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1 UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea in scienze filosofiche L'”ALTRO INIZIO”: I CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL'EVENTO) DI MARTIN HEIDEGGER Tesi di laurea in FILOSOFIA TEORETICA Relatore Presentata da Prof. Maurizio Malaguti Marcello Gagliardi Sessione III Anno accademico 2007-2008

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA

FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea in scienze filosofiche

L'”ALTRO INIZIO”:

I CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL'EVENTO)

DI MARTIN HEIDEGGER

Tesi di laurea in FILOSOFIA TEORETICA

Relatore Presentata da

Prof. Maurizio Malaguti Marcello Gagliardi

Sessione III

Anno accademico 2007-2008

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INDICE

BREVE E PROVVISORIA FOCALIZZAZIONE DI QUESTO SCRITTO 4

I

I.I L'OPERA: I CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL'EVENTO)

PORSI DI FRONTE AI CONTRIBUTI 7

I.II LA STRUTTURAZIONE DEI CONTRIBUTI 9

I.III LA STRUTTURA INTRINSECA DEI CONTRIBUTI: UN

INCAMMINARSI. IL PENSARE COME CAMMINO O SENTIERO 11

APPENDICE ERMENEUTICO-INTERPRETATIVA (RIGUARDO LA

KEHRE) 15

II

PREMESSA 17

II.I SU LA RISONANZA 19

II.II SUL GIOCO DI PASSAGGIO 26

II.III SU IL SALTO 34

II.IV SU LA FONDAZIONE 43

-esser-ci 45

-verità 60

-spazio-tempo 76

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II.V LINEA TRASVERSALE: LA MACCHINAZIONE 89

III

III.I IL PENSARE COME PENSARE ESPERENTE 100

III.II SU I VENTURI 111

IV

IV.I SU L'ULTIMO DIO 118

IV.II IL PENSARE COME TRASFIGURAZIONE 125

V

V.I COMPENDIO “SULL'”ESSERE 142

APPENDICE CONCLUSIVA: SU LA FILOSOFIA 153 NOTA BIBLIOGRAFICA 158

BREVE E PROVVISORIA FOCALIZZAZIONE DI QUESTO SCRITTO

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“Si è fissato qui per cenni, come traccia da sviluppare in forma compiuta, ciò che una lunga esitazione mi aveva indotto a tenere da parte”1. Iniziano così i Contributi alla filosofia (dall'evento) di Heidegger. Cotale inizio immediatamente ci sussurra una problematicità del testo in questione, testo che risulta, di primo acchito, enigmatico. L'opera dei Contributi è stata valutata da alcuni rinomati studiosi del pensiero heideggeriano come “il più importante di una serie di trattati inediti..., se non come il... “vero magnum opus” ( O. Pöggeler) o la... “seconda opera capitale” (F.-W. Von Herrmann)... Nondimeno rimane, a parecchi anni dalla sua comparsa, ancora tutta da capire e da interpretare”2. Sempre riguardo alla medesima opera, possiamo leggere: “libro segreto... Raccolta di aforismi... Il grande abbozzo asistematico”3. D'altronde si può anche trovare qualcuno secondo cui i Contributi sono un “vero e proprio trattato...-nel quale- Heidegger sviluppa per la prima volta la parola chiave del suo tardo pensiero: Ereignis”4. Comunque stiano le cose, codesta opera e l'intrinseche sue profondità e problematicità saranno poste a tema nel presente scritto. Ciò, perlomeno, è nostro intento. Ma nella focalizzazione (nel mettere a fuoco per il vedere) vera e propria dei Contributi il piano filosofico potrebbe non bastarci. Potrebbe non essere adeguato a cogliere le profondità e problematicità prima accennate. Come ciò può essere...? Non è forse il testo dei Contributi un' opera dello Heidegger? E non è forse egli un grande e riconosciuto pensatore del novecento? Non è forse il suo pensiero ufficialmente concepito come una filosofia? Cioè, non troviamo forse questo pensiero nei libri di storia della filosofia? Non costituisce esso, insieme a tanto altro, quel bagaglio di conoscenze che forma la scienza e la cultura filosofiche? Nessuno lo negherebbe. Eppure proprio per questo lo Heidegger, durante l'intrinseco cammino che gli è appartenuto, ha prima di tutto sempre messo in guardia da due cose coloro che si approssimavano al suo pensiero: il più radicale, ma sempre incombente, fraintendimento5, e l'altrettanto incombente incanalamento del pensare-domandante in dottrina filosofica (in breve, in una filosofia facente parte delle filosofie della storia della filosofia)6. Soggiacente alla rilevazione di entrambi questi già-da-sempre

1Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 29. Ed. Adelphi, Milano 2007. 2Ivi. pag 19. 3Maurizio Ferraris, Cronistoria di una svolta, in Martin Heidegger, La svolta, pag. 92. Ed. il Melangolo,

Genova 1990. 4Corrado Badocco, Avvertenza all'edizione italiana de Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. VI. Ed.

