentale, quella di essereermeneutico. L’uomo è sempre in dialogo, da intendersi come logoscondiviso. Tutto ciò che afferma, lo afferma in virtù di un dialogo: sel’uomo è l’essere dell’espressione, è perchè è espressione esso stesso.Per questa ragione, si può parlare di metafisica solo nei termini di unaMetafísica de la expresión.

In definitiva, per la vastità dei temi trattati e lo sviluppo problema-tico delle questioni ad essi connesse, dobbiamo riconoscere al presentevolume il merito non solo di una ricostruzione storiografica attenta,con serietà filologica, al rispetto testuale di uno dei momenti più altidel pensiero latinoamericano, ma anche di una esegesi animata dapassione riflessiva.

Pio Colonnello

6. Cfr. pagina 154 del presente volume. Le citazioni comprese tra virgolette ad apice so-no tratte da E. Nicol, Crítica de la razón simbólica, FCE, México, 2001², p. 163.

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Tavola delle abbreviazioni.

CRS = Crítica de la razón simbólica, FCE, México 2001².HE = Historicismo y existencialismo, FCE, México 1989².IH = La idea del hombre, Herder, México 2004² (ristampa della prima edizione del

1946).IH2 = La idea del hombre, FCE, México 1977² (seconda edizione modificata dallo

stesso autore).ME = Metafísica de la expresión, FCE, México 1957.ME2 = Metafísica de la expresion, FCE, México 1974² (seconda edizione modificata

dallo stesso autore); per quanto riguarda le citazioni tratte da tale testo ci riferiremoalla traduzione italiana, E. Nicol, Metafisica dell’espressione, traduzione a cura di MariaLida Mollo, Città del Sole, Napoli 2007.

PFH = El problema de la filosofía hispánica, Tecnos, Madrid 1961; per quanto riguar-da le citazioni tratte da tale testo ci riferiremo alla traduzione italiana, E. Nicol, Ilproblema della filosofia ispanica, traduzione a cura di Michele Porciello, Città del Sole,Napoli 2007 (traduzione condotta sulla seconda edizione dell’opera: El problema de lafilosofía hispánica, FCE, México 1998²).

PSV = Psicología de las situaciones vitales, FCE, México 1996³ (ristampa della se-conda edizione del 1963, che riportava un nuovo prologo e nuove note rispetto allaprima del 1941).

VH = La vocación humana, Lecturas Mexicanas, México 1997² (ristampa dellaprima edizione del 1953).

Tutte le citazioni tratte da opere in lingua spagnola, ove la traduzione italiana non siaesplicitamente indicata, sono state tradotte dall’autore del presente lavoro.

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T R A M E T A F I S I C A E S T O R I A .L ’ I D E A D E L L ’ U O M O I N E D U A R D O N I C O L

A mio cugino Paolo,prima radice di ogni mio profondo riflettere

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Introduzione.L’uomo ha ideato l’uomo

Hay mil verdades, el error es uno(N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implicito)

«L’uomo ha da sempre creato immagini per conoscere, o meglio co-noscersi, nella consapevolezza di non essere mai dato a se stesso unavolta per tutte, ma di doversi continuamente definire, spinto dalla ne-cessità di agire, di realizzarsi, di completarsi attraverso il proprio ope-rare. Riflettere sulle immagini dell’uomo che sono emerse nel pensierofilosofico occidentale è indispensabile per chiunque voglia descrivere lecaratteristiche di una determinata epoca e gli elementi che la differen-ziano da tutte le altre. Inoltre, senza partire da un’analisi di ciò chel’uomo ha pensato di se stesso, non gli sarebbe possibile progettarsi e,così, incamminarsi verso il futuro».1 L’idea dell’uomo si presenta comeun prodotto particolare: è formulata dall’uomo affinché gli permetta diconoscer-si più profondamente. È l’idea che accompagna la storia uma-na perché risultato e stimolo allo stesso tempo. L’indefinibilità che lacaratterizza è indice del tentativo umano di conoscere il quid che di-stingue l’uomo tra tutti gli esseri. L’uomo insegue la definizione di sé,quasi attendendo il sopraggiungere di un momento in cui questa possaessere individuata in maniera definitiva. La storia ha mostrato, finora,che la condizione umana si manifesta e realizza in questo “inseguire”che non giunge mai al proprio scopo, cosa resasi evidente soprattuttonella nostra epoca caratterizzata da profonde problematiche intercultu-rali2: «riflettere sull'uomo non è più, primariamente, conoscere se stessi,ma rendere ragione della persino imbarazzante pluralità dei modi di

1. M. T. Pansera, Antropologia filosofica, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 3.2. Riguardo al dibattito interculturale sviluppatosi negli ultimi anni, la bibliografia da

citare, anche solo per quel che riguarda il punto di vista filosofico, risulta sterminata. Cilimitiamo pertanto a rimandare, come introduzione alla questione, al testo curato da Giu-seppe Cacciatore e Giuseppe D’Anna, Interculturalità. Tra etica e politica, Carocci, Roma2010, che riporta in appendice una bibliografia ragionata estremamente accurata.

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darsi dell'uomo, relativamente agli altri uomini e agli esseri simili a noiper struttura fisica e comportamento».3 Di fronte a tale situazione sipuò decidere di abbandonare la ricerca e considerare vano ogni tentati-vo d’indagine ma qualsiasi problematica riguardante la convivenza so-ciale riporterà alla questione abbandonata. Il problema è che l’uomo sipercepisce come «il massimo segreto cosmico» che, allo stesso tempo, è«il più vicino a noi».4 L’idea dell’uomo, allora, si mostra come la possi-bilità di conoscer-si, di comprender-si, e, in base a ciò, di realizzare lapropria esistenza. Come è possibile, però, giungere ad una idea dell’uo-mo definitiva se nel corso della storia ne sono state formulate varie edifferenti fra loro? In questo caso, la legittimità di tale idea potrà essereassicurata solo da una formulazione che consideri l’uomo nella sua sto-ricità costitutiva. Se l’uomo si ri-conosce come uomo lungo il corso deisecoli, e in tal modo ri-conosce, come propri prodotti, i prodotti cultu-rali appartenenti ad altre epoche, deve poter esistere una formadell’uomo che comprenda in sé la sua storicità, non come caratteristicaaccidentale ma come componente costitutiva la soggettività stessa.

A tale ricerca è volta l’indagine di Eduardo Nicol, a partire dall’esi-stenza dell’uomo analizzata attraverso la sua vita interiore fino al ri-volgersi alla questione del suo stesso essere. Così, il presente lavoro diricerca si svolgerà ripercorrendo la strada segnata dal solco di tale ri-flessione. Per questo motivo, sarà necessario soffermarsi sulla figura diEduardo Nicol e sulla sua idea di filosofia, intesa come scienza deiprincipi primi: scienza che riconosce il dato primario e che lo assumecome punto di partenza indiscutibile. Solo a partire da tale compren-sione del sapere filosofico è possibile, infatti, operare la distinzione traciò che è riflessione sull’uomo e sulla realtà, e ciò che invece è ideolo-gia. Distinzione, questa, che introduce alla riflessione nicoliana sull’esi-stenza umana, rivolta alla formulazione di quelle categorie che, secon-do il nostro pensatore, possono permettercene la comprensione. Attra-verso tale comprensione sarà, dunque, possibile giungere a cogliere lastoricità come componente costitutiva dell’umano esistere. Storicitàche è tratto fondamentale della vita individuale e della vita comunita-ria, quindi scaturigine della stessa storia. L’idea dell’uomo, dunque, co-

3. R. Martinelli, Uomo, natura, mondo, il Mulino, Bologna 2004, p. 7.4. K. G. Jung, Realtà dell’anima, Bollati Boringhieri, Torino 1970, p. 7.

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stituisce il punto in cui si incrociano storia individuale e storia colletti-va: è per questo espressione di una precisa cultura.

Questo, però, non spiega come mai l’uomo abbia la necessità diformulare tale idea, e come si esplichi la sua storicità costitutiva. A talequestione sarà dedicata particolare attenzione nella conclusione delpresente lavoro, al fine di mostrare come, secondo Eduardo Nicol, ogniriflessione sull’uomo – e l’idea dell’uomo non è che il frutto di tale ri-flessione – debba obbligatoriamente condurre a porsi la domanda circal’essere stesso del soggetto.

Dal momento che «l’uomo è colui che domanda, colui che può e de-ve domandare»,5 il suo interrogare non potrà essere altro dall’espres-sione del suo stesso essere e dall’idea che ha di sé. Conoscere l’ideadell’uomo, come la necessaria espressione dell’umana esistenza nel suocomune ri-conoscersi e modificarsi, è l’intento stesso che muove tuttala riflessione nicoliana. Intento che, a nostro parere, vale la pena ana-lizzare a fondo.

Prima di lasciare al lettore la possibilità di immergersi nell’itine-rario delineato dalle pagine seguenti, ritengo mio piacere e dovere ilringraziare coloro che, in maniera sempre personale e particolare, han-no contribuito alla realizzazione di questo lavoro.

Ringrazio, in primo luogo, doña Alicia Nicol per aver creduto in mecome studioso e amico ed avermi accolto nella sua casa mettendomi aparte di ciò che è stata la genesi intima ed esistenziale dell’opera nico-liana, nonché permettendomi la consultazione delle opere della biblio-teca personale del filosofo catalano. Verso un tale dono il semplice rin-graziare è sempre un gesto manchevole.

Ringrazio i professori Maria Luisa Santos, José Luis Mora, LizbethSagols, Mauricio Beuchot, Alberto Constante, Elizabeth Padilla, Ale-jandro Gutiérrez Robles, Jorge Velázquez Delgado, Ricardo Horneffer,Eduardo González Di Pierro, per avermi accolto con simpatia e fiduciaed avermi guidato durante i miei periodi di studio in Spagna e in Mes-sico.

Ringrazio coloro che, con forte senso di amicizia e partecipazione,mi sono stati vicini lungo il cammino della mia formazione filosofica enon; tra questi un pensiero particolare va a Mario Acerra, Raffaele

5. E. Coreth, Antropologia filosofica, Morcelliana, Brescia 2000, p. 9.

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Carbone, Agostino Cera, Andrea Di Miele, Felice Masi, Massimo DiLillo e, nello specifico, a Rosario Diana, per l’attenzione che ha sempremostrato nei miei confronti come amico e come studioso, a María LidaMollo, per il tempo dedicatomi nel discutere e riflettere insieme sugliaspetti problematici della proposta nicoliana, ad Armando Mascolo, perla vicinanza affettiva ed accademica mai venuta meno, a GiuseppeD’Anna, per il senso di fraternità esplicitato nei miei confronti e laprofonda attenzione mostrata verso il mio lavoro, ad Arturo Aguirre,per l’amicizia che ci ha legato fin dal primo momento in cui abbiamoiniziato a dialogare .

Ringrazio il prof. Luis De Llera e il prof. Giuseppe Cacciatore peraver accolto questo scritto nella collana da loro diretta. In particolare,ringrazio quest’ultimo perché in questi anni di collaborazione hasaputo insegnarmi qualcosa che va al di là della mera relazionelavorativa, un sentimento di collaborazione e di attenzione, unadisposizione che non può essere descritta se non come vocación humana.

Ringrazio il prof. Pio Colonnello, per l’amicizia, la fiducia e la pro-fonda attenzione che ha sempre mostrato nei miei confronti, comeamico e come studioso. Per avere creduto in me ed aver scelto di segui-re i miei studi personalmente, indirizzandomi in maniera sempre pre-cisa e fruttuosa. A lui il mio più sentito grazie, ben consapevole di avercontratto un debito impagabile attraverso una philía di cui sono pro-fondamente onorato.

Infine, ringrazio i miei genitori e mio fratello, senza i quali non sa-rebbe stato possibile nulla di tutto ciò, e Paola che, al di là delle diffe-renti modalità del nostro incontrarci, ha sempre saputo essere un ap-poggio vivo e sentito.

Madrid, Pasqua 2010Stefano Santasilia

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Capitolo I.Eduardo Nicol: filosofia come “vocación”

El hombre es el ser preocupado(E. Nicol, Formas de hablar sublimes: poesía y filosofía)

«La vita del Dott. Nicol è stata caratterizzata dal suo impegno vo-cazionale, dal suo essere pienamente concentrato nell’impegno filoso-fico, che è stato esercitato con medesima intensità, nei suoi due campiprincipali: la ricerca e l’insegnamento».1 Una vocazione, quella di Ni-col, più precisamente una “vocazione filosofica”. Vocazione comeespressione e realizzazione del proprio essere uomo, filosofica perché sisviluppa e risolve nella ricerca e nella comunicazione (nel dialogoquindi) che questa implica. Vocazione, espressione, termini che già dasubito2 caratterizzano la speculazione del pensatore catalano, il qualetrovò nel suolo latinoamericano il punto di approdo dell’esilio a cui fucostretto dalle sue idee politiche. Un esilio che lo spinse ad abbandona-re, non senza lotta,3 la Spagna, sua patria (in particolare Barcelona,quindi la Catalunya) e a trasferirsi oltreoceano, nello specifico in Mes-sico, dove si stabilirà definitivamente portando a termine la sua for-mazione accademica, svolgendo attività didattica e divenendo uno deipiù importanti pensatori contemporanei. Una vocazione, allora, che,

1. J. González, Palabras de homenaje, in J. González, L. Sagols (eds.), El ser y la expresión,UNAM, México 1990, p. 17.

2. Non è necessario attendere la pubblicazione, nel 1957, della Metafísica de la expresión(dalla critica generalmente considerata come l’opera fondamentale del pensatore catalano);basta dare uno sguardo alle pagine centrali della sua prima opera, la Psicología de las situacio-nes vitales pubblicata nel 1941, per rendersi conto dell’importanza che questi termini rico-prono nell’ambito del pensiero di Nicol.

3. Lo stesso Nicol, in un’intervista, afferma di aver attraversato il confine tra Spagna eFrancia, all’indomani della sconfitta repubblicana, la derrota del 1939, «in carovana, in uni-forme e con le armi», dove con tale espressione vuole intendere «che eravamo sconfitti, manon umiliati», in Eduard Nicol, pensador catalán. Diálogo con Xavier Rubert de Ventós in Eduar-do Nicol. La filosofía como razón simbólica, «Anthropos», Extra 3 (1998), numero monograficodedicato ad Eduardo Nicol, p. 19.

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mutuando il titolo di un articolo scritto dalla stessa moglie di Nicol,doña Alicia Rodriguez de Nicol, è vocación cumplida.4

È proprio il rispetto dovuto a tale vocazione e a chi, come testimoneprivilegiato, può darcene conferma, che ci invita a non spingerci oltrenelle considerazioni biografiche riguardanti Eduardo Nicol proprionell’ottemperanza verso alcune precise affermazioni dello stesso pen-satore. Nell’articolo citato, doña Alicia afferma che

quando qualche persona vicina mi suggerisce di scrivere la biografia di miomarito, mi vengono alla memoria le risposte che lui stesso dava in questi casi:“la mia biografia è nei miei libri”; o anche “una cosa è situare un’opera nelquadro teorico di un’epoca (o nel corso generale della storia), altra cosa è si-tuare l’autore in un determinato ambiente. Ciò che si dice riguardo questo è“conversazione familiare”. Non bisogna prestar loro molta attenzione.L’ambito della filosofia non è “familiare”.5

E ancora

Ho sempre creduto che fosse conveniente eliminare una volta per tutte quellainclinazione ispanica per il personale e l’aneddotico, propria di un mondo po-co avvezzo alla disciplina scientifica. Le questioni personali possono esserepertinenti se si tratta dell’analisi di un’ideologia; al contrario, sono qualcosadi estrinseco e perturbatore quando si tratta della “filosofia come scienza ri-gorosa”, per dirlo con la consacrata formula di Husserl.6

Come Heidegger affermò riguardo Aristotele, anche per Nicolsembra che non resti da dire altro se non che nacque, lavorò e morì.7 A

4. A. R. de Nicol, Eduardo Nicol. La vocación cumplida, in Eduardo Nicol. La filosofía comorazón simbólica, cit., p. 46.

5. Ibidem.6. Ibidem. Nicol conferma l’affermazione di Husserl per il quale nella scienza rigorosa

non vi deve essere «spazio alcuno per “opinioni”, “intuizioni” e “punti di vista” privati.Nella misura in cui, tuttavia, vi è in un ambito particolare qualcosa di analogo, la scienza inquestione non è ancora divenuta scienza, ma è in via di divenirlo» (E. Husserl, La filosofiacome scienza rigorosa [1959], Laterza, Roma-Bari 2005, p. 6). È pur vero che non sarebbe cor-retto procedere nell’analisi del pensiero nicoliano senza fornire alcune minime indicazioniche permettano al lettore di collocare la vita e la produzione filosofica di Eduardo Nicol inun preciso intervallo spazio-temporale; a tal proposito si rimanda alla nota bio-bibliograficasituata in chiusura di volume.

7. L’affermazione di Heidegger è riportata in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger,Laterza, Roma-Bari 2002, p. 4.

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maggior ragione se lo stesso pensatore insiste sul fatto che «quanto piùserio è un lavoro, meno ha importanza la persona dell’autore».8 Se, pe-rò, come nel caso di Eduardo Nicol, «la filosofia è una vocazione umana,non è una vocazione professionale, ma una maniera di essere uomo»,9

allora conoscere lo stesso uomo permetterà di conoscere più a fondo ilsuo pensiero o, almeno, di individuare concetti e termini particolari cheassumono poi, nell’ambito della sua riflessione prettamente teoretica,una notevole importanza, la cui eco si diffonde in quell’ambito da luistesso definito casero. Questo significa tentare di distillare da alcuneaffermazioni dello stesso pensatore quei nodi problematici che, essendoparte fondamentale della sua vita intellettuale, ci sia concesso dire“situazione vitale”, costituiscono la trama della sua riflessione mo-strando quanto la teoria fosse legata alla praxis. In tal maniera sarà pos-sibile già entrare come nell’anticamera di ciò che costituisce lo sviluppodel suo pensiero, reso esplicito nelle sue opere.

«Che il dolore e il travaglio e alcune tormentate vicissitudini dell’e-sistenza, come l’esilio, possano costituire il momento privilegiato diuna maturazione intellettuale e che talora dall’esperienza delle situa-zioni-limite derivi la genesi di una peculiare “visione del mondo”, puòsembrare un trito luogo comune»,10 e in effetti, data la mole della lette-ratura ormai presente sull’argomento,11 non crediamo sia il caso di ri-

8. A. R. de Nicol, Eduardo Nicol. La vocación cumplida, in Eduardo Nicol. La filosofía comorazón simbólica, cit., p. 46. Per un approfondimento riguardo la formazione intellettuale diEduardo Nicol ci si può riferire, inoltre, anche alle opere di J.L. Abellán, El exilio filosófico enAmerica: los transterrados de 1939, FCE, Madrid 1998 e Historia crítica del pensamiento español, 5voll., Espasa-Calpe, Madrid 1979-1991. Una piccola biografia intellettuale è contenuta anchein M. González García, El hombre y la historia en Eduardo Nicol, Universidad Pontificia deSalamanca, Salamanca 1988.

9. A. Mora, La filosofía de Eduardo Nicol. Una introducción, in Eduardo Nicol. La filosofíacomo razón simbólica, cit., p. 17.

10. P. Colonnello, Tra fenomenologia e filosofia dell’esistenza. Saggio su José Gaos, Morano,Napoli 1990, p. 5.

11. Riguardo l’esilio degli intellettuali spagnoli a causa della sconfitta repubblicana del’39 v’è una vasta letteratura, qui ci limitiamo a segnalare alcuni testi, riguardanti per lo piùl’ambito degli studi filosofici: J. L. Abellán, Filosofía española en America (1936-1955), Guadar-rama, Madrid 1966; Id., El exilio filosófico en America: los transterrados de 1939, cit.; J. IzquierdoOrtega, Pensadores españoles fuera de España, «Cuadernos Americanos», enero-febrero (1965);J. L. Abellán, Panorama de la filosofía española actual. Una situación escandalosa, Espasa-Calpe,Madrid 1978; AA.VV., El exilio español en México 1932-1982, FCE, México 1983; J. L. Abellán –A. Monclús, El pensamiento español contemporáneo y la idea de America, 2 voll., Anthropos,Barcelona 1985; G. Vargas Lozano (cur.), Cincuenta años de exilio español en México, Univer-sidad Autónoma de Tlaxcala, México 1991; L. De Llera, I. Buonafalce, L’esilio repubblicano

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tornare su tale questione dal punto di vista generale o meramente bio-grafico. C’è però un punto che ci sembra giusto considerare: il modo,abbastanza peculiare, in cui Eduardo Nicol ha percepito il suo destierro.Insistiamo sulla parola destierro proprio perché il nostro filosofo nonconsidera valida la categoria di trans-tierro. In José Gaos,12 che coniòil termine, transterrado «è un’inflessione determinante nella costanteallusione che gli esiliati fanno della propria condizione, un’inflessioneche fa sì che si dia una attestazione storica del fatto che lo schema ge-nerale dell’esilio come partenza che deve tornare al suo punto di origi-ne non è necessariamente l’unica possibile interpretazione».13 Questopuò essere considerato valido anche per quel che riguarda l’esperienzaesistenziale di Eduardo Nicol ma, come ribadisce Monclús, tale espres-sione porta con sé determinate esperienze cariche di significato che nonsono le stesse per tutti gli esiliati. Infatti, la decisione di non ritornarenella propria patria non sempre è indice dell’aver accettato il destierrosemplicemente come un passaggio. Mentre Gaos afferma che la condi-zione dei filosofi spagnoli in America Latina non è il destierro ma iltranstierro,14 formulando, come ricorda Abellán «la sua teoria delle duepatrie: quella di ‘origine’, che ci è data per un caso che trascende ognidecisione personale, e la patria ‘del destino’, liberamente scelta, perchécoincida con il progetto di vita che volontariamente ci siamo impo-sti»,15 esiste una parte di esiliati che non considera affatto la possibilitàdi una “patria del destino” e che reagisce in diverse maniere alla situa-zione, anche scegliendo di non voler più tornare in patria.16

del 1936 in Messico: filosofia e identità del pensiero in lingua spagnola, «Cultura Latinoamerica-na» Annali dell’ISLA, 1-2 (1999-2000), pp. 399-437. Per uno sguardo più ampio sulla que-stione dell’esilio “repubblicano” rinviamo a L. De Llera, El último exilio español en América,Mapfre, Madrid 1996 e A. Sanchéz Cuervo, Las huellas del exilio, Tebar, Madrid 2008.

12. José Gaos, allievo di José Ortega y Gasset, può essere considerato uno dei più im-portanti tra i filosofi spagnoli esiliati che scelsero di trasferirsi in America Latina. Riguardola sua vita e la sua opera ci permettiamo di rimandare al già citato testo di Pio Colonnello,Tra fenomenologia e filosofia dell’esistenza. Saggio su José Gaos, e alle due opere che Vera Ya-muni dedica al pensatore transterrado: José Gaos. El hombre y su pensamiento, UNAM, México1980 e José Gaos, su filosofía, UNAM, México 1989.

13. A. Monclús, José Gaos y el significado de «transterrado», in J. L. Abellán – A. Monclús,El pensamiento español contemporáneo y la idea de America, cit., vol. 2, p. 37.

14. J. Gaos, Los «transterrados» españoles de la filosofía en México, «Filosofía y Letras»,Revista de la Universidad de México, 36 (1949).

15. J. L. Abellán, Panorama de la filosofía española actual, cit., p. 123.16. Caso drammatico è, per esempio, quello di Eugenio Ímaz che morirà suicida, deluso

profondamente dal perdurare del franchismo dopo la seconda guerra mondiale. Altra re-

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Come, dunque, si chiede De Llera, si può davvero applicare a tuttigli esiliati in questione il termine di transterrado, oppure si tratta di unconcetto restrittivo che, come nel caso di Gaos, si radica in un’espe-rienza estremamente personale?17

Quanto detto non mette in ombra il merito di uno Stato, quellomessicano, che si impegnò nell’accogliere e permettere a tanti talenti,filosofici e non, di poter continuare a svolgere le proprie ricerche, ga-rantendo loro quella stabilità necessaria al fine di riprendere e svilup-pare il proprio lavoro. Vale, dunque, la pena di soffermarci un momen-to sulla peculiare esperienza di Nicol, poiché in un pensiero che è«congiunzione di filosofia e vita»,18 il rapportarsi con un avvenimentodecisivo per la propria storia mostra, anche se in maniera sfocata, già ilineamenti della propria concezione della temporalità. La domanda ini-ziale è questa: è possibile secondo Nicol considerare, come fa Gaos, lapatria autentica non quella da cui si proviene come da un passato giàaccaduto, mentre quella verso cui ci si dirige come un futuro da farsi?19

La risposta la possiamo trovare nel discorso che lo stesso Nicol presen-tò alla chiusura del Homenaje organizzato nel 1989 da partedell’Universidad Nacional Autónoma de México in onore dei Profes-sori Emeriti Spagnoli rifugiatisi in Messico:

azione è quella di María Zambrano, la quale pur tornando in Spagna, descrive l’esilio comela stessa possibilità di fedeltà alla propria terra, condizione che non si riferisce solo al datostorico-autobiografico: «Y soy exiliada porque es la única forma que he tenido de serespañola», «Quizás es que uno nació exiliado» (Regreso de una exiliada, «El País», 27-11-1984,p. 27). Vale la pena di riferire la ripartizione in tre categorie, riguardante gli “esiliati”, cheAbellán fa nel suo, già citato, Panorama de la filosofía española actual: 1) coloro che prestano illoro appoggio incondizionato alla causa repubblicana e, perduta la guerra, lasciano la Spa-gna per non farvi più ritorno, quali per esempio José Gaos e Joaquín Xirau; 2) coloro chenon hanno la possibilità o si rifiutano di abbandonare la patria; c) coloro che si rifiutano dipartecipare al conflitto stesso emigrando dalla Spagna all’inizio della guerra civile, tra que-sti spiccano i nomi di Ortega y Gasset e Zubiri (pp. 115-116). Lo stesso Abellán riconosceche, come ogni schema, anche la sua tripartizione non può considerare in maniera precisatutte le differenze esistenti tra le singole esperienze individuali degli esiliati; risulta utile,però, come riferimento generale per poi entrare nell’ambito dello studio particolare riguar-dante ogni singolo pensatore.

17. Cfr. L. De Llera, El último exilio español en América, cit., p. 21.18. A. Sánchez Vázquez, Palabras de reconocimiento a Eduardo Nicol, in Eduardo Nicol. La

filosofía como razón simbólica, cit., p. 30.19. Cfr. J. Gaos, En torno a la filosofía méxicana, Alianza Méxicana, México 1980, p. 142.

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Non importa qui quello che potemmo fare o essere prima, lì. Noi nascemmonel 1939. Importa ora ciò che è accaduto dopo quella nascita, che ci allontana-va dalla madre, con una tristezza che non avrà fine né consolazione. Fu unparto doloroso. In alcuni provocò un sentimento incurabile di nostalgia. In al-tri, un desiderio di non pensarci più, di rivolgersi interamente al futuro. Perqualcuno, la solitudine e il pianto produsse come un concentrarsi interior-mente, una maniera di convertire la disperazione in tensione vitale, promo-trice di lavoro. Il lavoro diventava l’espressione del nostro ringraziamento, eallo stesso tempo un’orgogliosa rivendicazione dei nostri motivi; perché lacalunnia non terminò con la guerra, e ci accompagnò nell’esilio. Insomma:era un grande desiderio quello di servire quel paese che non ci chiedeva nien-te, e al quale, per questo motivo dovevamo dare tutto. E fummo fedeli.20

Pur essendo comune, tra Gaos e Nicol, l’accettazione del proprio“destino”, in quest’ultimo permane il senso di una separazione che èlacerazione non ricomponibile, che implica una nuova nascita. Non c’èuna continuità e la patria del destino, volendo impiegare la terminolo-gia gaosiana, non è tale grazie alla continuità culturale, ma grazieall’aiuto prestato, verso il quale si genera una forma di gratitudine cheNicol ben accentua in questo discorso, alla quale può vantarsi di averottemperato.21 «Nicol realizza in Messico quasi tutta l’opera che nonpoteva realizzare in patria; un’opera teoretica che, insieme al suo lavorodi docente all’UNAM gli ha permesso di servire il paese che con tantasolidarietà lo accolse», ma «questo non significa che il destierro sia statoper lui un semplice trans-tierro, o trapianto da una terra ad un’altra, […]la lacerazione dell’esilio non si chiude mai, né se si torna né se non siritorna […] “ciò che è decisivo non è stare – di qua o di là – ma come sista”».22

La scelta di Nicol è stata quella di rimanere nella “patria del desti-no” senza mai rinnegare il destierro, e, soprattutto, e forse qui si può

20. Discorso tenuto dallo stesso Nicol e riportato in J. González, Los maestros del exilioespañol: un modelo de enseñanza, in AA.VV., Maestros del exilio español, UNAM, México 1993,p. 9.

21. Durante la sua vita Eduardo Nicol rifiuterà l’offerta di trasferimento da partedell’Università di Yale e del governo spagnolo, motivando il rifiuto proprio con il fatto dinon poter abbandonare un paese che l’aveva accolto rendendogli possibile la realizzazionedella sua vocazione; tali notizie sono riportate in A. R. de Nicol, Eduardo Nicol. La vocacióncumplida, in Eduardo Nicol. La filosofía como razón simbólica, cit.

22. A. Sánchez Vázquez, Palabras de reconocimiento a Eduardo Nicol, in Eduardo Nicol. Lafilosofía como razón simbólica, cit., p. 31.

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individuare la radice del suo distanziarsi dalla concezione di José Gaos,considerando il suo come un destierro23 molteplice. Nella già citata in-tervista con Xavier Rubert de Ventos, alla domanda riguardo l’esilio,Nicol risponde che si è trovato in una situazione complessa vivendocontemporaneamente tre esili:

Per iniziare, l’esilio manifesto di vivere in una terra diversa dalla terra in cuiuno è nato ed è stato educato. Poi c’è l’esilio della lingua: io non avevo scrittonemmeno una riga in castigliano durante i miei anni di Barcelona […]. Scris-si per la prima volta in castigliano quando venni in Messico […]. Alla fine c’èla questione dell’esilio intellettuale o culturale, che non è determinato dallamia presenza in questo luogo chiamato Messico, ma è lo stesso che, in minorgrado, avrei incontrato in Spagna. Il fatto è che la cultura in lingua spagnola èuna cultura esiliata dai centri di produzione culturale europei.24

L’esilio, dunque, non è solo quello legato alla perdita della patria, alcambiamento di abitudini e costumi. L’esilio di Nicol ha una compo-nente culturale estremamente importante che tocca non più solo la suaesistenza. In questo che lui chiama “esilio culturale” è implicato tuttoun modo di vedere la realtà e interagire con essa, che è quello che siesprime in lingua castigliana. Esiste dunque un problema, e riferendociin maniera più specifica alla filosofia, possiamo affermare, con Nicol,che esiste un problema concernente la filosofia in lingua castigliana.Questo breve incipit riguardante il destierro conduce, dunque, aquell’opera di Nicol che ci permette di dare il via alla nostra ricerca en-trando direttamente in medias res attraverso un passaggio indicatocidallo stesso pensatore: stiamo parlando del testo pubblicato da Nicolnel 1961 presso l’editore Tecnos di Madrid avente come titolo appuntoEl problema de la filosofía hispánica.25 Sebbene questo non sia il primo te-sto pubblicato dal pensatore catalano, riteniamo interessante lasciarcicondurre da questi scritti, successivi alla pubblicazione della Metafísicade la Expresión (1957), proprio perché elaborati da Nicol in un momento

23. Riguardo il rifiuto, da parte di Nicol, di considerarsi come un transterrado, cfr. AngelCastiñeira, E. Nicol: semblança d’un filòsofo, Barcelona 1991, pp. 150-155.

24. Eduard Nicol, pensador catalán. Diálogo con Xavier Rubert de Ventós, in Eduardo Nicol.La filosofía como razón simbólica, cit., p. 21.

25. Successivamente ripubblicato in seconda edizione, nel 1998, dal Fondo de CulturaEconómica, México

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in cui il proprio iter speculativo si era già dispiegato secondo le sue fon-damentali direttrici.

L’abbandonare la mera notizia biografica per rivolgerci direttamen-te all’opera, non solo ci permette di ottemperare al rispetto verso lestesse affermazioni di Nicol, ma anche a quell’invito, ad esse conse-guenti, della stessa doña Alicia: «Caro amico lettore, ritorni ai libri,che, con miglior prosa e maggiore profitto, le faranno conoscere chi eraEduardo Nicol».26

1.1. La filosofia hispánica

La “questione” della filosofia hispánica non si delinea, nel panoramadella produzione nicoliana, come una semplice riflessione su una tema-tica di ordine storiografico. Il nodo problematico del testo mostraquanto questo sia qualcosa di più di una ricognizione, ossia un tentati-vo di mettere in evidenza il valore della filosofia, di una riflessione cheper Nicol non è degna di questo termine se non si pone a quel livelloche lui stesso definisce come “scienza”. Oltre a ciò, concordando conAlberto Constante e Ricardo Horneffer, «in una certa misura, po-tremmo dire che quest’opera è una lunga meditazione riguardantel’esilio, una lunga meditazione sulla visione di un emigrato, non tran-sterrado, che ha adottato un’altra terra e un’altra lingua»27 e che, da que-ste, in modo reciproco si è lasciato accogliere e adottare. Seguendo ildiscorso che Nicol intesse attraverso le pagine di quest’opera possiamoincamminarci su un sentiero che conduce lungo una riflessione che rie-sce a unire la questione personale, potremmo dire “esistenziale”,dell’autore, la sua origine, la sua lingua, alla questione in generale dellafilosofia.

Come già il titolo dell’opera afferma, esiste un problema riguardan-te la filosofia hispánica, «e bisogna dire “hispánica” ora, e non “spagno-la”» perché non si parla più solo delle riflessioni dei pensatori spagnoli,ma anche di quelli ispanoamericani.28 Ma da cosa nasce questo proble-

26. A. R. de Nicol, Eduardo Nicol. La vocación cumplida, in Eduardo Nicol. La filosofía comorazón simbólica, cit., p. 55.

27. A. Constante, R. Horneffer, Prefacio in E. Nicol, El problema de la filosofía hispanica,FCE, México 1961², p. 15.

28. Questa considerazione già mette in evidenza il problema di una definizione della hi-

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ma? Innanzitutto dal fatto che, secondo Nicol, sembra che, per questipensatori, non ci si possa dedicare alla filosofia senza sollevare un di-battito intorno alla questione del carácter e dello stile della filosofia hi-spánica. In base a ciò, essa «si distingue dalle altre a causa del suo curio-so ensimismamiento: perché si occupa tanto di se stessa quasi di più diquanto si occupa dei problemi filosofici».29

Crediamo sia importante notare quanto quest’affermazione fatta daNicol nel 1961 trovi riscontro ancora oggi nell’ambito della storiografiafilosofica ispanica. Con questo non vogliamo affermare che su questaproblematica sia ormai chiuso definitivamente il dibattito ma che talequestione è ancora oggi di grande attualità se solo si considera che lostesso José Luis Abellán, voce autorevole nell’ambito degli studi ri-guardanti la storia del pensiero spagnolo, nel dare il via alla stesuradella sua storia della filosofia spagnola, trova necessario porsi, comeafferma lui stesso “a mo’ d’introduzione” , il problema stesso delpensamiento español.30

Secondo Abellán, nel riferirsi al pensiero spagnolo, è più adeguatoutilizzare il termine pensamiento che “filosofia”. La distinzione tra i duetermini è importante, poiché se nella modernità si può assistere ad unpensiero che sempre più assume i caratteri peculiari del tecnicismo edella sistematicità, in Spagna, successivamente alla Edad Media, si ma-nifesta un fenomeno inverso: il pensiero inizia a perdere il caratteredella sistematicità, pur mantenendo la sua anima filosofica. Parlare dipensamiento, dunque, significherebbe parlare di una riflessione che anelaa dare risposta ai problemi che assillano l’uomo, ma che non consideracome metodo da utilizzare quello delle scienze esatte e soprattutto nondà un posto centrale alla ragione. Al di là delle ulteriori specificazioniespresse dallo stesso Abellán onde caratterizzare sempre meglio il si-gnificato del termine, quello che ci interessa in maniera prioritaria, eche crediamo oramai sia stato messo in evidenza, è che anchenell’ambito del pensamiento non trova posto una concezione sistematicadella filosofia.31

spanidad, cosa che Nicol non tralascerà di affrontare in un momento successivo dello stessotesto (cfr. PFH, pp. 107-119), su cui ci soffermeremo più innanzi.

29. PFH, p. 43.30. Cfr. J. L. Abellán, Historia del pensamento español de Séneca a nuestros días, Espasa-

Calpe, Madrid 1996.31. Ivi, pp. 23-24.

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Nicol non è certo a favore di una tale posizione ma, in questo caso,il riferirci ad Abellán serve solo a mostrare che nell’ambito della rifles-sione esistente riguardo la storia del pensiero spagnolo – o hispánico ingenerale – esiste un problema peculiare: quello appunto, già detto, delcarattere, dello stile. A tal proposito possiamo volgere lo sguardo su unaltro pensatore, anch’egli catalano, che forse può darci qualche deluci-dazione riguardo tale questione: José Ferrater Mora. In un articolopubblicato nel 1959,32 Ferrater Mora si pone il quesito: «che intendiamoper “stile di pensiero”?». Le risposte che dà il filosofo sono in tutto seima a noi interessano fondamentalmente solo quelle due che fanno dabase anche per le altre: 1) uno stile di pensiero è soprattutto un sistema,«però in nessun modo un sistema esclusivamente composto da concet-ti. Intuizioni di qualsiasi indole, osservazioni varie, maniere di dire (eanche di agire), molteplici manierismi e altri ingredienti analoghi han-no il loro posto – il loro posto indispensabile – in tale “stile”»;33 2) «Laforma normale di espressione di uno stile di pensiero è il saggio [el en-sayo]».34 Secondo Ferrater Mora, da questo punto di vista, el estilo depensar, si distingue dal sistema filosofico, che ha una sua metodologiaprecisa ed esprime una certa Weltanschauung. Infatti, l’esprimersi attra-verso il saggio, ma preferiremmo mantenere la parola ensayo, dato ilvalore che ha nella cultura ispanica,35 indica una scelta ben precisa:«l’ensayo è un modo di vedere la realtà parlandone da vicino […]. Nel-l’ensayo si seguono certe “norme”, ma non sono norme fondate nella

32. J. Ferrater Mora, Sobre ‘estilos de pensar’ en la España del siglo XIX, «Hispanófila», 7septiembre de 1959. Tale saggio, riveduto e in parte modificato, fu poi incluso come ultimocapitolo in Id., Tres mundos: Cataluña, España, Europa, Edhasa, Barcelona-Buenos Aires 1963.In questo caso ci stiamo riferendo alla versione del 1959, inclusa successivamente in Id.,Variaciones de un filósofo. Antología, Edicios do Castro, A Coruña 2005, pp. 167-174.

33. Ivi, p. 168.34. Ivi, p. 169.35. Basti pensare alla poderosa produzione orteguiana. A tal proposito ci sembra dove-

roso riportare alcune delle affermazioni contenute nelle pagine che lo stesso Nicol dedicaalla questione dell’ensayo: «l’ensayo è un artificio letterario che serve per parlare di quasitutto dicendo quasi tutto. […] L’ensayo si trova, così, a metà strada tra la pura letteratura ela pura filosofia […] è quasi letteratura e quasi filosofia». Per questo, l’ensayo è diretto ad unpubblico vasto dato che la sua lettura non richiede alcuna conoscenza specifica. A questoessere di generale fruizione corrisponderebbe la generalità dei temi trattati, e la generalitànello stesso stile con cui l’ensayo viene scritto. «Questo significa che nell’ensayo non posso-no essere trattati i grandi problemi, o meglio, si può dicorrere riguardo qualche grande pro-blema, però non sopra tutti, e senza andare fino in fondo» (PFH, pp. 205-206). In riferimen-to all’ensayo cfr. J. L. Gómez-Martínez, Teoría del ensayo, UNAM, Mèxico 1992.

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realtà o in un sistema concettuale che si suppone capace di avere presasulla realtà, bensì nel “temperamento” di chi contempla».36 Per questosecondo Ferrater Mora «uno stile di pensiero non è una filosofia».37

Ma cosa ne pensa Nicol? È necessario, dopo quest’allontanamento“prospettico”, per guardare la questione da una certa distanza, ritornarealle parole del nostro autore. Abbiamo sottolineato come Abellán con-sideri valida la categoria del pensamiento al fine di descrivere il pensieroispanico e la sua “indole” filosofica, pur mancante di sistematicità, ecome, pur riconoscendo un valore filosofico a tale forma di pensiero(che sembra prediligere, come forma di espressione, l’ensayo), FerraterMora sia chiaro nell’affermare che non si tratta di una filosofia, sebbe-ne in qualche modo vi afferisca. Per affrontare in maniera adeguata laquestione, Nicol afferma la necessità di una chiarezza concettuale: lecategorie che vogliamo utilizzare «debbono essere preparate con rigo-re», perché ci si trova dinanzi a «questioni etiche, e tutto ciò che è eticoè sempre molto confuso se non è sottoposto a chiarificazione teoreti-ca».38

In che senso la questione è etica e non solo storiografica? O meglio,è possibile che l’interpretazione storiografica si debba riferire ad unabase etica? Proviamo a seguire l’argomentazione nicoliana, al fine dicomprendere, alla luce delle sue affermazioni, ciò che ora ci appare ab-bastanza confuso, forse proprio perché non è ancora intervenuta lasuddetta chiarifcazione teoretica.

Secondo Nicol, «la filosofia hispánica, contiene in sé un problemache riguarda l’ethos, un problema che si colloca a un livello più basilaredi quello in cui si prospettano le divergenze dottrinali». Ciò che, dun-que, si può dire in riferimento a tale problema deve, per forza di cose,riguardare l’ethos filosofico della comunità, in generale, «e il momentoè opportuno, perché il cammino della civiltà sta producendo ovunqueuna crisi dell’ethos delle professioni».39 Nicol ravvisa che «si sta per-dendo l’idea che l’uomo può raggiungere l’eccellenza, in quanto uomo,mediante l’eccellenza del suo lavoro», eccellenza che dovrebbe essere il

36. J. F. Mora, Variaciones de un filósofo. Antología, cit., p. 170.37. Ivi, p. 171.38. PFH, p. 44. Il corsivo è nostro.39. A tal proposito cfr. S. Santasilia, L’ethos della filosofia nel pensiero di Eduardo Nicol, in

G. Cacciatore, P. Colonnello, S. Santasilia (a cura di), Ermeneutica tra Europa e America La-tina, Armando, Roma 2008, pp. 223-239.

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fine, l’obiettivo dello stesso lavoro.40 Il filosofo, dunque, è chiamatoallo svolgimento del proprio lavoro, quello filosofico, in maniera taleda tendere al miglior risultato possibile, pena la possibilità stessa di farefilosofia. Ora, secondo Nicol il filosofo deve potersi esprimere conchiarezza, «la chiarezza è la cortesia dei filosofi», ma «il rigore non puòessere sacrificato alla chiarezza nemmeno per cortesia».41 La filosofiadeve affrontare i problemi con rigore, tentando, nell’ambito della solu-zione proposta, di mirare all’eccellenza. Eccellenza, questa, che non ri-guarda la soluzione più comoda, ma la metodologia migliore, quella piùopportuna.

La questione del perdere l’idea, etica, di dover tendere a questa ec-cellenza risiede nella natura stessa dei problemi affrontati dalla rifles-sione filosofica. Come ravvisa lo stesso Nicol, «i problemi non li inventanessuno […] i grandi problemi fondamentali sono là presenti davanti atutti, e ci interessano allo stesso modo. Non tutti sicuramente ne hannouna consapevolezza ugualmente acuta».42 Questo, fa sì che anchel’inesperto, colui che non si dedica alla riflessione filosofica, pensi dipoter dire la sua opinione riguardo tali questioni, e questo solo perchéanche egli ne è affetto.43 Qui, entra in gioco la questione della chiarezzaa svantaggio del rigore, per cui «acquista popolarità maggiore il filosofole cui idee sono più accessibili, anche se non sono le più valide».44 Que-sto, che sembra, e forse è anche, un tentativo di difendere la propriariflessione, caratterizza per Nicol un problema importantissimo chepermette alla filosofia di abbandonare una ricerca “fondamentale”, cherivolge il suo sguardo al problema del fondamento, e di fermarsi in zo-ne mediane o addirittura di periferia. Una volta chiarito questo pro-blema, una volta mostrato come compito della filosofia quello di anda-re più a fondo possibile nell’ambito di quei problemi che possiamo de-finire come “fondamentali” (che riguardano tutti gli uomini), che do-vrebbero costituire il solo oggetto della ricerca filosofica, è possibile

40. PFH, pp. 47-48.41. PFH, p. 51.42. PFH, p. 52.43. In maniera acuta Nicol sottolinea che da questa condizione «la filosofia riceve una

forma di omaggio, inconsapevole e distorto, ma molto sincero», PFH, p. 53. Il corsivo è no-stro.

44. Ibidem.

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rivolgere di nuovo il nostro sguardo alla questione particolare della fi-losofia hispánica.

Dunque la domanda va portata più a fondo. Che significa dire“problema della filosofia hispánica”? Esiste un problema filosofico che ipensatori ispanici prediligono e trattano rispetto a tutti gli altri? Chia-ramente non si tratta di questo. Per chiarire di cosa si tratta, Nicol in-vita a spostare la nostra attenzione dal termina “problema” a quello“hispánica”, o meglio all’«ispanico».45 Che cosa significa tale lemma? Ladefinizione non sembra costituire un problema: «la si stabilisce perl’area linguistica o, se si vuole precisare meglio, per la zona che abbrac-cia la famiglia delle lingue ispaniche».46 Già ci rendiamo conto, però,che in realtà non stiamo parlando solo di questo, ma di qualcosa di più,«qualcosa di speciale, peculiare e distintivo». Ed è proprio questo che,secondo Nicol, costituisce il problema: la distinzione.47

Giunti a questo punto, ci è permesso gettare uno sguardo, anche semantenendoci ancora in periferia, al nucleo della sua riflessione. Ri-guardo la distinzione, il pensatore catalano riconosce che ogni zona inbase alla lingua che vi si parla si caratterizza per delle specifiche moda-lità culturali, infatti in quanto «l’essere è espressione, nessun essereumano può parlare in in una forma distinta senza essere distinto».48

Questa è per Nicol, «una semplice evidenza metafisica», e tutti ci ba-siamo implicitamente su di essa. Vale la pena di riportare l’esempioche, a verifica di tale evidenza, propone lo stesso Nicol: quando ci re-chiamo in visita in un paese straniero speriamo sempre di incontrareuna differenza, rispetto al nostro, per quanto riguarda la cultura e lostile di vita, in modo particolare se si tratta di un popolo che si esprimein una lingua diversa dalla nostra; ci infastidiscono le similitudini esentiamo che la varietà e le singolarità a noi estranee ci arricchiscono.Tale esempio è addotto a dimostrazione di quanto facilmente ricono-scibile sia l’evidenza metafisica che espressione differente corrispondead essere differente. In realtà, per comprendere appieno affermazioniquali queste bisognerà attendere di entrare nel nucleo centrale

45. PFH, p. 55. Si può iniziare a riscontrare, da parte di Nicol, una certa attenzione diNicol nei confronti della questione della hispanidad, anche se solo ad un livello di ricogni-zione, senza entrare ancora nel merito della questione.

46. Ibidem.47. Ibidem.48. Ibidem.

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dell’opera di Eduardo Nicol. Per ora accontentiamoci del fatto che giàin queste poche frasi possiamo scorgere qualcosa di importante, innan-zitutto riguardo la concezione che tale filosofo ha della questionedell’essere e del suo legame con l’espressione.49

Ritorniamo intanto alla questione della distinzione, laddove Nicolravvisa che «una cosa è essere distinto – ogni essere è distinto – e cosadifferente è questo modo peculiare di essere, che consiste nel “non es-sere come gli altri”».50 Cosa vuole intendere Nicol con questa afferma-zione? Il punto di partenza che adotta lo stesso pensatore è che «lascienza è uguale ovunque. La scienza è una lingua universale e nonpresenta, in quanto scienza, differenze peculiari da un paese all’altro»,51

anzi supera le frontiere proprio in quanto non ha peculiarità derivantidalla sua nazionalità. In base a quanto detto, la possibilità dell’esistenzadi una comunità scientifica è garantita non solo dall’uniformità del si-stema simbolico utilizzato, «ma dall’unità della realtà stessa»,52 senzala quale lo stesso sistema simbolico non potrebbe essere realmente uni-versale, cioè univoco. Per questo, dunque, «quando si parla della scien-za spagnola o della scienza francese si intende con questa formula ilcontributo spagnolo o francese alla scienza comune, universale».53 Seallora quando diciamo “filosofia hispánica” pensassimo al contributoche i paesi di lingua ispanica hanno, o continuano ad apportare, allafilosofia universale, non ci sarebbe alcun problema, anzi la questionesarebbe definitivamente risolta, eppure il problema persiste. Questo,perché «vi è tra i filosofi ispanici una coscienza più o meno vaga di ciòche si chiama “non essere come gli altri”. Alcuni la posseggono perchécontribuiscono essi stessi alla peculiarità distintiva; altri perché deplo-rano questa peculiarità».54 A questo punto, se esiste tale coscienza, enoi abbiamo considerato che non si tratta di una semplice questione dilocalizzazione geografica, si rende necessario chiedersi, se oggetto di

49. Problematica che sarà esposta nella sua esaustività nella, già citata, opera cardinedel pensiero di Eduardo Nicol, La metafísica de la expresión, della quale ci occuperemonell’ultimo capitolo di tale volume.

50. PFH, p. 55.51. Ibidem.52. PFH, 56. In tale affermazione si mostra ormai il chiaro intento fondativo del pen-

siero di Eduardo Nicol, una riflessione alla ricerca dello “zoccolo duro” del reale, della real-tà come base su cui edificare l’edificio delle scienze.

53. Ibidem.54. Ibidem.

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tale problema è proprio la peculiarità di tale filosofia; dunque, in checonsiste questo elemento “tipico” della filosofia hispánica?. Finora iltentativo di Nicol era stato quello di porre la questione nell’ambito diuna filosofia intesa come universale, come scienza55 e allo stesso tempocome una ricerca che risponde ad un suo ethos radicato in un ethos uni-versale, quello umano.56 Se la nostra attenzione, per trovare una solu-zione alla questione della filosofia hispánica, ci porta a spostarci dalladimensione dell’universale per rivolgerci al “tipico”, all’hispánico nellasua particolarità, siamo già fuori dal dominio di una filosofia intesacome scienza. Dunque Nicol si chiede «come è possibile che le tipicitàattecchiscano, come piante parassite, al corpo puro della scienza filoso-fica»?57

Il problema nasce dal fatto che il termine “filosofia” ha una portatasemantica vasta, «quanto il mantello della Vergine, e copre ogni generedi peccato intellettuale».58 Risalendo alla sua origine greca, “filo-sofia”è “amore per la saggezza”59 e amore per i Greci è attrazione verso ciòche non si ha, non si possiede.60 Ma se filosofia è, dunque, attrazione

55. La questione della scienza e del suo fondamento, Nicol lo affronta, in maniera in-troduttiva, in HE, dove appunto viene rimessa in gioco la problematica del dominio dellescienze naturali e di quelle dello spirito e del loro comune fondamento; in maniera specificane Los principios de la ciencia, FCE, México 1965).

56. È interessante, a questo punto, notare che se la filosofia risponde ad un ethos, quindiad un complesso di responsabilità nei confronti dell’uomo (che per Nicol si esplica nei con-fronti della comunità), nell’ambito della speculazione nicoliana sarebbe possibile individua-re anche, latente, una forma di etica della scienza che in termini odierni avrebbe anche con-seguenze di stampo bioetico, cioè una costellazione di valori che determinerebbe le possibi-lità o meno dell’autentico cammino scientifico. Cfr. a tal proposito J. González, Genomahumano y dignidad humana, Anthropos, Barcelona 2005 e L. Sagols, Interfaz bioética, Fontama-ra, México 2006.

57. PFH, p. 56.58. Ibidem.59. Riguardo la traduzione del termine sabiduría preferiamo distaccarci dalla lezione del

traduttore italiano, che traduce con “sapere”, e utilizzare il termine “saggezza” che ci sem-bra conforme, come si mostrerà nelle pagine successive, all’idea di filosofia elaborata dallostesso Nicol. In ogni caso, è importante tenere ferma la distinzione tra i termini sabiduría esapiencia. In realtà in questi passi Nicol, pur utilizzando quasi sempre il primo termine, siserve del secondo solo due volte non differenziandone il significato (El problema de la filo-sofía hispánica, cit., p. 39 e p. 197). Per questo motivo abbiamo preferito mantenere la tradu-zione “saggezza”, onde eliminare qualsiasi possibile rinvio, anche implicito, ad una conce-zione di tipo religioso-sapienziale.

60. «“Eros è amore di nulla, oppure di qualcosa?” “Certamente di qualcosa”, “Questacosa – soggiunse Socrate – tienila per te e cerca di ricordarti che cosa sia. Dimmi invecequesto: Eros desidera o no la cosa di cui egli è amore?” “Certamente”, rispose, “E forse pro-

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verso una saggezza che non si possiede, significa che esisteva già unasophía, che precede la stessa filosofia. È, pero, vero che la filosofia, alsuo nascere, non si mostrò da subito come amore per una saggezza giàesistente e ben conosciuta, bensì si manifestò come una nuova forma disaggezza, la cui essenza consisteva precisamente nella ricerca, nellaphilía, «se volete, nell’amore». Ma di che amore stiamo parlando?«L’amore per la verità»61!

Ritorna, proprio in chiave socratica,62 la questione etica come inse-parabile da quella teoretica. Se prima abbiamo parlato di eccellenza, orapossiamo vedere che l’eccellenza si manifesta, nella filosofia, propriocome ricerca della verità, delle condizioni fondamentali. Se manca talericerca non si può affermare di stare svolgendo il proprio compito filo-sofico nella maniera corretta, quindi, non lo si sta svolgendo affatto. Laricerca della verità, in quanto amore per la verità, è appannaggio solo dicoloro che sentono questo amore, quindi che sentono la mancanza dellaverità, che sanno di non possederla: «la ricerca si intraprende a maniaperte, simbolo di penuria e di speranza; e osservate con quale frequen-za colui che possiede o crede di possedere la verità chiude questa manoper assicurarsene il possesso. La mano chiusa è chiamata pugno, e que-sto è già un simbolo di aggressione».63 La filosofia deve partire da unvuoto, il vuoto generato dall’amore per la verità, amore che mostra ilnostro non possedere la verità e la nostra conseguente ricerca di essa.Così, il cammino della ricerca filosofica non può essere cammino discontro tra verità possedute, intese come beni da difendere contro unpossibile usurpatore, bensì un cammino fatto di incontro, di possibilità

prio possedendo ciò che desidera e ama, di conseguenza lo desidera e ama, o invece nonpossedendolo?” “Non possedendolo, come è verosimile”, rispose, “Considera allora – pro-seguì Socrate –, se anziché verosimile, non sia proprio necessario che ciò che ha desiderioabbia desiderio di ciò di cui è mancante, e invece non abbia desiderio se non ne sia mancan-te. Io, o Agatone, ho la piena convinzione che sia necessario. E a te come pare?” “Pare an-che a me”, rispose» (Platone, Simposio, 199C-200C, in Id., Tutti gli scritti, Rusconi, Milano1994, p. 508). Riguardo l’idea di “philía” legata a quella di “disinteresse” cfr. E. Nicol, El por-venir de la filosofía, FCE, México 1972, p. 8.

61. PFH, p. 57.62. Semplicemente a mo’ di suggestione segnaliamo un autore che ci sembra assumere

una prospettiva simile per quanto riguarda l’impostazione “socratica” della sua riflessione:si tratta di Miguel García Baró, che elabora tale punto di partenza nelle sue opere DeHomero a Sócrates, Sígueme, Salamanca 2004 e Filosofía Socrática, Sígueme, Salamanca 2005.

63. PFH, p. 57.

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di confronto, di mani aperte e cariche di speranza che, proprio perchéaperte, possono stringersi.

Tale cammino, l’autentico cammino della ricerca filosofica si chia-ma appunto «ricerca», e si connota, dunque già dal suo nascere, comeuna nuova saggezza che «consiste nella conoscenza metodica delle cosecosì come sono. Questo è ciò che si intende per scienza».64 In tale tipodi conoscenza si manifesta quello che Nicol definisce «un genere sin-golare di virtù», consistente nel porsi di fronte alle cose per conoscerlein maniera disinteressata «senza intenzione di lucro o beneficio utilita-ristico». Questa “virtù filosofica” permette di rapportarsi alla veritàintesa come bene comune, una verità che non trova posto nell’espres-sione di un’opinione personale, ma che aspira ad esprimere la cosa stes-sa così come è. Tale aspirazione è la philía stessa che costituisce il no-stro rapporto alla verità, è quell’amore per la verità che, a parere di Ni-col, è sufficiente al fine di eliminare dall’ambito della scienza sia lamenzogna che l’arbitrarietà, le quali sono sempre pertinenti ad un am-bito soggettivo. In questo amore per la verità, philía che spinge disinte-ressatamente alla ricerca della possibilità di dire la realtà così come è, simanifesta una veracidad irresistibile e «l’arbitrarietà si arrende dinanziall’appello comune appellarsi alle cose stesse».65 L’amore per la veritàconsiste nel richiamarsi alle cose stesse, questa è la scienza, e questa,dunque è la filosofia: «se fossimo così fedeli a noi stessi come è nostrodovere, diremmo che la filosofia è la scienza, l’unica scienza reale o pos-sibile». Le altre scienze, quelle particolari, che hanno come oggetto unaparte della realtà, non sono che manifestazioni particolari di «questounico, radicale desiderio di verità al quale fu dato il nome di filoso-fia».66

64. Ibidem.65. Ibidem. Sembra, qui, di essere di nuovo di fronte alla parola d’ordine della fenome-

nologia husserliana, a quel grido, “andare alle cose stesse” (cfr. l’introduzione delle LogischeUntersuchungen [1900]), che costituisce il manifesto della speculazione del fondatore dellafenomenologia. Sicuramente l’intento di Nicol è quello di lasciarsi interrogare dal reale enon di proporre schemi costruiti in maniera astratta da calarvici su; per questo si può af-fermare che la riflessione nicoliana non è estranea al richiamo di Husserl, che è autore pe-raltro studiato dallo stesso Nicol (a questo proposito cfr. CRS, pp. 153-178, dove si pone laquestione del metodo).

66. Ibidem. Oltre qualsiasi tentativo di divisione delle scienze, Eduardo Nicol proponela filosofia come base di partenza di qualunque atteggiamento che voglia definirsi comescientifico. La realtà si dà in quella philía che è amore per la verità, vale a dire rapporto incui, proprio perché disinteressato, si realizza la conoscenza della cosa così come è. La philía,

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La filosofia, dunque, è possibilità e fondamento delle scienze parti-colari: si distingue da queste ultime perché «non è solo scienza». Il fat-to che la filosofia fosse etimologicamente leggibile come amore per lasaggezza, implica l’esistenza di una saggezza che dovesse precedere lafilosofia stessa, «antica sophia» che non viene meno con il nascere dellariflessione filosofica, anzi prosegue con forza nuova e si incorpora alnuovo sapere, quello scientifico. In quello che Nicol chiama il “recinto”della filosofia, è possibile incontrare affermazioni scientifiche e non; staa noi distinguerle, ma tale distinzione è già in sé un’operazione filoso-fica. Il discorso nicoliano sembra divenire oscuro: la filosofia è scienzaeppure ammette in sé affermazioni non scientifiche che vanno distintedalle prime. Per comprendere meglio queste affermazioni è necessarioproseguire lungo l’itinerario tracciato da Nicol, per il quale non esisteun criterio comune per effettuare la suddetta distinzione e questo rivela«che la saggezza non è sempre scientifica, anche la scienza è una formadi saggezza».67

Questa saggezza “non scientifica” si mostra come un insieme diesperienza, previsione, misura, giustizia, fortezza, temperanza. Una“tempra” che non si può insegnare nell’ambito accademico perché visono uomini più disposti che altri ad acquisirla, «e il cammino della suaacquisizione è il cammino della vita».68 Coloro che detengono questasaggezza sanno essere buoni consiglieri e per questo hanno il doveremorale di dare consigli affinché tale saggezza possa così divenire unbene comune. Il fatto che non si riconosca più il valore di questa sag-gezza è per Nicol indice di un momento di crisi dell’umanità tutta,69

dunque si incontra come nucleo essenziale in tutte le scienze, ma essa è appannaggio, es-senza della filosofia, che risulta allora essere la scienza, sulla quale si possono innestare tut-te le altre (cfr. E. Nicol, Los principios de la ciencia, cit., pp. 9-93).

67. PFH, p. 58. Per le stesse ragioni indicate alla nota 58, anche qui preferiamo distac-carci dalla traduzione italiana che, in questo caso, riporta “sapienza” come traduzione deltermine spagnolo sabiduría.

68. Ibidem.69. È molto interessante, e a nostro parere estremamente importante, notare che le ca-

ratteristiche che Nicol ha attribuito a tale saggezza, oltre a ritrovarsi come elementi costi-tuenti quello che lui stesso definirà come “senso comune”, necessario alla stessa realizza-zione della ricerca filosofica, sono riscontrabili in una caratteristica “tutta catalana” cheassume il nome di seny. Il seny si presenta come «una forma di vita essenziale [básica]», evivere secondo seny significa vivere in maniera sensata, non sacrificare la propria vita soload un desiderio. Tale “forma di vita” implica la prudenza, il dominio di sé, la lucidità («piùper giungere a chiarezze accessibili che per discendere in insondabili profondità»), la di-

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specie se tale saggezza non viene riconosciuta dal filosofo, il quale nellasua forma ideale, dovrebbe riunire in sé la “saggezza del saggio” e la“saggezza dello scienziato”. Questo perché, Nicol lo afferma con riso-lutezza, non si dà scienza senza saggezza e il problema della scienza dioggi consiste proprio nella sua «mancanza di saggezza».70

Separare saggezza e scienza è dunque una barbarie, non solo meto-dologica ma anche metafisica, anzi metodologica proprio perché meta-fisica. Essendo tale saggezza formalmente indefinibile, perché basatasu una sorta di “esperienza di vita” o meglio “aderenza alla vita”,71 nonci permette di comprenderla in maniera concettuale e da ciò sorge ilrischio di confonderla con la mera opinione. A questo problema non c’èrimedio, in quanto la saggezza non scientifica non può essere “scienti-ficizzata”: «è certo che la falsa saggezza si confonde con la saggezza[autentica]». La falsa già non è saggezza, sebbene le assomigli, e ha unnome specifico: sofistica.72 La sofistica non è da sottovalutare data lasua capacità di confondersi, in base ad una sorta di somiglianza, con lasaggezza e con la scienza. È proprio questa somiglianza a darle di dirit-to un posto nell’ambito della storia della filosofia, come filosofía enfer-ma.73 Tale “infermità” non consiste nel suo essere un genere particola-re, né un errore di raziocinio, che se così fosse sarebbe facile distin-guerla dalla filosofia tout court. Il suo essere inferma, ma pur sempre

screzione, è «un sapere che discorre, ma secondo una specie di discorso che affonda costan-temente le sue radici nella realtà». Il seny non si riduce a nessuna di queste componenti male contempera tutte, è un «opporsi all’entusiasmo gratuito e alla disdegnosa indifferenza[…], ostilità al puro ragionamento e alla mera esperienza […]. Significa, soprattutto quelloche si suole chiamare entereza […] non si tratta di una facoltà, ma di una actitud, vale a dire,un modo di essere» (J. Ferrater Mora, Las formas de vida catalana, Alianza Editorial, Madrid1987, pp. 31-41, il corsivo è nostro).

70. PFH, p. 59.71. Nicol afferma: «Bisogna essere già un po’ saggi per imparare a distinguere il sag-

gio», PFH, p. 59. Questa “sentenza”, che sembra la descrizione di un circolo che si chiudesu se stesso, letta con più attenzione rivela il suo nascondere una questione fondamentale,peculiare della riflessione nicoliana: il legame individuo-comunità, per il quale non è possi-bile partire da una condizione che non contempli l’individuo come già inserito in qualcheforma di dimensione comunitaria, nella quale apprenda attraverso la tradizione e la scienzail giusto esercizio del pensiero. Tutto ciò rimanda, a monte, al fatto che in qualsiasi mo-mento della propria storia, l’uomo è in “situazione” o meglio in una situación vital, il chesignifica in relazione a tutto ciò che lo circonda (avremo modo di affrontare la tematica inmaniera specifica nel capitolo seguente).

72. PFH, p. 59.73. PFH, p. 60.

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filosofia, spiega quell’alone di prestigio che, a partire da Protagora eGorgia, circonda tutti gli autentici sofisti di ogni tempo. La sofistica ècome una possibile degenerazione dell’autentica filosofia, per cui nonpuò essere affrontata da quest’ultima come un agente esterno, ma va“curata”74 come «una sofferenza organica nel proprio corpo ammala-to».75

La cura in questione, però, non è scientifica perché, come abbiamoprima ravvisato, la sofistica si muove tra scienza e saggezza assomi-gliando ad entrambe. Secondo Nicol, «resta solo la possibilità di confi-dare ottimisticamente» nel fatto che il maggior numero possibile diuomini si liberi da tale “infermità”, e che siano molti quelli che pren-dano misure preventive contro di essa. Urge una precisazione: ci si puòchiedere come mai non è possibile affrontare la sofistica dal punto divista scientifico, al fine di mostrarne il carattere di infondatezza. Nonbisogna dimenticare che la sofistica assomiglia anche alla saggezza, cheè stata connotata come capacità di aderenza alla vita e che si apprendevivendo. Grazie a questa somiglianza la sofistica mantiene un aspetto“vitale”, anche se inautentico, per il quale si mostra non solo convin-cente dal punto di vista concettuale, ma anche ben radicata nell’esi-stenza: «le idee sofistiche sono corrosive dell’ethos comune, e per que-sto debbono essere giudicate a livello etico più che a livello intellettua-le».76 Se la saggezza e la scienza non possono essere separate perché siadia scienza in maniera autentica (resta ancora da vedere in maniera piùprecisa di che saggezza stiamo parlando e in che maniera si incorporaalla scienza), allora la sofistica non potrà mai essere affrontata solo dalpunto di vista concettuale perché affonda le sue radici nella stessascienza autentica, o meglio si mostra come una degenerazione delle sueradici.

In base a quanto detto finora, possiamo chiederci che posto ha,dunque, la filosofia hispánica; in che posizione si colloca rispetto allafilosofia finora descritta? La filosofia hispánica è un tipismo, frutto dellameditazione riguardante il proprio essere, che accentua una determina-

74. PFH, p. 61: «Più che una lotta si tratta di una cura» (cfr. anche E. Nicol, El porvenirde la filosofía, cit., pp. 230-244 e Id., Ideas de vario linaje, UNAM, México 1990, pp. 158-159).Riguardo la particolare relazione tra sofistica e storia della filosofia cfr. B. Cassin, L’effettosofistico. Per un’altra storia della filosofia, Jaca Book, Milano 2002.

75. Ibidem.76. PFH, p. 60.

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ta distinzione tra i caratteri peculiari storici secondo i quali si è svilup-pata generalmente una tradizione di pensiero, ma sempre sullo sfondodi quella che lo stesso Nicol chiama la grande histoire77 della filosofia.Tale tipismo, nasce dalla ricostruzione e messa in sistema di determina-te opinioni che riguardano i suddetti caratteri peculiari. Tale sistema,secondo Nicol, non è ascrivibile alla scienza, ma è ideología,78 «e sareb-be superfluo richiamare l’attenzione sull’importanza che che hannoavuto e che hanno nel corso della civiltà quel genere di sistemi».79 Aquesto punto il giudizio di Nicol si fa abbastanza duro: «tutta la filoso-fia politica è ideologia». E non solo, dell’ideologia fanno parte anchetutte quelle costruzioni concettuali che non sono radicate nella realtà,pur mostrando, nella loro genesi, la genialità degli autori. La stessa sor-te è riservata ai grandi saggisti, i quali hanno collegato tra loro varieidee senza costituire un vero e proprio sistema, spinti dal fatto che «unfatto […] suggerisce l’idea e il desiderio di manifestarlo […] ma lo sti-molo dell’idea si esaurisce nell’espressione, e l’espressione non ha se-guito».80

Possiamo chiamarli tutti filosofi, ma «chi rappresenta nella manierapiù autentica la filosofia? Chi si trova nel fulcro stesso della sua grande

77. PFH, p. 63. Cfr. J. Gaos: «il sapere della storia della filosofia pone il problema dellerelazioni tra la filosofia e la sua storia come problema essenziale della filosofia, come pro-blema della essenza stessa della filosofia» (Confesiones profesionales, FCE, México 1979, p.115). Nonostante le differenze che separano le riflessioni di Nicol dal pensiero di José Gaosci sembra che quest’affermazione mostri una certa comprensione “affine” del legame dellafilosofia con la sua storia e della necessità di parlare della storia della filosofia secondo unacorrispondenza di questa con l’essenza stessa della riflessione filosofica. Per quanto riguar-da il confronto Gaos-Nicol, si possono confrontare i seguenti testi: J. Gaos, De paso por elhistoricismo y existencialismo, «Cuadernos Americanos», n. 2 (1951), incluso poi in Id., Obrascompletas, IX (Sobre Ortega y Gasset y otros trabajos de historia de las ideas en España y la Ame-rica española), UNAM, México 1992, pp. 233-246 ; Id., De paso por el historicismo y existenciali-smo. Parerga y paralipomena, «Filosofía y Letras», nn. 43-44 (1951), incluso poi in Obras com-pletas, IX, cit., pp. 247-396 ; E. Nicol, Otra idea de la filosofía. Respuesta a José Gaos. «Cuader-nos Americanos», mayo-junio 1951, incluso poi in Id, La vocación humana, Consejo Nacionalpara la Cultura y las Artes, México 1996, pp. 313-322; Prosigue el diálogo, in Id., La vocaciónhumana, cit., pp. 323-340.

78. Nella terminologia nicoliana, il termine ideología non ha di per sé un’accezione ne-gativa, se non quella di non essere scienza. Ha la sua funzione di indagine particolare, costi-tuita da idee non fondabili dal punto di vista scientifico collegate in modo da costituire unateoria.

79. PFH, p. 62.80. Ibidem.

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histoire»?81 E la filosofia hispánica? Quest’ultima non ha un sito suquest’asse ed è, come altri generi, considerata come costituita da “stilimarginali”: «quando non vi è una tradizione filosofica in una zona cul-turale determinata – o meglio: quando questa tradizione è stata inter-rotta – la caratterizzazione di una filosofia deve essere fatta attraversogli stili che in essa predominano in ambito locale e temporale. È un fat-to storico che a predominare in alcune situazioni sono gli stili margina-li».82 Quando ciò avviene, la filosofia inizia a riconoscersi solo nel suodifferenziarsi assumendo come costituente la sua identità il già citato“non essere come gli altri”. Eccoci, dunque, giunti alla conclusionedella strada su cui ci ha condotto, seguendo sentieri a volte impervi, ilpensiero di Nicol: a riconoscere lo hispánico come un carattere che hasicuramente la sua importanza nell’ambito di un’indagine che può esse-re di tipo sociologico o politico, ma che non ha diritto di residenzanell’ambito del discorso filosofico, di una filosofia che è scienza. Se lapeculiarità di un pensiero è il suo tipismo, allora la prima conseguenzasarà la mancanza di universalità che corrisponde all’assenza della stessascienza.

Questa attenzione verso il tipismo, definito anche ensimismamiento,per accentuarne il carattere positivo riguardante la ricerca della propriaidentità, e qualcun altro ha deplorato come provincialismo, può avereun certo valore, come abbiamo già notato, ma non deve toccare il pen-satore nel suo “fare filosofia”: «il filosofo può legittimamente occuparsidi temi attuali e circostanziali per il bene comune, con una chiarezza diidee e stile che li renda comprensibili a tutti […]. La filosofia prodottain questo modo però ideologia, apparterà al genere saggio [ensayo].Nessuno deve immaginare che la scienza si faccia in questo modo».83 Enon si può fare scienza così perché «in questo caso, il filosofo scrive peril circondario, pensando più ai lettori che ai problemi».84

Se davvero il lettore diviene più importante del problema, sarà ne-cessario fare presa su di lui e la scrittura tenderà a sedurre e non più adesprimere la realtà così come è. La filosofia acquista il carattere della

81. PFH, p. 63.82. Ibidem.83. PFH, p. 145. L’obiettivo di tale polemica è evidente, chi incarna tale modo di fare

filosofia per Nicol è Ortega y Gasset. Non a caso il paragrafo in cui si trova tale afferma-zione si intitola La fase orteghiana [La etapa orteguiana].

84. PFH, p. 63.

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seduzione, ma questo non deve affatto accadere, o meglio, non deveaccadere se tale seduzione è dettata dalle necessità del lettore.L’interesse che la filosofia deve generare è un interesse conseguente alcompito della stessa ricerca, un interesse per la verità. La filosofia ri-chiede disciplina, e il fatto che risulti difficile e criptica per qualcunosignifica che quel qualcuno non ha la vocazione alla ricerca filosofica.Dunque, afferma Nicol in prima persona, «non comprendo la ragioneper la quale la filosofia dovrebbe nascondere il suo umore schivo, e pre-sentarsi truccata di lirismo per sedurre con tale artificio chi sponta-neamente non prova attrazione verso di essa».85 «La solitudine dellascienza filosofica non è altezzosità. È pudore o diffidenza», intesa quicome estrema prudenza nel dare per scontato determinate affermazionie metodologie. L’ideologia, dunque, può pensare al favore del pubblico,mentre la filosofia non deve affatto preoccuparsene. Non può relazio-narsi, nel suo stesso procedere, alla varietà dei gusti, la filosofia deveprocedere come scienza e «scienza è negazione del relativismo, del sog-gettivisimo e del prospettivismo, del personalismo inteso come supre-mazia dell’io. La scienza è, in una comunità razionale, un ordine fonda-to su principi oggettivi. L’accettazione di quest’ordine razionale (e diciò che esso rappresenta per il rigore e la validità del pensiero, per laconoscenza adeguata della realtà e, infine, per la concordia nella convi-venza umana) è l’ethos della vocazione filosofica».86

La filosofia dunque, e siamo al punto di partenza, è vocazione, e inquanto tale manifesta un ethos che consiste nella ricerca della verità in-tesa come universalità a partire dalle cose stesse: «la comunità razionaledella scienza non dipende dalla coincidenza testuale delle dottrine, ma dal me-todo che si è utilizzato per formularle e dall’ethos che ha informato intutti i casi le ricerche preliminari: quell’ethos secondo il quale ciò cheimporta è la verità, non chi la proclama, e la verità si cerca nelle cosereali, davanti alle quali la ragione personale si deve sempre inchina-re».87

La filosofia come scienza, di cui parla Nicol, ormai ha un sensochiaro: non si tratta di quella ricerca che tratta questioni relative allascienza naturale, ma che studia qualsiasi problema con il metodo pro-

85. PFH, p. 147.86. PFH, p. 154.87. PFH, p. 156.

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prio della scienza prima, in particolare i problemi riguardanti i princi-pi.88 La filosofia, come si è detto, non può sedurre ma convincere e que-sto fa sì che essa non possa perdere il suo rigore metodologico edespressivo. Questa convinzione, che viene confermata a Nicol dalle suericerche, ha origine nella sua formazione intellettuale. Eppure, la tradi-zione in cui si colloca Nicol non è la stessa tradizione ispanica che luiaccusa di tipismo? In parte si, in parte, però, la tradizione catalana ha deicaratteri specifici di cui lo stesso Nicol riconosce il peso e che considerafondamentali nel modo di condurre la ricerca filosofica. Ci rivolgiamo,dunque, alla questione dibattuta della Escuela de Barcelona, non prima,però, di esserci soffermati en passant sulla problematica de la hispanidadal fine di portare a compimento la nostra analisi della “questione ispa-nica”.

1.2. La hispanidad

«Non so se devo ricordarvi, prima di addentrarmi nella materia, chequeste disquisizioni sulla filosofia ispanica non possono essere altracosa che “ideologia”».89 Chiare e precise, le parole di Nicol ci ricordanociò che ormai già ci è familiare ma che va sempre tenuto presente alfine di esercitare in maniera autentica la “vocazione” filosofica. È ne-cessario che, pur essendo concatenate in maniera chiara e sequenziale,90

le riflessioni riguardanti la problematica della hispanidad non pretenda-no di mostrarsi come una teoria scientifica, e questo in base al fatto chenon è possibile stabilire un punto di partenza preciso dal quale inizare ariflettere su tale argomento. Nel caso dell’ideologia ci si trova di fronteall’opinione, ad una serie di affermazioni sviluppatesi lungo il corsodella storia riguardante l’America Latina, storia che si mostra come uncontinuo susseguirsi di tentativi di costituzione di una propria identi-

88. PFH, p. 120.89. PFH, p. 64.90. Bisogna, infatti, precisare che ciò che non è scienza non è per forza lasciato

all’arbitrarietà, anzi anche l’ideologia ha una sua coesione e coerenza interne che le permet-tono di mostrarsi come un ragionamento convincente. Sofistico, come si è detto, sarebbeperò tentare di far passare come scienza una riflessione che appartiene al campodell’ideologia (cfr. PFH, p. 113).

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tà.91 La ricerca di questa ha spinto lo sguardo verso le origini, fino a fo-calizzare la propria attenzione sulla cultura precolombiana. Chiara-mente, non è possibile parlare di America Latina senza tenere in consi-derazione l’elemento indigeno che vi viveva prima dello giungere deglieuropei, vi convisse e che, anche se solo come minoranza, ancora oggivi vive. La domanda di Nicol è, perciò, rivolta a considerare il valore diquesto elemento indigeno. Di sicuro, la riscoperta di tale componenteidentitaria conduce all’idea di un’origine nella quale è possibile ritrova-re un ethos comune, che è poi il terreno nel quale si radica e dal qualegermoglia la pianta dell’identità. Ma la componente indigena, «lo in-dígena», può essere davvero ciò che costituisce l’ethos comune?

Dal punto di vista della razza evidentemente no, e dal punto di vi-sta della cultura? L’idea, come afferma Nicol, sembrerebbe accettabilema non rispecchia i fatti così come sono: non ci è dato sapere in chemaniera si sarebbe potuto sviluppare l’insieme multiforme della culturaindigena; è però certo che tale sviluppo ebbe il suo arresto nel XVI se-colo «e ora la nostalgia di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato èqualcosa di artificiale, non entra nella valutazione di quello che è e chepuò essere».92 La conquista spagnola provocò tale arresto nello sviluppodella cultura indigena, ma la ragione di ciò non va cercata tanto nellaviolenza o volontà di dominio dei colonizzatori quanto in quello cheNicol definisce come il “rispetto connaturale” che i colonizzatori mo-strarono verso i colonizzati, vale a dire la totale indifferenza dello spa-

91. È interessante notare che il volume in cui Carlos Beorlegui tenta di tracciare il per-corso compiuto dalle varie correnti di pensiero costituitesi e sviluppatesi in America Latinaabbia come titolo Historia del pensamiento filosófico latinoamericano. Una búsqueda incesante dela identidad (Universidad de Deusto, Bilbao 2004). Nell’introduzione lo stesso autore rico-nosce che la storia della cultura ispanoamericana si connota come un’«ossessiva ricercadella propria identità», considerando questa ricerca come il leitmotiv della riflessione dei piùsignificativi esponenti del pensiero ispanoamericano: «l’ossessione dei più interessanti pen-satori iberoamericani è sempre stata quella di trovare la propria identità e il proprio postonell’ambito della cultura universale, […] tentando ciò che gli intellettuali della generazioneromantica denominarono come “seconda emancipazione”. […] non c’è dubbio che costituìuno stimolo persistente e profondo per la riflessione, responsabile delle migliori pagine delpensiero della storia culturale iberoamericana» (pp. 23-24). Esempi lampanti e letteraria-mente estremamente interessanti di una ricerca della propria identità, la quale si incrociacon il desiderio di legare tale identità a quella dell’uomo nel suo sviluppo storico universalesono, nell’ambito della cultura messicana, l’opera di Octavio Paz, El laberinto de la soledad(1950), quella di José Vasconcelos, La raza cósmica (1925) e quella di Leopoldo Zea, La filosofíaAmericana como filosofía sin más (1980).

92. PFH, p. 107.

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gnolo nei riguardi della questione razziale.93 La violenza e i soprusi chehanno accompagnato la colonizzazione sono, per Nicol, componentichiaramente condannabili dal punto di vista morale, ma non conside-rabili come fondamentali ai fini della valutazione complessiva dellavicenda.94

Sembra che tutto possa essere giustificato da quell’intenzione pu-ramente spirituale di elevare qualsiasi essere umano ad un livello divita humanizada, anche la completa distruzione di una cultura autocto-na. Tale “integrazione”, nella quale si vanno “fondendo” il mondo in-digeno con quello spagnolo, getta le basi di un nuovo ethos, espressionedella realtà ispano-americana, «basi che non sarebbero esistite se si fos-se mantenuto il falso rispetto di un differenziazione, e senza le qualinon sarebbe possibile parlare oggi di un ethos comune a tutta la famigliaispanica».95 La com-unità, secondo Nicol, fu realizzata dall’inizio, dallostabilirsi della colonia, ed effettuò un “livellamento storico” a partire

93. Ci rendiamo conto che quest’affermazione potrebbe sollevare più di un dubbio e diuna critica. In realtà, proprio per il valore di ideologia che Nicol accorda a tali riflessioninon ci interessa andare al fondo della questione, semplicemente va precisato che il punto divista nicoliano, sebbene problematico, riesce comunque a dare ragione della famosa disputaavvenuta tra Bartolomé de Las Casas e Gines Sepúlveda a proposito del modo in cui tratta-re gli indigeni. La questione, affrontata poi nella famosa Junta de Valladolid e nell’ambitodella redazione delle Leyes Nuevas, può infatti essere riportata proprio al fatto che i coloniz-zatori considerassero giusto elevare gl’indigeni ad un livello superiore di civiltà. Chiara-mente tutto ciò si manifesta ai nostri occhi come mancanza di rispetto, mentre la letturanicoliana considera il rispetto come il motore che permette alla colonizzazione di diffonde-re una nuova cultura che, integrandosi con quella indigena, darà vita all’identità ispanoa-mericana. Il problema, a nostro parere, sta nell’interpretazione che possiamo dare della pa-rola “integrazione”. La prospettiva nicoliana si fonda, in modo evidente, sulla possibilità diconsiderare il progresso culturale in maniera univoca, da cui risulterebbe motivata da buonintento l’azione colonizzatrice spagnola. Come sappiamo, la questione non è così semplice.Come approfondimento e punto di partenza per ulteriori ricerche si può fare riferimento aT. Todorov, La conquista dell’america, Einaudi, Torino 2005.

94. Bisogna ammettere che Eduardo Nicol non dà una risposta soddisfacente a talequestione: è vero che non mostra una considerazione positiva nei confronti della violenzaavvenuta nella conquista, ma le sue parole, a nostro parere, assumono un tono quasi sa-pienziale che trascura la questione esistenziale dell’individuo “in carne ed ossa”: «questorispetto non sempre impediva le violenze e lo sfruttamento, nemmeno nella stessa Spagna;in realtà, finora non abbiamo visto nella storia nessuna epoca e nessun luogo dove la convi-venza umana sia riuscita a eliminare completamente i soprusi. Inoltre la Spagna è il paesein cui […] gli uomini possono uccidersi tra di loro, ma si uccidono “con moltissimo rispet-to”; e questa è una sorta di rispetto più radicale, che contiene molto di più e arriva più inprofondità dei rispetti formali o delle garanzie del procedimento giuridico» (PFH, p. 108).

95. PFH, p. 109.

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da quello che lo stesso pensatore chiama l’ordine della vita, intendendocon esso lo strutturarsi e lo svolgersi della vita quotidiana secondo pa-rametri e valori condivisi. Tutto ciò che costituirà, poi, l’arretratezzadei paesi latinoamericani affonda, secondo il pensatore catalano, leproprie radici nei cambiamenti avvenuti nel periodo post-coloniale,quello dell’Indipendenza, e non va assolutamente addebitato al periodoanteriore: «l’azione della Spagna in America – il suo dominio politicoin essa, se così si vuol dire – non ha mai rappresentato un’oppressionedell’uomo sull’uomo fondata su una discriminazione razziale, ma ilcontrario. L’unità umana si è realizzata effettivamente dal secolo XVI.In realtà essa fu il simbolo, la giustificazione morale e giuridica, l’idealestesso della colonizzazione».96

Dunque, nel nuovo ethos, frutto della conquista spagnola e costi-tuente ormai la nuova unidad humana, confluiscono l’elemento spagnoloe quello indigeno, ma quest’ultimo non è più identificabile in base allarazza o alla cultura, potremmo dire «che è il carattere, il genio nativo,insieme ad alcuni comportamenti di stile di vita». La base autentica, ilnuovo ethos comune è proprio questa «unità vitale e culturale creatadagli indigeni e dagli spagnoli insieme dal primo contatto, e consacratadall’Indipendenza». È in questo contatto che iniziò ad esistere qualcosadi completamente nuovo, «qualcosa che impedisce in realtà che unispanoamericano possa essere considerato straniero in Spagna». Que-sto qualcosa di completamente nuovo è la hispanidad: «questa comunitàdello spirito e del sangue, del verbo incarnato (che fu – sottolineamolobene, affinchè lo comprendano anche gli spagnoli – rivelata dall’Indi-pendenza e non scissa da essa), la chiameremmo ispanità».97 La hispa-nidad è frutto di un evento storico irreversibile, una nuova forma

96. PFH, p. 111. Quanto differente l’interpretazione di Pier Luigi Crovetto che, ripren-dendo quella di Tzvetan Todorov, riconosce come «Colombo muove alla ricerca del“nuovo” per trovarvi la conferma di sé e della sua “vecchia” cultura: “scopre l’America, manon gli americani”». Se la causa di tutto ciò è l’ignoranza da parte di Colombo di un codice,il problema non sussite per Cortés che «si insedia al centro dell’universo indigeno, ne stu-dia il linguaggio, ne interpreta il magico diffuso e lancia una serie di messaggi linguistici esimbolici per agire sull’altro e piegarlo al proprio dominio. Cortés “comprende”, ben sapen-do che solo comprendendo può “prendere”» (P. L. Crovetto, Nota introduttiva in T. Todo-rov, La conquista dell’america, cit., p. XI). La posizione di Nicol sembra assomigliare a quelladi Colombo: porsi di fronte alla nuova cultura leggendola attraverso la lente della propria,considerandone il livello in riferimento ai parametri che costituiscono la propria idea diprogresso.

97. PFH, p. 113.

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dell’essere uomo, categoria antropologica che accomuna l’essere spa-gnolo e l’essere ispanoamericano. Questo, però, fa sì che parlaredell’hispánico non significhi parlare dello “spagnolo” e che tale terminenon sia solo un eufemismo utilizzato dagli spagnoli per rendersi piùaccettabili agli occhi degli ispanoamericani. Così come España costitui-sce solo una parte dell’hispanidad, lo stesso vale per Hispanoamérica:«non si tratta di una somma ma di un fondamento. Non si tratta diformare un tutto con componenti distinti , ma di avvertire che il tuttoè unitario perché le modalità distinte posseggono un elemento o qualitàcomune. È l’ispanità l’elemento comune».98 La hispanidad, dunque, hauna forma spagnola e una forma americana che Nicol considera comedue specie dello stesso genere. Pertanto, nessun individuo che appar-tiene a una delle due specie potrà conoscere o possedere integralmenteil proprio essere se non conosce o possiede questa unità di se stesso,rappresentata dall’altra specie: «se vi è una Spagna in America, è inevi-tabile che vi sia un’America in Spagna: uno non può avere metàdell’essere per metà ospitato in un altro posto senza ospitare, a sua volta,la metà dell’essere estraneo che proviene dall’altro luogo».99

Possiamo affermare che la hispanidad è la forma dell’essere uomospagnolo e ispanoamericano, che è uomo e allo stesso tempo collocatosecondo precise coordinate spazio-temporali che lo rendono uguale edifferente da colui che non può riconoscersi attraverso tale categoria.La filosofia, allora, potrà dedicarsi a quello che è l’uomo, al suo essere,mentre all’ideologia resta il compito di individuare la caracterologíadell’uomo hispánico. La hispanidad, prodottasi storicamente come frutto,voluto o meno, di precise volontà, va ricompresa nel quadro più ampiodi una lettura della realtà umana, come sua particolare possibilità che simanifesta come differenza ma solo sulla base di una più ampia unità,quella dell’essere uomo. Il problema della filosofia hispánica, dunque, ela hispanidad come punto centrale di questo problema, sono da ricon-durre alla concezione dell’uomo, e della sua storicità costitutiva, elabo-rata da Nicol.100

98. PFH, p. 116.99. PFH, p. 117.100. Cfr. a tal proposito A. Constante, R. Horneffer, Prefacio in E. Nicol, El problema de

la filosofía hispanica, cit., p. 16 e ss.

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L’attenzione rivolta, da noi in maniera piuttosto sommaria,101 alladefinizione di hispanidad elaborata, ma sarebbe mglio dire ri-conosciuta,da Eduardo Nicol, ha come intento quello di mostrare la sua radicaleattenzione alla “vicenda umana” nella sua radicalità costitutiva, ovverodal punto di vista filosofico. Questo stile fa di Nicol un pensatore che,pur appartenente in maniera “radicale”102 alla storia del pensiero euro-peo, può essere ascritto alla tradizione filosofica latinoamericana intesacoma riflessione “su” e “a partire” dall’uomo.103 Tale condizione, di ap-partenente a una duplice tradizione, latinoamericana e catalana104 ciobbliga a rivolgere la nostra attenzione, in chiusura di capitolo, al locus,

101. Va notato, infatti, che le pagine che Eduardo Nicol dedica alla genesi dell’idea di hi-spanidad occupano, al contrario, tutta la parte centrale de El problema de la filosofía hispánica,dove l’autore riflette sulla ricerca di identità sviluppatasi nell’ambito della cultura latinoa-mericana a partire dalla colonia fino al ventesimo secolo secondo una triplice ripartizione:positivismo e borghesia, meditazione sul proprio essere, indigenismo e panamericanismo(cfr. PFH, pp. 73-106).

102. Quando diciamo “radicale” lo intendiamo in senso duplice: in primis nel senso cheEduardo Nicol nacque e si formò in Europa assorbendo la cultura catalana e ciò che questaaveva di specifico e di più generalmente europeo; in secondo luogo nel senso che, pur con-siderando la filosofia universale e il Messico luogo in cui decideva di vivere secondo unascelta volontaria e libera, Nicol sempre si definì esiliato e riconobbe un legame con Barce-lona, quindi l’Europa.

103. Eduardo Nicol potrebbe rientrare senza ombra di dubbio nell’ambito che delineanole parole di Arturo Andrés Roig: «una teoria e critica del pensiero latinoamericano deveprendere in considerazione come punto di partenza la problematica […] relativa a ciò cheabbiamo denominato a priori antropologico. […] vale a dire, la comprensione della storicitàdell’uomo» (Teoría y crítica del pensamiento latinoamericano, FCE, México 1981, p. 16). Per lostesso motivo il suo lavoro non cade fuori dal cono d’ombra proiettato dal progetto decla-mato da Leopoldo Zea, allievo di José Gaos, di una filosofia latinoamericana come filosofíasin más a patto che si delinei «come problema dell’uomo», chiedendosi «che cosa fadell’uomo un Uomo?» (La filosofía Americana como filosofía sin más, Siglo Veintiuno, Méxi-co-Madrid 1998, p. 9 e ss.). Riguardo la filosofia latinoamericana cfr. anche P. Colonnello (acura di), Filosofia e politica in America Latina, Armando, Roma 2005 (in particolare i saggi diG. Cacciatore, P. Colonnello, S. Santasilia); P. Colonnello, Itinerari di filosofia ispanoameri-cana, Armando, Roma 2007; G. Cacciatore, America Latina e pensiero europeo nella “filosofiadel viaggio” di Ernesto Grassi, «Cultura Latinoamericana», Annali dell’ISLA, 1-2 (1999-2000),pp. 367-381; G. Cacciatore, Identità e filosofia dell’interculturalità, «Iride», 45 (2005), pp. 235-244; G. Cacciatore, P. Colonnello, S. Santasilia, Ermeneutica tra Europa e America Latina, cit.

104. Riguardo il suo sentirsi “figlio” della Catalunya toccanti sono le parole da Nicolpronunciate alla fine della già citata intervista con Rubert de Ventós: «Ho la convinzionedi aver servito la Catalunya da quando ero una ragazzo fino al giorno d’oggi. Sempre, finda ragazzo […] Ho voluto solo dire che in questo confuso mondo dei giorni nostri ancora èpossibile incontrare, qualche volta, una fedeltà che non si aspetta nulla in cambio» (EduardNicol, pensador catalán. Diálogo con Xavier Rubert de Ventós, Eduardo Nicol. La filosofía comorazón simbólica, cit., p. 25).

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inteso in maniera duplice come spazio fisico ma anche culturale, in cuisi formò inizialmente lo stesso Nicol: la escuela de Barcelona.

1.3. La escuela de Barcelona

Controversa sin dal suo primo apparire, Nicol riconosce, nel pro-porre tale definizione,105 che in realtà non si può parlare della escuela deBarcelona come se la sua esistenza fosse già assodata ed evidente agliocchi del mondo culturale: «so bene che non esiste una scuola di Bar-cellona (intendo una scuola filosofica). Tuttavia se ne parla, si è scrittosu di essa e i suoi componenti».106

105. Basti pensare al fatto che Abellán considera la definizione escuela de Barcelona comeun’artifizio storiografico volto a riunire un certo numero di filosofi che hanno vissuto o sisono formati nell’ambiente dell’Università di Barcelona le cui riflessioni, però, tranne perquel che riguarda pochi di questi e già a partire da Joaquín Xirau, non hanno molto in co-mune, cfr. «Ínsula», 328 (1974), p. 10. Più tardi è possibile ritrovare la dicitura escuela de Bar-celona nella già citata Historia del pensamiento español de Séneca a nuestros días (p. 625) ma soloper indicare un modo possibile, sebbene non storiograficamente verificabile, di raggrupparealcuni filosofi formatisi nell’ambiente culturale catalano. A tali affermazioni va aggiunto ilfatto che nella sua Historia de la filosofía española (Anthropos, Barcelona 1985), Alain Guynon menziona affatto l’esistenza di questa scuola (nel paragrafo dedicato ad Eduardo Nicolriferisce delle pagine scritte da Nicol su tale scuola ma solo per sostenere come ciò indichiche il pensiero di tale autore come quello di Xirau sono caratterizzati da un tinte catalán, indiretto riferimento al loro essere influenzati dalla dottrina del senso comune, cfr. p. 354).Nel nostro caso, lasciando da parte la questione dell’esistenza reale o meno di questa scuola,intendiamo riferirci alla voce che José Ferrater Mora include nel suo Diccionario de Filosofía(Alianza Editorial, Madrid 1988, p. 289) dove riconosce a Nicol il merito di avere per primoproposto tale definizione «al fine di designare una tradizione filosofica sviluppatasi princi-palmente in Barcelona» avente delle precise caratteristiche. Questa posizione permette aFerrater Mora di rispondere alla contestazione sollevata da Abellán ricordando che se èpossibile parlare di una «“actitud” filosófica» comune è possibile individuare, studiando lecondizioni entro le quali si manifesta tale atteggiamento costituente la trama comune delleriflessioni di vari pensatori, un insieme definibile come scuola. Per un ulteriore approfon-dimento ci perettiamo di rimandare di nuovo all’articolo di Luis De Llera e Irene Buonafal-ce, L’esilio repubblicano del 1936 in Messico: filosofia e identità del pensiero in lingua spagnola, cit., eall’Introduzione, sempre di Luis De Llera, alla traduzione italiana de El problema de la filosofíahispánica (Il problema della filosofia ispanica, Città del Sole, Napoli 2007, pp. 7-42).

106. PFH, p. 171. In realtà sembra essere Nicol il primo ad aver proposto la definizioneescuela de Barcelona e non sapremmo davvero riportare scritti precedenti al suo nel quale siipotizzi l’esistenza di un tale nucleo di pensatori; va aggiunto, inoltre, che ogni testo di sto-ria della filosofia spagnola (basta confrontare i testi di José Luis Abellán, Alain Guy, Euse-bio Colomer) riporta come punto di partenza del dibattito su tale questione le affermazionicontenute ne El problema de la filosofía hispánica.

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Bisogna riconoscere che nella Spagna di inizio XX secolo due sonole città nelle quali più si ravvisa un fermentare della cultura capace didare frutti di un certo livello dal punto di vista filosofico: Madrid eBarcelona.107 Nella prima si formò quella che poi verrà definita laescuela de Madrid,108 che sta ad indicare non un gruppo di filosofi cheinsegnarono nell’ateneo madrileno, ma l’insieme di coloro che, forma-tisi in tale ateneo sotto la guida di José Ortega y Gasset, seguirono ilsuo orientamento, riconoscendosi debitori verso il suo magistero.109

Una scuola del genere, a parere di Nicol, ha una solidissima coesioneinterna ma resta limitata dal pensiero del suo maestro,110 dal numeropreciso dei suoi discepoli e dalla data in cui iniziò a diffondersi il suoinsegnamento. Queste caratteristiche non sono riscontrabili in ciò chedenominiamo escuela de Barcelona: non v’è un maestro e pertanto non èpossibile fissare una data precisa che indichi il costituirsi di tale scuo-la.111 In più, non essendo riscontrabile un’unità di dottrina non si puòdeterminare chi appartenga o meno a tale scuola. Eppure esiste qualco-sa comune ad un determinato numero di pensatori formatisi nell’ate-neo di Barcelona che ci permette di parlare di questo insieme nei ter-mini di una “scuola”.

Le affinità tra i diversi membri di tale nucleo non sono riscontrabilidal punto di vista della dottrina, «sono piuttosto di una diversa indole,ed è in esse che si può trovare questo qualcosa che permette di porre,perlomeno, la questione se la scuola esista o meno». Questo qualcosa«dovrà essere un insieme di caratteristiche comuni, forse più essenziali

107. L. De Llera, El último exilio español en América, cit., p. 534.108. Tale definizione si deve a Julián Marias (La Escuela de Madrid, in Obras Completas,

V, Revista de Occidente, Madrid, 1982), poi accolta nel già citato Diccionario de Filosofía diJosé Ferrater Mora.

109. Cfr. E. Colomer, El pensamiento novecentista in G. Díaz Plaja (dir.), Historia generalde las literaturas hispánicas, Editorial Vergara, Barcelona 1968, p. 291.

110. Ci sarebbe da chiedersi se davvero tutti i pensatori che la critica ascrive a talescuola rientrino in tale tipologia. Bisogna tenere ben presente che alcuni tra gli allievi diOrtega furono contemporaneamente allievi di Xavier Zubiri o di Manuel García Morente ene subirono l’influenza nonché l’orientamento. Basti pensare ai soli due nomi di MaríaZambrano e di José Gaos.

111. Anche qui, a nostro parere, la controverse posizioni degli storiografi rendono pro-blematica l’accettazione di tale affermazione: il già citato Abellán contesta proprio il fattoche anche in quella che viene citata come escuela de Barcelona, se proprio dovesse esistere inbase ai parametri forniti da Nicol, si potrebbe individuare un pensatore dal quale prende ilvia tale tradizione, che sarebbe Xavier Llorens i Barba, e quindi una data d’inizio riferibilealla pubblicazione della sua opera.

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per la filosofia che le teorie stesse sulle quali ci basiamo per la defini-zione formale di una scuola».112 Secondo Nicol, non è tanto una dottri-na a permettere che si crei una scuola filosofica quanto il carácter, lo“stile”. Stile o carácter, altro non è se non la «maniera di vedere le co-se», nella quale si fondono un elemento congenito ed uno culturale,quest’ultimo frutto delle scelte attraverso le quali si è agito sulle pro-prie disposizioni naturali, cioè proprio su quell’elemento congenito,“modellandole”. Può capitare che tali disposizioni si diano, con trattisimili, in vari individui sia viventi nello stesso momento storico, siatemporalmente distanti, «di modo che questa specie di affinità caratte-rologica determina in tutti costoro, senza un preventivo accordo, unaanaloga coincidenza nella modellazione stilistica delle proprie disposi-zioni naturali».113 Questa coincidenza costituisce la tradizione.

Nelle pagine iniziali abbiamo potuto confrontarci con la definizioneche Ferrater Mora dà dello “stile di pensiero” riferendolo all’ensayo co-me sua precisa modalità espressiva ma sottolineando, soprattutto, cheuno stile di pensiero non è una filosofia. Ci sembra necessario, allora,chiarire subito che nell’individuare lo stile di quella che possiamo defi-nire come la tradizione che sta alla base della escuela de Barcelona, lostesso Nicol è consapevole che siamo ancora nel campo che lui stessoha definito dominio dell’ideologia. Lo stile di pensiero non è una filoso-fia di per sé: può caratterizzare una maniera di fare filosofia, la qualeperò sempre deve tendere ad essere scienza e a perseguire l’universalitàcome punto di approdo per le sue ricerche, affinchè esse siano patrimo-nio comune. Una tradizione dunque, quale può essere quella catalana,non si identifica, per quanto riguarda il suo carácter con la filosofia toutcourt; essa rimane una maniera di leggere una possibile identità, un et-hos comune che permetta di parlare di una cerchia di pensatori in ma-niera che si possa legarli l’un l’altro in base a determinati tratti comuni.

Dunque è possibile parlare della escuela de Barcelona in base alla pos-sibilità di rintracciare una tradizione. La prima questione è quella per laquale, secondo Nicol, va subito precisato che tradizione e scuola nonvanno direttamente identificate: una scuola è una specie di tradizionema non ogni tradizione dà vita ad una scuola. Dove tradizione e scuolasi integrano in campo filosofico, generalmente avviene che alcuni pen-

112. PFH, p. 171.113. PFH, p. 172.

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satori influenzati dalle idee del maestro le accettino come vere, le adot-tino e le diffondano, in alcuni casi le riformulino aggiungendovi qual-cosa di nuovo o rinnovandole in parte, ma sempre mantenendosiall’interno della stessa linea evolutiva del maestro. In un contesto diquesto genere può accadere che il discepolo mostri fedeltà più verso lafigura del maestro che verso la ricerca della verità. Il rischio che questoavvenga è dovuto, secondo Nicol, al fatto che nel processo di costitu-zione di una scuola ha un peso decisivo il «fattore personale» del mae-stro, con l’ulteriore rischio che i membri dotati di originalità intellet-tuale siano poi considerati traditori: «i migliori per la filosofia sono ipeggiori per la scuola».114 Il rischio è che tutta la capacità di rinnovare eriformulare sia considerata una pericolosa forma di eterodossia, pernon dire, di eresia. Questo, a parere di Nicol, corrisponde al capovol-gimento della stessa possibilità della ricerca in quanto «nella filosofia enella scienza qualsiasi ortodossia è perniciosa».115 Al filosofo non spettail compito, sebbene la sua “vocazione” si esplichi nel dialogo e quindinella condivisione, di propagandare i risultati delle sue riflessioni, madi esporli come frutti comuni: «il propagatore di una fede è l’apostolo oil missionario; il propagandista di una teoria non so cosa sia; di certonon è filosofo né uomo di scienza. L’episteme non richiede apostola-to».116

Tale atteggiamento sarebbe totalmente avverso a quella philía, amo-re per la verità, che deve caratterizzare la vocazione filosofica; pertantoil compito di una scuola deve essere la promozione del dialogo, comelogos comune, sempre soggetto a cambiamento, e non il reclutamento diadepti. La filosofia deve incontrare, non cercare compagnia: «solitariodeve essere il filosofo quando pensa, perché nell’ultimo momento deci-sivo (e per quanto abbia dialogato prima con tutti i maestri della storia)deve porre se stesso davanti al problema, deve viverlo, e non può sosti-tuire con nessun altra la propria esperienza personale. Questa situazio-ne si accetta con la decisione vocazionale».117 Ritorna in maniera estre-mamente forte il tema della vocazione, come garanzia di una ricercaautentica, al fine di mostrare che la coesione interna ad una scuola può

114. PFH, p. 173.115. Ibidem.116. PFH, p. 174.117. PFH, p. 176. Il corsivo è nostro.

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e deve avere valore solo dialogico, mai politico. Tutto ciò può verificar-si solo a patto che il maestro riconosca, e sappia trasmettere ai suoi di-scepoli, un profondo senso di umiltà che nasce dal riconoscimento dellapropria insufficienza e che faccia sì che l’impegno teoretico sia volto al«cercare la ragione» più che all’«aver ragione».118

In base a quanto detto, Nicol può concludere che la “missione”dell’intellettuale deve essere una “missione di pace”, che va costruita erealizzata giorno per giorno: la ricerca di un continuo dia-logo, condivi-sione di una ragione che riconosce la propria storicità come insuffi-cienza e necessità di una philía che è com-unità della verità. La filosofiadeve sempre essere riconosciuta come una vocazione e come tale puòessere solo realizzata attraverso una vita che decide consapevolmentedi “giocarsi” secondo tale vocazione: «la decisione non è facile. Anchequi, come sempre, la vita si paga con la vita, e ogni beneficio vale unrinuncia».119 Si mostra, ormai, in maniera evidente che ogni volta cheNicol tenta di accostarsi al tema della filosofia, che avvenga attraversola problematica della filosofia hispánica oppure della questione “scola-stica”, non può evitare di riportarsi all’idea di filosofia come vocazione,intessuta di quella philía che è amore per la verità come terreno comunenel quale si radica la vita di ogni uomo, quindi anche come vocazioneal dia-logo, alla condivisione, alla pace.

Quello che lo stesso pensatore definisce come il “senso pacifico”della filosofia è proprio uno di quei tratti della tradizione che costitui-sce la escuela de Barcelona, «quelle caratteristiche che si trovano alla basedelle diverse dottrine dei suoi maestri, come qualcosa di comune eformativo di una tradizione».120 Deve essere chiaro che il discorso diNicol mira a rintracciare la possibilità di parlare di una scuola in basealla più radicale possibilità di individuare una tradizione. Ci interessasottolineare ciò affinchè risulti chiaro che la escuela de Barcelona noncorrisponde a quella possibilità già descritta nella quale una tradizionee una scuola si identificano, sebbene tale possa apparire. Va sempre te-nuto ben presente che nella tradizione alla lo stesso Nicol pensa di ap-partenere non è possibile rintracciare un maestro ma solo vari pensato-ri e varie dottrine aventi caratteri comuni, di modo che se accettiamo

118. PFH, p. 181.119. PFH, p. 182.120. Ibidem.

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che queste condizioni siano sufficienti per parlare di scuola, allora esi-ste una escuela de Barcelona, altrimenti no. Il discorso nicoliano non hacome intento quello di mostrare di appartenere ad una scuola che si puòpresentare come l’altra importante alternativa nei confronti dellascuola di Madrid; il suo intento, al contrario, è quello di indicare chenon è necessario né utile appartenere ad una scuola se questa non per-mette alla riflessione di ogni membro di svilupparsi in maniera auto-noma.

È giunto il momento di analizzare più approfonditamente quei trat-ti comuni che costituiscono la tradizione della quale Nicol stesso sisente parte. È possibile incamminarsi su tale sentiero partendo dallasua descrizione di Jaume Serra Hunter, riconosciuto come maestro:uomo capace di guidare il proprio allievo all’esercizio autonomo delproprio pensiero, sintomo di un rispetto che, pur velandosi di silenzio,non escludeva la possibilità di un rapporto fatto di intimità intellet-tuale e personale. «Serra Hunter era in effetti un filosofo autentico,anche se il volume della sua opera scritta può essere considerato trascu-rabile da qualcuno»121 e nei circoli filosofici più conosciuti, in particola-

121. PFH, pp. 183-184. Jaume Serra Hunter insegnò all’Università di Barcelona, dellaquale fu anche rettore, nacque nel 1878 e morì nel 1943 poco dopo essere giunto in Messico,anche lui insieme agli altri “esiliati della filosofia”. L’opera pubblicata dallo stesso SerraHunter risulta scritta tutta in catalano. Tra i suoi lavori vale la pena di ricordare Filosofia icultura: suggestions i estudis (prima e seconda serie, Libreria Catalònia, Barcelona 1930 e 1932),Figures i perspectives de la història del pensament (Polonio & Margelí, Barcelona 1935) e El Pen-sament i la vida : estímuls per a filosofar (Club del Libre Català, México 1945) scritto durante ilsuo esilio e pubblicato postumo. Interessanti sono anche i suoi studi riguardanti le figure diSocrate (Sòcrates, Darius Rahola, Girona 1931), di Spinoza (Spinoza, Darius Rahola, Girona1933) e Xavier Llorens i Barba (Xavier Llorens i Barba: estudis i carrera professional, Impr. de laCasa d'Assistència P. Macià, Barcelona 1937). Abellán lo inserisce nell’ambito dello spiri-tualismo catalano, sviluppatosi sotto l’influenza del pensiero di Eugenio D’Ors e della dot-trina scozzese del senso comune (Historia del pensamento español de Séneca a nuestros días, cit.,p. 625), mentre Alain Guy, pur riconoscendo il valore delle affermazioni di Abellán, va piùa fondo ravvisando che Serra Hunter è erede, insieme a Tomàs Carreras Artau, dello spiri-tualismo elaborato da Xavier Llorens i Barba, che considera l’esplorazione dello spiritoumano come la base di qualunque riflessione filosofica, riflessione che deve avere la carat-teristica della sistematicità e del realismo. Guy definisce il suo pensiero col nome di spiri-tualismo realista (Historia de la filosofía española, cit., pp. 328-329). A nostro parere è necessa-rio, anche se attraverso brevi e rapidi tratti, ricordare che anche Norbert Bilbeny, nel suovolume Filosofia contemporaina a Catalunya (Edhasa, Barcelona 1985), considera Francisc Xa-vier Llorens i Barba un importante esponente di quella tradizione a cui viene dato il nomedi escuela de Barcelona. Tale pensatore, professore dell’Università di Barcelona, fa parte diuna generazione di studiosi catalani ai quali appartengono anche i nomi di Jaime Balmes eRamon Martí d’Eixalà, tutti legati da una concezione spiritualista che, pur aprendosi alla

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re quelli in cui preminenti erano le figure di Eugenio d’Ors e José Or-tega y Gasset, il suo nome non fosse affatto stimato.122 La capacità didialogare di Serra Hunter andava oltre la questione tecnica e dottrinale:«spiegando le filosofie, Serra Hunter insegnava quello che è filosofia; enon lo faceva elaborando una teoria personale, ma vivendola e manife-stando in modo non intenzionale, solo con la sua presenza, in cosa con-sista essere un filosofo».123 La filosofia, se è vocazione, va vissuta, in-carnata, affinchè possa parlare della vita, possa essere scienza, non par-ticolare, ma dedita allo studio delle questioni prime e fondamentali.Serra Hunter mostrò, secondo Nicol, nella sua stessa vita in cosa con-sista quella vocazione filosofica che è ricerca e dialogo.

Anche lui formò dei discepoli, ma nel senso in cui Nicol concepiscetale possibilità; formò studiosi che seppero, a partire dal pensiero delmaestro, iniziare a pensare autonomamente quelli che riconoscevano

tradizione moderna, non respingeva il legato di una tradizione che si può far rimontare finoalla figura di Ramon Llull, e che cercava nella filosofia dello spirito un accordo tra quel ca-rattere particolare tipicamente catalano che è il seny e la dottrina del senso comune (Filosofiacontemporaina a Catalunya, cit., p. 177; Historia de la filosofía española, cit., pp. 241-242). Nellospecifico Llorens i Barba sostiene l’idea di una filosofia come ricerca dello spirito umanodiretta alla soluzione di un problema insolubile nella sua totalità, quindi come ricerca dellaverità, che non si dà mai nella sua completezza. Per questo essa deve essere preliminarmen-te conoscenza dello stesso spirito che effettua la ricerca: il nosce te ipsum è per Llorens i Bar-ba il precetto fondamentale di ogni filosofare, la teoria della conoscenza non può esserescissa da una preliminare psicologia introspettiva il cui oggetto è la vita interna, ovvero idati originari della coscienza: «psicologia come scienza dell’anima umana secondo la ma-niera in cui si dà all’osservazione» (Filosofia contemporaina a Catalunya, cit., pp. 178-185). Lafilosofia si presenta soprattutto come comprensione dell’uomo, la quale riposasull’osservazione dei fenomeni interni come indagine preliminare. La coscienza, chiamataspirito, viene considerata come il punto di partenza che non può essere messo in discussio-ne ma che è suscettibile di analisi. Il riportare tutte queste informazioni non è frutto solo diun intento storiografico ma di contribuire sia pur parzialmente alla minima comprensionedella genesi del pensiero nicoliano. Dinanzi a quanto detto, non ci sembra affatto stranoche l’opera filosofica di Eduardo Nicol inizi con un’indagine psicologica nella quale, comeavremo modo di vedere nel successivo capitolo, non si tratterà di psicologia clinica ma diun’analisi dello spirito umano attraverso quelli che possono essere considerati come datioriginari della coscienza.

122. Lo stesso José Ferrater Mora riconosce questo triste destino di Serra Hunter con-fermando, però, insieme a Nicol che «in una storia della filosofia catalana il nome di JaumeSerra Hunter non dovrebbe mancare», in E. Ronzón, Entrevista a José Ferrater Mora, , «ElBasilisco», 12 (1981), p. 52. In quest’affermazione, il termine “catalana” traduce l’espressioneen Cataluña, per cui va inteso in riferimento alla localizzazione spazio-temporale del filoso-fo di cui si sta parlando e non è affatto segno di un limite speculativo che sarebbe solo unodi quegli ismi condannati dallo stesso Nicol alla terra della non-scienza.

123. PFH, p. 184.

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come problemi comuni al filosofare. Tra questi ci fu un altro dei suoimaestri: Joaquín Xirau.124 La personalità di Xirau risulta essere moltodifferente da quella del suo maestro: Nicol lo definisce come «un ri-formatore, un entusiasta», cosa che lo avrebbe presto condotto a dive-nire «caposcuola».125 La sua influenza come maestro è, ancora una vol-ta, di ordine pedagogico e non ideologico, «proprio come Serra Hunter,anche se in uno stile molto diverso, la praxis filosofica gli sembrava piùimportante della teoria, per lo meno durante la sua gioventù […]. lapraxis filosofica di Xirau rivelava il carattere etico soggiacente a tutti isuoi progetti […]; per questo anche Xirau si inserisce, nonostante i suoicontrasti con Serra Hunter […], nell’atmosfera e nello stile generalecaratteristico di quella che abbiamo chiamato la scuola di Barcelona».126

Una tradizione, quella di questa scuola, alla quale lo stesso Nicol ascri-ve Llorens i Barba e Carreras Artau e che, per quanto riguarda la gene-razione alla quale appartiene lo stesso Nicol, ha potuto leggere operequali la Filosofía crítica di Ramon Turró,127 attraverso la quale entraronoin contatto e allo stesso tempo a far parte di una tradizione nella quale

124. Joaquín Xirau fuggì anche lui in Messico a causa della vittoria delle forze franchi-ste in Spagna. Discepolo di Serra Hunter, anch’egli fu professore all’Università di Barcelo-na. Oltre al formarsi nell’ambito della escuela de Barcelona, Xirau effettuò i suoi studi di dot-torato a Madrid subendo l’influenza dell’ambiente orteguiano, come allievo dello stessoOrtega e di García Morente. Formò molte generazioni, sia in Spagna che in Messico, allequali appartennero anche Eduardo Nicol e José Ferrater Mora. Figlio della tradizione cata-lana, si mostrò aperto allo studio delle maggiori correnti filosofiche del suo tempo, tentan-do di elaborare una sintesi tra orteguismo, bergsonismo e fenomenologia, all’interno diquello che Guy chiama «spiritualismo assiologico» (Historia de la filosofía española, cit., p.343). Muore in Messico nel 1946, dopo aver lavorato anche lì nell’ambito della ricerca filoso-fica per circa sette anni. L’intera opera di Joaquín Xirau è stata da poco raccolta sotto la di-rezione del figlio Ramon in J. Xirau, Obras completas, 4 voll., Anthropos, Barcelona 1998-2004. Per ulteriori approfondimenti riguardo l’opera Xirau rimandiamo all’interessantelavoro di Guy Reine, Axiologie et métaphysique selon Joaquim Xirau: Le personnalismecontemporain de l'Ecole de Barcelone, Association des Publications de l'Université deToulouse-le Mirail, Toulouse 1976 e di Gabriela Hernández García, La plenitud vital, ética dela conciencia amorosa en la filosofía de Joaquín Xirau, UNAM, México 2000.

125. PFH, p. 185.126. Ibidem.127. Ramon Turró studiò medicina e poi filosofia presso l’Università di Barcelona, fon-

dando anche la Sociedad Catalana e Filosofía. Nella sua Filosofía crítica (Madrid 1919), ana-lizzò a fondo la problematica della conoscenza riprendendo e sottoponendo a profondaanalisi la questione dell’evidenza e della certezza secondo ciò che ne aveva affermato nellasua opera Jaime Balmes.

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riconoscevano una koinonía di valori e posizioni.128 Un clima in cui ri-sultavano familiari nomi quali Lull, Martí d’Eixalà, Luis Vives.

Lo stesso Nicol ammette quanto sia difficile spiegare in manierachiara e comprensibile in cosa potesse consistere questo clima, questocarácter a chi non è in esso immerso. Non resta che ripetere ancora unavolta che è un «“modo di vedere le cose” – e perciò del modo di farefilosofia – comune ai componenti della suddetta scuola».129 Un ethoscomune che corrisponde, più che ad una teoria, a qualcosa di simile alpascaliano esprit de finesse e, come questo, dedito all’indagine delle que-stioni fondamentali secondo un metodo che è, sì, sistematico e scienti-fico ma non asettico e poco aderente alla vita. Questo esprit «non è cosadi raziocinio, ma di olfatto». È nel carácter della tradizione nella quale siradica la stessa escuela de Barcelona che si può ritrovare il motivodell’aver accolto, da parte di alcuni maestri, «la filosofia chiamata delsenso comune».130 Non è possibile, secondo Nicol, rintracciare dei mo-tivi determinanti che spieghino in maniera esaustiva il perchédell’apertura a tale dottrina, solo ci si può riferire al suddetto esprit,carácter, che da sempre si è manifestato come attenzione al dato ultimo,nel suo mostrarsi in maniera evidente, come punto di partenza di ognifilosofare. Lo stesso Nicol riporta il fatto che Serra Hunter durante le

128. Nel già citato Las formas de vida catalana, Ferrater Mora ricorda che il seny esiste infunzione di un’altra forma di vita caratteristica della cultura catalana: la continuità.Quest’ultima consiste nell’essere radicati nel proprio passato non in maniera passiva bensìcome innovatori: «come si dice che il futuro permette al passato di continuare, si può direche il passato permette di continuare al futuro». Questa relazione esistente tra passato efuturo è simile a quella che esiste tra una frase ancora non conclusa e il suo processo di con-clusione. Si tratta di una storia mai conclusa ma che mantiene sempre il peso della tradi-zione: «entro certi limiti irrompe di continuo la “libertà di composizione”. […] Il nuovoviene in qualche modo dal vecchio, però il vecchio viene, per così dire, “innovato” senzatregua». All’interno di tale quadro teorico, Ferrater Mora riconosce che quello che cambia èil senso: il passato è «qualcosa che bisogna ancora, e per sempre, fare – o rifare». La vita,però, non è determinata dal passato, ma orientata da questo in modo tale che ogni azionecomponga in sé passato e futuro. La descrizione conclusiva che Ferrater Mora fa della con-tinuità come forma di vita “regina” della vita catalana, ci sembra in perfetta armonia con leaffermazioni di Nicol: «l’autentica continuità è la continuità cosciente e inconsciente a untempo; quella che si manifesta nelle riflessioni e negli atteggiamenti, parole e gesti» (Lasformas de vida catalana, cit., pp. 20-24). La maniera in cui, qui, viene descritto il costituirsidell’azione umana come composizione dell’elemento passato e di quello futuro risulteràessere completamente in accordo con le riflessioni che Nicol elaborerà a partire dalla Psico-logía de las situaciones vitales.

129. PFH, p. 192.130. PFH, p. 194. Il corsivo è nostro.

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sue lezioni parlasse di Martí d’Eixalà131 e Llorens i Barba, come di colo-ro che a partire dalle riflessioni della filosofia scozzese del senso comu-ne, avessero ripreso la questione apportandovi le loro modifiche.132

131. Ramon Martí d’Eixalà fu contemporaneo, anche se più anziano di quattordici anni,di Llorens i Barba, di cui fu maestro. Si dedicò soprattutto all’interpretazione della filosofiascozzese del senso comune, traducendo in spagnolo le opere di Thomas Reid, che reputòpiù interessante rispetto alle altre correnti filosofiche sviluppatesi dopo Kant (cfr. A. Guy,Historia de la filosofía española, cit., pp. 241-242).

132. L’autore di riferimento di questi maestri fu, dunque, Thomas Reid. Le idee del pen-satore scozzese, la convinzione che esistesse un “senso comune” inteso come insieme digiudizi originari ispirati da Dio, che ci appartengono in modo costitutivo, e che fanno dabase a tutta l’attività della ragione (cfr. Essay on the intellectual powers of the mind, 2, 12, Wish,London 1819, pp. 266-267) fu assorbita e “rinnovata” dalla tradizione catalana. Come giàricordato, coloro nei quali è riscontrabile traccia di questo orientamento sono Llorens i Bar-ba e Martí d’Eixalà, ma accanto a questi nomi non può mancare quello di Jaime Balmes. Sefu Martí d’Eixalà colui che introdusse la questione “senso comune”, dal punto di vista filo-sofico, nell’ambito della tradizione di studi che si andava sviluppando dentro e attornoall’ateneo di Barcelona, furono Llorens i Barba e Jaime Balmes, invece, a dare il contributopiù interessante e originale. Il primo di questi affermando che la verità risiede in un fattoprimordiale della coscienza: la certezza o evidenza del giudizio. La certezza consisterebbenell’essere coscienti di un giudizio che qualifichiamo come verace, ma quello che è fonda-mentale è che tale certezza è un fatto originario che ogni uomo deve riconoscere come in-separabile dalla vita della coscienza. È costitutiva della stessa coscienza e si manifesta come“lume naturale”, “senso comune”. Llorens i Barba è il primo a definire il suo pensiero comedottrina o filosofia del senso comune, considerando con tali definizioni una riflessione filo-sofica che ha il suo principio nell’individuazione di quelle che sono le condizionidell’esperienza e che, conseguentemente, non possono da questa né scaturire né essere spie-gate. Senso comune, dunque, come riconoscimento di un dato originario, costituente la no-stra coscienza che permetta di discriminare sulla verità o falsità riguardo quelli che sono iprincipi primi, le verità che si mostrano ma che non possono essere dimostrate (N. Bilbe-ny, Filosofia contemporaina a Catalunya, cit., pp. 192-194). Il secondo, Jaime Balmes, perso-naggio chiave della storia del pensiero spagnolo, filosofo al quale fu dato il soprannome, instile medievale, di doctor humanus, visse negli stessi anni di Martí d’Eixalà e Llorens i Barba.Si dedicò allo studio della filosofia scolastica, in particolare del tomismo, tentando una con-ciliazione fra questo e la moderna gnoseologia. Tra le sue opere più importanti possiamoricordare la sua Filosofía fundamental (Barcelona 1846), il Curso de filosofía fundamental (Ma-drid 1847), che tanto colpì l’altro noto filosofo dell’esilio José Gaos, e l’opera che gli donòpiù fama vale a dire El Criterio (Madrid 1845), un insieme di norme da utilizzare per con-durre bene il proprio intelletto, una sorta di discours de la méthode. Nella sua Filosofía funda-mental, Balmes parla del senso comune come di una legge dello spirito che consiste inun’inclinazione naturale a dare il proprio assenso ad alcune verità “non testimoniate” dallacoscienza né dimostrate dalla ragione, ma necessarie allo svolgersi della vita intellettuale emorale (cfr. Filosofía fundamental, in Obras completas, XVI, Biblioteca Balmes, Barcelona1927, p. 316). Come Llorens i Barba, Balmes considera fondamentale la questione della“certezza” al punto da affermare che la filosofia deve iniziare da un’affermazione certa chenasce dalla chiarezza della visione o da istinto conforme a ragione: questa è la positivitàdell’io. Questa è la base della filosofia, la luce grazie alla quale possiamo vedere il mondo(cfr. A. Guy, Historia de la filosofía española, cit., pp. 233-234).

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«Quali velate affinità propiziarono questa influenza? In che modoqueste stesse propensioni comuni hanno potuto orientare il nostro pen-siero verso altri percorsi di esplorazione e verso conclusioni differen-ti?».133 La risposta a tali interrogativi Nicol la incontra nel riconoscereche la ricerca di questi autori era indirizzata verso il riconoscimentodella differenza tra principi e opinioni, le quali sono prodotto dell’uo-mo mentre i principi sono proprietà comune, e per questo essi debbonoavere un senso comune, condiviso da tutti gli uomini, che permetta diriconoscere la loro evidenza primaria e fondamentale. Senso comune èquindi l’insieme delle condizioni di possibilità dell’intendere, non con-cepito come facoltà di conoscere, bensì come capacità di intendersi l’unl’altro rispetto la stessa realtà, sottomettendo i pareri soggettivi dinanzil’evidenza oggettiva del reale. Ciò che, a parere di Nicol, ha reso torbi-de le acque generando un certo senso di sospetto verso il senso comune,è stato il confonderlo con la generale capacità di giudicare che è appan-naggio di qualsiasi uomo, oppure con l’opinione della maggioranza. Sefosse davvero così, sarebbe giusto ritenere che il senso comune non haposto nella ricerca filosofica. «Tuttavia né la koiné aísthesis Aristotele,né il sensus communis naturae dei medievali, né il bon sens cartesiano, néil sens commun di Leibniz hanno nulla a che vedere con l’accezione po-polare del senso comune».134 Pur non addentrandosi nella descrizionedel significato che per tutti questi autori assume la definizione “sensocomune”, Nicol è risoluto nell’affermare che nemmeno la filosofia diReid, che influenzò Martí d’Eixalà e Llorens i Barba, ha a che vederecon ciò che generalmente si intende con la suddetta definizione.Nell’accezione autentica, senso comune indica l’insieme dei principiche sono possedimento comune, sebbene le scienze che su di essi si ba-sano non si esprimano in maniera a tutti comprensibile.

Il senso comune non è proprietà di nessuno, è comune e quando sidice che qualcosa è di senso comune si intende che tale cosa è «un’evi-denza» che deve riconoscere «chiunque abbia giudizio sano e uso dellaragione». Nulla possono le differenti opinioni nei confronti di tale evi-denza, l’unica possibilità di creare una crepa nel comune sentire sareb-be l’insensatezza, «quella mancanza di senso che chiamiamo sproposi-to». «La sede delle evidenze fondamentali sarebbe, dunque, come un

133. PFH, pp. 194-195.134. PFH, p. 195.

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tempio: una dimora comune, e non l’angolo provato e privilegiato delloscienziato».135 Ora, sebbene Nicol affermi lui stesso di non aver ricevu-to alcuna influenza diretta da pensatori quali Martí d’Eixalà e Llorens iBarba, non nasconde di poter ravvisare una certa “parentela” nei loroconfronti; un legame manifestantesi nella comune convinzione che iprincipi della scienza non possono essere una creazione scientifica masono manifesti e si mostrano in maniera evidente ad un livello che sipuò definire “pre-scientifico”. L’idea che Nicol considera fondamentalenel quadro teorico tratteggiato dalle varie “teorie del senso comune” èche «la ragione è comune e unitaria alla base delle sue svariate forme, eche, per ciò stesso, i principi devono essere il fondamento dell’esisten-za, e non solo della scienza: devono essere evidenze primarie e comuni,e non le conclusioni che coronano l’edificio di una teoria».136

135. PFH, pp. 196-197. Inizia ad essere chiaro, dunque, il senso di quella saggezza che ècomponente essenziale della filosofia e che si coniuga con il “lato scientifico” di questa. Lafilosofia contempla entrambe: in quanto scienza dei principi, deve essere capace di indivi-duare i principi e a partire da questi lavorare secondo un metodo scientifico.

136. PFH, p. 197. Vale la pena di riportare alcune affermazioni di Antonio Livi inerentia tale questione: «esiste nella conoscenza umana un ambito di certezze che derivano diret-tamente dall’esperienza come tale, non da particolari riflessioni sull’esperienza stessa […];in quanto derivate direttamente dall’esperienza, tali certezze sono motivate dall’evidenza:sono evidenze immediate, o anche talora evidenze mediate (dall’inferenza) che hanno peròun carattere decisamente intuitivo. […] Tali certezze riguardano il concreto della realtà difatto – sia il mondo in-cui-si-è, sia il proprio essere-nel-mondo come sostanza personale – eallo stesso tempo, in un’unità noetica indissolubile, l’universale dei primi principi speculativi[…] e dei primi principi etici. […] Tali certezze sono patrimonio di tutti. […] Proprio questabase comune di conoscenza certa e indubitabile – indubitabile di per sé, anche se può esseremessa in dubbio dal pensiero riflesso – consente la comunicazione intellettuale fra singoli indi-vidui […] e fra le diverse culture» (Filosofia del senso comune, Ares, Milano 1990, p. 37). Sequello che afferma Livi può essere considerato un po’ come il “manifesto programmatico”di quella che possiamo chiamare filosofia del senso comune, allora di sicuro Nicol sta par-lando di questa. Rispetto a quanto detto riteniamo necessario segnalare un altro autore,quale Giambattista Vico, la cui opera risulta interessante ai fini dell’approfondimento delvalore del senso comune. Secondo Antonio Corsano, Vico fu influenzato, per quanto ri-guarda la sua concezione di senso comune, da Luis Vives il quale viene ascritto dallo stessoNicol alla tradizione dei maestri catalani (cfr. A. Corsano, Umanesimo e religione in G. B.Vico, Laterza, Bari 1935, pp. 79-80). Sarebbe interessante approfondire quanto del senso co-mune vichiano sia in sintonia o meno con quello esplicitato da Nicol come carattere pecu-liare della tradizione catalana. Qui, al fine di non perderci in una lunga digressione, ci limi-tiamo solo a segnalare tale pista in base al fatto che lo stesso Nicol dimostra di conoscereVico (cfr. HE, p. 67) e all’interpretazione di Giuseppe Modica secondo la quale, in Vico, laragione accetta la lezione dell’esperienza che si attesta «come la condizione del positivoriconoscimento dei limiti del suo potere», per cui «l’effettualità va per Vico assunta non giàcome antidoto del vero, bensì come polo di riferimento metodico per accedervi, e cioè in

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L’idea di una comunità della ragione è il distintivo che caratterizza imaestri della escuela de Barcelona, i quali sono ben coscienti che «le ideescientifiche non hanno carattere. In quanto rappresentazione del realesono indifferenti e devono essere analizzate e valutate solo per il gradodella loro adeguatezza». «Il criterio», con il quale è possibile giudicaredella validità o meno di una teoria, «lo danno sempre le cose stesse».137

In tale maniera termina l’analisi che Nicol fa della questione escuelade Barcelona, riflessione che ha portato alla luce le condizioni della pos-sibilità dell’esistenza di una tale scuola, così come ciò che la caratteriz-za nei suoi tratti più peculiari. Due cose sono chiare allo stesso EduardoNicol quando alla fine del capitolo dedicato a questo argomento affer-ma «con queste meditazioni e questi ricordi non mi sono proposto altracosa rendere palese a me stesso, e ai lettori che la scuola di Barcellona èun varietà di dottrine che prospera in una comunità di affinità».138 Unacomunità che un tempo era formata da personaggi quali Serra Hunter,Carreras Artau, Joaquín Xirau, Jorge Udina, Francisco Mirabent, Pe-dro Font y Puig, e che poi trova la sua massima espressione in coloroche, per un motivo o una altro, hanno seguito strade differenti comeGarcía Bacca, Roura Parella, Ramón Roquer, José Casalmiglia, Domin-go Casanovas, Amalia Tineo, Jorge Maragall, José Ferrater Mora: «ditutti si deve dire che la vocazione della filosofia, con le specifiche affi-nità della scuola, ha dato prova del suo carattere; anche quando la libera

quanto il vero deve poter dispiegarsi nell’effettuale e non fuori e contro di esso» (G. Modi-ca, La filosofia del “senso comune” in G. Vico, Sciascia, Caltanissetta 1984, p. 35; cfr. anche F.Tessitore, Senso comune, teologia della storia e storicismo in Giambattista Vico, in Id., Nuovicontributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002,pp. 7-33; J. Gebhardt, Sensus communis: Vico e la tradizione europea antica, in AA.VV., Vico inItalia e in Germania, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 43-64).

137. PFH, p. 199. Sorprendente la somiglianza dell’affermazione di Nicol con l’incipit deEl Criterio di Jaime Balmes: «Il pensare in maniera corretta consiste: o nel conoscere la veri-tà o nel dirigere l’intendimento per il cammino che a quella conduce. La verità è la realtàdelle cose. Quando le conosciamo come sono in sé, raggiungiamo la verità; altrimenti, ca-diamo nell’errore» (El Criterio, Espasa Calpe, Madrid 1939, p. 7). Cfr. anche E. Nicol, Elporvenir de la filosofía, cit. pp. 188-195.

138. PFH, p. 200. Ecco perché Eusebio Colomer può parlare di qualcosa di più impor-tante e decisivo di un semplice circolo di pensatori, che caratterizza la escuela de Barcelona:quella che è stata riconosciuta come una tradizione, «che ha a che vedere con lo spirito dellavita intellettuale di Barcelona, molto aperta all’Europa, soprattutto alla vicina e familiareFrancia», sempre in continuità con la sua storia che si radica nell’epoca medievale, «entu-siasta per le grandi idee ma sempre realista e conciliatrice» (El pensamiento novecentista, cit.,p. 302).

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iniziativa ha dovuto chinarsi davanti alla forza inesorabile del caso, enon ha potuto rivelarsi nell’esercizio professionale o pubblico della vo-cazione se non precisamente come quell’intima integrità del carattereche può essere – e dovrebbe sempre essere – prova vitale della vocazio-ne filosofica».139

Un pensiero, quello di Nicol, che si proclama figlio della tradizionecatalana, non intesa come tipismo ma come ricerca di quel senso comu-ne che è com-unità della ragione.140 Un pensiero austero, rigoroso, Ni-col lo definirebbe scientifico, ma di una scienza fondata su una saggez-za pre-scientifica che le permette di essere scienza dei principi primi.Austerità del pensiero che è cifra distintiva della vocazione filosofica.Ciò che Nicol coltiva e trasmette è dunque l’idea di una filosofia che èvocazione in quanto realizzazione di se stessi come uomini, e proprioper questo è riconoscimento della terra comune sulla quale ogni uomopoggia i propri piedi: la com-unità della ragione. Il pensiero di Nicol èespressione della vocazione universale del filosofare, in quanto ricono-scimento delle questioni universali e permanenti, di fronte alle qualiscompaiono tutte le tentazioni “nazionalistiche” e “soggettivistiche” diquella sofistica che vuole spacciarsi per filosofia autentica. Esponentedi un pensiero che ha cercato di elaborare in maniera sistematica, «Ni-col si è impegnato semplicemente e schiettamente a fare filosofia. Que-sto è il suo sigillo personale. Sembra quasi che fosse giunto con loschema nella testa, già dal primo momento in cui si dedicò al filosofare.Tutte le sue opere debbono essere considerate come i piani di un gradeedificio, costruito poco a poco, fase per fase, tappa dopo tappa».141

Giunti a tal punto, non resta che dedicarci a riscoprire, secondoquella ragione che può riconoscere il terreno originario di partenza diogni speculazione, qual è l’elaborazione dell’idea del hombre che, mo-mento dopo momento, viene alla luce percorrendo il cammino traccia-to dal pensiero di Eduardo Nicol.

139. PFH, pp. 201.140. A tal proposito cfr. S. Santasilia, Sentir antes que razonar: la patencia de la verdad,

«En-Claves», 4 (2008), pp. 67-76.141. R. C. Reyes, La filosofía, in AA.VV., El exilio español en México. 1932-1982, FCE,

México 1983, p. 223.

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Capitolo II.L’idea dell’uomo come espressione della situazione vitale

El hombre vive en la situacíon en que se encuentra(E. Nicol, Psicología de las situaciones vitales)

2.1. Psicologia situazionale come saber del hombre

Le riflessione di Nicol è caratterizzata, sin dal principio, da unapreoccupazione di genere antropologico1 che trova chiara espressionenel suo lavoro dottorale Psicología de las situaciones vitales2: descriverel’uomo nella sua autenticità attraverso un’indagine sistematica e rigo-rosa. A partire da questa indagine, il percorso nicoliano si svilupperà,risalendo dalla “pianura” dell’antropologia fino alle “vette” della meta-fisica, come cammino di definizione e precisazione di quello che sarà ilconcetto centrale della sua riflessione: l’espressione,3 cui è dedicata laMetafísica de la expresión.4 Ci preme, quindi, analizzare il percorso cheha condotto Nicol alla elaborazione della sua metafisica dell’espressio-

1. Cfr. J. L. Abellán, El exilio filosófico en América, cit., p. 65.2. La prima edizione della Psicología de las situaciones vitales fu pubblicata nel 1941. In se-

guito, nel 1963, Nicol pubblicò una seconda edizione “corretta”, nella quale veniva riportatoinvariato il contenuto della prima edizione, preceduto da un prologo scritto appositamenteper la seconda edizione, e venivano aggiunte note con riferimenti anche alle opere posterio-ri al 1941. In questo lavoro ci riferiremo all’edizione del 1963.

3. «La traiettoria che inizia, in questa Psicología, con il concetto categoriale di situazio-ne, e che conduce fino a quella Metafísica, il lettore la può seguire attraverso i nostri scrittise considera il tema dell’espressione come filo conduttore» (PSV, p. 17). Che l’espressionesia la tematica attorno alla quale ruota tutta l’opera di Nicol ce lo confermano le sue stesseparole: «Il tema dell’espressione riappare, come se marcasse un leit-motiv, in quasi tutti gliscritti dell’autore, come se segnalasse una linea che conduce […] a un fine prestabilito; co-me se questa linea di ricerca e riflessione coincidesse con quella di un destino vocacional. […]Questa linea era come quella di certi ruscelli di montagna che a volte restano sepolti da unavalanga, ma continuano a scorrere sotterraneamente fino a riapparire, più avanti, con mag-giore forza e portata» (ME, pp. 7-8).

4. La Metafísica de la expresión ebbe due edizioni. La seconda edizione fu rimaneggiatadallo stesso Nicol al fine di rendere più scorrevole l’esposizione delle tematiche trattate(cfr. E. Nicol, Nota preliminare, in ME2, pp. 67-68).

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ne, seguendo la strada tracciata dalle sue due prime opere: la già citataPsicología de las situaciones vitales e la Idea del hombre,5 nelle qualil’indagine sull’uomo viene condotta scrupolosamente fino a svelarne ilnucleo metafisico.

Perché iniziare dalla psicologia? Oltretutto, in che senso parlare dipsicologia? Ciò che interessa a Nicol è la possibilità di «una teoria dellesituazioni vitali come fondamento filosofico della psicologia».6 Ma co-sa ha a che fare con l’uomo una tale psicologia? Nel Novecento fiori-scono numerosi tentativi diretti ad elaborare una riflessione filosoficasull’uomo. Questi hanno legittimato la possibilità di parlare di un an-tropologia filosofica,7 il cui intento è di fondare e risolvere il problemadell’idea del hombre.8 L’antropologia filosofica è, dunque, il “sapere del-l’uomo”. L’uomo, però, è problema per se stesso e questo significa chel’oggetto dell’antropologia filosofica è problematico nella sua stessa co-stituzione; da ciò deriva il fatto di ritrovarsi dinanzi a due realtà che sioppongono: l’esperienza diretta che abbiamo della nostra vita e la bar-riera che ci separa dalla comprensione dell’umano in quanto tale. Infat-ti, l’esperienza personale della propria vita risulta avere un carattereimmediato9 ma allo stesso tempo sembra che la ragione non possa

5. Anche la Idea del hombre ebbe due edizioni. La prima fu pubblicata nel 1946; la secon-da, pubblicata nel 1977, «è un’opera completamente diversa rispetto a quella che ebbe gesta-zione più di trent’anni fa e apparve con lo stesso titolo […], si può dire che la seconda ver-sione non cancella la precedente, tutt’al più la completa». Le due opere sono legate in quan-to i temi trattati nella prima edizione sono gli stessi che vengono approfonditi maggior-mente nella seconda: «al di là della novità, chi può accostare le due versioni riconoscerà,senza dubbio, nella seconda lo stesso schema teorico, che il tempo non ci ha costretto a mo-dificare», e che viene messo in evidenza maggiormente (E. Nicol, Nota preliminar in IH2, p.7). Pur sapendo che la “seconda” Idea del hombre venne pubblicata successivamente allaMetafísica de la expresión, l’opera mantiene legami talmente stretti con l’esemplare del 1946che in questo capitolo procederemo utilizzando i due testi in maniera parallela.

6. PSV, p. 30.7. Importanti esponenti di tale genere di riflessione sono Max Scheler (La posizione

dell’uomo nel cosmo [1928]), Arnold Gehlen (L'Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo[1940]), Helmut Plessner (I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica[1928]), ma in parte anche Martin Buber (Il problema dell’uomo [1947]) ed Ernst Cassirer(Saggio sull’uomo [1944]).

8. E. Nicol, Las situaciones vitales [1943] in VH, p. 218. Il volume La vocación humana rac-coglie una serie di interventi pubblicati da Nicol precedentemente su altre riviste o in altrivolumi nel periodo di tempo che va dal 1939 al 1952. La prima edizione del volume risale al1953.

9. Il carattere immediato di tale esperienza può chiaramente essere messo in dubbio maciò non toglie che la stessa possibilità di mettere in dubbio riconosce un dato esperienziale

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giungere alla piena comprensione della natura umana al modo in cuicomprende la natura del mondo che ci circonda.10 L’uomo, dunque, èdivenuto problema per se stesso e questo, di conseguenza, tocca ognidimensione della sua vita. Nel pensarsi, nell’occuparsi di se stesso inquanto problema, l’uomo fa filosofia, perché smette di rivolgersi ad unaspetto particolare per guardare il suo essere nella sua completezza.11

Interessarsi dell’uomo in maniera integrale significa anche interessarsial problema costitutivo della stessa condizione umana, al problema“vitale”. Questo il problema antropologico, «che è in parte il problemapsicologico tradizionale».12 Qualsiasi riflessione di carattere psicologi-co affonda le proprie radici in una teoria antropologica, che rispecchiafedelmente.

Ma allora perché chiamarla antropologia filosofica e non psicolo-gia? Secondo Nicol la crisi riguardante l’incapacità di conoscere l’uomosi è aggravata negli ultimi tempi a causa dell’incapacità della psicologiacontemporanea di rivolgersi all’uomo nella sua interezza: questa crisiriguarda l’idea dell’uomo che si può inferire dalle psicologie del secoloXX, che è inadeguata all’uomo stesso e alla sua comprensione di sé. Èla crisi del principio vitale che, se prima veniva cercato nell’ambitodella fede religiosa e nella ricerca filosofica, ora viene considerato ap-pannaggio degli studi di scienze naturali. Questo ha generato il prima-to della ragione scientifica la quale è per natura orientata verso il cam-

precedente al dubbio stesso anche se lo si dovesse considerare informe. Lo stesso tentativocartesiano, di messa in questione radicale della realtà percepita, non può non cedere di fron-te al fatto di percepire il semplice dato del pensare come esperienza vitale indiscutibile. Cfr.a questo riguardo l’interessante articolo di Pierre Thévenaz, La question du point de départradical chez Descartes et Husserl, in H. L. Van Breda (ed.), Problèmes actuels de laPhénoménologie, Desclée de Brouwer, Bruges 1952, pp. 9-30.

10. La riflessione di Nicol non si discosta qui da quella di Cassirer: «Nessuna delle pre-cedenti età si è trovata in una posizione migliore della nostra per quanto riguarda le fonti acui attingere per conoscere la natura umana. […] Gli strumenti tecnici per l’osservazione ela sperimentazione sono stati grandemente perfezionati e le analisi sono diventate più pe-netranti e più approfondite […] tuttavia sembra che non si sia ancora trovato un metodoper padroneggiare e organizzare tutto questo materiale» (Saggio sull’uomo, Armando, Roma,2004, p. 75); né dall’interpretazione di Scheler per il quale «nonostante il loro innegabilevalore, le scienze sempre più specializzate che si occupano dell’uomo, anziché chiarirla, cinascondono sempre più la sua vera essenza […]: allora si può affermare che in nessuna epo-ca della storia come nella presente, l’uomo è apparso a se stesso così enigmatico» (La posizionedell’uomo nel cosmo, Fabbri, Milano 1970, pp. 157-158).

11. E. Nicol, Las situaciones vitales, cit., p. 219.12. Ibidem.

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po della tecnica e della tecnologia: «è il dominio della ragione pratica,ma amorale, vale a dire, il dominio della ragione pragmatica».13 Taletipo di ragione ha generato la crisi perché ha portato all’instaurazionedella politica, intesa alla stregua di una violenta lotta per il dominio,come dimensione fondamentale dell’esistenza, e quindi al totalitari-smo. L’inizio della crisi va, secondo Nicol, individuato nella svolta su-bita dalla psicologia nel secolo XIX, quando si costituì come scienza esi orientò verso l’elaborazione di una tecnica, rendendosi quantitativa,come la psicotecnica che in essa si fonda, abbandonando lo studio dellavita umana, ovvero lo studio dell’uomo nella sua interezza. Nel costi-tuirsi come scienza, tale psicologia ammise come metodo rigoroso soloquello delle scienze naturali deducendo da ciò la sua stessa legittimità.Ma se è legittima come scienza della natura, in quanto studia quellaparte dell’umano che è biologica e fisiologica, non lo è in quanto scien-za dell’uomo.14 La psicologia “scientifica”, come dunque la definisceNicol, ci offre un’idea dell’uomo di carattere naturalistico che è chia-ramente insufficiente a dare ragione di tutti gli aspetti della vita uma-na.15 Per questo si può tranquillamente affermare che, pur non dichia-rando falsità, la psicologia scientifica non è un saber del hombre. Non èpossibile rivolgersi all’uomo in maniera integrale dal punto di vistadella scienza della natura: «conosciamo l’uomo quando sappiamo dellasua vita […] e dubito che l’insieme intero dei risultati ottenuti dallapsicologia scientifica in poco più di un secolo, abbia aggiunto un pocodi conoscenza al sapere dell’uomo che ebbero Sant’Agostino, Montai-gne o Pascal, sebbene nessuno di essi abbia potuto avere, nella propriavita, la gioia di conoscere come si misura il tempo di reazione, nè distudiare gli effetti della fatica sulla pressione arteriosa».16 La psicologiacontemporanea ha perso di vista il suo vero oggetto, l’uomo, e la sua

13. Ivi, p. 220. Cfr. anche E. Nicol, El porvenir de la filosofía, cit., pp. 245-248.14. La psicologia sperimentale, dunque, è scienza di una parte dell’umana realtà, non

dell’uomo nella sua integrità.15. Questo è dovuto al fatto che il tentativo di una certa psicologia di svincolarsi dalla

filosofia è, in realtà, vano: lo stesso volersi svincolare per assumere un orientamento scien-tifico è espressivo di un’impostazione filosofica di carattere antropologico per la qualel’uomo è considerato come un essere meramente biologico (PSV, p. 21).

16. E. Nicol, Psicología científica y psicología situacional [1942], in VH, p. 205. «Nella mi-surazione si è dovuto prescindere dalla qualità del fatto psichico, dall’esperienza che vive ilsoggetto sottomesso all’osservazione, e si è trattato di tradurre in quantità due fattori psi-chici irriducibili a questa: l’intensità qualitativa e il tempo vissuto» (PSV, p. 22).

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conseguente incapacità di elaborare delle concezioni della vita capaci diincludere la varietà delle possibili esperienze porta alla conclusione che«o la scienza psicologica non bastava da sola a formare una “idea del-l’uomo”, oppure era inadeguata e deforme l’idea dell’uomo che era im-plicitamente presupposta dai principi e metodi di questa scienza».17 Ilsuo completo distacco dalla filosofia ha creato un vuoto che il pensierospeculativo ha tentato di colmare attraverso una nuova forma di rifles-sione: l’antropologia filosofica.18 Secondo Nicol, riesaminando i risul-tati raggiunti dalle diverse “antropologie filosofiche” ci possiamo ren-dere conto che essi «si rivolgono ai problemi psicologici della vitaumana impiegando metodi filosofici – per esempio il metodo fenome-nologico –, ma i risultati sono chiaramente psicologici».19

Siamo, dunque, autorizzati a porci il problema della possibilità enecessità di una psicologia che sia filosofica: una psicologia che, par-tendo da un fondamento antropologico, ristabilisca il problema del sa-ber del hombre all’interno del suo proprio dominio. Questa sarebbel’autentica psicologia, non perché la psicologia scientifica affermi cosefalse, ma perché i suoi metodi sono pertinenti alle scienze della naturache si rivolgono all’uomo come ad una macchina e non considerano ilfatto che la vita dell’uomo è differente da quella di ogni altro essere,vivente o meno.20 Una psicologia intesa come saber del hombre non èper Nicol qualcosa di rivoluzionario, essa è un’autentica creazione per-ché non è mai esistita e «il suo intento non deve consistere nell’avan-zare solamente analisi concrete dell’indole indicata, ma nel dare avvioa queste stesse partendo da una struttura di base articolata e rigorosa-mente costituita da concetti che inquadrino il campo di quella vitaumana che bisogna comprendere e, infine, il campo stesso della psico-logia».21 Tale “indole” sarà chiamata da Nicol anche spirito,22 o co-

17. PSV, p. 7.18. «E abbiamo chiamato antropologia filosofica gli intenti del pensiero contemporaneo

di elaborare una teoria dell’uomo» (E. Nicol, Las situaciones vitales, cit., p. 220).19. Ivi, p. 221. Con tale affermazione Nicol vuole intendere che l’antropologia filosofica

si dedica fondamentalmente al problema dell’esperienza umana, che è anche oggetto del-l’indagine psicologica, ma lo fa con metodi filosofici.

20. Questa differenza sarà poi messa in evidenza attraverso la categoria di espressioneche, considerata come dato differenziale fondamentale, permetterà a Nicol di mostrare idiversi “ordini dell’essere” ai quali possono essere ascritti l’ente uomo e l’ente non-uomo(cfr. a tal proposito ME e IH2).

21. E. Nicol, Psicología científica y psicología situacional, in VH, p. 206. Nicol riconosce che

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scienza, e verrà intesa come luogo della consapevolezza della stessaesperienza vissuta. Il compito della riflessione psicologica sarà quellodi «comprendere immediatamente l’esperienza (come intuizione con-creta del senso del vissuto), descriverla e organizzare questa compren-sione (altrimenti non si tratterebbe di conoscenza rigorosa) in un’ar-chitettura di concetti strutturali»;23 essere, quindi, in grado di analizza-re e comprendere l’uomo nel suo fare esperienza del mondo, indivi-duando la forma che si mantiene inalterata nell’esperire stesso. Nicolriconosce a Max Scheler il tentativo di recuperare quest’attenzioneall’esperienza, nella sua complessità e varietà, attraverso una profondariflessione antropologica che si rivolge all’uomo in carne ed ossa,24 maravvisa che nell’opera del pensatore tedesco continua a mancare la si-stematicità della riflessione, l’integrazione dell’antropologia nell’ambi-to di un orizzonte esplicativo che la potesse comprendere e fondare; il

su questa via, ma senza giungere ad una vera e propria fondazione filosofica, si era già in-camminato Eduard Spranger (cfr. Lebensformen: geisteswissenschaftliche psychologie und ethikder personlichkeit [1927], ora in Gesammelte Schriften, 9 voll., Niemeyer, Tubingen 1978, cheNicol lesse nella traduzione spagnola del 1948, pubblicata in Argentina, a Buenos Aires, conil titolo Formas de vida: psicologia y etica de la personalidad). Su Spranger e la questione psico-logica cfr. T. Griffero, Spirito e forme di vita. La filosofia della cultura di Eduard Spranger, Fran-co Angeli, Milano 1991.

22. Tale termine assume lo stesso senso di “coscienza” intesa come capacità di agire inmaniera sensata (anche la percezione è un’azione), in quanto mutuato dal già citato“spiritualismo” catalano, nella cui tradizione si è formato Nicol, e, come vedremo, riguardala totalità del soggetto e non solo una parte di esso. Non va, però, sottovalutata la possibileinfluenza di Dilthey, riguardo la concezione di una psicologia che ha come oggetto la vitapsichica e «come fine supremo […] la constatazione dell’elemento comune nella vita psi-chica degli individui». Anche nel caso di Nicol può valere la definizione di struttura psichi-ca come «ordine secondo cui, nella vita psichica sviluppata, i fatti psichici di qualità diffe-rente sono reciprocamente legati da un’interna relazione che può venir immediatamentevissuta» (W. Dilthey, Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1954, pp. 64-65). Cfr. an-che W. Dilthey, Psicologia descrittiva analitica e comparata, Unicopli, Milano 1979. Lo stessoNicol afferma che «la possibilità e la legittimità di una psicologia concreta, comprensiva,autenticamente antropologica, già era stata segnalata, senza dubbi, da Dilthey», che puòessere considerato un autentico antesignano della psicologia delle situazioni vitali (PSV,Prólogo a la segunda edición, p. 10) e che alcune idee di Dilthey debbono essere consideratecome «l’istanza per la trasformazione fondamentale della psicologia» (PSV, p. 21). Per unmaggior approfondimento riguardo il pensiero di Dilthey ci permettiamo di rimandare a G.Cacciatore, Scienza e filosofia in Dilthey, 2 voll., Guida, Napoli 1976.

23. E. Nicol, Psicología científica y psicología situacional, in VH, p. 207.24. Nicol si riferisce in particolare all’opera di Scheler La posizione dell’uomo nel cosmo del

1928.

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merito di aver raggiunto tale risultato è attribuito invece, a Heideg-ger.25

Secondo il pensatore catalano bisogna riportarsi alle spalle di Hei-degger per poter individuare il corretto punto di partenza di una psi-cologia che voglia comprendere l’uomo nella sua concretezza. È perciònecessario riferirsi alle questioni che emergono dalla riflessione di unaltro filosofo che ha contribuito a modificare la maniera di concepirel’esistenza umana, vale a dire Henri Bergson. La possibilità stessa diuna psicologia delle situazioni vitali come teoria dell’esperienza, infat-ti, richiede una chiarificazione e corretta concettualizzazione di quelliche sono i «caratteri più radicali e universali della vita umana», vale adire una fondazione delle condizioni spazio-temporali dell’esistenza,26

al fine di individuare una categoria attraverso la quale leggere l’espe-rienza, poichè ogni esperienza è spazio-temporale. I concetti utilizzatidalla nuova psicologia dovranno essere di carattere filosofico, perchésolo in questo modo si potrà tentare la comprensione dell’essere uma-no nella sua interezza, ma allo stesso tempo non dovranno essere né apriori né ontologici.27 Dunque, la conoscenza di ciò che accade presup-pone un’idea chiara e filosofica della spazialità e della temporalità; in-fatti solo a partire da questa condizione «si può dare il via alla com-prensione del modo in cui l’uomo vive la sua vita e della sua esperien-za di questa, indipendentemente da qualsiasi spiegazione di tipo cau-sale».28 Questa è l’autentica psicologia, «la psicologia fondamentale,

25. In questo caso il riferimento è rivolto all’analitica dell’esserci che occupa la primaparte di Essere e Tempo [1927]. Tentativo perché, come si mostrerà, Nicol non condivideaffatto gli esiti della riflessione heideggeriana.

26. È interessante notare come proprio al riferirsi ai concetti di spazio e di tempo Nicolnon ritenga necessario soffermarsi sull’opera di Heidegger. Questa volontaria omissione,dato che in più di uno scritto mostra di avere conoscenza del pensiero heideggeriano, è do-vuta al tentativo nicoliano di andare alla radice della questione, da qui la scelta di riferirsipiuttosto a Bergson e alla sua elaborazione del concetto di durata che apre il campo ad unanuova interpretazione della temporalità cui, secondo Nicol, è debitore anche Heidegger(cfr. PSV, p. 10).

27. E. Nicol, Las situaciones vitales, in VH, p. 221. Bisogna riportarsi all’osservazione ri-conoscendo che l’unica cosa osservabile nell’uomo è l’espressione: l’agire dell’uomo èespressivo (in ambito ontologico l’espressione è proprio espressione dell’essere, cfr. ME) edè tale in quanto carico di un senso che non può essere misurato. Con ciò Nicol vuole sotto-lineare la differenza metodologica tra la psicologia scientifica e quella da lui proposta: laprima si rivolge all’aspetto quantitativo della vita, la seconda a quello qualitativo.

28. E. Nicol, Psicología científica y psicología situacional, in VH, p. 207. L’indipendenzadalla causa non indica il disinteresse verso i fattori che generano determinate situazioni

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che non deve essere considerata come una scienza frustrata, ma nem-meno come quella che hanno chiamato antropologia filosofica, cosache molte volte non è che un nome con il quale sono stati battezzati imediocri o valenti risultati generati dal desiderio di una psicologia ri-gorosamente costituita su principi solidi».29

A partire dalla concettualizzazione corretta delle condizioni basedell’esperienza, vale a dire spazio e tempo, si potrà poi giungere al rico-noscimento di quella categoria che permette alla psicologia di com-prendere la vita umana nel suo attuarsi. Tale categoria deve essere“formale”30 e non può riferirsi ad una specifica esperienza, come inve-ce avviene per il risentimento e la simpatia in Scheler, la libido nellapsicoanalisi di Freud, il desiderio di potere in quella di Adler, la cura inHeidegger, il timore o la vergogna per Sartre. Secondo Nicol, questecategorie sono già di per sé connotate qualitativamente e per questonon riescono a dare conto della molteplicità dell’esperienza: esse nonsono realmente formali. L’individuazione della corretta categoria deveandare al di là delle specificità, deve dirigersi alle situazioni vitali nellequali si possono verificare tali esperienze, «perché questo è ciò che so-no tali caratteri31: situazioni particolari».32 Bisogna riconoscere chesuddetti caratteri si possono presentare, e quindi essere riconosciuti,solo in quanto parte di una situazione vitale: «l’uomo non ha invidia,

nelle quali si ritrova l’uomo, ma il discostarsi del pensiero nicoliano da una spiegazione ditipo meccanicistico, che considera tutto inquadrabile attraverso il dispositivo causa-effetto.Non è altro che un sottolineare di nuovo la propria lontananza da una psicologia che si ri-duce a fisiologia.

29. Ibidem.30. «esperienza, struttura, forma e senso sono, dunque, concetti fondamentali dei quali

ci serviamo fin dall’inizio per procedere alla descrizione e comprensione psicologica»(PSV, p. 28).

31. La terminologia che Nicol utilizza per parlarci delle categorie, tonalità emotive, oesperienze poste da altri pensatori alla base della propria teoria, indica che la sua interpreta-zione le assume tutte, dopo averle ridotte a meri caratteri, all’interno di un orizzonte dicomprensione più ampio. Bisognerebbe indagare, per ciascuna di queste possibilità, se dav-vero si può operare una riduzione a carattere specifico. Già, solo per riferirsi ad uno di que-sti, per quanto riguarda la Sorge, Heidegger riconosce che essa non ha nulla a che vederecon tendenze d’essere di carattere ontico, ma riguarda «la totalità formale esistenzialedell’insieme delle strutture ontologiche dell’Esserci» (cfr. M. Heidegger, Essere e tempo,Longanesi, Milano 1976, p. 239). Non è questo, però, il luogo in cui sviluppare tali analisi, amaggior ragione per quel che riguarda Heidegger al quale è dedicato un capitolo intero diHE, del quale ci occuperemo nel prossimo capitolo.

32. PSV, p. 11.

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diligenza, timore, sebbene si dica così, ma vive in maniera invidiosa, odiligente, o timorosa».33 Che cosa sono questi caratteri che distinguonol’uomo da qualsiasi altro essere? E in che maniera si sviluppano nellavita dell’uomo? Ma soprattutto, come si sviluppa e organizza la stessavita umana? Queste sono le domande dalle quali parte la riflessionepsicologica di Nicol, che considera la situazione vitale un concetto ca-tegoriale, vale a dire «più ampio di quello di qualsiasi realtà vitale par-ticolare che possa proporsi come chiave della condizione umana, inquanto permette di comprenderle tutte, anche quelle che non sonoconsiderate chiave». Il concetto di “situazione” è «come un principioordinatore, strutturale» del vastissimo materiale che forma l’esperien-za.34

Un autentico saber del hombre, si raggiunge solo ad un livello cheNicol chiama di “spiegazione situazionale”, ma non assumendo comecategoria guida una situazione particolare: «la conoscenza autenticadell’uomo, dal punto di vista psicologico, deve essere guidata dalla ca-tegoria di comprensione; la comprensione si realizza solo attraversol’analisi dell’esperienza;35 questa esperienza si struttura in situazioni

33. Ibidem.34. Ibidem. Riguardo alla categoria di “situazione” corre l’obbligo di citare la riflessione

jaspersiana riferita a tale questione, cfr. tra le varie opere K. Jaspers, La situazione spritualedel tempo, Jouvence, Roma 1982 e Id., Metafisica, Mursia, Milano 1995. Lo stesso Nicol rico-nosce il valore della riflessione del pensatore tedesco ma afferma che non fu questa a per-mettergli di giungere ad elaborare la sua concezione psicologica (PSV, p. 29, nota 2).