Longanesi, Milano 2007. 5“Heidegger stesso non poté scorgere, nell'attenzione rivolta alla sua opera...nient'altro che

un'incomprensione delle proprie intenzioni effettive... Ciò che viene pensato non è preso...come segnavia nella ricerca del cammino, ma come risultato finito, e così viene “compreso” a partire da ciò che è già noto, quindi “incompreso”, frainteso”. Otto Pöggeler, il cammino di pensiero di Martin Heidegger, pagg. 7-8. Ed. Guida, Napoli 1991.

6Ai Contributi soggiace un “nuovo pericolo che ora l'evento -l'essere come evento- si trasformi subito in un nome ed in un comodo concetto dal quale “dedurre” altro,...astrarlo in una discussione

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incombenti “pericoli” vi è la premurosa necessità di scostarsi da quella prospettiva detta il dominante o metafisica, in tutte le sue forme. Ciò significa distaccarsi, o meglio sradicarsi, da una data, e data come già-da-sempre (pre-condizione), visione dell'essere e perciò del “mondo”. È da cotale luogo che scaturisce tutta la questione heideggeriana del linguaggio e la problematicità della “ricerca” di un dire7 altro rispetto a quello definito dominante o metafisico (con tutte le sue propaggini). Di tutta la bibliografia heideggeriana si può affermare che il “rischio consiste nel parlare con proposizioni assertorie di qualcosa a cui è per essenza inadeguata questa modalità del dire”8. Non è casuale che in avanzata età Heidegger ritorni agli inizi del suo cammino filosofico (esplicitamente ad Essere e tempo, all'interno del testo Tempo e essere). Egli ritornò a quando, avvicinatosi alla fenomenologia la ri-colse (ri-pensò), forse più che altro intuitivamente, forse deviandola dai binari a cui era usa, ma cogliendo quegli impulsi direttivi che avrebbero accompagnato e guidato il suo pensare da lì in avanti, e forse anche da prima ancora: “l'essenziale per essa (la fenomenologia) non sta nell'essere reale come “corrente” filosofica. Più in alto della realtà sta la possibilità. La comprensione della fenomenologia consiste esclusivamente nell'afferrarla come possibilità... Essa è la possibilità del pensiero -possibilità che si trasforma nei tempi, perché solo così può rimanere una possibilità- di corrispondere all'appello di ciò che è da-pensare. Soltanto se la fenomenologia è esperita e mantenuta in questo modo, essa può sparire come denominazione storiografica a favore della cosa del pensiero, la cui manifestatezza resta un mistero”9. La tematica che ci approssimiamo ad affrontare, proprio nel suo essere al di là di una semplice tematica, come si cercherà di mostrare, investe ciò che è in sé la filosofia in quanto pensare. Sotto una certa prospettiva, quello che afferma Vattimo nella presentazione della traduzione italiana del testo Introduzione alla metafisica ha un che di lampante: “Il pensiero non può essere altro, per noi, che una meditazione e una ripetizione della storia della metafisica, intesa come il modo proprio e peculiare in cui l'essere si dà alla nostra epoca”10. La prospettiva in cui queste parole, ed il loro

speculativa”. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 346. Ed. Adelphi, Milano 2007.

7Durante l'intero scritto baseremo la significatività propria di questo termine, quando esso sarà posto in risalto tramite la sua scrittura in corsivo, sulla essenziale diversità tra dire ( Riguardo una tale diversità, e quindi riguardo alla significatività di cui siamo a porre (la quale concerne anche ciò che sarà denominato il non-detto o non-espresso), chiarificatori e lampanti sono il terzo, quarto, quinto capoverso de: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 198. Ed. Mursia, Milano 1973. Questa significatività di cui siamo a porre riguarda intimamente il linguaggio (l'essenza del linguaggio) nel suo essere ri-pensato, heideggerianamente, ed in quanto intrinseco “moto” ed interezza, come Si veda: Ivi. pag. 197.

8Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 33. Ed. Longanesi, Milano 2007. 9Ivi. pag. 105. 10Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pag. 9. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990.