35. La comprensione è soprattutto comprensione dell’espressione dell’uomo, ed è perquesto motivo che esso non può mai essere cosiderato un mero oggetto di analisi alla stre-gua degli altri enti. Anche quando si sottomette a sperimentazione, «l’uomo continua adessere un soggetto che dialoga con lo sperimentatore». Questo è per Nicol indice del fattoche «la maggior parte delle volte non siamo coscienti del risultato espressivo del nostromovimento […] è giustamente la persona estranea, il nostro interlocutore, che ci dà deluci-dazioni riguardo la nostra propria persona». Il comprendere un’espressione non può consi-stere nella mera applicazione di un dispositivo interpretativo quale quello causa-effetto ostimolo-reazione. Se così fosse, nota Nicol, la comprensione sarebbe un atto di estremacomplessità composto di tre momenti: 1) momento induttivo, che ci permetterebbe di ela-borare uno schema; b) un momento astrattivo attraverso il quale spogliamo lo schema deicontenuti contingenti; c) un momento deduttivo, nel quale applichiamo al soggetto analiz-zato i processi psichici corrispondenti allo schema ottenuto. Un tale processo, non solo per-derebbe di vista la singolarità di ogni esistente umano, ma sarebbe soprattutto troppo com-plicato. Infatti, la nostra esperienza mostra che la comprensione non attraversa tutte questefasi, «non è una operazione logica, ma un’intuizione immediata». Comprenderel’espressione di un uomo significa giungere a vedere «ciò che succede a quell’uomo […], cisi disvela il senso che ha per la sua vita l’esperienza che sta facendo in quel momento», equesto non può essere raggiunto attraverso una lettura schematica e quantitativa della real-

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vitali. Pertanto, solo la psicologia situazionale può aspirare legittima-mente ad un autentico sapere psicologico dell’uomo in quanto tale».36

Questo è possibile perché la vita stessa dell’uomo si organizza in situa-zioni, che per questo sono “vitali”, non nel senso biologico del terminema in riferimento allo sviluppo di tutto l’uomo: «l’uomo non è un es-sere naturale, perché il suo essere è la sua vita e questa ha una strutturastorica».37 L’uomo è sempre diverso e le sue relazioni, sempre differen-ti e qualitative38 – per questo psicologiche –, sono ciò che costituisconola situazione in cui si trova.39 L’obiettivo di tale psicologia che si fondasul concetto di situazione vitale deve essere quello di mostrare comesia spossibile una lettura rigorosa della realtà umana; una lettura scien-tifica che non sia naturalistica, riduttiva, ma che riesca ad individuare,seguendo l’idea di scienza perseguita da Nicol, il concetto chiave attra-verso il quale poter comprendere in maniera formale il variegato mon-do dell’esperienza, del dato particolare. Al filosofo, dunque, spetta ilcompito di interessarsi di nuovo del fondamento di qualunque discorsoche riguardi l’uomo, vigilando sul rischio di riduzione della dimensio-ne umana ad una delle sue componenti. La “situazione”, intesa come

tà umana, ma solo attraverso un’immediata intuizione (PSV, pp. 23-24).36. E. Nicol, Psicología científica y psicología situacional, in VH, p. 210.37. PSV, p. 28.38. Ogni relazione è unica, così come è unica l’espressione che la manifesta, perché ogni

uomo è unico. L’uomo è sempre in relazione, vale a dire che sempre si esprime quindi è inperpetua attività: «siamo un’azione» in quanto tutto in noi è espressivo. Tale questioneriguarda in maniera fondamentale anche il rapporto che l’uomo ha con il suo corpo: l’uomosi esprime attraverso il suo corpo (anche il silenzio o la rigidità è espressione) ed il corpo è“corpo umano” proprio per il suo essere espressivo, «informato dall’espressione che si ma-nifesta attraverso il suo comportamento» (PSV, pp. 25). Il corpo inteso come semplice enteappartenente al mondo degli oggetti non è corpo umano, è semplice corpo, cosa. Questoindica che l’umano è, sì, parte del mondo degli oggetti ma non si esaurisce in esso e trova ilsuo posto più proprio all’interno di un altro ordine dell’essere, quello dell’uomo stesso. Intal modo, Nicol chiude la questione riguardante la relazione tra psiche e corpo, riconoscen-do al corpo l’espressività (poiché, sebbene il linguaggio possa a volte essere ingannevole, ilcorpo non è solo un mezzo ma è espressione stessa) in quanto corpo umano e quindi nonseparabile dall’essenza dell’uomo come se fosse una componente aggiuntiva. Di sicuro ri-mane aperto il problema dell’appartenenza a due dimensioni dell’essere: il corpo, infatti, èciò che mantiene l’uomo ancorato a alla dimensione della cosalità, pur facendo parte dellasua espressività quindi di ciò che caratterizza il suo essere più proprio. Tale problematicapuò essere posta, in maniera esauriente, soltanto dal punto di vista ontologico, per cui peradesso accontentiamoci della lettura psicologica che ne dà Nicol in attesa di approfondire laquestione lungo il corso del nostro discorso.

39. E. Nicol, Las situaciones vitales, in VH, p. 223.

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categoria costituente la vita stessa, è questa stessa vigilanza, in quantopermette di salvaguardare l’ambito dell’umano e di osservarlo in tuttala sua singolarità. Quest’ultima è salvaguardata appunto dalla “rela-zione” che non può essere disgiunta dalla categoria di “situazione” eche impedisce alla riflessione filosofica di considerare il soggetto comeun tutto isolato: la situazione «è la relazione vitale effettiva che l’io delsoggetto stabilisce sempre con il non-io trans-soggettivo, presente oassente, attuale o passato (e soprattutto con il non-io che è l’altro-io delprossimo)».40 Queste, le problematiche che muovono l’indagine di Ni-col nella sua prima opera; indagine che deve mostrare come si articolala vita umana nella sua concretezza e per questo decide di «procederefenomenologicamente»,41 intendendo con ciò il fatto di procedere apartire dall’esperienza, dal dato nella sua evidenza.

Il progetto di una psicologia delle situazioni vitali è per Nicol qual-cosa di necessario42 al fine di ricomporre in maniera completa l’imma-

40. PSV, p. 17.41. PSV, p. 18. Nicol considera il metodo fenomenologico come metodo oggettivo, che

non tenta di inquadrare la realtà in schemi presupposti e non verificati nello stesso con-fronto con il dato reale ed immediato. Il valore di questo approccio è quello di evitare ilproblema del dualismo nel quale resta intrappolata la psicologia scientifica: «la psicologiatradizionale inizia accettando la distinzione tra interno (lo psichico propriamente detto) edesterno (che chiama espressione). Opera sulla base di due presupposti: a) la correlazioneuniforme e costante tra l’espressivo e lo psichico (con la quale da per risolto, o meglio elude,il problema posto da questo stesso dualismo), e b) che una rappresentazione quantitativadell’espressione esterna possa essere adeguata per conoscere la vita psichica interna. Le dif-ficoltà operative che presenta quest’ultimo presupposto conducono inevitabilmente ad unrifiuto del primo, attraverso il quale la psicologia scientifica giunge a conseguenze con-gruenti ma paradossali: abbandona la dualità della relazione psiche-espressione i cui termi-ni eterogenei non sono compatibili scientificamente e ve ne sostituisce un’altra i cui termi-ni appartengono entrambi all’ordine dell’esterno, ossia la relazione stimolo-espressione.Questa è, o sembra essere, omogenea e uniformemente quantificabile. Il risultato è una psi-co-logía senza psiche; un concetto dell’espressione secondo il quale ciò che viene espressonon è l’io, ma quella parte delle sue reazioni motrici, rispetto a stimoli, che è riducibile arappresentazione quantitativa; un concetto dell’io per il quale questo stesso viene ridotto alpuro soggetto di quelle reazioni. Secondo tale psicologia, la situazione è il dispositivo deglistimoli e costituisce il fattore oggettivo di analisi, ossia ciò che giustifica il carattere scienti-fico della psicologia. Come si vedrà, la situazione deve essere qualcosa di più complesso (seè vitale, pertanto umana). […] La scienza non dipende dai numeri, ma dal rigore del meto-do» (PSV, nota 1, p. 22). Tale nota fu aggiunta nella seconda versione della Psicología de lassituaciones vitales e mostra chiaramente una visione raggiunta attraverso la profonda medi-tazione sul fenomeno dell’espressione. Per questo abbiamo preferito riportarla in nota aconferma del discorso sviluppato riguardo la psicologia situazionale.

42. E lo è ancora nel 1963, quando scrive il prologo alla seconda edizione dell’opera.

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gine dell’uomo, integrando l’unità psichica con il fattore corporeo,rompere la gabbia solipsistica nella quale era stato rinchiuso il sog-getto, restituendogli quella parte di sé che è “l’altro” e mostrando ciòcon cui è in relazione nelle diverse esperienze che strutturano la tramadella sua vita.43 Eppure, come già affermato, la comprensione dell’uo-mo deve iniziare dai concetti fondamentali di spazialità e temporalità«come dati immediati dell’esperienza».44

2.2. Esperienza e critica del soggetto

L’esperienza è fonte della conoscenza di tipo psicologico, che è sem-pre una conoscenza immediata.45 Tale immediatezza non consiste nelfatto che il conoscere psicologico si dia nella sua completezza ogni vol-ta che ci si riferisce ad un’esperienza ma che in questa possiamo indi-viduare, come sua componente peculiare, una sorta di intuizione delsenso che il vissuto, trascorso o in atto, ha nella vita del soggetto agen-te.46 Tale intuizione, però, può non essere completa e il suo completa-mento potrebbe richiedere il vivere un’altra esperienza: la comprensio-ne chiara del senso può anche realizzarsi dopo aver vissuto molte espe-rienze in quanto è dovuta all’entrare di queste in “connessione vitale”.In realtà, il senso di un’esperienza non giunge mai ad essere completo,dato che nello scorrere della nostra vita possiamo variare la considera-zione che abbiamo dei nostri vissuti. Questa possibilità di interpretare,in maniera anche radicalmente nuova, parte del passato è ciò chenell’ambito del linguaggio comune ci permette di parlare di una perso-na come uomo “di esperienza”, ad indicare il fatto che ha saputo ben

43. Lo stesso Nicol afferma: «tutto quello che si può dire riguardo l’esperienza chel’uomo fa della sua propria vita è psicologia» (PSV, p. 28).

44. PSV, p. 31. L’affermazione di Nicol chiama in causa quasi automaticamente il con-fronto con Bergson che avverrà, appunto, riguardo i concetti di spazio e tempo.

45. PSV, p. 33. Ogni esperienza, dunque, non è un atto neutrale ma porta con sé un ca-rico di senso. Questo è dovuto, come vedremo poi, all’espressività che caratterizza l’esserestesso dell’uomo. «L’esperienza consiste nell’appropriazione del senso del vissuto» (E. Ni-col, La marcha hacia lo concreto [1941], in VH, p. 106).

46. Esiste, chiaramente, anche la riflessione che possiamo fare riguardo un nostro vis-suto, ma questa sarebbe già un’altra esperienza (un altro vissuto) e si andrebbe a sovrappor-re alla prima. Sarebbe un’esperienza riflessa.

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interpretare la propria vita.47 È il senso, dunque, che fa l’esperienza,non la quantità, se così si può dire, dei vissuti. Nicol stesso riconosceche l’avere esperienza non dipende dall’età, né dall’aver accumulatotante esperienze differenti, ma dal modo in cui in tale accumulare «sieffettua un’integrazione, e dal modo più o meno certo con cui sia coltoil senso di ogni esperienza e influisca, nell’essere colto, sul corso futurodell’esistenza del soggetto che la vive».48

L’esistenza, dunque, non è uniforme e si differenzia da un indivi-duo all’altro. L’esperienza mostra in parte il suo senso, il quale si per-feziona e rende più chiaro attraverso le successive esperienze, ma solose tra queste avviene un’integrazione, che le riporti appunto a quelsenso.49

Come poter analizzare il senso dell’esperienza e il suo modo di rea-lizzarsi e integrarsi? L’introspezione, che ci permetterebbe di analizza-re i nostri processi psichici, essendo un’esperienza anch’essa non ap-porterebbe più profondità all’analisi di qualsiasi altra esperienza rifles-siva; l’osservazione dall’esterno, anch’essa un’esperienza, implichereb-be l’interazione di due soggetti (porre l’altro nel ruolo di “osservato”non è che un modo particolare di relazionarsi a lui, quindi impliche-rebbe uno studio piscologico anche dell’osservatore) e necessiterebbe,per essere fruttuosa, di un’adeguata teoria dell’espressione su cui basar-si. Questi metodi utilizzati dalla psicologia tradizionale non sono ade-guati, o meglio non sono sufficienti perché si basano, alla fine, sempresull’esperienza di un soggetto: l’atteggiamento scientifico assunto dallapsicologia, per cui l’altro verrebbe ridotto a mero “soggetto di osserva-zione” non riesce a sospendere la relazione vitale con lui. Per giungerea questo risultato l’osservatore dovrebbe poter andare al di là della suastessa vita, che è relazione, e oggettivare la vita del soggetto osservato.Questo, chiaramente, non è possibile a nessuna scienza dato che tuttefanno parte della stessa realtà che studiano.50 Di fronte a questo pro-

47. Ciò è possibile in quanto la “propria” vita è, per Nicol, sempre vita comune, tramadi relazioni nella quale è implicato e si attualizza l’essere dell’uomo. Per questo un uomo diesperienza sa come relazionarsi alla vita intesa come rapporto con gli altri e con le cose.

48. PSV, p. 34.49. Secondo Nicol, l’uniformità la possiamo incontrare solo nella vita animale, in

quanto l’esperienza è qui abituale e non ha alcun senso se non quello di una sussistenzabiologica: «la bestia è sprovvista della nozione di senso personale e sopra-individuale» (Ibi-dem).

50. Questo è il motivo per il quale, secondo Nicol, nessuna scienza può dirsi definitiva

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blema si apre il cammino della soluzione, che è individuabile solo se cilasciamo condurre dai fatti così come sono.

Se il fatto che l’osservatore non possa porsi al di fuori della relazio-ne con ciò che osserva può creare problemi in alcune scienze, quali peresempio la fisica, questo non deve dare alcuna noia allo psicologo cherifacendosi alla realtà dei fatti nella sua complessità deve riconoscerequesta condizione come il punto di partenza di un’autentica psicologia:«l’implicazione necessaria di io e tu è l’assunto di base dal quale biso-gna partire».51 L’implicarsi reciproco di io e tu forma un “sistema” percui non è possibile separare i due termini senza cadere in una falsa de-scrizione della realtà psicologica. Tra io e tu esiste una “relazione vi-tale” e per questo il sistema avrà il nome di “situazione vitale”.52 Non è

senza per questo perdere la sua validità (PSV, p. 34, nota 1). Tale nota è presente solo nellaseconda edizione della Psicología de las situaciones vitales, segno della meditazione ulterioreche ha chiarito, e confermato, i punti cardine della prima opera di Nicol.

51. PSV, p. 35, nota 1. È doveroso fare qui riferimento all’opera di Martin Buber Ich undDu [1923], che si apre con queste parole: «Il mondo ha per l’uomo due volti, secondo il suoduplice atteggiamento. L’atteggiamento dell’uomo è duplice per la duplicità delle parole cheegli dice. Le parole fondamentali non sono singole, ma coppie di parole. Una di queste pa-role fondamentali è la coppia io-tu. L’altra parola fondamentale è la coppia io-esso; dove, alposto dell’esso, si possono anche sostituire le parole lui o lei, senza che la parola fondamen-talmente cambi. E così anche l’io dell’uomo è duplice. Perché l’io della parola fondamentaleio-tu è diverso da quello della parola fondamentale io-esso. Le parole fondamentali non at-testano qualcosa che esista al di fuori di esse, ma, una volta dette, fondano un’entità. Leparole fondamentali sono dette insieme all’essere. Quando si dice tu, si dice insieme l’iodella coppia io-tu» (M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo(MI) 1993, p. 61). Buber, sebbene ammetta egli stesso di non aver elaborato una vera e pro-pria dottrina, sta parlando della realtà tutta, non solo di quella psicologica: «non ho alcunadottrina. Solo indico qualcosa. Indico la realtà, indico qualcosa nella realtà che non è statovisto o è stato visto troppo poco» (M. Buber, Replies to my Critics, in AA.VV., The Philoso-phy of Martin Buber, Open Court, La Salle, Illinois 1967, p. 693). La realtà è letta attraversola lente della relazione, intesa non come possibilità ma come struttura originaria (cfr. N.Bombaci, Ebraismo e cristianesimo a confronto nel pensiero di Martin Buber, Dante & Descartes,Napoli 2001, in particolare in primo capitolo). Anche se Nicol, per ora, si sta limitando aconsiderazioni di ordine psicologico, il dispositivo io-tu (che vedremo poi assumere il nomedi io–non-io) rappresenta il punto di partenza della realtà psicologica, la quale è espressionedella realtà stessa. Va segnalato che questa peculiare affinità, nonostante le strade assolu-tamente diverse intraprese dai due pensatori in questione, non è stata finora oggetto di in-teresse di nessuno studioso di Nicol, sebbene vi sia stato chi abbia abbia dedicato la propriaattenzione alla presenza di una dimensione dialogica nel suo pensiero, cfr. M. L. Santos,Realidad, evidencia y misterio: la dimensión dialógica en el sistema de Eduardo Nicol, in J. Gon-zález, L. Sagols (eds.), El ser y la expresión, cit., pp. 33-52.

52. Il nesso, la relazione vitale, esistente tra io e tu è costituita proprio dall’espressioneed «è reale (vitale) e oggettivamente determinabile». La psicologia scientifica utilizzandol’astrazione ha pensato di poter comprendere l’uomo analizzando solo i termini della rela-

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possibile una conoscenza psicologica che si situi al di fuori di tale rela-zione, soprattutto perché, come già detto prima, ogni metodo rimande-rebbe ad una conoscenza strettamente soggettiva. Questo è un limiteinvalicabile, per il quale una profonda e precisa conoscenza psicologicaconsiste di un’esperienza talmente personale che non può essere tra-smessa, pur rimanendo ferma la possibilità di riflettere sull’esperienzain generale. Una riflessione di questo genere sarà pur sempre un’espe-rienza. Procedendo in questa maniera, la prima questione nella quale cisi imbatte è quella della nozione di soggetto: la psicologia tradizionale,isolandolo, si è spinta fino alla sua “naturalizzazione”, considerandonepoi solo le funzioni psichiche. In ciò, la ricerca ha conseguito impor-tanti risultati, ma ha trattato l’uomo come se si situasse al di fuori dellarealtà. Una lettura dell’essere umano che lo voglia collocare nella suaautentica dimensione esistenziale costringe a rivedere la nozione disoggetto autosufficiente, che sta alla base della psicologia scientifica.53

Secondo Nicol, fino a questo momento il termine “soggetto” è statoimpiegato dalla psicologia in maniera indeterminata e confusa. Questoprobabilmente perché tale termine non nasce nell’ambito di questascienza ma viene mutuato dalla campo della metafisica e dell’episte-mologia recando con sé lo stesso significato che assumeva in questidue campi: «per soggetto si intende in generale l’essere umano, e inparticolare la coscienza».54 In qualsiasi delle sue accezioni, il termine“soggetto” denota, in maniera più o meno manifesta, una specie di“soggezione” a qualcosa. Questo ci obbliga al tentativo di andare oltreil soggetto per individuare ciò a cui esso è sottomesso e le forme stessedi tale soggezione. La sua definizione come soggetto ci informa di unasoggezione della quale però non ci dà alcuna altra informazione. La

zione, isolandolo, quindi, falsificando la realtà, «al contrario, partendo dall’espressione, lapsicologia delle situazioni vitali dispone senza dubbio della comprensione integrale; lacomprensione del prossimo come altro-io, come un uomo, è primaria nell’esperienza pre-scientifica» (PSV, p. 35, nota 1). Anche in questo passo è possibile ravvisare una qualcheaffinità con il discorso buberiano, confermata dal fatto che Nicol rimandi, in fin di nota,alla Metafísica de la expresión, come a voler spostare il piano dallo psicologico all’ontologico.

53. Questa revisione che prende il suo avvio a partire dall’ambito psicologico porta Ni-col ad una revisione ontologica dell’essere dell’uomo. Per questo motivo la Psicología de lassituaciones vitales non può essere considerata come una semplice opera psicologica bensìcome l’inizio di quella critica della ragione “a tappe” che assume una forma chiara in HE eche dà vita a ME.

54. PSV, p. 37.

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chiave di volta della questione sta nell’individuare il modo in cui ilnon-soggetto è in lui presente in maniera effettiva, reale. Per Nicol iltermine “soggetto” può avere senso solo in nome di tale soggezione,della presenza di qualcos’altro in se stesso, e a tale presenza suole darsiil nome di “coscienza”. Ora tutto ciò che non è soggetto è presente inlui in quanto oggetto della coscienza che però non può essere identifi-cato con la coscienza stessa, e così a tutto ciò che non è coscienza ma èda essa “colto” si suole dare il nome di oggetto: l’oggetto, dunque, per-de ogni potere perché il suo costituirsi e darsi avviene nel soggettostesso e l’oggettività si riduce alla soggettività. In tal modo, la varietàdel reale viene uniformata sotto il concetto generale di oggetto, e lerelazioni tra soggetto e non-soggetto vengono “neutralizzate” come“coscienza di”.55

L’essere viene ridotto a coscienza, viene risucchiato da quel vorticeche è il soggetto cadendo in quello che potremmo definire come l’oblìopsicologico dell’oggetto. Infatti, la psicologia a partire dal XVIII seco-lo, momento in cui inizia a costituirsi come scienza a sé, separandosidalla filosofia, ha focalizzato la propria attenzione solo sul soggettoperdendo di vista il suo correlato “vitale”. Lo studio del soggetto rivelaimmediatamente le relazioni che esso ha con ciò che è fuori di lui, glioggetti, che, però, vengono studiati solo dal punto di vista soggettivo:«l’oggetto non importava e la varietà delle relazioni vitali del soggettopoteva ridursi a un repertorio di funzioni di base, uniformi e generi-che».56 Il soggetto veniva identificato con la psiche, «parola vecchia,che sembrava nuova e più “scientifica”, con la quale si poteva sostitui-re la screditata parola “anima”, che significava la stessa cosa».57 Anche

55. V’è qui una nota polemica nei confronti di Husserl e della sua “svolta trascenden-tale” che non soddisfa Nicol. Il pensatore catalano vede nella fenomenologia un metodooggettivo (reale) che non riporta tutto all’ambito della coscienza: «la fenomenologia è co-noscenza immediata dell’Essere nell’ente. […] Essere è realtà: Essere è fenomeno. […] Pri-ma l’Essere, poi il pensare» (CRS, p. 170). Per quanto riguarda la questione del “metodo”nicoliano, preferiamo non illustrare ora la sua particolarità e rimandar al successivo capi-tolo. È interessante notare come la critica di Nicol, dal punto di vista fenomenologico, siaaffine a quelle mosse ad Husserl da alcuni esponenti della scuola fenomenologica francesequali Merleau-Ponty, Emmanuel Lévinas, Jean Luc Marion e Michel Henry, seppur daposizioni differenti (cfr. C. Tarditi, Con e oltre la fenomenologia. Le “eresie” fenomenologiche diJacques Derrida e Jean Luc Marion, il Melangolo, Genova 2008; V. Perego, La fenomenologiafrancese tra metafisica e teologia, Vita e Pensiero, Milano 2004)

56. PSV, p. 38.57. Ibidem.

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la psiche non soddisfa la descrizione del soggetto in quanto non riescea comprenderlo insieme alla totalità delle sue connessioni vitali, chepur non identificandosi con lui, non possono essere separate perchécompletano il suo essere. Non c’è via d’uscita al problema, la nozionedi soggetto così come è stata concepita finora è di per sé problematicadato che non tiene conto della connessione vitale tra io e non-io, e pro-duce una lettura non adeguata della soggettività. È necessario chel’oggetto, il non-io, sia valutato in tutta la sua portata di oggetto diesperienza al fine di dare il giusto valore all’esperienza stessa. Questosignifica che bisogna accettare la condizione per la è impossibile cono-scere e parlare di qualcosa come se fosse oggetto puro che si dà allosguardo dell’osservatore rimanendo nel suo isolamento. O meglio, èimpossibile che questo accada nell’ambito della psicologia dove la com-prensione riguarda la vita. La psicologia scientifica, dando per scontatala possibilità di effettuare questo isolamento, riusciva a conseguire ri-sultati validi che, però, non riguardavano la vita nel suo attuarsi, alpunto che «a volte la letteratura – in particolare il romanzo psicologico– [risultava] più ricca riguardo il saber del hombre che la stessa scienzapsicologica».58

«Nel soggetto solo, non troviamo tutto ciò che lo stesso contiene. Oper dirlo in maniera meno paradossale: se evitiamo il pregiudizio diconsiderarlo come qualcosa di isolato e sufficiente, è precisamente inesso che troviamo qualcosa che ci rimanda a ciò che esso stesso non è,ciò con cui si integra in maniera effettiva, reale o vitale».59 L’errore diconsiderarlo isolato in base a quella realtà “più autentica” che dovrebbetrovarsi dentro di lui, è ciò che ha portato alla considerazione del corpocome qualcosa di estraneo al soggetto stesso. In realtà, l’uomo ha unrapporto col proprio corpo differente da quello che ha con gli altri og-getti, perché in fondo è soggetto al proprio corpo. Il gioco di parolemostra, secondo Nicol, che è compito della psicologia andare a fondoanche riguardo la relazione privilegiata che esiste tra soggetto e corpoproprio, verificando se quest’ultimo è parte del soggetto o quali sianole forme di relazione funzionale che essi intrattengono e che permet-tono ulteriori relazioni con gli altri oggetti del mondo esteriore.

58. Cosa che, come notava il filosofo Pietro Piovani, accadeva anche nei confronti dellafilosofia.

59. PSV, p. 39.

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L’oggettivazione del corpo lo disumanizza e non permette di rendersiconto di tutte le modalità vitali che ciascuna persona esprime attraver-so l’esperienza concreta del suo proprio corpo. Si potrebbe obiettareche l’oggettivazione è l’unico punto di partenza per l’analisi del corpo.In tal caso sarebbe irrimediabilmente perduta la dimensione del “mio”o “tuo” corpo, che se da una parte rimandano ad una comune corporei-tà dall’altra rinviano anche ad un’altra, differente, relazionata con ilsoggetto di cui sono corpo.60 Questo ci rende consapevoli del fatto chela costituzione del corpo umano influisce sulle modalità della nostraesistenza allo stesso modo in cui siamo consapevoli di avere un corpo,e quindi in una certa maniera in rapporto con esso.61

Il soggetto va al di là della psiche o della coscienza, per questo non ècostituito dalla somma delle sue funzioni psichiche ma le trascende ene è punto di convergenza. Non è possibile giungere ad una correttaconcettualizzazione della nozione di soggetto attraverso successive ag-giunte, bisogna individuarla dal principio, appunto comprenderla.

60. È interessante notare come l’analisi di Nicol apra una pista filosofica verso la que-stione medica della psicosomatosi.

61. La posizione di Nicol conferma ciò che già abbiamo notato nella nota 186, per cui ilcorpo ha un ruolo particolare in quanto “oggetto privilegiato” che mi condiziona non comegli altri oggetti, ma attraverso una relazione particolare. È l’ancoraggio dell’uomo al mondonaturale che, allo stesso tempo, permette al soggetto di non essere naturale. Non si tratta didualismo ma, come direbbe lo stesso Nicol, di mistero: «l’origine è ciò che dà ragionedell’essere. L’essere dell’uomo è verbo. Il verbo nasce dalla materia. Ciò è impossibile. E quitermina la questione. Non c’è motivo di sconforto. Il fatto è che siamo circondati dal miste-ro» (E. Nicol, Formas de hablar sublimes: poesía y filosofía, UNAM, México 1990, p. 39). Ilcorpo in quanto “mio corpo” non è mai semplicemente una res extensa, è «materia umaniz-zata» che mostra il “mistero dell’incarnazione del logos” (CRS, p. 263). La filosofia può soloassumere questo come dato evidente: «forse questa è l’unica occasione nella quale la filoso-fia deve concettualizzare il mistero. La comprensione rigorosa dei termini che cosituiscono ilproblema obbliga a riconoscere che non ha soluzione. È indispensabile mettere in evidenzala materialità del logos, per non incorrere precisamente nell’ismo del materialismo e, nellostesso tempo, far risaltare l’umanizzazione della materia grazie al logos, per non incorrerenell’ismo dell’idealismo» (CRS, p. 267). Come vedremo, posto in maniera ontologica, ilproblema assumerà questa forma, cioè quella di una sua conversione in dato. A partire daqueste affermazioni José Luis Díaz considera la posizione nicoliana in linea con un moni-smo metafisico non necessariamente materialista ma necessariamente “duale” (La danza deProteo: Eduardo Nicol y el problema mente-cuerpo, in Eduardo Nicol. La filosofía como razón sim-bólica, cit., p. 151). La possibilità di una dualità che non sia dualismo sembra essere funzio-nale alla comprensione del problema ma crediamo sia più corretto limitarci alle stesse pa-role di Nicol, riconoscendo al problema la mancanza di soluzioni e la necessità che sia coltocome dato incontrovertibile (mistero) che si dà “integrato” nell’unità personale.

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L’io, è oggetto di esperienza immediata ma non può essere speri-mentato se non insieme alle sue relazioni. Come è possibile che allorarimanga lo stesso quando cambiamo tutte le sue relazioni? E se cambiacome è possibile che si riconosca come lo stesso di prima? «Non saràche lo stesso cambia, senza smettere di essere lo stesso, perché non c’èdistinzione tra ciò che è e ciò che possiede»?62 Il fatto che l’io sia ogget-to di esperienza significa che esso è tutto nell’esperienza in cui lo sitrova, e questo, ribadisce Nicol, avviene in maniera immediata: il sog-getto non deve essere pensato come qualcosa di recondito che sta die-tro le sue esperienze, che possa essere separato da queste, vale a direseparato dal trans-soggettivo. «Il trans-soggettivo è qualcosa di estra-neo al soggetto […] ma allo stesso tempo è qualcosa del quale il sogget-to dipende per agire (e la sua esistenza è azione); qualcosa senza ilquale non si può determinare con precisione ciò che gli succede, comein fisica non si può determinare lo stato del movimento della particellao la trasmissione dell’onda se non in funzione del suo campo».63 Ilnon-io, che è esterno al soggetto, non è caos da ordinare, ma qualcosadi integrato, unificato, strutturato dal soggetto nella sua stessa espe-rienza e costituisce un campo, una circostanza64 personale: «la situa-zione vitale è giustamente il concetto con il quale si esprime quella in-terdipendenza tra campo e particella, ambiente e soggetto» grazie allaquale possiamo comprendere l’esistenza concreta di quest’ultimo.65

Il soggetto, l’io, si dà interamente in tutte le sue esperienze, in ognisua azione, e ciò che gli permette di non frammentarsi è il fatto che inogni sua azione contiene interamente il suo passato, quindi le possibili-tà che delimitano il suo futuro. La temporalità, e qui giungiamo aldunque, non compromette il soggetto e la sua mismidad,66 ma la svilup-pa. Nicol effettua una “svolta” teoretica che necessita di un cambia-mento terminologico: il fatto di rimanere lo stesso pur cambiando ren-de problematico il permanere dell’identità del soggetto; questo accadesolo perché si utilizza, come parametro per concepire l’identità, la fissi-

62. PSV, p. 41.63. PSV, p. 42.64. Non si tratta della circunstancia di carattere orteguiano che verrà poi criticata da Ni-

col. Rimandiamo al prossimo capitolo il suo confronto diretto con José Ortega y Gasset.65. PSV, p. 42.66. Si potrebbe tradurre mismidad con “stessità”, o “medesimezza”, ma preferiamo la-

sciarlo in spagnolo affinchè risalti e venga rilevato il suo valore teoretico.

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tà determinata dal principio di non contraddizione. La mismidad, inve-ce, vuole indicare il soggetto come dinamico, non solo nel senso cheagisce, ma che è la stessa azione. La questione verrà poi affrontata inmaniera più profonda dal punto di vista ontologico; rimanendo nel-l’ambito psicologico a noi interessa notare come la mismidad permetta aNicol di mantenere riconoscibile il soggetto nel suo essere colui cheagisce senza che egli perda le coordinate della propria esistenza. Latemporalità, dunque, è ciò che nell’ambito dell’esistenza permette alsoggetto di dispiegare la propria vita, la quale si struttura in situazionivitali. L’io si gioca nella dimensione della temporalità, ed è per questoche non può essere compreso dalle scienze della natura.67 In realtà, nonviviamo la nostra identità, ma la temporalità, per questo è più adegua-to parlare di mismidad: «il soggetto temporale è lo stesso [el mismo], mala sua mismidad gli si rivela giustamente nel vissuto o esperienza dellanovità».68 Un io che mantiene la sua identità, secondo l’idea classica disostanza, non può essere soggetto di cambiamento in quanto non cam-bierebbe esso stesso ma qualcosa che gli è pertinente, invece il rinno-varsi dell’io in ciascuna delle sue esperienze appare chiaramente comeun dato psicologico, vale a dire in tutta la sua evidenza. Il rinnovarsiimplica il passato e questo significa che «l’io è temporale e non identi-co»69 e che essere el mismo non significa essere identico. L’io, secondoNicol, è sempre pienamente attuale, presente, ma il presente è possi-bile solo come novità, rinnovarsi: «quella che possiamo chiamare mi-smidad dell’io, questo stesso la scopre solo nell’esperienza, come novità,e in riferimento ad esperienze passate, il che implica la sua temporali-tà».70

67. Chiara l’assonanza tra la posizione di Nicol e quella di Dilthey riguardo il fatto chela psicologia non possa essere esplicativa bensì descrittiva e che vi sia un ineludibile rappor-to tra lo psicologico e lo storico (cfr. G. Cacciatore, Scienza e filosofia in Dilthey, cit., p. 223-226 e pp. 268-269). Va, però, ricordato che questa è per Dilthey la possibilità «di superare larelatività del fenomeno storico e di evitare, al tempo stesso, di ricadere in un principio me-tafisico di esplicazione» (G. Cacciatore, Scienza e filosofia in Dilthey, cit., pp. 224-225), men-tre per Nicol una tale psicologia apre la strada proprio ad un’elaborazione di carattere on-tologico. La chiave di comprensione di questa diversità sta nell’idea nicoliana di una rifor-ma della metafisica che possa proporsi come risposta ai problemi della tradizione del pen-siero occidentale affinchè questa non cada vittima della critica kantiana, dalla quale è in-fluenzata invece l’opera di Dilthey.

68. PSV, p. 43.69. Ibidem.70. PSV, p. 44.

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Nicol trova nel Bergson del Saggio sui dati immediati della coscienzacolui che ha posto in evidenza la «temporalità dell’io “concreto e vi-vente”».71 L’idea fondamentale di Bergson, rileva Nicol, sta nella di-stinzione tra la durata pura, intesa come «forma assunta dalla succes-sione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere,quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente equello anteriore»,72 e il tempo omogeneo, inteso come quarta dimen-sione dello spazio.73 L’intento della ricerca di Bergson è quello di indi-viduare i dati immediati della coscienza, quello di Nicol è di descriverei dati del conoscere psicologico a partire dall’esperienza. Questi ultimisono immediati pertanto vi dovrebbe essere coincidenza tra i risultatidelle due indagini. Ora, l’argomentare di Bergson conduce all’idea chela molteplicità dei fatti della coscienza non può assumere valore nume-rico senza la mediazione di una rappresentazione simbolica nella qualeinterviene il concetto di spazio.74 Infatti, siamo portati a pensare iltempo come omogeneo e nel quale possiamo situare gli eventi, ma inrealtà la percezione temporale non permette una considerazione quan-titativa dell’evento bensì solo qualitativa, per cui il tempo pensato nelsuo aspetto quantitativo non è che spazio. Questo significa, secondoBergson, che la durata pura è tutt’altra cosa dal tempo pensato in que-sta maniera: l’autentica temporalità non è il tempo omogeneo. Cono-sciamo dunque due realtà di distinto ordine: una eterogenea percepitanella sua intensità, quindi qualitativamente, ed un’altra omogenea,quantitativa, che è lo spazio. Ora, se lo spazio deve essere definito co-me omogeneo,75 sembra che qualsiasi mezzo omogeneo debba essere

71. Il saggio di Bergson vide la luce nel 1888. In realtà Nicol riconosce che, per essereprecisi, bisognerebbe citare come antecedente Hegel, ma preferisce le analisi di Bergsonperché hanno una relazione diretta con il campo della psicologia (PSV, p. 44, nota 5).

72. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina, Milano 2002,p. 66. Cfr. anche A. Pessina, Introduzione a Bergson, Laterza, Roma-Bari 2005 e due testiestremamente interessanti: L. Kolakowski, Bergson, Palomar di Alternative, Bari 2005 e V.Jankelevitch, Bergson, Morcelliana, Brescia 1991).

73. Ivi, p. 65.74. Ivi, pp. 57-58.75. Ivi, p. 63: «Così, se ad esse non si aggiungesse nulla, le sensazioni inestese rimar-

rebbero quello che sono, appunto sensazioni inestese. Affinchè dalla loro coesistenza scatu-risca lo spazio, è necessario un atto dello spirito che le abbracci tutte contemporaneamentee le giustapponga; questo atto sui generis è molto simile a ciò che Kant chiamava una formaa priori della sensibilità. E se ora si cercasse di caratterizzare quest’atto, si vedrebbe che,fondamentalmente, esso consiste nell’intuizione, o meglio nella concezione di un mezzo

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spazio. Tuttavia, consideriamo anche il tempo, quando non è durata,omogeneo come lo spazio: l’omogeneo presenterebbe allora una dupliceforma rispetto alla successione o alla coesistenza.76 In realtà, per Berg-son non è così anzi il tempo omogeneo non è che il fantasma dellospazio che ossessiona la coscienza. La teoria che Bergson argomentaintende confermare la differenza tra durata e spazio al fine di mostrarecome la molteplicità degli stati della coscienza non ha alcuna somi-glianza con la molteplicità che costituisce una quantità numerica. L’io,dunque, è tale che i suoi stati interni si compenetrano intimamente enon possono essere giustapposti come se fossero situati in uno spazio.La nostra vita non si svolge solo all’interno del soggetto ma in un con-tinuo contatto con il mondo esterno che da noi viene percepito comespazio: ci troviamo dunque in una strana posizione per la quale il no-stro io “profondo” percepirebbe la durata mentre l’io “superficiale” vi-vrebbe nel mondo considerato come spazio e tempo omogeneo: «inrealtà, al di sotto della durata omogenea (tempo), simbolo estensivodella vera durata, scopriamo una durata i cui momenti eterogenei pe-netrano l’uno nell’altro; al di sotto della molteplicità numerica deglistati coscienti, formata dal riferirsi di tali stati a fenomeni contempo-ranei del mondo esteriore, scopriamo una molteplicità qualitativa; aldi sotto dell’io, con i suoi stati definiti, scopriamo un io nel quale lasuccessione implica fusione e organizzazione».77 Questo io fonda-mentale può essere individuato solo attraverso una profonda analisi.La differenza tra “i due io”, però, non esiste, essi costituiscono lostesso soggetto.

Nicol ravvisa questa posizione come problematica in quanto, se siparla di dati immediati della coscienza, sembra essere un controsensodoverli poi cercare al di sotto di uno strato “superficiale”. Se l’io non èduplice e si riferisce allo stesso soggetto, dover poi cercare l’immedia-tezza al di là della sensibilità, in una coscienza che è al di sotto dell’iosuperficiale ci ricondurrebbe alla questione della “soggezione” elabo-rata dalla precedente psicologia. Se il dato immediato è tale, deve esse-

vuoto omogeneo. Non esiste infatti nessun’altra definizione possibile dello spazio: esso èciò che ci permette di distinguere l’una dall’altra più sensazioni identiche e simultanee: èquindi un principio di differenziazione qualitativa, e, di conseguenza, una realtà senza qua-lità».

76. Ivi, p. 65.77. PSV, p. 46.

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re colto da quella che lo stesso Bergson chiama “coscienza inalterata”,ma lo sforzo di analisi che in questo caso ci permette di giungere allacomprensione della durata e alla definizione del tempo omogeneo co-me il risultato dell’azione del fantasma dello spazio sulla nostra co-scienza altera la stessa. L’intuizione di Bergson è, secondo Nicol, vizia-ta già da un’idea per la quale il dato immediato va cercato nel fondodella coscienza.78 Dove però il soggetto non ha un dentro e un fuori, ildato immediato è quello conosciuto in maniera diretta e lo stesso fan-tasma dello spazio ha, nel suo agire sulla coscienza, un valore che èimmediato e che precede il suo smascheramento. L’analisi di Bergsonsembra avere come risultato non il “dato” ma l’“ottenuto”,79 ed è, per-tanto, valida solo se si parte da quell’io fondamentale che riconoscecome primaria la durata pura, ma che perciò deve essere presupposto.Questo per Nicol non può essere il “dato”: noi chiamiamo “dato” ciòche è originario e semplice, ciò che si dà. Anche l’idea di partire da unacoscienza inalterata è già di per sé un presupposto: «la coscienza to-talmente trasparente, completamente ingenua, la “coscienza inaltera-ta” […] è un presupposto di chi effettua tale partenza verso la scienzaprovvisto di una coscienza tremendamente armata di idee preconcet-te».80 Non è possibile andare verso un luogo se non partendo da un al-tro luogo, e quest’ultimo – il punto di partenza –, insieme al propositodi partire, sono il presupposto di qualsiasi indagine. Ritornando al da-to, esso è ciò che è appunto dato originariamente, ma non è detto chedebba essere semplice.

La realtà che io percepisco, scrive Nicol, già mi si dà in maniera or-dinata e questo è il dato, che consiste non solo nel modo di darsi delreale ma anche nel mio modo di percepirlo. Il nostro errore sta nel fat-to che prima proiettiamo un nostro ordine sulla realtà e poi tentiamodi verificarlo cercando quello che possiamo considerare come l’ordinerealmente immanente al reale. Questo lo facciamo con la natura maanche con il soggetto stesso, ed è proprio l’analisi di questo che ci hamostrato il problema: lo stesso proposito di rivolgerci al dato già altera,psicologicamente, ciò che prima era originariamente dato, sommando-si al dato stesso: «il dato è ciò che si dà semplicemente, vale a dire,

78. Cfr. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cit., pp. 48-49.79. PSV, p. 46.80. PSV, p. 47.

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senza commenti né propositi di analisi».81 Quello che davvero ci inte-ressa è il dato come è percepito nell’esperienze fondamentali della vita,una delle quali è proprio interrogarsi riguardo l’esperienza fondamen-tale e quello che in essa si dà. Questo è il compito della psicologia.82

L’immediato, il dato, non è ciò che precede l’elaborazione intellettuale,ma è ciò che possiamo incontrare in qualsiasi “strato” o “livello”dell’io, supponendo che esso abbia livelli. Bergson, riscontra Nicol,parla dei dati intendendo per essi i fondamenti, che si mostrano al disotto dello strato formato dalle prime percezioni e, pertanto, vannocercati in maniera analitica: «suggeriamo invece che il fondamentalenon sia velato, ma evidente, implicato in qualsiasi tipo di esperien-za».83

Considerando, dunque, letteralmente il significato del termine“dato” siamo costretti ad inferire che il risultato dell’analisi ci porta aduna conclusione completamente opposta a quella di Bergson: ciò che èdato, è proprio l’idea di tempo come mezzo omogeneo, spazializzato, enon la durata pura. Nella vita effettiva, infatti, la coscienza percepiscele cose come esteriori e localizzate nello spazio, e anche il tempo vienepercepito come omogeneo, mentre la durata pura si mostra solo comerisultato di un’analisi, quindi di un’esperienza non immediata. La du-rata pura, come afferma lo stesso Bergson, viene percepita quando ilnostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separa-zione fra lo stato presente e quello anteriore, ma nella vita quotidianaquesto non accade. Lo spazio ed il tempo ci appaiono come omogenei equesto perché quella che Bergson chiama la cooperazione intellettualenella funzione della conoscenza, nella quale il filosofo francese localiz-za l’operazione che spazializza il tempo, non è affatto, per Nicol, po-

81. PSV, p. 48.82. L’interesse di Nicol, risulta ora chiaro, è mostrare in maniera inconfutabile

l’impossibilità dell’isolamento di un concetto e quindi anche di un dato primario. Ciò che sidà, si dà prima di ogni analisi (e quest’ultima, pur essendogli applicata sarebbe comunqueuna nuova esperienza che lo altera) e si dà in una relazione, una situazione, un’esperienza enon è separabile da essa.

83. PSV, p. 48. Questo è un punto fondamentale dell’argomentazione nicoliana: è pos-sibile parlare del soggetto senza cadere nella già citata problematica della “soggezione” soloperché esso è di per sé evidente e alla stessa maniera lo è il dato fondamentaledell’esperienza. Anche Bergson presuppone l’io fondamentale a qualsiasi esperienza, ma laradicalità dell’assunto nicoliano sta nel fatto che il fondamento non è solo presupposto maevidente, a la vista.

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steriore alla percezione. Porla come un’operazione derivata ci costrin-gerebbe, ed è questo il punto in cui Bergson e Nicol prendono duestrade differenti, a cercare l’io più a fondo ma allo stesso tempo a per-dere il dato come immediato per ritrovarlo solo come fondamentale.Per Nicol è impossibile l’esistenza di un processo puro di conoscenzasensibile.

Gli oggetti che percepisco appaiono come indipendenti da noi e traloro per cui è immediata la proiezione di essi in uno spazio, mentre re-sta da capire se questo è davvero percepito come omogeneo. Nicolprende ad esempio il nostro corpo riscontrando che anche riguardo adesso abbiamo una percezione di tipo spaziale ma che non è quantitati-va, bensì qualitativa. Che nell’esperienza lo spazio si dia immediata-mente come dato connotato qualitativamente non significa che essosia informe: «tutto il mondo si organizza spazialmente intorno a me;“intorno a me” significa dire, per il momento, intorno a “qui”. Il qui èsempre dove io sto».84 A partire dal “qui” le cose occupano, in prospet-tiva, la loro posizione: stanno “lì” dove non sto io, però sono vicinealla mia posizione; alcune sono lontane, altre più vicine, altre interpo-ste tra il “qui” e il “lì”. Se lo spazio viene percepito a partire dal miocorpo, allora non può essere conosciuto immediatamente come unmezzo omogeneo. Uno spazio omogeneo non potrebbe contemplare lequalità di “vicino” o “lontano” se non in relazione ad un punto che fada referente fondamentale. L’esistenza di questo punto, che per Nicol èil nostro corpo, ci mostra che non siamo più di fronte ad un mezzoomogeneo che ha quell’oggettività garantita dalla dimensione quanti-tativa. Questo non significa, però, che lo spazio nel quale percepiamogli oggetti, in base al nostro essere situati, sia per questo non commen-surabile: lo è in quanto manca di un’unità di misura quantitativa, maallo stesso tempo non lo è in quanto è possibile trovare «un principiodi determinazione qualitativa». Tale principio è costituito dalla nostraposizione, il nostro qui, come centro intorno al quale si colloca tutto ilresto.

84. PSV, p. 50. Sarebbe interessante indagare le possibili affinità tra l’argomentazionedi Nicol e le analisi di Merleau-Ponty riguardo l’apertura dell’orizzonte della spazialità apartire dal nostro proprio corpo (cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception,Gallimard, Paris 1945, in particolare la prima parte).

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L’idea di Nicol è ormai chiara: nel dato è già implicita una proie-zione spaziale, dovuta ad una partecipazione intellettuale nella funzio-ne percettiva; tale proiezione precede l’intuizione dello spazio comemezzo omogeneo: «nell’eterogeneità qualitativa del dato si dà ancheuna nota o indicazione spaziale qualitativa, e in un modo immediato».85

Questo significa che la nozione di estensione indefinita e omogenea èderivata dall’esperienza primaria di una “spazialità qualitativa”. Senon fosse così, non ci sarebbe possibilità alcuna di pensare l’estensioneche, al contrario, come concetto ci risulta estremamente familiare inquanto immediato. Inoltre, gli stessi oggetti che percepiamo, non lipercepiamo in base alle loro caratteristiche, ma in maniera immediataattraverso la loro forma, prima ancora delle qualità sensibili che pos-sono essere poi individuate in seguito ad un’ulteriore analisi: «la perce-zione primaria e immediata di questi elementi formali ci rivela chenella percezione stessa, e prima della concettualizzazione dello spaziocome grandezza, ci sono più determinazioni spaziali, primarie, chepossiamo denominare grandezze qualitative».86

Il distacco da Bergson è ormai avvenuto. Va sottolineato, riguardociò, il tentativo del pensatore catalano di rimanere sempre aderente alreale nel suo immediato darsi. La percezione dello spazio come qualita-tivo mostra l’impossibilità di determinare la successione esatta dei no-stri processi psichici. Questo non significa che la vita psichica sia con-fusa, in quanto il “prima” e il “dopo” sono anch’essi dati immediati:tale successione non deriva dall’intromettersi del concetto di spazioomogeneo nell’ambito di ciò che non gli è pertinente, ovvero la dimen-sione qualitativa. Dentro noi stessi possiamo individuare un’espe-rienza di successione temporale che precede l’idea di ordine reversibileo di misurabilità regolare: «v’è un ordine temporale qualitativo (comev’è un ordine spaziale qualitativo) formato da quelle determinazioniprimarie anteriori a qualsiasi quantificazione del tempo (o dello spa-zio)».87 Il fatto che ogni “ora” rechi con sé un “qui” di cui siamo im-mediatamente consapevoli, e che sono espressione di un ordine quali-tativo in quanto fanno sempre riferimento a me, fa sì che nell’“ora” siaimplicato sempre un “prima” che precede qualsiasi rappresentazione

85. PSV, p. 51.86. Ibidem.87. PSV, p. 52.

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del tempo come mezzo omogeneo. Questo è possibile, ripetiamo, per-ché nella percezione è implicata anche la funzione intellettiva che se-condo Nicol è «effettivamente primaria»,88 sebbene non lo siano tutti isuoi prodotti.89

Il fatto che l’“ora” implichi sempre un “prima” indica che non v’èpresente senza passato. Nell’ordine qualitativo temporale, i momentivissuti non sono indifferenti tra loro ma sono riconosciuti come unicie valorizzati in base al senso dell’esperienza che in essi si è vissuto. Ilpunto di riferimento di quell’ordine, come per quello dello spazio, ri-mane il soggetto, per cui si può affermare che esiste nell’esperienzauna distinzione temporale qualitativa, ma che in essa tutto assume ilsuo valore a partire dall’“ora”, dal presente. Il presente ha un valoretutto qualitativo. Infatti, dal punto di vista quantitativo esso si mostracome schiacciato tra passato e futuro, sfuggente al secondo viene dasubito risucchiato nel primo. Eppure, l’esperienza sembra mostrarciche il presente “dura”. Che cos’è la durata del presente? È il modo at-tuale nel quale viviamo. Tale modo non è quantificabile ma ha una suaconnotazione qualitativa per la quale l’ordine dei nostri atti interni èeterogeneo, cioè non ha lo stesso valore per ogni soggetto: «è un ordinesituazionale, che vuol dire che ha, per ciascun caso, al centro un sog-getto determinato».90 In tale ordine, l’ora, il prima e il dopo, sebbenequalitativi, sono dati primari e costituiscono l’esperienza stessa chenon necessita di essere considerata come collocata in un tempo spazia-lizzato per essere rammemorata. Il nostro “ora” non viene mai vissutosenza che vi sia già in esso la presenza dell’elemento passato e talecondizione, proprio perché si tratta di tempo qualitativo, non richiedeuna disposizione spaziale del passato, altrimenti dovremmo ramme-morare tutti i momenti che precedono l’evento al quale intendiamo ri-ferirci. Da ciò, Nicol deduce la conferma che la durata non è confusa,ma reca sempre con sé un riferimento al passato, il “prima”, e quindi

88. PSV, p. 53. Questo punto è fondamentale in quanto mostra la rottura che il pensierodi Nicol opera nei confronti di quella tradizione che separa la percezione della sensazionedall’attività intellettiva, proponendole come componenti che cooperano nell’ambito di uncampo più grande quale quello della ragione. È proprio a partire da una differente conce-zione della ragione che Nicol tenterà un rifondazione metafisica.

89. Per esempio lo spazio e il tempo concepiti in maniera omogenea, che sono la con-versione alla dimensione quantitativa di ciò che primariamente si dà come qualitativo.

90. Ibidem.

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una sorta di “senso della temporalità” di carattere qualitativo e, perquesto, determinabile solo qualitativamente.91

Ora, però, è pur vero che l’uomo considera naturale quantificarespazio e tempo: questo è dovuto al fatto che i concetti di tempo uni-forme e spazio neutro, sebbene non primari ma derivati, sono a talpunto parte dell’esperienza ordinaria che l’uomo li considera comefondamentali. Questo è indice di un’altra caratteristica importantedella nostra psiche: vi sono dati immediati, ma vi sono anche dati chesono “avventizi”, non immediati che, però, si si integrano con i datiprimari – «psicologicamente si vede molto chiaramente che deve con-sistere in una rielaborazione di ciò che è acquisito e di ciò che è prima-rio, in maniera che l’acquisito si converta in spontaneo e le successiveassimilazioni consituiscano ciò che si chiama una “seconda natura»92 –in modo che non vi sia una sovrapposizione dell’“avventizio” sul pri-mario, ma che il primo venga “vitalizzato” dal secondo. Per esempio,lo spazio neutro e il tempo uniforme si mostrano “vitalizzati” nelmomento in cui sono accomapagnati da giudizi di valore che riguarda-no la situazione stessa che il soggetto sta vivendo (spazio e tempoquantitativi sono “vitalizzati” dal “qui” e dall’“ora” che sono qualitati-vi). In ogni vissuto, spazio e tempo si danno sempre come interdipen-denti, e tale implicazione è di natura puramente qualitativa: «il carat-tere qualitativo di ambedue i termini e della loro implicazione derivadal fatto che questi si spostano con me. Qui è sempre nel luogo in cuisto, e ora è sempre il mio momento presente».93 Per questo motivo talitermini, dati immediati del mio conoscere psicologico e presenti inogni esperienza, sono la condizione base di quella che Nicol chiama“attualità vitale”.94 Questa attualità non coincide con una sorta di dato

91. PSV, p. 55. Qui Nicol porta come esempio le relazioni affettive, in base alle qualiun’esperienza viene qualificata come vicina o lontana qualitativamente, e il passato pros-simo, che viene da noi vissuto quasi come una continuazione del presente senza che si pos-sa mai comprendere il momento in cui lascia il campo al passato.

92. PSV, p. 57. Abbiamo tradotto refundición con “rielaborazione”, perché in italianonon ci sembra adeguato utlizzare il termine “rifusione” in relazione a determinati dati ac-quisiti attraverso l’esperienza. In ogni caso, va sottolineato che tale rielaborazione deveavere i caratteri di una vera e propria fusione, affinchè si possa poi parlare di una secondanatura.

93. PSV, p. 59.94. Ibidem. Per attualità vitale dobbiamo intendere il nostro essere esistenti e coscienti,

in maniera immediata, del nostro esistere.

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stabile e neutro: il soggetto, andrà sempre sottolineato, non ha una ba-se stabile neutra e questo significa che non si può mai parlare, come giàabbiamo detto, di una coscienza in generale.

Il soggetto è sempre rivolto a qualcosa e precepisce in maniera im-mediata il suo essere già nell’aver “coscienza-di”. L’autocoscienza è de-rivata rispetto alla coscienza e segue sempre l’esperienza, fondata nel“qui” e nell’“ora”, della mia esistenza95: prima di una riflessione che cipermetta di distinguere la realtà e ciò che in essa si dà, il mondo attor-no a noi non ci appare come problematico e pertanto non ha bisogno dialcuna fondazione, il problema nasce quando ci chiediamo “chi sia-mo?”.96

Di fronte a tale questione bisogna dare qualche risposta su ciò chefinora abbiamo potuto acquisire circa il saber del hombre. La possibilitàdi porre l’interrogativo circa noi stessi e la realtà che ci circonda nonrende problematico il mondo in cui viviamo, ma solo il nostro rappor-to cosciente con esso. Si verifica, infatti, un distanziamento del sogget-to dal mondo, ma questo non lo svincola vitalmente dalla realtà: non v’èatto della coscienza, dello spirito o della ragione che possa sospenderela realtà. Seguendo il discorso di Nicol, dunque, ci si è potuti rendereconto dei caratteri psicologici fondamentali dell’uomo: l’uomo conoscee si conosce attraverso l’esperienza che è azione; in ogni esperienza sidanno i dati originari del “qui” e dell’“ora” (in senso qualitativo) comecostituenti l’esperienza stessa ma anche come immediatamente pre-senti al soggetto; l’uomo, pertanto, vive e vivendo costituisce il suo es-sere soggettivo attraverso l’integrazione, sempre in atto, di passato epresente (quest’ultimo è l’espressione stessa della vita in atto); inquanto azione, l’uomo è temporale, discontinuo, nel senso che il suoconoscersi è sempre frutto di una “ri-valorazione” e “vitalizzazione”dell’azione passata e del momento presente; infine, non è possibile in-dividuare un dato originario che non sia, al contempo, immediato emanifestante la realtà. Il fatto che la vita dell’uomo si giochi sempre in

95. Possiamo, qui, notare l’influenza del pensiero di Husserl su Nicol, ma allo stessotempo individuare la strada differente, seguita dal pensatore catalano, che non ammette lapossibilità di un dato fondamentale posto come trascendentale. La coscienza-di non puòessere separata dal fatto che in essa avvenga simultaneamente la percezione dell’oggetto, apartire dal mio “qui” ed “ora”, e di queste stesse condizioni della mia attualità, ovvero esi-stenza.

96. PSV, p. 62.

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un hic et nunc implica, come abbiamo visto, la questione del corpoumano. Il nostro corpo ci permette di percepire lo spazio in manieraimmediata ma, come abbiamo già sottolineato, secondo una modalitàqualitativa. Questo significa che non è pensabile, dal punto di vistapsicologico – ovvero esistenziale –, una separazione dell’interioritàumana dall’esteriorità, un dualismo spirito-corpo per il quale al corpocompeta la spazialità e allo spirito la temporalità.97 È vero chequest’ultima riguarda il costituirsi, anzi il farsi, del soggetto attraversola sua storia, per cui sembrerebbe riferirsi alla vita interiore, ma questostesso farsi nell’azione, si realizza sempre in modo “localizzato”. Que-sto, per Nicol, è indice dell’unità del soggetto. L’uomo si presenta fe-nomenicamente come un’unità. Si rende necessaria una ridefinizionedei termini “spirito” e “corpo”:

– lo spirito non va concepito come una realtà autosufficiente dotatadi proprietà e attività specifiche e per questo indipendente dal corpo.Se l’uomo è unità che si fa nel suo stesso agire, sua caratteristica fon-damentale è la capacità di actuar con sentido, di agire secondo una preci-sa intenzione: tale capacità la chiamiamo spirito per distinguere gli attiumani da quelli riflessi o istintivi. Notiamo, dunque, come spirito nonsia una sostanza a sé, ma una capacità che caratterizza l’uomo in quan-to tale: «lo spirito è come una potencia dell’essere umano e quest’ultimoraggiunge la sua pienezza solo nell’atto spirituale» . Per questo, latemporalità non è l’unica dimensione che gli è pertinente: lo spirito sipresenta solo in maniera attuale, manifestandosi attraverso l’azione(attraverso la quale si “fa” e si modifica). L’agire dello spirito, vale adire dell’uomo, non è continuo, nel senso che ad un atto ne segue unaltro e questi sono collegati dal ricordo dell’atto precedente (esempiochiaro di quell’integrazione continua tra passato e presente che costi-tuisce lo spirito stesso nella sua azione), che permette il costituirsidell’esperienza, facendo sì che se ne possa parlare. Fondandosi, nellasua “continua discontinuità”, sul ricordo, tale azione è temporale, hauna durata. Ma essa è anche “locale”: «la mia azione si produce semprequi». Non è mai solitaria perché la sua fonte, il suo stimolo, sta nel

97. PSV, p. 68. Riguardo ciò cfr. anche S. Santasilia, Il corpo humanizado. La prospettivadi Eduardo Nicol, in A. Molinaro – F. De Macedo (a cura di), Verità del corpo, Pro Sanctitate,Roma 2008, pp. 283-296.

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non-io, nella realtà alla quale è sempre relazionata: la mia inspiración laricevo da ciò che mi è prossimo «in una prossimità che non implicauna dimensione regolare e misurabile». Ciò che mi è prossimo mi in-fluenza e viene da me influenzato: «io mi costituisco come centro diquesta influenza reciproca. Al costituirmi io come centro, il mio spiri-to si ritrova localizado».98 La qualità spaziale non va, dunque, riservatasolo al corpo, anzi il suo essere componente costitutiva dell’azionedello spirito, quindi dello spirito stesso, mostra quanto esso non possaessere considerato come realtà a se stante separata dal corpo: «lo spiritoè un’azione realizzata da un essere che possiamo chiamare spiritualeperchè ha il potere di spiritualizzare la sua vita, non perchè possiamodistinguere, in questo essere, due realtà contrapposte, una delle qualisarebbe sostanzialmente spirito e l’altra sostanzialmente estranea allospirito. Fenomenologicamente è manifesto che l’essere spirituale puòagire, o compiere atti definibili come spirituali, perchè ha un corpo».99

Ma allora come va considerato il corpo?

– Il corpo non può essere considerato se non in azione. Nell’espe-rienza concreta abbiamo l’immediata percezione delle determinazionispaziali in chiara connessione con quelle temporali, nella loro reciprocaimplicazione. Esse sono dunque determinazioni del soggetto vivente,dati attuali e positivi riscontrabili dal soggetto in qualsiasi esperien-za.100 Il soggetto reca sempre consé il suo “qui” e il suo “ora”, e questoimpedisce che queste due determinazioni siano ridotte a forme pure:«sono determinazioni basiche della sua situazione, oltre ad essere dativissuti».101 Non si manifestano come condizioni formali: «io mi vivocome essere che dura e che è situato in un certo luogo, e per questo inuna certa relazione vitale con altre cose e persone anch’esse situate».102

Se, però, io smettessi di avere corpo non potrei più situarmi nel “qui” equesto implicherebbe anche lo svanire della mia durata nell’“ora”. Il

98. Se lo spirito si manifesta solo nell’agire (nell’ actuar con sentido), il suo “darsi psico-logico”, onde non ricadere nella trappola della “soggezione”, deve manifestare in sé già tut-to il suo essere. È proprio il suo farsi presente nell’azione che ci impedisce di sostanzializ-zarlo mentre ci permette di “localizzarlo”.

99. PSV, pp. 62-68.100. PSV, p. 64.101. Ibidem.102. PSV, p. 65.

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“qui” di ogni “ora” è il corpo! Temporalità e spazialità sono connesse ecome tali condizionano spirito e corpo che sono unità nella persona,nell’uomo: «in definitiva, il grande equivoco nasce dal fatto che desi-gniamo lo spirito con un sostantivo, mentre dovremmo designarlo conun verbo. Lo spirito non è nessuna sub-stancia: non è una realtà sub-puesta o posta al di sotto della realtà apparente che è l’azione».103 Il“qui”, il luogo del corpo, è il luogo dell’uomo intero, una presenza at-tuale, quindi un “ora” che indica azione: «se il soggetto sta qui è perchèsta ora facendo qualcosa qui». Temporalità e spazialità, non separabilinell’esperienza, sono fenomenologicamente legate alla corporeità: ilcorpo umano non può disumanizzarsi ed essere concepito alla streguadi un oggetto estraneo in quanto è veicolo dell’azione spirituale. «Ionon sono il corpo. Ma non sono senza corpo, nemmeno nell’azione spi-rituale più autentica e pura».104

Il fatto che temporalità e spazialità siano reciprocamente connessenell’esperienza, a partire da quella immediata del soggetto che si rico-nosce come tale, mostra quanto il corpo non possa essere consideratosolo dal punto di vista fisiologico e come psicologicamente ci si trovisempre dinanzi all’uomo come unità personale, integra e costantemen-te in relazione (dato che la sua attività psichica è azione) con il mondocircostante, che è la materia che muove la sua azione: «la forma cheprende questa materia, la forma reale in cui si organizza quella relazio-ne, è ciò che chiamiamo situazione vitale».105

2.3. Temporalità e situazione vitale

Il soggetto si dà, spiritualmente e corporalmente, come presenza. Lapresenza è attualità, presente in atto, azione. In quanto tale in esso siincontrano implicati il “qui” e l’“ora”. Abbiamo, però, notato che leazioni sono connesse attraverso il ricordo che permette l’integrazionedel presente con il passato, mantenendo stabile la mismidad del sogget-to. Tale integrazione, attuale in ogni momento, si svolge nell’ambitodella dimensione temporale. È evidente, in quanto siamo presenza, che

103. PSV, p. 67.104. PSV, p. 69.105. PSV, p. 70.

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qualsiasi determinazione temporale avvenga a partire dal presente:passato e futuro, che sono le determinazioni qualitative fondamentalidella temporalità, metaforicamente chiamate “dimensioni”, si costitui-scono nel presente differenziandosi qualitativamente. Il presente stes-so, come coscienza della presenza, si dà nella dimensione temporalecome processo «che ha la sua mismidad globale nel suo trascorso»:quando affermiamo che “ora stiamo facendo qualcosa”, esprimiamonell’“ora” il nostro presente e nello “stiamo facendo” che tale presenteè un processo che non si risolve nell’istante assoluto ma che qualificaciò che stavamo facendo prima e ciò che andiamo a fare dopo. Ma checosa significa questo? Il presente è attimo che fugge anzi, già andato106!Pensare in questo modo il presente è fraintenderlo, considerarlo istanteassoluto all’interno di un tempo spazializzato. In questa maniera l’uo-mo, presenza attuale, verrebbe ridotto a nulla.107 «Al contrario, noi vi-viamo di fatto il nostro presente come qualcosa di temporale e nonistantaneo, come un processo nel quale si temporalizza il nostro ora.Questa temporalità viene qualificata dai riferimenti che effettuiamo,quando stiamo facendo qualcosa, in riferimento al principio e al terminedel nostro fare – prima e dopo immediati o prossimi –, e a quello cheabbiamo fatto o progettiamo di fare in relazione a ciò che stiamo fa-cendo».108

106. «Se possiamo farci un’idea del tempo, quel solo punto si può chiamare presente chenon si può più suddividere in particelle, per quanto piccolissime: ma anche quel punto tra-svola così rapido dal futuro al passato, da non avere estensione alcuna di durata. Ché, sel’avesse, sarebbe divisibile in passato e in futuro: il presente invece non ammette estensio-ne» (Agostino di Ippona, Le confessioni, Fabbri, Milano 1996, p. 334).

107. A partire da ciò si può comprendere il tentativo di individuare nel soggetto unpunto stabile che potesse sfuggire alla “patologia” del tempo, ricadendo così nella trappoladella soggezione.

108. PSV, p. 73. È possibile riscontrare un’affinita con la posizione di Heidegger: «Ilpresente, mantenuto nella temporalità autentica e quindi autentico, lo chiamiamo attimo.Questo termine deve essere inteso nel senso attivo dell’estasi. Esso significa l’estaticitàdell’Esserci, decisa e mantenuta nella decisione; tale estaticità è aperta a ciò che nella deci-sione si incontra in fatto di possibilità e di circostanze di cui ci si può prendere cura. Il fe-nomeno dell’attimo non può assolutamente esser concepito a partire dall’istante» (M. Heideg-ger, Essere e tempo [1927], Longanesi, Milano 1976, p. 406). L’affinità di cui parliamo è quellaper la quale anche in Heidegger non è possibile ridurre il presente all’istante assoluto collo-cantesi in un tempo spazializzato. A tale affinità si va ad aggiungere, però, la più grandedifferenza manifestantesi nel giudizio sul presente concepito da Heidegger comunque co-me attimo nel quale nulla si realizza ma che apre il soggetto all’estaticità, quindi, al futuro,e concepito, invece, da Nicol come processo in cui si realizza l’integrazione con il passato esi attualizza l’essere dell’uomo come azione. Nicol rivolge tutta la sua attenzione, in linea

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Come abbiamo già visto, se ciò che caratterizza il presente è la no-stra azione, allora essa sarà il nostro modo di essere. Questo non signi-fica che lo stare in quiete generi una deficienza d’essere all’internodella nostra presenza attuale. In realtà, appare chiaro che la presenzaattuale è già di persé azione ma a ciò va aggiunto che azione è la stessacapacità di realizzare un atto, per cui, come volevasi dimostrare,l’uomo non è mai non-in-atto perché questo significherebbe il suo stes-so non esistere e non essere.109 Se esistere è azione, la nostra attualitàcome presenza è sempre volta al futuro e la nostra esistenza è coscien-za di muoverci verso l’avvenire: «per l’esperienza umana, il futuro hail carattere di necessità indeterminata»,110 è un’aspettativa della vitastessa e lo mostra il fatto che l’uomo si pone sempre propositi da rea-lizzare, foss’anche quello di attendere senza modificare nulla.

Il presente si costituisce come presenza attuale proprio in base alsuo conformarsi come attesa del futuro; non posso vivere il presentesenza essere convinto dell’esistenza del mio immediato futuro comepura possibilità esistenziale: «senza il desiderio di continuare ad essere,l’uomo smette di essere propriamente uomo» e tale desiderio è sempreconcreto.111 Nel futuro l’uomo realizza se stesso prolungando il presen-te.112 Il futuro si presenta come la «possibilità necessaria»113 alla vita af-finchè sia vita umana e l’uomo si possa conoscere come presenza at-

con l’impostazione iniziale della Psicología de las situaciones vitales, al dato immediato che glipermette di valorizzare non in maniera teoretica, ma esistenziale, il presente percepito co-me attualità conosciuta e vissuta in maniera immediata, integrata con il passato e volta alfuturo. Inoltre, la percezione del presente come differente dall’istante è in, Heidegger, su-bordinata al vivere in maniera “autentica”, mentre in Nicol è dato e per questo evidente inqualsiasi esperienza.

109. Già a partire da quest’opera, nella quale Nicol non si interroga ancora in manieradiretta riguardo la questione ontologica, risulta chiara la sua impostazione nella quale, perl’uomo, esistere (ex-sistere) è essere, dato che l’azione è il suo stesso essere. Quello che dasubito si mostra in maniera evidente è che l’essere si identifica con la presenza attuale.

110. PSV, p. 75.111. PSV, p. 77.112. Si noti con attenzione il fatto che la lettura nicoliana delle tre estasi temporali opera

in modo da dilatare il presente permettendogli la conquista di campi che il pensiero gli ave-va negato, quali quello del passato prossimo (dove il confine tra presente e passato si sfumairrimediabilmente) e quello in cui il presente tende verso il futuro che per definizione non èconosciuto. Il presente è dinamico e, in quanto tale la sua conoscenza è solo un “vivere” delquale possiamo prendere atto, ma non lo sfuggente per eccellenza.

113. PSV, p. 78.

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tuale114: «l’esistenza umana è el paso al futuro. Questo è un’azione, intutti i possibili sensi dinamici che questa parola può avere. Il futuro èqualcosa sempre imminente. Per questo il presente, nel quale affondale radici l’esistenza umana, ha questo peculiare carattere di attesa, di inten-zionalità vitale in cui l’azione consiste fondamentalmente. Di sicuro vi sonodifferenti gradi di azione. C’è un’azione che richiede movimento, di-namismo corporeo, e che ha risultati tangibili, esteriori. Ma c’è ancheun’azione che possiamo definire “interna”, i cui risultati non modifi-cano la circostanza. La semplice attesa del futuro è già azione, e taleattesa è una componente permanente, essenziale, della vita umana».115

Il futuro si dà solo a partire dal presente come attualità dello stesso, ilpresente «è la pienezza esistenziale assoluta» perché in esso «è conte-nuta la radicale e primaria evidenza del nostro essere che culminanell’azione libera».116 Per questo il presente non può essere fondato,bensì solo vissuto.

Il futuro come attesa è il campo della novità, del cambiamento,dell’imprevisto. La novità è ciò che noi non conosciamo, non possiamoprefigurarci, e crea sempre un momento di crisi nel nostro “ordine in-teriore”, che è l’azione che ci rende presenti. Per questo, Nicol ne parlacome di una “piccola morte” che ci pone nella condizione di non sape-re come agire e ci costringe a metterci in discussione, rendendo eviden-te quell’integrazione tra passato e presente in atto, che è la nostra stes-sa “identità dinamica”. Ciò significa che, essendo l’attesa del futurouna componente – sotto forma di tensione – del presente, ed essendo,quest’ultimo, presenza attuale, come integrazione sempre in atto dipassato – sotto forma di ricordo – e presente, allora non vi può esserefuturo senza passato, ovvero senza memoria: «non c’è previsione senzamemoria […] entrare nel futuro è entrare nel passato […] non c’è azio-ne senza memoria».117 È l’azione che unisce quelle che abbiamo defini-

114. Ciò non significa che la percezione del futuro condiziona la percezione dell’esseredell’uomo. Bisogna chiarire questo punto: se l’uomo si conosce immediatamente come pre-senza attuale è perché il suo essere è azione – è azione lo spirito come lo è il corpo – e que-sto fa sì che il presente sia quello che è , quindi anche il futuro. Pur non condizionando lapercezione, il futuro condiziona l’essere dell’uomo stesso. Questo ci introduce nella que-stione, affrontata poi da Nicol, di una ontologia che non considera l’essere come sostanza,ma in modo dinamico riconoscendo la variabilità come l’unico suo carattere costante.

115. E. Nicol, La situaciones vitales, in VH, p. 222.116. PSV, p. 82.117. PSV, p. 79. Il primo corsivo è nostro.

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to come le tre determinazioni temporali, e può farlo in quanto è scelta:la vita dell’uomo, come presenza attuale, è sempre scelta. L’azione èscelta di una possibilità offerta; per questo la vita come scelta è unacontinua rinuncia liberamente deliberata che può condurci sia al suc-cesso che al fallimento.118

L’azione è scelta119 e per questo è libera, l’essere dell’uomo è dunquecaratterizzato dalla libertà, ma per capire a fondo il significato di que-st’affermazione bisogna comprendere cosa intendia Nicol quandoparla di libertà. La libertà si attua nello scegliere che a sua volta si radi-ca nel presente. In quanto radicata nella presenza, la libertà «è qualcosadi attuale, di fatto e inargomentabile. È un dato fondamentaledell’esperienza, come lo sono la temportalità e la spazialità».120 La psi-cologia non può avere una cognizione di cosa sia libertà insé121 perchénon si ha un’esperienza della libertà mentre v’è un’esperienza della de-cisione. Ma di che libertà stiamo parlando? Per Nicol, la libertà assolu-ta intesa come attuazione di tutte le possibilità non può esistere. Se bi-sogna partire dall’esperienza, io posso notare che nella vita sono co-stretto a decidere e in questo attuo la mia libertà: la libertà, dunque,non esclude la possibilità. Infatti, la decisione per potersi attuare libe-ramente necessita della presenza della possibilità e, dal momento chefaccio esperienza solo della decisione, la libertà è l’aprirsi della stessacondizione del decidere. Perchè ci sia possibilità, deve esserci ancheimpossibilità, sia intesa nel senso che la scelta di una possibilità deveescludere le altre, sia nel senso di una limitazione stessa delle possibili-tà di scelta. La libertà in sé, quella per la quale possiamo attuare tutto

118. PSV, p. 80. Il fallimento deriverebbe dalla scelta di un’impossibilità e necessita,come conditio sine qua non, della libertà: «L’uomo è l’unico essere che può fallire». Riguardotale questione cfr. anche E. Nicol. La primera teoría de la praxis, UNAM, México 2007², pp.25-26.

119. Risuonano, nell’affermazione nicoliana, le parole di Kierkegaard: «Amico mio!Quello che ti ho già detto tante volte, te lo ripeto, anzi te lo grido: o questo o quello, aut-aut!» (S. Kierkegaard, Aut-Aut [1843], Mondadori, Milano 1956, p. 33).

120. PSV, p. 80.121. Questo lo si comprende in base al fatto che non essendo dato immediato manife-

stantesi nell’esperienza, come la presenza di me a me stesso nell’unità personale, riguardal’essere dell’uomo non da un punto vista psicologico, ma solo ontologico. Per “riguardare”qui intendiamo che trova la sua comprensione, mentre dal punto di vista psicologico vienevissuta e possiamo solo assumerne coscienza a posteriori osservandone gli effetti: «se lalibertà è qualcosa di non argomentabile o di indefinibile è perché è qualcosa di assoluto,come il presente nel quale essa si dà» (PSV, p. 81).

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senza perdere alcuna possibilità, o per la quale non dovremmo mai es-sere condizionati, è solo un’idea astratta che utilizziamo per indicare lanostra condizione di soggetti obbligati a scegliere122: libertà e atto discelta costituiscono l’uomo stesso come pura possibilità, ovvero azione.La libertà concessa a partire dalla possibilità conferma la causalità nellaquale siamo in parte deietti ma che, allo stesso tempo, ci costituiscecome liberi. La scelta dunque ci rende liberi di agire in un modo piut-tosto che in un altro e quest’azione, che è nuova integrazione attualiz-zantesi in una presenza, costituisce il nostro stesso “farci” come sog-getto.

La decisione di scegliere una possibilità piuttosto che un’altra è unatto, che Nicol differenzia dal “riflesso”, nel quale non entra in giocola ragione.123 L’atto deriva sempre da una decisione e in base ai diversisignificati che può assumere il “decidere” sarà possibile parlare o menodi razionalità dell’atto:a) deliberare: decidere quindi è “star decidendo”;b) determinazione, risoluzione: quando si è presa la decisione di farequalcosa, quindi la decisione muove alla realizzazione dell’atto;c) l’atto stesso in quanto decide di qualcosa che era dubbio: quandol’azione risolve una situazione ancora non delineata in maniera effet-tiva, per esempio, quando si dice che un atto decide del proprio futuro;d) qualifica della modalità di realizzazione di un atto: quando diciamoche qualcuno agì con decisione.

La ragione interviene nel primo dei significati (a) perché ogni attocon il quale deliberiamo è un’operazione intellettuale e può condurre

122. Possiamo certamente affermare che anche Kant nel concepire la libertà, a partiredall’autonomia della volontà, non si riferisce affatto alla possibilità di andare oltre quellacausalità naturale che pertiene all’ordine della ragion pura. Lo stesso riferirsi della libertàalla volontà come collocata nell’ambito della ragione – anche se pura-pratica – implica che ilsoggetto non possa andare al di là della sua condizione umana (corporea) (cfr. I. Kant, Fon-dazione della metafisica dei costumi [1785], sezione terza, e Critica della ragion pratica [1788],libro I, capitolo II). Per quanto riguarda la decisione, in Nicol si potrebbe individuare unalettura similare a quella heideggeriana (cfr. Essere e tempo, cit., § 54), ma di nuovo bisognasottolineare che per Nicol la distinzione tra esistenza autentica ed inautentica non ha sensoin quanto nell’esperienza che faccio vivendo, quindi agendo, sempre è in atto una decisionead anche il “si” heideggeriano è in fondo una mia decisione.

123. Qui Nicol effettua una distinzione tra l’intervento della ragione e la razionalitàdell’azione in quanto tale. In base a tale distinzione, i riflessi possono essere consideratirazionali nel senso che se ne può determinare la causa, quindi la ragione, ma non lo sonodal punto di vista dell’intervento della ragione nella loro genesi (PSV, p. 83).

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alla risoluzione di agire in una precisa maniera (b). Non ha senso sepa-rare l’atto da ciò che è stato previamente deliberato dalla ragione. Que-sto per Nicol consegue dall’errore di considerare separate la facoltà ra-zionale e la volontà. Non è così, e per comprendere la situazione biso-gna considerare a fondo quelle volte in cui la decisione si ritrova poi“frustrata” dal fatto che agiamo in maniera differente. Non si può af-fermare che un’altra decisione abbia seguito quella che abbiamo preso;registriamo solo che poi agiamo in maniera differente, a volte addirit-tura opposta. Dunque, davvero la decisione è appannaggio di una vo-lontà separata dalla ragione oppure questi atti che non abbiamo delibe-rato vanno tutti considerati come “riflessi”? Non è possibile andare alfondo della questione senza un’ulteriore chiarimento riguardante ilsenso che un atto può avere a prescindere dalla sua gestazione, il carat-tere immediato o remoto della decisione e le componenti psicologicheche agiscono nel deliberare. Noi tutti, in maniera spontanea, stabilia-mo per i nostri atti un ordine gerarchico in base all’importanza che essirivestono nella nostra vita. In questa strutturazione ciò che conta è ilvalore dell’atto, il valore che può avere per la nostra vita (soprattuttoin che maniera si integra coerentemente con la nostra “identità dina-mica”). Quando parliamo del valore dell’atto non stiamo già pensandoai suoi effetti, che in buona parte non sono prevedibili, ma all’atto stes-so. Può accadere che compiamo un atto perfettamente coerente con lanostra linea di condotta senza essere coscienti della sua gestazione, percui ci troviamo ad affermare che nato dal profondo del nostro essere,senza poter discernere la decisione che lo ha preceduto. Non possiamodire che esso sia frutto di istinto ma di certo possiamo affermare chenon fu deliberato. Secondo Nicol quest’atto «può essere una rispostaattraverso la quale si va precisando un nostro atteggiamento intellet-tuale o vitale».124 Proprio per la coerenza con la quale si integra nellanostra linea di condotta in esso interviene una ragione immediata eremota allo stesso tempo: «è tutto il nostro passato, contenuto nel pre-sente, ciò che rende possibile quella risposta, e che esplica la sua coe-renza, sebbene non fosse stata previamente deliberata, rispetto alla no-stra condotta in generale».125 Non è necessario ipotizzare l’esistenza diuna volontà che agisca in maniera separata dalla ragione; basta tenere

124. PSV, p. 85.125. Ibidem.

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ben presente come nello spirito avvenga l’integrazione, la refundición,tra passato e presente e come essa sia apertura al futuro. La nostraazione non è stata deliberata ora, ma precedentemente attraverso lascelta di determinate linee di condotta, che fanno sì che alcuni attivengano compiuti in maniera quasi automatica e coerente con il nostromodo di agire. Che si tratti di un atto simile ad un altro già effettuatouna volta oppure di una situazione nuova, ciò che non è nuovo siamonoi in quanto rechiamo, nel nostro “essere attualità”, il ricordo del pas-sato vissuto.126 Questa, dal punto di vista psicologico, è la dinamica delmaturare: «tutta la nostra vita matura nella misura in cui è vissuta» ele azioni che scaturiscono “spontaneamente” dalla maturità non hannonulla dell’azione impulsiva prodotta da un complesso di istinti. Gli attipropriamente detti, frutto di decisione quindi liberi, sono quelli in cuiinterviene la ragione. Eppure, Nicol riconosce che tale schematismo,che riconosce da una parte l’atto e dall’altra il riflesso, non rende contodelle relazioni che intercorrono tra questi. Gli istinti continuano ad es-sere presenti ma in modo “intellettualizzato” (sublimati, repressi, ca-nalizzati ecc.) e proprio in tal modo manifestano la loro presenza an-che nelle nostre decisioni “più spirituali”. Questo, per il pensatore ca-talano, indica il fatto che lo schematismo elaborato serve solo comeconferma della capacità esplicativa dell’identità dinamica del soggettorispetto il suo essere come azione, ma la questione non può essere ri-solta completamente da un punto di vista psicologico. Non ci è per-messo dividere l’uomo in due settori, uno della ragione e l’altro degliistinti, «in quanto la ragione non si sovrappone semplicemente ad altrepotenze inferiori, di livello animale, ma si combina con esse funzio-nalmente, si mescola e si coniuga con esse».127 Non si dà la possibilità,dal momento che la presenza attuale del soggetto si radica nel presenteinteso anche come corporeità, di un atto umano che sia completamenterazionale o completamente istintivo.128 L’impulsività è inalienabile

126. Dal punto di vista psicologico, tale teoria riesce a dare ragione in maniera soddisfa-cente delle problematiche ravvisate nelle azioni abitudinarie, per le quali anche volendocambiare il poprio modo di condurre la vita, ci si ritrova spesso a compiere le stesse azionidi sempre. Cambiare è possibile, ma consiste nell’integrazione di elementi nuovi che deb-bono fondersi con quelli passati, in questo caso correggendoli.

127. PSV, p. 88.128. Nell’istinto come bisogno corporeo non interviene direttamente la ragione, ma il

fatto che esso sia giustificabile razionalmente, come costituente la stessa corporeità, o chesia reprimibile attraverso un atto, permette a Nicol di sospettare in ogni azione umana la

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proprio a causa della nostra corporeità, mentre la ragione è una possi-bilità129 e non determina la decisione se non come previa deliberazione.Anche nell’azione più meditata esiste il momento “irrazionale” delladecisione che mostra non l’esistenza di un’altra facoltà, ma che la pre-senza attuale che si fonda nel corporeo precede la ragione. Questa ca-pacità di decisione attuatrice che rende attuale lo spirito, come capacitàdi agire secondo un senso, e che quindi è motore decisivo, Nicol lachiama hormé vocacional.130

commistione di istinto e ragione. D’altronde, se l’identità del soggetto, come presenza at-tuale, è dinamica, qualsiasi caratteristica deve essere integrata, pena l’estraneità alla sogget-tività stessa.

129. Quest’affermazione trova la sua esplicazione dal punto di vista ontologico, inquanto ciò che è costituente dell’uomo è l’unità corpo-spirito nella quale si dà la ragionecome modalità, ormai integrata, di relazione verso sé e il mondo.

130. PSV, p. 89. Il primo utilizzo, in ambito filosofico, del termine hormé si riscontra nelpensiero di alcuni filosofi presocratici, in particolare Empedocle, dove assume il significatodi “impeto”, “slancio”, “tendenza” (cfr. G. Casertano, Il piacere, l’amore e la morte nelle dot-trine dei presocratici, Loffredo, Napoli 1983). Il Dictionnaire Ètimologique de la Langue Grecque.Histoire des Mots di Pierre Chantraine gli assegna anch’esso l’accezione di “slancio”. Lostesso Nicol lo definisce, mutuando il termine da Bergson, come un élan. Poco analizzatodalla critica nicoliana (nei testi che trattano del pensiero di Nicol non abbiamo ravvisatonessun riferimento a questo concetto in maniera esplicita, se non come mero riportare lastessa affermazione di Nicol), questo è un concetto fondamentale per lo sviluppo di quelloche abbiamo chiamato saber del hombre. L’uomo infatti oltre a presentarsi come l’essere dellerelazioni vitali può anche essere condiderato «costitutivamente l’essere della vocazione»perché risponde a quella vocazione umana («vocazione di essere uomo») che si va forman-do attraverso l’acquisizione di potenzialità che poi vengono trasmesse alle generazioni suc-cessive. Ogni vocazione particolare o professionale è, secondo Nicol, una modalità di rea-lizzazione della vocazione umana fondamentale (PSV, p. 103, nota 17, nota presente solonella seconda edizione). Ma qual è la vocazione umana? In cosa consiste? «Vocazione si-gnifica chiamata. Chi è chiamato? E chi chiama? L’impiego più comune di questa parolaindica che è l’uomo ad essere chiamato, nella tappa adolescente della sua vita, dove essendodisposto a viverla da sé, riesce a captare le voci delle forme di vita “chiamanti”, che si pre-sentano organizzate primariamente in professioni. Questo senso elementare della parolavocazione non è primario nè decisivo. Ciò che ci chiama in realtà, quando iniziamo a vive-re la vita, è la vita stessa, con tutta l’ampiezza e l’esuberanza della sua confusione. Se la ri-sposta dell’uomo a questa splendida chiamata si riduce ad una scelta professionale, sarà do-vuto all’angustia della capacità vitale di questi uomini. Ma se questa capacità vitale è am-pia, il suo contenuto straborderà dal contenitore della professione, e ci indurrà a sceglierevocazionalmente una professione alla quale possiamo dedicare la vita pienamente». Il fattoche l’uomo viva in continua tensione ci dà la chiave di lettura della sua esistenza: «se tuttiviviamo sempre in tensione, incluso il saggio epicureo, dica quel che vuole, questo significache la tensione è qualcosa di inerente alla nostra stessa forma d’essere. Questa tensione èuna disposizione fondamentale: la vita è costitutivamente disposizione, disponibilità o pos-sibilità. Questa struttura interna all’essere si manifesta nell’esperienza con il volto di unapermanente insoddisfazione. […] Questo significa che siamo sempre proiettati, per la no-

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La scelta è azione, ed è in quest’ultima che ci riconosciamo coscien-ti del nostro essere aperti verso il futuro. L’azione, come nostro essere,manifesta la nostra mismidad che, come abbiamo detto, non è identitàma condizione per la quale l’io assume, attraverso la relazione, il non-io. Questo significa che il “qui” e l’“ora” dell’azione, quindi del sogget-to, sono sia soggettivi – sempre riferiti ad un agente – ma anche trans-soggettivi, in quanto relazionati. Quando il soggetto agisce secondo un“qui” ed un “ora”, lo fa in vista di qualcosa che accade in essi, un che diconcreto che si offre: questo qualcosa concreto è ciò che integrato conil soggetto costituisce la situación. Il soggetto è sempre in situazione,vive in situazione, e proprio perché in tale modo si organizza la vitadel soggetto agente, la situazione è “vitale”.131 Il soggetto è dunque in-tessuto di relazioni vitali, le quali sono temporali e spaziali, quindiqualitative. Il fatto che il soggetto sia sempre in relazione, implica ilsuo continuo fare esperienza dell’intersoggettivo o trans-soggettivo ingenerale.132 Il “qui” e l’“ora”, dunque, trascendono sempre il limite pu-ramente soggettivo: l’azione, come essere del soggetto, conferma l’a-spetto cositutivo relazionale dell’uomo. La situazione, come relazione

stra stessa condizione temporale, verso un più in là del presente. Il nostro essere non è solopresente, ma il presente include questa proiezione, questa tensione verso ciò che non è an-cora presente, La tensione o impulso, che in latino si chiama impetus, e in greco hormé, èprecisamente la vocazione vitale: la vocazione costitutiva dell’uomo» (E. Nicol, La vocaciónhumana [1947], in VH, pp. 48-51). La hormé non è una metafora, è un impulso vero e proprio,costitutivo della vita umana, e generatore egli stesso della condizione temporale del sogget-to. Non si può parlare di un vero e proprio vitalismo, se con questo intendiamo una conce-zione che pone in questo slancio la condizione di tutto l’esistente, e soprattutto separal’ambito della vita dall’ambito della ragione, considerando quest’ultima come un artificio divalore soltanto pragmatico. La hormé, intesa come vocazione, riguarda solo l’uomo e perquesto dà a Nicol, come vedremo, la possibilità di elaborare un’idea della ragione radicatain essa e quindi “vitale”, in quanto legata alla vita (chiaramente si tratta della vitadell’uomo; una ragione vitale in generale implicherebbe la concezione di una ragione comefondamento dell’essere e non si tratterebbe più di partire dal dato immediato) (cfr. ME2,pp. 199-204). Riguardo il legame tra mismidad e hormé vocacional cfr. S. Santasilia, Quedarse asolas. La ternura del interior, in R. Horneffer (coord.), Eduardo Nicol (1907-2007). Homenaje,UNAM, México 2009, pp. 229-242.

131. È opportuno precisare che quel “si organizza” non deve dare l’idea di un soggettoseparato dalla vita che forma situazioni nelle quali poi si colloca. È l’impulso vocazionale,azione ed essere del soggetto, che si manifesta in situazioni nelle quali il soggetto è, e graziealle quali è soggetto, inteso come presenza attuale e attualizzante.

132. Il termine “intersoggettivo” implica sempre una relazione tra soggetti, mentre Ni-col con “trans-soggettivo” può agevolmente indicare la relazione con un non-io ancora nonqualificato in maniera precisa.

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tra soggetto e trans-soggettivo, si fonda nel “qui” e nell’“ora”: «semprestiamo in qualche situazione».133

La particella “in” dello “stare in situazione” non indica che il sog-getto sia immerso in qualcosa di estraneo: non esiste situazione senza idue termini che la costituiscono, vale a dire il soggetto e trans-soggettivo; la situazione non è costituita da ciò che mi circonda, madalla relazione vitale che intrattengo con ciò che mi circonda, e quindimi costituisce.134 Il dispositivo esterno può essere oggetto di una consi-derazione non psicologica perché quest’ultima lo rivelerebbe semprecome costituente la situazione stessa: «la situazione ha sempre e di-pende sempre da una prot-agonista, e questa agoné o agonía, questa lottaè esattamente ciò che costituisce la vita del soggetto che sta in situa-zione».135 Ecco il senso di una psicologia situazionale: un’indagine co-sciente dell’unità personale come azione costituentesi nell’attualità diuna situazione, vale a dire in un nucleo di relazioni vitali.136 È il fattoche sempre siamo in situazione che ci permette di determinare la tem-poralità e la spazialità come condizioni primarie dell’esperienza: «laspazialità e la temporalità sono concrete e non se ne può parlare, senon in maniera convenzionale, indipendentemente dal loro contenutovitale concreto».137 Per questo motivo, Nicol si dedica alla chiarifica-

133. PSV, p. 93.134. «Ciò che lo circonda forma parte dello stesso soggetto» (Ibidem).135. PSV, p. 93.136. Nicol considera la situazione vitale come «concetto funzionale psicologico» (PSV,

p. 94), intendendo con questa definizione che si tratta di un dispositivo coerente rispettoalla modalità di esistenza dell’uomo e che pertanto ci permette di comprendere cosa accade.La situazione verrà chiamata anche categoria (PSV, p. 102), non però perché abbia un postonell’ambito di uno schema formale.

137. PSV, p. 95. Interessante il fatto che un altro pensatore, Heinrich Rombach,consideri, nella sua Strukturanthropologie «Der menlische Mensch» [1987], la situazione el’agire come fenomeni basici, cioè come «fenomeni che non si possono comprenderecome derivazioni di altri fenomeni, ma che esistono senza essere derivati, posseggonola stessa essenza e formano una costellazione globale che non si può semplificare ulte-riormente» (H. Rombach, El hombre humanizado. Antropología estructural, Herder, Bar-celona 2004, pp. 135-139). La distanza spaziale e temporale tra Rombach e Nicol (il fattoche essi non si siano mai conosciuti), nonché la differente formazione intellettualesembrano non aver tracciato una linea di demarcazione netta tra le posizioni dei dueautori, basti citare a conferma alcune frasi dell’incipit del citato lavoro di Rombach: «ilpresupposto base per quello [costituire un’antropologia filosofica che tenga conto delladimensione del futuro] è il cambiamento nell’essere dell’uomo. […] Il cambiamento nellaconfigurazione dell’uomo» (Ibidem). Non è questo il luogo in cui ci si possa dedicare adapprofondire affinità e differenza tra i due autori. Di sicuro si può segnalare questa pi-

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zione del concetto di “vitale” e in seguito all’analisi dei differenti tipidi situazione.

Vitale è ciò che primariamente si riferisce alla vita, che la costitui-sce o ciò che in essa si manifesta e offre in maniera immediata. Nicolrichiama in causa la distinzione aristotelica tra zoe138 e bíos,139 per laquale si dà la possibilità che esista una vita più degna dell’uomo chenon sia la semplice vita biologica, sebbene affondi in essa le sue radici.Questa “seconda” vita è quella che riguarda la vocazione perché puòessere vissuta in differenti maniere, mentre quella biologica mantienesempre la stessa modalità. Il termine “vitale” si riferisce alla vita uma-na unitaria e totale, comprendendo nella sua fondamentale unità ilcorporeo e lo spirituale.140

sta come un “sentiero” di ricerca abbastanza interessante.138. Aristotele, L’anima, libro B, 1, 412a (Bompiani, Milano 2001, p.115). In questo caso si

parla di vita naturale, biologica: «capacità di nutrirsi da sé, di crescere e di deperire».139. Aristotele, Etica Nicomachea, libro X, 1177a (Fabbri, Milano 1996, p. 568): «noi so-

steniamo che le cose serie sono migliori di quelle che muovono in riso e s’accompagnano algioco; e che l’attività più seriamente impegnata è sempre quella della parte miglioredell’anima e quella dell’uomo migliore; ora, l’attività di ciò che è migliore è più valida esenz’altro più capace di dare la felicità. Di più, dei piaceri del corpo qualunque persona puògodere, anche uno schiavo, non meno dell’uomo di altissimo rango; ma nessuno ammette lapartecipazione di uno schiavo alla felicità, a meno che non ne ammetta la partecipazioneanche ad una vita degna di uomo».

140. Riguardo questo punto, Nicol rivela il suo debito nei confronti di Dilthey e la suaidea di biografia: «da Dilthey, invece, non possiamo discostarci prima di aver situato stori-camente il nostro intento di delineare una teoria delle situazioni vitali. Il transito del sensodel termine “vitale” corrisponde al transito del pensiero, effettuato da Dilthey, dalla biolo-gia alla biografia: dalla vita naturale, generica e uniforme, alla vita propriamente umana,individuale e storica, differente e dotatata di senso. La biografia è il cammino che la vitacompie per giungere ad essere una vita, una vita unitaria. Tutto ciò che è stato vissuto ètrascorso nel tempo e può essere oggetto di ricordo. I ricordi sono le unità sulle quali siesercita il lavoro del pensiero; queste unità sono vitali, più che riflessive, e da esse sorgonole forme sulle quali si basano gli schematismi che servono per l’interpretazione di una vita.L’analisi del vissuto [Erlebnis] può condurre a unità che vanno oltre la vita intesa in modoindividuale. L’evento non solo ha avuto importanza per me ma anche per altri. Da qui sipuò procedere all’unificazione di diverse vite, dopo quella di una vita. Il ricordo è la storia diuna vita. La storia è il ricordo dell’umanità». Per quanto riguarda il problema della biogra-fia in Dilthey cfr. Critica della ragione storica, cit., pp. 350-361. Per maggiori approfondimentisi rimanda a G. Cacciatore, Scienza e filosofia in Dilthey, cit., in particolare il capitolo V; Id.,Vita e forme della scienza storica. Saggi sulla storiografia di Dilthey, Morano, Napoli 1985; Id.,Storicismo problematico e metodo critico, Guida, Napoli 1993; Id., Dilthey: connessione psichica econnessione storica, in M. G. Lombardo, Una logica per la psicologia: Dilthey e la sua scuola, IlPoligrafo, Padova, 2003, pp. 211-223; F. D’Alberto, Biografia e filosofia. La scrittura della vita inWilhelm Dilthey, FrancoAngeli, Milano 2005; A. Marinotti, Comprendere la vita. La realtàspirituale e l’ermeneutica in Dilthey, FrancoAngeli, Milano 2003; G. Ciriello, Fondazione gno-

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Ecco che la situazione, come dispositivo adeguato alla comprensio-ne della vita secondo questa maniera unitaria, si presenta come la cate-goria base dell’esistenza umana dal punto di vista psicologico. L’uomocompie la sua vocazione stando in situazione.141 Per questo, realizza sestesso in relazione al trans-soggettivo, in quanto è da questo, in parte,costituito: «l’uomo vive convivendo».142 La con-vivencia si dà col darsidello stesso soggetto143: «la nostra propria vita si dispiega necessaria-mente incorporando l’estraneo, in un’integrazione reciproca tanto ef-fettiva che, grazie ad essa, perde legittimità qualsiasi intento di studia-re psicologicamente il soggetto come un’unità vitale sufficiente».144

Soggetto e trans-soggettivo sono sempre in relazione, ma non è unarelazione scelta, è necessaria, è costituente. La situazione, che è questarelazione, è organizzazione della vita, nella quale l’uomo si ritrova sinda subito: vivere è essere nel mondo.145 Questa è una “situazione fon-damentale”. L’uomo “sta” sempre in situazione vitale, l’estar en situa-ción146 lo caratterizza in maniera fondamentale. Per quanto riguarda

seologica e critica dell’etica nel primo Dilthey, Liguori, Napoli 2002.141. Questo ci fa comprendere che la situazione è il dispositivo “psicologico” di com-

prensione della realtà soggettiva mentre la vocazione è in senso stretto un rasgo ontológico.Io sono sempre in situazione, ma 1) lo sono perché in tal modo si struttura la mia vita che èvocazione; 2) in essa compio la vocazione stessa, che è quindi origine, presente e fine dellasituazione.

142. PSV, p. 104. «Il nostro operare ha sempre, come base di partenza e come limite diarrivo, una situazione data […]. L’azione è risultato della convivenza». Aggiungeremmoche l’azione, in quanto essere del soggetto, è convivenza essa stessa.

143. Come vedremo poi, quest’affermazione, che da un punto di vista psicologico per-mette di riconoscere la situazione come categoria fondamentale, ha una importante rile-vanza dal punto di vista ontologico collocando Nicol nell’ambito di una concezione dia-logica, come abbiamo già fatto notare a proposito delle assonanze con alcune affermazionidi Martin Buber.

144. PSV, p. 105.145. Qui Nicol fa riferimento ad Heidegger (PSV, p. 105, nota 19), in particolare al pa-

ragrafo 12 di Essere e tempo, e alla sua interpretazione dell’esserci come essere-nel-mondo,che è appunto “cura”.

146. Il verbo estar indica, per Nicol, il fatto stesso che la situazione permetta di conosce-re il soggetto e l’oggetto come reciprocamente costituentisi. Per questo l’uomo non “è” insituazione, ma vi “sta” come presenza. L’utilizzo del verbo stare, nel linguaggio comune,sembra darci l’impressione di una contingenza: ci sta ma potrebbe non starci, mentre se “è”è qualcosa di stabile. Interessante è riflettere, però, sul fatto che intendiamo con il terminestabile (sta-bilis), qualcosa di fisso e quindi non di contingente, e che in esso sia contenuto ilverbo stare. Inoltre, non va dimenticato che lo stare riesce a darci l’idea della stabilità senzaannullare la dinamicità del soggetto: presenza attualizzata e attualizzante. V’è una chiarainversione rispetto ai termini utilizzati dalla tradizione metafisica classica. La componente

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l’uomo, “il vitale”, non inteso come mera sussitenza organica, ma co-me unità di spirituale e corporeo è “situazionale”.147

Se, dunque, la situazione si caratterizza per la reciprocità delle suecomponenti, interesse della psicologia situazionale è quello di com-prendere il modo, la qualità di questa relazione. Tale qualità è legataalla vita stessa dell’uomo che sta in situazione, nel senso che la com-prensione psicologica di una vita dovrà rivolgersi al modo in cui questavita sta vivendo la relazione. Eppure, l’uomo può vivere differente-mente la stessa situazione, in due momenti diversi della propria vita:«ogni situazione è nuova, possiamo dire unica».148 Secondo Nicol bi-sogna rinunciare ad un progetto onnicomprensivo, che d’altronde di-struggerebbe definitivamente il lavoro “situazionale” dello stesso psi-cologo, per dedicarsi ad un tentativo di classificazione che miri, senzaperdere di vista il carattere concreto della situazione, ad evidenziarealcuni concetti formali. Possiamo iniziare affermando che ogni situa-zione ha una struttura; cambi o meno il contenuto, le strutture tra diloro presentano delle evidenti analogie. A ciò va aggiunto che ognicontenuto ha un senso per il soggetto che sta in situazione.

Ci dovrebbe risultare possibile classificare le situazioni vitali in ba-se alla struttura e al loro senso fondamentale. In realtà, la strutturastessa, quale concetto formale, si integra pienamente con il complessodi relazioni che costituisce la situazione stessa: tale “integrazione” lachiamiamo “senso”. È possibile distinguere due tipi di situazioni: quel-le fondamentali (prima ne abbiamo visto un esempio) e quelle limi-te.149 Le situazioni fondamentali vengono descritte da Nicol come “ge-neriche” in quanto in esse “stiamo” per il semplice fatto di essere uo-mini – condizioni della nostra stessa esperienza di essere soggetto –. È

soggettiva e quella trans-soggettiva sono indissolubili e costituiscono un’unità che si espri-me attraverso il concetto di estar en: la situazione.

147. «la qualificazione di “vitale” deve accompagnare sempre il sostantivo “situazione”.Con tale qualificazione si indica che la situazione abbraccia l’esterno e il personale, integra-ti funzionalmente in una correlatività dinamica; e che, inoltre, c’è un altro fattore dinamicoche appare in ciò che è esterno: vi cono cambiamenti esterni che , come le ore del giorno e icambiamenti climatici, generano cambiamenti tipici nel dispositivo interno. E, soprattutto,il dinamismo esterno contiene quel fattore specificatamente vitale che è la persona estra-nea, il cui comportamente mi tocca e modifica [afecta] più di ogni altra cosa, in quanto èsimultaneamente presente nella sua presenza e nel suo esercizio, e più imprevedibile anchedelle mutazioni climatiche» (CRS, p. 83).

148. PSV, p. 109.149. Ibidem.

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necessario sottolineare che non tutte le situazioni fondamentali sidanno originariamente: l’uomo può trovarsi dinanzi a situazioni fon-damentali man mano che sviluppa la propria soggettività, lungo il cor-so della sua storia e della storia in generale.150 Questo fa sì che, essendoil soggetto unico come la situazione in cui sta, vi saranno anche situa-zioni fondamentali che non sono generiche e che sono tali in riferi-mento alla vita di un unico soggetto particolare (per esempio la speci-ficità in cui si manifesta la propria vocazione). In ogni caso, esisteran-no delle situazioni che sono generiche e fondamentali per tutti gli esse-ri umani: tali situazioni costituiscono come gli “argini” della nostravita e sono quelle massimamente presenti al nostro spirito. Una di esseè il fatto di sapere in maniera immediata che «sto nella situazione di unessere che vive una vita unica», non posso tornare a viverla e nessuno puòviverla per me.151 «Mi sento e sono attore di un dramma che io stessocontinuo a scrivere»152: la mia vita, in quanto unica, non è un eventopuramente naturale, perché non è indifferente, non rientra in un ciclo,essa è fondamentalmente “carica di senso”.

A partire da ciò ri-conosco il prossimo, che è trans-soggettivo, comealtro-io e lo distinguo dagli oggetti, vale a dire riconoscendo che il suomanifestarsi è segno di una vita carica di senso.153 La dignità di essere

150. Nicol porta come esempio la capacità di parlare: solo ad un certo momento dellasua storia l’uomo ha iniziato ad utilizzare la parola in maniera non utilitaria (parola misti-ca, parola scientifica). In base a ciò, anche se non tutti gli uomini sono mistici o sono uo-mini di scienza, la comunità nella quale si manifesta tale possibilità inizia a considerarlacome fondamentale, costitutiva dell’uomo stesso. «L’uomo è un essere storico per questo:perché il suo essere non presenta fin dall’inizio tutti i suoi caratteri costitutivi». (PSV, p.110, nota 1). Quest’affermazione potrà essere compresa solo alla luce di quell’ontologiadell’uomo pienamente delineata in ME.

151. PSV, p. 110.152. PSV, p. 111.153. «La “proprietà” della sua vita che l’altro ha, e per la quale essa si distingue dalla mia

“propria” (al punto che sono irriducibili), è giustamente ciò che fa del soggetto estraneo un“somigliante”, o un prossimo, vale a dire, un “altro io”. Ciò che fa l’altro, ciò che è l’altro, èsempre qualcosa che in principio io stesso avrei potuto essere o fare, e mi si rende compren-sibile in tanto che possibilità mia (dove con “mia” si intende umana in generale) che nonho realizzato. Altrimenti la vita estranea lo sarebbe al punto da non permettermi di inte-grarla nella mia» (PSV, p. 111, nota 3). Nicol utilizza le parole en la mía, che potrebbero dareil senso di un assorbimento, ma se si fa un attimo attenzione si nota che un po’ prima avevamantenuto ferma l’irriducibilità tra due vite. Abbiamo preferito tradurre in maniera lette-rale, ma il senso rimane quello di un’integrazione reciproca, attraverso la quale la mia vitaintegra quella altrui e ne viene modificata in maniera da restare sempre in relazione conquest’ultima.

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sopra-naturali porta con sé l’impossibilità che si ripeta una situazioneallo stesso modo, ci costringe a procedere avanzando e “facendo” lanostra storia: «sto nella situazione di un essere che sempre si affan-na».154 L’affanno, però, ha un inizio ed una fine, per cui sto semprenella situazione di un essere che nasce e muore, ma anche che riflettesulla sua nascita e sulla sua morte. Sono un essere limitato perché lamia vita ha un principio e una fine, perché è unica e perché è affanno-sa. Il mio sforzarmi di vivere è unico, ma non posso affannarmi pertutto né tutto ciò per cui mi affanno posso conseguirlo, tantomeno tut-to ciò che conseguo è frutto del mio sforzo. Queste situazioni fonda-mentali, frutto di una prima riflessione, sono caratterizzate dalla ne-cessità e determinano la condizione umana in quanto tale. Esse entra-no a far parte di quello che Nicol definisce come il destino.155 È il limiteimposto alla mia vita della vita stessa che stimola il mio sforzo e quin-di il protendermi verso il futuro, grazie al quale il presente si qualificatemporalmente: «la vita si conquista facendola, e si fa affannandosi,proiettando il presente al futuro, realizzando il futuro, vale a direavendo futuro». La temporalità – lo stesso si dica per la spazialità – è«la condizione di un essere che vive la sua vita facendola e pensandoalla propria condizione».156

L’uomo, dunque, si sforza e si affanna nel “fare” la sua vita, e la“fa” nella scelta, nell’azione, che è possibilità, quindi libertà. Ne scatu-

154. PSV, p. 111. Anche se in alcuni casi risulta essere poco corretto, preferiamol’utilizzo del verbo “stare” ad “essere”, quando si tratta di affermare l’essere in situazione.Questo perché lo “stare” in situazione costituisce il soggetto nel suo stesso essere.

155. Ibidem.156. PSV, p. 112. La tecnica moderna, secondo Nicol, nel suo quantificare tutto, non

comprende la perturbazione che genera nell’ambito della vita umana. Lo spazio quantifica-to distrugge la stessa comprensione della vita come vita propria che si svolge in situazione,facendo sì che ogni posto valga quanto un altro e costringendoci a spostarci «non come ilcolonizzatore o il missionario, portando con noi stessi lo spirito di un luogo ad un altro, maperdendo con il luogo proprio, una parte del nostro spirito». «Qualsiasi luogo è sacro se inesso si radica un uomo. E un uomo – un uomo completo – si radica sempre, mette sempreradici in qualche luogo. Se è uno sradicato è quasi un puro corpo. È lo spirito, e non il corpo,che attecchisce nella terra del luogo». Il fatto che sia lo spirito ciò che dell’unità personale siradica, salva il pensiero di Nicol da una possibile accusa di “mistica del sangue e del suolo”.Lo spirito è capacità di agire sensatamente, ma il senso è integrazione, situazione. Il radi-carsi dell’uomo è dunque il suo vivere in relazione con ciò che lo circonda stabilendo e ali-mentando il senso della propria vocazione. Questo ci fa anche comprendere la maniera incui Nicol concepisce l’esilio subito: integrato ma sempre evidente in quella refundición che èil nostro stesso essere.

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risce il fatto che si affanna proprio in quanto è libero: «non c’è maggioraffanno che obblighi ad una tenacia maggiore e più vigilante che quellodi essere liberi».157 L’affanno si risolve nella scelta stessa: siamo nellasituazione di dover scegliere. Questa è una situazione fondamentale, ilche significa che la libertà non ci è data: noi siamo obbligati alla libertàe questo ci conduce al fatto che non possiamo sempre evitare l’errore:«dover scegliere nella vita è una situazione fondamentale dell’uomo.[…] Il sapere che nella nostra vita non possiamo evitare l’errore è unasituazione fondamentale».158 La questione dell’errore ci permette dicollegarci all’altro tipo di situazione, quella limite. Per situazione limi-te intendiamo quella situazione nella quale si è di fronte ad esperienzepeculiari irriducibilmente individuali,159 e va distinta la situazione li-mite comune a tutti gli uomini che è «un acuirsi di una situazionefondamentale in un’esperienza singolare»160 – che è quella di cui ci in-teressa parlare qui – da quella che è particolare appannagio di un soloindividuo. Nella situazione limite, scegliendo, ci sembra di impegnareinteramente la nostra vita, quindi di dare una direzione particolare allanostra esistenza; in più abbiamo come la convinzione che stiamo vi-vendo un’esperienza che riguarda ogni uomo, in qualunque tempo.Abbiamo la percezione di impattare con qualcosa che arresta inizial-mente la nostra esistenza e la rende possibile solo al prezzo di un cam-biamento. Ciò che ci arresta è appunto la coscienza della possibilità dierrore, che è una situazione fondamentale.

Nella situazione limite accade che i due termini della scelta nonsiano individuabili qualitativamente, per cui non è possibile stabilirechiaramente quale sia la scelta migliore. Siamo liberi, quindi obbligati,a scegliere e da tale scelta dipende la nostra vita. Libertà e necessità siconiugano dialetticamente, in una dialettica che non ammette sintesima continua relazione: «essere liberi vuol dire operare sensatamente, equesto è decidere tra le alternative possibili».161 La nostra perplessità

157. Ibidem.158. PSV, p. 113.159. Le situazioni fondamentali hanno il carattere della permanenza mentre quelle limi-

te sono transitorie. Ciò non toglie che vi possano essere situazioni permanenti non fonda-mentali e situazioni transitorie che non sono limite.

160. J. C. Torchia Estrada, Eduardo Nicol y la idea del hombre, in Id., Cursos y conferencias,Losada, Buenos Aires 1953, p. 368.

161. PSV, p. 114.

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nasce dalla stessa libertà. Le situazioni limite sono, allora, quelle checondizionano l’esistenza umana, perché l’uomo vive in funzione di es-se. Situazioni di questo genere sono per esempio la coscienza del passa-to e l’esperienza del filosofare (perché sempre ci conduce al problemadei limiti dell’uomo).162 Mentre viviamo tentiamo di manenerci di-stanti dal limite il più possibile,163 in una posizione dalla quale intrave-diamo i limiti della nostra stessa vita: dire dunque che l’uomo è limita-to significa dire che vive “tra” limiti, non “nel” limite. La possibilità diparlare dell’uomo si dà, dunque, solo attraverso una “incursione” chegiunga fino ai suoi limiti, «dopo un’esperienza massimamente perso-nale – mai dopo un semplice ragionamento».164

Stabilita questa classificazione, Nicol si chiede che tipo di esperien-za sia la “coscienza della situazione vitale”. Non può essere un puntodi osservazione esterno in quanto l’uomo sta sempre in situazione. Perquesto motivo, la coscienza che abbiamo della situazione in cui stiamola qualifica e allo stesso la tempo modifica: «se il modo di stare in è unfattore situazionale, allora la variabile della coscienza determina varia-zioni nella situazione, ossia situazioni differenti».165 Lo star in situa-zione, infatti, non implica necessariamente l’esserne coscienti: «vivereignorando qualcosa è una situazione specifica ed esclusivamente uma-na. L’ignoranza si vive e, sia chiaro, si vive senza esserne coscienti».166

L’essere invece coscienti dei propri limiti, è essa stessa una situazionelimite: «giunti al limite del nostro essere umano corriamo sempre ilrischio di perdere ciò che ci caratterizza come uomini, quindi perderela vita pur mantenendo il nostro essere biologico. «L’ignoranza delmale è la più significativa di queste situazioni [nel senso che la mostrain negativo]. L’uomo reca il male nelle sue viscere, ma non bisogna

162. Il limite al quale conduce il filosofare, afferma Nicol, produce un effetto psichicosimile a quello che si prova quando si tenta di immaginare l’infinito: «la riflessione condu-ce alla parola, ma il limite ci impone il silenzio». Il fatto che si possa parlare solo di ciò chesta al di qua del limite, fa sì che il limite stesso non sia conosciuto come confine tra dueterritori ma solo come impasse: «il limite è dove termina ciò che conosciamo e viviamo»(PSV, p. 116).

163. Il filosofare, invece, è proprio il “giungere” al limite e l’“accamparsi” nei pressi.Come nell’esperienza mistica, però, questa situazione non è che transitoria, quasi fosseun’esercizio di apnea.

164. PSV, p. 117.165. PSV, p. 130. Questo è il motivo per cui, come vedremo, l’idea dell’uomo modifica

l’uomo stesso e, in quanto espressione, tale modificazione implica tutto il suo essere.166. PSV, p. 132.

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rappresentarselo come una realtà, come qualcosa che è, tantomeno co-me il vuoto che la realtà lascia quando si ritrae, come la pura assenza oprivazione di realtà. Si dirà che il male è nell’uomo come possibilità.[…] Siamo capaci di male semplicemente perché abbiamo la capacità diessere, questo o quello».167 Il limite, dunque, in quanto stimolo all’a-zione e possibilità della conoscenza di noi stessi, è chiave di volta168

dell’esistenza umana, ma essendo questa dinamica, esso non può esseresempre fissato in maniera definitiva. In molti casi, come quellodell’esperienza filosofica, esso va spostandosi grazie a quell’affannosaricerca, che è sempre azione e proiezione verso il futuro. Tale affanno-so spingersi verso il limite ha due possibili dimensioni:

– una “dimensione orizzontale” nella quale riconosciamo che la vi-ta, nel momento in cui si manifesta come umana, va costituendosi co-me un “farsi” che termina, poi, nella morte. Sebbene l’immagine sug-gerisca un progresso, in realtà ogni tappa di questa dimensione vienevissuta come a se stante e non è comparabile con le altre. In ognuna diqueste tappe, la nostra azione può farci umanamente progredire o re-gredire;

– una “dimensione verticale” che ha la sua base nell’attuale, ovveronel momento in cui ci si trova di fronte ad una scelta. Qui si annida ilmale e posso essere “salvato” solo dalla coscienza della situazione in

167. PSV, p. 133. L’uomo si fa con il suo stesso fare, per cui il suo essere non è completoe incorpora il non-essere come possibilità (cfr. la parte prima di IH2). L’essere dell’uomo èindefinito, in quanto finito e non definito allo stesso tempo. Nell’azione, come oblío dellimite, si annida il male come possibilità. Questo, però, significa che un’azione che tenti diconoscere e rispettare i suoi stessi limiti sarà un’azione eticamente buona. Potrebbe maiessere il contrario dato che la vocazione umana è vocazione alla vita da realizzarsi in conti-nua relazione con l’altro? Potrebbe esserlo se tale relazione fosse di tipo distruttivo, ma se lofosse sarebbe auto-distruttiva dal momento che che con il venire meno di un termine ver-rebbe meno la realzione stessa, quindi la “vita umana”: «Il male diminuisce il mio essere.Meglio, il male è o consiste nella diminuzione del mio essere, del mio essere uomo; è ciòche mi rende meno uomo […] verso il bene, per “farci”, secondo la nostra vocazione; versoil male, per “dis-farci”, secondo la nostra possibilità» (PSV, p. 135; cfr. anche cfr. anche E.Nicol. La primera teoría de la praxis, cit., p 74.). In ME, Nicol dichiarerà il valore etico-ontologico della relazione stessa. Cfr. a tal proposito M. Cuevas, El ser del hombre en EduardoNicol. Algunas implicaciones éticas, in R. Horneffer (coord.), Eduardo Nicol (1907-2007). Home-naje, cit., pp. 193-200.

168. PSV, p. 134.

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cui mi trovo, vale a dire quella del limite.169 L’ignoranza del male èun male anch’essa, è l’ignoranza della nostra stessa condizione: igno-ranza del fatto che in ogni nostra decisione è implicata tutta la nostraumanità.

2.4. Situazione ed espressione

L’azione, come abbiamo ravvisato, è conseguenza del limite e perquesto costituisce il nostro stesso essere. Nell’azione siamo sempre inrelazione con il limite che condiziona l’azione stessa: per questo il li-mite è “necessità originaria”. Viviamo il limite in situazioni limite, maquando questo è comune lo viviamo anche come situazione fondamen-tale. Già abbiamo visto che Nicol definisce la necessità originaria conil nome di destino: «destino è ciò che è dato nell’uomo, vale a dire, limi-tazione e costrizione: ciò che non si è scelto e che non può essere cam-biato».170 Solo l’uomo ha destino in quanto lo riconosce, grazie alla co-scienza della propria limitazione, e può lottarvici contro. In questo ca-so il lottare non consiste nella non-accettazione dei limiti invalicabilidell’esistenza, ma si delinea come tentativo di permanenza nei pressidi quei limiti. Permanere che, secondo Nicol, permette a ciascun indi-viduo di ri-conoscere i propri limiti personali: si tratta più di una lottaentre i limiti e non contro di essi: «il destino ci forza, però non ci lasciainermi […] ci forza a lottare, ci dà forza».171 Le cose, la pietra, l’albero,non debbono sforzarsi di essere, non debbono lottare, essi non hannoforza perché sono destino. Invece, la componente di destino che costi-tuisce la vita umana si presenta con il doppio volto di necessità e pos-sibilità allo stesso tempo. L’azione, il nostro stesso essere, è questoesercizio continuo della decisione nel quale cresciamo o descresciamoumanamente. La decisione è anche libertà di scegliere, che va esplicatanel tentativo di trascendere i propri limiti. In tale tantativo si va deli-neando quello che è il “carattere” della persona: se il destino è necessi-tà, il carattere è libertà in quanto si forma nella scelta, nell’azione. Il

169. «Questa coscienza, che chiamiamo coscienza morale, è l’unica che mi salvadall’annularmi totalmente come uomo, attraverso quell’atto concreto» (PSV, p. 135).

170. PSV, p. 136.171. Ibidem.

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fatto che l’uomo sappia di non poter oltrepassare i propri limiti, mache, allo stesso tempo, impegni la sua vita nel tentativo di farlo sembraa prima vista contraddittorio…eppure nella vita accade: non è unosforzo impossibile, perché in realtà non conosciamo in maniera esau-stiva quali sono i nostri limiti.172

Ciò che ci è dato come necessità originaria, sia per quel che riguar-da l’umana condizione in generale, sia per quel che riguarda la nostravita individuale non ci costituisce già come uomini completi: «con ciòche è dato il suo essere [dell’uomo] non è completo, e per essere devefarsi, esercitare la sua libera iniziativa».173 Nell’uomo, come abbiamogià potuto osservare, necessità e libertà sono dialetticamente legate, di-pendono l’una dall’altra, per cui l’uomo non può rinunciare alla lottasenza rinunciare ad essere: «con ciò che è dato, l’uomo è semplicemen-te un essere che può essere. Ha possibilità di essere; è potente, e lo è ne-cessariamente perché è necessariamente destinato ad essere libero».174

Questo potere, che è libertà, è ciò che rende l’uomo quello che è. Unessere cosciente dei suoi limiti è un essere che ha il compito di eleggerequelle possibilità che rispondono alla sua vocazione, che quindi au-mentino il suo grado di umanità. Rinunciare a questo compito signifi-ca rinunciare a quell’umanità che va conquistata in ogni decisione.Questa è la vita dell’uomo che si dispiega come una complicación di ne-cessità, casualità e iniziativa, e non v’è situazione nella quale questi trefattori non si trovino mescolati.175 Se destino e libertà, da adesso in poidiremo però “carattere” per riferirci al risultato della libera decisione,si relazionano in maniera dialettica, c’è da chiedersi quale sia il tipo direlazione esistente tra caso e necessità, e caso e carattere. Il destinopresenta quattro gradi di necessità: 1) quella del mio essere essere inquanto umano; 2) quella del mio essere in quanto individuo concreto:3) quella della mia posizione spaziale e temporale; 4) quella del mioinevitabile incontro con gli altri e inevitabile immersione negli avvei-

172. Cfr. A. Aguirre, La piedra, el árbol y el hombre, in R. Horneffer (coord.), Eduardo Ni-col (1907-2007). Homenaje, cit., pp. 201-210.

173. PSV, p. 137.174. PSV, p. 138.175. Abbiamo riportato il termine complicación, che nel discorso nicoliano assume il si-

gnificato di complicazione, ma a nostro parere vela anche quello di co-implicazione (Ibi-dem). Nicol stesso riconosce di non essere il primo ad aver posto l’attenzione su questi tretermini (caso, destino e necessità) ma afferma di essere stato l’unico che ne ha fatto deglistrumenti metodologici per una sistematica analisi della vita umana.

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menti sociali. Ognuna di queste genera altre necessità e possibilità: «ilmio destino non l’ho fatto io, ma faccio me stesso con i “materiali” cheil destino mi ha dato».176 La dignità dell’uomo sta nel suo farsi, ed èl’unica dignità esistente.177 Il destino include il caso, dal momento chequest’ultimo limita la nostra scelta in maniera necessaria, anche se im-prevista. Il caso è necessità, in quanto possibilità necessaria e imprevi-sta, positiva o negativa. Il caso ci limita necessariamente ma noi pos-siamo essere minimamente predisposti all’imprevisto se la nostra con-dotta, il nostro carattere, è tale da riuscire a contemplarlo e non lasciar-si sconcertare.

Per Nicol, infatti, il caso non può completamente decidere della vi-ta dell’uomo e deve essere il soggetto ad affinare il carattere al puntoda poter affrontare il caso: «diciamo, giustamente, che “ha carattere”quel soggetto che di fronte al caso non resta inerme, non perde la capa-cità di iniziativa, ovvero il dominio di se stesso».178 Il caso, dunque,forma parte del nostro destino, è la necessità sconosciuta179 che possia-mo accogliere sempre e solo come possibilità dell’imprevisto. Il modoin cui ci comportiamo al suo verificarsi definisce sempre più il nostrocarattere. Il ripercuotersi di qualsiasi evento nella nostra vita, infatti,dipende dalla “disponibilità” con la quale ci lasciamo toccare.180 La-sciarsi toccare, recepire, è un’attività che si compone anche di un sele-zionare e poi fare posto a ciò che si vuole recepire: «e colui che sceglieha criterio, carattere, vale a dire, consistenza. Solo avendo consistenzao struttura interiore si ha veramente disponibilità».181 L’uomo vera-mente libero, con carattere, è colui che sa “condursi” tra il caso e le

176. PSV, p. 139.177. PSV, p. 139, nota 2. Il destino come pura necessità non ha dignità. Questo significa

che «basta l’analisi psicologica per mantenere il problema etico nella sua “validità scientifi-ca”; […] la vita rivela in sé stessa, e concretamente, la necessità, che possiamo definire“funzionale”, delle qualificazioni morali (siano quelle che siano). La vita è pertinente on-tologicamente al mondo della non-indifferenza».

178. PSV, p. 142.179. PSV, p. 143. In quanto sconosciuto, il caso può essere decisivo in una sola occasio-

ne, quella della morte, dove però non si sta più in situazione.180. L’affettività, secondo Nicol, non è costituita dalla sola capacità emozionale, ma es-

sendo spirituale si compone anche di un’operazione intellettuale che può esercitarsi comerifiuto dell’affezione stessa. Si può parlare di «recettività o disponibilità vitale ad integraregli eventi nella propria esistenza, e farne esperienza». Tale ricettività può essere educataproprio attraverso l’esperienza (PSV, p. 146).

181. PSV, p. 146.

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proprie scelte: è l’uomo centrato, «quello che sta al centro del suo am-bito vitale».182

Giunti a questo punto dovremmo avere tutti gli strumenti per trac-ciare una caratterologia dell’uomo, ma non è questo che interessa Ni-col, pena il ridurre l’indagine ad una mera teoria dell’espressione basa-ta su fondamenti psicologici. Restano invece aperte due questioni lega-te tra loro: la questione della storia dell’uomo e quella dell’esseredell’uomo stesso. Finora ci siamo mossi solo nell’ambito dell’analisipsicologica che però già ci ha mostrato la sua connaturata impossibilitàad analizzare le due questioni esposte. Dedichiamoci dunque un atti-mo al tema dell’espressione che chiude la Psicología de las situaciones vi-tales al fine di porre l’ultimo mattone di un ponte che ci porterà adanalizzare la questione storica.

L’azione dell’uomo è movimento, quindi anche il suo essere «ma ilmovimento o la moción nell’uomo è commozione». Ciò che ci accade eche facciamo ci commuove, ci fa vibrare in consonanza o dissonanza,ma sempre in modo che questa vibrazione sia comunicazione, parte diun dialogo.183 Questa vibrazione è un movimento espressivo: «l’espres-sione è un movimento […] qualsiasi movimento nell’uomo è un’e-spressione» e in quanto tale un’alterazione, un cambiamento.184 Leespressioni si susseguono, il che significa che siamo sempre in azione,continuo movimento e cambiamento. Ma cosa esprimiamo? Poichéstiamo in situazione, esprimiamo proprio lo stare in essa. La nostraespressione esprime sempre il nostro modo di stare in situazione; è lostare che costituisce e modifica la situazione. L’espressione, che è sem-pre espressione di uno stare, può essere solo presente ed è, per questo,cangiante. Lo stare è presenza attualizzante del “qui” e dell’“ora” che èl’uomo, per questo «in termini stretti, solo l’uomo ha espressione».185

L’espressione è carica di senso, così l’intuizione dell’espressivo èl’intuizione di un senso che mi tocca e si ripercuote in me. In tale in-tuizione avviene un mio approssimarsi a colui che si esprime, per que-

182. Ibidem.183. PSV, p. 147.184. PSV, pp. 147-148.185. PSV, p. 148. «Nessun altro essere se non l’uomo sta in situazione e pertanto nessun

altro è propriamente espressivo, anche quando questo palpito che scopriamo in tutto ciò cheè vivente ci permette di dire, analogicamente, che qualche cosa inanimata è espressiva»(PSV, p. 149).

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sto nell’espressione dia-logica, due esseri umani hanno una relazionecome di com-penetrazione.186 L’intuizione dell’espressivo si colloca alfondo dell’essere umano ed è caratterizzata dall’intensità e, appunto,dal senso. Il senso, in particolare, permette di intuire l’espressivo inquanto «l’uomo ha senso in sé, non perché io glielo conferisca»187 edecco perché l’unica possibilità di un saber del hombre – della stessa ricer-ca psicologica – passa attraverso la comprensione, che è intuizione delsenso espressivo della vita umana. Se i caratteri dell’espressione sonol’intensità e il senso, le sue forme sono il gesto e la postura. Non sonole uniche, ma quelle attraverso le quali si percepisce in maniera piùelementare il carattere di movimento dell’espressione. Tale movimen-to, però, ha la sua origine nell’interiorità dell’uomo, in una formaespressiva che risiede in lui: la actitud.188 Per atteggiamento intendiamouna “postura personale interiore” che caratterizza i nostri modi di“stare in situazione”. L’uomo adotta un’atteggiamento che caratterizzail suo relazionarsi al trans-soggettivo.

Accanto al gesto e alla postura, e sempre come risultato dell’atteg-giamento, va considerato il linguaggio come forma espressiva per ec-cellenza. Nicol afferma che la parola è sempre carica di valore espres-sivo: «quando parliamo, parliamo sempre di qualcosa, ma parliamo an-che per mezzo di qualcosa, per qualcosa, e per qualcuno; non si può,pertanto affermare che significato ed espressione siano qualcosa di di-stinto e addirittura opposto».189 I valori espressivi sono inerenti allostesso linguaggio, al punto che il gesto è ausiliare nei confronti dellaparola.190 Questo significa che la formulazione di qualsiasi pensiero è

186. PSV, p. 149, nota 6. Mentre verso il non-umano, l’uomo ha solo un atteggiamentodi penetrazione, oppure di proiezione.

187. Ibidem.188. PSV, p. 150. Secondo il Diccionario Crítico Etimológico de la lengua castellana a cura di

Joan Corominas, riguardo l’origine del termine actitud la critica non è concorde: una partesostiene che esso abbia la stessa radice del termine aptitud che può essere tradotto in italia-no come “attitudine”; l’altra parte afferma la diretta filiazione dal termine acto, per la qualeactitud indicherebbe l’“atteggiamento” (cfr. J. Corominas (comp.), Diccionario Crítico Eti-mológico de la lengua castellana, Editorial Francke, Berna, s. d.). In generale, data l’esistenza el’utilizzo del termine aptitud, con actitud si suole indicare generalmente la “disposizionepersonale”, l’“atteggiamento”. Lo assumiamo, pertanto, secondo questa accezione che cisembra concorde con l’idea dell’uomo come essere espressivo.

189. PSV, p. 153.190. Nicol nota che l’espressione, in molti casi, facilita l’intendimento delle pure propo-

sizioni logiche, e per questo non può essere estranea al linguaggio in quanto tale. La pun-

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espressione, per cui in essa si rende manifesto non solo il pensiero mala persona stessa che è autrice di questo. Non è possibile scindere per-sona e suo pensiero, sebbene sia necessario dal punto di vista logico. Illinguaggio in quanto espressione, esprime lo stare in situazione secon-do l’atteggiamento adottato. Ma in questo caso già non si parladell’espressione intesa come movimento spontaneo, bensì di forme delparlare o dello scrivere, si parla di uno stile: «parlare è questo: stilizzareil pensiero, forgiarlo nelle forme espressive del linguaggio».191 Attra-verso lo stile esprimiamo noi stessi in base al nostro atteggiamento,per questo non è possibile parlare né scrivere senza uno stile. Al di làdella verità o falsità di un’affermazione o di un pensiero, in esso simantiene qualcosa di perennemente veritiero che esprime la personastessa che ha parlato o formulato il pensiero. Questo significa che leidee stesse di un uomo caratterizzano e rivelano il suo atteggiamento eil suo stile. «La persona autentica si rivela, fondamentalmente, negliatteggiamenti e nel linguaggio».192 Lo stile implica coscienza ed eserci-zio di affinamento, consiste nel perfezionare la modalità con la quale sicompie un atto. Per questo, un ethos può essere stile morale, anche seuno stesso ethos può esprimersi in stili differenti.193

Una teoria delle situazioni vitali conduce inevitabilmente alla te-matica dell’espressione come comunicazione dello stesso stare in si-tuazione. L’espressione è, quindi, essere dell’uomo stesso, in quantoazione e stare in situazione. L’uomo passa da una situazione all’altraattraverso quella co-implicazione di caso, destino e carattere (libertà)che è segno distintivo di ogni situazione e che permette all’uomo di“farsi” agendo. Ciò che, dunque, risulta non spiegato è come si produ-ca la storia dell’uomo; come avvenga dinamicamente questo integrarsidi situazioni e in che modo la coscienza di ogni situazione modifichi lasituazione stessa.194 Stavolta, però, non si può trattare solo di un’analisi

teggiatura stessa può essere considerata come un residuo dell’espressione orale nel linguag-gio scritto (PSV, p. 155-156).

191. PSV, p. 156.192. PSV, p. 158. È negli atti espressivi deliberati che si esprime autenticamente il mio

carattere.193. Inoltre, lo stile non va confuso con la “piega” nella quale si manifesta un’influenza

collettiva o del gruppo, che dà vita ad una disposizione (pp. 160-162). Basti ricordare, a talproposito, il discorso riguardante la escuela de Barcelona affrontato nell’ultimo paragrafo delcapitolo precedente.

194. «Come si spiega il cambiamento delle condizioni storiche situazionali? Un uomo

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psicologica: si rende necessaria una riflessione più profonda che si de-dichi al problema della genesi della storia in riferimento all’essere delsoggetto storico, ovvero dell’uomo. Questo è il problema, trattato neLa idea del hombre,195 che ci accingiamo ad affrontare.

2.5. L’idea dell’uomo e la storia

Lungo il corso della storia, numerose sono le idee che l’uomo haformulato riguardo sé stesso e Nicol ravvisa che nel momento storicoin cui sta scrivendo, la filosofia si è lasciata contagiare dal pensiero cheil tema dell’uomo possa essere trattato solo in chiave pratica e non spe-culativa. Pertanto ha abbandonato l’idea di una fondazione metafisicadell’essere dell’uomo. In tal modo, l’unico risultato raggiunto è la con-fusione costituita dalle molteplici idee che si vanno formulandosull’esistenza umana. Quella corrente filosofica che più degli altri so-stiene l’impossibilità di una fondazione ontologica ha il nome di stori-cismo.196 La fondamentale innovazione di questa dottrina consiste nel-

si trova già esistente in una determinata situazione, che influisce senza dubbi sul suo mododi esistere, senza che egli sia potuto intervenire nella formazione dei suoi caratteri peculiari.Di certo, questi caratteri sono anch’essi opera dell’uomo; ma allora come si spiega che pos-sano evolvere, se non cambia l’autore? […] Se questi fattori sono opera nostra come si spie-ga che cambino, se non cambia nel suo stesso essere colui che li produce?» (E. Nicol, Losconceptos de espacio y tiempo en la filosofía griega, «Diánoia» (1955), pp. 138-140; CRS, pp. 110-116).

195. Nel prologo alla prima edizione, Nicol afferma che l’opera nasce con il marchiocomune a tante altre prodotte nel secolo XX, cioè quello di “opera di guerra”. Pur dichia-rando che questo è un asunto personale, in esso scorgiamo quella vigencia della coscienzamorale di cui già parlava nella Psicología de las situaciones vitales. Come la Psicología nel 1941,anche la prima edizione de La idea del hombre, che è del 1946, vede la luce in anni difficilisegnati dal conflitto mondiale.

196. Nicol non si dedica a chiarire di quale storicismo stia parlando. Non è certo possi-bile raggruppare semplicemente sotto un unico nome diverse forme di riflessione filosoficasulla storia. In ogni caso si riferisce a quel pensiero che ha recepito l’influenza delle scienzedello spirito, e principalmente della storia (IH, p. 16). Crediamo che si tratti, in particolare,di coloro che si dichiarano in linea con la posizione anti-metafisica di Dilthey, per la qualela metafisica non è che un’espressione storica e in quanto tale relativa a determinate condi-zioni che riflettono l’epoca in cui si è sviluppata (cfr. W. Dilthey, Introduzione alle scienzedello spirito, in particolare la sezione IV del libro II). Per approfondimenti confronta G.Cacciatore, Scienza e filosofia in Dilthey, cit., in particolare il capitolo III); G. Magnano SanLio, Forme del sapere e strutture della vita. Per una storia del concetto di Weltanschauung. TraKant e Dilthey, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2005.

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l’aver rivelato la connessione che esiste tra pensiero e vita ma la man-canza di una fondazione ontologica di questa verità la rende validasolo per metà. Parlare della connessione tra pensiero e vita ci confermaciò che già era stato, dal punto di vista psicologico, compreso attraver-so lo studio delle situazioni vitali: che l’uomo è un ente storico. La let-tura storicista assume tale affermazione come base della propria rifles-sione, in modo che qualsiasi affermazione riguardante l’essere dell’uo-mo possa essere ricondotta a determinate coordinate storico-clturalientro le quali si esaurisce la sua validità. Tale impostazione rendeestremamente problematico parlare di verità: i rischi sono il relativi-smo e lo scetticismo, e qualsiasi teoria riguardante l’uomo sarà estre-mamente problematica. Problematica perché non riuscirà a dare contodella dimensione umana in maniera soddisfacente e, proprio per que-sto, non potrà che contribuire all’approfondirsi della crisi nella qualel’uomo già versa – che è soprattutto crisi dei valori. Tale crisi è genera-ta, per Nicol, dalla perdità del contatto con la verità. L’uomo, infatti, siè sempre appoggiato alla verità come al fondamento della sua vita: «lavita umana non può essere vissuta senza principi, ne vi sono principipossibili che non possano essere chiamati verità. La crisi di una veritàè la crisi di una vita». Fino alla riscoperta della temporalità come carat-tere fondamentale dell’essere umano, l’uomo aveva tentato di appog-giare la sua esistenza sull’intemporale, cercato fuori o dentro se stesso(il tentativo filosofico di dimostrare l’immortaità dell’anima è un chia-ro esempio dell’anelito umano alla stabilità), e questo perché coglievala fragilità del proprio essere, ovvero la sua costitutiva finitudine. Ilvenire alla luce della temporalità come unica categoria adeguata acomprendere la vita umana ha creato una profonda situazione di cri-si.197 La perdita di un appoggio ha portato l’uomo al disperare del futu-ro e a non proiettare il suo presente verso l’avvenire: «questo essersirotta dell’articolazione temporale dell’esistenza è l’effetto anti-storicoche risulta paradossalmente dallo storicismo»,198 è la conseguenzadell’aver rinunciato a cercare il fondamento ontologico della verità.Una riflessione sulla storia che non si interroghi sul fondamento on-

197. In realtà, proprio la scoperta della temporalità come costitutiva dell’uomo dovrebbefarcelo apparire come «essere in crisi permanente» (IH, p. 18), che non è se non un altromodo di dire che l’uomo è integrazione di passato e presente, e per questo aperto al futuro.

198. Cfr. IH, p. 18.

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tologico di questa, non riesce a dare ragione reale del “cambiamento” esoprattutto della vita dell’uomo, perché si riferirà sempre e solo a de-terminazioni soggettive o al massimo legate ad una determinata epoca.Affinchè ci possa essere una reale comunicazione e quindi una com-unità, ci deve essere una precedente comunità della verità: una base ra-zionale comune nella quale si radichi questa verità. È necessario, se-condo Nicol, comprendere che la verità ha valore in sé e che ritrovareil suo fondamento è possibile solo se si riesce a dare ragione della com-patibilità tra ente e storia, ovvero mostrando la temporalità essenzialedell’essere dell’uomo.199 Solo in tal modo sarà possibile fare fronte allarelativizzazione della filosofia messa in moto da determinate riflessio-ni sulla storia. In che maniera è possibile dare il via a tale progetto?Analizzando la stessa storia e l’unico ente storico, cioè l’uomo. NellaPsicología, la riscoperta della temporalità dell’esistenza, ci ha condotto ariconoscere l’uomo come essere temporale (e per questo anche spazia-le). Il problema dell’uomo, dunque, è quello dell’essere nel tempo.200

Tale questione implica, in maniera previa e necessaria, il problemadell’essere, il problema del tempo e il problema della ragione. L’ultimoproblema è quello dal quale deve partire l’indagine dal momento che larazionalità caratterizza l’ente che conosce l’essere e il tempo: l’uomo.L’uomo conosce la storia, come sua forma peculiare di cambiamento,attraverso la memoria. La storia è la forma del tempo umano: è la tem-poralità. «Che la totalità delle cose nell’universo sia soggetta al cam-biamento fu pensato con estremo rigore e lucidità, per la prima voltada Eraclito. Ma lungi dal credere che l’universalità eterna del cambia-mento producesse l’irrazionalità pura, Eraclito derivò precisamente daessa una nuova idea della razionalità dell’universo. Di fatto, fu il pri-mo che incluse la ragione come un elemento funzionale all’interno delkosmos. Questo non sarebbe stato possibile se non fosse stato scopertoche il cambiamento ha delle “forme”. Per lui, la forma ciclica del cam-biamento universale garantisce la sua razionalità. La forma regolare

199. Cfr. IH, p. 20. Secondo Nicol non non è sufficiente che la possibilità che vi sia unaforma della ragione stabile che possa fungere da categoria sempre valida per la comprensio-ne storica. Se esiste questa forma, secondo il pensatore catalano, è perché si radica in unastruttura ontologica che la permette.

200. Cfr. IH, p. 23.

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del cambiamento non solo rende possibile la sua comprensione, ma as-sicura la presenza stessa oggettiva della ragione nel mondo».201

La ragione deve essere legata, anzi radicata nella vita, per cui pensa-re la realtà deve significare pensarla razionalmente, nel senso di darneragione, individuarne la forma stabile. La ricerca della forma regolaredel cambiamento non consiste, dunque, in una razionalizzazione dellastoria (operazione che ha sempre avuto come risultato quello di di-menticare il ruolo da protagonista svolto dal soggetto) ma nel ritrovarenel corso degli eventi delle costanti, appunto “storiche”.202 Considerarela storia come un processo “amorfo” implica il concepire la filosofiasolo come descrizione delle relazioni vitali che legano il pensatore a ciòche lo circonda.203 «La tesi di una irrazionalità dello storico è inammis-sibile per principio: nessuna realtà è estranea alla ragione. L’anomaliasi radicava nel nostro difettoso intento di dare ragione dello storico».204

Si rende, dunque, necessario individuare una maniera di dare ragionedella storia senza ricadere nella sua razionalizzazione, cosa che porte-rebbe alla sua disumanizzazione. Per proseguire nella nostra indagine ènecessario chiedersi cosa muove la ragione, onde rispondere che essaviene mossa da una spinta irrazionale alla ricerca di un punto stabile:«la ragione può pensarsi ma non può muovere se stessa».205 Il puntostabile che cerca è l’essere e nel monento in cui trova, nel mutare ditutte le cose, la forma di questo stesso mutare può riposare su qualcosadi immobile: «la forma è permanente, regolare e stabile. In essa puòriposare la nostra ragione – il nostro animo o la nostra anima – dall’in-

201. IH, p. 24. «Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, siaprima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benchè infatti tutte le cose acca-dano secondo questo logos, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parolee in opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura cisacuna cosa edicendo com’è» (Eraclito, B1, in H. Diels – W. Kranz (a cura di), I Presocratici, Bompiani,Milano 2006, p. 194). Per quanto riguarda la definizione del termine kosmos, possiamo accet-tare quella che Nicola Abbagnano riporta nel suo Dizionario di Filosofia: «il mondo inquanto ordine» (N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Tea, Torino 1993, p. 194). Cfr. a talriguardo J. González, La revolución en la metafísica. Heráclito y Nicol, in R. Horneffer (co-ord.), Eduardo Nicol (1907-2007). Homenaje, cit., pp. 23-46.

202. Le questioni della storicità dell’uomo e della ragione della storia sono, per Nicol,ontologicamente legate.

203. Cfr. IH2, p. 13.204. Ibidem.205. IH, p. 26.

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quietudine del mutare universale».206 È necessario, dunque, stabilireuna morfologia della storia, ma questo non è possibile senza che si pos-sa avere un’idea dell’essere che genera la storia stessa: l’uomo. «È inuna nuova idea dell’essere dell’uomo che va cercato, di fronte all’eva-nescemza totale della realtà, il punto di appoggio che stabilisca ciò chesi mantiene stabile rispetto al mutare dell’umanità – storia – e con-giuntamente, ciò che permane stabile rispetto al mutamento indivi-duale».207 La storia, infatti, è storia dell’uomo, è il risultato dell’attua-lizzarsi di quelle tensioni o intenzioni vitali del poter essere, che carat-terizza l’umano.208 «Il sostrato della storia è un contenuto metafisico»,ragion per cui quelle che chiamiamo forme storiche di vita sono «for-me o modi di essere», nella pienezza del senso ontologico di taleespressione.209 Solo in questo modo è possibile fondare ontologicamen-te la realtà oggettiva delle forme storiche, e la storia può fare il suo le-gittimo ingresso nell’idea dell’uomo: la soluzione metafisica al pro-blema dell’essere del tempo si offre nella concezione dell’essere poten-ziale dell’uomo. Ciò conduce Nicol ad affermare che il filo conduttoredella storia è proprio l’idea dell’uomo, in quanto in essa si riflettel’attualizzazione spirituale, l’opera storica che l’uomo porta avanti consé stesso, e nella quale viene espressa, in forma di pensiero, l’immagineche ha prodotto della sua propria condizione in ogni situazione vitalestorica.210 Le relazioni vitali che l’uomo intrattiene con ciò che è al di làdi lui stesso danno vita alle forme di vita collettive e alle istituzioni so-ciali: forme stabili ma della stessa stabilità dinamica dell’uomo, inquanto dipendenti da relazioni vitali costituenti una situazione piùampia: «c’è storia propriamente perché l’uomo tiene la sua esistenzasempre organizzata in determinate situazioni vitali che sono cangianti.E tale cambiamento psicologico delle sue situazioni si esplica metafisi-camente in base alla costituzione ontica di un essere la cui vita – nelsenso propriamente umano della stessa – gli è data solo come potenza enon come atto».211 Questo significa che non ci è possibile dare una de-finizione completa dell’uomo una volta per tutte, ma solo una storia

206. Ibidem.207. IH, p. 28.208. IH, p. 31.209. IH, p. 32.210. Cfr. Ibidem.211. IH, p. 33.

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delle sue definizioni: «ogni definizione dell’uomo, ogni “idea dell’uo-mo” che la filosofia è andata proponendo, ha risposto all’attualiz-zazione raggiunta dall’uomo, o proposta da lui come “ideale”, in unacerta situazione storica».212 Vi sarà, dunque, una realtà umana differen-te in ogni epoca, e questo ci permette di distinguere le varie epochel’una dall’altra. Il fatto che l’uomo sia storico implica che lo sia anchel’idea che si fa di se stesso, ma questo non significa che questa sia falsa:«l’idea dell’uomo come essere potenziale è il fondamento permanentedi qualsiasi idea storica dell’uomo, attuale o possibile».213 La continuitàstorica si fonda nella continuità individuale, ciò che chiamiamo evolu-zione storica si radica nel cambiamento che si produce nelle relazionivitali dell’uomo, e nel corrispondente cambiamento del suo essere.214

Tali relazioni si danno, però, anche nello spazio: come avviene per lavita, così avviene per la cultura, per cui «una cultura è una forma dicomunità che si dà in uno spazio vitale e un tempo storico determina-to».215 Come l’individuo, dunque, anche le comunità culturali si svi-luppano in base ad una co-implicazione di caso, destino e necessità, na-scendo e morendo, e a volte generando altre culture: «in tale maniera,la diversità delle culture in una determinata situazione storica, le lororeciproche relazioni, il loro dispiegarsi nel tempo e l’eredità lasciata dauna all’altra, appaiono alla luce della ragione – della ragione storica –con la stessa chiarezza con la quale appaiono dinanzi alla ragione vitalela diversità irriducibile degli individui, il loro essere costitutivi e com-plementare rispetto alla comunità e il conseguente processo di forma-zione e trasformazione».216 Il metodo, quindi, per individuare la posi-zione dell’uomo nel cosmo è quello delle situazioni vitali; analogamen-te, la posizione di una comunità culturale si determina in base alla suasituazione storica. «Così, non solo il cambiamento è razionale perchéha forma; ma è razionale anche la condizione umana, perché può esse-

212. IH, p. 35.213. IH, p. 36.214. La storia della filosofia registra, dunque, l’evoluzione del modo con il quale gli uo-

mini hanno concepito razionalmente tutte queste relazioni e le hanno articolate in un in-sieme organico che si chiama cosmo, situandovi poi l’uomo. «E si può affermare con sicu-rezza che questa storia delle concezioni teoriche è parallela alle diverse teorie delle relazionieffettive dell’uomo, e ha una struttura identica a quelle», questo perché la teoria stessa èuna relazione vitale (IH, p. 40).

215. IH, p.44.216. IH, p. 45.

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re pensata ontologicamente. […] Tutto cambia, ma la verità che noncambia è quella che spiega il cambiamento».217 Questa verità è, comegià detto, la costituzione temporale dell’essere dell’uomo.

2.6. Verso un’ontologia dell’uomo

«L’uomo esprime il suo essere, ed esprimendolo lo trasforma».218

Per questo motivo nessuna definizione o idea dell’uomo è completa,ma non per questo è errata: tutte quante sono in qualche maniera defi-nitive in quanto ognuna mette in rilievo un carattere particolare. Esse-re uomo è essere differente dagli altri esistenti, ma anche, individual-mente, da ogni altro uomo. Se questo è vero, tra gli uomini del presen-te e quelli del passato, cosa v’è di comune? Deve esservi una base co-mune, che non sia solo psicologica, eppure sembra che l’uomo non rie-sca mai a a definire i caratteri del proprio essere, ovvero della propriamismidad.219 Tutti noi sappiamo in maniera immediata cosa significhiessere uomo ma, come il tempo per Agostino,220 diventa problematicopoi comunicarlo perché ci manca la stabilità di una definizione. L’uo-mo è espressione ma questo signifca dire che è azione, e l’uomo nonagisce mai alla stessa maniera. Come abbiamo visto, l’alterazionedell’azione, quindi della situazione vitale, dell’uomo di chiama storia:«l’unione tra scienza dell’uomo e storia dell’uomo non è una tesi teori-ca: è un dato del problema».221 Se l’uomo cambia il suo essere attraver-so la sua azione, la legittimità dell’idea dell’uomo risiede nella sua stes-sa storicità, a patto che questa sia posta nella maniera corretta. Infatti,invece di impuntarsi dinanzi alla questione dell’inconciliabilità tra es-sere e tempo, la filosofia avrebbe dovuto, e deve, «convertire l’ostacoloin segnale indicativo: assumere come punto di partenza questa stessa

217. IH, p. 46. Sottolineamo ancora che Nicol non intende affermare che sia la ragionea fissare le forme storiche, ma solo che la ragione le coglie e pertanto queste possono essereconsiderate razionali.

218. IH2, p. 11.219. La mismidad è fondamentale per la comprensione della storia, in quanto propone

quell’identità dinamica che sola ci permette di comprendere l’atto passato in quanto uma-no.

220. «Che cos’è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo achi me ne chiede, non lo so» (Agostino di Ippona, Le confessioni, cit., p. 332).

221. IH2, p. 12.

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difficoltà, riconoscendo in essa una nota distintiva dell’essere umano»,ovvero deve considerare l’uomo come «l’essere che non ha bisogno di defi-nizione».222

Tutti i tentativi di concettualizzare l’essere dell’uomo in forma de-finitiva non sono stati capaci di integrare in se stessi il dato del cam-biamento storico. La risoluzione della questione implica che l’analisivenga riportata al piano ontologico, poichè la causalità storica non pre-senta le stesse caratteristiche di quella che si incontra nelle scienze na-turali e, implicando la libertà come caratteristica dell’essere umano, cicostringe ad una ri-considerazione della sua struttura d’essere. L’uomopresentà insé una dualità ma questo «non è il problema: è il dato ini-ziale».223 Le due forme, costituenti la dualità, sono l’umano e il non-umano che si integrano nell’unità reale dell’uomo. Il problema, dun-que, consiste nel dare ragione dell’umano senza invalidare il non-umano che pure ci costituisce. Il fatto di dover dare ragione di questasituazione lascia venire alla luce una questione fondamentale: «che ge-nere di essere è questo che non solo ha un’idea delle cose, e necessita ditali idee per esistere, ma che inoltre compie nella sua esistenza que-st’atto singolare, che consiste nell’apparire dinanzi a sé e formarsi un’i-dea di se stesso?».224 Ecco che la questione dell’idea dell’uomo e dellasua costituzione ontologica appaiono legate indissolubilmente. Se nellaPsicología de las situaciones vitales si è dato inizio ad un lavoro di scavopsicologico utilizzando il nuovo metodo delle situazioni vitali riuscen-do così a conseguire notevoli risultati per quel che riguarda la com-prensione dell’esistenza umana, è pur vero che tale metodo esamina lerelazioni dal punto di vista della loro attualità e non ci permette di ri-volgere lo sguardo alla storia proprio come «forma variabile della relazio-nalità».225 Come si diceva poc’anzi, l’interesse di Nicol, si concentra suquelle che sono le costanti storiche, le quali affondano le radici nel ter-reno sicuro dell’essere dell’uomo. Continua, così, a riproporsi la que-

222. Ibidem.223. IH2, p. 14.224. Ibidem.225. IH2, p. 16. Con “relazionalità” abbiamo tradotto il termine relatividad perché nel di-

scorso nicoliano esso assume il significato di “capacità di relazione continua e costitutiva”.Tradurlo con il termine italiano “relatività” avrebbe potuto dare adito a fraintendimenti,sebbene non vada dimenticato che l’essere dell’uomo, in quanto relazionale, è relativo sem-pre all’altro termine della relazione.

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stione per la quale, affinchè ci sia cambiamento sembra che debba es-serci un sostrato immutabile, ovvero la questione di una definizione“definitiva” dell’uomo. La domanda fondamentale rimane sempre lastessa: “che cosa è l’uomo?”. L’esistenza dell’uomo è relazione, mamentre per gli altri enti la forma della relazione può essere interpretatacome un “essere-con”226 – vale a dire di un ente unito ad altri enti daiquali dipende per la sua sussistenza, che vengono da noi convertiti inoggetto dell’espressione – quando l’altro ente è “l’altro”,227 il nostro“essere-con” non ci permette di riconoscerlo come oggetto comunica-bile, ma come essere comunicante: “l’altro io” è il destinatario dellamia comunicazione “oggettiva”. «Più che un testimone della presenzadi qualcosa dinanzi a me, l’espressione è un nesso effettivo che legaciascuno con tutti e tutto: in essa si manifesta l’interdipendenza e lasolidarietà di tutto l’esistente».228 La ricerca riguardo l’essere dell’uomodeve dispiegarsi come teoria delle sue relazioni, nel senso che deve da-re ragione di queste in base al suo essere. L’uomo esprime semprel’essere, è il suo compito,229 ed in questo partecipa del dato comune,cioè della comunicazione. Tale realtà manifesta, allo stesso tempo,l’unità di “possedere e comprendere” che si danno simultaneamentenell’atto espressivo: «si direbbe che esistere è appropriarsi dell’estra-neo; ma è restituire ciò di cui ci si è appropriati nell’atto stesso del co-gliere verbalmente».230 L’uomo è sempre “interdipendenza” e per que-sto “è” in base al modo di relazionarsi con ciò che “non è”: ecco con-fermato, dal punto di vista ontologico, ciò era stato ormai accertato daquello psicologico, ovvero che il non-io non è estraneo all’io. Per que-

226. Il Mitsein heideggeriano viene qui “degradato” al rango di dispositivo intepretativoadeguato per studiare la relazione io-mondo in generale. In Heidegger, invece, riguarda ilrapporto con gli altri uomini, che si danno nella dimensione della presenza (cfr. M. Hei-degger, Essere e tempo, cit., § 26). Per un approfondimento riguardo il concetto Mitsein inHeidegger cfr. S. Bancalari, L'altro e l'esserci. Il problema del Mitsein nel pensiero di Heidegger,Cedam, Padova, 1999.

227. Il gioco di parole utilizzato da Nicol è: «Pero cuando lo otro es el otro» (IH2, p. 19).228. Ibidem.229. Il termine utilizzato da Nicol è cometido, per cui l’espressione dell’essere da parte

dell’uomo è un necessario incarico. Il termine cometido è il participio passato del verbo co-meter, che indica il “portare ad effetto” (cfr. J. Corominas (comp.), Diccionario Crítico Eti-mológico de la lengua castellana, cit.). Abbiamo tradotto con “compito” in quanto il “portaread effetto” il proprio essere – attualizzarsi –, costituisce l’essere stesso dell’uomo. L’uomo,dunque, è nel suo stesso esprimersi.

230. IH2, p. 20.

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sto motivo, l’analisi dell’uomo, in quanto essere espressivo, dovràprendere in considerazione i due termini (uomo e non-uomo). Nulla,infatti, è alieno all’uomo, perché tutto condivide e in tale condizionemanifesta la sua individualità come espressione: questa è ciò che cipermette di comprendere che il non-io che ci sta di fronte è un altro-io,«è un partecipante della mia esistenza, un ente che forma parte dellamia famiglia ontologica».231 Siamo in questa condizione perché siamoesseri comunicanti e quindi sempre in relazione: «familiarità è recipro-cità».232 È la familiarità ontologica che mi permette di riconoscerel’altro uomo come prossimo, in base ad una co-partecipazione nell’es-sere che si esplica in forma di dialogo.233 La stessa familiarità, però, cimostra quanto sia più problematico conoscere l’individualità del pros-simo.

In sintesi si può affermare che il saber del hombre deve affrontaresempre due questioni: conoscere il tu che è differente da me; conoscerei costituenti comuni che non si mostrano induttivamente né sono in-clusi nel ri-conoscimento iniziale della familiarità ontologica. Il primogenere di conoscenza è di tipo psicologico, mentre il secondo implicaun’analisi ontologica. Nell’uomo si rende manifesto il suo essere rela-zionale, quindi espressivo, presenza che si dichiara nel suo stesso attod’essere. L’essere dell’uomo è espressione, e questo ci permette di ri-conoscere gli atti compiuti da uomini passati in quanto “umanamentepossibili”, vale a dire come nostre stesse possibilità mai realizzatesi. Intali atti, che sono in situazione, si manifesta sempre la relazione traumano e non-umano. L’indefinibilità dell’idea dell’uomo, dunque, nonsignifica che essa non sia esprimibile, come idea variabile di questa re-lazione: infatti, se ciò che permane è la forma del cambiamento equest’ultimo è relazione, non resta che indagare quali sono i terminivariabili di ogni possibile relazione vitale e i fattori che ne determina-no il cambiamento. I fattori sono già stati osservati prima e riconosciu-

231. IH2, p. 21.232. Ibidem.233. La familiarità, che implica solidarietà e reciprocità, non è un dato contingente, ma

si riferisce ad una “base ontologica”, «ad un costituente dell’essere che determina la plurali-tà dei modi esistenziali e la formazione ed evoluzione storica delle comunità, come formedi organizzazione sociale, e più radicalmente, come forma di relazione con l’essere comu-ne» (IH2, p. 23).

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ti come gli stessi che generano il cambiamento dell’individuo (libertà,caso, destino). Ma quali sono i termini?