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tono, vengono detti emergerà di volta in volta durante le pagine che ci apprestiamo a scrivere. Però, se ne tenga conto: nulla è stato asserito o avanzato sull'inerzia di questa nostra epoca11 heideggerianamente definita metafisica; nulla è ancora detto riguardo quel “noi”, appartenente all'epoca metafisica, al di là di quest'ultima. Per ora diremo, approssimativamente: nulla è, da un qualcosa, già decretato riguardo come quel “noi” e la nostra epoca possano divenire altro. Ed altro qui significa, necessariamente, intrinsecamente, nel darsi dell'essere medesimo e mai al di fuori di esso.

11Epoca non è qui intesa banalmente in quanto età storica, ovvero sotto la prospettiva cronologica. Epoca

si riferisce direttamente alla storia dell'essere. L'essere si dà in modo epocale, l'epocale va pensato dal Tutto questo va a confluire nella significatività dell'escatologia come carattere dell'essere. Per un sunto ed una chiarificazione di codesto discorso si veda: Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 23-25. Ed. Marietti, Genova 1989.

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I.I L'OPERA: I CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL'EVENTO)

PORSI DI FRONTE AI CONTRIBUTI

Riportiamo ora brevemente la collocazione di tale opera all'interno del pensiero filosofico-speculativo heideggeriano muovendoci nell'ottica della storia della filosofia. Il cosiddetto “fallimento” di Essere e tempo, il quale trova riscontro nella sua mancata prosecuzione, intraprende un percorso che, portandoci alla tanto rinomata quanto speculativamente indeterminabile Kehre, e passando per le vicissitudini politiche e l'isolamento culturale, approda alla positività1 del pensiero heideggeriano dei Contributi. Il manoscritto di ciò che è stato successivamente pubblicato in quanto testo filosofico avente per titolo Contributi alla filosofia (Dall'evento) risale ad un periodo che va dal 1936 al 1938. Anni questi assai rilevanti per lo Heidegger, essendo la cosiddetta svolta avvenuta intorno al 1935-1936. Dobbiamo tenere conto dell'epoca di questa prima stesura. Siamo quindi a porci di fronte ad una opera che, appena successiva ai momenti cui risalgono gli scritti sull'opera d'arte e sulla poesia di Hölderlin, include obbligatoriamente uno sviluppo filosofico-speculativo dell'esperienza della svolta. O così per lo meno è presupposto in tutti coloro i quali, in un modo o nell'altro, intraprendono un'analisi dei Contributi. Nell'opera in questione infatti si trovano neologismi e nuove terminologie heideggeriane. Vi si trovano al suo interno nuove “figure” proposte dallo Heidegger. Talune saranno portate avanti dal pensiero successivo, tal altre no. Ad ogni modo, in generale, la struttura speculativa che trova posto nei Contributi è lasciata cadere (in quanto tale), tanto più che, si rammenti, neanche si volle renderla pubblica (non lo volle l'autore), se non molto tempo dopo e con forti reticenze. Ma, più di ogni altra cosa, nei Contributi vi è lo sforzo, adesso presentato in modo meramente nominale e su un piano a dir poco fraintendibile nonché tramite un parlare inappropriato, di pensare (meglio sarebbe scrivere: accogliere) l'essere (l'Essere) in quanto evento e/o Wesung (essenziale permanenza). Siamo nel punto in cui la filosofia heideggeriana passa (come e in quali piani è ancora tutto da vedere) dalla tralasciata analitica esistenziale, tendente ad un'ontologia fondamentale, alla storia dell'essere e della sua verità. Si apre, quantomeno, un diverso orizzonte teoretico-

1Positività da ri-comprendersi qui in senso fondamentale ed essenziale. Quindi non contrapposto ad una

qualche negatività, non valutativo o valoriale, ma come positività di ciò-che-è. Se ne dirà successivamente. Comunque questa visione della positività richiama esplicitamente la dinamica medesima della Kehre; ovvero che in quanto svolta, mantiene una “direzione verso...” pur essendo anche costituita dei precedenti tragitti, la di cui specificità è l'apparire differenziati nella direzione ora intrapresa nella svolta. Anche ciò si andrà focalizzando in seguito.

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speculativo. Ma vi sta qui una continuità o una discontinuità? Anche a ciò cercheremo di dar risposte nel corso del presente scritto. Concludiamo rilevando quanto facilmente ci si possa genericamente accorgere di come i contenuti (meglio sarebbe dire la significatività intima) del testo di cui siamo a trattare non si presentino sotto l'ottica, il “metodo”, di analisi dell'analitica esistenziale caratteristica invece dell'opera del 1927. Tutt'altro, Ai Contributi, abbiamo precedentemente affermato, precede invece quel cambio prospettico (qui torna come un flusso e riflusso il senso della Kehre) che si avvia ad un pensiero “nuovo”, o meglio, altro, definito (aprente un nuovo perimetro speculativo) appunto con-forme alla storia (non storiografia o stroricismo!) dell'essere. L'essere, pensato e pro-posto nella storia e verità dell'Essere, ovvero come evento, si focalizzerà sempre più essenzialmente in quanto cardine del cosiddetto “secondo” e tardo pensiero heideggeriano.