Innanzitutto va detto che tali termini si presentano, in quanto for-me razionali delle relazioni variabili dell’umano con il non-umano,come stabili. La loro struttura invariabile permette ad una comunità diavere coscienza di sé, e rispecchia l’idea che l’uomo si fa di se stesso:«questa coscienza, che permette un’effettiva co-presenza del presente edel passato, costituisce una forma di presenza dinanzi a se stessi. Co-scienza storica è auto-coscienza».234 Coscienza storica è dunque coscienzadelle relazione che l’io sta intrattenendo con il non-io, ma non dal pun-to di vista individuale, bensì collettivo. Il punto di vista collettivo af-fonda le sue radici sempre in quello individuale, per il quale vi sono trepossibili forme di relazione con il non-io, che mostrano le tre dimen-sioni della mismidad: l’io di fronte all’altro-io attuale; l’io di fronte a ciòche non è umano; l’io di fronte a questa differente versione di sé che èil passato. Queste tre forme relazionali cosituiscono, nella loro varia-bile commistione a secondo delle epoche, la base dell’idea dell’uomocome coscienza di sé della comunità. Il dialogo con quel non-io che è ladifferente versione di sé, il passato, permette la comprensione dell’e-vento trascorso come espressione di una determinata situazione vi-tale.235 Tale comprensione, in quanto dialogo con un essere comunican-te, non mai conclusa quindi univoca: «possiamo solo comprendere ciòche siamo sicuri di non intendere univocamente».236 Mentre la rela-zione con il non-io della natura si attua come conoscenza, quella delpassato e del tu attuale è sempre comprensione, in quanto “conoscenzain dialogo”. Le forme relazionali assumono nella storia delle connota-zioni precise: la relazione dell’io con la versione differente di sé che è ilpassato, comprenderà sempre a) la relazione dell’io con l’altro-io, comerelazione con l’umano e b) la relazione dell’io con il non-umano che simostra come relazione con il divino e con la natura. «Sebbene le mo-dalità della relazione siano innumerevoli, i termini si riducono a questitre: l’umano, il divino e la natura».237 La storia è costituita dal relazionarsi

234. IH2, p. 27.235. Si ritorna alla questione del comprendere come porsi nella situazione dell’altro.236. IH2, p. 28. La comprensione si fonda sul principio metodologico dell “non-

equivalenza” che permette di andare oltre l’attualità e abbracciare le differenziazioni stori-che.

237. IH2, p. 24.

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dell’uomo con questi tre termini in una maniera che non è mai uni-forme e invariabile. Il fatto che vi sia sempre variabilità lo possiamoassumere come una dato di fatto, osservabile lungo il corso della sto-ria.238 L’idea dell’uomo varia a seconda del variare della relazionedell’io con questi tre termini, ed essendo il variare l’unica costante,l’idea dell’uomo non sarà mai definitiva. I modi che caratterizzanoqueste relazioni si consolidano in forme comunitarie ed epoche stori-che, per questo ogni epoca ha un suo carattere e lo studio delle culturesi mostra come una “caratterologia delle comunità”.239 Si chiude in talmodo tale questione che è, dunque, segnavia verso la strada che condu-ce al cuore del problema. Finora si è tentato di muoversi attornoall’asse centrale della problematica, nel tentativo di intuire sempre piùinformazioni, a volte azzardando una definizione “prospettica” mamai entrando nel cuore della questione che sta al fondo dell’ideadell’uomo, che è proprio quella del cambiamento: se l’uomo varia lasua relazione con i tre termini, che al contrario rimangono stabili, èperché la struttura ontologica dell’uomo si concepisce come relazionevariabile con il non-umano e con l’altro uomo. La struttura relazionaleumana è dinamica, dynamis intesa come facoltà, capacità, e tale dina-mismo si spiega col fatto che nessuno dei tre termini può essere consi-derato indipendente dagli altri. La struttura, dunque, cambia, impli-cando sempre la stabilità formale dei tre termini ma non l’invariabilitàdella qualità della relazione con ciascuno dei tre. Bisogna indagare taledynamis, tenendo in considerazione il fatto che «il perimetro di questaindagine resta delimitato sin da ora: la ragione storica non può esseresufficiente in maniera stretta se non come ragione ontologica, comeun’autentica dinamica della storia».240 Il problema del cambiamentopuò essere analizzato solo dal punto di vista ontologico. Tutto ci ripor-ta sempre all’essere dell’uomo: «la storia è la storia di questo essere, enon il panorama dei risultati memorabili della sua azione».241 La com-

238. Le due edizioni de La idea del hombre, nascono entrambe con l’intento di esporrequesta dottrina e poi darne conferma attraverso una dettagliata analisi storica appunto dellevarie idee dell’uomo. In reltà, entrambe le edizioni, contengono tale analisi solo per quantoriguarda il periodo greco, sebbene il progetto nicoliano avesse l’intenzione iniziale di esten-dersi a tutte le epoche della storia umana (cfr. IH, tutta l’opera esclusa l’introduzione; IH2,dalla seconda parte in poi).

239. IH, p. 25.240. IH2, p. 30.241. IH2, p. 32.

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plessità della causalità storica è dovuta alla complessità dell’essere delsoggetto storico la cui vita è integrazione dialettica di libertà e necessi-tà. Siamo dunque ritornati a quel processo esistenziale che si svolgenell’unità personale che è l’uomo e che è stato già indagato psicologi-camente. Se la psicologia ci può spiegare lo svolgersi della storiadell’individuo e delle comunità, e tale spiegare è sempre una compren-sione, non può però darcene piena ragione. Ogni indagine sulla storia esull’idea dell’uomo, che l’uomo stesso elabora nell’assumere coscienzadi ciò che percepisce come vero, rimanda al suo stesso essere, alla suacostituzione ontologica. La storicità caratterizza l’uomo nel suo costi-tuirsi come unità, per cui l’atteggiamento corretto che la filosofia deveassumere verso di essa non è mai quello di considerarla un problema,ma sempre un dato iniziale, immediato.242

Le idee dell’uomo sono atti, ma «non sono mere dichiarazioni circase stesso; o meglio, sono questo perché l’uomo esiste dichiarando sestesso».243 La storia e l’ontologia, dunque, si implicano reciprocamente:«una teoria delle idee dell’uomo si può collocare solo in una teoriadell’umano».244 La comprensione storica è compito della filosofia inquanto saber del hombre e delle sue relazioni, ma una filosofia che vogliaattendere a tale dovere sarebbe carente di base stabile se non affondas-se le proprie radici nella realtà, non solo nel ricordo degli eventi enell’osservazione della forma in cui si organizzano.245 La «relazione tral’uomo e l’idea che formula riguardo se stesso è una relazione peculia-re, dato che questa idea l’uomo la vive, e non solo la pensa; e la vive intale maniera che essa risulta essere un’espressione del suo proprio esse-re o di un modo di esso, e non solo un significato avente un determina-to valore logico e scientifico. Se così fosse, e io così penso che sia, que-sta relazione tra l’uomo e l’idea di se stesso avrebbe nella sua particola-rità un valore metafisico. Toccherebbe e modificherebbe il modo stessodi essere dell’uomo. In altri termini: la metafisica dell’uomo sarebbeuna metafisica storica».246

242. IH2, p. 38.243. IH2, p. 44.244. Ibidem.245. Cfr. IH2, p. 26.246. E. Nicol, Moralistas del siglo XVIII [1942], in VH, p. 150.

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Un nuovo punto di vista, dunque, che implica una riforma di ciòche ci permette la comprensione dell’uomo stesso: la ragione.247 È ne-cessario cercare un nuovo cammino, un nuovo metodo: «la riforma delmetodo era la condizione necessaria per costituire sulle basi fermedell’esperienza un’autentica scienza dell’uomo».248 Un nuovo metodo,però, deve servire «a ben condurre la ragione»249 e a renderci coscientidella sua corretta costituzione. Al metodo e alla critica della ragionesviluppati da Nicol sarà dedicato, appunto, il prossimo capitolo, ondegiungere, infine, nel cuore della fondazione ontologica dell’essere del-l’uomo.

247. Cfr. IH2, p. 12.248. IH, p. 14.249. R. Descartes, Discorso sul metodo [1637], Fabbri, Milano 1996, p. 35.

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Capitolo III.L’uomo, essere simbolico

La filosofia non si salva se non si salva la verità(E. Nicol, Crítica de la razón simbólica)

3.1. La critica della ragione

«Questa comunità della ragione è il punto decisivo. Assente questa,il metodo non avrebbe senso, e il metodo è la condizione che la filoso-fia stabilisce affinchè sia efficace la conoscenza oggettiva. Senza meto-do-logia il logos può essere arbitrario. Condotta con metodo, la ragionepuò portare all’errore, ma mai all’arbitrarietà. Chi decide di impiegareun metodo, con esso depura il proprio pensiero da qualsiasi interessesoggettivo. Il metodo non è un mero tecnicismo, uno strumento di la-voro, ma segno di una forma vocazionale della vita, di un atteggiamen-to assunto di fronte alla realtà e al prossimo. Il metodo è ragione vitaleperché forma parte dell’ethos della scienza».1 Ponendosi la questionedel metodo come questione preliminare alla possibilità di una cono-scenza autentica ed “efficace”, Nicol si inserisce in quella riflessioneche da Descartes a Gadamer, passando per Kant, Hegel e Dilthey (soloper citare alcuni nomi), ha focalizzato la propria attenzione sulla ricer-ca di un modo “per condurre rettamente la ragione”.2 Presupposto delmetodo è la comun-ità della ragione, ovvero una forma di ragione chesia comune ad ogni uomo. Il “luogo comune” deve essere la ragione:«il buon senso è la cosa del mondo meglio ripartita: infatti, ognunopensa di esserne così ben provvisto che, coloro stessi che sono più dif-ficili ad accontentare in ogni altro campo, non desiderano averne più

1. E. Nicol, El falso problema de la intercomunicación [1958], in E. Nicol, Ideas de variolinaje, UNAM, México 1990, p. 154.

2. Cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, cit.; I. Kant, Critica della ragion pura [1781; se-conda edizione del 1787]; G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche [1830]; W.Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito [1883]; H. G. Gadamer, Verità e metodo [1960].

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di quel che hanno. Ora è inverosimile che tutti s’ingannino; ciò vuoldire piuttosto che la facoltà di giudicare rettamente, e di distinguere ilvero dal falso – che è quel che si chiama propriamente il buon senso ola ragione – è per natura identica in tutti gli uomini».3 Il fatto che ilmetodo sia necessario a condurre la ragione mostra che innanzituttobisogna avere una corretta concezione della ragione e del suo funzio-namento. Il metodo, però, viene individuato dalla ragione come“riflesso concettuale” della sua stessa struttura. Interessarsi del metodosarà allora interessarsi della ragione, e allo stesso tempo sarà l’attuarsidi una conoscenza in linea con il giusto metodo: «dibattere sul metodoè attuare un sistema».4

Come la realtà precede la ragione, così la ragione precede il metodo,in quanto lo scopre a partire dal suo stesso funzionamento e lo verificanell’atto stesso del conoscere. Ma di quale ragione stiamo parlando?Della ragion pura o della ragione storica? Della ragione vitale o dellestrutture logiche del pensiero? Inoltre, come risolvere il problema deirapporti tra vita e ragione? Queste sono le questioni che Nicol si vedecostretto ad affrontare e che intende risolvere attraverso un confrontocon alcuni esponenti della tradizione filosofica occidentale. Il confron-to si profila come una critica della ragione rivolta alle due correnti filo-sofiche che, secondo il filosofo catalano, hanno rivolto l’attenzione alrapporto tra ragione e vita, storicismo ed esistenzialismo: «lo storici-smo può condurre a una disperazione causata dalla perdita della verità;per l’esistenzialismo la disperazione è una categoria principale. Il com-pito strettamente filosofico che ciò impone, rispetto all’anelito alla sal-vezza sentito dall’uomo, è quello di analizzare il fondamento della di-sperazione in quanto tale, attraverso i cammini propri del pensiero».5

3. R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., p. 31.4. CRS, p. 153. Nicol utilizza l’espressione «poner en curso el sistema». Abbiamo scelto

di tradurre con “attuare” per dare l’idea di una realizzazione concreta; allo stesso tempo vatenuto ben fermo il fatto che questa attuazione, in quanto azione umana, non è mai conclu-sa: il sistema è tale in quanto “pensiero sistematico”, non in quanto struttura chiusa e com-pleta.

5. HE, p. 14. L’intento di Nicol è quello di mostrare la possibilità di una ragione“realmente vitale”, il cui operare non costituisca per forza un distanziamento dal reale. Inpiù, una ragione che mostri la vita dell’uomo come vocazione alla vita. Con “storicismo”,Nicol intende una dottrina che si è interessata di spiegare come l’uomo comprende la sto-ria, e la sua storia in particolare, a partire dalla comprensione delle strutture della sua vita.Per esistenzialismo, una dottrina che rivolga la propria attenzione all’esistenza umana nellesue caratteristiche fondamentali, a partire dalla storicità. Tale posizione fa sì che, per quan-

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Il problema di fondo è, infatti, quello di riuscire ad elaborare un’ideadella ragione che ne illustri l’operare in consonanza con la vita: una ra-gione che si integri pienamente nell’idea che abbiamo dell’uomo. Sel’idea dell’uomo è espressione della situazione vitale in cui il soggetto,anche inteso come comunità, si ri-trova, allora l’essere dell’uomo èdynamis, vivencia.6 La ragione, dunque, dovrà essere una ragione vitale,ma non nel senso del raziovitalismo elaborato da José Ortega y Gasset.

La critica della ragione sviluppata da Nicol, e proposta in forma diconfronto con vari esponenti della storia del pensiero nel testo Histori-cismo y existencialismo,7 ha il compito di mostrare i caratteri comunidella metanorma che la ratio è, mettendo in evidenza le carenze teore-tiche presenti nell’idea dell’uomo elaborata da alcuni pensatori, in par-ticolare da Bergson, Dilthey, Ortega y Gasset, Heidegger. Prima di se-guire i sentieri battuti da Nicol, nell’elaborare questa critica, è necessa-

to riguarda lo storicismo, Nicol si riferisca in particolare a Dilthey e Ortega, mentre, perquanto riguarda l’altra corrente filosofica, prenda in esame i testi di Heidegger, in particola-re Sein und Zeit. Nei testi di Nicol, non è possibile riscontrare la distinzione tra esistenziali-smo e filosofia dell’esistenza, che vede nel primo l’assenza di trattazione del tema della tra-scendenza (cfr. a tal proposito K. Jaspers, La filosofia dell’esistenza [1938], Laterza, Roma-Bari1995; G. Penzo, Max Stirner e la rivolta esistenziale, Marietti, Torino 1971). Va, comunque,considerato il fatto che anche studiosi come Pareyson e Prini includano Heideggernell’ambito della trattazione dell’esistenzialismo, cfr. L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo,Sansoni, Firenze 1971; P. Prini, Esistenzialismo e filosofia contemporanea, Armando, Roma 1970e Id., Storia dell’esistenzialismo, Studium, Roma 1991. Non si può nemmeno supporre che Ni-col non conoscesse Jaspers (il cui testo del 1938 dà il via all’utilizzo di tale distinzione) inquanto il pensatore tedesco viene citato già a partire dalle prime pagine de La psicología delas situaciones vitales. Quello che possiamo ipotizzare è che, però, Nicol non si sia mai con-frontato in maniera profonda con il pensiero jaspersiano e questo ci sembra confermato dalfatto che non vi sono tracce di ciò nella, finora presente, letteratura critica.

6. Il termina vivencia è stato coniato da José Ortega y Gasset per tradurre in spagnolo ilvocabolo tedesco Erlebnis (cfr. DRAE – Diccionario de la lengua española de la Real Aca-demia Española). Erlebnis può essere tradotto in italiano con “esperienza vivente” o“vissuto” (N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, cit., p. 311). In tal caso preferiamo mantene-re il termine nella lingua originale. Riguardo l’influenza diltheyana concernente l’utilizzodi tale lemma cfr. PSV, p. 68, nota 21.

7. In questo testo, Nicol costruisce un percorso attraverso la storia del pensiero che glipermette di confrontarsi con: Vico ed altri esponenti del secolo XVIII, Leibniz, Hegel,Marx, Kierkegaard, Nietzsche, Bergson, Dilthey, Ortega y Gasset, Heidegger. In Historici-smo y existencialismo, il filosofo catalano pone le basi di quell’idea di ragione necessaria per lafondazione di un nuovo metodo e la formulazione di una metafisica dell’espressione. Non acaso tale testo ci viene descritto come «prolegomeni alla Metafísica de la expresión» (HE, p.10). Suggeriamo, come interessante introduzione alla critica della ragione elaborata da Ni-col, G. Cacciatore, Prefazione, in ME2, pp. 9-26.

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rio soffermarsi su un punto preliminare illustrato dall’autore: la que-stione dell’essere e la possibilità di averne conoscenza.

Storicismo ed esistenzialismo sono caratterizzati dall’interesse ver-so l’uomo, e «circoscrivono il loro campo di studio a quella zona dellospecificatamente umano che assume rilievo, per privilegi ontologicievidenti, rispetto al resto della realtà».8 Nel pensiero di Heidegger, pe-rò, l’idea dell’uomo inteso come Da-sein funge da nodo di Gordiodell’intero edificio speculativo del pensatore tedesco. Questo non soloperché la risposta alla domanda circa la questione dell’essere in quantotale passa attraverso la costituzione dell’essere del Da-sein, ma soprat-tutto perché tale domanda «ha un’universalità che oltrepassa in manie-ra evidente i limiti [quelli che circoscrivono il campo di studio]».9 Se ilpunto di vista storicista fa dell’uomo, in quanto produttore di storia, ilsuo centro; Heidegger, invece, lo pone in una posizione cardine, nelsenso che esso fa da cerniera di quella porta che, se aperta seguendo lacorretta metodologia, può condurre alla questione dell’essere in quantotale.

Il Da-sein è un momento fondamentale dell’evenemenzialità del-l’essere: «elaborazione del problema dell’essere significa dunque: ren-der trasparente un ente (il cercante) nel suo essere. La posizione diquesto problema, in quanto modo di essere di un ente, è anche deter-minata in linea essenziale da ciò a proposito di cui in esso si cerca:dall’essere. Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro haquella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo desi-gniamo col termine Esserci [Dasein]. La posizione esplicita e trasparen-te del problema del senso dell’essere richiede l’adeguata esposizionepreliminare di un ente (l’Esserci) ne riguardi del suo essere».10 Ma se«la comprensione dell’essere possiede essa stessa il modo d’esseredell’esserci umano»,11 la base ontologica deve riferirsi imprescindibil-mente all’essere dell’uomo. Il problema è che questo essere si presentacome dinamico. L’intenzione heideggeriana, quindi, secondo la suaconcezione della temporalità, non può avere soluzione; non perché latemporalità non sia l’essere stesso dell’uomo, ma perché non è possi-

8. HE, p. 16.9. Ibidem.10. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 22-23.11. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia [1919-1920], Il Melangolo,

Genova 1999, p. 14.

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bile andare al di là della dimensione dia-logica dell’esistenza.12 Nicol,infatti, ravvisa che la risposta alla domanda che si interroga sul sensodell’essere in quanto tale non è stata trovata né da Heidegger, né datutti coloro che hanno seguito il suo stesso sentiero. Tantomeno biso-gna rassegnarsi solo allo studio delle scienze dello spirito che, sebbeneimportanti al fine di arricchire la nostra conoscenza dell’uomo, «sonociò che chiamiamo cammini marginali, forse più piacevoli della viacentrale, più floreali e frequentati, dove il viaggiatore può dilettarsi di-vagando in amena compagnia, e anche con profitto intellettuale».13

Proprio la necessità di andare oltre la mera “scienza dello spirito”ha spinto il filosofo tedesco a porsi fin dall’inizio il problema diun’ontologia fondamentale,14 sebbene la sua opera più importante, Seinund Zeit, abbia avuto un valore, a detta di Nicol, per lo più “esistenzia-le”. È necessario chiedersi come mai l’analitica del Da-sein sia statasviluppata con tanta maestria e scorrevolezza mentre il problema delsenso dell’essere in generale si sia manifestato tanto ostico per la stessaimpostazione metodologica heideggeriana. Problema, peraltro, che staalla base della stessa ricerca costituente l’opera Sein und Zeit e rispettoal quale la suddetta analitica doveva solo essere una “necessaria” in-troduzione. A questo riguardo, Nicol si chiede se «forse non sia impossi-bile dare una risposta a questa domanda che interroga circa l’essere»; se que-sto stesso interrogare non ecceda i limiti del filosofare: «dell’esseresappiamo che è perché lo conosciamo sotto forma dell’unica ed eviden-te specie della presenza […], l’ente, l’esistente, nella pienezza della suarealtà».15 Se, dunque, l’essere è fenomeno, lo deve essere nel senso diuna manifestazione che si dà completamente nel suo stesso manife-starsi e che non vela quel «qualcosa che innanzitutto e per lo più non si

12. Il problema sarebbe quello di andare oltre l’uomo stesso, attraverso il costituirsi delsuo essere. L’ancorare la comprensione dell’essere all’Esser-ci, cosa che Nicol riconosce co-me corretta, impedisce la possibilità di un senso dell’essere in generale. L’analiticadell’Esserci si ridurrebbe, così, solo ad una lettura esistenziale e non assurgerebbe a quelvalore ontologico al quale aspira. È interessante sottolineare come la stessa critica, dal pun-to di vista fenomenologico sia mossa ad Heidegger anche da Michel Henry nella sua operafondamentale L’essence de la manifestation [1963], sebbene il percorso del fenomenologo fran-cese si costituisca come un andare al di là del soggetto verso quel fondamento che sarà de-nominato “vita” (cfr. L’essence de la manifestation, PUF, Paris 2003³, pp. 40-42).

13. HE, p. 16.14. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 2.15. HE, p. 17.

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manifesta, di qualcosa che resta nascosto rispetto a ciò che si manifestainnanzitutto e perlopiù, e nel contempo di qualcosa che appartiene, inlinea essenziale, a ciò che si manifesta innanzitutto e per lo più, inmodo da esprimerne il senso e il fondamento».16

Il primato ontologico dell’essere va riconosciuto, ma non ricercatoin base al suo senso, in quanto non sappiamo in cosa consista, «cosasia» in sé, il fatto di essere.17 L’unico modo di saperlo implicherebbe laprevia conoscenza dell’origine dell’essere e, quindi, il rivelarsi di quelnulla che lo precede mostrandosi più originario. Di fronte a questoabisso, la ragione umana deve assumere l’atteggiamento dello stranieroche nel Sofista discute con Teeteto, quando dichiara il proprio abban-dono dell’idea di non-essere (sebbene con questo non si stesse parlandodel suddetto nulla originario), senza preoccuparsi della razionalità omeno di questa idea.18 Questo perché l’umano intendimento si collocae muove necessariamente «all’interno della sfera di ciò che è, dell’esi-stente».19 Va sottolineato che Nicol non afferma certo l’irrazionalitàdell’essere, ma l’incapacità di comprensione del senso di questo dalpunto di vista concettuale. Incapacità, questa, che non esclude il possi-bile riconoscimento di un senso, ma che non ne permette il pieno pos-sesso concettuale. Il fatto che sia possibile riconoscere l’essere permettea Nicol di non incorrere nella “atemporalizzazione” effettuata dal pen-siero greco per mettersi al riparo dalla “patologica” temporalitàdell’essere dell’ente e dall’incapacità di individuare l’origine: «per que-sto la mente greca tende a porre l’essere fuori dal tempo, e il pensieroposteriore non fa che seguirne le orme».20

All’irrazionalità, caratterizzante questa idea di un nulla originario,la ragione preferisce rispondere con l’ipotesi dell’eternità dell’essere.21

16. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 55-56.17. Nicol sottolinea in maniera vigorosa l’impossibilità di una comprensione del senso

dell’essere dato che essere ed ente (nel caso particolare l’ente uomo) sono sempre termini diuna co-implicazione che pende dalla parte dell’uomo in quanto essere dell’espressione.Questo comporterà, come vedremo in seguito, una penetrante critica al concetto di ango-scia elaborato da Heidegger.

18. «Noi, infatti, già da un pezzo abbiamo dato l’addio ad un contrario, sia che esso sia,sia che esso non sia, sia che se ne possa dare ragione, sia che esso sia del tutto irrazionale»(Platone, Sofista, 258E, in Id., Tutti gli scritti, cit.).

19. HE, p. 17.20. Ibidem.21. Cfr. Aristotele, Metafisica, libro XII, 1071b.

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Questa affannosa e ossessiva ricerca di un principio stabile che stia aldi là di ciò che è presenza, o nel senso di una domanda circa l’esseredell’ente, o in quello di individuazione di un punto stabile a partire dalquale tutto possa muoversi secondo un determinato ordine, mostral’uomo come colui che fugge dalla mutevolezza della presenza stessa.Questo, secondo Nicol, è «il disperato sforzo che fa la ragione per nonriconoscere i suoi limiti».22 In questo modo, però, non riusciremo maia sapere cosa sia l’essere perché collochiamo «il suo principio esplicati-vo, che è necessariamente il principio originario», in una dimensionepreclusa al nostro intendere. Se, dunque, l’ontologia heideggeriana hamostrato come non si possa glissare riguardo la temporalità costituentel’essere dell’uomo, a maggior ragione si impone il problemadell’origine come problema limite. In tal maniera «siamo rimasti senzaconoscere cosa sia l’essere, perché il suo principio esplicativo, che è ne-cessariamente il principio originario, lo abbiamo proiettato in una di-mensione alla quale il nostro intendere non può giungere».23

Possiamo comprendere l’ente nelle sue molteplici manifestazioni,ma «la comprensione completa dell’essere l’avremmo solo se fossimocapaci di farlo, di dare essere all’essere, di produrlo, di tirar fuori un en-te dal puro nulla. Ma da dove prenderemmo il nulla per effettuare taleatto? La sola domanda è insensata: il nulla implicherebbe l’annichili-mento anche del nostro essere. L’atto precede la potenza: la singolareaffermazione di Aristotele è pienamente valida nel piano dell’imma-nenza».24 All’uomo è data la possibilità di comprendere pienamente

22. HE, p. 18.23. Ibidem.24. Ibidem. Le affermazioni di Nicol riguardo le nostre possibilità di conoscenza ci ri-

portano, in maniera diretta, all’affermazione vichiana per la quale: «Dio, nel suo conteneree disporre ordinatamente gli elementi intrinseci ed estrinseci delle cose, può raccoglierlitutti: laddove la mente umana, nella sua limitatezza, per il fatto medesimo che sono fuoridi lei tutte le altre cose che non siano essa stessa, è costretta a raccoglierne non mai tutti glielementi, bensì soltanto quelli estrinseci. Appunto per questa a essa è dato, sì, meditare in-torno alle cose, non già intenderle a pieno; appunto per questo essa partecipa certamentedella ragione, ma non ne ha il possesso integrale» (G. B. Vico, De Antiquissima, I). In Histo-ricismo y existencialismo, Nicol dedica una certa attenzione al pensiero vichiano (pp. 66-74)ma si limita ad una riflessione riguardante la concezione della storia nell’ambito della Scien-za Nuova e non rivolge alcuna attenzione alle opere precedenti del pensatore napoletano.Questo, come nota Colonnello, «impedisce a Nicol di approfondire le connessioni tra Vicoe lo storicismo posthegeliano, ad esempio tra Vico e Dilthey […], come gli impedisce didare spazio al Vico “minore”, al Vico “storico” e al Vico “giovane”» (P. Colonnello, Eduar-do Nicol interprete di Vico, in G. Cacciatore e M. Martirano (a cura di), Vico nelle culture ibe-

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solo ciò che fa, o che è stato fatto in quanto “fatto”; da questo possia-mo capire che «il problema dell’essere», inteso come problema dell’es-sere in quanto tale, «non ha soluzione».25 Dobbiamo dunque rinuncia-re alla possibilità di un’ontologia? Secondo Nicol esiste un’altra possi-bilità: quella di giungere ad un principio di unità della conoscenza at-traverso lo stesso cammino del conoscere. Ma in che maniera?

Per Nicol, non si tratta di elaborare una nuova teoria della cono-scenza ma di rivolgersi all’essere nel suo stesso manifestarsi. Ora, «apartire da Kant, e in verità già a partire da Locke, ciò che era denomi-nato teoria della conoscenza ha divorziato dall’essere. Al contrario, ciòche hanno in comune tutte le scienze, il principio di unità fondamen-tale di ogni possibile conoscenza, è giustamente l’essere: l’essere delconoscente».26 La “svolta” nicoliana sembra ricadere in quella trappolache lui stesso aveva svelato a proposito del percorso di ricerca heideg-geriano. In realtà, Nicol non riconosce la possibilità di una scienzadell’essere in quanto tale, ma solo dell’essere in generale. Quest’ultimonon potrà mai essere separato dall’essere del conoscente che si dà comeri-conoscimento dell’essere e sua attuazione. A questo punto risultachiaro che il fulcro della speculazione di Nicol poggia sull’espressione,costitutiva della stessa antropologia nicoliana, in quanto questa catego-ria non è solo una modalità esperienziale dell’uomo ma la stessa possi-bilità di darsi dell’essere.

L’essere dell’uomo è ciò che ci permette di conoscere l’essere e inquanto tale ci permette la conoscenza stessa: «l’ontologia di questaforma d’essere risulterà essere allo stesso tempo la teoria fondamentaledella conoscenza. Il conoscente non dovrà essere considerato in quantomero soggetto della conoscenza, ovvero coscienza empirica o trascen-

riche e lusitane, Guida, Napoli 2004, pp. 80-94). Sui rapporti tra Vico e la cultura iberica eiberoamericana vedi G. Cacciatore e M. Martirano (a cura di), Vico nelle culture iberiche elusitane, cit.; riguardo la problematica del conoscere storico in Vico vedi F. Tessitore, Sensocomune, teologia della storia e storicismo in Giambattista Vico, cit.; Id., Momenti del vichismo giu-ridico-politico nella cultura meridionale, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», VI (1976),pp. 76-111; B. De Giovanni, ‘Facere’ e ‘factum’ nel “De Antiquissima”, «Quaderni contempora-nei», II (1969), pp. 11-36; G. Semerari, Sulla metafisica di Vico, «Quaderni contemporanei»,cit., pp. 37-64; P. Piovani, La nuova filosofia di Vico, Morano, Napoli 1990; G. Cacciatore,Vico e Dilthey. La storia dell' esperienza umana come relazione fondante di conoscere e fare, «Bol-lettino del Centro di studi vichiani», IX (1979), pp. 35-68; Id., Simbolo e storia tra Vico e Cas-sirer, in Id., Cassirer interprete di Kant, Armando Siciliano, Messina 2005, pp. 85-104.

25. HE, p. 19.26. HE, p. 20.

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dentale, ma in quanto uomo, nell’integrità delle sue determinazionireali e storiche. E così come non può essere compreso il senso del co-noscere in generale se non come opera dell’uomo, così la forma pecu-liare dell’essere dell’uomo non può essere conosciuta se non come arte-fice nato da questa stessa opera. Tale teoria della conoscenza stessanon dovrà assumere come punto di partenza la conoscenza stessa, dalpunto di vista empirico o trascendentale, ma l’ente che conosce, dalpunto di vista ontologico. Il conoscere sorge dall’essere e va sempreverso l’essere».27 Giunti a questo punto, siamo costretti a riconoscereche il discorso di Nicol si fonda sull’accettazione esplicita di un limite:quello dell’impossibilità della conoscenza dell’essere in quanto tale. Maè questo davvero un limite reale? In Nicol il punto di partenza devedarsi a parire dall’esperienza e non si può certo negare l’impossibilitàdi un’esperienza dell’essere in quanto tale, privo di qualunque deter-minazione. La possibilità di tale esperienza come esperienza dell’ango-scia, e qui ci riferiamo chiaramente ad Heidegger, che è esperienza delni-ente, non si dà, secondo Nicol e come vedremo più innanzi, inun’esperienza che può essere ascritta alla riflessione filosofica.

L’ontologia può darsi solo a partire dall’uomo, dall’essere dell’esser-ci, non per muoversi verso l’essere in quanto tale, ma per riconoscere –nell’essere dell’esserci – il manifestarsi, attraverso l’espressione stessa,dell’essere nella sua piena manifestatività.28 Questo significa, però, chesecondo Nicol non è possibile riprorre una lettura della realtà dal pun-to di vista ontologico che consideri valida la distinzione kantiana trafenomeno e noumeno riconoscendo un valore reale a ciò che è conside-rato “cosa in sé”. Seppure fosse possibile, tale questione non apparter-rebbe alla filosofia in quanto pura ipotesi. Ciò non nel senso di unidealistico riassorbimento della realtà nella coscienza come unica ori-gine di ogni conoscenza, bensì come ri-conoscimento di una relazioneespressiva attraverso la quale si attua la conoscenza dell’essere secondoil suo stesso manifestarsi nell’espressione: «il principio unificatoredelle scienze dovrà consistere in una concezione della conoscenza co-

27. Ibidem.28. «Per questo diremo che in Nicol, più che a un’antropologia filosofica, ci trovia-

mo di fronte ad un’autentica ontologia dell’uomo» (C. Márquez Pemartín, Ontología delhombre en Eduardo Nicol, in AA.VV., En torno a la obra de Eduardo Nicol, UNAM, Méxi-co 1999, p. 57).

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me espressione simbolica, e dell’essere umano come espressione».29

Una conoscenza di tal genere si basa sulla concezione di una ragionevitale, intesa come ragione della vita umana, che pone l’uomo di frontealla realtà solo per reintegrarlo completamente in essa, permettendoglidi riconoscere il legame indissolubile tra sé, il prossimo, e il non-sé. Ilsimbolo, in tutto ciò, è il mezzo di cui essa dispone per relazionarsi allarealtà stessa di cui è parte: «la parola è una distanza e allo stesso tempoun approssimarsi. Con essa esprimiamo non tanto quello che stiamopensando o sentendo, quanto la nostra assoluta incapacità di stare dasoli completamente, di essere la monade senza finestre ideata daLeibniz».30

Ma prima di approfondire tutto ciò, è necessario riportarci al puntodi partenza, quello di una critica della ragione intesa come ragioneumana, che ci permetta di conoscere l’essere dell’uomo e con esso lostrutturarsi stesso della conoscenza. A partire da questa critica saràpossibile individuare il metodo e giungere alla comprensione dell’es-sere dell’uomo. Con un salto in medias res, è nostra intenzione mostrareil confronto con quattro pensatori in particolare, al fine di evidenziarequella nuova idea di ragione che finora la storia della filosofia ha postoin ombra. Nicol parte dal problema della separazione tra ragione e vita,sviluppato seguendo le argomentazioni di Bergson; solo a partire dauna ricostituzione del legame “vitale” che sta alla base della ragionesarà possibile “pensare l’uomo” in maniera corretta.

3.2. Ragione e vita: Bergson

Pensare l’uomo significa pensare la sua vita, ma finora la vita è sta-ta considerata come qualcosa che sfugge alla ragione umana. Si pensadi poter fare filosofia dell’uomo senza considerare l’uomo nella sua in-terezza. Questo fa sì che tutto ciò che possiamo affermare in filosofiasia vero soltanto in base all’opposizione, che diamo per scontata, traconcetto e vita. Ma come è possibile parlare semplicemente dell’uomoche vive se il concetto espresso dal linguaggio falsifica il dato “vitale”?

29. HE, p. 21. Riguardo la critica a Kant confronta il capitolo terzo di ME (secondoin ME2).

30. Ibidem.

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Secondo Nicol, ci si trova dinanzi ad un errore di fondo; la nostra con-cezione della ragione è errata e c’è bisogno di una riforma: «e per ri-forma non bisogna intendere un nuovo metodo […], piuttosto consi-sterebbe nel mostrare che la ragione opera in maniera effettiva in queicampi definiti non concettuali, come opera in quelli riducibili al con-cetto logico tradizionale. Fuori del logos non c’è nulla. Ed è necessarioche si accetti una volta per tutte l’unità e l’universalità del logos, affin-ché ci si possa intendere quando affermiamo che tutta la realtà dellaquale si può parlare è razionale, sebbene non si adegui ai principi for-mali della logica. E in quanto a parlare, possiamo parlare di tutto, an-che del Nulla».31

Per affrontare questa tematica mettendone in evidenza i punti sa-lienti, Nicol sceglie di confrontarsi con l’idea di filosofia e di vita svi-luppata da Bergson, in particolare facendo riferimento al testo La pen-sée et le mouvant.32 La lettura che Bergson dà della ragione non ha carat-tere negativo, tantomeno il pensatore francese giunge a dire che essa ènociva per l’uomo. Anzi, l’azione della ragione è utile, ma è falsifica-trice ed in questa falsificazione risiede la sua utilità: «la ragione èl’organo della scienza, e la funzione della scienza è quella di “delineareun mondo nel quale, affinchè sia realizzabile facilmente l’azione, pos-siamo sottrarci agli effetti del tempo”».33 Tale “sottrazione” ci permet-te di esercitare in maniera efficace la nostra azione che può orientarsisolo verso punti stabili. Il pensare, dunque, ci è dato solo al fine di rea-lizzare la nostra azione e per questo ha un importante “compito vita-le”: originariamente pensiamo solo al fine di agire, in quanto l’azione èuna nostra necessità, mentre la speculazione è un lusso.34 Se l’azione,però, può avvenire solo attraverso la falsificazione del dato reale in

31. HE, p. 268.32. Ci riferiremo allo stesso testo citato da Nicol, ovvero l’edizione de La pensée et le

mouvant [1934] pubblicata dall’editore Albert Skira a Geneve nel 1946. È interessante notarecome Bergson, la cui presenza è fondamentale nell’opera Psicología de las situaciones vitales,non smetta di essere uno dei pensatori con i quali Nicol continua a confrontarsi. Questoevidenzia come l’interesse specifico del pensatore catalano rimanga quello della vita e dellaragione umana come ragione vitale.

33. HE, p. 271. Cfr. H. Bergson, La pensée et le mouvant, cit., I, p. 16.34. Cfr. H. Bergson, L’evoluzione creatrice [1907], Raffaello Cortina, Milano 2002, parte I.

La stessa concezione di una ragione al servizio dell’azione, e in particolare di quell’azioneche è per l’uomo necessaria alla sopravvivenza fa da trama all’opera di Miguel de Unamu-no, Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos del 1913.

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quanto sottratto al suo continuo divenire, in Bergson viene chiaramen-te affermata l’incompatibilità tra ragione e temporalità ma allo stessotempo una sorta di integrazione della ragione nella vita stessa, che ètemporale, in quanto utile all’azione, quindi al vivere umano. Di fron-te a tale concezione viene a cadere la validità della nozione di identità:«l’identità, questa nozione fondamentale del pensiero, che sembra tan-to stabile e sicura di per sé, non sarebbe altra cosa che un’invenzioneumana, tanto arbitraria quanto conveniente. L’autenticamente realedella realtà stessa, vale a dire, la sua fluidità, il suo dinamismo, la suatemporalità, risulterebbero irraggiungibili per la ragione logica».35

L’accusa che, a questo punto, Nicol rivolge a Bergson è quella diaver obliato innanzitutto che la crisi della nozione di identità iniziacon Hegel, e in particolare con la sua concezione di una razionalità chenon si oppone al divenire,36 ma soprattutto di dimenticare che appuntoHegel e in seguito Dilthey, con le dovute differenze, elaborarono pro-prio una concezione di ragione storica il cui conoscere fosse rivoltoproprio alla vita nel suo divenire. In questo caso, Nicol pone l’accentosul fatto che Bergson non considera Dilthey, in quanto la stessa impo-stazione diltheyana, differente da quella hegeliana, ammetteva comenozione fondamentale la questione della possibilità della metafisicasolo come “interpretazione” ovvero necessità dell’uomo di ricondurre isignificati all’interno di un sistema, il cui valore fosse però mutabilestoricamente. Si parla dunque di una metafisica “storicizzata”, un«composito nesso funzionale cosmico-storico»37 fondantesi sulla su-bordinazione della realtà alle leggi del conoscere. Bergson, dunque,non riconosce la possibilità di una ragione storica e dato che la ragioneda lui riconosciuta come unica e schematica non può abbracciare larealtà così come essa è, risulta necessario individuare un’altra facoltàalla quale sia permesso tutto ciò. Qual è la soluzione che il pensatorefrancese prospetta? Qualsiasi corrente filosofica rientra nella questionesu delineata. Non esiste alcuna possibilità, per la riflessione, di riuscire

35. HE, p. 272.36. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito [1807], Prefazione, III; Id., Enciclope-

dia delle scienze filosofiche [1817], §79 e §89. Riguardo la questione della relazione tra ragione evita in Hegel, cfr. G. Cantillo, Le forme dell’umano. Studi su Hegel, ESI, Napoli 1996.

37. W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, cit., p. 167. Riguardol’interpretazione diltheyana di metafisica come ideale connessione del mondo cfr. G. Cac-ciatore, Scienza e filosofia in Dilthey, cit., cap. III.

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a comprendere la vita nella sua autenticità. Perché la filosofia potesseessere autentica descrizione della vita, quindi comprensione dell’uma-no, sarebbe necessario che essa riuscisse a comprendere tutti i dati deisensi e della coscienza.38

In tal caso, contesta Nicol, non si tratterebbe di filosofia bensì di unduplicato della realtà, «inoltre, in questa maniera verrebbe a conclu-dersi la storia della filosofia, e il pensiero procederebbe per sempliceaccumulazione di dati, nel suo sforzo di comprendere la totalità».39 Sela vita, secondo Bergson, si caratterizza per il suo continuo scorrere, ilsuo fluire, causa di novità e quindi mancanza di stabilità, una filosofiadel genere, quale lo stesso Bergson auspica come “autentica filosofia”,sopprimerebbe il nuovo riducendo il lavoro del pensiero a quello di uncontinuo immagazzinare. In realtà, la questione non è così semplice ela critica di Nicol non tiene perfettamente conto del fatto che l’ipotesidi Bergson non vuole mostrare una possibile realizzazione del filosofa-re, bensì proprio un’impossibilità evidente ed ineludibile: il fatto stessoche il filosofare si distanzi dalla vita e la costringa nei suoi schemi inquanto non può coglierne tutti gli aspetti. L’intenzione di Nicol è, pe-rò, tutt’altra e mira alla riabilitazione del filosofare stesso nei confrontidi una vita che è radice della stessa filosofia. Per questo motivo il pen-satore catalano legge le affermazioni di Bergson cogliendone tutta lacontraddittorietà nel caso esse potessero giungere ad un’effettiva rea-lizzazione. Il problema, in realtà, riguarda non solo la possibile con-traddizione in cui cade il pensatore francese, bensì la questione piùprofonda che concerne il problema del dato. Il dato primario che è ap-punto “dato alla coscienza” è, per Nicol, sempre selezionato: «il datonon è mai dato, ma sempre scelto. Non è la ragione concettualizzante chesceglie, seleziona e sottrae dal materiale vivo e complesso delle perce-zioni, quel dato che poi sviscererà attraverso l’analisi e l’astrazione.Accade che la stessa percezione realizzi già questa selezione, incoscien-temente; e che non solo selezioni, ma in più ordini, conformi e struttu-ri. Non è il concetto il primo prodotto della ragione. La ragione operagià prima di formulare concetti rigorosi». Per questo motivo Nicol può

38. Cfr. H. Bergson, La pensée et le mouvant, cit., V.39. HE, p. 277.

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affermare che «qualsiasi percezione già è una posizione».40 In che modoavviene questa “selezione inconscia”?

Secondo Nicol, la ragione opera già nella semplice operazione ver-bale attraverso la quale applichiamo un nome ad una cosa, «o, detto inmaniera più precisa, attraverso la quale la cosa si costituisce come talenel ricevere il suo nome».41 È la parola stessa a formare la cosa, cosìcome diciamo che la percezione forma l’oggetto, «e il concetto non è senon una tappa in più nel processo di astrazioni o riduzioni successive,sempre più elaborate, che la ragione intraprende al fine di rappre-sentarsi il mondo con chiarezza, semplicità, economia».42 Dunque èvero, trattandosi di rappresentazione, che man mano che ci si addentranel ragionamento ci si allontana sempre di più dalla realtà come essa è,e che maggiore risulta la comprensione, maggiore diviene la distanza.«Questo Bergson lo ha colto con estremo acume. Ma non ha visto ciòche però è evidente: che essere in comunione con le cose non significacomprenderle. Intendo dire che non esiste una maniera che ci permettadi ridurci allo stato di pura irrazionalità che tale comunione, o contat-to, implicherebbe».43 All’uomo, dunque, non è data la possibilità di unaimmersione nel fluire della vita, ma di una comprensione di essa che,sebbene sia distanza, allo stesso tempo sia connessione ineludibile inbase al fatto che la ragione stessa opera in maniera pre-concettuale.Nicol non risolve il problema della contrapposizione tra ragione e vitamostrando come esse siano aderenti, ma – come aveva già fatto ri-guardo alla questione della conoscenza dell’essere in quanto tale –, ri-porta la problematica ad una posizione che considera più originaria,

40. HE, p. 278. La questione del percepito come già selezionato affonda le sue radicinella categoria di situazione vitale nella quale da sempre mi trovo manifestando una de-terminata actitud. Quest’ultima permette la possibilità di una selezione che determini, anzisia simultanea alla percezione stessa. A questo punto, però, si pone il problema di un in-sieme di percezioni che sono comuni ad ogni uomo per cui sono selezionate in manierauniversale. Chiaramente, dal punto di vista nicoliano, queste apparterrebbero a quella si-tuazione fondamentale che caratterizza il nostro stesso essere uomini quindi mismidad.

41. Ibidem.42. HE, pp. 278-279. Il fatto che la parola “formi” la cosa ci porta a riconoscere come il

processo di conoscenza, secondo Nicol, si sviluppi in maniera diretta sul piano espressivo,dove l’espressione è di per sé già comunicazione tra uomini, ma anche dell’uomo con séstesso (a tal proposito non va dimenticato che il “sé stesso” dell’uomo si costituisce comemismidad la quale, data la temporalità costitutiva dell’esistenza umana, è un ri-conoscersicontinuo).

43. HE, p. 279.

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per la quale la ragione si radica nella vita stessa e mai si contrapponead essa. Quello che Bergson considera come un contrapporsi, caratteri-stica della comprensione, lo è solo in rapporto a quello stato di “comu-nione” con le cose, che per Nicol è “confusione”.

La ragione opera in maniera pre-concettuale e forma il mondo stes-so comprendendolo; per questo, porsi la questione di una realtà chesfugge alla ragione, significa ancora una volta considerare la ragionesolo come schematica e non rendersi conto che «una è la ragione chedà nome alle cose, costituendole come tali nella loro oggettività, cheforma concetti filosofici, , che descrive passioni umane in un’opera let-teraria, e che crea simboli matematici e logici».44 Orbene, poichè qual-siasi nozione è simbolica e il simbolo ci separa e unisce dal reale in cuigià da sempre siamo, nel nostro esprimerci siamo uniti e, allo stessotempo, distanti dalla realtà. È necessario soffermarci un attimo sullanozione di simbolo utilizzata da Nicol. Il simbolo assume il ruolo diintermediario tra la ragione e la realtà, ma effettua questa mediazionesenza porsi come terzo al di fuori di questo rapporto, «comunica e allostesso tempo separa». Il sistema simbolico che si presenta come lin-guaggio e che permette il ragionamento stesso si presenta come l’unicapossibilità di comunicazione tra uomini e di comprensione della realtà:i simboli «sono gli unici che permettono la comprensione, ma contem-poraneamente segnano la distanza tra chi comprende e ciò che è com-preso; così come il ponte, che permettendoci di passare da una spondaall’altra del fiume, allo stesso tempo è ciò che mette in evidenza nellamaniera migliore la distanza esistente tra le due sponde».45 In talmodo, però, si rischia di incorrere di nuovo nell’impossibilità, per laragione, di conoscere la realtà così come essa è. Il problema è proprioquesto: il simbolo è meramente funzionale oppure è qualcosa in più?Per comprendere in maniera più chiara l’idea di simbolo che ha Nicol,dobbiamo abbandonare un attimo il confronto con Bergson e riferircialla Metafísica de la expresión. Tale opera reca, in apertura, un’afferma-zione che il pensatore catalano mutua da Platone: «l’uomo è simbolodell’uomo».46 Come si è osservato a proposito dello stare in situazione,

44. HE, p. 280.45. Ibidem.46. Platone, Simposio, 191d, in Id., Tutti gli scritti, cit., p. 501. Il traduttore preferisce a

simbolo il termine “contromarca”. Abbiamo, invece, preferito mantenere la traduzione“simbolo” perché più congruente con il significato che Nicol riconosce al termine symbolon.

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caratterizzante l’umana esistenza, l’uomo è sempre azione, ovveroespressione e principalmente espressione di sé.

L’uomo si caratterizza per il suo esprimersi, in ogni momento dellasua esistenza la sua vita è un esprimersi: «non v’è qualcuno che possaliberarsi dal dialogo […] esiste il parlare con se stessi, il parlare da soli,e in questa situazione comunque non manca l’interlocutore; nessuno sidisgusterebbe di sé se non esistesse un io posto dinanzi all’io stesso».47

Ma se l’esistenza è espressione, cosa ci assicura che questa esprimacompletamente il suo essere? L’esistenza umana è, giova ripeterlo,azione attraverso la quale l’uomo si modifica e si conosce e ri-conosce.La soggettività è, dunque, praxis. Ma se l’esistenza umana si attua emodifica attraverso il suo stesso esistere come azione, variano anche imodi di percepirsi. Ciò che permane è la praxis come forma dell’essereuomo. Questo significa che le definizioni dell’essere dell’uomo, lasideas del hombre, cambiano in base al suo attualizzarsi come mismidad:«l’uomo non ha la modalità della sua esistenza già definita in maniera origina-ria. La sua esistenza definisce il suo essere. […] L’uomo ha il potere difarsi perché non ha il potere di non farsi».48 L’azione, però, è espressione,ed è per questo che Nicol può affermare che «l’espressione è principiumindividuationis. L’atto con il quale si esprime [potremmo dire: l’atto chegià di per sé esprime] è auto-produzione».49 Se, dunque, l’esistenza de-finisce l’essere e se questo, in quanto praxis è espressione, Nicol puòdirettamente affermare l’identità tra essere dell’uomo ed espressione.50

Lasciando all’ultimo paragrafo di questo capitolo l’approfondimentocirca l’essere dell’uomo, veniamo al suo modo di esprimersi. Poiché ilsuo essere è espressione, l’uomo si esprime con la sua sola presenza,51

l’essere dell’uomo è apofantico. Questo signifca che l’essere dell’uomoè al contempo darsi e riceversi, presentarsi e ri-conocersi, «la presenza

47. E. Nicol, Formas de hablar sublimes: poesía y filosofía, cit., p. 178.48. E. Nicol, La reforma de la filosofía, FCE, Mèxico 1989², pp. 287-288.49. IH2, p. 81.50. Cfr. a questo riguardo M. L. Mollo, Nuovi sentieri dell’ontologia fenomenologica in

Eduardo Nicol, «Rocinante», 2 (2006), pp. 91-116 . Come sottolinea Mollo, «si può dunqueaffermare che l’uomo è uomo in quanto si esprime dato che l’espressione, da Nicol intesacome una libertà necessaria, – dove quest’ultimo ossimoro ricorda la sartreana “condannaalla libertà” – fa divenire atto ciò che l’uomo è in potenza, ossia, un ente destinato a comuni-care» (Ivi, p. 106). Cfr. anche, della stessa Mollo, Nicol y la reforma simbólica del métodofenomenológico, in R. Horneffer (coord.), Eduardo Nicol (1907-2007). Homenaje, cit., pp. 305-333.

51. Cosa che era chiara già a partire dalla Psicología de las situaciones vitales.

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è sempre ontologicamente positiva e rivelatrice, perché è comunicante,indipendentemente dalle qualificazioni con le quali si definisca ciò cheviene rivelato»;52 e l’uomo «esprime il suo essere uomo, qualunque siail contenuto della sua espressione».53 Per questo motivo l’uomo siesprime, nel senso che comunica e nel comunicare esprime il suo esse-re uomo, “simbolicamente”.

Ma la possibilità di questo esprimersi si radica nel fatto che «l’esserestesso è già costitutivamente simbolico: l’uomo è l’ “immagine e somi-glianza” dell’uomo. L’io è simbolo del tu, ossia l’altra metà del tu chepermette all’io di riconoscer-si in lui, quando entrambi si riuniscononella copresenza dialogica».54 I simboli, dunque, «esistono, e solo pos-sono esistere, in quanto prodotti dell’essere simbolico […] con i qualil’uomo prolunga e afferma il vincolo simbolico primario che stabiliscecon l’altro mediante il suo mero atto di presenza».55 In tale concezione,dunque, per “rinvio simbolico” non intendiamo né un rinvio «dal sim-bolo al simboleggiato, né dal significato manifesto al significato latente[…], ma dal senso presente a un’ulteriore partecipazione di senso»,56 di più,una partecipazione sostanziale, ontologica. Il simbolo, in questo caso,riguarda l’ordine del “semantico” nel quale e del quale vive l’uomo; do-ve, però, il semantico è già l’ontologico, inteso come impossibilità diattualizzazione che non comprenda già in se una sua individuazioneprecisa. Ci si trova di fronte a quella «curiosa struttura dell’esperienzaper la quale il mondo non è mai semplicemente un insieme di dati, maun insieme di significanti e significati».57 Questo “essere un insieme”non è però solo funzionale alla conoscenza ma sostanziale. Dietro que-ste precisazioni v’è il chiaro intento di differenziare la concezione nico-liana di simbolo da quella cassireriana.

52. ME, p. 349. Il corsivo è nostro.53. ME2, p. 281. «Il pensiero è logos. È logos nel senso di “ragione” e, allo stesso tempo,

nel senso di “parola”. Queste due accezioni del termine sono complementari ereciproche,come il diritto e il rovescio di una moneta, e non debbono essere separate. Qualsiasi parolaè razionale, qualsiasi ragione è simbolica» (E. Nicol, Los principios de la ciencia, cit., p. 61).Cfr. M. González García, Eduardo Nicol: una respuesta filosófica actual desde la tradición, inAA.VV., Diversas claves del pensamiento español contemporáneo, Fundación Fernando Rielo,Madrid 1992.

54. ME, p. 349.55. ME, p. 350.56. U. Galimberti, La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2001, p. 209.57. P. Sequeri, Il Dio affidabile, Queriniana, Brescia 1996, p. 477.

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Pur riconoscendo a Cassirer il merito di aver mostrato la storicitàdella conoscenza riconoscendo la categoria di forma simbolica comecategoria chiave dell’oggetivazione del conoscere, Nicol contesta al filo-sofo tedesco di non aver posto l’attenzione sull’essere di quel produttoredi simboli che è l’uomo. L’attenzione di Cassirer è completamente ri-volta, in base alla sua impostazione neo-kantiana, alla funzione simbo-lico-conoscitiva e all’unità del suo operare;58 d’altra parte, Nicol consi-dera che senza l’esistenza di un’essere simbolico questo operare non sidarebbe affatto. In più, quello che Cassirer, secondo Nicol, non ricono-sce è che la stessa simbolizzazione non avrebbe senso senza la comuni-cazione che implica una dimensione dia-logica fondante: «nessuna real-tà è costituita in quanto oggetto se non è una realtà comunicata».59

L’obiettivazione che Cassirer riconosce come primo stadio della cono-scenza, che è simbolica e storica,60 non ha senso al di fuori della dimen-sione dialogica che fonda la com-unità dell’essere e che istituisce l’obiet-tivazione come ri-conoscimento. Come sottolinea Nicol, «in Cassirer,le forme simboliche sono “configurazioni verso all’essere”»61 e questoin quanto l’essere in sé è considerato inaccessibile. Pertanto, la cono-scenza più alta e originaria che rimane all’uomo consiste nella modalitàdi funzionamento dello spirito umano. Se Cassirer può affermare l’im-possibilità della conoscenza metafisica è perché, secondo Nicol, talecomprensione non è possibile se non come condizione della stessa sim-bolizzazione: «come potrebbe “comprendere e interpretare l’essere” unafunzione dello spirito che è pura espressione di questo stesso spirito»?62

Ma allora, «se non si può parlare dell’essere, non si può parlare dellafunzione»; la funzione è pertinente ad un ente che è reale e che vive,pertanto è necessario considerare l’essere di questo ente dove tale essere

58. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche. I. Il linguaggio [1923-1929], Sansoni, Firenze2004, p. 9: «Anziché ricercare con la metafisica dogmatica l’unità assoluta della sostanza,alla quale si debba riportare ogni esistenza particolare, si ricerca ora una regola, che dominila concreta molteplicità e diversità elle funzioni conoscitive e che, senza sopprimerle nédistruggerle, le raccolga in un unitario operare, in una attività spirituale in se stessa conclu-sa». Sulla distanza e la prossimità esistenti tra Nicol e Cassirer riguardo la concezione delsimbolo cfr. M. L. Mollo, Introduzione in ME2, pp. 49-51.

59. ME2, p. 287.60. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, cit., p. 25. Riguardo il problema della co-

noscenza simbolica come conoscenza storica in Cassirer cfr. G. Cacciatore, Storicismo pro-blematico e metodo critico, cit., in particolare cap. 10; Id., Cassirer interprete di Kant, cit.

61. ME2, p. 288.62. ME, p. 362.

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non dovrà essere concepito alla stregua della metafisica classica ovverocome sostanza eterna e statica.63

«L’essere è un’evidenza; è l’evidenza», e la filosofia deve assoluta-mente partire da questa in quanto fondamento dell’esistenza: «non vi ènulla di più concreto dell’esistenza».64 Il simbolo, dunque, non è unaforma pertinente allo spirito che gli permette di “formare” la realtà sen-za mai conoscerla “realmente”,65 ma è parte del reale, anzi permettel’aprirsi della realtà così come è in quanto possibilità stessa dell’espres-sione.66 Come lo Heidegger della disputa di Davos,67 Nicol contesta aCassirer di non essersi interessato dell’origine della funzione simbolica;di non aver considerato la questione da un punto di vista che andasse aldi là della posizione della “metafisica classica”. In una dimensionequale quella dia-logica, in cui l’essere si dà solo nel dia-logo come ri-conoscimento, il simbolo è mezzo di conoscenza perché mezzo di co-municazione, quindi di espressione, per cui è essere: «il simbolo non èun segno che sta per altro […], ma è l’abolizione di tutti i segni che la ra-gione ha inaugurato per orientarsi nel mondo».68 Abolizione del segnointeso come filtro che impedisce l’accesso al reale. Il simbolo è il luogonel quale si incontrano l’io e il tu, è il locus communis a entrambi perchéomogeneo ad entrambi: «il simbolo è una con-giunzione».69 In questocongiungersi gli interlocutori si riferiscono ad un terzo termine dellarelazione: l’oggetto al quale entrambi si riferiscono. Questo implica cheil simbolo non sia mero artificio – quindi semplicemente funzionale –ma espressione della com-unità che accede al reale intendendolo proprio

63. ME2, pp. 288-289.64. ME2, p. 289.65. «L’uomo non si trova più direttamente di fronte alla realtà; per così dire, egli non

può più vederla faccia a faccia» (E. Cassirer, Saggio sull’uomo [1971], Armando, Roma 2004,p.80).

66. ME, pp. 362-363.67. Cfr. Appendice II. Dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin Heidegger in M. Hei-

degger, Kant e il problema della metafisica [1929], Laterza, Roma-Bari 2004.68. U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano 2001, p. 204. «Questa opaci-

tà è la profondità stessa del simbolo […]. Mentre l’analogia è un ragionamento non conclu-sivo, che procede attraverso la proporzionalità tra quattro elementi, nel simbolo non possooggettivare la relazione analogica che unisce il secondo senso al primo; proprio vivendo nelprimo senso sono da questo trasportato al di là di esso stesso: il senso simbolico è costituitonel e attraverso il senso letterale, che opera l’analogia dando l’analogo» (P. Ricoeur, Il sim-bolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002, p. 17). Sul simbolo cfr. anche P. Ricoeur, La mé-taphore vive, Seuil, Paris 1975.

69. CRS, p. 224.

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attraverso il simbolo: «cogliere l’essere è intendere il simbolo».70 L’esse-re, dunque, per Nicol, non si dà se non nell’espressione che permette lacomunicazione dell’essere stesso nella com-unità degli esistenti: «parla-re è partecipare dell’Essere. Nell’Essere già siamo integrati ma mediantela funzione simbolica, l’uomo che pertiene all’essere fa sì che l’Essere glisia pertinente. Questo possesso non può essere solitario. L’atto di dareragione implica vari partecipanti, i quali, grazie a questa capacità diazione verbale, arricchiscono l’Essere che li possiede: chi parla degliesseri costituisce una forma eminente di Essere. Bisogna, dunque, con-siderare il simbolico come azione e cooperazione».71

Risulta chiaro, dunque, perché Nicol non possa considerare correttala lettura che Bergson dà della ragione come quello strumento che, pro-prio al fine di poter vivere, falsifica la realtà, in quanto impossibilitata acoglierla nel suo reale manifestarsi. Se così fosse, il nostro pensare sa-rebbe estraneo alla vita, sebbene utile ad essa, e quest’ultima rimarrebbeper noi qualcosa di completamente indecifrabile, essendo vissuta solo inmaniera incosciente. Il fatto stesso che la soggettività, costituendosicome mismidad, richieda l’attività del soggetto, che per questo si caratte-rizza come azione in situazione, implica che noi partecipiamo dell’es-sere nel nostro stesso essere presenti come soggetti che riconoscono lapropria identità. Il lavoro simbolico della ragione è pre-concettuale, eper questo non estraneo alla realtà, all’essere, alla vita: «la nostra ma-niera di partecipare alla continuità del divenire universale non è il mu-tismo di un assorbimento che ci confonda con le cose, bensì, precisa-mente, l’azione del nostro pensiero».72 Se, infatti, l’essenza dell’uomodefinisce il suo essere, e l’esistenza si gioca nella soggettività, ovveronello stare in situazione, è proprio la relazione che noi siamo, in quantoazione, a permetterci il nostro essere-nel-mondo. Questo, però, implicail pensiero che modifica e conferma la nostra actitud: «non si tratta delfatto che il pensiero sia necessario all’azione; il pensiero è già azione[…] la ragione è anche divenire».73

La simbolica, dunque, è anch’essa in divenire, ed è per questo che ilsimbolo può essere sym-ballein, com-presenza di due realtà in una, ovve-

70. CRS, p. 226.71. CRS, p. 233.72. HE, p. 281.73. Ibidem.

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ro possibilità di dia-logo sulla base di una com-unità ontologica. Se perBergson, la lettura simbolica del reale è ri-costruzione che sottrae lastessa realtà al suo dinamismo, rendendola artificiale,74 secondo Nicoltale lettura non è ri-costruzione, ma attualizzazione dell’essere in baseal dinamismo della propria ragione, del pensiero e del simbolo. Il fattoche il nostro conoscere sia simbolico, e che in esso cerchiamo di“identificare” le cose erigendo una sorta di stabilità, dipende da un ane-lito radicato nell’uomo; l’importante è che non ci si lasci ingannare dallaconvinzione che l’identità sia qualcosa di sostanzialmente statico, ma cisi ricordi che in quanto esseri temporali, la nostra e quella di qualsiasicosa – in quanto il mondo stesso è da noi vissuto e in questo vivere ri-conosciuto – si attualizza sempre e solo sotto forma di mismidad. La co-noscenza, dunque, è sempre ri-conoscimento ma il processo di simbo-lizzazione che la costituisce, processo chiaramente mediato, è semprepreceduto da una comunicazione che avviene nella com-unità e che ri-guarda l’essere. Tale comunicazione che fonda la conoscenza, non è,ovviamente, mediata.75 Infatti «non è appropriato chiamare simbolicisolo i concetti scientifici.Tutto ciò che è conoscibile è dinamico, cosìanche il simbolo: anch’esso patisce cambiamenti, e si sviluppa secondoleggi proprie, morfologiche, semantiche e anche fonetiche, oltre allealterazioni deliberate che un pensatore può introdurre aggiungendole alsenso già conosciuto dei termini».76 Giacchè nel dar nome ad una cosain realtà la ri-conosciamo, dopo una conoscenza che è quella della con-tinuità ontologica con essa di cui la simbolizzazione è già espressione,in realtà la “formiamo” ed è per questo che possiamo conoscerla. Comegià abbiamo notato, senza questo atto comunicativo che è il “nominare”non vi sarebbe la cosa stessa se non come essere indistinto77: «non v’èconcetto senza espressione».78

74. Cfr. H. Bergson, L’evoluzione creatrice, cit., parte III e IV.75. ME, p. 362: «È evidente che la comprensione e comunicazione scientifica della real-

tà sia mediata. Ma questo non signifca che sia mediato l’essere stesso; significa solamenteche la forma simbolica di rappresentazione propria della scienza è derivata, e non primaria:è una simbolizzazione di secondo grado».

76. HE, p. 282.77. Si potrebbe obiettare che un muto non giunge allora ad alcuna conoscenza. Lascian-

do da parte la possibilità della scrittura, in Nicol il nominare è risultato dell’esprimere che èla nostra esistenza. L’espressione, anche mimica o gestuale, di una persona che non puòarticolare suoni vocali comunque mira ad indicare una cosa distinta. Quello che però rima-ne problematico è la sua comunicazione che per essere piena, nella comunicazione

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Poiché Bergson considera “simbolo” solo i segni utilizzati dalla ma-tematica, che questa stessa nel suo sviluppo è costretta a innovare persostituire «quello che è già fatto con ciò che è nel suo farsi»,79 ne conse-gue che la metafisica non avrà nulla di simbolico, ma si baserà sul rico-noscimento del dinamismo del reale che deve rimanere semplicementeintuibile. Ciò, però, non ci permetterebbe di conoscere la realtà nella suaautenticità, anzi farebbe sì che ogni conoscenza fosse semplicementeriferita ad un mondo non umano. Infatti, o l’umano è parte della vita epuò essere conosciuto in quanto vita, oppure l’umano è anch’esso, comeconcetto, un’illusione, un punto fisso ma falsificato che non ha alcunlegame con la realtà se non quello di servirci a vivere meglio; anche quivi sorgerebbe un problema: come è possibile che la conoscenza scientifi-ca non si riferisca autenticamente alla realtà se poi ci aiuta a vivere me-glio? In realtà, secondo Nicol, la conoscenza scientifica, in quanto sim-bolizzazione di secondo grado va al di là della mera utilità e in ciò con-siste la sua stessa esistenza. In più, parlando di conoscenza scientifica,Bergson intende solo quella delle scienze naturali, mentre considera lametafisica proprio come rottura con il sistema simbolico. Se, però, ilsimbolo è esso stesso dinamico in quanto prodotto dall’uomo che vive,la metafisica stessa è simbolica nel senso di essere fondata sull’espres-sione. In questo caso, allora, il simbolo non è estraneo alla realtà,all’essere e, quindi, alla vita.

Il problema di Bergson consiste, secondo Nicol, nel suo riferirsi allavita solo nel suo aspetto che potremmo definire “biologico”, non consi-derando che l’uomo conosce, si conosce e ri-conosce in quanto la suavita è storica, quindi è un divenire «non naturale […], la realtà viventedella sua storia».80 Tale condizione rende la conoscenza sempre storica,quindi sempre simbolica, permettendoci di concepire come permanentesolo l’espressione: «per questo è come se vi fosse qualcosa del drammafaustiano nel vedere e nell’esprimersi dell’uomo. Il semplice toccare o

dell’essere delle cose, si deve avvalere della scrittura, quindi sempre della parola.78. HE, p. 283.79. H. Bergson, La pensée et le mouvant, cit., VI, p. 204.80. HE, p. 286, nota 27. Tale affermazione non può non riportarci alla riflessione sulla

natura storica dell’umano elaborata da José Ortega y Gasset. Su questo per ora non ci sof-fermiamo perché tale questione sarà oggetto del prossimo paragrafo; ci limitiamo a sottoli-neare l’affinità e ad anticipare che la differenza fondamentale tra la riflessione nicoliana equella orteguiana consisterà proprio nell’attenzione rivolta da Nicol al fondamentodell’esistenza.

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udire, il sentire le cose, non significa essere molto vicini ad esse. Siamopiù prossimi, ossia più vicini al sapere cosa siano, quando parliamo diesse».81 La trama simbolica che interponiamo tra noi stessi e la realtànon è solo parte di noi, ma anche parte del reale, di cui non possiamofare a meno. Questo, perché la struttura del nostro conoscere è dialetti-ca: il nostro confonderci con le cose non ci dona una vita più autenticain quanto il nostro essere è di per sé espressione, ed è nell’espressioneche realizziamo il nostro riconoscerci come essere-nel-mondo: «il no-stro essere è configurato in maniera tale che ogni conquista si debbapagare con una rinuncia, e quello che al massimo possiamo fare è giun-gere ad avere una sorta di saggezza di questa frustrazione». L’uomo ècome il protagonista del dramma goethiano: «Faust è l’uomo, e la storiadella conoscenza è una prodigiosa avventura faustiana, della quale que-sto cammino di Bergson verso la vita e il concreto non è se non uno deitanti episodi».82

Come nei confronti della ricerca del senso dell’essere in quanto tale,Nicol si oppone all’intuizione bergsoniana riaffermando quella che con-sidera come l’evidente condizione dell’umana esistenza: l’impossibilitàdi giungere realmente alla vita in sé, e il necessario riferirsi al sistemasimbolico della conoscenza non concepito come funzionale, bensì comesostanziale, quindi espressione della realtà dell’uomo e dell’essere – chesenza l’espressione umana non sarebbe attualizzato. L’attenzione rivol-ta a Bergson, dunque, si radica nel fatto che il pensatore francese riportain auge la questione della vita e del suo fluire, sottolineando la realtà deldivenire e la temporalità dell’essere, senza per questo tentare di inglo-barlo in una speculazione definitiva che potesse comprenderne tutte lecategorie possibili. Con Bergson, Nicol può affermare che l’essere è di-venire. Tuttavia egli contesta al pensatore francese l’affermazione che«è necessario che la metafisica trascenda i concetti per giungereall’intuizione», in quanto «è propriamente essa stessa solo quando su-pera il concetto», ragion per cui il «filosofare consiste nel situarsi nel-l’oggetto stesso, mediante uno sforzo dell’intuizione».83 Nicol sostiene,piuttosto, che «questo situarsi nell’oggetto stesso o non è filosofia, mauna silenziosa operazione mistica, oppure deve, per essere filosofia,

81. HE, p. 287.82. HE, pp. 287-288.83. H. Bergson, La pensée et le mouvant, cit., VI, p. 203.

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ammettere il concorso della parola» e «parlare del reale, in qualsiasimaniera lo si faccia, è fare uso della ragione. […] Parlare delle cose nonimplica il renderle schiave».84

3.3. Ragione e storia: Dilthey e Ortega

Per Bergson, dunque, non si dà una conoscenza concettuale delmondo della vita, quindi nemmeno del mondo storico – in quanto sto-ria è la vita umana – che sia autentica. La ragione vitale, afferma dun-que Nicol, riavvicina l’essere al tempo pagando erroneamente comeprezzo il divorzio tra tempo e ragione. Proprio perché è possibile unalettura razionale della storia, il pensatore catalano assume il compito diconfrontarsi, su questo punto, con Dilthey e Ortega y Gasset. Infatti,«con Dilthey, questo divorzio si risolve in una riconciliazione. La criti-ca della ragione storica rende possibile una scienza del mondo delle real-tà umane spirituali che chiamiamo storia». Ma anche qui c’è un prezzoda pagare: «è l’essere che ora resta escluso».85 Il mondo storico è una

84. HE, pp. 299-300. Nicol considera il conoscere come «una tendenza congenita, undesiderio affannoso di ricerca radicato nel nostro essere». Per questo motivo, «il problemadella conoscenza è il problema dell’uomo», in quanto consiste nel trattare dell’essere stessodell’uomo: «ciò che è conosciuto è l’essere. L’essere è a portata di mano, è a vista. È la con-dizione di possibilità del compiersi di questa tendenza inerente al nostro proprio essere,che è la tendenza a conoscere. E che tale tendenza giunga a compimento non è affato indubbio, ed è bene partire da questa certezza: c’è essere, sempre, in ogni caso» (E. Nicol, Elser y el conocer [1951], in VH, p. 354). La questione della conoscenza però, come già detto,non è un’esperienza solitaria ma un processo di simbolizzazione con-diviso sempre in fieri:«la parola è simbolo e il suo senso implica il consenso di due o più soggetti. […] Il dialogo èla forma essenziale di apophansis o rivelazione dell’essere attraverso la parola». Questo nonrisolve il problema dell’assolutezza o meno di quella che chiamiamo verità e Nicol ne è bencosciente: «la questione del “criterio” della verità risulterà un problema insolubile; chi potràgarantirci che la scienza non sia un sogno coerente? D’altra parte, nemmeno possiamospiegarci perché la verità sia storica […]. Il fatto è che può solo rappresentarli [gli esseri]come essi sono in accordo con il modo in cui noi siamo» (Ivi, pp. 379-380). Riguardo, invece,l’esperienza mistica, anche in questo caso la questione non è affatto semplice, dato che ilmistico è tale solo in quanto riesce a comunicare, in forma problematica, la propria espe-rienza. Cfr. a tal proposito E. Nicol, San Juan de la Cruz [1942], in VH, pp. 76-95; AA.VV.,Esperienza mistica e pensiero filosofico, LEV, Roma 2003; A. Molinaro – E. Salmann (a curadi), Filosofia e mistica. Itinerari di un progetto di ricerca, Studia Anselmiana, Roma 1997; M.Baldini – S. Zucal, Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès, Morcelliana, Brescia 1989.

85. HE, p. 301. Come già accennato in precedenza, Dilthey assume come impostazioneiniziale proprio l’impossibilità, dedotta dal pensiero kantiano, di accesso diretto all’essere:«Il problema della filosofia mi sembra sia stato posto da Kant per tutti i tempi. Esso è il più

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creazione dell’uomo e una parte di questa può essere conosciuta, ovverolo spirito, la ragione. Tale sapere è possibile come scienza in quanto iprocessi logici che lo costituiscono corrispondono alla connessione si-gnificativa dei processi reali stessi.86 In che maniera lo strutturarsi di unmondo spirituale, nel soggetto, rende possibile un sapere della realtàdello spirito? Questa secondo Nicol è la domanda sottesa alla criticadella ragione storica sviluppata da Dilthey. Il programma diltheyano èdunque quello di elaborare una filosofia della ragione storica che per-metta di concepire l’esperienza umana dal punto di vista delle connes-sioni vitali attraverso le quali essa si va strutturando. Connessioni chehanno una loro modalità di strutturazione e che costituiscono la tramadi quello che è il mondo storico-sociale. Questa deve essere la base dellostesso filosofare.87 Il problema che Dilthey lascia irrisolto è, a parere diNicol, la questione ontologica. Affermare semplicemente che l’uomonon può andare al di là della rappresentazione non è corretto: come neiriguardi di Cassirer, Nicol pensa che sia necessario porsi la domandacirca l’essere di quell’ente che è soggetto di rappresentazione in base allasua capacità di rappresentar-si la realtà.

Se le scienze dello spirito sono totalmente descrittive, su cosa sonofondate? «Il fondamento non può essere individuato in un’altra scienzastorico e descrittiva [quale la psicologia], ma in una teoria filosoficadell’essere storico». Eppure, «questo problema Dilthey non lo risolve,semplicemente lo elimina».88 La psicologia descrittiva, sulla quale sifonda tutto il sistema diltheyano,89 non può dare ragione della strutturadell’uomo e questo fa sì che la filosofia stessa, in quanto teoria del cono-scere storico, venga risucchiata nella stessa psicologia: «con il venirealla luce del mondo storico, l’esperienza umana si fece più vasta ma,

alto e il più universale di tutta la ricerca umana: in qual modo ci è dato il mondo, che pernoi esiste soltanto nelle nostre intuizioni e rappresentazioni» (W. Dilthey, GesammelteSchriften. V. Die Geistige Welt, Teubner, Leipzig 1924, p. 12).

86. «noi dobbiamo, o limitarci a produrre una connessione di fenomeni o, attraverso unprocedimento del tutto nuovo, sviluppare col ragionamento elementi obiettivi da questaconnessione, vista la impossibilità di coglierli soggettivamente» (W. Dilthey, GesammelteSchriften. XVIII. Die Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und der Geschichte:Vorarbeiten zur Einleitung in die Geisteswissenschaften (1865-1880), Vandenhoeck & Ruprecht,Göttingen 1974, p. 197).

87. Cfr. W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, cit., in particolare il libro I; Id.,Critica della ragione storica, cit., pp. 52-54.

88. HE, p. 303.89. Cfr. W. Dilthey, Critica della ragione storica, cit., pp. 61-75.

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allo stesso tempo, il campo della filosofia si ritrovò ad essere come com-presso».90 Pur andando a fondo nel campo dell’analisi psicologica, Dilt-hey lascia del tutto fuori dalla filosofia qualsiasi riflessione riguardantel’essere del soggetto storico; per questo motivo, se è fondamentalel’apporto diltheyano alla conoscenza dell’esistenza umana nel suo stori-co strutturarsi, esso non dà, però, ragione del suo essere tale mancandodi individuare l’espressione come categoria fondamentale dell’esistenzastessa. Ad ogni modo, la riflessione diltheyana, nel cercare le connes-sioni psichiche che sono alla base dello strutturarsi del mondo dellerealtà spirituali, abbandona la posizione a priori per riportarsi definiti-vamente al livello della storicità di ogni forma: «non vi sono forme pu-re, o astratte […], per questo debbono restare unite storia e psicologia; eper questo la filosofia, come teoria della conoscenza, è dipendente dal-l’una e dall’altra. In una maniera nuova […] la filosofia si confondenuovamente non la storia della filosofia: questo Dilthey lo chiama“filosofia della filosofia”».91 Tale concezione, nella quale la metafisicaviene considerata come un sistema nel quale si connettevano in manie-ra interdipendente tutte le forze dello spirito – e che la modernità di-strugge liberando l’arte e la scienza dalla loro primitiva dipendenza92 –si poggia, secondo Nicol, su un presupposto ottimista il quale impediscea Dilthey di considerare che una volta avvenuta tale “liberazione” sigeneri un conflitto nel quale ogni attività dello spirito cercherà di con-seguire il predominio sulle altre. Dal momento che nessuna di esse fon-da le altre, nessuna conseguirà questo predominio e il frutto di tale lottasarà la completa separazione di ciascuna dalle restanti, «così assistere-mo, nel mondo contemporaneo, alla successiva apparizione di formuleche esprimono ciò che Dilthey chiamava “liberazione”: le formuleanarchiche “l’arte per l’arte”, “la scienza per la scienza”, fino a che lapiù potente di tutte queste attività culturali – la politica – tenterà di re-staurare in maniera totalitaria l’antica coesione perduta (che nel MedioEvo si mantenne attraverso la fede e non la metafisica)».93

90. HE, p. 303.91. HE, p. 305. Cfr. W. Dilthey, La dottrina delle visioni del mondo: trattati per la filosofia

della filosofia, Guida, Napoli 1998.92. Cfr. W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, cit., in particolare il libro II, se-

zione III e IV.93. HE, pp. 306-307. È interessante notare come, in maniera affine a pensatori quali

Adorno e Horkheimer, Nicol pensi che un uso non corretto della ragione abbia avuto una

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L’unico reale risultato dell’elaborazione diltheyana della conoscenzastorica è, secondo Nicol, quello di produrre un diffuso scetticismo, piùprecisamente una situazione di spaesamento provocata dal fatto chequalsiasi verità debba essere considerata storica, quindi contingente. SeDilthey accusa la metafisica di essere anacronistica, o meglio, di incar-nare solo un anelito dello spirito umano, è perché non ha compreso chela ragione metafisica e quella storica non sono affatto separate, anzi laragione metafisica deve essere allo stesso tempo ragione storica: «quan-do [Dilthey] affermava che la storicità della metafisica implicava la suacaducità e definitiva scomparsa, non sapeva che questi stessi caratteripostulano il prolungarsi e corroborarsi della sua validità»94 in quantometafisica dell’espressione. Il non aver colto che proprio nella storicitàsi gioca l’essere dell’uomo, ha impedito a Dilthey di risolvere il proble-ma del dualismo tra vissuto e realtà così come è; la ragione storica dilt-heyana non permette di giungere ad una fondamentale unità della ra-gione: «la ragione storica o vitale non deve né sostituire la ragion pura,né contrapporvisi. Il “vitale”, il “puro”, lo “storico”, sono modalità equalificazioni della ragione, non sono ragioni distinte».95 Con l’affer-mare l’unicità della ragione, Nicol intende mostrare la necessità di unaricerca più radicale di quelle che si fermano alla considerazione di untipo particolare di conoscenza e ne fanno il sapere principale.

L’unico sapere che è davvero radicale è quello ontologico in quantoriferito all’essere di quell’unico ente che può avere esperienza di cono-scenza. Per questo, il limite della ragione, considerata come luogo dirapporto dell’uomo con il mondo, può essere realmente definito, e conesso il suo funzionamento, solo da una teoria dell’uomo, e non da unariflessione sulle scienze, naturali o dello spirito. In tal modo, alla ragio-ne viene riconosciuto un funzionamento di base identico sia nella cono-scenza del mondo naturale che di quello storico. Diciamo “funziona-mento di base” perché risulta evidente il fatto che oggetti differenti ri-

responsabilità fondamentale nello sfacelo totalitario che investì l’Europa di metà Novecen-to, ma che in maniera contraria ad essi, consideri come ancora di salvezza proprio la meta-fisica, che, però, si struttura fondandosi sulla categoria dell’espressione. Cfr., M. Horkhei-mer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo [1944], Einaudi, Torino 1997. Riguardo taleprossimità cfr. A. Sánchez Cuervo, Eduardo Nicol y la crítica de la razón instrumental, in R.Horneffer (coord.), Eduardo Nicol (1907-2007). Homenaje, cit., pp. 121-137.

94. HE, p. 308.95. HE, p. 314.

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chiederanno metodi differenti, ma dato che si tratta della stessa ragione,le forme di conoscenza non potranno non essere sottomesse alle strut-ture di base del “ragionare umano”.96 «Per questo – scrive Nicol – lafilosofia di Dilthey non porta realmente a termine il suo proposito dicompiere una critica della ragione storica; tutt’al più si tratta di una me-todologia della scienza storica».97 La separazione delle “due ragioni”,inferita dalla diversità degli oggetti ai quali si rivolge l’unica ragione,può essere risolta, quindi mostrata nella sua falsità, solo affrontandol’equivoco sul quale si fonda: il fatto che le scienze storiche progredi-scano distanziandosi, solo in apparenza, sempre di più da quelle natu-rali, non significa che l’uomo disponga di due strumenti differenti perinvestigare il mondo fisico e quello spirituale. Infatti, anche le scienzenaturali sono storiche, ma non perché il loro oggetto sia la storia, bensìperché è storica la ragione che le studia: «la ragione funziona in manie-ra fondamentalmente uguale; così l’uomo, in quanto essere […] temporale,funziona sempre alla stessa maniera, ed è storico, non perché nel tempocambino i prodotti della sua attività, ma perché cambia egli stesso, il suoessere»,98 per questo è mismidad. «L’essere dell’uomo ha la capacità di

96. In realtà, la critica che Nicol rivolge a Dilthey è abbastanza problematica, dato chela posizione diltheyana non sembra negare una struttura “quasi-immobile” dello spiritoumano, dal punto di vista delle premesse antropologiche e biologiche (cfr. W. Dilthey, Perla fondazione delle scienze dello spirito [1893], FrancoAngeli, Milano 2003, p. 312; G. Cacciatore,L’etica dello storicismo, Milella, Lecce 2000, p. 71). Il fatto che Dilthey riconosca chel’antropologia si fonda su di una dimensione biologica, intesa come primum, che garantisceuna sorta di stabilità i cui effetti, però, si manifestano in maniera differente e variabile nelcorso della storia umana, pur non costituendo uno sbocco verso l’ontologia, di sicuro rendevacillante l’accusa nicoliana di fondare le scienze dello spirito su una soggettività che sipoggia sul vuoto. In più, lo stesso Nicol, nella sua ri-fondazione metafisica, riconosce che lastoricità costitutiva dell’uomo impedisce una definizione, se non formale, del suo stessoessere. Questo ragionamento, condotto fino all’estremo, ci permetterebbe di affermare cheanche le categorie ontologiche nicoliane sono quasi-stabili, data la natura mai definitivadell’uomo. Non procediamo oltre riguardo ciò, lasciando solo intendere quanto sia necessa-rio un ulteriore approfondimento della relazione di incontro/scontro esistente tra Dilthey eNicol, e rimandando, a tal proposito, a M. L. Mollo, Introduzione in ME2, p. 33, nota 14.

97. HE, p. 314. Bisogna chiedersi se una metodologia non sia l’espressione di una precisaconcezione del funzionamento della ragione. La critica mossa qui da Nicol vuole ricordarecome una metodologia che si fondi su una separazione tra ragione storica e ragione scienti-fica non riesca a cogliere la ragione storica come ragione tout court e, quindi, fallisca nel suostesso tentativo di essere critica. Senza la comprensione di questo punto fondamentale,l’affermazione nicoliana sembrerebbe contraddittoria rispetto alla sua stessa concezione dimetodo.

98. HE, p. 315.

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trasformarsi storicamente, perché le sue stesse creazioni agiscono inmaniera attiva su di lui. L’uomo ingerisce, digerisce e assimila i suoi proprifrutti».99 Quello che avviene esistenzialmente, avviene anche ontologi-camente: l’uomo si rinnova nel suo stesso vivere, ed è quello che Nicoldefinisce come metabolismo storico. La storicità della ragione, dunque,non deriva dal suo oggetto ma dal suo stesso essere che si costituiscecome parte di quell’ente il cui essere è storico. Ed è questo il motivo diquel “cambiare” che permette alla storia di esistere.

«Il cambiamento storico si produce perché giustamente si modifical’essere storico. Vale a dire che la storia stessa non è che la storia del-l’essere».100 Il nostro “accesso” all’essere è sempre l’essere dell’uomo,nella cui costituzione espressiva e quindi dialogica si situa la nostra pos-sibilità di conoscenza ontologica: «la storicità dell’uomo non riguardasolo i suoi prodotti, ma egli stesso in quanto essere espressivo». Sel’uomo è essere espressivo, in lui non vi può essere differenza tra esseree azione: «l’essere dell’uomo è azione».101 Risulta ormai chiaro chel’analisi condotta ne La psicología de las situaciones vitales ha assunto,mantenendo i suoi tratti fondamentali, un livello ontologico. La mismi-dad non è una categoria solo esistenziale, ma è l’espressione concettualeche ci permette di descrivere l’essere di quell’ente che, essendo storico,conosce solo storicamente. Solo in tal modo, secondo Nicol, è possibilecomprendere che l’uomo, durante il passare dei secoli, ha cambiato ilsuo stile espressivo perché ha variato il suo stesso essere: «l’essere nonresta dietro l’espressione: l’essere è l’espressione stessa».102 Per questo mo-tivo, l’essere dell’uomo si mostra completamente all’osservazione dellostorico sebbene costui non faccia altro che descrivere il suo affermarsi omeno, inteso come mera apparenza. Tale possibilità di descrivere lemanifestazioni espressive è, secondo Nicol, fondato nell’espressioneintesa come pienezza dell’essere: la scienza storica come scienza descrit-

99. Ibidem. Il corsivo è nostro.100. HE, p. 331. Ma cosa, dunque, differenzia Nicol da Heidegger riguardo la concezio-

ne della storia intesa come dis-velarsi dell’essere? Come vedremo fra poco, il problema nonè porre la differenza riguardo tale questione, bensì riguardo quella per la quale – cosa cheperaltro è stata già notata a proposito dell’esistenza umana come è descritta nella Psicologíade las situaciones vitales – il contenuto di tale storia non è neutro, ma si costituisce nellacom-unità degli esistenti, che è com-unità ontologica, come vocazione alla vita.

101. HE, p. 332.102. Ibidem.

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tiva si deve fondare in un’ontologia dell’uomo come essere dell’espres-sione.

Ciò, che secondo il pensatore catalano, ha impedito a Dilthey digiungere a tali conclusioni è stato il suo “pregiudizio anti-metafisico”. Ilfilosofo tedesco si è concentrato solo sull’elaborazione di un “metodoverticale” – grazie al quale è possibile comprendere un pensiero filosofi-co in base alle connessioni di senso che esso mantiene, nella sua epoca,con le altre manifestazioni dello spirito – non considerando la «relazio-ne orizzontale nella quale un sistema si ritrova rispetto a quello che loprecede e quello che lo segue».103 Solo considerando la storicità dell’esse-re dell’uomo si può davvero comprendere il “come” del processo storicoin quanto produzione e auto-produzione dell’umano. Questo, però, nonsignifica che tutto sia relativo in quanto ciò che si mantiene stabile èappunto la storicità che è espressione; ciò che non è storico «è la strut-tura dell’essere storico, grazie alla quale è possibile spiegare la stessastoria».104 L’essere dell’uomo è storico e pertanto si modifica, ma nonnella sua struttura. Questo, però, è un dato riscontrabile solo tramiteun’osservazione che consideri la questione dal punto di vista verticale(strutturale) e orizzontale (storico).105

La ricerca di una ragione che sia storica in quanto vitale non puònon passare per un confronto, seppur breve con il pensiero di José Or-tega y Gasset, che ha fatto del termine raciovitalismo il marchio distinti-

103. HE, p. 335. Riguardo l’assenza, in Dilthey, di una considerazione “orizzontale”della storicità dell’esistenza, Nicol non si mostra attento all’utilizzo, da parte del pensatoretedesco, del concetto di generazione (cfr. W. Dilthey, Gesammelte Schriften. V. Die GeistigeWelt, cit., in particolare il testo Über das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Men-schen, der Gesellschaft und dem Staat). La considerazione del processo «in termini “dinamici estrutturali“ – pur tenendo conto dell’asse centrale intorno a cui ruota ogni fenomeno spiri-tuale, cioè, l’unità naturale per una misurazione del processo storico: la vita – è resa possi-bile anche in relazione al concetto di continuità storica strettamente connesso a quello di ge-nerazione», che implica obbligatoriamente il rendersi consapevoli del patrimonio culturaleattraverso cui una generazione si forma, la sua «presa di possesso» e i possibili sviluppi cheda questa conseguono (G. Cacciatore, Scienza e filosofia in Dilthey, vol. I, cit., pp. 94-97).

104. HE, p. 340.105. Non a caso, le due edizioni de La idea del hombre si costituiscono di una parte teorica

e di un’altra nella quale si tenta di mostrare come la struttura dell’essere dell’uomo rimangala stessa nonostante i cambiamenti storici che ne modificano anche le forme espressive.Riguardo le due dimensioni (verticale e orizzontale) che caratterizzano la strutturadell’uomo e il suo modficarsi (come auto-modificarsi) nel corso della storia cfr. anche E.Nicol, Los principios de la ciencia, cit., pp. 56-59.

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vo del suo pensiero.106 La decisione di confrontarsi con il pensatore spa-gnolo, fondatore della Escuela de Madrid, è dovuta soprattutto alla posi-zione che Ortega stesso assume di fronte alla prospettiva diltheyana.L’affinità tra il pensatore tedesco e quello madrileno è ormai riconosciu-ta dalla critica,107 ma ciò che interessa Nicol è l’atteggiamento critico diOrtega nei confronti di Dilthey. Pur riconoscendo il valore della ragio-ne storica, concezione per la quale non esita a definire il il filosofo re-nano «il pensatore più rappresentativo del XIX secolo», Ortega è fer-mamente convinto che «l’idea della ragion vitale rappresenta, nel pro-blema della vita, un livello più elevato della ragione storica, di cui Dilt-hey si accontentò».108 Tralasciando ogni approfondimento riguardo lasuperiorità, o meno, della ragione vitale orteguiana, che poi si manife-sterà anche come ragione storica nel momento in cui il raciovitalismoassumerà la forma di racio-historicismo,109 Nicol si domanda se davverola concezione della ragione elaborata da Ortega sia più “fondamentale”di quella elaborata da Dilthey. È vero che in Ortega il rivolgere l’atten-zione alla storia intesa come forma dell’umana esistenza si sviluppa apartire dall’incontro con la riflessione di Dilthey; tuttavia, il pensatorespagnolo considera la sua concezione più radicale in base al fatto chel’idea di ragione vitale riconosce la vita stessa dell’uomo come storiamostrando come la ragione sia storica “fondamentalmente” e non in

106. «La ragion pura deve cedere il posto alla ragione vitale» (J. Ortega y Gasset, El tema denuestro tiempo [1923], in Obras Completas, Revista de Occidente, Madrid 1963-1968, vol. III, p.168). Riguardo alla definizione, da parte di Ortega, del proprio pensiero come raciovitalismo,cfr. anche J. Ortega y Gasset, Goethe desde dentro [1932], in Obras Completas, cit., vol. IV.

107. Cfr. a tal proposito G. Cacciatore, Storicismo problematico e metodo critico, cit., in par-ticolare il capitolo 9; J. Marías, La Escuela de Madrid, Revista de Occidente, Madrid 1959. Sulpensiero di Ortega cfr. C. Morón, El sistema de Ortega, Alcalá, Madrid 1968; J. Ferrater Mo-ra, Ortega y Gasset. Etapas de una filosofía, Seix Barral, Barcelona 1973; P. Cerezo Galán, Lavoluntad de aventura, Ariel, Barcelona 1984; A. Savignano, La filosofia di Ortega y Gasset,«Rivista di Filosofia neo-scolastica», LXXV 3 (1983), pp. 433-456; Id., J. Ortega y Gasset. Laragione vitale e storica, Sansoni, Firenze 1984; Id., Unamuno Ortega Zubiri, Guida, Napoli1989; Id., Introduzione a Ortega y Gasset, Laterza, Roma-Bari 1996; J. Lasaga Medina, JoséOrtega y Gasset (1883-1955): vida y filosofía, Biblioteca Nueva, Madrid, 2003.

108. J. Ortega y Gasset, G. Dilthey y la idea de la vida [1933-1934], in Obras Completas, cit.,vol. VI, pp. 165-175.

109. Come nota Nicol, tale cambiamento lo si può riconoscere chiaramente già a partiredall’opera Goethe desde dentro, cit. Nicol non accetta la critica che Ortega rivolge a Dilthey ericonosce che la ragione storica diltheyana è già chiaramente ragione vitale. Il problemanon starebbe nel non essere andati al fondo della ragione, ma nel non aver compreso chetale ragione è storica strutturalmente e, quindi, conosce tutto in maniera storico-simbolica.

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riferimento ad un determinato oggetto di cui si occupa: «è la storia stessache è ragione, in un senso, naturalmente nuovo. La ragione vitale non èsemplicemente la ragione qualificata in modo più o meno certo; è laragione estratta dalla stessa vita, cioè, è la vita nella sua funzione difarci apprendere intellettualmente la realtà. La cattiva intellezione na-sce dal non apprendere con rigore e serietà i termini usati, dal non illu-minare il senso delle espressioni ragion storica e ragion vitale conquello del termine ragion vivente […], nel quale si vede che la vita af-fetta rigorosamente la ragione, la costituisce, e non è qualcosa di secon-dario e derivato».110

La vita, dunque, si mostra ancora come il fondamento dal quale sor-ge la ragione, per tornare ad essa attraverso un comprendere la realtàche è generato dalla vita stessa. In tale continuo processo, che ne èdell’uomo e del suo essere? Secondo Ortega, è necessario superare l’ideadi natura poiché, in realtà, non si dà una cosa di tal genere: essa non èuna realtà autentica ma qualcosa di relativo all’umano intelletto, ilquale non è isolato ma sempre relazionato alle altre componenti dellavita umana. «La natura è un’interpretazione transitoria che l’uomo hadato a ciò che incontra di fronte a sé nella sua vita. A questa, come real-tà radicale, – che include e preforma tutte le altre – siamo riferiti. […]Qui sta il fatto previo a tutti i fatti, in cui tutte le altre cose si trovano eda cui emanano: la vita umana così come è vissuta da ciascuno».111 Ciòfa sì che l’uomo non abbia natura: «l’uomo non è il suo corpo, che è unacosa; né la sua anima, psiche, coscienza o spirito, che sono parimentiuna cosa. L’uomo non è alcuna cosa, ma un dramma – la sua vita unpuro ed universale evento che accade a ciascuno e in cui ognuno non è,a sua volta, se non accadimento. Tutte le cose, sia quelle che furono,sono già mere interpretazioni che ci si sforza di dare a ciò che si incon-tra. L’uomo non incontra cose ma le pone e le suppone. Ciò che incon-tra sono pure difficoltà e pure facilità nei confronti dell’esistere. Lostesso esistere non gli è dato di fatto e regalato come alla pietra, manell’incontrarsi con ciò che esiste, nell’accadergli di esistere, l’unica cosa

110. J. Marías, Biografía de la filosofía [1954], in Id., Obras Completas, Revista deOccidente, Madrid 1958-1970, vol. II, p. 623.

111. A. Savignano, J. Ortega y Gasset. La Ragion vitale e storica, cit., pp. 160-161. Cfr. J.Ortega y Gasset, Historia como sistema [1936], in Obras Completas, cit., vol. VI, pp. 30-32.

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che egli incontra o gli accade è di non aver altro rimedio che far qualco-sa per non cessare di esistere. […] La vita è da-fare».112

Nicol non nega la validità di tali affermazioni, previa una determi-nata interpretazione e chiarimento riguardo alcuni concetti, ma si poneil problema di cosa significhi in questo caso vita e di come essa possaessere conosciuta. A partire proprio dalla questione del conoscere lavita, il pensatore catalano riscontra il persistere, in Ortega, di un ele-mento vitalista di carattere irrazionale. In Apuntes sobre el pensamiento,del 1941, Ortega afferma che la filosofia si è andata sviluppando sullabase di quella che potremmo chiamare “pre-filosofia”, una credenzanon razionale e data come presupposto fondamentale. Le credenze prin-cipali sono due: 1) l’affermazione secondo la quale, al di sotto della va-rietà del reale, vi sia una realtà stabile e comune che chiamiamo essere;2) la convinzione che tale essere delle cose possieda qualcosa in comunecon l’umano intendere.113 Questo significa che «la conoscenza primaancora di iniziare si costituisce già come un’opinione determinata ri-guardo le cose: il fatto che queste abbiano essere. Dato che tale opinioneprecede qualsiasi prova o ragione e ne è il presupposto, si intende af-fermare che è semplicemente una credenza e, in quanto tale, non è dif-ferente dalla fede religiosa».114 Secondo Ortega, «nulla di ciò che l’uomoè stato, è o sarà, lo è o lo sarà una volta per sempre, ma ha iniziato adesserlo un certo giorno e in un altro giorno cesserà di esserlo. La perma-nenza delle forme nella vita è un’illusione ottica originata dalla rozzezzadei concetti con cui le pensiamo in virtù delle quali idee, che avrebberovalore solo se applicate a quelle forme astrattamente, si usano come sefossero concrete e, pertanto, come rappresentanti autenticamente larealtà».115

Il presupposto di ogni filosofare che cerca di individuare quel datocomune del reale che consente la possibilità di una conoscenza stabile sifonda, dunque, su una credenza. Comprendiamo, ora, come mai Ortegaconsideri anche la ragione storica diltheyana non radicale, in quantoancora ancorata ad un primum che è quello della possibilità stessa diun’autentica conoscenza. Ortega pensa che «trasformata [la realtà] in

112. J. Ortega y Gasset, Historia como sistema, cit., pp. 32-33.113. Cfr. J. Ortega y Gasset, Apuntes sobre el pensamiento. Su teurgía y su demiurgía [1941],

in Obras Completas, cit., vol. V, pp. 526-531.114. Ivi, p. 531.115. Ivi, p. 538. Il corsivo è nostro.

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mere forme storiche della vita umana, vediamo altri modi ugualmentenormali di affrontare da parte dell’uomo l’enigma della sua vita […].Così perveniamo per la prima volta ad una filosofia che intravede lafine o il termine di se stessa e prefigura tentativi di reazione umana chela sostituiscono».116 La ragione vitale orteguiana «rappresenta un equili-brio, certo precario, ma profondo tra le esigenze della vita e quelle della‘ragione’ […]»117 e il raggiungimento continuo di tale equilibrio si fondasulla constatazione che «la razionalità è un problema dell’uomo e nondell’essere».118 L’essere, infatti, è una credenza, e la ragione poggia sem-pre su una credenza: «supposizioni e credenze, questa sarebbe la baseirrazionale su cui si poggia la filosofia».119

Secondo Nicol, però, non è affatto evidente il fatto che la realtà simostri, nella fase pre-scientifica della conoscenza, come una confusionedi dati.120 La confusione non riguarda il nostro percepire il reale ma di-pende dal non conoscere la ragione di ciò che si manifesta, dei fenome-ni. Tale ignoranza può portarci ad affermare che la realtà sia carente dirazionalità. Se davvero giungessimo a credere questo, rinunceremmo aqualunque tentativo di darci ragione di qualcosa e soprattutto di cercareun ordine che leghi insieme i dati costituenti la realtà. Se per Ortega lavita è «una luce che si manifesta a partire da un abisso senza fondo»,per cui «l’onore dell’uomo è quello di poter dialogare con questa lucenello spazio che essa stessa illumina»,121 questo è possibile perché in-nanzitutto si crede nell’esistenza di una luce che illumina e che viene daun fondo e questo fa sì che, in realtà, l’uomo – in primis Ortega –, seb-bene non lo affermi, creda di potersi avvicinare sempre di più proprio aquell’abisso. Il “filosofare” mostra che in realtà non pensiamo affatto inquesta maniera, e lo stesso dimostra la conoscenza che attribuiamo allescienze naturali: «la condizione di possibilità di una scienza in generale

116. Ivi, p. 537.117. A. Savignano, Unamuno Ortega Zubiri, cit., p. 115.118. M. Cusañas, Philosophie et histoire chez Ortega, «Revue Philosophique de Louvain»,

LXXVIII (1980), p. 10.119. HE, p. 345.120. Dire “fase pre-scientifica” della conoscenza può dare l’impressione di essere con-

traddittori: la fase pre-scientifica non può essere conoscitiva. In realtà, come abbiamo nota-to a proposito della simbolizzazione del reale, il solo esprimersi dell’uomo, per Nicol è giàconoscenza del mondo, anche se non di tipo scientifico. Per questo motivo abbiamo preferi-to riportare tale affermazione così come è scritta dal filosofo catalano.

121. M. Cusañas, Philosophie et histoire chez Ortega, cit., p. 12.

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si fonda giustamente sul fatto che la realtà si offre all’esperienza prima-ria come un ordine, un cosmos».122 Risulta evidente che la realtà non èpensante, ma altrettanto evidente è il fatto che essa è pensabile e se,dunque, non possiede la stessa “entità” dell’intendere umano, di sicurosi costituisce in modo da poter essere pensata, studiata e rappresentatarazionalmente.

«In filosofia non si tratta di verificare se v’è o meno un ordine cheregoli la molteplicità dei fenomeni. Che vi sia un ordine è cosa eviden-te. Ciò che ci interessa verificare è in cosa consista quest’ordine, cer-chiamo sistematicamente la maniera adeguata di esprimerlo, nei termi-ni di una ragione guidata da un metodo, logicamente. Il caos non èl’ignoranza delle leggi costitutive di quest’ordine; esso consisterebbesemplicemente nell’intrinseca impossibilità di pensare il reale».123 L’ideadi ragione elaborata da Nicol si pone chiaramente in contrasto conquella ragione di cui parla Ortega il quale concepisce ancora la cono-scenza come mera conoscenza scientifica, laddove per Nicol questa èuna forma di simbolizzazione secondaria. Se la pensabilità del reale èun’evidenza, alla stessa maniera lo è l’essere; non è un presupposto,«l’essere è visibile: è la più elementare delle evidenze».124 In qualsiasimomento parliamo dell’essere, esprimiamo l’essere, e la scienza stessanon avrebbe senso se non credesse inizialmente nell’esistenza dell’og-getto che sta studiando. Secondo Nicol, l’errore di Ortega consistenell’aver identificato l’essere con il concetto che di esso elaborò la meta-fisica classica: il concetto di sostanza. L’idea di qualcosa di stabile e sta-bilmente sottratto al divenire non può essere, come abbiamo vistoall’inizio di questo capitolo, l’essere autentico in quanto questo si rivelasolo attualizzandosi come presenza, «come presenza reale».125

La ragione vitale di Ortega nel suo contrapporsi alla ragione purakantiana o a quella storica diltheyana, resta ancorata all’idea di una ra-gione che non presiede a tutte le forme di simbolizzazione umana, co-stituenti lo stesso relazionarsi dell’uomo al mondo e, in tal maniera, a sestessi. Il vitale va considerato in maniera corretta, affinchè il pensieronon cada vittima del pregiudizio irrazionalista. Tale rischio è, secondo

122. HE, p. 345.123. HE, p. 346.124. Ibidem.125. HE, p. 347.

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Nicol, insito profondamente nel prospettivismo orteguiano a partire dallastessa idea di circunstancia. Infatti, nella famosa affermazione «io sonoio e la mia circostanza»,126 Nicol legge, sì, l’affermazione del soggetto edella sua vita ma anche il fatto che la costituzione dell’io come “sé” e“sé in relazione” a ciò che lo circonda, implica una realtà che precede sial’io che le cose che partecipano della circostanza. Ortega, dunque, nonpone attenzione a questa problematica e non si interessa di mostrarci ladifferenza tra l’io e le cose se non a partire dall’io. Questo fa sì che men-tre l’io sembra dominare la realtà, allo stesso tempo la realtà lo domini ela relazione che esiste tra questi due poli si mostri, nella circostanza, inmaniera oscura.127 Secondo Nicol, nel porre l’accento sulla vita del sin-golo soggetto, a partire dal quale si apre la prospettiva del mondo comepropria prospettiva, Ortega sembra, addirittura, retrocedere alla posi-zione cartesiana. La conoscenza del reale non può darsi come prospetti-va ma come espressione, ovvero dia-logo, logos condiviso a partire dallacomunicazione stessa. La circostanza, dunque, non è costituita dai duepoli della relazione, ma dalla relazione stessa in base alla quale si costi-tuiscono l’io e l’altro. La circostanza è la forma dell’essere-nel-mondo,ed è per questo che è situación, così come era stata descritta nella Psicolo-gía de las situaciones vitales.128 Inoltre, nella circostanza orteguiana, nonritroviamo il tu, il prossimo, differenziato da quell’altro che non èl’altro uomo. Questo, secondo Nicol, fa sì che il prospettivismo tendaad un idealismo che, pur riconoscendo in maniera poco chiara il valoredi ciò che appare relazionato al soggetto, non concepisce la comunica-zione come fondamentale per la conoscenza della realtà. Nella circo-stanza orteguiana, «l’ambito dell’esperienza si è dilatato solo in appa-renza». Infatti, pur descrivendo la vita come « “l’unità del dinamismodrammatico esistente tra io e mondo”, la relazione dell’io con il suomondo è solitaria, e il proprio mondo non è che una prospettiva, irridu-cibile per principio a qualsiasi altra».129

126. J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, in Obras Completas, cit., vol. I, p. 322.127. Non è della stessa opinione Julián Marías, discepolo di Ortega, che vede

nell’affermazione orteguiana il porre appunto l’indissolubile legame tra soggetto e realtà inmaniera che ogni termine della relazione influenzi l’altro in maniera reciproca (cfr. J.Marías, Ortega. Circunstancia y vocación, 2 voll., Revista de Occidente, Madrid 1960, vol. I.,pp. 351-460).

128. HE, p. 350.129. HE, p. 351. Cfr. a tal proposito J. Ortega y Gasset, El tema de nuestro tiempo [1923], in

Obras Completas, cit. vol. III, in particolare il capitolo X.

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In tale concezione, ogni uomo risulta essere una monade, un puntodi vista essenziale. Come già detto, se l’uomo è monade non può esiste-re autentico dia-logo, quindi logos condiviso, quindi autentica conoscen-za. Tantomeno si può dare conoscenza dell’uomo, dato che questo siattua nell’espressione, quindi nella comunicazione. Il prospettivismo,dunque, non è che una degenerazione fondantesi su un determinato tipodi credenza: quella per cui non esiste alcuna conoscenza stabile. Mentre,però, l’affermazione della datità dell’essere si dà per Nicol come evi-denza e non come credenza, in base alla possibilità di comunicare, perOrtega l’impossibilità di una conoscenza stabile non riesce a spiegarel’anelito umano al conoscere e ad una comunicazione che, in realtà, nondovrebbe mai riuscire a portare a compimento il desiderio che la muove,ovvero la con-divisione. Proprio il com-unicare è, per Nicol, provadell’errata concezione della ragione di cui Ortega si fa portatore; comu-nicazione che è condizione della possibilità di una conoscenza comune,a partire dalla datità di un essere comune: «intendere non è altro chel’operazione di “porsi dal punto di vista altrui”, così che quando si trattadi verità, e non di percezioni, il cambio di posizione lo effettua il logos,che è allo stesso tempo parola e comprensione, ossia ragione vitale».130

Un’autentica ragione vitale deve potersi occupare della vita nel suo es-sere “essere dell’ente che vive e conosce la vita”, e per questo deve poterconoscere l’essere, in quanto evidenza primaria e fondante, nella suastessa temporalità costitutiva.

3.4. Ontologia ed esistenza: Heidegger

La ragione, nel suo corretto operare, conosce sempre l’essere, a parti-re dall’essere dell’uomo. Tale conoscenza, però, è sempre storica: la sto-ricità è la forma costante dell’esistenza umana, ed è per questo chel’entità dell’ente si dà come mismidad – assunta consapevolmente nelcaso dell’uomo, proiettata e con-divisa nel caso di ciò che non è umano.La ragione, dunque, è costitutivamente storica e conoscendosi come taleconosce il suo essere. Per questo motivo, Nicol può affermare che essa èstorica e ontologica allo stesso tempo. Pensare la realtà in maniera cor-retta significa poterne conoscere il suo “essere espressione” nella con-

130. HE, p. 355.

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divisione del dia-logo tra esistenti. Il dia-logo, però, si sviluppa neltempo e questo significa che il conoscere e il conoscer-si consistono nelprendersi cura del tempo: «l’uomo ha la necessità di prendersi cura deltempo. Curare se stesso perché il suo proprio essere è tempo. La tempo-ralità che inerisce alla sua esistenza condanna all’evanescenza tutto ciòche ne emana, e noi non ci collochiamo bene nel fugace, nel fluente etransitorio, il che equivale a dire che non stiamo bene in noi stessi».131

Questa condizione è ciò che ci spinge, come abbiamo già avutomodo di vedere, alla ricerca di un fondamento stabile che sia refrattarioal “contagio del tempo”. Il fatto, però, di ri-scoprire la nostra trama co-stituita dalla stessa temporalità ha generato nel campo della ricerca filo-sofica una lacerante crisi che ha condotto l’uomo verso la perdita diquella che possiamo definire come la “verità circa se stessi”. Il fatto dinon potersi più poggiare su una base stabile intemporale ha provocato,come contraccolpo, il sorgere dell’idea che non vi sia niente di stabilenell’esistenza. Da qui, a parere di Nicol, nasce quella condizione di pro-fonda prostrazione che si esprime nello stato di angoscia o di nausea,modalità che appare come momento fondamentale dell’esistenza uma-na.132 Ciò che, però, è accaduto parallelamente all’interesse raccoltosi

131. HE, p. 380. È interessante notare come anche la riflessione di José Gaos tocchi laquestione della temporalità considerandola coincidente con l’esistenza stessa. In tal casoGaos riscontra la problematica del dire il tempo, in quanto significherebbe dire l’esistenzastessa – che, però, si dà solo come fattualità (cfr. J. Gaos, Dos exclusivas del hombre: la mano yel tiempo, FCE, México 1945). Come giustamente ravvisa Colonnello, in Gaos tale percorsoconduce all’impossibilità di dire il tempo, come impossibilità di oggettivar-lo (cfr. P. Co-lonnello, Tra fenomenologia e filosofia dell’esistenza, cit., p. 115). In Nicol, invece, la temporali-tà va assunta come dato di fatto e per questo non necessita di alcuna oggettivazione perchéè a partire da essa che è possibile conoscere.

132. Se il confronto con lo storicismo è avvenuto attraverso l’analisi delle posizioni diDilthey e di Ortega y Gasset, qui Nicol vuole mostrare come anche l’esistenzialismo cadavittima di un’erronea concezione dell’esistenza, in base alla stessa convinzione della perditadel punto di appoggio. Ciò che, però, nello storicismo si trasformava in una sorta di pregiu-dizio anti-metafisico, qui diviene profonda angoscia. Già abbiamo osservato, in principio dicapitolo, come Nicol consideri appartenenti alla stessa corrente esistenzialista sia Heideg-ger che Sartre, riconoscendo sì le differenze ma considerando come discrimine solo il fattoche in Heidegger sia fondamentale l’elemento ontologico. Il filosofo catalano sembra nonconsiderare in nessuna maniera il fatto che Heidegger non si ponga il problema esistenzialedal punto di vista “umanistico” e che proprio a partire da ciò si possa individuare la profon-da frattura che lo divide dal pensatore francese (cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo[1976], Adelphi, Milano 1995; J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo [1946], Mursia,Milano 1990; riguardo le relazioni, affinità e differenze tra questi due pensatori cfr. anche P.Thévenaz, La fenomenologia, Città Nuova, Roma 1969; M. Subacchi, Bergson, Heidegger,

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intorno allo studio di tale stato emotivo, è proprio la de-sostanzializza-zione del concetto di essere e la conseguente ri-verbalizzazione. Questa,per Nicol, consiste nel dire che «l’essere è atto, consiste nell’agire [ac-tuar], e la forma verbale che meglio rappresenta questa forma d’esserenon sarebbe tanto l’infinito quanto il gerundio: l’essere dell’ente è essen-do, ancora meglio essendosi».133 Se essere è essendo, la sottrazione diquella stabilità “intemporale” alla nozione di essere si riflette sull’esi-stenza umana condannandola in maniera ineludibile alla morte. Latemporalità è, dunque, annuncio di morte: «questa è la profonda ragio-ne […] per la quale in Heidegger l’esistenza autentica ci appare comeuna forma di morte».134 Se ad Heidegger bisogna riconoscere il meritodella ri-verbalizzazione dell’essere, è pur vero che bisogna fare i conticon la sua concezione di vita autentica intesa come essere-per-la-morte.135

Secondo Nicol l’analisi di Heidegger consegue alla stessa de-sostanzializzazione dell’essere ma non è l’unica possibilità: «quandosopprimiamo l’eternità, correlativa o opposta alla temporalità, ci ritro-viamo disperati, oppure ci assumiamo la responsabilità di tentare lasalvezza all’interno della stessa temporalità».136 Questo significa cheall’uomo spetta l’impegno di «salvarsi dalla morte, per lo meno in vi-

Sartre: il problema della negazione e del nulla, Atheneum, Firenze 2002). Secondo Nicol, anchel’angoscia rientra in una lettura esistenziale e non ontologica, ed è la sua erronea considera-zione di questa tonalità emotiva che impedisce ad Heidegger di giungere a comprenderel’autentica storicità di quell’essere che si manifesta come primum e si comunica comeespressione.

133. HE, p. 381. Per actuar intendiamo porre in atto, attuare. Ogni azione, però, è un por-re in atto (cfr. J. Corominas (comp.), Diccionario Crítico Etimológico de la lengua castellana,cit.). Nel caso di Nicol, tale definizione assume un valore ancora più accentuato in quantol’uomo stesso è azione, porsi in atto.

134. Ibidem.135. «Il concetto ontologico esistenziale integrale della morte può ora essere riassunto

così: La morte, come fine dell’Esserci, è la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa ecome tale indeterminata e insuperabile. La morte, come fine dell’Esserci, è nell’essere di questoente, in quanto esso è-per-la-fine» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 315). La Cura delDasein, intesa come suo proprio essere, si connota come accettazione di quella possibilitàche è assunta dall’esistenza stessa nel suo attuarsi, ovvero la morte. In tal modo, nel suoessere più proprio, l’uomo ritrova la sua fine e l’angoscia che ne è legata, come momenticostitutivi. Cfr. F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, cit., pp. 141-150 e riguardo la questio-ne dell’originarietà dell’angoscia rispetto agli altri stati emotivi P. Colonnello, Melanconia,Guida, Napoli 2004, pp. 103-112.

136. HE, p. 383.

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ta»!137 Chiaramente, Nicol non pensa alla possibilità di diventare im-mortali, ma si interroga riguardo questo perenne anelito dell’uomo. Lostesso tentativo filosofico di porre l’essere al di là della temporalità in-dica che la vita umana si dispiega come tentativo di resistere al suo an-nichilimento. La storicità dell’esistenza, però, annullando l’ipotesi diuna base immutabile, sembra concedere solo la possibilità di una rasse-gnata accettazione della propria fine come qualcosa di inerente al nostroessere più proprio. Il senso del processo storico, allora, è quello di giun-gere al nulla? È a partire da questo interrogativo che possiamo tentare diindividuare i caratteri dell’altra possibilità che, secondo Nicol, ci è con-cessa con la stessa vita. L’idea di progresso, in questo caso, non ci puòaiutare in quanto la messa in crisi del senso dell’esistenza non riguardala possibilità di una salvezza che giunga attraverso il dispiegarsi dellastoria. La questione è ontologica perché affonda le radici nella strutturacostitutiva dell’essere umano, riconoscendo la morte come avvenimen-to necessario. Tale verità, fa sì che tutto sia posto sotto il regno del non-senso, dato che il mio essere ha un’esistenza che non sceglie, la quale vaverso la morte: «l’esistenza non ha il senso in origine, dato che fummo“gettati” in essa senza la possibilità di esprimere opinione o di scegliere;non lo ha alla fine, dato che nella morte si realizza “l’impossibilità diogni possibilità”; infine, manca di senso anche l’intervallo intermedioche è l’esistenza stessa, dato che qualsiasi azione “mondana” è connota-ta di in-autenticità e, essendo il nostro un essere-per-la-morte, l’unicapossibilità di cui disponiamo è quella di assumere la nostra precaria esi-stenza con la coscienza angosciata a causa della nostra situazione».138

Una tale situazione costringe la filosofia a vestire gli abiti di una ri-flessione frammentaria e destinata all’istante stesso in cui viene comu-nicata. La filosofia, riconoscendo la realtà nel suo autentico manifestarsigiunge al punto da doversi dimettere dal suo ruolo di conoscenza delreale in base alla transitorietà del senso. Di fronte a tutto ciò scorgiamoil fatto che nella sostanzializzazione dell’essere si nascondeva l’anelitoumano di resistere alla morte e con ciò di salvare il senso dell’esistenzastessa. Ciò non vuol dire che sia necessario tornare indietro, ma nem-

137. Ibidem.138. HE, p. 387. Riguardo la problematica dell’esistenza autentica cfr. M. Heidegger, Es-

sere e tempo, cit., pp. 148-221 e 325-358. Riguardo la “problematica” interpretazione che Nicoldà dell’heideggeriana concezione dell’angoscia cfr. M. L. Mollo, Introduzione in ME2, p. 33,nota 14.

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meno che questo anelito debba essere considerato una fantasia. Esso èforte e si mantiene costante nella storia, e la dimostrazione più evidenteè il fatto che l’uomo fugga la morte quotidianamente. Bisogna ri-partirema stavolta dall’evidenza dell’essere, dal suo essere tempo: «che l’esseresia tempo significa che sempre abbiamo a che fare con esso».139 La con-seguenza di tale affermazione è stata la perdita di quella che Nicolchiama la “fiducia”140 che avevamo prima nell’essere stesso, quando lopensavamo immutabile. Il problema dell’esistenzialismo consiste pro-prio nel dichiarare perduta questa “fiducia” «e non questa ombrosa sor-didezza dell’uomo rivelata attraverso la sua analisi, che in fin dei conti,non è che un’espressione circostanziale e derivata dall’autentico pro-blema».141

È in questo punto che si rivela pienamente la proposta nicoliana diuna filosofia che sia integrazione di conoscenza scientifica e sapienza,quest’ultima intesa come attenzione a quei principi che sono comuni equindi condivisibili da tutto il genere umano. Infatti, il pensatore cata-lano si chiede se un progresso della conoscenza che porta alla perditatotale di senso sia realmente legittimo, dato che coinciderebbe con unretrocedere di quella sapienza che è capacità di vivere pienamente. Se lavita non ha più senso come spiegare l’anelito alla vita? Questo anelito,creatore di valori ed espressioni dello spirito viene riconosciuto da unaforma di saggezza, la quale mai mette in discussione la possibilità diconoscere, in maniera primaria, la realtà. Ciò che la filosofia ha quasisempre definito come atteggiamento naturale, è davvero e completa-mente qualcosa di illusorio? Se il progredire di quella che chiamiamoconoscenza scientifica provoca la perdita di senso dell’esistenza, vuoldire che la conoscenza non riesce più a soddisfare l’anelito umano aldare ragione delle cose, separandosi definitivamente dalla vita, ma «allafilosofia spetta il compito di domandarsi se è legittimo che queste duecose si separino».142 Solo rispondendo a tale domanda, sarà allora possi-bile giungere ad un’autentica conoscenza in quanto conoscenza dellavita.

139. HE, p. 390.140. Nicol utilizza il termine confianza, ad indicare consapevolezza dell’affidabilità, in

quanto stabile, che l’uomo riponeva nell’essere come fondamento eterno e immutabile.141. HE, pp. 390-391.142. HE, p. 391.

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Il problema dell’interpretazione heideggeriana e di quell’esistenziali-smo che concepisce l’uomo come abbandonato di fronte al nulla è, se-condo Nicol, dovuto al non rendersi conto che tale teoria antropologicanon è del tutto slegata dalla propria condizione storica, ovvero dallapropria situazione vitale. Come già affermato nelle prime pagine dellaPsicología de las situaciones vitales, il focalizzare la propria attenzione suun determinato stato emotivo, è in realtà una scelta del tutto arbitraria.Se l’esistenza dell’uomo si manifesta come espressione condizionata dauna actitud, che può essere generata ma che sempre è frutto anche di unaprecisa scelta, uno stato emotivo non può essere “forma” immutabiledell’esistenza, ma solo espressione di una determinata situazione. Inmaniera coerente alla sua teoria esistenziale, Nicol considera la rifles-sione heideggeriana portatrice di un doppio messaggio: quello ontologi-co, con il suo importantissimo valore, e quello esistenziale, il cui valoreva in ogni caso ricondotto alla specifica situazione vitale vissuta dalfilosofo tedesco: «questa connessione tra una teoria dell’uomo e unasituazione vitale si produce in tutte le epoche storiche».143 Gli effetti ditale connessione sono visibili, per quel che riguarda Heidegger, nellasua concezione del uomo come Dasein. La Cura [Sorge], nella quale, peril pensatore tedesco, «l’essere dell’Esserci si rivela» come «unità dell’in-sieme delle strutture» che lo costituiscono, non può essere colta nel suovalore ontologico se non in relazione a quell’angoscia che genera «laforma di apertura in cui l’Esserci si porta innanzi a se stesso, e che ren-de questo stato emotivo fondamentale rispetto agli altri «in quanto pos-sibilità dell’essere dell’Esserci».144

In Heidegger, però, tutto questo deriva dall’essere-nel-mondo checaratterizza il Dasein come deietto. L’angoscia lo pone dinanzi a se stes-

143. HE, p. 392. Si può obiettare che anche la teoria dell’uomo elaborata da Nicol siasolo il frutto di una simile connessione e l’autore stesso, a nostro parere, non si opporrebbea tale giudizio. L’unica differenza, però, sta nel fatto che nell’elaborare la sua teoriadell’uomo, Nicol tenta di operare – e questo è visibile in maniera chiara ne La idea del hom-bre – una lettura teorica e storica dell’esistenza umana, tentando di rintracciare nelle diffe-renti epoche le stesse strutture dell’esistenza. Ciò che appare come costante è l’espressionecome manifestazione dell’essere umano e come conoscenza del reale. Ciò non toglie che,nel momento in cui l’uomo non dovesse più comunicare, l’espressione stessa non potrebbepiù assurgere al rango di categoria fondamentale. Questa possibilità, però, non potremmonemmeno raccontarcela.

144. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 228-229.

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so e al suo essere ente che si interroga sull’essere come ni-ente.145 Perquesto motivo, «l’analitica dell’Esserci, spingendosi fino al fenomenodella Cura, tende a preparare la problematica ontologica fondamentale,cioè il problema del senso dell’essere in generale».146 Per Nicol, abbiamo no-tato, non si dà la possibilità di conoscere questo senso, anzi il cercarlo èuna pericolosa illusione che può portarci a confondere le connotazioniesistenziali con quelle ontologiche. A partire dalle affermazioni di Hei-degger, Nicol si chiede se sia legittimo dedurre dalla deiezione che ca-ratterizza il nostro essere-nel-mondo, quindi la nostra esistenza comefactica,147 l’angoscia come tonalità emotiva che fa da condizione dell’esi-stenza autentica. Si ripropone la questione dell’autenticità, in base alfatto che l’anelito alla vita è per Nicol dimostrazione dell’impossibilitàdi considerare la morte come la possibilità più propria dell’uomo. «Que-sta angoscia, e di conseguenza questa forma peculiare di autenticità, siproducono in quell’uomo che manca di punti di appoggio esistenziale, ilquale, proprio per questo, può domandarsi se la sua esistenza abbia unsenso o meno […]. I fatti smentiscono che questa sia l’unica forma diautenticità».148 Secondo Nicol, sollevando la testa un attimo «all’ariaaperta della storia giungeremmo a sorprenderci di fronte al fatto che cisono uomini la cui esistenza si giustifica da sé».149 Così come ci sonouomini che vivono la propria esistenza senza subire il nefasto influssodell’angoscia descritta da Heidegger, è possibile incontrare anche altreforme di vita che possiedono un senso autentico a partire da qualcosache non sia il proprio non avere senso. L’esempio che Nicol fa è quellodel credente cristiano, il quale può giungere a provare angoscia in base aqualche avvenimento, ma che non incontra in tale esperienza l’autenti-cità della sua condizione: «il cristiano può provare un’angoscia autenti-ca, non quella alla quale si riferisce Heidegger, ma un’angoscia di soli-tudine, della quale espressione paradigmatica restano le parole dellaCroce: “Signore, perché mi hai abbandonato?”. Ma per un cristiano

145. Cfr. Ivi, § 40.146. Ivi, p. 230.147. Per factico intendiamo “effettiva”, “fattizia”. Il termina deriva dal latino factum, per

cui indica qualcosa di compiuto, attuale, presente (cfr. J. Corominas (comp.), DiccionarioCrítico Etimológico de la lengua castellana, cit.). Ci riferiamo, in questo caso, alla traduzioneche generalmente si dà del termine tedesco faktizität con fatticità o effettività.

148. HE, p. 394.149. Ibidem.

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l’umiltà non è tanto una virtù, quanto la condizione ontologica dellacreatura, dell’essere creato da Dio e posto da Lui nel mondo».150 A que-sto punto, resta da chiedersi se al di fuori di una possibile fede, non restiche riconoscere come esistenza autentica quella descritta da Heidegger.

Va sottolineato che, con questa affermazione, Nicol ha già “degra-dato” la heideggeriana condizione fondamentale del Dasein ad una dellepossibilità che l’esistenza umana può assumere. La riconduzione del-l’angoscia a mero atteggiamento caratteristico di una precisa situazionevitale, permette a Nicol di considerare l’angoscia come un “caso” dell’e-sistenza e non più come la condizione del rivelarsi di questa stessaall’ente che solo può interrogarsi su di essa. La condizione dell’essere-gettati nel mondo, costitutiva dell’essere del Dasein, dalla quale conse-gue il nostro fuggire in quanto posti dinanzi a noi stessi,151 è per Nicol,ancora una volta, una possibilità: «[l’uomo] deve porsi, senza dubbio, ilproblema della sua “fatticità”, ma non è necessario che si fissi su questo,e sull’angoscia che ne consegue (rivelatrice del nulla). In primo luogo,può benissimo non sentirsi “deietto” nel mondo, ma vincolato ad esso[…] – nel factum dell’esistenza ciò che interessa primariamente non èl’angoscia della deiezione, ma il senso proprio del vincolo. L’angoscia ètardiva e derivata: è la crisi momentanea del senso che, in una manierao un’altra viene sempre superata dall’esistenza, perché l’esistenza ècreatrice di senso, per natura e propria condizione».152 Risulta ormaievidente che piano ontologico e piano del senso, in una concezione me-tafisica ed esistenziale che assume l’espressione come categoria fonda-mentale, debbono obbligatoriamente coincidere. Nicol contesta a Hei-degger l’inversione dei termini, perchè il vincolo di senso creatodall’essere-nel-mondo precede la ricerca che mi conduce a scoprirmicome gettato. In realtà, anche Heidegger parte dall’essere-nel-mondoche per l’uomo è appunto “gettatezza”; a nostro parere, per tale ragionenon si può realmente parlare di un’inversione di termini, quanto di undivergere proprio a partire dalla mondanità dell’uomo: mentre questa inHeidegger è deiezione, e altro non potrebbe essere considerato che il ni-

150. Ibidem. Tale concezione dell’umiltà è comune anche ad Eckhart (cfr. Meister Ec-khart, I Sermoni, San Paolo, Milano 2002, p. 187) e da quest’ultimo la riprende anche Henryriconoscendola come condizione ontologica fondamentale (cfr. M. Henry, L’essence de lamanifestation, cit., p. 394).

151. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 232.152. HE, p. 395.

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ente è l’orizzonte che consente il manifestarsi dell’essere del Dasein; inNicol l’essere-nel-mondo è già essere in situazione, quindi espressivo diun vincolo che connota da sempre l’umana esistenza. Eppure l’uomonon sceglie la propria vita, quindi è gettato. Nicol non nega questa con-dizione ma afferma che qualsiasi uomo la riconosce a partire da unasituazione che è vincolo con il mondo, e vincolo costitutivo del suo es-sere in quanto espressione. La deiezione, dunque, caratterizza l’uomo,ma come possibilità che io riconosco come fatticità: «pensiamo che lacosa importante non sia tanto il fatto di “essere o stare nel mondo”,fatto indubitabile che è una determinazione ontologica dell’uomo, ma laqualità o il modo di stare, senza la quale viene neutralizzata153 la stessadeterminazione ontologica».154

Tale “neutralizzazione” può verificarsi se si perde il senso dell’esi-stenza che è, essa stessa, creazione di senso. La creazione di senso èl’espressione stessa, ecco perché l’angoscia può avere solo valore psico-logico mentre il vincolo con il mondo – che è espressione – ha un carat-tere ontologico. La neutralizzazione della qualità dello stare nel mondo,è neutralizzazione dell’autentica condizione, in quanto “qualità” è giàsenso, sebbene – e questo crediamo vada tenuto fermo – Nicol non af-fermi mai il contenuto qualitativo. Si potrebbe obiettare che anche lostato di angoscia è qualitativo. Se riconosciuto come momento dell’esi-stenza non c’è alcun dubbio, ma se considerato come forma dell’aprirsidell’uomo dinanzi al suo proprio essere come mancante di senso, dalpunto di vista nicoliano ci si trova di fronte ad una contraddizione: in-fatti uno stato qualitativo già mostra un senso che si radica in una si-tuazione e, pertanto, non può condurre alla caduta di ogni senso mentreesprime la relazione in cui si genera esso stesso.

«L’astrazione dell “essere-nel-mondo”, così come lo intende Hei-degger, consiste nel prescindere dal vincolo, e dal senso positivo chequesto ha di per sé […]. L’“essere-nel-mondo” è una pura determina-zione di posizione, come se l’uomo, nel ritrovarsi già esistente, dovesseproporsi il compito di creare vincoli e scoprisse che nessuno di essi hasenso. Essendo evidente che non può esistere così neutralizzato, indiffe-

153. Nicol utilizza il termine neutralizada, ma in questo caso come in quelli seguenti contale vocabolo si intende la messa fuori gioco di qualcosa, annichilendo la sua azione, in baseall’avergli sottratto il senso. Così la neutralizzazione è conseguenza della neutralità. Il ren-dere neutrale, neutralizza.

154. Ibidem.

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rente, come il punto tra le coordinate, sente angoscia per l’abbandono ela solitudine […]. Ma questa non è la sua situazione originaria, la suacondizione radicale o autentica, la sua determinazione costitutiva: que-sta è piuttosto la crisi della sua autenticità, la negazione del caratterepositivo che possiede, ontologicamente, il vincolo che lega l’uomo alsuo mondo. […] Tutto ha senso, compresa la mancanza di senso. […] Siintende dire che nulla nell’ambito dell’umano può essere indifferente.L’uomo è l’essere del senso perché è l’essere che dà senso. […] L’uomoha senso al momento, per il solo fatto di essere presente e il dubbio ri-guardante il senso non è che un’altra forma di senso: il controsenso».155

L’angoscia di cui parla Heidegger ha senso solo nel momento in cuil’esistenza si riconosce come proiettata sullo sfondo del nulla, restando,da questo stesso, nullificata – in quanto neutralizzata –. Il nulla è ciòche rende neutrale, è «il grande nientificatore, il grande principio diindifferenza», di fronte al quale sembra aver senso solo «l’impossibilitàdi qualsiasi possibilità, che è la morte», come giustamente afferma Hei-degger.156 L’uomo, però, non è indifferente, perché non lo è il suo esse-re.157 Solo a partire dalla neutralizzazione dell’esistenza è possibile com-prendere perché Heidegger concepisca la possibilità di una vita inauten-tica.

Tale inautenticità implica l’ignoranza della problematica di ciò checonsegue alla “gettatezza” e «il banale abbandono alle attenzioni quoti-diane e quell’anonimità che diluisce l’esistenza nel mondano».158 L’esi-stenza autentica non deve affatto abbandonare tali attenzioni ma, notaNicol, assumerle con la “riserva mentale” che ognuna di esse in realtànon ha alcun senso. A questo punto, secondo il pensatore catalano, ènecessario domandarsi se è l’angoscia, come momento di verità riguar-do la propria esistenza, a generare tale annichilimento del senso o senon sia stata, invece, la crisi prettamente storica del senso a motivarel’elaborazione di tale concetto di angoscia esistenziale. Se la secondaipotesi fosse quella corretta, allora nella riflessione heideggeriana si sa-rebbe verificata una peculiare deformazione: «in questo caso, la tradu-

155. HE, p. 396.156. HE, p. 397.157. Le affermazioni di Nicol si fondano, in maniera velata ma ben riconoscibile, su

quella vocazione alla vita che caratterizza il soggetto come hormé vocacional (cfr. nota 276del presente lavoro).

158. HE, p. 397. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, § 60.

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zione in concetti filosofici di un’esperienza soggettiva, perfettamentelegittima in sé, non avrebbe rivelato la struttura del soggetto in generalema dei caratteri transitori, personali e circostanziali, ai quali sarebbestato conferito il titolo di caratteri costitutivi e la cui supposta univer-salità può assumere plausibilità in base all’estensione di una crisi che, inquanto storica e non individuale, coinvolge giustamente molti indivi-dui».159 La possibilità che quest’ipotesi sia corretta, come in realtà credelo stesso Nicol, indica che «la classificazione delle forme di esistenza inautentica e inautentica è, nei termini presentati [da Heidegger] pococorretta, perché non riceve conferma dalla reale storia dell’uomo, dallastoria del suo essere».160

L’essere dell’uomo, nel suo sviluppo storico, mantiene la forma sta-bile dell’espressione, ma tale stabilità può essere carattere solo dellastruttura e non di una tonalità emotiva. La possibilità che l’uomo si ri-conosca già in relazione e che la gettatezza sia il frutto di una riflessioneche prescinde da tale condizione dia-logica, mostra l’angoscia non comeconnotazione dell’uomo posto dinanzi al suo essere, ma come illusionedovuta all’astrazione dell’uomo stesso dalle relazioni che come tale locostituiscono: «per questo da una parte diciamo che l’“essere nel mon-do” è una costante, ma dall’altra che il modo di essere che Heideggerdescrive è variabile».161 Il fraintendimento in cui incorre Heidegger èquello, già menzionato, di voler rintracciare il senso dell’essere in quan-to tale dando una risposta alla domanda circa l’essere. Risposta che è,per Nicol, fuori dalla nostra portata, in quanto non c’è alcun essere darintraciare oltre il fenomeno che, di per sé, è autentica presenza dell’es-sere. Rimanendo ancorati alla domanda circa il senso dell’essere, Hei-degger non solo non riesce a rispondere ma, alla fine, si rifugia in unnulla che ha le connotazioni più di un’esperienza soggettiva che di unacategoria onto-logica162: «non v’è teoria o logos del nulla, solo allusionead un’esperienza soggettiva radicalmente ineffabile, nella quale il nulla sirenderebbe evidente».163 L’esistenza si innesta nel nulla dal quale sorge:«dunque, se la conoscenza dell’essere dipende dal nulla, questa non sarà

159. Ibidem.160. HE, pp. 397-398.161. HE, p. 398.162. Cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica? [1929], La Nuova Italia, Firenze 1995, pp.

19-20; Id., Kant e il problema della metafisica [1929], cit., p. 226.163. HE, p. 404.

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razionale». Ciò, però, non è evidente, anzi proprio la differenza ontolo-gica tra essere ed ente, sottolineata da Heidegger in maniera esemplare,è per Nicol conferma del fatto che la nostra conoscenza non può rivol-gersi all’essere in quanto tale: «sebbene non si trovi mai l’essere separa-to dall’ente, ente e fatto d’essere non sono la stessa cosa. Di questo fattod’essere abbiamo una conoscenza pre-ontologica: gli uomini dispongonodi una vaga comprensione dell’essere, previa a qualsiasi verifica ontolo-gica. La nostra conoscenza dell’essere, in quanto distinto dall’ente, sideve riconoscere limitata a questa comprensione […]. Possiamo parlaredell’ente e saperne quanto desideriamo, ma in cosa consista essere non losapremo mai. Saperlo implicherebbe la capacità di rispondere alla do-manda: “perché l’essere e non il nulla” con la quale Heidegger conclude,senza darvi risposta, il suo studio sul nulla».164

L’errore radicale, di volersi spingere oltre la propria possibilità cono-scitiva ricadendo in una forma soggettiva di lettura dell’umana struttu-ra, fa sì che in Heidegger manchi una vera e propria comprensionedell’umano «che mai è certa se pretende di essere solo intellettuale, sen-za il calore della simpatia, dell’indulgenza e della compassione. […] IlDasein di Heidegger si traduce come l’“essere qui”. L’uomo è il Dasein,l’essere che sta qui, ma la maniera nella quale ce lo presenta Heideggernon può tradursi con l’ecce homo, ecco qui l’uomo, dato che l’essere chesta qui non lo riconosciamo come l’uomo nella sua integrità».165 Così, larelazione necessaria col niente, come fondamento, assume anche laforma di direzione obbligatoria verso la quale muove l’esistenzadell’uomo. La morte, che Nicol non concepisce affatto come la possibili-tà più propria dell’uomo, è la relazione esemplare con il niente, «l’unicoatto della vita che si compie fuori della comunità, e attraverso il qualeviene meno l’”essere-nel-mondo”».166 Dire “relazione” in questo casonon è corretto: la morte avviene fuori da ogni dia-logo, per questo èproblematica definirla come possibilità, anzi essa si manifesta comequalcosa che viviamo solo nella morte di qualcun altro.167 Anche in tal

164. HE, p. 405. Domanda che Heidegger coniuga con l’interrogarsi del Dasein sullapropria forma d’essere facendole anche assumere la forma “perché, infine, l’essente e nonpiuttosto il niente?” (Cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, cit., pp. 33-34).

165. HE, p. 406.166. HE, p. 409.167. È interessante notare che proprio a partire da tale questione si differenzino anche

le concezioni di Heidegger e Lévinas. Quest’ultimo, infatti, considera impossibile concepire

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caso, dunque, il nostro è un sentire che riguarda il crollare di un sensoin quanto ci chiediamo cosa sia questo vuoto verso il quale ci sembra diandare e tale pensiero ci riporta a quello di un vuoto originario. Questovuoto, come l’essere in quanto tale, non può essere ri-conosciuto, quindiconsiderato in maniera rigorosa dalla riflessione filosofica. Il solomodo, secondo Nicol, di concepire correttamente il ni-ente è quellodell’individualità, intesa come limitazione, e quello della possibilità.Modi, questi, che non pongono il “non” come assoluto ma sempre comearticolazione declinabile all’interno dell’essere stesso. Il ni-ente è possi-bilità così come la libertà stessa dell’uomo non è mai libertà di farequalsiasi cosa, altrimenti non esisterebbe la necessità di scegliere.

In tutto questo discorrere, che posto ha dunque il problema dellamorte? Se il suo manifestarsi come tratto distintivo dell’esistenza non ècorretto e se essa non è nemmeno possibilità dell’impossibilità, dunquecos’è e come si colloca nella vita umana? Secondo Nicol, «l’esistenza è inse stessa una negazione della morte, non secondo un deliberato propositodell’uomo, ovvero per volontà soggettiva di non morire, di non ricor-darsi della morte o di sopravvivere dopo di essa. La vita nega la morteprecisamente perché la contiene. La vita e la morte sono termini dialetticidell’esistenza».168 L’autentica esistenza non consiste nella consapevo-lezza di quell’angoscia nella quale ci si manifesta il nostro essere comeessere per la morte, bensì «nell’accrescere l’esistenza accettando la mor-te, tenendola presente, ma lottandole contro nel presente, vincendola inogni momento. Ogni atto della vita è una vittoria contro la morte. Senza lamorte non si avrebbe vittoria, senza atto non si avrebbe vita. Si dirà chealla fine vince la morte. È vero, ma saperlo non annulla la gioia dellastessa lotta. La morte, tanto potente, non può impedire l’allegria; deveaccettarla, perché l’allegria è parte della vita, e per questo anche dellamorte. La morte stessa non è completa, non è autentica, quando è terminesolo di tristezza e disperazione, e non termine della tristezza, del dubbioe dell’allegria. L’autenticità della morte dipende dalla pienezza della

la morte come possibilità proprio in base al suo darsi solo nella morte altrui. Pertanto lamorte si manifesterebbe sempre e solo come mistero, ovvero qualcosa che mi ri-guarda (sirivolge verso me continuamente) ma che, mentre sento come mia connotazione, allo stessotempo mi sfugge e mi spinge verso la fuga (cfr. E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo [1993],Jaca Book, Milano 1996).

168. HE, p. 415.

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vita».169 In realtà, anche in Heidegger l’essere-per-la-morte indicaun’accettazione della propria condizione che non rende inutili le sceltecompiute quotidianamente. Nicol, però, sottolinea il fatto che la conse-guenza di tale condizione umana non sia la perdita del senso, proprio inbase al vincolo che ci lega al mondo e che nella morte trova un enigmacontro il quale lottare. La lotta è di per sé già risolta nella sconfitta ma, equi entra in gioco l’anelito alla vita presente nell’uomo, il fatto che sipossa dubitare della fine totale è già dimostrazione di un’esistenza cheingloba la morte e sa accettarla attraverso una condivisione di senso cheè com-unità. Resta, però, da dire che la morte è presente nell’esistenzasempre e solo come “idea della morte” in quanto non può essere esperi-ta. Anche dire che quando v’è morte non v’è esperienza è qualcosa chepuò dire chi resta in vita. Dunque, la morte è inglobata nell’esistenza inquanto idea e quindi espressione. Per Nicol, però, non può essere possi-bilità perché non fruibile, non espressiva.

L’interrogarsi dell’uomo circa il suo essere e circa l’essere in generaleè, per Nicol, legato al suo essere vincolato con il mondo e mostra comel’uomo sia onto-logico, in quanto sempre necessitato ad occuparsidell’essere. «Potrebbe, però, essere che l’interesse dell’uomo non riguar-di tanto l’essere stesso, in quanto tale, quanto il parlare»; è giusto, dun-que, chiedersi il perché del nostro interesse verso l’essere, «magari ladomanda potrebbe chiarire più cose della stessa risposta».170 La relazio-ne dell’uomo con l’essere, al di là del suo stesso “essere essere”, non è,secondo Nicol, qualcosa di meramente scientifico: al “perché” che inter-roga, il por qué, si risponde con il “perché” finale, il para qué. «All’uomonon interessa l’essere di per sé, per conoscerne, per fare ontologia; nongli interessa per parlarne, e comprenderlo, ma per parlare con gli altri, eintendersi. Per parlare con il prossimo».171 L’ontologia non è un saperedell’essere ma un sapere “per essere”. Il dado è tratto: l’evidente connes-sione tra filosofia e sapienza si manifesta pienamente in quest’afferma-zione, che sola motiva l’opporsi di Nicol alle varie concezioni della ra-gione che non siano al servizio della vita. Che lo si chiami o meno vita-lismo, questo indirizzo di pensiero, vero è che la ragione, la conoscenzae ogni attività umana, sono autentiche se con-formi alla vita, ovvero

169. HE, pp. 415-416.170. HE, p. 418.171. Ibidem.

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attuantisi al fine di vivere pienamente. Ogni ri-conoscere una strutturadel nostro essere deve permetterci questa vita autentica corrispondenteal nostro essere “esseri del senso”. Di fronte a tale questione, risultavisibile l’abisso che separa Nicol da Heidegger, al di là delle considera-zioni affini: «l’individualismo radicale di Heidegger […] si rivela inquesta sua idea di una ontologia che consiste in un sapere dell’essere, enon in un sapere per essere. Dobbiamo parlare dell’essere, ma lo faccia-mo solo con esso; non parliamo a nessuno né per nessuno: da qui il pre-valere ontologico del nulla sull’essere. La parola, il verbo, il logos, hasmesso, così, di essere mezzo di comunicazione tra esseri, per occuparsi,invece, dell’essere. Nonostante la sua mondanità e il suo “essere con”, ilDasein è una monade con le finestre più chiuse di quelle descritte daLeibniz. Come è stato possibile non rendersi conto che la cosa decisiva,nella domanda che interroga circa l’essere, più che l’essere in quantologico, è il logos in quanto umano?».172

L’uomo parla dell’essere per parlare all’essere del prossimo, e cosìapprossimar-vi-si. Ogni Dasein con-esiste con altri Dasein, in quantopartecipano dello stesso mondo e si uniscono attraverso lo stabilirsi direlazioni che determinano il loro essere uomini: «la convivenza nonconsiste nello stare uno accanto all’altro, ma nell’unirsi l’uno con l’altro,appropriandosi dell’altrui esistenza e incorporando la propria in quelladell’altro» e la parola è il mezzo che permette tutto ciò.173 Essendo cosìla situazione, la teoria della ragione non ha il compito di mostrarci co-me si conosce la realtà, ma principalmente come possiamo autentica-mente intenderci tra noi riguardo la realtà: «non c’è teoria della cono-scenza che possa essere considerata completa se non tiene in conto ilfatto fondamentale della comunicazione, il quale, sebbene velato dallarelazione di conoscenza, opera su quest’ultima in maniera decisiva».Secondo Nicol, «il conoscere non può ridursi alla tradizionale relazionesoggetto-oggetto […]. La relazione, per poter effettuare una compren-sione completa, deve abbracciare i tre termini soggetto-oggetto-sogget-to, dei quali il secondo soggetto è “il prossimo”, nella pienezza dell’ac-

172. HE, p. 419. Non è casuale, a nostro parere, che Kostas Axelos, discepolo di Heideg-ger, abbia elaborato una concezione dell’uomo come frammento del mondo che, insiemeagli altri frammenti-uomini, attraversa una vita senza mai poter ricomporre il quadroormai infranto della realtà dell’essere (cfr. K. Axelos, Le jeu du monde, Editions de Minuit,Paris 1969; Id., Pour une ethique problematique, Editions de Minuit, Paris 1972).

173. Ibidem.

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cezione vitale che ha tale parola. Questa relazione triangolare della co-noscenza è dialettica perché qualsiasi conoscenza è dialogo: implica,attende o anticipa un dialogo».174 Non possiamo dialogare con l’essere,quindi il conoscere puro è mera astrazione: «il principio del sapere per ilsapere non solo è un’aberrazione in base alle conseguenze storiche chegenera, ma anche perché è la forma più acuta che può assumere questoconoscere mutilato quando si riconosce distaccato dall’interlocutore».175

Si parla sempre di qualcosa per qualcosa e per qualcuno: «Il monologonon esiste, ogni logos è dialogo ed è più importante l’altro termine deldialogo, ovvero l’interlocutore, che l’oggetto stesso».176 Questo, perchécosì come non ci si può intendere se non parlando della realtà, così que-st’ultima non può essere intesa senza essere comunicata, dunque il no-stro parlarne è sempre in base alla comunicazione con il prossimo.

Tutto ciò, «accade anche quando il logos giunge al massimo del suorigore e aspira a farsi rappresentativo della realtà, pienamente oggettivoe disinteressato. Il logos non può mai smettere di essere umano e, perquesto, inter-umano».177 La conoscenza trascende sempre la soggettivitànon perché sia relazione con l’oggetto, ma “tra soggetti”: «senza teoriadella comunità non v’è conoscenza».178 La teoria della comunità è stata,da noi, già presa in considerazione nel momento in cui ci siamo soffer-mati sul generarsi della idea del hombre e del suo comunicarsi e trasfor-marsi attraverso quel processo storico di manifestazione a sé e modifi-cazione dell’essere dell’uomo che chiamiamo cultura. Il processo cultu-rale mostra l’uomo nella sua condizione di ser histórico: «l’esseredell’uomo ha storia»179 ma questo è possibile perché la sua individualità èsempre compresa in una comunità che si nutre di essa lasciandosenecondizionare e condizionandola. Lo stile di vita dell’individuo, di cuiNicol parla nella Psicología de las situaciones vitales, assume la sua veste

174. HE, p. 420. Cfr. E. Nicol, The return to Metaphysics, «Philosophy and Phenome-nological Research», 12 (1961), p. 34; M. González García, Eduardo Nicol: una respuestafilosófica actual desde la tradición, cit. , pp. 46-47.

175. Ibidem. Sulla questione del logos come dia-logo in riferimento alla concezione cheNicol giustappone a quella di Heidegger cfr. M. L. Santos, Nicol y Heidegger, indicacionessobre una divergencia fundamental in Eduardo Nicol. La filosofía como razón simbólica, cit., pp.119-127.

176. Ibidem. Cfr. E. Nicol, Los principios de la ciencia, cit., pp. 67-73.177. HE, p. 421.178. Ibidem.179. HE, p. 25.

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di cultura quando diviene stile di una comunità, ma in entrambi i casi ègià, per Nicol, stile espressivo dell’essere. La critica della ragione, elabo-rata da Nicol, con l’intento di mostrare la realtà razionale come base diogni comprensione del reale – che, in quanto comprensione, non è soloconoscenza scientifica – si mostra monca se a partire da essa non è pos-sibile individuare un metodo che non sia altro che il rivelarsi del corret-to ragionare a partire da quell’essere che è alla vista e secondo la struttu-ra di quella ragione che in questo essere si radica riconoscendolo neldia-logo. Si rende necessario, dunque, un discorso che riguardi il meto-do ma che, interessando quella ragione che ha ribaltato la questionedell’essere ripristinandolo come “dato” non verificabile, in quanto giàevidente, non può che manifestarsi, in campo metodologico, come con-tro-discorso .

3.5. Il contro-discorso del metodo

L’idea di ragione esposta da Nicol mostra, in maniera evidente,l’intento sotteso al suo filosofare, ovvero quello della rifondazionedell’unità dei saperi. Il “discorso sul metodo” sarà, dunque, fondazionedel sapere ma solo in quanto riconoscimento della relazione tra essereed essere della ragione. Il metodo non può darsi se non a partire da unaragione già in atto, quindi in relazione con la realtà. L’uomo, come giàabbiamo notato a proposito della situación, è sempre inserito in un si-stema di relazioni, ragion per cui «si potrebbe dire che il metodo rap-presenta l’autoscienza del sistema: è il promemoria dei compromessiche ad ogni passo la costruzione teorica contrae».180 Questi “compro-messi”, però, non riguardano gli aspetti contenutistici del conoscere,bensì quei tratti distintivi il cui insieme ci permette di individuare lacorretta concezione dell’umana conoscenza. Compromesso, allora, è lacondizione alla quale la ragione non può sottrarsi nel suo stesso attuarsicome ragione; il fondamento che condiziona la sua stessa maniera direlazionarsi all’oggetto di conoscenza. Per questo motivo, ciò che inpassato fu inteso come discorso “del” metodo non deve essere confusocon questo che, invece, vuole essere “sul” metodo. Un discorso del ge-nere non potrà essere “autocoscienza” di una filosofia ma “della” filo-

180. CRS, p. 153.

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sofia. Il sottolineare la differenza che intercorre tra il “del” e il “sul”, inriferimento al metodo, sembra ricondurci al Discours de la méthode carte-siano, il cui titolo parrebbe tradire quella specificità che Nicol vuolesuperare. In realtà, si può affermare con certezza che, nonostante i fra-intendimenti che il pensatore catalano afferma di riscontrare nella fon-dazione della scienza elaborata da Descartes, l’obiettivo polemico delsuo “contro-discorso” non è tanto il metodo cartesiano, quanto quelleteorie che frammentano l’unità del sapere laddove precisano la diffe-renza tra ambiti conoscitivi in base all’oggetto conosciuto.181 SecondoNicol, infatti, al differente tipo di oggetto della conoscenza non corri-sponde una ragione differente, tantomeno una facoltà, bensì una meto-dologia particolare.182 Quest’ultima, in quanto relazionata alla ragionenella sua unità costitutiva, deve essere ramificazione dell’unico metodopossibile. Non va, infatti, dimenticato che il metodo cartesiano era statoelaborato al fine di costituire l’unica via all’autentica conoscenza in ge-nerale, e che la chiarezza e la distinzione avrebbero dovuto caratterizza-re qualsiasi dato conosciuto in maniera certa ed effettiva.183

181. Riguardo il significato che il termine “metodo” ha assunto in ambito filosofico,Abbagnano considera la possibilità che esso indichi una tecnica o un preciso procedimentoda seguire al fine di conseguire determinati risultati, oppure che tale termine si identifichicon una dottrina particolare (per esempio in Hegel o Descartes). Nel caso di Nicol non sitratta di un procedimento ma, come ci accingiamo a osservare, semplicemente di un rico-noscimento del modo di funzionare della ragione stessa. Riguardo il metodo in generale cfr.N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, cit., p. 581.

182. La critica è chiaramente rivolta alla concezione di una “ragione pura”, “pratica” o“storica”, nel momento in cui queste tre ragioni sono separate l’una dall’altra – non perchènon siano localizzate nello stesso individuo, ma nel senso che si riferiscono a facoltà diffe-renti tra loro non conciliabili –. Se, al contrario, Dilthey, nel determinare il compito dellafondazione delle scienze dello spirito, afferma che essa deve riferirsi a tutte le classi del sa-pere, è perché è ben conscio delle difficoltà alle quale si andrebbe incontro in caso contrario(cfr. W. Dilthey, Critica della ragione storica, capitolo I, paragrafo I). Il problema restaquello di una definizione delle classi del sapere. Per Nicol, il riferimento al sapere inteso insenso kantiano, nel suo eludere la questione ontologica, non si mostra come una soluzionesoddisfacente. Per questo, pur avendo intuito il fondo della questione, Dilthey non riescead individuare, secondo il pensatore catalano, una soluzione che soddisfi tutti i punti divista.

183. «non comprendere nei miei giudizi se non quello che si presentasse così chiara-mente e distintamente alla mia mente, da non lasciarmi possibilità di dubbio» R. Descartes,Discorso sul metodo, cit., p. 59. Tale affermazione riguarda qualsiasi possibile conoscenza, dalcampo delle scienze naturali a quello della riflessione morale – sebbene proprioquest’ultima si sia dimostrata essere il banco di prova del pensiero cartesiana che mai rag-giunse un’idea precisa sulla questione, rifugiandosi in quella che lo stesso filosofo francesedefinì come “morale provvisoria” –. Come riconosce Koyré, il discorso sul metodo elabora-

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Se Descartes può parlare di “ben condurre la propria ragione”,184 èperché deve essere possibile condurla anche in maniera non corretta,giungendo a conclusioni erronee. Si pone, dunque, sin da subito la que-stione della relazione esistente tra ragione e realtà. Su questo punto ver-te la riflessione nicoliana sul metodo e, a partire dall’analisi della posi-zione cartesiana, si sviluppa seguendo la traccia della già menzionata“critica della ragione”. Il tentativo cartesiano di fondare l’edificio dellescienze su un’evidenza che Nicol definisce “esistenziale”, sembra dareestrema solidità al suo pensiero, a patto che tale evidenza possa essererealmente assunta come fondamento, «infatti è possibile sospettare chenella metafisica cartesiana ciò che è decisivo non sia l’evidenza ontolo-gica, bensì il dubbio ontologico».185 Il problema sta nel verificare il valo-re che Descartes assegna a tutto ciò che può cadere vittima del dubbiometodico, restando così “in sospeso”. L’analisi riguardante tale questio-ne viene condotta da Nicol seguendo la stessa modalità utilizzata perstudiare il ruolo e il valore dell’angoscia heideggeriana. Infatti, il pensa-tore catalano afferma che è necessario distinguere tra «la situazionecartesiana e l’operazione cartesiana».186

Nella situazione è possibile riscontrare cosa ha generato l’operazionee determinarne, quindi, il valore. La “situazione cartesiana”, viene de-scritta dall’autore nella parte prima e seconda del suo Discorso, ed è ca-ratterizzata da uno stato di crisi generato dal fatto che le scienze, strut-turate in base a ciò che veniva riconosciuto come loro fondamento, nonriuscivano più a soddisfare l’idea di conoscenza chiara ed evidente chelo stesso filosofo francese aveva. Il dubbio metodico si mostra, allora,come l’unica possibilità di rottura con un passato “scientifico” che nonriesce più a dare ragione della realtà. L’operare di tale dubbio mette “traparentesi” il valore reale di tutto ciò che non si presenti di per sé evi-dente.187 Secondo Nicol, il fatto che lo stesso Descartes possa dubitare,

to da Descartes non si dissocia da quella tradizione di trattati sul metodo aventi caratteregenerale, come ad esempio il Novum Organum di Bacone: «qual è questa chiarezza che dob-biamo cercare? Qual è quest’ordine che dobbiamo seguire? Quali sono queste cose semplici efacili con le quali dobbiamo incominciare? È nella risposta a queste domande che consiste lariforma cartesiana» (A. Koyré, Lezioni su Cartesio, Tranchida, Milano 1996, p. 34).

184. Il titolo stesso del suo Discorso è Discours de la méthode pour bien conduire sa raison etchercher la verité dans les sciences.

185. ME, p. 175; ME2, p. 157.186. Ibidem.187. Cfr. parte quarta del Discorso sul metodo, cit.

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anche solo di essere in stato di veglia, dovrebbe far sì che ad essere postain dubbio sia la scienza, non l’esistenza. Effettivamente, il fatto chel’evidenza-base del pensiero cartesiano sia quella espressa attraverso laformula cogito ergo sum, ci induce a pensare che Descartes non abbia maisospeso l’esistenza; Nicol, però, con il termine “esistenza” non intendesolo la percezione che Descartes ha del suo esistere, ma di tutto ciò cheesiste, anche perché, l’esperienza del proprio esistere, secondo la teoriadelle situazioni vitali, non si dà senza la simultanea comprensione dellatrama di relazioni nella quale siamo immersi. Considerare questa tramaesistente solo come “realtà mentale” è possibile, anche se ciò ridurrebbel’uomo ad una sorta di monade leibniziana. Il fatto che non vi sia unacomprensione del reale, o presunto tale, senza che vi sia comprensionedella relazione – che è espressione, quindi azione – non fa da garanziaall’effettività di tale realtà, ma di sicuro garantisce l’impossibilità dieffettuare completamente quella epoché che si proponeva di attuare De-scartes attraverso l’impiego del dubbio metodico.188

3.6. Metodo fenomenologico

Il dubbio metodico può essere esercitato su tutto ciò che esiste manon sull’esistere, che non è individuale, proprio in quanto io mi perce-pisco già in relazione. L’io non esiste se non in quanto termine di unasituazione vitale, per cui concepire cogito come manifestazione diun’evidenza significa sottolineare l’evidenza di una situazione vitale.L’essere sempre in situazione ci obbliga a tenere presente ciò che costi-tuisce questa relazione. Per questo motivo, il metodo dovrà partire daldato di fronte al quale sempre siamo, ovvero dal fenomeno. Il metodo,secondo Nicol, dovrà essere fenomenologico «ma non può mantenere

188. Non esiste la garanzia assoluta che la realtà che ci circonda non sia una nostra rap-presentazione mentale. Ciò che ci permette di supporlo è il fatto che non dominiano talerappresentazione, il che lascia pensare che vi sia qualcosa al di là della nostra coscienza.L’interpretazione di questo “al di là” e il continuo riferimento che vi facciamo determina ilnostro modo di concepire l’esistenza. L’importanza di Nicol sta nell’aver centrato il propriodiscorso sull’espressione, a partire dal fatto che che la nostra concezione del reale, si modi-fica, perfeziona e corregge attraverso la comunicazione – non solo orale o scritta – del realestesso, che questa sia effettiva o meno. Dal momento che l’espressione esprime sempre unarelazione, la realtà è sempre relazionale. Riguardo la critica nicoliana nei confronti del me-todo cartesiano cfr. anche E. Nicol, La reforma de la filosofía, FCE, México 1994, pp. 62-70.

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fede alla fenomenologia di Husserl».189 L’imperativo husserliano di an-dare alle cose stesse non permette di essere fedeli all’autore di tale af-fermazione. Prima di mostrare il perché, va necessariamente tenutopresente che, sebbene la fenomenologia intesa come corrente filosoficasi sia costituita a partire dalle opere di Edmund Husserl,190 tale termineera già stata utilizzato, in ambito filosofico, da Hegel e Lambert.191 Ni-col considera che parlare di fenomenologia significa tirare in ballo tuttigli altri pensatori che, nonostante le rispettive differenze, possono esse-re considerati appartenenti a tale corrente, quali Heidegger, Scheler,Hartmann, Stein, Fink, per non parlare di quella corrente che ha assun-to il nome di “fenomenologia francese” alla quale possono ascriversifilosofi quali Sartre, Merleau-Ponty, Lévinas, Marion, Henry edell’influenza che ha avuto sulla filosofia italiana, in particolare nell’o-pera di Enzo Paci.192 La fenomenologia si presenta come una corrente dipensiero fondantesi su un’impostazione che ha dato e continua a darecontributi estremamente originali e che, nel suo stesso costitursi comefilosofia, ha apportato una rivoluzione dal punto di vista teorico. Del“pensare fenomenologico” Nicol considera fondamentale l’invito a ri-

189. ME, p. 176; ME2, p. 158.190. Si può parlare di fenomenologia come specifica posizione filosofica a partire dalla

pubblicazione, da parte di Husserl, delle Logische Untersuchungen [1900-1901]. In seguito visarà anche una rottura tra il maestro e i discepoli in seguito a quella “svolta” trascendentale,che assumerà la fenomenologia husserliana, testimoniata attraverso la pubblicazione delprimo volume di Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie[1913].

191. In Lambert, la Phänomenologie costituisce la quarta sezione del suo Neues Organon[1764], nel quale la fenomenologia «non è che la dottrina che ci aiuta a superare la dimen-sione soggettiva dell’apparire, distinguendo ciò che nell’apparenza è conforme al reale daciò che invece compete alle forme del suo apparire»; per quanto riguarda Hegel, la Phäno-menologie des Geistes «ha per oggetto la concatenazione necessaria delle figure provvisorie incui si manifesta lo spirito che perviene alla piena coscienza di sé» (V. Costa, E. Franzini, P.Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002, p. 5).

192. Riguardo l’idea di fenomenologia elaborata e sviluppata da Husserl, anche in rap-porto ad alcuni dei suoi discepoli cfr. V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia,cit.; per quel che concerne le diverse scuole fenomenologiche e i rispettivi membri cfr. H.Spiegelberg, The phenomenological movement: a historical introduction, Nijhoff, The Hague1960; riguardo i rapporti tra fenomenologia tedesca e fenomenologia francese cfr. B. Wal-denfels, Phénomenologie francaise et phénomenologie allemande, L’Harmattan, Paris 2000; infine,riguardo l’opera di Paci cfr. E. Paci, Idee per un’enciclopedia fenomenologica, Bompiani, Milano1973; S. Zecchi (a cura di), Vita e verità: interpretazione del pensiero di Enzo Paci, Bompiani,Milano 1991; «Aut-Aut», 333 (2007), numero monografico dedicato ad Enzo Paci; G. Caccia-tore, A. Di Miele (a cura di), In ricordo di un maestro. Enzo Paci a trent’anni dalla morte, Scrip-taweb, Napoli 2009.

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volgersi alla realtà «in quanto nessun pensatore ha potuto considerarecome punto di partenza e fondamento qualcosa che non fosse un’evi-denza fenomenica».193 Eppure, questa evidenza non deve condurmi apensare che la realtà abbia consistenza solo in quanto pensata. La co-scienza come termine della relazione cogito-cogitatum non è scindibiledalla relazione stessa senza perdere essa stessa il ruolo di coscienza.Inoltre, non è la coscienza a stabilire le variazioni del cogitatum. Purriconoscendo il valore della teoria dell’intenzionalità, Nicol non accettale conclusioni della fenomenologia husserliana che attraverso l’epochériduce l’“esistente a me estraneo” a oggetto del mio vissuto interiore,garantendogli così un’esistenza che non è effettiva se non nella coscien-za. Se fosse così, dovrei ammettere che le situazioni fondamentali, checostituiscono il limite e il condizionamento-base della mia esistenza,sono solo tali in quanto presenti alla coscienza come vissuti.194 Eppuredi questi limiti io prendo coscienza, appunto, solo in alcune situazionilimite, rendendomi conto che da sempre sono stato condizionato. Lamessa tra parentesi del mondo per ritrovarlo come correlato della co-scienza195 ricalca l’operazione cartesiana e, secondo Nicol, il suo stessoerrore.196

193. CRS, p. 155. «Il procedere fenomenologico è inevitabile, data la conformazione delnostro modo di conoscere ed esprimerci, e la forma costitutiva della realtà» (E. Nicol, Ideasde vario linaje, cit., p. 268).

194. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi, To-rino 2002, vol. I, § 46: «Ogni percezione immanente garantisce necessariamente l’esistenzadel suo oggetto. Dirigendosi il mio afferrare riflessivo sul mio vissuto, io afferro un assolu-to “esso stesso” la cui esistenza non può di principio essere negata […]». È interessante no-tare come in questo passo il cogito ergo sum cartesiano assume un’altra forma: «io sono, que-sto vivere è, io vivo: cogito» (p. 111). I due punti che separano i termini “vivo” e “cogito” nondanno l’idea di una consequenzialità bensì di una simultaneità, se non addirittura di unaidentità: io vivo, io penso. Seppur quest’interpretazione possa sembrare azzardata o forzata,non toglie valore al fatto che il vivere si gioca nel vissuto coscienziale e con esso la realtàstessa.

195. Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, cit., § 32.196. Non è un caso che lo stesso Husserl si sia poi dedicato allo studio delle meditazio-

ne cartesiane riconoscendo nel pensatore francese, a torto o a ragione, un “antesignano dellafenomenologia”: «È infatti il maggior pensatore francese, Renato Cartesio, che con le sueMeditazioni ha dato nuovo impulso alla fenomenologia. Lo studio di quest’opera ha inverocontribuito grandemente a trasformare la fenomenologia, ancora in fase di sviluppo, in unasorta di filosofia trascendentale. Pertanto si potrebbe dire quasi che la fenomenologia è unneocartesianesimo sebbene, proprio in virtù di uno sviluppo radicale dei motivi cartesiani,essa sia costretta a negare quasi tutto il contenuto dottrinale comunemente noto della filo-sofia cartesiana» (E. Husserl, Meditazioni cartesiane [1950], Bompiani, Milano 1994, p. 37).

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Se la fenomenologia husserliana non riesce a considerare la realtànel suo costituirsi in relazione all’uomo, senza però divenire suo “sem-plice correlato”, qual è la fenomenologia di cui parla Nicol? Secondo ilpensatore catalano, bisogna riportarsi al significato del termine phainó-menon. Derivando dal verbo phainestai, che significa “mostrarsi”,“apparire”, “essere manifesto”, il fenomeno non può che essere ciò chesi mostra, ciò che è alla luce: «è ciò che appare con manifesta chiarez-za».197 Il fatto che tale apparire non ci dia garanzia riguardo le caratteri-stiche di quel che appare non invalida il fatto della sua presenza: «ciòche viene visto è qualcosa che è qui».198 In realtà, ciò che può esseremesso in dubbio è il “che” della cosa e non la sua reale presenza.199 Allaconoscenza scientifica spetta il compito di individuare questo “che” edefinirlo sempre meglio. Dunque, sempre conosciamo la realtà dellecose, ma non la loro verità: «la scienza cerca la verità, ma non cerca larealtà. Quest’ultima le è data, in quanto tale, nell’apparenza. L’esserestesso non è ignoto: è semplicemente fenomeno, e di questo dato non èpossibile diffidare».200 L’apparire non è mai “mera apparenza”: l’esserenon si cela dietro il fenomeno, non costituisce affatto un problema. Ilpregiudizio filosofico che il fenomeno fosse solo una parte “superficia-le” dell’essere dipende dalla confusione tra realtà e verità, e dal crederedi poter risolvere il problema del senso dell’essere. L’affermarsi di que-

Per quel che concerne l’interpretazione nicoliana di Husserl cfr. E. Nicol, Ideas de variolinaje, cit., pp. 423-432; Id., Homenaje a Edmundo Husserl, in A. Zirión (comp.), Actualidad deHusserl, UNAM, México 1989, pp. 21-36; A. Zirión, El sentido de la fenomenología en Nicol, inJ. González – L. Sagols (eds.), El ser y la expresión, cit., pp. 87-97; J. González, La metafísicadialéctica de Eduardo Nicol, UNAM, México 1981, pp. 118-120; A. Zirión, Historia de lafenomenología en México, Red Utopía, Morelia 2003, pp. 243-261.

197. CRS, p. 156.198. CRS, p. 157.199. Si potrebbe obiettare che un’allucinazione mi appare ma non è reale. Bisogna stare

attenti al fatto che quando Nicol parla di qualcosa che “ci appare” non intende “mi appare”.La considerazione della realtà avviene sempre attraverso un atto espressivo che mi permet-te di conoscere in maniera corretta ciò che appare. L’apparire di qualcosa solo a me creereb-be una situazione per la quale il reale non è reale per gli altri. In questo caso mi sarebbe pos-sibile, attraverso la comunicazione, comprendere il “valore reale” di ciò che mi appare. Uncaso simile può essere osservato nel film A Beautiful Mind (pellicola del 2001, diretta da RonHoward e dedicata alla vita del matematico John Forbes Nash Jr.). Lo stesso Nicol afferma:«è impossibile che l’essere differisca dal suo apparire; è possibile che differisca da ciò che misembra appaia» (CRS, p. 158).

200. CRS, p. 158; «l’essenza non è separata dall’apparenza. […] In qualsiasi modo anchel’apparenza è essere» (E. Nicol, Ideas de vario linaje, cit., p. 272).

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sti due pregiudizi ha generato, secondo Nicol, il divorzio tra sapere ra-zionale e sapere “visivo”. Infatti, nel momento in cui l’uomo ha iniziatoa considerare l’essere nel suo “nascondersi” dietro al fenomeno, l’invisi-bilità è divenuta l’attributo ontologico per eccellenza, a scapito della vi-sibilità. Questo rendere invisibile l’essere è presente anche nella feno-menologia husserliana e nel suo necessario sospendere l’atteggiamentonaturale.201

Secondo Nicol, tale sospensione è di fatto impossibile, in quantoogni cogitatum rimanda all’essere che lo costituisce, e tale essere si mani-festa nell’apparire stesso. L’epoché husserliana, dunque, sarebbe un’illu-sione ottica, dato che non può sospendere in nessun momento il riferi-mento all’essere della realtà: «è un controsenso porre una parte del-l’essere tra parentesi affinchè emerga nitidamente la sua essenza. Laragione di questo controsenso si trova nella pregiudiziale svalutazionedel fenomeno sulla quale si basa la fenomenologia [husserliana]. L’es-senza non è principio ma meta della scienza. L’essere viene prima; laquestione dell’essenza è posteriore».202 Per questo motivo, Nicol puòaffermare che l’essere si dà nel suo aspetto fenomenico che è quello au-tentico: «ontologia è fenomenologia»203 e questo è possibile solo perché«l’essere è alla vista».204 L’essere, dunque, è fenomeno, e non trascendeil piano fenomenico. La concezione heideggeriana dell’essere come puro

201. Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, cit.,§ 30-32.

202. CRS, p. 159.203. Nicol riconosce che anche Heidegger, nel § 7 di Essere e tempo, ammette che onto-

logia e fenomenologia si identificano, «l’ontologia non è possibile che come fenomenolo-gia» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 56), ma sottolinea che per il filosofo tedescol’essere dell’ente non si manifesta e rimane occulto (CRS, p. 160): «le apparizioni sono ap-parizioni di qualcosa che non è dato in quanto apparizione, di qualcosa che rinvia ad unaltro ente. L’apparire ha il carattere del rimando e il rimando è caratterizzato proprio dalfatto che ciò a cui l’apparizione rinvia non si mostra in se stesso, ma soltanto rappresenta,indica in maniera mediata, accenna indirettamente» (M. Heidegger, Prolegomeni alla storiadel concetto di tempo [1925], Il melangolo, Genova 1991, p. 103; cfr. anche M. Heidegger, Esseree tempo, cit., § 7 C). Riguardo il senso che la fenomenologia assume nelle riflessioni di Hei-degger e Nicol, rispetto al logos come momento dell’evidenza assunta e comunicata, segna-liamo l’interessante analisi svolta da Ricardo Horneffer, De la fenomenó-logia al misterio:Heidegger y Nicol, Theoría, 3 (1996), pp. 37-48 e Id., El fenómeno del misterio, o el misterio esfenómeno-logico, in in R. Horneffer (coord.), Eduardo Nicol (1907-2007). Homenaje, cit., pp. 335-345. In questa, l’autore mostra come nel pensiero nicoliano il limite dell’umana possibilitàdi conoscere assuma il senso del mistero.

204. CRS, p. 160.

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trascendens205 deriva dal pregiudizio, ideato per risolvere il problemadella temporalità, che l’essere sia articolato in due gradi. L’autenticafenomenologia deve partire dall’affermazione che «l’essere non è pro-blema, ma dato».206 Il percepirlo non richiede nessun metodo particola-re e per questo si può affermare che l’ontologia si fonda in «un’evidenzache è ontologica ed empirica, universale e primaria, assoluta e fenome-nica»; «la metafisica si costituisce come scienza positiva nel senso piùrigoroso».207 Giunti a questo punto va sfatato un altro pregiudizio:quello riguardante il senso del termine “assoluto”.

Secondo il significato che finora è stato dato a tale termine, assolutoè ciò che esclude qualsiasi relazione in quanto ab-solutus. In realtà, ciòche è incondizionato, lo è proprio perché condiziona senza essere con-dizionato, «di modo che, nonostante il suo significato letterale, l’assolu-to è correlativo del relativo, e viceversa. Un assoluto senza la contin-genza è inconcepibile al pari di una relatività assoluta».208 Pensarel’assoluto al di là di ogni relazione significa occultarlo, renderlo invisi-bile, mentre la sua assolutezza consiste nel permanere così come è no-nostante il suo relazionarsi: «l’Essere è assoluto perché non è separa-to».209 L’errore metodologico che ha costretto i filosofi ad intraprenderesentieri contorti al fine di costituire l’ontologia dell’occultamentodell’essere, consiste nell’aver creduto, a causa della temporalità inerenteall’esistenza degli enti, che l’essere come assoluto non si manifestassesin dall’inizio, che non fosse dato primario. Il nuovo discorso sul meto-do elimina l’essere come problema, riconoscendolo come evidenza pri-maria: «la tesi dell’immediatezza dell’assoluto non è una verità, né puòessere definita tesi; non è che il riconoscimento filosofico di un’espe-rienza comune». Se è esperienza che fa ogni uomo, «non si richiedealcun metodo per giungere all’assoluto; non c’è bisogno di giungervi:siamo nell’assoluto». L’essere è dato: «quest’evidenza primaria e uni-versale non è verità, è la condizione di qualsiasi verità, o errore». L’es-

205. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 59.206. CRS, p. 160.207. CRS, p. 161.208. Ibidem.209. CRS, p. 162. La lettera maiuscola è utilizzata da Nicol per indicare l’Essere nella

sua differenza dall’ente, che è essere determinato. Nicol riconosce pienamente ad Heideg-ger l’introduzione del concetto di differenza ontologica necessaria alla possibile ri-verbalizzazione dell’Essere.

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sere come dato, inteso nel senso che sempre si dà come fenomeno, im-plica che il metodo stesso sia fenomenologico: «la ragione – infatti –riconosce che deve discorrere sempre in maniera aderente all’essere re-lativo, perché lì è dove risiede l’assoluto; in nessun essere privilegiato,né nella somma di tutti gli esseri, ma nel fatto puro e semplice che c’èEssere».210

Si può obiettare che nei procedimenti elaborati da Descartes e Hus-serl, la sospensione della realtà del mondo esprimesse la necessità dinon dar nulla per scontato. La validità di questa regola non toglie che«non è affatto sicuro che la ragione, una volta eliminati tutti i presup-posti, resti nuda e solitaria; che debba ricavare da se stessa l’assolutoindispensabile per legittimare le sue operazioni; che possa assumerequesta sovranità […] che di diritto corrisponde all’Essere. La ragionestabilisce le sue proprie leggi, non le sue condizioni». Ciò che la rendequale è, è l’Essere «che non può identificarsi con nulla, in quanto nullagli è estraneo; si relaziona con tutto (senza per questo essere relativo)perché dappertutto; non si confonde con nulla in quanto possiede attri-buti che non condivide con nessun essere determinato» e per questo«non ha contrario: le alternative le ha solo ciò che è determinato».211 Ilmetodo, dunque, non può fondare la verità dell’Essere, in quanto fonda-to dall’Essere che lo precede e lo condiziona.

L’Essere in quanto assoluto deve essere pensato come comune e in-variabile perché «dato da sempre». Se il metodo non fonda l’Essere, mane è fondato, la scienza può essere fondata secondo il metodo in quantoquesto rispecchia l’essere della ragione. Di qui consegue che l’Esserecome assoluto non riguarda solo la scienza ma anche la vita: «la filoso-fia è un metodo di vita e non solo un puro metodo della ragione». Intale affermazione possiamo re-incontrare la posizione assunta da Nicolnei confronti della saggezza – intesa come conoscenza dei principi co-muni ed evidenti – come fondamento della stessa scienza: «attraverso lavia o il metodo della ragione, o la via mistica, o qualsiasi altra, l’uomo

210. CRS, p. 163. Interessante è che alla stessa conclusione giunga anche l’analisi levina-siana nel momento in cui cerca la possibilità di sfuggire all’oppressione “angosciosa”dell’essere stesso: «indicheremo questa “consumazione” impersonale, anonima, ma ine-stinguibile dell’essere, che mormora al fondo del nulla stesso, con il termine di il y a. Nelsuo rifiuto di assumere una forma personale, l’il y a è l’“essere in generale”» (E. Lévinas,Dall’esistenza all’esistente [1947], Marietti, Genova 1986, p. 50).

211. Ibidem.

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cerca alla sua maniera il suo principio e il suo fine, in una sicurezza chenecessita e che non possiede».212 Essere della vita ed essere della cono-scenza sono lo stesso Essere e per questo la ragione può essere vitalesenza per questo considerare l’essere irrazionale. L’operazione di Nicolnon è quella di “razionalizzare” l’essere secondo una determinata logica,ma di partire dall’essere della ragione per individuare il limite di questastessa e, dunque, le sue possibilità di conoscere l’essere conoscendo-si.Tale conoscenza è, però, possibile solo in base all’unicità e “comunità”del fondamento: «l’oggettività del fondamento è condizione della co-munità intersoggettiva»: «senza comunicazione non v’è scienza. Leverità debbono essere condivise; condividere non significa […] essered’accordo: il fondamento è condiviso in maniera automatica, quasi in-conscia. Rispetto qualsiasi altro pensiero, il possibile disaccordo implicauna base condivisa, costituita dall’essere comunicato».213

Quella che anticamente veniva chiamata doxa, e considerata comeuna conoscenza di secondo livello, non è altro che il primo grado dellaconoscenza che è quello fondamentale, ovvero il sapere che la cosa è,esiste: «occorre riconoscere che l’opinione e la scienza, la doxa e l’e-pisteme non differiscono se non per quel tratto di arbitrarietà. La scienzanon è che un’opinione: un’opinione oggettiva e ben fondata, ma nonnecessariamente apodittica, definitiva e completa».214 Nella conoscenzaè possibile distinguere una fase primaria costituita dall’apparire, «intui-zione o apprensione215 immediata dell’essere»; una fase secondaria costi-tuita dal ri-apparire, «rappresentazione, mentale o verbale»; una terzafase che è quella in cui si considera il parere di chi guarda l’oggetto.216 Inbase a questa classificazione, che lo stesso Nicol definisce come unaschematizzazione semplificatrice ma funzionale alla comprensione delproblema, è possibile mostrare come l’idea che la conoscenza dipendadal punto di vista, sia il frutto della confusione tra questi livelli del co-noscere. Quando v’è disaccordo tra due soggetti che parlano di un og-

212. CRS, p. 165. La ricerca del vero a partire dalla com-unità dell’essere costituisce unavita vissuta nella consapevolezza della propria insufficienza, e per Nicol è nobile in quanto«metodica».

213. CRS, p. 168.214. ME2, p. 161.215. Con "apprensione dell'essere", Nicol intende l'esperienza immediata dell'essere

nella sua evidenza e con-divisione. Per questo tale esperienza è sempre ed è sempre comu-ne.

216. Ibidem.

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getto, è evidente che stanno parlando della stessa cosa intesa come pre-senza. Se così non fosse, non riuscirebbero a comprendere nulla di ciòche si dicono: «la semplice presentazione dell’essere non cerca adesioni;ottiene concordanza immancabilmente. La scienza, da parte sua, sebbe-ne sia anche un parere su ciò che appare, non cerca adepti per le sue ve-rità. Si istituisce formalmente come un intento di ridurre a comunitàlegale la discordanza soggettiva delle opinioni, fondandole su principilogici e metodologici. Ma poggia sulle stesse evidenze comuni su cuipoggiano le opinioni volgari».217 Questo implica che la scienza e la co-noscenza pre-scientifica non differiscano in base all’oggetto, ma solonella maniera di rivolgersi ad esso, di guardarlo. Che via sia una cono-scenza dell’Essere pre-ontologica e che sia rivolta allo stesso Essere cheè oggetto dell’ontologia non è affatto in dubbio. In base a questi diffe-renti modi di guardare è possibile considerare l’Essere come fondamen-to della vita e della scienza: «l’essere di cui tratta la scienza metafisica èquesto stesso essere che ci circonda in tutte le situazioni vitali quotidia-ne».218 Il compito della scienza non è, dunque, scoprire l’essere, ma in-vestigare ciò che già risulta evidente nello stadio pre-scientifico dellaconoscenza. Questo implica che l’apoditticità sia qualcosa fondantesinella com-unità, in quanto radicata nella comunicazione. La presenta-zione dell’essere gli conferisce il suo carattere apodittico ed è a partireda questo che è possibile la costruzione della scienza: «apodittico signi-fica comunicabile»219 e «l’ontologia è basata su una conoscenza che èpreontologico» e allo stesso tempo apodittica.220

La scienza differisce dal conoscere pre-ontologico solo nella qualitàdello sguardo che rivolge allo stesso oggetto ed è per questo motivo,afferma Nicol, che si chiama teoría, «che significa precisamente visione;e il suo prodotto è la alétheia, che traduciamo con verità, e vuole signifi-care uno stato di veglia».221 L'essere, nella sua apoditticità ovvero evi-

217. ME2, pp. 161-162.218. ME2, p. 162..219. CRS, p. 168. «La vera, primaria e autentica presentazione o apodeixis ha luogo, per

qualsiasi uomo, prima di qualsiasi fondazione o regolazione scientifica del conoscere. Lacondizione di possibilità di una scienza in generale già è data nel conoscere pre-scientifico:è l’indubitabile apprensione immediata dell’essere nell’esperienza comune quotidiana»(ME, p. 177). L’idea per la quale l’apoditticità viene conferita solo dalla ragione si basa, se-condo Nicol, sulla svalutazione del fenomeno a “essere di secondo grado” (cfr. CRS, p. 163).

220. ME2, p. 163221. È evidente, su questo punto, il distanziarsi di Nicol da Heidegger. Se per il filosofo

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denza e comunicabilità, è già dato «nel suo mero apparire, e la sempliceapprensione a prima vista lo identifica in maniera apodittica con più si-curezza rispetto alla seconda vista che gli rivolgiamo, in maniera ampiae metodica, quando facciamo scienza».222 Per questo motivo, il discorsosul metodo,sé è autentico, non può sospendere la realtà, l'essere, inquanto esso «è un possesso sicuro prima ancora che si ponga la questio-ne del fondamento della scienza».223 Non c'è bisogno di cercare l'essereper stabilire una nuova maniera di esprimerlo: «alla fine del dubbio me-todico non dovremo trovare altro che quello che avevamo sin dall’i-nizio: troveremo l'essere».224 La ragione non può distaccarsi dalla realtànella quale si trova immersa, perchè questa realtà la costituisce comeessere (condizione ontologica) ed è allo stesso tempo la condizione diqualsivoglia pensare e conoscere (condizione epistemologica). La rela-zione tra l'essere dell'espressione, ovvero l'uomo, e la realtà si attua nel-la situazione, che è categoria esistenziale nella quale si manifesta la con-dizione ontologica dell'uomo: «sono ragioni esistenziali, e non argo-mentative o metodologiche quelle che c’impediscono di sospendere unarealtà della quale partecipiamo quando la comunichiamo. [...] Sospen-dere la realtà del non-io è sospendere la realtà dell'io».225

L'io senza il non-io, vale a dire al di fuori della situazione, è purafinzione, illusione: «proprio perché egli è un soggetto di conoscenza,vediamo che la presenza dell'uomo, in quanto qualcosa che "è lì" [Da-sein, Esser-ci], contiene in modo reale e vero cio che "non è lì". Vale adire: lo contiene nel senso che implica tutto, e nel senso che si appropriadi quella parte del tutto che entra in diretto contatto con la sua esistenza[intesa come Esser-ci]».226 L’ente che l’uomo conosce «è il dato dell’es-

tedesco a-létheia indica un disvelamento che non è in nostro potere ma riguarda l’Essere(cfr. M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1994, p. 144), Nicol invece considera la que-stione dal punto di vista antropologico riportando l’alétheia al suo valore di stato di vegliacontrapposto al let-argo che caratterizza il logos nella conoscenza pre-ontologica.

222. ME, p. 181.223. ME2, p. 163.224. Ibidem.225. ME2, p. 165.226. Ibidem. Il Dasein heideggeriano, dunque, non soddisfa l'dea dell'uomo elaborata da

Nicol, in quanto non reca consé il senso della relazione che costituisce l'uomo stesso:«l'uomo, pertanto, non è Dasein, nel senso che il suo essere non è delimitato e isolato datutto il resto, individualizzato ontologicamente in maniera uniforme [...], [ma] è l'ente ilcui essere appare senza dubbio determinato (Da) in quanto indeterminazione cioè libertà,ovvero espressione» (ME, p. 186).

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sere»,227 e questo vuol dire che «la fenomenologia è conoscenza imme-diata dell’Essere nell’ente».228 La scienza, dunque, diviene conoscenzadell’ente, in quanto successiva al riconoscimento del dato primario. Ciòche deve essere mantenuto come punto di partenza è il fatto chel’Essere sia fenomeno, sia l’Essere in quanto assoluto, sia l’essere relati-vo dell’ente.229 Il pensare non è che una forma d’essere che ha per ogget-to qualcosa che è. Non si dà nulla che sia al di là dell’essere e dell’Es-sere, in quanto non separati e manifestantesi nello stesso fenomeno.Questo permette a Nicol di affermare che non ha più senso parlare diimmanenza e trascendenza: «se non c’è nulla oltre l’Essere visibile,svanisce la linea divisoria, e tutto ciò che c’è, è semplicemente qui».230

L’Essere nella sua assolutezza e infinitezza è pre-supposto di qualsiasiteoria scientifica, «nel senso che si dà come implicito. È qui e tutto ilmondo poggia su di esso, lo riconosca o meno. L’Essere non si scopre;nessuna scienza si occupa di ciò che non è».231 Dal punto di vista onto-logico, non ha senso diffidare di ciò che appare, perché è lì che avvienela manifestazione fondamentale dell’Essere. Il compito del metodo, inquanto fenomenologico e quindi ontologico, è quello di rivelare che ilfondamento è visibile, che parlare dell’Essere è parlare dell’immediato.In quanto dato – nel senso che è dato, e che è un dato – l’essere non vaverificato e la domanda che interroga circa il suo senso, perde qualsiasi

227. ME2, p. 175. Da adesso in poi si farà riferimento solo a questa edizione della Me-tafísica de la expresión, non avendo riscontrato l’assenza di passi fondamentali, e funzionalial nostro discorso, rispetto alla prima edizione del 1957.

228. CRS, p. 170.229. «la distinzione dell’essere rispetto all’ente […] non implica separazione alcuna […].

L’assoluto, dunque, è nel relativo, l’unità nella pluralità, la permanenza nel cambiamento.Ciò che non cambia è la presenza assoluta della realtà cangiante. […] Secondo la metafisica diNicol, l’essere è già nell’ente, ma non come la dimensione invisibile e nascosta che bisognascoprire e rendere manifesta al di là degli enti. L’essere è l’evidenza stessa, im-mediata: èl’aspetto visibile dell’ente, perché l’ente rivela non soltanto la sua entità particolare, finita econtingente, bensì rivela anche che è senza restrizioni e che si trova inserito in una realtàtotale, continua, piena ed eterna nella sua diversità e nel suo cambiamento» (J. González,La metafísica dialéctica de Eduardo Nicol, cit., pp. 57-58). Come nota anche Manuel GonzálezGarcía, «l’Essere si trova nel concreto degli enti, giacchè questo è l’unico punto dovel’Essere può essere visto e trovato. Gli enti non si identificano con l’Essere, bensì sonol’Essere» (M. González García, El hombre y la historia en Eduardo Nicol, cit., p. 225).

230. CRS, p. 171.231. CRS, p. 172.

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valore: «il pensiero può essere incerto nei suoi risultati, ma è sicuro perquel che riguarda la sua base».232

Come già abbiamo notato, per Nicol l’Essere nella sua assolutezzanon è indeterminato. Non è determinato alla stessa maniera degli enti,ma in quanto Essere assoluto ed essere dell’ente, esso è eterno – «sebbe-ne ci costi ammettere che l’eternità sia visibile» – nel senso che è per-manente. Tale permanenza, che si attua come permanenza del mutare,implica la sua ubiquità: «se l’Essere è sempre, allora è in qualsiasi luogo,ovunque si voglia guardare».233 Su questo punto Nicol è più che deciso:«nessun dubbio metodico può violare la certezza empirica di tali ubiqui-tà e permanenza dell’Essere, senza le quali nessun pensatore incorre-rebbe nel controsenso di porsi la domanda su di esso. Qualsiasi doman-da germoglia dal suolo della sicurezza più fondamentale».234 Tale sicu-rezza è immediata, così come l’apprensione dell’Essere. L’immediatezzaè tratto distintivo del fenomenico, e l’assoluto si dà come fenomeno. Secosì non fosse, afferma Nicol, non potrebbe fungere da fondamento.Tale concezione dell’assoluto, nella quale la nozione di trascendenzaviene soppiantata da quella di permanenza, permette al metodo di dive-nire scientifico. L’assoluto permane, quindi è necessario ed eterno.L’immediatezza e la fenomenicità dell’Essere mostrano un’altra dellesue caratteristiche fondamentali: «l’Essere è diafano».235 La tras-parenzadi cui parla Nicol indica che l’Essere impregna l’ap-parente. L’essere èsempre nella propria luce. La presenza attuale, mai oscura, dell’Essere fasì che esso venga pensato come infinito ma, da questo punto di vista,Nicol ravvisa che l’infinito «non è fenomeno, a causa della sua impos-sibilità fisica e per definizione stessa» però è un’esigenza razionale de-rivante dallo stesso pensiero dell’Essere come assoluto. Se non fosse ta-le, dovremmo ammettere un altro fondamento. Resta, in ogni caso, ilfatto che la sua infinitudine non si lascia cogliere come fenomeno poi-ché il fenomenizzarsi dell’essere è sempre legato al suo manifestarsinell’ente. Tale condizione mostra il limite della ragione che deve arre-

232. CRS, p. 173.233. Ibidem. L’eternità non implica l’immutabilità delle sue articolazioni interne ma solo

del suo manifestarsi come presenza fondante. Il permanere indica che dell’essere non sipossa dare storia dal punto di vista assoluto ma solo relativo all’uomo. L’essere permane inquanto forma e fondamento dell’ente che cambia.

234. CRS, p. 174.235. Ibidem.

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starsi di fronte all’assoluto che si mostra come fenomeno, e da lì partireper conoscerlo, nel suo articolarsi interno, nel suo manifestarsi nel-l’ente.

«In quanto infinito, l’Essere intero è non solo inimmaginabile, maappare incomprensibile. È letteralmente in-comprensibile, poiché nonpossiamo comprimerlo affinchè sia contenuto nella nostra mente». Perquesto motivo, «il compito della metafisica non è, come si è detto,“comprendere l’Essere”. La pura presenza non necessita di spiegazio-ne». Il senso dell’Essere non esiste: «l’Essere non ha senso perché è lacondizione di qualsiasi senso, il che signifca che l’Essere non ha ragiond’essere. Nessuno potrebbe donargliela». Giunti a questo punto, perdirla con le stesse parole di Nicol, «no fracasa la razón, sino triunfa».236 Laragione, radicata nell’Essere, dà ragione di ciò che è ente, in quantol’ente ha la sua ragione in qualcosa che, fondandolo, non ne ha. L’Essereè manifesto perché manifestante, e la sua manifestazione è universaleperché «si manifesta sempre in tutto e nulla si sottrae alla sua evidentepresenza […] l’esistenza non può dispegarsi se non manifestando l’Esse-re attraverso la parola: il logos illumina perché riflette la luce dell’Essere[…] questa stessa esistenza manifestante è inglobata nell’orbe dell’Es-sere manifestato: una delle forme dell’Essere consiste nel parlare di ciòche è».237 Conseguentemente alla diafanidad dell’Essere, il metodo saràun cammino che parte dall’Essere per tornarvi, attraverso l’Esserestesso: «è un itinerario interno»238: «non c’è nessun cammino da in-traprendere per partecipare dell’Essere: basta essere, vedere e parla-re».239

La scienza deve tenere conto della datità dell’Essere, in quanto as-soluto, che si manifesta innanzitutto in quell’apprensione che è la cono-scenza pre-ontologica. In tal modo, «si ristabilisce la continuità e l’unitàdella conoscenza, e ha fine la tradizione che separò la conoscenza pre-scientifica dalla conoscenza scientifica. Quest’ultima semplicementeprolunga la prima, introducendo in essa la correzione formale del meto-do».240 L’Essere di per sé è apofantico, e il suo “essere rivelativo” nonrichiede alcun metodo, ma si manifesta come esperienza comune: è lo-

236. CRS, p. 176.237. CRS, p. 178.238. Ibidem.239. CRS, p. 179.240. ME2, p. 167.

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gos comune.241 Nel distinguere le fasi del conoscere, possiamo renderciconto che qualsiasi conoscenza è un ri-conoscere, in quanto la primaconoscenza dell’oggetto verso il quale rivolgiamo il nostro sguardo av-viene nel momento in cui lo ri-conosciamo. L’apprensione dell’essere,corrispondente alla prima fase, nella quale si manifesta la presenzadell’oggetto, non ci dà alcuna informazione su di esso. Nella secondafase, quella della rappresentazione, v’è già un principio del conoscereperché l’oggetto viene considerato lo “stesso”, il “già visto”. Tale ri-conoscere è come un dia-logo interiore attraverso il quale riconosciamola mismidad dell’oggetto in relazione alla nostra stessa mismidad. La real-tà, come prima caratteristica conoscibile dell’oggetto, è però legata allacon-divisione del suo ri-conoscimento, che avviene attraverso la parola.Da ciò consegue che l’oggetto diviene reale solo in un contesto comuni-cativo, quindi dia-logico: «comunicare non è trasmettere il messaggio diun pensiero personale; è fare presente all’interlocutore la cosa che sitrova di fronte a me e che io ho appreso. Se l’interlocutore mi capisce,ciò conferma che la cosa è presente allo stesso modo di fronte a lui, eche anch’egli la apprende (anche se poi possiamo dissentire su di es-sa)».242

L’intendere, più che la capacità di intendere le cose è, per Nicol,l’atto di intendersi con l’altro mediante la parola. Quello che noi inten-diamo e attraverso cui cerchiamo di farci intendere sono sempre espres-sioni: «Diciamo che intendiamo le cose perché la parola non può essereun veicolo dell’intendimento se non designa delle realtà».243 Abbiamo giàdetto che è nell’apoditticità – che implica la comunicazione – che cono-sciamo gli enti in quanto presenti, prima ancora di conoscerli nella loroquidditas. Dunque l’apoditticità si fonda sulla parola che è, al paridell’Essere, apofantica, «presenta o rende presente l’essere».244 Questo èpossibile perché la parola si riferisce a ciò di cui parla e ha una mismidadspeculare a quella della cosa menzionata. Tale mismidad la chiamiamo

241. Cfr. anche M. L. Santos, Nicol y Heidegger, indicaciones sobre una divergencia funda-mental in Eduardo Nicol. La filosofía como razón simbólica, cit., in particolare le pp. 121-127 nellequali l’autrice effettua una comparazione tra le teorie della verità desumibili dagli scritti diHeidegger e Nicol, mostrando la apofánasis dell’essere come categoria che separa in manieraprofonda la riflessione ontologica di Nicol da quella di Heidegger.

242. ME2, p. 169.243. Ibidem.244. ME2, p. 171.

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“univocità”: «dell’univocità abbiamo esistenzialmente bisogno perl’intendimento [entendimiento] nel dialogo; […] ed è allora il principiologico dell’univocità quello che sembra richiedere, nell’oggetto, una cor-relativa identità ontologica».245 Il termine corretto, però, non è “identi-tà”, ma mismidad perché nulla è identico a se stesso. Ciò nonostante,l’ente permane quello che è, e mentre nell’uomo la mismidad – comeabbiamo visto a proposito della situazione vitale – costituisce il ri-conoscersi, per gli altri enti si costituisce come ri-conoscimento da partedell’uomo nella sua funzione apodittica. «L’ente non è identico. Esso èlo stesso, ma cambia. In verità, non possiamo dire che cambi se nonriconosciamo la sua stessità [mismidad]», ragion per cui «l’univocità è ilrisultato di una relazione dialogica. […] L’univocità è come uno strumentoesistenziale, prima di essere un requisito formale».246 Qualsiasi caratte-ristica dell’ente che vada oltre la mera apprensione dell’Essere – che nonne garantisce l’apoditticità –, si costituisce nell’ambito della comunitàdia-logica: «l’evidenza [apoditticità] dell’essere non è accessibile al sog-getto solo […]. L’evidenza apodittica dell’essere è dialettica o dialogica.L’identificazione dell’ente come realtà esistente che, anche se mutevole,permane nel suo stesso essere, si realizza mediante la parola dialogale:questa gli riconosce il carattere, che la sola intuizione non potrebbe maiattribuirgli con sufficiente garanzia, di una realtà comune. La scienzametafisica deve affermare, nel suo inizio, il doppio principio della co-munità dell’essere e della comunità del conoscere, e deve affermarlonon come postulato o assioma, bensì come riconoscimento fenomeno-logico di una situazione di fatto. Perché è un fatto, e non una teoria, chel’essere si renda apoditticamente evidente nel riferimento duale degliinterlocutori».247

Eppure, se la conoscenza si attua solo nel dia-logo, quindi nella co-municazione, essa è chiaramente sempre in relazione all’uomo. L’uomo,attraverso l’analisi della sua esistenza e della sua ragione, è stato ricono-sciuto come l’essere storico, in quanto la sua determinazione formale èl’indeterminazione; l’esistenza umana è la forma di un essere capace dicambiare se stesso. Se l’uomo è storico nel suo stesso essere, la sua co-noscenza non potrà non esserlo: l’ente è nella luce dell’essere, ma noi lo

245. Ibidem.246. ME2, pp. 171-172.247. ME, pp. 206-207.

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ri-conosciamo nel suo mutare, per cui ci appaiono nell’ombra il suosmettere-di-essere e il non-essere-ancora; per Nicol «l’oscurità è nellamente umana».248 L’Essere di per sé è assoluto e onnipresente ma con-tinuamente mutevole al suo interno: «l’Essere permanente è una per-manente riproduzione di se stesso» che si manifesta in infinite manieremutevoli visibili come enti, «e questi a loro volta si manifestanonell’Essere, semplicemente perché sono».249 Al di là dell’uomo, nessunente insé ha storia, se non in relazione alla conoscenza che se ne puòavere. L’uomo ri-conosce, negli enti e in se stesso, la storicità degli esse-ri e la ri-conosce a partire dalla conoscenza pre-ontologica dell’Esserestesso. Il metodo, inteso nell’orizzonte fenomenologico appena precisa-to, non potrà misconoscere tale storicità: «della realtà storica in quantotale non si può dubitare metodicamente: la storia non è l’oggetto possi-bile di una sospensione o epoché fenomenologica».250 Questo, perché lastoricità appartiene al nostro modo di essere e quindi al nostro modo diri-conoscere l’Essere. Come sottolinea ripetutamente lo stesso Nicol,l’essere stesso della ragione è storico ed è per questo che l’evidenza apo-dittica può essere solo dia-lettica o dia-logica.

3.7. Metodo dialettico

Il fatto che “dialettico” e “dialogico” siano stati posti sullo stessopiano, ci rende più semplice la comprensione dell’accezione che il pen-satore catalano dà del termine “dialettica”. Come “fenomenologia”,anche questo termine evoca una serie di posizioni assunte nel corso del-la storia della filosofia: la dialettica platonica, neoplatonica, aristotelica,kantiana, fino a quella hegeliana, marxista ecc.251 Secondo Nicol, dallanecessaria connotazione fenomenologica del metodo, consegue necessa-

248. CRS, p. 175.249. CRS, p. 176.250. ME2, p. 166. Cfr. IH2, p. 39.251. Cfr. la voce “dialettica” in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, cit. Al di là delle

differenti definizioni che ha assunto il termine nel corso della storia della filosofia, la suaorigine è da ricondursi all’altro termine dialogo (Ivi, p. 224). Per quanto riguarda le differen-ti accezioni assunte dal termine nella filosofia contemporanea cfr. V. Verra (a cura di), Ladialettica nel pensiero contemporaneo, Il Mulino, Bologna 1976. Il volume si presenta comeun’antologia dei brani più significativi riguardanti quegli autori che, a partire da Hegel, sisono dedicati allo studio o alla formulazione del pensiero dialettico.

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riamente il suo essere dialettico, «perché la dialettica designa la funzio-ne naturale della ragione umana».252 Dialettico è dunque il funziona-mento della ragione, in base al suo stesso essere.253 Nella Psicología de lassituaciones vitales, le tre estasi temporali, in base alle quali si costituiscela mismidad di ogni singolo uomo, si relazionavano in maniera dialetti-ca, ovvero attraverso un continuo movimento che conduceva dall’unaall’altra.254 Anche in questo caso si tratta di “questa dialettica” – sebbe-ne stavolta essa sia posta sul piano della conoscenza ontologica e nonsolo esistenziale –, ma è necessario approfondire l’analisi per compren-dere meglio come si relazionano il carattere fenomenologico del metodocon il suo aspetto dialettico. Secondo Nicol, «la dialettica non è una tesi ouna posizione filosofica», perché esiste un solo cammino autentico pergiungere alla conoscenza: «la dialettica […] è il metodo universale dellogos».255 Il logos, ovvero la ragione che è anche parola – quindi la cono-scenza che si connota come ri-conoscimento e apoditticità –, funzionain maniera dialettica. La dialettica, intesa come modalità operativa dellaragione, fa parte del metodo in quanto «dato fenomenologico». Il filo-sofare tout court, dunque, si dà come dialettica, anche in quei sistemi chesi dichiarano anti-dialettici: «la rivoluzione fenomenologica della dia-lettica, più che originalità dottrinale, sarà come un recupero della“natura” della filosofia; consisterà fondamentalmente nel rivelare che laragione è naturaliter dialettica».256

La dialettica, afferma Nicol, si presenta come logos del logos, ontolo-gia della ragione in quanto fenomeno, quindi forma d’essere. Nel mo-mento in cui il logos si rivolge all’Essere – e questo avviene in primis inmaniera fenomenologica – possiamo parlare di ontologia, ma nel rivol-gersi al suo essere, in quanto fondato nell’Essere, si riconosce comeforma d’essere storica che, quindi, funziona dialetticamente. Per com-prendere la questione è necessario, secondo Nicol, riferirsi al frammen-to B1 di Eraclito, nel quale il filosofo greco afferma che tutte le cose ac-cadono secondo logos.257 Il logos di cui parla Eraclito è, secondo Nicol, la

252. CRS, p. 155.253. IH2, p. 49.254. PSV, p. 114.255. CRS, p. 180.256. CRS, p. 183.257. «Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di

averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benchè infatti tutte le cose accadano se-

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ratio immanente all’Essere, da non confondersi con la ratio che si puòdare dell’essere; è infatti lo stesso Eraclito a mettere in luce tale diffe-renza: «ascoltando non me, ma il logos, è saggio convenire che tutto èuno».258 L’affermazione del pensatore di Efeso ha, per Nicol, un sensochiarissimo: «il logos non può significare altro che la ragione immanen-te alla realtà».259 Che significa ascoltare questo logos? «Dobbiamo pren-dere letteralmente questa parola e pensare che la ragione abbia una vocealla quale è possibile tendere l’orecchio? La parola udire o ascoltare, neltesto, non significa altro che prestare attenzione. […] Così come oggiutilizziamo il verbo “vedere” some sinonimo di intendere».260 Dire logosdell’essere, dunque, significa affermare «che tutto è e succede secondouna ratio […], che il tutto è un ordine, un kosmos».261 L’uomo, già nel-l’apprensione primaria dell’essere, percepisce il fatto di trovarsi immer-so in un sistema di relazioni che costituisce un ordine e ha una ragioneche lo regola. Sia ben chiaro che per ratio non intendiamo una ragionepersonale, ma una struttura evidente a partire dalla quale ci è possibileindividuare il “come” del manifestarsi e del dispiegarsi storico del reale:con kosmos intendiamo infatti l’Essere. Il conoscere scientifico, dunque,oltre ad essere ontologico, sarà anche cosmo-logico, non perché in essosi esaurisca la conoscenza dell’Essere nella sua totalità, bensì perché untale sapere è in quanto logos, rivelativo della struttura del kosmos, ovverodell’essere: «pensare è pensare l’ordine».262

L’uomo non pensa senza pensare l’Essere, il quale sin dall’inizio glisi manifesta come ordine avente un suo logos. Da ciò consegue, secondoNicol, che pensare secondo quest’ordine significa pensare secondo logos,ovvero “logicamente”. La logica, anche quella formale, è fondata nellogos immanente all’Essere. Questo non significa che l’Essere abbia sen-so di per sé, ma che il pensare – che è sempre pensare il kosmos –, pen-sandolo, ri-conosca l’Essere come suo fondamento, conoscendo-si come

condo questo logos, essi assomigliano a persone inesperte» (Eraclito, B1, in H. Diels – W.Kranz (a cura di), I Presocratici, cit., p. 194). Cfr. la nota 345 del presente lavoro.

258. Eraclito, B 50, in H. Diels – W. Kranz (a cura di), I Presocratici, cit.259. E. Nicol, Los principios de la ciencia, cit., p. 497.260. Ivi, pp. 499-500.261. CRS, p. 185.262. Ibidem. L’ordine è la trama di relazioni che costituisce il reale e che è ri-conosciuta

in maniera diretta dal pensiero, il quale sta sempre in situazione, quindi in relazione. Il lo-gos pensa sempre l’ordine perché è inserito nel kosmos ed esiste, come pensiero e parola, apartire da esso.

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forma d’essere. Poiché l’Essere innerva la forma d’essere della ragione,quest’ultima può concepirlo come razionale. Pensare l’Essere è pensarel’ordine, ovvero la relazione al di fuori della quale non esiste alcun ente.«Il con-venire di logos e ontos è prestabilito» e «la realtà è razionale, per-ché il suo ordine è evidenza primaria».263 Si presti bene attenzione alfatto che la razionalità del reale non dipende da una coincidenza tralogos, ragione e parola, ed Essere, ma da un loro con-venire. Che questosia prestabilito, è dovuto al fatto che il logos è una forma d’essere e, inquanto tale, deve obbligatoriamente con-venire con l’Essere che lo fon-da. Pensare l’ordine, infatti, è pensare l’Essere nel suo manifestarsi co-me ente ma non è imporre un ordine al reale. Tale pensare è sempresottoposto alla conotazione fenomenologica del metodo nicoliano.

L’essere fenomenologico del metodo è ciò che lo rende dialettico ma,essendo la dialettica metodo universale del logos, significa che essa nonè attributo dell’Essere, bensì dell’ente. La fenomenicità dell’Essere nellasua assolutezza costituisce il terminus a quo e il terminus ad quem, del no-stro conoscere – e, nel caso dell’esistenza in genere, anche della nostravita. Abbiamo già osservato come Nicol concepisca il darsi fenomenicodell’Essere. È però vero che lo stesso assoluto si mostra nella sua mute-volezza interna, in quanto sempre permane, nella sua totalità, comeassoluto intrascendibile. Il mutare interno dell’Essere, costituente il suocarattere storico, si manifesta attraverso l’essere dell’ente, la sua mismi-dad. La dialettica, dunque, è fenomenologica in quanto è richiesta dallarelazione con l’ente, nella quale si mostra la stessa mismidad. Se il cono-scere non fosse dialettico, non potremmo conoscere le cose nel loropermanere, nonostante il loro continuo mutare. Il conoscere, però, peressere apodittico deve essere logos con-diviso, quindi la connotazionedia-lettica della ragione riconduce al dia-logo necessario alla fondazioneapodittica della scienza. Nel conoscere la mismidad di una cosa, però, ildia-logo non si instaura solo tra gli interlocutori, ma come relazionenella mismidad stessa. Infatti, come nella soggettività, la mismidad siconnota attraverso la dialettica assunta dalle tre estasi temporali, cosìnell’ente conosciuto, la dialettica temporale si manifesta attraverso ilconiugarsi di affermazione e negazione. Dal fatto che omnis determinatioest negatio «risulta che la determinazione è, allo stesso tempo, positiva e

263. CRS, pp. 185-186.

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negativa», ma questo significa che «la negazione è ontologicamentepositiva».264

Secondo Nicol, ogni negare qualcosa dell’ente è un rimando al suomanifestarsi come quell’ente particolare, quindi al suo essere. Per que-sto, la negazione non ha come fondo il nulla ma sempre l’Essere. A no-stro parere, la questione non si può risolvere in maniera così semplice.Il fatto che l’Essere, inteso cone fondamento, sia assoluto, quindi nonammetta opposto, di per sé impedisce il pensare la negazione comenulla. Permane, però, il problema di comprendere cosa sia questa nega-zione. Anche il solo uso del “negare” come discrimine per determinarela differenza tra due enti, mostra una realtà “differenziale”. In questa,sebbene sia determinato l’essere delle cose che differiscono, esse vengo-no riconosciute in base ad una mancanza reciproca. L’ente è dunquel’essere-mancante. Se gli oggetti lo sono in relazione alla nostra cono-scenza, l’uomo lo è naturaliter nel suo stesso concepirsi come indetermi-nato.265 Il mutare dell’uomo dovrebbe porre la questione di un mancarepermanente e mutevole che lo sospinge nella sua esistenza. Se, però,l’uomo è mosso da questo quid, la negazione assume un valore ontologi-camente positivo che allo stesso tempo non fornisce alcuna determina-zione e si manifesta come “non”. Per quanto comprensibile, tale que-stione si presenta come problematica. Rimandiamo per un momento laquestione dell’essere dell’uomo e torniamo alla definizione di “dialet-tica”.

La negazione è ontologicamente positiva, come abbiamo già osserva-to, perché, quando si nega qualcosa di qualcosa, ci si sta riferendo ad unente che “è”: «ciò che è negato delimita l’essere che è limitato: segna larelazione di alterità rispetto un altro essere, o un altro stato del suo esse-re stesso [da qui la mismidad]. La compatibilità tra il si e il no reali appa-re nella loro effettiva correlatività».266 L’ente, nel suo darsi fenomenico,si mostra, semplicemente è, ma il conoscerlo – quindi ri-conoscerlo –non avviene se non attraverso la considerazione di ciò che è e ciò chenon è. In tal caso, essere e non essere non sono assoluti ma correlativi erinviano all’essere dell’ente. La dialettica, come funzionamento della

264. CRS, p. 190.265. La non-forma come forma dell’uomo è il tema che Nicol affronta nel testo La

agonía de Proteo: «La forma è una costante dell’essere, ma l’uomo è un essere incostante: lasua è una forma che si trasforma. È l’essere proteiforme» (Herder, Mèxico 2004, p. 9).

266. CRS, pp. 190-191.

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ragione, non si propone di risolvere questa opposizione ma la accoglienella sua indubitabile presenza e continuo relazionarsi secondo modali-tà differenti [il cambiamento]: «entrambi i termini sono dialettici per-ché sono funzionalmente complementari quando si riferiscono al-l’essere dell’ente e al suo mutare».267 L’unità metodologica di fenome-nologia e dialettica viene confermata dalla conoscenza, che è tale inquanto apodittica, dunque, comunicata: «gli uomini parlano dialettica-mente, e su questo si basa il metodo della ragione. La filosofia è obbliga-ta a riconoscere che l’uomo è eccezionale, nel mondo degli esseri, nontanto per la sua facoltà di pensare», ma di pensare in modo dialettico.268

Dialettico è, dunque, il pensiero, perché coglie l’opposizione che si dànell’ente in forma di limitazione, e la riesce a cogliere nel tempo. Nicolricorda che tale dialettica fu ri-conosciuta per la prima volta da Platone,quando nel Sofista lo straniero afferma: «il dividere per generi e nonritenere diversa una forma che è identica, né identica una forma che èdiversa, non diremo che è proprio della scienza dialettica»?269

Connotare la scienza come “dialettica” indica che essa si attua soloin dia-logo e che riguarda le diverse forme d’essere, riconoscendo gliopposti.270 Tale dialettica è conoscenza dell’ente in quanto mismidadsempre in relazione con ciò che è altro da sé. La conoscenza si dà in dia-logo, riconoscendo come ontologicamente positivo il dia interposto tra itermini dialettici che costituiscono la mismidad dell’ente. Così, il logos èdialettico nel suo essere dialogo e nel suo essere storico: tale dialetticitàsi esprime pienamente nel dia-logo, dove «la preposizione dia, che si-gnifica “attraverso di”, indica già […] una separazione e allo stesso tem-po una congiunzione».271 L’uomo è dialettico a causa del logos, ovverodella ragione e della parola, che non sono mai separate. Inoltre, poichél’atto dia-logico è sempre fenomenico, «la dialettica, intesa come onto-logia del logos, non è che conseguenza ineludibile della fenomenolo-gia».272

267. CRS, p. 191.268. CRS, p. 192.269. Platone, Sofista, 253D, in Id., Tutti gli scritti, cit. Riguardo la questione del supera-

mento dell’eleatismo nella formulazione della dialettica platonica cfr. P. Di Giovanni (acura di), Platone e la dialettica, Laterza, Roma-Bari 1995.

270. Ivi, 253C.271. CRS, p. 192.272. CRS, p. 194.

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Se Platone è il primo che, secondo Nicol, codifica la dialettica comescienza, è pur vero che essa, in quanto essere della ragione, esiste dasempre ed il primo a riconoscerla in questo modo è stato il già citatoEraclito. Nel frammento B 8, il filosofo di Efeso afferma che dagli op-posti nasce armonia e nel B 51, riferendosi al kosmos, dice che gli uomininon comprendono «come, pur discordando in se stesso, è concorde: ar-monia contrastante».273 Come già detto, Nicol considera tali afferma-zioni in riferimento al logos attraverso il quale conosciamo la realtà, chequindi “fenomenologicamente” mi si mostra in maniera dialettica. Illogos è radicato nell’Essere, per cui il darsi del reale in maniera dialetticaè l’unica maniera che si ha di conoscerlo e rapportarvicisi. Le afferma-zioni di Eraclito, non vanno intese nel senso che l’Essere si oppone alnon-Essere, perché quest’ultimo non si dà alla nostra esperienza. Di persé non è concepibile ed ogni non-essere rinvia all’essere dell’ente. Se-condo Nicol, Platone si rende conto di questo e si oppone al pensieroparmenideo, ma non riesce a sottrarsi definitivamente all’eleatismo,lasciando la questione aperta. Ben altro è il pensatore che ristabilisce ilsenso della dialettica come unico possibile filosofare: Hegel. Anch’eglifa riferimento ad Eraclito274 ma, secondo il pensatore catalano, frain-tende le affermazioni lette nei frammenti ed eleva l’opposizione al li-vello dell’Essere. Questo fa sì che anch’egli rimanga vittima di quell’e-leatismo che non può pensare essere e cambiamento all’interno dellostesso Essere.275 Nel pensiero hegeliano, il divenire è concepito comenegazione continua delle determinazioni, in cui «ogni Finito consistenel rimuovere se stesso».276 Da questo punto di vista, anche Heideggersottolinea la differenza esistente tra le affermazioni di Eraclito e l’inter-pretazione hegeliana dei suoi frammenti: «la peculiarità della dialetticaè di giocare uno contro l’altro i due termini di una relazione, con l’in-tento di provocare un capovolgimento della situazione precedentementedeterminata sul piano dei suoi concetti. Per Hegel, ad esempio, il giornoè la tesi, la notte l’antitesi, e ciò costituisce il trampolino per una sintesi di

273. Eraclito, B51, in H. Diels – W. Kranz (a cura di), I Presocratici, cit., p. 208.274. «non v’è proposizione d’Eraclito che non abbia accolto nella mia Logica» (G. W. F.

Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia [1837], La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 307).275. CRS, p. 182.276. G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Rusconi, Milano 1996, p. 229.

Riguardo tale questione rimandiamo di nuovo a G. Cantillo, Le forme dell’umano. Studi suHegel, cit.

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giorno e notte, nel senso in cui il contrasto di essere e niente viene appia-nato dalla comparsa del divenire che nasce dialetticamente dal loro scon-tro. In Eraclito accade piuttosto la cosa inversa. Invece di collegare me-todicamente i contrari, giocando l’uno contro l’altro i due termini diuna relazione, egli chiama il diaphenómenon come synphenómenon, “Dio?Giorno-Notte”, è questo il senso della physis».277

Secondo Nicol, quella hegeliana non è logica degli opposti, dallaquale nasce l’armonia, bensì la logica della contraddizione. Bisogna ri-cordare che pensare “logicamente” significa pensare secondo l’ordine. Ilproblema, dunque, sorge dal fatto che in Hegel si darebbe ancora il pre-valere della ragione sull’Essere, il che rende la sua logica inaccettabile. Illogos dialettico non è affatto contraddittorio, «nella realtà non esistecontraddizione».278 La dialettica riguarda gli enti in quanto manifesta-zione dell’Essere, ma non l’Essere nella sua assolutezza.279 Se per la tra-dizione parmenidea il tempo è irrazionale perché il non-essere ha valorenegativo, per Hegel è razionale per lo stesso motivo. Per Platone invecela razionalità del tempo si basa sulla positività del non essere280 ed è inciò che, secondo Nicol, si fonda l’autentica dialettica: «secondo Parme-nide, l’Essere è e la realtà non esiste; secondo Hegel, la realtà esistentenon è l’Essere,281 e per questo l’Essere non esiste».282 Nell’ente non si dàcontraddizione, ma opposizione, e la co-esistenza è garanzia della com-

277. M. Heidegger, Seminari, Adelphi, Milano 1992, pp. 28-29.278. CRS, p. 186.279. CRS, p. 210. «Il divenire non esiste. Esistono solo esseri che divengono: cose che,

alterandosi, non perdono il proprio essere. Il cambiamento si predica di ciò che continua adessere. […] Ciò che cambia perdura. La durata si predica simultaneamente dell’essere e delcambiamento» (CRS, pp. 216-217). Con ciò, Nicol non vuole affermare che l’Essere sia im-mutabile, o meglio, vuole indicare che lo è in quanto Essere, ma che non lo è nel suo stessoarticolarsi in ente. Il cambiamento, che è unica realtà permanente riconosciuta dal logos –che a sua volta è storico –, si manifesta nella mismidad dell’ente. Il divenire, dunque, intesocome divenire dell’Essere, che necessariamente implicherebbe un passaggio attraverso lasua negazione, non esiste. Il cambiamento può avere senso solo quando si parla di ente.Quello che esistenzialmente era l’unica realtà visibile (il mutare), ontologicamente è unadeterminazione sostanziale, ma non assoluta, dell’essere.

280. «Per noi, dunque, anche l’ente non è, per tante volte quanti sono gli altri generi.Esso, infatti, non essendo quelli, è in sé uno, ma d’altro canto, non è quegli altri, che sonoinfiniti di numero» (Platone, Sofista, 257B, in Id., Tutti gli scritti, cit.; cfr. anche Sofista 240Be 241B).

281. «è nel momento dialettico in generale che risiede la vera elevazione, non esteriore,al di sopra del Finito» (G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., p. 229).

282. CRS, p. 211.

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patibilità: «questo significa che la negazione logica non è fondata nella nega-zione ontologica».283 Il fatto che non-essere ed essere, nell’ente, siano cor-relativi, mostra come essi appartengano all’Essere inteso come ordine.Questo è, secondo Nicol, il senso del frammento B 53 di Eraclito:«Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re»;284 la realtà è un processoincessante, «l’Essere permane mentre tutto cambia», e la permanenzaassicura il logos di ciò che cambia. La dialettica hegeliana non è cono-scenza della realtà così come si mostra. Infatti l’identificazione, operatada Hegel, tra principio ed Essere non è corretta,285 in quanto l’Esserenon è principio, ma fondamento: dall’Essere non si inizia, ci si è già dasempre.286

Fenomenologia e dialettica sono le connotazioni essenziali del me-todo, ma questo significa che finora «la filosofia non è stata mai dialet-tica e fenomenologica in maniera completa, ossia le due cose congiun-

283. CRS, p. 213. Secondo Nicol, l’essere parmenideo, per affermarsi deve necessaria-mente considerare il cambiamento – quindi la realtà nel suo essere autentico – un’illusione.Al contrario, Hegel considerando l’essere alternantesi alla sua completa rimozione, nonriesce a cogliere l’Essere nel suo manifestarsi come fondamento assoluto.

284. Eraclito, B53, in H. Diels – W. Kranz (a cura di), I Presocratici, cit., p. 208.285. Cfr. G. W. F. Hegel, Scienza della logica [1812-1816], Laterza, Roma-Bari, 2004, libro

I. Come afferma J. González, «quello che è metafisicamente decisivo è tenere presente che,per Hegel, l’autentico inizio e fondamento, e la chiave logica e ontologica che esplica la ra-zionalità del divenire, è questo Prinzip della Logica, ossia la contraddizione dei due assoluti:l’Essere puro e il Nulla puro» (J. González, La metafísica dialèctica de Eduardo Nicol, cit., p.81). Cfr. anche IH2, p. 51.

286. E. Nicol, Los principios de la ciencia, cit., p. 365. Lo stesso Kojève, nella sua profondainterpretazione del pensiero hegeliano, pur considerando dialetticamente strutturato solol’essere che si rivela nel discorso o nella parola, è costretto ad ammettere che la totalitàdell’essere si dà nello Spirito. Eppure, ravvisa che la dialettica hegeliana riguarda solo il di-scorso e il pensiero umano, e non la realtà che in sé non avrebbe nulla di dialettico. Inoltre,considera l’Entgegensetzung hegeliana come “opposizione” e non contraddizione, aventespecificatamente valore positivo. La “soppressione-dialettica” (Aufheben) consisterebbe,dunque, non nella negazione assoluta del finito ma nella modalità in cui si mostra il diveni-re storico. In tal modo Hegel vorrebbe mostrare che il mondo si connota come mondo na-turale e mondo storico (A. Kojève, Introduzione allo studio di Hegel, Adelphi, Milano 1996, pp.557-655). Se così fosse, la critica nicoliana costituirebbe un enorme fraintendimento del pen-siero hegeliano. Non è questo il luogo in cui verificare la validità della posizione di Kojèveo di Nicol; quello che, però, si può dire è che quando Hegel, nella sua Enciclopedia parla diEssere, pensa alla possibilità della sua rimozione totale (cfr. G. W. F. Hegel, Enciclopediadelle scienze filosofiche, cit., § 84), mentre quando si riferisce allo Spirito assoluto, lo descrivecome Realità, ovvero esistenza (Ivi, p. § 553). Lasciando aperta la questione, a nostro parerequello di Kojève è un tentativo, alquanto problematico, di interpretare la dialettica di He-gel, al di fuori della sua stessa fenomenologia (A. Kojève, Introduzione allo studio di Hegel,cit., p. 558).

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tamente».287 Il metodo, dunque, è definito. Va, però, considerato il fattoche, fenomenologicamente, l’uomo e le altre cose si presentano comeenti la cui forma d’essere differisce sostanzialmente.288 L’uomo non ècosa, o se lo è, non lo è per apprensione immediata. Ci accingiamo adoccuparci di tale questione, che è meta e conclusione del nostro per-corso.

3.8. L’uomo “soggetto” dell’espressione

Per conoscere l’ente “scientificamente” è necessario muoversi oltrela primaria apprensione dell’Essere che in esso si manifesta, e iniziare ari-conoscere la sua quidditas, ovvero le determinazioni che lo rendonotale. Prima di questo stadio di conoscenza, l’unico nostro sapere riguar-da l’Essere e quindi la sua presenza attuale nell’ente – anche se questaseconda dimensione già ci solleva al livello del logos comune. Per quan-to riguarda l’uomo, invece, non «sono nascoste neanche la funzionecentrale e il primo dei tratti che costituiscono quella struttura. La suapresenza fenomenica non copre il suo essere autentico: non dobbiamooltrepassare la sua apparenza per liberare l’essere o s-coprire [des-cubrir]l’essenza»289 – condizione che in parte era stata notata già quando si èparlato della relazione “io-prossimo” nell’ambito della situazione vitale.L’uomo, secondo Nicol, è l’unico ente nei confronti del quale facciamoesperienza sia di un’esistenza immediata, come accade per qualsiasialtro ente, sia di un rivelarsi, attraverso questa mera presenza, di unforma d’essere ben precisa: «l’uomo porta le categorie del suo essere afior di pelle».290 Nell’uomo, l’apprensione e l’identificazione distintivasi danno congiuntamente e simultaneamente: riconosciamo l’altro uo-mo immediatamente come “altro” (ente, quindi esistente) e come “uo-mo”. La singolarità ontologica dell’uomo non sta, come sostiene Hei-

287. CRS, p. 155.288. Il logos differenzia l’uomo dagli altri enti. È la capacità di conoscere, inteso come

con-dividere il logos, che permette all’uomo di mostrar-si come essere caratterizzato dallogos: «l’essere della ragione si riferisce alla ragione stessa e, dunque, all’uomo, come esseredella ragione. È necessario dire, dunque, che l’uomo è l’unico essere autenticamente dialet-tico; la ragione un suo attributo definitorio» (CRS, p. 216).

289. ME2, p. 175.290. Ibidem. Cfr. anche E. Nicol, La agonía de Proteo, cit., p. 15.

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degger,291 nel fatto che può interrogar-si riguardo l’Essere, cosa che se-condo Nicol è determinata anche dalla specifica situazione vitale nellaquale si è immersi, ma nel fenomeno della sua presenza che reca, im-pressa insé, la sua specifica forma ontologica. Ciò permette che taleforma possa essere log-icamente percepita senza il bisogno di un’ulterio-re analisi fenomenologico-dialettica. Questo accade perché ciò chel’uomo rivela, con la sua stessa presenza, è la stessa “rivelazione”: «lapresenza umana è rivelazione espressa».292 La presenza altrui non rivelasolo la presenza ma anche l’espressività ad essa strutturalmente connes-sa, che rende immediata la “prossimità”, la quale fa dell’altro uomo il“prossimo”, rispetto agli altri enti.

Poiché l’essere dell’uomo si rivela come espressione,293 il metodo fe-nomenologico-dialettico che permette di conoscere l’essere delle cose inrelazione all’Essere, quindi come manifestazioni di quest’ultimo, deveassumere un’altra caratteristica, dovrà essere ermeneutico: «il metodofenomenologico deve essere ermeneutico, quando è applicato all’esseredell’espressione, perché è ermeneutica, in modo spontaneo, già la dispo-sizione con cui ci confrontiamo gli uni con gli altri nella vita comu-ne».294 La connotazione ermeneutica del metodo, come quella fenome-nologica e quella dialettica, non deriva da un’impostazione assunta arbi-trariamente rispetto alla “presunta estraneità” del reale. L’ermeneutica ècondizione della comunicazione, e quest’ultima è condizione del cono-scere una realtà che si dà solo attraverso la con-divisione. Come affer-ma Gadamer, «si tratta di un rapporto circolare fra il tutto e le parti: ilsignificato anticipato da un tutto, si comprende attraverso le parti; male parti svolgono la loro funzione chiarificatrice solo alla luce del tut-to».295 Il metodo diviene ermeneutico quando si tratta dell’uomo ma èrealmente possibile trattare dell’ente in generale senza trattare del logos,quindi dell’uomo?296 Il metodo, dunque, assume un’altra connotazione

291. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 4; Id., Kant e il problema della metafisica, cit.,§ 39 e ss.; Id., I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., § 5.

292. ME2, p. 175.293. È necessario segnalare come alcuni dei tratti che caratterizzavano l’uomo ne La psi-

cología de las situaciones vitales dal punto di vista esistenziale, si manifestino ora come carat-teri ontologici (la mismidad per la conoscenza, l’espressione come essere dell’uomo), eviden-ziando il tratto distintivo “antropologico” della metafisica nicoliana.

294. ME2, p. 176.295. H. G. Gadamer, Il problema della coscienza storica [1963], Guida, Napoli 1988, p. 62.296. Non va dimenticato che, come afferma Paul Ricoeur – altro grande esponente, in-

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ma l’assume, in maniera definitiva, nel momento in cui ci si rende con-to della differenza tra la forma d’essere dell’ente uomo e dell’ente non-uomo. Non bisogna dimenticare che anche l’animale si mostra come“essere espressivo” ma il suo esprimere non è comunicativo dal puntodi vista di un logos comune. La realtà dell’animale è strutturata in basealla sua vita singola e non secondo una comunicazione costituente laveracità del reale stesso.297 La presenza umana mostra, di per sé, il sensodell’essere dell’uomo: «l’uomo è l’essere del senso»298 ed è per questoche non può mai ritrovarsi nella “mancanza di senso”. La creazione delsenso della vita corrisponde alla stessa vita umana nel suo attuarsi; diqui la vocazione alla vita che caratterizza l’umana esistenza. La prossi-mità nella quale cogliamo l’altro uomo si manifesta proprio come lanecessità di interpretare il suo essere fin dall’apprensione di esso: delnon-umano sappiamo solo che è altro, non che è “l’altro”. Il senso, però,si manifesta solo all’ente il cui essere è senso: «discernere l’essere dotatodi senso è proprio dell’essere dotato di senso».299 Il modo di dar-si, diqualsiasi cosa, forma parte integrante di ciò che si dà; ma mentre per gliuomini il dar-si è completo comunicar-si, per le cose il dar-si si manife-sta come «l’essere [esse] diverse dall’essere dotato di senso».300 Per que-sto non si può dire letteralmente che esse “si danno” ma solo che “sonoqui”, presenti; «viceversa, l’uomo è lì nel modo peculiare del darsi: lasua presenza è una consegna».301 L’uomo non trova il suo senso nel ri-conoscimento, ma è senso, è ri-conoscimento: «il dato umano è l’atto di

sieme a Gadamer, della svolta ermeneutica della filosofia novecentesca (cfr. F. Bianco, In-troduzione all’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 2005) – «ogni interrogativo circa un qualsiasi enteè un interrogativo circa il senso di questo “ente”» e questo obbliga la fenomenologia «a concepi-re il proprio metodo come una Auslegung, una esegesi, una esplicitazione, una interpreta-zione» (P. Ricoeur, Dal testo all’azione [1986], Jaca Book, Milano 1994, pp. 52-59). Nello stes-so testo, Ricoeur definisce il suo metodo “fenomenologia ermeneutica”. Il fatto che egli nonprenda in considerazione la dimensione dialettica del metodo dipende, a nostro parere, dalsuo arrestarsi di fronte all’ontologia, evitando di porsi in maniera diretta dinanzi alla que-stione dell’Essere, e preferendo quella che lui stesso definisce come “via lunga”, fatta diconfronti con le manifestazioni dell’essere nella storicità dell’esistenza (cfr. P. Ricoeur, Ilconflitto delle interpretazioni [1969], Jaca Book, Milano 1995).

297. Secondo Nicol, l’animale è espressivo solo in relazione all’uomo, in quanto nonmanifesta la sua libertà nell’espressività, non stabilisce una com-unità della verità, non rea-lizza il suo essere nel dia-logo e per questo non è simbolico (cfr. ME2, p. 212).

298. ME2, p. 176.299. Ibidem.300. Ibidem.301. Ibidem.

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darsi: è un’espressione la cui forma più elevata è quella del “darsi adintendere”».302

L’espressione è l’essere dell’uomo inteso come attualizzar-si. L’uomonon è al di fuori dell’espressione, ed è così perché in lui tutto è espres-sione, tutto è senso, anche la mancanza di senso. Poiché l’uomo èespressione il suo essere si dà solo in situazione. Questa è la ragione perla quale Nicol può affermare che l’interlocutore è una necessità metafi-sica. La presenza dell’uomo già come espressione, sua forma d’essere,mostra che la nostra conoscenza dell’umano, al contrario di quella delnon-umano, si basa sull’ignoranza della sua specificità: «sappiamo del-l’uomo (non della sua specie, bensì della forma di essere comune) per-ché non sappiamo di ogni uomo (del suo modo di essere individuale eattuale)».303 Per conoscere cosa sia una pietra dobbiamo giungere al ri-conoscimento e poi al primo stadio della fase scientifica, mentre l’uomolo conosciamo in quanto espressione diretta: la forma d’essere non dàadito a dubbi, ma il modo di essere è quello dell’“ambiguità”. Ambigui-tà qui indica che la conoscenza dell’uomo reca con sé la certezza delriconoscimento e, allo stesso tempo, la possibilità dell’imprevisto: lapietra sarà sempre ri-conosciuta come pietra; l’uomo conosciuto imme-diatamente come uomo, poi nella sua individualità potra variare in in-finiti modi.

Questo, dunque, il differenziarsi dell’uomo rispetto all’essere senzasenso, che mostra come l’indagine ontologica debba partire dall’uomo inquanto ente che esiste parlando dell’essere. Si può obiettare che l’inda-gine dovrebbe partire dall’essere ma significherebbe non aver compresola questione dell’Essere come è stata elaborata dallo stesso Nicol. Nel-l’Essere già da sempre siamo; un’indagine ontologica, ovvero scientifi-ca, non può porsi come problema “ciò che è dato”. Questo implica chedell’Essere, inteso come fondamento assoluto, non si da onto-logia, per-ché è solo a partire dalla sua datità che può svilupparsi l’ontologia stes-sa. Nemmeno dell’essere dell’uomo in quanto espressione si dà onto-logia, intesa come “dare ragione”, se non come lettura descrittiva delsuo essere dialettico ed ermeneutico. Come si è già osservato, il metodonon è dialettico ed ermeneutico per scelta ma in quanto conforme alla

302. ME2, p. 177.303. ME2, p. 178.

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realtà dell’uomo.304 Volgendoci alla realtà dell’umano, dunque, com-prendiamo che l’espressione non è solo ciò che dell’uomo ci appare –altrimenti avrebbe valore categoriale solo nell’ambito di una psicologiasituazionale –, ma il suo tratto costitutivo che precede, fonda e nel qualesi connettono tutti gli altri. Per questo l’uomo non può essere compresose studiato al di fuori di una situazione: essere espressione significa es-sere complementare. In quanto espressione, l’uomo è simbolico perchéla comunicazione non si dà come nesso tra due soggetti ontologicamen-te sufficienti o estranei. Nella comunicazione l’uomo gode dell’esseredell’altro interlocutore e viceversa; entrambi con-dividono l’essere, nonsolo come conoscenza: «Darsi ad intendere è affermare se stesso; dare adintendere è affermare l’essere posseduto nell’atto di es-porlo di fronteall’altro».305 Se il reale può giungere a verità solo nella conoscenza che ècon-divisione dell’evidenza, per Nicol è possibile parlare di «primatoontologico dell’uomo».306

La singolarità dell’uomo non sta nella sua capacità di porre la do-manda circa l’essere, ma nella sua stessa forma d’essere. Specificandoulteriormente, Nicol afferma che la sua peculiarità sta proprio nel suoessere creazione di senso, quindi nella sua capacità di rispondere; «non,dunque, di rispondere alle domande che egli stesso possa formulare,mbensì di mantenere con la sua presenza attiva una sorta di responsa-bilità esistenziale, consistente nel rendere presente l’essere mediante laparola».307 Se non ci fosse l’uomo, l’essere non esisterebbe nella modali-tà della presenza: «senza l’uomo, l’essere non è completo, per quantoeffimera sia l’esistenza dell’umanità nell’universo».308 L’uomo è presen-za espressiva e il “rendere presente” che lo costituisce è il “differenzia-le” rispetto alla mera presenza, che è l’apprensione dell’Essere: «Vi è piùessere da quando si può parlare dell’essere».309 Riguardo quest’affermazione,«occorre precisare che quando Nicol parla di “più essere” non intendeun incremento quantitativo dato che l’essere come primum cognitum ètutto l’essere che c’è, bensì intende l’articolarsi della storicità dell’esserenei termini dialettici della comunicazione costituiti dalla differenzia-

304. IH2, p. 24.305. ME2, p. 179.306. ME2, p. 185.307. Ibidem.308. Ibidem.309. Ibidem.

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zione e dall’appropriazione che ha luogo tra enti ontologicamente affinie perciò complementari».310 In questo senso, «l’uomo è l’essere che deveprodurre più essere. Questo destino si compie, da quando c’è il verbo,inesorabilmente. È nello stesso tempo destino e vocazione, perché non èfacoltativo: è la vocazione umana».311

Come afferma Nicol, «la riforma del metodo era la condizione ne-cessaria per costituire, a partire dalla base stabile dell’esperienza,un’autentica scienza dell’uomo».312 Per questo, il nostro lavoro non puòdirsi completo se, una volta mostrata la differenza, interna allo stessoEssere, tra le due forme d’essere in cui si articola – l’ente uomo e l’entenon-uomo – non analizziamo la struttura dell’uomo, ponendo l’atten-zione, come richiede la connotazione ermeneutica del metodo, su coluiche (si) esprime, e sullo strutturarsi dell’espressione stessa come mani-festazione del suo essere.

«Non vi può essere alcun dubbio circa colui che esprime: l’uomo èl’essere che esprime».313 Questa affermazione è vera ma, secondo Nicol,va chiarita in relazione al “chi” che esprime e alla sua forma d’essere.Innanzitutto, dire che “l’uomo è l’essere che esprime” non significaconcepire l’espressione come una delle caratteristiche dell’umano: «l’uo-mo è espressione», ragion per cui l’espressività è «la categoria con cuicomrpendiamo uno dei due ordini dell’essere, e così lo distinguiamodall’altro».314 Inoltre, l’espressione si dà come fenomeno, attraverso ilquale colui che esprime si individualizza e distingue – ma mai si separa– dagli altri individui. Qualsiasi uomo è implicato nell’espressione co-me atto in cui si esprime ed esprime qualcosa: «la presenza di un uomoè testimone della piena presenza di ciò che è umano».315 Qualsiasi mo-dalità dell’esistenza si esprime e, in base a ciò, può essere conosciuta:questo significa che l’espressione si rivela non solo come unica fonte diinformazione, dal punto di vista fenomenologico, che ci permette dieffettuare un’ermeneutica dell’esistenza, ma anche come la «funzione

310. M. L. Mollo, Nuovi sentieri dell’ontologia fenomenologica in Eduardo Nicol, cit., p. 103.311. ME2, p. 186. Ecco che la vocazione alla vita, di cui abbiamo precedentamente parla-

to, si configura come vocazione ontologica, in quanto articolazione, mediante la parola,dell’essere a partire dall’Essere che è fondamento della stesa vita umana – la quale è semprelog-ica –.

312. IH2, p. 14.313. ME2, p. 189.314. Ibidem.315. Ibidem.

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esistenziale primaria, dalla quale tutte le altre dipendono per la loro ef-fettività, e mediante la quale acquisiscono il loro senso proprio».316 Eccoperché l’unica maniera di definire l’indefinibilità dell’uomo è indicarlocome «l’essere dell’espressione: ecco l’uomo».317

La certezza con la quale possiamo assumere questa definizione deri-va dal suo carattere immediato, ovvero da un’identificazione che si rea-lizza in maniera intuitiva e dia-logica. Rispetto a qualsiasi altra defini-zione che richiederebbe inizialmente l’esplicazione dei termini che ven-gono utilizzati, concepire l’uomo come l’“essere dell’espressione” signi-fica definirlo in base al suo stesso manifestarsi quale è. Se lo definissi-mo come colui che è dotato di qualcosa, dovremmo prima definire que-sto qualcosa per poi comprendere l’essere dell’uomo. L’espressione, alcontrario, è l’essere dell’uomo che non si dà, né viene colto, al di fuoridel suo esprimere. In realtà, potremmo obiettare che anche il termine“espressione” dovrebbe essere chiarificato prima di parlare dell’uomo. Atale obiezione Nicol risponderebbe che l’espressione non è un caratteredistintivo, bensì è l’essere dell’uomo. L’uomo in quanto tale non è cheespressione; vedere l’uomo è vedere l’espressione nel suo essere, e nelsuo essere uomo. Alquanto destabilizzante come affermazione, quelladi Nicol vuole mostrare come l’essere dell’uomo non sia ipostatizzabilein quanto sempre esposto all’imprevisto. La mismidad dell’uomo differi-sce da quella delle cose che è sempre ri-conosciuta comunemente.Quella dell’uomo è conosciuta immediatamente (nell’apprensione diret-ta) ma, proprio per questo, sempre modificantesi: «l’essere dell’uomo èattualità nel modo distintivo della storicità».318 Per questo motivo,l’analisi dell’essere dell’uomo inteso come espressione, come già ha mo-strato quella della sua esistenza, deve dispiegarsi come teoria della veri-tà e della storia. Perché questo sia possibile è necessario affrontare unaquestione basilare, ovvero quella dell’inter-comunicazione.

A tale questione è sottesa una domanda: se l’uomo è l’essere dell’e-spressione, «come deve essere, come deve essere costituito un ente cheesprime sempre e in cui tutto è espressivo»?319 Secondo Nicol, la do-manda contiene in sé la risposta: ciò che l’uomo è e tutto quello che fa si

316. ME2, p. 191.317. ME2, p. 193.318. IH2, p. 39.319. ME2, p. 198.

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spiega – e di-spiega, diremmo noi – attraverso l’espressione; non è ne-cessario andare alla ricerca di alcun carattere nascosto perché il senso ègià evidente nell’atto stesso di esprimere: l’uomo è l’essere del senso.Questo è il dato primario da cui partire, e non la meta di un itinerariointerpretativo. Il nostro giungervi ora deriva dall’intenzione di averneuna conoscenza ontologica e questa si delinea come ri-conoscimento.Non ha senso andare oltre questo dato fondamentale: non lo ha perchénon troveremmo nessun altro carattere esplicativo, e perché oltre l’es-sere del senso non v’è più alcun senso – infatti l’Essere non ha senso, neè solo la conditio sine qua non. Riconoscendo l’espressione come esseredell’uomo viene meno la necessità di porre il “problema” della comuni-cazione: l’evidenza del “tu” come interlocutore è immediata (necessa-ria) e apodittica (con-divisa da qualsiasi uomo). Siamo da sempre inuna relazione dia-logica che precede qualsiasi conoscenza di tipo scien-tifico o selettivo: «la relazione dialogica non è selettiva; essa è piuttostoassunta senza previa analisi ed è essa stessa espressiva di un ente costi-tuito in quanto essere dell’espressione. La compresenza è di per se stessauna comunità ontologica: l’io e il tu, posti l’uno di fronte all’altro, pos-sono comportarsi solo dialogicamente».320 L’espressione è essere dell’uo-mo e non dell’ente non-uomo, ragione per cui l’uomo è l’unico ente cherealmente “si presenta”: gli altri enti sono presenti, mentre l’uomo sipresenta a se stesso e fa presente, nell’esprimer-si, altri enti, il cui essereè di forma differente rispetto alla comunità dia-logica. Il “tu” non è unente qualsiasi, è “l’altro”, «ossia l’altro io».321 Tale apprensione diretta èpossibile perché «siamo capaci di avvertire, anche se non lo diciamo,che [per quanto riguarda l’uomo] la presenza che si dà trascende la suaentità individuale: che l’atto espressivo riesce a comunicare ciò che nonè di per sé comunicante».322 Di questo abbiamo evidenza, ragion per cuila comunicazione non costituisce problema, ma è dato originario.

Come è nato, allora, tale falso problema? Perché l’uomo ha messo indubbio la possibilità reale di comunicare intersoggettivamente? Secon-do Nicol, il problema nasce a partire da Descartes, nel momento in cuiil filosofo francese distingue tra res cogitans e res extensa, e costituisce la

320. ME2, p. 200.321. Ibidem.322. ME2, p. 201.

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prima come “luogo dell’io”.323 Da quel momento la teoria cartesiana èstata assunta come paradigma.324 Nell’interpretazione che Descartes dàdel corpo inteso come macchina,325 la relazione inter-soggettiva imme-diata risulta impossibile. Infatti, se l’io è posto solo in quella partedell’uomo che non è corporea, l’uomo potrà raggiungere l’altro uomosolo dopo aver attraversato la doppia barriera corporea che si interponetra i due “io spirituali”. Tale attraversamento non è spaziale, ma indicache dal punto di vista fenomenologico il “toccar-si” – in senso letteralema anche metaforico – ha un evidente connotazione corporea. Com-unicare, in questo caso è “umanamente” impossibile, e infatti Descartesnon affronta il reale problema della comunicazione se non attraversoquello, mai risolto realmente, della sintonia tra le due res.326 Tale impos-sibilità di cominicare è dovuta alla dissociazione, avvenuta nel pensierocartesiano, dell’espressione dall’essere dell’uomo: la ragione non vienepensata come espressiva. Eppure, Leibniz, pur accettando, con le rispet-tive differenze, le conclusioni del ragionamento cartesiano, si rendeconto della necessità di ristabilire la relazione dia-logica e non trovaaltro sistema, dato che l’uomo autentico è ingabbiato in un corpo alquale ripugna l’espressione, che quello di ipotizzare un’armonia presta-bilita che governi le monadi che siamo.327 Leibniz, secondo Nicol, com-prende che la relazione è unica garanzia della verità della conoscenza.Allo stesso tempo, però, formulando l’idea dell’uomo come monade,senza finestre, chiusa in sé, sebbene rispecchiasse in questo sé tuttol’universo, dovette cedere al fatto che il corpo concepito alla manieracartesiana si manifestava come “ciò che isola”. Descartes, secondo ilpensatore catalano, dimentica che quando si parla dell’uomo, non si

323. «Ecco: il pensiero è; esso solo non può essermi strappato. Io sono, io esisto: è certo.[…] Ma che cosa, dunque, io sono? Una cosa pensante» (R. Descartes, Meditazioni sulla filo-sofia prima [1639-1640], Mursia, Milano 1994, pp. 61-62).

324. Su questo punto crediamo sia giusto segnalare un mancato confrontarsi, da parte diNicol, con la questione gnoseologica così come è affrontata in Vico, per il quale, il corponon può essere considerato alla stregua di una mera macchina, così come in Descartes (cfr.B. de Giovanni, Corpo e Ragione in Spinoza e Vico, in AA.VV., Divenire della ragione moderna.Cartesio, Spinoza, Vico, Liguori, Napoli 1981, pp. 93-165; G. Modica, Umanesimo e corporeità inGiambattista Vico, in G. Santinello (a cura di), Giambattista Vico. Poesia, Logica, Religione,Morcelliana, Brescia 1986, pp. 352-366)

325. Cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., parte V.326. Cfr. a tal proposito S. Nicolosi, La psicologia cartesiana tra dualismo ed unità sostan-

ziale, «Aquinas», 1-2 (1983), pp. 35-52.327. G. W. Leibniz, Monadologia [1714], Laterza, Roma-Bari 1991, pag. 106 (§ 56).

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parla di semplice corpo ma di “corpo umano”. Ora, tale corpo, vienepensato come unito all’anima in base al fatto che, alla morte di qualcu-no, possiamo continuare a vedere il “corpo”, senza che questo sia vivo,ovvero vivificato da quel principio che possiamo chiamare spirito oanima. L’unione di anima e corpo è, in questo caso, un mistero. Il mi-stero però non fa parte della scienza che si attiene al dato fenomenolo-gico per poi conoscerlo nella sua mismidad. La scienza ontologica, dun-que, deve partire dal dato della espressività del corpo, che è misteroanch’esso, e quindi dato originario non scomponibile: «il corpo solo èpiù che un’astrazione, leggittima in biologia, funesta in ontologia».328

In realtà, la stessa definizione di “corpo umano” dà adito all’idea cheesista qualcosa di umano che non sia corporeo, di un elemento costitu-tivo dell’uomo irriducibile al corpo, «ma è l’uomo intero la forma di es-sere irriducibile al corpo».329 Tale espressione deve essere intesa in ma-niera corretta: quando diciamo “corpo umano” non vogliamo effettuareuna distinzione tra ciò che c’è di umano e ciò che non lo è, nell’ambitodel nostro essere; vogliamo, invece, indicare una differenza radicale trail corpo umano e gli altri corpi. Il corpo umano lo “abbiamo” in manieraesclusiva e vitale, e per questo “ci” esprime. Questo “avere” non è unpossesso aggiunto ma strutturale. In realtà, il verbo “avere” non riesce atrasmettere bene il senso di questa “incarnazione”: si tratta di un’unità.La scienza medica può considerarlo “corpo” a partire da un punto divista parziale che non è ontologico ma funzionale all’intento dei risulta-ti che si vogliono ottenere. Tantomeno si può pensare che la biologiariveli la vera natura del corpo a partire dal fatto che il processo lingui-stico ed espressivo in genere sia qualcosa legato totalmente ai processiorganici. Il fatto che l’uomo viva del “superfluo” e che distingua in basea questo la vita, che si costituisce includendo tale “superfluo” – qualepuò essere l’arte, gli hobby, il tempo libero e la filosofia stessa –, dallasopravvivenza, mostra che l’espressione è creativa e simbolica: «a nes-suna funzione organica può essere attribuita la capacità di produrre si-stemi simbolici che si evolvono storicamente, senza una corrispoettivaevoluzione somatica. Solamente la filosofia, grazie alla sua letteraleimparzialità, può dare completamente ragione dell’unità umana».330 E di

328. IH2, p. 38.329. ME2, p. 203.330. ME2, p. 205.

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unità si parla, perché quando abbiamo un uomo di fronte lo percepiamocome uomo, non come corpo. Per questo non è possibile definirci “cor-po”, ma nemmeno “corpo umano”, in quanto tale nozione reca già, insé, la considerazione di qualcosa che non è espressivo, ovvero il corpo:«il corpo cessa di essere mero corpo quando è espressivo. Ma allora nonè un mero trasmettitore. Il corpo non è un mezzo di comunicazione alservizio di un comunicante occulto. […] l’uomo rivela l’integrità del suoessere con la sua sola presenza. […] Il concetto di corpo umano non èneanche un concetto scientifico che possa essere impiegato in metafisi-ca».331 Dobbiamo attenerci al dato: quando incontriamo un uomo, ve-diamo un uomo e non un corpo: «l’uomo è tangibile; il concetto di cor-po non è primario». Questo significa che «bisogna cercare altre catego-rie» per esprimere tale realtà, che la situazione vitale, nel suo strutturar-si come relazione costitutiva della mismidad, riesce a comprendere edesplicare in maniera più chiara e aderente alla realtà.332

L’uomo, come espressione, è sempre “situabile” a partire dal suostesso essere, per cui è sempre in relazione. La comunicazione, quindi,si dà come dato originario a partire dal quale è possibile conoscerel’essere che comunica, ovvero l’uomo. L’espressione, come già mostratodal punto di vista esistenziale nella Psicología de las situaciones vitales,permette di comprendere l’uomo sempre situato in relazione. Allo stes-so tempo, però, è carattere differenziale in quanto distingue ogni uomodal non-umano e dall’altro-uomo. Esprimendo-si l’uomo si rende diffe-rente da ogni altro uomo: «l’espressione è distintiva perché l’umanitànon è un genere».333 L’insieme ontologico e logico, che include tutti gliindividui avente stesso genere, impone l’uguaglianza e non ammettedifferenziazioni nell’attuazione della propria forma d’essere. Nell’uo-mo, invece, la forma d’essere determina la singolarità della sua attuazio-ne. La comunità ontologica che riguarda l’uomo si mostra nella storia:«nella scienza dell’uomo, il concetto logico di genere viene sostituito daquello ontologico e storico di comunità».334 Essere differenti, pur aven-do la stessa forma d’essere, significa essere liberi: «l’espressione è la for-ma ontologica della libertà: ogni libertà è libertà di espressione. Libertà

331. ME2, p. 206.332. PSV, capitolo V.333. ME2, p. 208.334. IH2, p. 78.

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non elargita dal prossimo come un diritto, bensì conquistata, di fatto, daognuno, in quel processo di formazione del proprio essere che è la rela-zione comunicativa con il prossimo».335 L’espressione è, in quanto rela-zione, principio di individuazione. Questa, però, può avvenire solo at-traverso la relazione che, di per sé, forma la com-unità: «individualità ecomunità non sono separatamente definite. Di fatto, non sono definite.Ciò che è costante è soltanto la loro correlazione necessaria; la loro real-tà attuale è storica».336

La verità, che si manifesta nella relazione, è sempre dia-logica. Nelsuo essere tale si impone come fedeltà, non alle cose, ma all’altro. Talevincolo costituisce la comunità umana. Sia chiaro che non c’è un previoaccordo riguardo il “dire la verità”. La dimensione della verità è ontolo-gica. Con questo non si vuole affermare l’esistenza di una verità eternain sé ma la possibilità di una verità che permanga in base alla relazioneche la fonda. Per questo motivo, storicamente, vi sono delle concezioniche variano e altre che permangono.337 Questo non significa che nessu-na conoscenza sia autentica o che nessuna scelta abbia senso: il senso èproprio dell’uomo perché l’uomo è l’essere del senso. L’uomo vivecreando senso e stabilendo, in maniera primaria, la verità dell’essere neldia-logo: «la verità ha, dunque, questa doppia faccia di sottomissioneaccettata e di libertà compiuta nell’espressione. La verità è dell’uomo eper l’uomo».338 In base a ciò, la tradizione si struttura come un dia-logo,nel quale la produzione culturale testimonia l’opera dell’autore e del-l’uomo in genere: «l’uomo, come creatore di senso, non soltanto ag-giunge il mondo simbolico della sua espressione al mondo naturale in-differente, bensì riesce anche a trasformare la natura stessa, e a proietta-re il senso persino in ciò che costitutivamente ne è privo. Da una parte,fa uso di oggetti naturali come mezzi o utensili di espressione, comesimboli dei simboli; ma, inoltre, trasforma nella sua mente la rappre-sentazione della natura stessa, ed è capace di contemplare esteticamentecome paesaggio ciò che il contadino apprezza utilitaristicamente, ciò

335. ME2, p. 209.336. Ibidem.337. Su tale condizione si basa il modificarsi della cultura – e dell’idea dell’uomo –

nella storia, che abbiamo osservato, come questione, nell’ultimo paragrafo del capitoloprecedente.

338. ME2, p. 210.

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che il geologo analizza scientificamente».339 Nel suo essere fedeltàall’altro uomo, la verità manifesta il suo carattere etico: «questa fedeltàalle cose ha un senso etico perché, a rigore, piuttosto che un atteggia-mento di fronte alle cose, essa è una posizione di buona fede di fronteagli altri, rispetto ad esse».340 La verità si manifesta come possibilità direlazione con l’altro uomo; relazione nella quale compiamo l’intenzio-nalità comunicativa costituente la conoscenza stessa. «Verità vuol direcomunità in un doppio senso: concordano coloro che dialogano, e cosìaffermano con la parola la loro forma di essere comune. Nello stessotempo, entrambi i partecipanti concordano con l’essere comunicato».Per Nicol, si può parlare di vera e propria “comunione”, perché si trattadi «una partecipazione attiva: non è il semplice fatto di stare nell’essere,bensì un atto che gli aggiunge qualcosa che prima non era dato».341 Talecomunione non è vanificata dall’errore che, comunque, deriva dal rico-noscimento della stessa realtà. Secondo Nicol, solo l’inganno, intesocome sospensione dell’ordine della verità, quindi della com-unità, puòdistruggere la comunione tra uomini e, con essa, la stessa idea di umani-tà. L’etica di cui è intessuta la verità, in quanto dia-logica, precede ogniprecetto morale che da essa può derivare, ed ogni possibile conoscerescientifico: «la verità è costitutivo dell’essere che esiste nella formadella comunità dialogica […] è espressione (e in questo enunciato silegano l’espressività e l’eticità dell’uomo)».342

Il carattere etico è inerente alla verità stessa, che è la forma primariadi responsabilità: «parlare è rispondere. Non soltanto rispondere a ciòche l’altro abbia detto, rispondendo a una domanda, bensì rispondere diciò che è detto nell’atto di presenza verbale.343 Esistere è fare atto di pre-senza: parlare è farsi nel modo della responsabilità verbale».344 L’espres-

339. ME2, p. 211.340. ME2, p. 215.341. ME2, p. 216.342. ME2, p. 217.343. «No sólo responder a lo que el otro haya dicho, contestando a una pregunta, sino

responder de lo dicho en el acto de presencia verbal». In quest’affermazione, Nicol giocasull’utilizzo di due verbi differenti aventi accezione simile: responder e contestar. Quandorispondo alla domanda io contesto all’interlocutore, ma nello stesso tempo respondo a ciò cheha detto e di ciò che si dice. Il verbo responder mostra chiaramente la stessa radice del ter-mine responsabilidad. Quindi rispondere, nel senso di dire la propria, implica sempre un ri-spondere di una relazione.

344. ME2, p. 218.

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sione, infatti, non riflette l’essere della cosa riproducendola in altromodo ma la converte in ciò che non è per qualsiasi altro essere vivente:l’oggetto. L’ente può essere oggetto solo nella forma di “realtà comuni-cabile”. Da tale con-versione – che è il con-vergere dei soggetti riguardola realtà che comunicano – deriva la responsabilità di risponderedell’essere di fronte all’altro: «la verità, pertanto, è una risposta che im-plica una doppia esposizione [exposición] o responsabilità: con essa lacosa è es-posta oppure oggettivata, e l’espositore si impegna o si es-pone, in senso etico-esistenziale. Esistere [ex-sistere] è esporsi [ex-porsi]».345 La dinamicità dell’esistenza non si immobilizza nella presen-za o nel giudizio, in quanto questi sempre sono esposizione del sé. Ilcomunicare reca impresso in sé il marchio etico della responsabilità.L’uomo è espressione e, per questo, responsabile: «è ora decisivo com-prendere che la verità è una forma di essere, piuttosto che un semplicerisultato del conoscere. […] La scienza rafforza quest’ordine, ma non loistituisce».346 La responsabilità della verità determina le scelte dell’uo-mo, e per rispondere di tale responsabilità l’uomo deve sempre sceglie-re. Già sappiamo che proprio la sceltà è ciò che caratterizza la libertà.Da qui, Nicol inferisce che «verità è libertà».347 Nella libertà dell’esseredell’espressione, creatore del senso ed instauratore della verità, si dis-solve il fantasma del solipsismo filosofico348 e viene meno la veemenza

345. Ibidem.346. ME2, p. 219. «L’ethos si trova alla base dell’episteme» (J. González, Ética y metafísica

en la filosofía de Eduardo Nicol, in J. González – L. Sagols (eds.), El ser y la expresión, p. 174).347. ME2, p. 222.348. È proprio la questione del solipsismo filosofico a segnare la separazione tra la fe-

nomenologia husserliana e quella nicoliana. Per Nicol, l’uomo nel suo pensare è sempre india-logo, quindi in com-unità. Questo significa che non è possibile individuare una dimen-sione pre-sociale dell’uomo, laddove in Husserl questa è presente (cfr. G. Cacciatore, Stori-cismo problematico e metodo critico, cit., p. 269-270). L’esistenza di tale dimensione risulta esse-re diretta conseguenza di una concezione del reale in cui l’atto di ri-conoscimento dell’altrouomo è sempre mediato: «io posso esperire me stesso “direttamente”, ma per principio nonposso esperire la forma inter-soggettiva della mia realtà: perché a questo scopo mi occorrono imedi delle entropatie» (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologi-ca II [1928], Einaudi, Torino 1965, p. 595). Questa condizione, per Nicol, è letale per il pen-siero filosofico (E. Nicol, Homenaje a Husserl, in A. Zirión (comp.), Actualidad de Husserl,cit., p. 24). Ci sembra alquanto problematico il tentativo compiuto da Antonio Zirión didifendere la rilfessione husserliana dall’accusa di solipsismo che le rivolge Nicol. In primisperché parte dal chiedersi come mai due fenomenologi, che dovrebbero entrambi andare“alle cose stesse”, possano non concordare sul punto di partenza del filosofare; e poi perchéZirión, pur affermando di non voler eludere le differenze esistenti tra i due pensatori, af-ferma che la quinta meditazione cartesiana di Husserl e la Metafísica de la expresión hanno,

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dell’argomentazione scettica. La verità è dia-logo, a partire dall’appren-sione diretta fino alla scienza nelle sue ramificazioni specifiche; dialogoè comunità, e comunità è responsabilità: «la verità coincide con la pace:la scienza diede origine, nella vita, ad una espressa vocazione di pace».349

Per quanto paradossale possa sembrare, tale pace non è il risultato ma laconditio sine qua non di ogni accordo e della stessa guerra. La guerra, in-fatti, può nascere solo sulla base di una comunicazione, che successiva-mente viene sospesa. Tale sospensione distrugge la comunità fondatasulla verità, quindi sul dia-logo.350

La verità, come categoria ontologica, è dia-logica, indicando che«l’essere si fa logico nell’uomo».351 Dovrebbe ormai essere chiaro chenon si intende parlare di logica formale ma dell’ordine dell’essere nelquale è radicato il logos, come ragione e parola. La verità risiede nel lo-gos, inteso come dia-logos. Data, però, la storicità della ragione e dellaparola, anche la verità sarà connotata dalla stessa storicità: «la storicitàdella verità è la storicità della comunicazione: l’essere è comunicabile sol-tanto storicamente».352 La parola ha senso se questo senso è comune, diqui la questione di un sensus communis che non è mero “buon senso” masenso vero, con-diviso, che precede e fonda la conoscenza scientifica.353

in realtà, lo stesso intento, ovvero di giustificare il fatto della comunicazione e l’esperienzadell’altro-io. Zirión riscontra tale similarità nel fatto che in entrambe le esposizioni l’essere– in Husserl, la realtà – è percepito attraverso il logos (A. Zirión, El sentido de la fenomenolo-gía en Nicol, pp. 93-96). Riguardo la divergenza iniziale tra i due pensatori, essa si fondanella questione dell’epoché, rifiutata da Nicol, e considerata necessaria da Husserl. Da ciò,comprendiamo che “le cose stesse” non sono le stesse cose per entrambi. Riguardo il secon-do punto, non siamo d’accordo sul fatto che Nicol voglia giustificare il fatto della comuni-cazione. In realtà il pensatore catalano lo assume come principio, mentre in Husserl richie-de una giustificazione fenomenologica proprio perché non si dà “in principio” (cfr. E. Hus-serl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 30 e p. 114). Per Nicol non si dà la possibilità dell’ego senzaquella del tu con il quale già interloquisco: «io non esisto con altri; io esisto negli altri» (E.Nicol, Ideas de vario linaje, cit., pp. 291-292). Scrive bene María Luis Santos: «nella relazioneconoscitiva non bisogna porre l’accento né sull’oggetto né sul soggetto, ma sulla comunità»(M. L. Santos, Realidad, evidencia y misterio: la dimensión dialógica en el sistema de Eduardo Ni-col, cit., p. 37).

349. ME2, p. 222.350. Nicol «non strumentalizza il dialogo ma lo intende come la forma primaria di re-

sponsabilità etica» (L. Sagols, Ethos y logos, in J. González – L. Sagols (eds.), El ser y la ex-presión, cit., p. 135).

351. ME2, p. 225.352. ME2, p. 233.353. Cfr. il primo capitolo del presente lavoro (nello specifico il paragrafo 1.3). Il senso

comune è un con-sentito. Per questo con-sentire, implica il sentire alla stessa maniera (cfr.

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Tale senso è reso possibile dalla conformità ontologica che lega l’esseredell’oggetto all’essere della parola, in quella che è l’operazione simboli-ca. In tale operazione si definisce l’univocità, che è un con-vergere deisoggetti riguardo il senso dell’essere di un ente in particolare. La verità ècomunicazione: «ci intendiamo, dunque c’è verità».354 La verità è nella pa-rola, nel logos, ma il logos è nell’Essere, per cui è essere. La verità prima-ria precede qualsiasi altra verità, in quanto radicata nell’Essere comecondizione di ogni altra verità è la verità dell’apofanticità dell’Essere edell’espressività dell’essere che l’uomo è.

L’uomo, dunque, esprime sempre, ma cosa esprime? Il possibile con-tenuto dell’espressione è talmente vario che la risposta a tale domandapuò sembrare fuori dalla nostra portata. L’uomo esprime sempre uncontenuto, e questo ha delle connotoazioni precise: «in qualunqueespressione, l’uomo esprime il suo essere uomo».355 Il suo primato on-tologico e l’ambiguità che caratterizza la conoscenza della sua formad’essere ci permettono di affermare che l’uomo esprime sempre la suapresenza reale come essere dell’espressione. Tale espressione è fonda-mento di tutte le altre, sulle quali si costituiscono anche le scienze. Laforma d’essere comune a qualsiasi uomo è la prima cosa che l’uomoesprime e che non richiede intepretazione, in quanto si dà nell’appren-sione diretta. Il concetto di “essere espressivo” non è equiparabile aquello di “idea dell’uomo”, analizzato nel capitolo precedente: le ideeche l’uomo ha di se stesso sono esse stesse espressioni dell’uomo, e perquesto sono storiche. L’essere espressivo, invece, più che idea è una vi-vencia: «funziona esistenzialmente prima che possa essere tradotta in teo-ria o concetto logico, dato che proviene da una diretta intuizione di ciòche esprime ogni ente chiamato uomo: il suo stesso essere umano»356 –la sua mismidad, potremmo aggiungere –. L’uomo è storico, e così l’ideache ha di sé. Queste due cose hanno in comune la storicità del loro esse-re. Quello che, però, non muta è che l’uomo si presenta sempre comel’essere dell’espressione e «basta la presenza di un uomo affinché ognu-no di noi, senza previa riflessione o decisione, cominci a rispondere aquella forma di presenza. La presenza è una corrispondenza. È l’esisten-

ME2, p. 236).354. ME2, p. 238.355. ME2, p. 243.356. ME2, p. 244.

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za, non la teoria, a provare l’effettività della nostra primaria intuizionedi questo essere».357

Le idee dell’uomo variano, ma non l’essere dell’uomo: «le ideedell’uomo non si soopraggiungono alle situazioni vitali; l’espressionecambia la situazione, e nell passare storicamente da una situazioneall’altra, niente se non l’espressione stessa consente di distinguere ilcambiamento. L’espressione è l’essere in atto. Le espressioni umane nonsono come la cronaca, più o meno affidabile, di ciò che accade nell’es-sere, bensì esse sono proprio questo stesso accadere […]; cioè, non sivive e poi si racconta il vissuto: vivere è esprimere».358 Tale vivere siattua nel tempo, ragion per cui si fonda esistenzialmente sulla memoria.Secondo Nicol, però, v’è anche una forma di memoria “ontologica”:«l’essere ha memoria ontologica. La parola memoria designa qui in sen-so figurato l’essere accumulato nel processo temporale dell’esistenza».359

Chiaramente, l’essere dell’uomo non ha una reale memoria, che è cate-goria riguardante l’esistenza e non l’ontologia. Per questo, Nicol parladi “memoria figurativa”, in quanto fenomenologicamente si registra ilcostituirsi dell’espressione come continuum che tiene conto del passato e,in base a questo, si apre al futuro. La vivencia, di cui sopra, potrebbe es-sere definita come un “vissuto vivente”, in quanto l’uomo esprime ilsuo essere in maniera completa perché nel suo presente è compreso ilsuo passato come qualcosa di ancora attuale. Questo, però, non è un“ricordare” soggettivo: «il ricordo non è altro che l’attualità cosciente eselettiva di qualcosa che può restare ugualemente dimenticato. L’esserenon dimentica».360 Possiamo dimenticare qualcosa, o rimuoverlo, ma lanostra esistenza lo porta impresso nella stessa situazione vitale in cui citroviamo attualmente. Il fatto che tale “ricordo ontologico” sia sempre esolo riferibile all’espressione, quindi al dia-logo che ci costituisce, indicache «ciò che è comune, nel suo stesso essere [dell’uomo], è la forma diessere comune». L’espressione, esprimendo l’essere dell’uomo, loesprime come com-unità: «per esprimere la comunità dell’essere bastala semplice presenza di un singolo uomo. […] Così la specie diventacomunità».361 L’uomo reca in sé l’esigenza dell’altro, come unica possi-

357. ME2, pp. 244-245.358. ME2, p. 245.359. Ibidem.360. Ibidem.361. ME2, p. 246.

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bilità di realizzazione e attuazione della propria soggettività (a livelloesistenziale) e del proprio essere (come ri-conoscimento ontologico):«in senso radicale, la libertà è la proprietà dell’esistenza, e questa nascedalla co-esistenza».362 L’uomo esprime, in tal modo “si” esprime, espri-mendo la sua storicità come costituzione dia-lettica dell’essere.

Esprimendo-si, l’uomo esprime la forma comune d’essere, che appa-re sempre attualizzata in un modo singolare di esistere. La singolaritàdell’individuo non deve, per questo, essere considerata ineffabile. Secosì fosse, non sarebbe comunicabile, invece è proprio ciò che vienecomunicato con la sola presenza. Che la forma comune d’essere si ri-scontri sempre e solo nell’esistenza concreta è dovuto al fatto chel’analisi filosofica può separare il livello fondativo da quello della mani-festazione, nel momento in cui li analizza. Già ontologicamente, però,abbiamo ravvisato l’impossibilità reale di questa separazione. La singo-larità si attua come libertà e responsabilità allo stesso tempo: l’uomo èlibero perché sceglie per rispondere all’ e dell’altro uomo, ma, allo stessotempo, è obbligato a scegliere, quindi a rispondere, in quanto libero.Libertà e responsabilità costituiscono la situazione, pertanto anche ladialettica del reale. In base al suo essere libero e responsabile, l’uomo èl’essere creatore del senso: «il senso è precisamente la razionalità pro-pria di una forma di essere irriducibile a ciò che è fisico».363 Anche lapiù profonda crisi esistenziale non può compromettere questa condi-zione, in quanto anch’essa ha un senso. Questo ci obbliga a distingueretra senso, inteso come forma d’essere, e senso, inteso come Weltan-schauung assunta da un individuo o da una società in un determinatomomento storico. Nella prima accezione il senso è “comune”; in questocaso «il senso è proprio ciò che consente tale varietà di sensi, ma anchele loro rispettive crisi. E sebbene ciò non alleggerisca la situazione didisagio indotta dal dubbio, è un fatto che il senso […] riappare sempre,come un genio ribelle».364 A partire da tale condizione, Nicol ci invita aconsiderare di nuovo la differenza tra l’ente umano e quello non-umano, per mostrare come il primo appartenga all’ordine dell’essere cheha senso, mentre quello non-umano all’ordine dell’indifferenza – ovve-ro quella parte dell’essere che può ricevere senso ma che non lo mostra

362. ME2, p. 247.363. ME2, p. 266.364. ME2, p. 267.

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come costituente la sua forma d’essere –. «Se tutto ciò che è umano nonha senso, allora nessuna forma speciale d’esistenza avrà senso. Se nullaha senso, allora tutto è permesso. Ma questo, nessuno lo ammette nelprofondo del proprio essere».365 Il principio di indifferenza che caratte-rizza il mondo naturale può essere percepito solo a partire dal senso, cheè forma d’essere dell’umano. Per questo motivo, la domanda sul sensodell’Essere, così come è posta da Heidegger nel primo paragrafo di Esse-re e tempo, è fuori dalla nostra portata in quanto non può essere risoltaindagando significati possibili del termine “essere”: «il problema delsenso dell’essere è il problema dell’essere del senso. La domanda stessa“che è l’essere?” testimonia l’esistenza di due ordini dell’essere: l’essereche esprime e quello che non esprime».366

Solo nell’ordine del senso è possibile la comunicazione e l’ambiguitàche ne consegue. Quest’ultima «non è un difetto accidentale della co-municazione: l’atto non è concluso quando è stato eseguito. L’esecuzio-ne non fa altro che dare origine ad una relazione; che si completanell’interpretazione altrui, implicitamente attesa dallo stesso soggettoagente».367 Questa relazione non si chiude su se stessa, anzi si inseriscein una trama di relazioni. L’ambiguità, dunque, è connessa al senso,ovvero alla forma d’essere dell’uomo, l’espressione. L’ambiguità è con-nessa all’ordine del senso ma si manifesta sul piano del significato.L’ambiguità non indica che non vi sia comunicazione o con-divisionedel senso. Se così fosse non ci potrebbe essere la stessa ambiguità, poi-ché l’atto ermeneutico che essa richiede si basa sul previo riconoscimen-to di un senso comunicato. L’ambiguità, come il carattere etico del dia-logo in cui da sempre siamo, sono da noi ri-conosciute e pertanto giudi-cate tali, ma in sé, nel suo costituire la forma d’essere dell’uomo,l’espressione non è né l’una né l’altra. Per chiarire la questione possia-mo dire che in ontologia all’espressione riconosciamo quei caratteri cheabbiamo enunciato, mentre dal punto di vista del fondamento, comeper l’Essere, essa è attuazione del senso, quindi non ha senso. Che nulladell’uomo mi sia estraneo, l’impossibilità che il tu sia un estraneo perl’io, tutto ciò è una condizione ontologica, fondante, che ri-conosco co-

365. ME2, p. 270.366. ME2, p. 271. In questo caso Nicol, pur utilizzando la lettera minuscola, vuole in-

tendere l’Essere, ovvero il fondamento. L’utilizzo della lettera maiuscola si ravvisa a partiredalla pubblicazione di CRS.

367. ME2, p. 273.

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me etica. La presenza dell’uomo è espressione, di sé e del prossimo, cheavviene in maniera simbolica: «l’io è il simbolo del tu, ossia l’altra metàdel tu che consente all’io di riconoscere se stesso nell’altro».368

Al simbolo, come possibilità unica del conoscere, già si è fatto ampioriferimento. In conclusione, però, è necessario rivolgere un ultimosguardo a tale questione, alla luce del percorso compiuto finora. L’uomori-conosce l’altro uomo, ri-conoscendo quella parte di sé che è l’altro:questa relazione è dunque sim-bolica.369 Il dia-logo è sempre simbolicoin questo senso: «ogni forma di dialogo è come un contratto esistenzia-le. Symbolon, infatti, significa anche cooperazione e contratto, patto,trattato, riunione e vincolo. L’uomo è un essere che esiste contrattual-mente col suo simile; egli crea molteplici forme simboliche di vincolocon lui, mediante la comprensione comune, non soltanto perché colsimbolo entrambi facciano un riferimento univoco alla comune realtàsignificata, bensì perché la comunicazione stessa convalida il costituti-vo nesso contrattuale».370 La simbolizzazione è garanzia di alterità e dicontinua relazione; per questo non può esistere un simbolo puro, datoche non sarebbe più simbolo. La relazione simbolica è comunicativa,quindi inter-soggettiva. Da ciò possiamo desumere che la forma d’esse-re dell’uomo, che sempre esprime, è sim-bolica perché esige di per sél’altro frammento del symbolon.371 Nello stile che ogni uomo assume in-dividualmente ma sempre come forma “responsiva” rispetto all’altro ioche è il prossimo, si manifesta una forma simbolica differente.Quest’ultima è riconducibile alla conformazione sim-bolica costituentela forma d’essere dell’uomo come essere dia-logico.

Le forme simboliche, che caratterizzano la nostra relazione con ilreale e, nello specifico, con l’altro uomo, sono un prodotto umano, per-tanto comunitario. La com-unità crea le forme e le istituzionalizza perordinare la trama delle relazioni esistenti ad intra e ad extra. Questo si-gnifica che il simbolo esprime relazioni attuali e che quindi la sua pro-duzione non è affatto “libera” ma condizionata, nella sua libertà,dall’attualità della stessa comunità che l’ente uomo istituisce a partiredalla sua forma d’essere. La creazione di un sistema simbolico, secondo

368. ME2, p. 281.369. Nel senso del sym-ballein di cui abbiamo parlato all’inizio del presente capitolo.370. ME2, p. 282.371. ME2, p. 283.

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queste premesse, mostra la comunità della ragione che in tale sistema siriconosce, e, allo stesso tempo, la sua storicità, in base alle variazioniche il sistema può subire. Giacchè siamo da sempre espressione, quindisimbolici, la ragione può essere compresa solo a partire dal suo stessoessere creatrice e interprete del sistema. Si fonda nell’Essere e dialetti-camente conosce l’essere; questo significa dire che dà ragione di sé nelsuo stesso operare: «la ragion d’essere della ragione, si verifica nell’attitu-dine per rendere presente ciò che è costitutivamente razionale».372 Pen-sare con ordine è logos, ragione e parola: dare ragione. Nella forma sim-bolica si può ricontrare la dimensione verticale dell’esistenza e quellaorizzontale in base all’interdipendenza di ogni sistema simbolico daquello che lo precede e che lo segue. Tale interdipendenza si fonda nellacomunità della ragione che, producendo simboli, produce cultura.

Secondo Nicol, e in base a ciò che finora è stato detto, qualsiasi sia lasua storia e la Weltanschauung in cui si fonda, ogni sistema simbolico sisviluppa secondo cinque relazioni ben precise. La prima riguarda ilsimbolo e il suo produttore: tale relazione è diretta ed esprime semprechi lo ha prodotto, pur riferendosi a cose differenti. La seconda relazio-ne riguarda il simbolo e il suo interprete: ogni simbolo mette in relazio-ne il produttore e l’interprete. La terza relazione riguarda il simbolo el’oggetto simbolizzato: ogni simbolo reca un significato intelligibile inbase alla relazione che conserva con l’oggetto simbolizzato. La quartarelazione riguarda il simbolo e il sistema in cui è inserito: ogni simbolomantiene una relazione con ogni altro simbolo e si integra con essi for-mando un sistema (questa relazione è l’esplicitazione della storicità edella com-unità del simbolo, per le quali un atto simbolico isolato nonpuò esistere).373 La quinta e ultima relazione riguarda il simbolo e i suoiantecedenti: ogni simbolo è storico, in quanto creato per l’uomo e sog-getto di una evoluzione che avviene all’interno del sistema stesso.374

L’uomo come essere sim-bolico mostra in sé che il logos, che lo carat-terizza, è storico e con-diviso. In quanto tale qualsiasi prodotto umano,e la sua stessa presenza come espressione, è dia-logo. La natura stessa,nella conoscenza che ne possiamo avere, si fa oggetto, ovvero punto dicon-vergenza del dia-logo.

372. ME2, p. 294.373. ME2, pp. 319-320.374. Riguardo le cinque relazioni simboliche cfr. ME2, pp. 249-281.

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In conclusione non resta che ammettere, se consideriamo corrette lepremesse suggerite da Eduardo Nicol, che l’uomo è com-unicazione:“unificazione nella com-unione”. La sua stessa presenza mostra quantoesso sia “soggetto” dell’ e all’espressione, ma dire così già provocherreb-be uno sdoppiamento illusorio della sua realtà: l’uomo è espressione,«ahí está el hombre, ecce homo».375

375. ME2, p. 122.

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Conclusioni.Flatus vocis: ecce homo

La originalidad de una obra depende a vecesde lo que su autor no sabe hacer.

Hay una impotencia creadora.(N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implicito)

«Non ci può essere teoria dell’idea dell’uomo senza ontologia. Nonci può essere ontologia senza storia».1 Un’affermazione, questa, chepotrebbe costituire il manifesto del pensiero nicoliano. L’idea dell’uo-mo è, dunque, produzione dell’uomo stesso e, in quanto tale, espres-sione attraverso la quale la com-unità umana si ri-conosce e modificanel tempo. Non vi sarebbe alcuna possibilità di formulare un’idea diquesto genere se l’uomo non fosse costitutivamente storico. La storici-tà è tratto comune solo degli esseri umani, ed è, per questo, la manieranella quale il reale si dà alla nostra conoscenza. L’essere è storico e, inquanto tale, dialettico, ma solo nel suo “essere conosciuto” dall’uomo.Come afferma lo stesso Nicol, senza l’uomo non esisterebbe storia. Perquesto motivo, l’Essere inteso come fondamento non è dialettico in sé,ma nel suo relazionarsi all’uomo. La storicità è la forma del nostro es-sere e la condizione che determina il nostro conoscere come dialettico.L’uomo è mismidad e ri-conosce se stesso e il reale sempre e solo comemismidad. Il simbolo stesso è storico e per questo può manifestare lacomunicazione come legame ontologico tra uomini. Se, però, tentare la“traversata” di una riflessione filosofica implica anche, e soprattutto, ilporne in luce i punti “aporetici”, è necessario soffermarsi brevementesulla questione dell’essere dell’uomo così come lo ha descritto Nicol.In un articolo pubblicato nel 1951, all’indomani della pubblicazione diHistoricismo y existencialismo, José Gaos accusava Nicol di aver elabora-to un concetto di essere quanto mai confuso. Se riguardo l’essere in

1. IH2, p. 57.

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quanto tale non ha senso interrogarsi poiché l’uomo lo conosce, o me-glio, lo “apprende” in maniera diretta, tale apprensione non mostra,dunque, il fondamento come meta-fenomenico? L’Essere dell’ente nonè qualcosa che precede l’ente, il quale è l’unico ad avere la possibilità dimostrarsi come fenomeno? E se è così, la ragione che conosce l’ente eche funziona, secondo Nicol sempre e solo alla stessa maniera, coma faad avere conoscenza anche dell’essere? Secondo Gaos, bisognerebbechiedersi se alla fine Nicol non ricada nell’affermare quell’Essere di cuiparla la tradizione sostanzialista, da lui così aspramente criticata. Daciò, deriverebbe anche la necessità di rimettere in discussione l’ideadell’uomo elaborata da Nicol.2 Il problema esposto da Gaos verte sulladifficoltà di “apprendere” l’essere come fenomenico dal punto di vistadella visibilità.

Rispondendo alla critica gaosiana, Nicol afferma che l’Essere inquanto tale non si dà alla nostra conoscenza se non come “problemalimite”. Ciò che l’uomo può conoscere è l’ente, ma con esso io conoscoanche l’essere del quale l’ente è manifestazione. Chiaramente ne cono-sco una parte e tale conoscenza non mi permette di dire cosa sia in sél’Essere. Il fondamento si mostra nell’ente, e per questo è fenomenico,ma questo non ci permette di conoscerlo nel suo stesso essere.3 Chel’Essere sia problema limite implica che di esso non si possa dire altrooltre al fatto che “c’è”. Eppure, come abbiamo osservato nell’analizzarela questione del metodo, Nicol si spinge ad affermare che esso è infini-to, eterno, diafano. Tali affermazioni caratterizzanti le modalità in cuisi dà l’Essere, nell’apprensione diretta che ne ha l’uomo, sono la provadella sua fenomenicità. Ma l’Essere può davvero essere fenomeno?Sembra di riproporre una questione già affrontata, ma non è così: ciòche stavolta ci interessa è comprendere se ente ed Essere sono “feno-meno” alla stessa maniera, ossia se si dia, riguardo l’essere, una “fe-nomenicità” particolare.

L’uomo conosce l’ente in maniera dialettica, perché l’essere stessodell’uomo è storico. L’ente si mostra come mismidad, la quale è il dato,il fenomeno che io percepisco. La mismidad è espressione della perma-nenza che non è identità. Tale permanenza caratterizza ogni essere in

2. J. Gaos, De paso por el historicismo y existencialismo. Parerga y paralipomena, cit., pp. 267-268.

3. E. Nicol, Prosigue el diálogo, cit., p. 324.

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quanto storico, mutevole. La mismidad nell’uomo è espressione, e ilprimato ontologico di tale forma d’essere si manifesta nel logos comeespressione creatrice di senso. Ma l’Essere inteso come fondamento ècaratterizzato da mismidad? Da un certo punto di vista si può affermareche lo è, in quanto essere degli enti. In tal caso, però, si tratterebbedella mismidad degli enti e dell’Essere non rimarrebbe altro da dire che“c’è”. Si tornerebbe, insomma, al punto di partenza. Nicol, invece,parlando dell’Essere, afferma il suo non essere storico in sé, ma solonegli enti. Da ciò è possibile inferire la sua “eternità” e “ubiquità”. Omeglio, si tratta di un’apprensione diretta attraverso la quale ci si ma-nifestano tali attributi: io “apprendo” l’Essere nel suo stesso manife-starsi come ubiquo, infinito ed eterno. Se, però, l’uomo è sempre “insituazione”, tale apprensione non sarà limitata alla sua situazione? E,in qualsiasi caso, non avverrà attraverso il dar-si dell’ente come feno-meno? Sollevando tali interrogativi non si vuole mettere in dubbio ilrisultato della riflessione nicoliana, tantomeno affermare che in essavada perduta la differenza ontologica. Il punto è che la fenomenicitàdell’essere non è quella dell’ente, o meglio, è interiore rispetto a quella.Ci sembra che in Nicol le caratterizzazioni dell’Essere non siano dav-vero qualcosa di diretto, di “appreso”, ma di “dedotto” a partire dallanecessità della stessa differenza ontologica.

L’infinità dell’Essere è, per Nicol, evidente a partire dal fatto cheovunque io possa posare il mio sguardo, sempre incontrerò l’essere. Èvero, ma lo incontrerò nell’ente e l’ente è sempre limitato da un altroente. L’ente, dunque, reca in sé la necessità dell’altro ente. Da ciò Nicolpuò dedurre un’infinità che è “razionale”, se parliamo di quella ragionedialettica che mi permette di conoscere realmente la mismidad delle co-se. La presenza dell’ente, dunque, mostra, in sé, l’infinità dell’Essere.Tale mostrare, però, è dell’ente, inteso come manifestazione dell’es-sere. Con questo vogliamo indicare che, non potendo indentificare Es-sere ed ente, bisogna ammettere che l’ente mostra l’infinità dell’esserein maniera “evidentemente mediata” – una necessità – e, a nostro pa-rere, “mediatamente visibile”.4 Alla stessa maniera le altre caratteriz-zazioni sembrano essere dedotte a partire dall’ente al fine di mostrarela fenomenicità e allo stesso tempo l’eccedenza dell’Essere. In questo

4. Non è un caso che l’idea dell’infinito si mostri come “scacco della ragione” (cfr. R.Descartes, Meditazioni sulla filosofia prima, cit.; E. Lévinas, Totalità e infinito, cit.).

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caso, l’ontologia positiva si fonderebbe su un’ontologia negativa másbásica. Eppure, che senso ha parlare di negativo e positivo, dal momen-to che anche la negazione ha un suo carattere positivo, ovvero quello dipermetterci di conoscere l’ente? Dunque, la negatività-positivitàdell’Essere rimanderebbe sempre alla conoscenza dell’ente perché è es-sa stessa limite e non confine. Eccoci dunque giunti al punto cruciale:l’ente come fenomeno mostra la sua positiva limitazione in quanto es-sa è “confine” tra sé e gli altri enti; l’Essere, invece, è limite. Il limite,se è puro, è ciò che non ha spessore perché è “al di là”: condizione emistero allo stesso tempo. L’Essere è fenomeno come “manifestazionedel limite”, l’ente è fenomeno a partire da tale manifestazione – perquesto sempre vi riconduce, in quanto né è intessuto. Solo l’ente può,partendo dal limite, mostrarlo senza esaurirlo. Il “mostrare” implicauno spettatore che abbia la facoltà di com-prendere e com-unicare, unospettatore che sia ente e, per questo, sempre manifestazione dello stes-so limite: l’uomo si rivolge all’essere, come a ciò che gli è più familiare,e formula l’idea di sé per render-si familiare a se stesso. Il limite è visi-bile ma in quanto limite lo si vede solo da una parte, la partedell’uomo: l’uomo è l’essere del limite.

La conoscenza tutta, allora, non è che conoscenza umana. Questosignifica che essa si dà nell’espressione, la quale ri-conosce la veritàdella realtà in maniera dia-logica. Il fatto che la ragione sia partedell’essere fa sì che essa non possa non-riconoscere, pena la sospensio-ne dell’ordine stesso della conoscenza, l’eccedenza dell’essere nelle sueleggi inalterabili. L’osservazione con la quale formulo una legge giàpoggia, però, su quel dia-logo che è garanzia di universalità. Il limite èil senso, anzi la condizione del senso. Comprendiamo, ora, che Nicol,parlando dell’Essere ha sempre parlato del limite; di quel limite chemuove l’umana esistenza obbligandola alla ricerca del senso: «nella suafugace esistenza, l’uomo compie, dunque, la missione cosmica di por-tavoce dell’Essere. […] Ciascuno dei suoi atti è un messaggio dell’Es-sere. L’Essere parla di se stesso, ovvero parla a se stesso. L’inspiegabileè visibile, e le parole possono solo raggiungerlo in maniera “parabo-lica” dicendo che l’Essere concesse a uno dei suoi esseri la libertàd’essere, che è la libertà di parlare di tutto, in nome del Tutto. […] Conl’uomo la materia si trascende. Dalla materia nasce il logos. Nacque dalfango e ad esso tornerà; non si separò da esso ma lo superò. […] Né la

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mito-logia ne l’onto-logia possono risolvere il tremendo mistero di talemetamorfosi». L’uomo è espressione dell’Essere, della «relazionedell’Essere con l’Essere».5 L’uomo è essere del limite perché espressio-ne di quell’Essere che non può comprendere se non come dato. Allostesso tempo è colui che dimora presso tale limite. L’uomo, in quantoespressione, è espressione dell’essere. Mutuando le parole da Heideg-ger, possiamo affermare che è espressione dell’essere in quanto appar-tiene all’essere e, allo stesso tempo, ne è all’ascolto, ovvero è ciò che èin base alla sua provenienza essenziale.6 La differenza tra Heidegger eNicol sta, però, nel fatto che tale provenienza essenziale non rivelaall’uomo altra cosa che il “suo” essere: l’essere del senso. L’uomo è unente effimero ma è l’unico che può dare senso, e può darlo in quanto èchiamato a ciò dal suo essere, vale a dire dall’Essere stesso.

Nel suo essere limite, l’Essere è rivelazione dell’essere dell’uomoquale donazione comune di senso. Insieme al Qohélet ogni uomo puòaffermare «vanità delle vanità, e tutto è vanità» ma, come il Qohélet,ogni uomo conosce il senso profondo e la responsabilità che tale affer-mazione reca impressa in ogni lettera che la compone. La responsabili-tà del senso, la responsabilità che caratterizza ogni uomo, quella delsentire: «il peso del sentire! Il peso di dover sentire»!7

5. CRS, pp. 276-277.6. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 35. Heidegger si riferisce al pensiero, che è

sempre pensiero dell’essere. Essendo il pensiero espressione, ed essendo l’uomo espressione,è possibile adattare l’affermazione di Heidegger all’essere dell’uomo stesso

7. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, Milano 2004, aforisma 181 (314), p. 197.

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N O T A B I O - B I B L I O G R A F I C A

1907. Eduardo José Gregorio Nicol Franciscá nasce a Barcelona il 18 di-cembre, da padre basco (don Gregorio) e madre catalana. Compie i primistudi presso le Escoles Catalanes del Districte 6, dove ebbe come maestro PereVergés Farrés, considerato dallo stesso Nicol come il più eminente tra i mae-stri catalani del secolo XX.

1925. Diviene cronista di teatro presso il periodico La Veu de Catalunya.

1928. Inizia a lavorare come caporedattore presso il Diccionario de la MúsicaIlustrado. Sia il mondo della musica che quello del teatro non sono mai statiestranei al giovane Nicol; il padre, infatti, era musicista e suonava la trombatedesca nell’orchestra del Gran Teatro del Liceo.

1929. Entra a far parte della Fundació Bernat Metge, istituzione che aveva loscopo di studiare, tradurre e pubblicare in catalano autori greci e latini. Di-verrà Segretario Generale e manterrà questa posizione per otto anni.

1933. Porta a termine il corso di laurea in Filosofia presso la Facoltà di Let-tere e Filosofia della Universitat de Barcelona, dove studia sotto la direzione diJaume Serra Hunter e Pedro Font y Puig, ricevendo il Premio Extraordinario deLicenciatura. Nello stesso anno vince il concorso come docente di filosofiapresso l’Instituto Salmerón, di cui diverrà direttore nel 1936.

1933-1934. Trascorre un periodo di studi presso la Universidad Internacionalde Santander frequentando i corsi tenuti da Huizinga, Kohler, Stein, Bühler eVermeylen. Successivamente consegue l’incarico di professore ausiliare diStoria della Pedagogia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Universitatde Barcelona.

1937. Un anno dopo lo scoppio della guerra civile spagnola, si dimettedalla segreteria della Fundació Bernat Metge e chiede udienza presso il generaleVincent Rojo per entrare a far parte come volontario dell’esercito della Re-

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pública. Viene assegnato al Gabinete Centralizador de la Sección de Informacióndel Estado Mayor del Ejército de Tierra.

1939. Riceve l’ordine di attraversare la frontiera di Agullana e di consegna-re le armi all’esercito francese. Pur possedendo un passaporto diplomaticodecide di seguire la stessa sorte dei suoi compagni e di essere internato peralcuni mesi nel campo di concentramento di Argelès-sur-Mer. Successiva-mente si trasferisce a Tolouse, dove frequenta i corsi di Jankélévitch e Schul.Grazie all’appoggio dei Comité di Aiuto per Esiliati britannico e messicano,il 23 maggio si imbarca sul Sinaia che approda nel porto di Veracruz il 13 giu-gno.

1940. Grazie all’intervento di Ezquiel A. Chávez ottiene la cattedra diStoria della Psicologia e di Psicologia dell’adolescenza presso la Facoltà diLettere e Filosofia (il direttore della facoltà in quel momento era Antonio Ca-so) della Universidad Nacional Autónoma de Mèxico (UNAM). Nello stessoanno ottiene la cittadinanza messicana. Consegue il dottorato in filosofia conuna tesi intitolata Psicología de las situaciones vitales (la commissione era com-posta da Antonio Caso, Eduardo García Maynez, Oswaldo Robles, SamuelRamos, Enrique O. Aragón).

1941. Pubblica la Psicología de las situaciones vitales (che verrà ripubblicatacon l’aggiunta di un nuovo prologo e nuove note nel 1975). Fonda insieme adEduardo García Maynez la rivista Filosofía y Letras ed il Centro de Estudios Fi-losóficos della Facoltà di Lettere e Filosofia della UNAM (che posteriormentesi trasformerà in Instituto de Investigaciones Filosóficas), assumendo il ruolo disegretario fino al 1946.

1943. Risulta beneficiario di una borsa erogata dal Dipartimento di Rela-zioni Culturali degli Stati Uniti che gli permette di trascorrere un anno pres-so la Columbia University, dove inizia a raccogliere il materiale per la sua ope-ra successiva. Partecipa al Congresso Interamericano di Filosofia che si tienepresso la Yale University, dove conoscerà di persona Ernst Cassirer (che dopoaver ascoltato la realzione tenuta da Nicol proporrà al pensatore catalano dilavorare al suo fianco, cfr. E. Nicol, Mi Ernesto Cassirer, «La Gaceta», 16(1972), ora in Id., Las ideas y los días, Afinita, Huixquilucan 2007, pp. 423-427).

1945. Riceve una borsa di studio dalla Rockfeller Foundation che gli per-mette di completare le ricerche iniziate presso la Columbia University.

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1946. Pubblica La idea del hombre (che sarà ripubblicata modificata in partenel 1977). Presso la UNAM fonda il Seminario de Metafísica, del quale sarà di-rettore fino alla morte.

1948. Entra a far parte della redazione della rivista Philosophy and Phenome-nological Research.

1950. Pubblica Historicismo y existencialismo.

1953. Pubblica la Vocación humana (testo che raccoglie 19 saggi scritti epubblicati tra il 1939 e il 1952).

1954. Fonda e dirige il primo numero degli annali di filosofia Diánoia, rivi-sta edita dal Centro de Estudios Filosóficos della UNAM e dal Fondo de CulturaEconómica.

1957. Pubblica la Metafísica de la expresión (che sarà ripubblicata modificatain parte nel 1974).

1959. Riceve una borsa di studio dalla Guggenheim Foundation che glipermette di recarsi negli Stati Uniti e in Europa, al fine di effettuare delle ri-cerche e dare conferenze (visiterà anche l’Italia tenendo conferenze pressol’Università Cattolica di Milano e l’Università di Genova).

1961. Pubblica, in Spagna, El problema de la filosofía hispánica.

1965. Pubblica Los principios de la ciencia.

1969. Il Collegio Universitario della UNAM gli conferisce il titolo di Pro-fessore Emerito.

1972. Pubblica El porvenir de la filosofía.

1978. Pubblica La primera teoría de la praxis.

1980. Pubblica La reforma de la filosofía.

1981. Pubblica La agonía de Proteo.

1982. Pubblica La revolución en la filosofía. Crítica de la razón simbólica.

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1984. La Universitat de Barcelona gli conferisce il titolo di Doctor Honoriscausa.

1986. Riceve il Premio Universidad Nacional per quanto riguarda l’area delleScienze Umane.

1988. Il Re di Spagna Juan Carlos I gli conferisce l’onoreficenza della GranCruz de Alfonso X el Sabio.

1990. Pubblica Ideas de vario linaje (una raccolta di saggi, alcuni già pubbli-cati in riviste specializzate, altri inediti) e Formas de hablar sublimes. Poesía yfilosofía. Muore il 6 maggio, a 82 anni.

La realizzazione di tale nota è stata effettuata utilizzando le informazionicontenute nei seguenti saggi: R. Horneffer, Eduardo Nicol. Semblanza, El Co-legio de Jalisco-Generalitat de Catalunya, Jalisco 2000; M. L. Mollo, Metafisi-ca dell’espressione tra “ideas en germen e ideas en flor”, in E. Nicol, Metafisicadell’espressione, Città del Sole, Napoli 2007, pp. 27-62; Eduard Nicol, pensadorcatalán. Diálogo con Xavier Rubert de Ventós, in Eduardo Nicol. La filosofía comorazón simbólica, «Anthropos», Extra 3 (1998), numero monografico dedicato adeduardo Nicol, pp. 19-25; A. R. de Nicol, La vocación cumplida, in Eduardo Nicol.La filosofía como razón simbólica, cit., pp. 46-55.

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B I B L I O G R A F I A

1. SCRITTI DI EDUARDO NICOL (in ordine di pubblicazione)

Psicología de las situaciones vitales, FCE, México 1963².La idea del hombre, Herder, México 2004².Historicismo y existencialismo, FCE, México 1950.Los conceptos de espacio y tiempo en la filosofía griega, «Diánoia» (1955), pp. 138-140.La vocación humana, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, México 1996².Metafísica de la expresión, FCE, México 1957.The return to Metaphysics, «Philosophy and Phenomenological Research», 12

(1961).El problema de la filosofía hispanica, FCE, México 1998².Los principios de la ciencia, FCE, México 1965.El porvenir de la filosofía, FCE, México 1997².Metafísica de la expresion, FCE, México 1974².La idea del hombre, FCE, México 1977².La primera teoría de la praxis, UNAM, México 2007².La reforma de la filosofía, FCE, Mèxico 1989².La agonía de Proteo, Herder, México, 2004².Crítica de la razón simbólica, FCE, México, 2001².Ideas de vario linaje, UNAM, México 1990.Formas de hablar sublimes: poesía y filosofía, UNAM, México 1990.Las ideas y los días, Afínita, Huixquilucan 2007.Symbolo y verdad, Afínita, Huixquilucan 2007.

2. TRADUZIONI IN LINGUA ITALIANA

Il problema della filosofia ispanica, traduzione a cura di Michele Porciello, Città delSole, Napoli 2007.

Metafisica dell’espressione, traduzione a cura di Maria Lida Mollo, Città del Sole,Napoli 2007.

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3. BIBLIOGRAFIA SECONDARIA

3.1. STUDI CRITICI SU EDUARDO NICOL

AA.VV., Eduardo Nicol. La filosofía como razón simbólica, «Anthropos», Extra 3(1998), numero monografico dedicato ad Eduardo Nicol.

AA.VV., En torno a la obra de Eduardo Nicol, UNAM, México 1999.A. Aguirre, El acontecer ontológico del ser de la expresión, Tesis de Maestría, México

2005.G. Cacciatore, Filosofia e crisi in Ortega e Nicol, in G. M. Pizzuti (a cura di), Studi

in onore di Ciro Senofonte, ESI, Napoli 2008, pp. 13-28.A. Cassani, Esilio intellettuale e ultimo franchismo: Nicol, Bergamín, Alberti, in A.

Botti – M. Guderzo (a cura di), L’ultimo franchismo tra repressione e premessedella trasizione (1968-75), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino 2009, pp. 155-171.

A. Castiñeira (ed.), Eduard Nicol: Semblança d’un filosòf, Barcelona 1991.P. Colonnello, Eduardo Nicol interprete di Vico, in G. Cacciatore – M. Martirano

(a cura di), Vico nelle culture iberiche e lusitane, Guida, Napoli 2004, pp. 80-94.L. De Llera, El exilio español como redescubrimiento de Ámerica en Eduardo Nicol, in

G. Bellini (a cura di), L’America fra reale e meraviglioso, Bulzoni, Roma 1990,pp. 241-267.

J. González, La metafísica dialéctica de Eduardo Nicol, UNAM, México 1981.J. González, L. Sagols (eds.), El ser y la expresión, UNAM, México 1990.M. González García, El hombre y la historia en Eduardo Nicol, Universidad Pontifi-

cia de Salamanca, Salamanca 1988.M. González García, La causalidad histórica en el pensamiento de Eduardo Nicol,

«Revista de Filosofía» 21/63 (1988), pp. 273-308.R. Horneffer, De la fenomenologia al misterio. Heidegger y Nicol, «Theoria» (Méxi-

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2009.M.L. Mollo, Nuovi sentieri dell’ontologia fenomenologica in Eduardo Nicol, «Rocinan-

te», 2 (2006), pp. 91-116.S. Santasilia, Il corpo humanizado. La prospettiva di Eduardo Nicol, in A. Molinaro

– F. De Macedo (a cura di), Verità del corpo, Pro Sanctitate, Roma 2008, pp.283-296.

S. Santasilia, Sentir antes que razonar: la patencia de la verdad, «En-Claves», 4(2008), pp. 67-76.

M. Luisa Santos Gómez, El método dialogíco de Eduardo Nicol, tesis doctoral, Uni-versidad de Sevilla 1974.

J.C. Torchia Estrada, Eduardo Nicol y la idea del hombre, in Id., Cursos y conferen-cias, Losada, Buenos Aires 1953.

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3.2. ALTRE OPERE CONSULTATE

AA.VV., Divenire della ragione moderna. Cartesio, Spinoza, Vico, Liguori, Napoli1981.

AA.VV., Diversas claves del pensamiento español contemporáneo, Fundación Fernan-do Rielo, Madrid 1992.

AA.VV., El exilio español en México 1932-1982, FCE, México 1983.AA.VV., Esperienza mistica e pensiero filosofico, LEV, Roma 2003.AA.VV., Maestros del exilio español, UNAM, México 1993.N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Tea, Torino 1993.J.L. Abellán, El exilio filosófico en America: los transterrados de 1939, FCE, Madrid

1998.J.L. Abellán, Filosofía española en America (1936-1955), Guadarrama, Madrid 1966.J.L. Abellán, Historia crítica del pensamiento español, 5 voll., Espasa-Calpe, Madrid

1979-1991.J.L. Abellán, Historia del pensamento español de Séneca a nuestros días, Espasa-Calpe,

Madrid 1996.J.L. Abellán, Panorama de la filosofía española actual. Una situación escandalosa,

Espasa-Calpe, Madrid 1978.J.L. Abellán – A. Monclús, El pensamiento español contemporáneo y la idea de Ameri-

ca, 2 voll., Anthropos, Barcelona 1985.Agostino di Ippona, Le confessioni, Fabbri, Milano 1996.Aristotele, Etica Nicomachea, Fabbri, Milano 1996.Aristotele, L’anima, Bompiani, Milano 2001.Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano 1993.K. Axelos, Le jeu du monde, Editions de Minuit, Paris 1969.K. Axelos, Pour une ethique problematique, Editions de Minuit, Paris 1972.M. Baldini – S. Zucal, Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès, Morcelliana, Brescia

1989.J. Balmes, El Criterio, Espasa Calpe, Madrid 1939.J. Balmes, Filosofía elemental, Porrúa, México 1998.J. Balmes, Filosofía fundamental, in Obras completas, XVI, Biblioteca Balmes, Bar-

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dam, Padova, 1999.C. Beorlegui, Historia del pensamiento filosófico latinoamericano. Una búsqueda ince-

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2002.F. Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 2005.N. Bilbeny, Filosofia contemporaina a Catalunya, Edhasa, Barcelona 1985.

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I N D I C E D E I N O M I

Abbagnano, N. 129, 142, 193, 210, 253Abellán, J. L. 29, 30, 31, 35, 36, 37, 56, 57, 61,

70, 253Acerra, M. 25Adler, A. 77Adorno, T. W. 165, 166, 257Agostino di Ippona 73, 102, 132, 253Aguirre, A. 26, 121, 252Aragón, E. O. 248Aristotele 28, 66, 112, 145, 146, 253Axelos, K. 190, 253

Baldini, M. 163, 253Balmes, J. 61, 63, 65, 68, 253Bancalari, S. 134, 253Bellini, G. 252Beorlegui, C. 51, 253Bergson, H. 12, 17, 76, 81, 90, 91, 92, 93, 94, 95,

109, 142, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 159, 160,161, 162, 163, 253

Beuchot, M. 25Bianco, F. 221, 253Bilbeny, N. 61, 65, 253Bochicchio, V. 254Bombaci, N. 83, 254Botti, A. 252Buber, M. 71, 83, 84, 113, 254Bühler, K. 247Buonafalce, I. 29, 56, 255

Cacciatore, G. 13, 23, 26, 37, 55, 75, 89, 112, 126,142, 146, 147, 151, 157, 167, 169, 170, 196, 232,252, 254

Cantillo, G. 151, 216, 254Carbone, R. 26Carreras Artau, T. 61, 63, 68Casalmiglia, J. 68Casanovas, D. 68

Casertano, G. 109, 254Caso, A. 248Cassani, A. 252Cassin, B. 46, 254Cassirer, E. 71, 72, 147, 156, 157, 158, 164, 248,

254Castiñeira, A. 33, 252Cera, A. 26Cerezo Galán, P. 170, 254Cerutti Guldberg, H. 11Chantraine, P. 109, 260Chávez, E. A. 248Ciriello, G. 112, 254Colonnello, P. 19, 26, 29, 30, 37, 55, 146, 177,

178, 252, 254, 255Colombo, C. 53Colomer, E. 56, 57, 68Constante, A. 25, 34, 54Coreth, E. 25, 255Corominas, J. 124, 134, 178, 182, 260Corsano, A. 67, 255Costa, V. 196, 255Cortés, H. 53Crovetto, P. L. 53Cuevas, M. 119Cullen, C. 11Cusañas, M. 173, 255

D’Alberto, F. 112, 255D’Anna, G. 23, 26, 254, 255De Llera, L. 13, 26, 29, 30, 31, 56, 57, 252, 255De Giovanni, B. 147, 227, 255De Macedo, F. 99, 252Descartes, R. 72, 139, 140, 141, 193, 194, 195, 201,

226, 227, 243, 254, 255Diana, R. 26Díaz, J. L. 87Díaz Plaja, G. 57, 255

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262

Diels, H. 129, 212, 216, 218, 255Di Giovanni, P. 215, 255Di Lillo, M. 26Dilthey, W. 14, 15, 17, 75, 89, 112, 126, 140, 142,

146, 151, 163, 164, 165, 166, 167, 169, 170, 177,193, 255

Di Miele, A. 26, 196, 254D’Ors, E. 62Dussel, E. 11

Eckhart 183, 255Ferrater Mora, J. 12, 36, 37, 45, 56, 57, 58, 62,

63, 64, 68, 170, 256Fink, E. 196Font y Puig, P. 68, 247Franzini, E. 196, 255Freud, S. 77

Gadamer, H. G. 140, 220, 221Galantino, N. 256Galimberti, U. 156, 158, 256Gaos, J. 11, 12, 30, 31, 32, 33, 47, 55, 57, 65, 177,

241, 242, 256García Bacca, J. D. 12, 68García Baró, M. 42, 256García Maynez, E. 248García Morente, M. 12, 57, 63Gebhardt, J. 68, 256Gehlen, A. 71Gómez Dávila, N. 23, 241Gómez-Martínez, J. L. 36, 256González, J. 27, 32, 41, 83, 129, 198, 205, 218,

232, 233, 252, 256González Di Pierro, E. 25González García, M. 29, 156, 191, 205, 252Gorgia 46Granell, M. 11Griffero, T. 75, 256Guadarrama, P. 256Guderzo, M. 252Gutiérrez Pozo, A. 256Gutiérrez Robles, A. 25Guy, A. 56, 61, 63, 65, 256

Hartmann, N. 196, 255Hegel, G. W. F. 90, 140, 142, 151, 193, 196, 210,

216, 217, 218, 256

Heidegger, M. 14, 15, 18, 28, 76, 77, 102, 103,113, 134, 142, 143, 144, 145, 148, 158, 168, 176,177, 178, 179, 181, 182, 183, 185, 186, 187, 189,190, 191, 196, 199, 200, 203, 204, 208, 216, 217,220, 237, 245, 256

Henry, M. 85, 144, 183, 196, 256Hernández García, G. 63, 257Hinkelammert, F. 11Horkheimer, M. 165, 257Horneffer, R. 25, 34, 54, 110, 119, 121, 129, 155,

166, 199, 250, 252Howard, R. 198Huizinga, J. 247Husserl, E. 12, 28, 43, 85, 98, 196, 197, 198, 199,

232, 233, 257

Ímaz, E. 30Izquierdo Ortega, J. 29, 257

Jankélévitch, V. 90, 248, 257Jaspers, K. 78, 142, 257Jung, K. G. 24, 257

Kant, I. 65, 90, 106, 140, 147, 149, 163, 257Kierkegaard, S. 105, 142, 257Kojève, A. 218, 257Kolakowski, L. 90, 257Koyré, A. 193, 194, 257Kranz, W. 129, 212, 216, 218, 255Kusch, R. 11

Laín Entralgo, P. 257Lambert, J. H. 196Lasaga Medina, J. 170, 257Las Casas, B. de 52Leibniz, G. W. 66, 142, 149, 190, 227, 257Lévinas, E. 85, 187, 188, 196, 201, 243, 257Livi, A. 67, 257Llorens i Barba, F. X. 57, 61, 61, 63, 65, 66, 67Llull, R. 62Locke, J. 147Lombardo, M. G. 112, 254Lopez Quintas, A. 257los Ríos, F. de 12Lucas Lucas, R. 257

Maeztu, R. 12

Page 263: Tra Metafisica e Storia

263

Magnano San Lio, G. 126, 257Maragall, J. 68Marías, J. 57, 170, 171, 175, 257Marinotti, A. 112, 257Marion, J. L. 85, 196Márquez Pemartín, C. 148Martí d’Eixalà, R. 61, 64, 65, 66, 67Martinelli, R. 24, 257Martirano, M. 146, 147, 252, 254Marx, K. 142Mascolo, A. 26, 254, 257Masi, F. 26Merleau-Ponty, M. 85, 94, 196, 257Mirabent, F. 68Modica, G. 67, 227, 258Molinaro, A. 99, 163, 252, 258Mollo, M. L. 13, 20, 26, 155, 157, 167, 179, 224,

250, 251, 252Monclús, A. 29, 30, 253Montaigne, M. de 73Mora, A. 29Mora, J. L. 25Morón, C. 170, 258

Nash, J. F. 198Nicol, A. 25, 28, 34, 250Nicolosi, S. 227, 258Nietzsche, F. 142

Ortega y Gasset, J. 11, 17, 30, 31, 48, 57, 63, 88,142, 161, 163, 170, 171, 172, 173, 174, 175, 176,177, 258

Paci, E. 196, 258Padilla, E. 25Pansera, M. T. 23, 258Pareyson, L. 142, 258Parmenide 14Pascal, B. 73Paz, O. 51Penzo, G. 142, 258Perego, V. 85, 258Pessina, A. 90Pessoa, F. 245Piovani, P. 86, 147, 258Platone 42, 145, 154, 215, 216, 217, 255, 258Plessner, H. 71

Porciello, M. 13, 20, 251Prini, P. 142, 258Protagora 46

Ramos, S. 248Rasini, V. 258Recasens Siches, L. 11Reid, T. 65, 66, 258Reine, G. 63, 258Reyes, R. C. 69Ricoeur, P. 158, 220, 221, 258Robles, O. 248Roig, A. A. 11, 55, 258Rombach, H. 111, 258Ronzón, E. 62, 258Roquer, R. 68Roura Parella, J. 68

Sagols, L. 25, 27, 41, 83, 198, 232, 233, 252, 258Salmann, E. 163, 258Sanchéz Cuervo, A. 30, 166, 258Sánchez Vázquez, A. 12, 31, 32Santinello, G. 227, 258Santos Gómez, M. L. 25, 83, 191, 208, 233, 252Sarti, S. 258Sartre, J. P. 77, 177, 196, 258Savignano, A. 170, 171, 173, 258, 259Scannone, J. C. 11Scheler, M. 71, 72, 75, 77, 196, 259Schul, P. 248Scilironi, C. 259Semerari, G. 147, 259Sepúlveda, J. G. de 52Sequeri, P. 156, 259Serra Hunter, J. 12, 61, 62, 63, 64, 68, 247Skira, A. 150Spiegelberg, H. 196, 259Spinicci, P. 196, 255Spranger, E. 75, 259Stein, E. 196, 247Subacchi, M. 177, 259

Tarditi, C. 85, 259Tessitore, F. 68, 147, 259Thévenaz, P. 72, 177, 259Tineo, A. 68Todorov, T. 52, 53, 259

Page 264: Tra Metafisica e Storia

264

Torchia Estrada, J. C. 117, 252Turró, R. 63

Udina, J. 68Unamuno, M. de 150, 259

Van Breda, H. L. 72, 259Vargas Lozano, G. 29, 259Vasconcelos, J. 51Velázquez Delgado, J. 25Ventós, X. R. de 27, 33, 55, 250Vermeylen, A. 247Vergés Farrés, P. 247Verra, V. 210, 259Vico, G. B. 67, 142, 146, 147, 227Villegas, A. 259Vives, L. 64, 67Volpi, F. 28, 178, 259

Xirau, J. 12, 31, 56, 63, 68, 259

Yamuni, V. 259

Waldenfels, B. 259

Zambrano, M. 31, 57, 259, 260Zea, L. 11, 51, 55, 260Zecchi, S. 196, 260Zirión, A. 198, 232, 233, 260Zubiri, X. 31, 57Zucal, S. 163, 253

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265

I N D I C E G E N E R A L E

Prefazione di Pio Colonnello 11

Tavola delle abbreviazioni 20

TRA METAFISICA E STORIA.L’IDEA DELL’UOMO IN EDUARDO NICOL 21

Introduzione. L’uomo ha ideato l’uomo 23

Capitolo I. Eduardo Nicol: filosofia come “vocación” 271.1. La filosofia hispánica 341.2. La hispanidad 501.3. La escuela de Barcelona 56

Capitolo II. L’idea dell’uomo come espressione della situazione vitale 702.1. Psicologia situazionale come saber del hombre 702.2. Esperienza e critica del soggetto 812.3. Temporalità e situazione vitale 1012.4. Situazione ed espressione 1202.5. L’idea dell’uomo e la storia 1262.6. Verso un’ontologia dell’uomo 132

Capitolo III. L’uomo, essere simbolico 1403.1. La critica della ragione 1403.2. Ragione e vita: Bergson 1493.3. Ragione e storia: Dilthey e Ortega 1633.4. Ontologia ed esistenza: Heidegger 1763.5. Il contro-discorso del metodo 1923.6. Metodo fenomenologico 1953.7. Metodo dialettico 2103.8. L’uomo “soggetto” dell’espressione 219

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266

Conclusioni. Flatus vocis: ecce homo 241

Nota bio-bibliografica 247

Bibliografia 251

Indice dei nomi 261

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« Col capo reclino dormiva,le membra abbandonate…E intanto la splendida dea

ambrosia su di lei versava;con unguento di ambrosia

le tergeva il bel viso,l’unguento di cui si cosparge

Citerea dalla bella ghirlanda,quando va delle Cáriti

all’amabile danza. »

Odissea, XVIII

Stampato per Le Cáriti di Firenzenel mese di agosto 2010.

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Catalogo Le Cáriti

« Logos »Biblioteca di saggistica

1 Alessandro Parronchi, Due saggi danteschi2 Giovanni Capecchi, Palazzeschi e la leggerezza3 Walter Schweidler, Il concetto di filosofia in Wittgenstein4 Mascia Cardelli, La prospettiva estetica di Lionello Venturi5 Floriana Calitti, Fra lirica e narrativa. Storia dell’ottava rima

nel Rinascimento6 Nicolas Faure, Philippe Lacoue-Labarthe, Jean-Luc Nancy,

Ritratti / Cantieri7 Lucette Finas, Il raggio della lettura. Proust ritocca Balzac8 Enzo Fantin, Il suono vivente. Guida a una fenomenologia della musica9 Alice Gonzi, Jules de Gaultier: la filosofia del bovarismo10 Anna Di Giglio, Gli strumenti a percussione nella Grecia antica11 Aurelio Canonici, Musica e Sofía. Problematiche filosofiche nell’opera

di Richard Wagner12 Marco Piazza, Redimere Proust. Walter Benjamin e il suo segnavia13 Massimo Seriacopi, Pascoli esegeta di Dante. Con una raccolta di studi

inediti pascoliani14 Luigi Rossi (a cura di), Temi di storia contemporanea15 Giovanni Capecchi (a cura di), Mezzo secolo dal “Gattopardo”. Studi

e interpretazioni

« Mnemosine »La biblioteca delle Cáriti

1 Dino Campana, Il più lungo giorno2 Claudio Claudiano, Epitalami e fescennini3 Federigo Tozzi, Bestie4 Gerard Manley Hopkins, Poesie5 Christoph Martin Wieland, Pensieri sugli ideali degli antichi6 Charles Baudelaire, I fiori del male

« Eufrosine »Collezione di piccoli saggi

1 Friedrich Nietzsche, Sulla musica e la parola2 Immanuel Kant, Il piacere di ridere

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3 Giovanni Pascoli, Due scritti inediti di esegesi dantesca4 Bertrando Spaventa, Giambattista Vico5 Federigo Tozzi, Fra d’Annunzio e Pirandello. Scritti su Carducci,

d’Annunzio, Pascoli, Verga e Pirandello6 Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Storia italica. Con inediti

dal carteggio Wilamowitz - Gaetano De Sanctis7 Francesco D’Ovidio, Dante e la filosofia del linguaggio

« Aglaia »Piccola collana di recuperi letterari

1 Torquato Tasso, Lettere dal manicomio2 Immanuel Kant, Il piacere di ridere3 Francesco d’Assisi, Messaggio a tutti gli uomini4 Jonathan Swift, Elogio del rutto5 Giambattista Marino, La canzone dei baci6 Nicolas de Chamfort, Le donne, o le conosci o le ami7 Johann Joachim Winckelmann, Il sentimento del bello8 Jan Amos Comenio, Fondamenti per allungare la vita9 Heinrich Heine, Le donne di Shakespeare10 Taras Sevcenko, La fanciulla mutata in giglio11 Fanny Lewald, Il diavolo dell’arte12 Ludovico Ariosto, La novella di Fiordispina13 Orsatto Giustinian, Sonetti alla moglie14 Edmondo De Amicis, Nel giardino della follia15 Epicuro, Frammenti. Da Cicerone e Seneca

« Cleta »Collana di traduzioni d’autore

1 Isocrate, Avvertimenti morali, nella versione di Giacomo Leopardi2 Percy Bysshe Shelley, Dodici liriche, nella versione di Adolfo De Bosis

« Estremo Occidente »Saggi di storia e cultura delle Americhe

1 Andrès Bello, Analisi ideologica dei tempi della coniugazione castigliana

« Opera prima »Collana di studi di cultura filosofica

1 Roberto Mazzola, Metafisica Storia Erudizione. Saggi su Giambattista Vico

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2 Anna Pia Ruoppo, Vita e metodo nelle prime lezioni friburghesidi Martin Heidegger (1919-1923)

3 Roberto Colonna, Filosofía sin más. Leopoldo Zea e i «Cuadernos Americanos»

« Pensamiento Latino »Collana di filosofia iberica e iberoamericana (nuova serie)

1 Stefano Santasilia, Tra Metafisica e Storia. L’idea dell’uomo in Eduardo Nicol

« Talia »Piccola raccolta di scrittura contemporanea

1 Alessandro Parronchi, « Quel che resta del giorno »2 Maurizio Pistelli, « Montalbano sono »3 Paolo Euron, Nulla si impara dalle sconfitte troppo lente4 Roberto Fedi, I poeti preferiscono le bionde5 Tommaso Meozzi, La superficie del giorno

Con il marchio Finisterre:« Finisterre poesia »

1 Guillaume Apollinaire, Vitam impendere amori2 Emily Dickinson, Un tempo compiuto e perfetto3 Sergio Corazzini, Libro per la sera della domenica

Riviste:fronesis, semestrale di filosofia letteratura arte

« Excepta »Estratti da fronesis

1 Jean-Luc Nancy, I due segreti del feticcio2 Giorgio Bàrberi Squarotti, Giuditta moderna: d’Annunzio, Hebbel dopo

Voltaire e Monti3 Giuseppe Antonio Borgese, 22 lettere inedite a Emilio Cecchi4 Erasmo da Rotterdam, Su Oxford e l’umanesimo inglese (tre lettere

a William Mountjoy)5 Wilhelm Windelband, Significato e concetto della filosofia6 William Breazeale, Il Caravaggio, il Carracci e la cappella Cerasi

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