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I.II LA STRUTTURAZIONE DEI CONTRIBUTI

Al fine di una migliore comprensione dell'impostazione d'avvio di questo nostro scritto ci muoveremo momentaneamente, e lo faremo volontariamente ed esplicitamente, all'interno del linguaggio metafisico (quindi, con Heidegger, penseremo e diremo metafisicamente, cioè incarnanti senso d'orientamento metafisico), linguaggio assodatosi nel corso di tutta la storia della filosofia occidentale cioè dell'Occidente medesimo, ma di quest'ultimo ce ne occuperemo più oltre. Ciò significa porre due diversi livelli in rapporto di rimando tra loro. Il rimando concerne quella relazione che caratterizza forma e contenuto, ma non si ferma ad essa, né si presenta altrettanto nettamente. Il testo contiene, o meglio è, struttura e strutturazione. La strutturazione si presenta come un espletarsi della struttura, ed in quanto si presenta, non è esente dall'essere guardata in vario modo. La struttura sono le innervature dei contenuti, nella loro interna dinamica. La struttura può essere vista, più che non guardata, in diversi modi. Ad essi ci si riferisce quando si nomina l'interpretazione o, in senso lato, l'ermeneutica di un'opera1. Ordunque, partendo dal livello formale, per poi comunque approdare al piano contenutistico, vi sono da fare alcune osservazioni. Se da Essere e tempo si estrapola una ben delineata struttura dei passaggi del pensiero heideggeriano contenutovi, una struttura logicamente ferma riscontrabile per esempio nelle varie divisioni, suddivisioni e appendici del testo, ed inoltre si percepisce una sistematicità che, in genere, si dice rinviare ad una definita visione d'insieme e capacità d'analisi, lo stesso non può certo dirsi riguardo ai Contributi. Al primo impatto quest'ultimo testo ci appare piuttosto frammentario, quantomeno non sistematico. Ciò non solo a causa della titolazione dei capitoli e dei molti paragrafi, che in questo risultano spesso piuttosto oscuri e non nozionisticamente riassuntivi, e nemmeno solamente a causa della numerazione continua e non suddivisa (la quale giunge al numero di 281) dei sopraddetti paragrafi. Quanto piuttosto nella intricata rete di rimandi (denominiamo così, per adesso, i legami interni dell'opera) che all'interno dello scritto connettono, in un confronto incessante, da un paragrafo all'altro. La lettura, perlomeno a livello nozionistico, ne viene drasticamente affaticata. Questo poiché spesso le spiegazioni contenutistiche si addensano, mutano esplicitamente di prospettiva o variano nelle proprie sfumature, ad ogni rimando. Infine, la lettura medesima, e a maggior ragione l'interpretazione, difficilmente risulta univoca, complice una necessarietà di luci ed ombre sia del pensiero 1Ma non ci si confonda: chiariamo subito che parlare e dire sono qui essenzialmente altro da,

rispettivamente, strutturazione e struttura. Per quanto, in una certa prospettiva, entrambe queste ultime dicono del parlare. Il quale non è poi indipendente ed solato dal dire in sé, tutt'altro. Ma non è ora il momento in cui un tal discorso va approfondito.

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che nell'esprimersi heideggeriani. Veniamo così alla conclusione, anche intuitiva, che la filosofia dei Contributi non è, né può filtrarsi tramite, una sistematicità. O quantomeno una sistematicità riscontrabile all'interno del testo stesso. Ovvero, il testo in sé non risulta proposto ed adeguato ai principi della razionalizzazione sistematica. Non a caso Heidegger avrebbe poi messo in rilievo questa peculiarità del suo pensiero (ovvero dell'apparire di tale pensiero ad un dato modo di vedere). Egli non la nasconde quando, parlando delle domande fondamentali, usa le seguenti parole: “Forse un giorno sarà possibile trovare risposta a queste domande proprio in quei tentativi di pensiero che, come i miei, si presentano come qualcosa di disordinato e arbitrario”2. Non vi è perciò da stupirsi se qualcuno giudica i Contributi, “consentaneamente a tutti i testi successivi ad Essere e tempo, -come un'opera in cui- Heidegger si spiega con un procedere rapsodico molto discosto dalla tecnicità fenomenologica”3. Dobbiamo, di conseguenza, concludere che nel suddetto testo non vi siano né strutturazione né metodo? Né, forse, una intrinseca struttura portante? Come un bisbiglio ed un invito sottovoce, è lo stesso autore ad accennarci, nei momenti ultimi del suo cammino, la veduta da cui con il pensiero, similmente che tramite lo sguardo, poter spaziare sui Contributi. Nell'ambito del pensiero “non esiste né metodo né tema, ma la contrada (Gegend) che così appunto si chiama, perché dischiude e offre (gegnet) ciò che deve essere pensato dal pensiero. Il pensiero si trattiene in quella contrada percorrendone le vie. Qui la via fa parte della contrada”4. “Il metodo non segue ciò che è propriamente via”5.

2Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 124. Ed. Mursia, Milano 1976. 3Maurizio Ferraris, Cronistoria di una svolta, in Martin Heidegger, La svolta, pag. 78. Ed. il Melangolo,

Genova 1990. 4Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 141. Ed. Mursia, Milano 1973. 5Ivi. pag. 155.

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I.III LA STRUTTURA INTRINSECA DEI CONTRIBUTI1: UN

INCAMMINARSI IL PENSARE COME CAMMINO O SENTIERO

Più che di struttura interna, vocabolo che richiama fraintendimenti, dovremmo parlare di intrinseca disposizione. Ad ogni modo, teniamo presente che il testo, almeno nella sua elaborazione per essere tale (strutturazione), ci comunica dei “punti di riferimento”2, in cui esso si articola. Tali, definiti per ora, “punti di riferimento” verrebbero travisati nella loro significatività se venissero colti, a livello di strutturazione, come mere divisioni, cioè in quanto nomi di capitoli e titolazioni. Ciò che si distilla dai rimandi (o meglio, dalla dinamica) interni dei Contributi è la propria significatività o il proprio senso come percorso e cammino3 di un pensare (ovvero della direzione e dell'intimità di un tale pensare), che è un domandare autentico, orientato all'essere ed al suo darsi. Senza una tale conquista (fondata nell'ascolto del dire echeggiante di ciò che nel testo sono cioè dicono i vocaboli, andando “oltre” ai contenuti nel loro presentarsi come nozioni) non si accoglie il come, ovvero l'intimità, l'essenzialità della direzione dello sguardo, del pensare heideggeriano dei Contributi; tenuto ben conto che qui, di essi trattiamo. Il pensare-domandante (o meditativo), in quanto è incamminarsi cioè sentiero, rimane esplicitamente essenziale al secondo ed al cosiddetto tardo pensiero heideggeriano. Rammentiamo qui la chiara esemplarità del tornante4, e più ancora il senso “percepibile” di questa. Il quale tornante, d'altronde, non è che una possibile traduzione della parola tedesca Kehre. Infatti, “normalmente la parola indica quelle curve molto strette nelle strade di montagna...le quali, pur essendo cambiamenti di direzione, conducono alla medesima meta, la sommità della montagna... Heidegger si servì di questa metafora per indicare il mutamento di prospettiva maturato”5. Dunque, per quanto ci concerne, dalle strade di montagna

1Cfr. la titolazione del par. 1, I “Contributi” domandano in un percorso. 2Cfr. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 39. Ed. Adelphi, Milano 2007. 3Il rimando, per questo termine e la sua significatività complessiva, è esplicitamente ed analogamente (da

intendersi: come i cerchi concentrici nell'acqua allo gettare di un sasso) indirizzato all'opera Segnavia. Non a caso opera del “secondo” Heidegger, in cui la “struttura di sentiero” richiama alla significatività del testo (e in questo caso della significativa successione della significatività dei testi) medesimo. Cfr. anche la seconda conferenza, incentrata su “il cammino”, de l'essenza del linguaggio in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 141-155. Ed. Mursia, Milano 1973.

4È probabile che la prima immagine rappresentativa apparsa alla nostra mente sia quella del segnale stradale o della forma del cosiddetto tornante. Certo è che niente di più lontano dalla materializzazione oggettivante, funzionale e rap-presentativa del tornante è ciò cui qui Heidegger richiama.

5Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 23. Ed. Adelphi, Milano 2007. Si voglia però evidenziare come la forma metaforico-rappresentativa non si addica al pensare heideggeriano. Il termine metafora andrebbe perciò ri-pensato nella sua significatività, o sostituito, onde evitare il fraintendere.

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facilmente giungiamo ai sentieri, tanto famigliari a chi vive ed abita le folte, verdi e chiaro scure zone boscose come la germanica Foresta Nera. E proprio come sentiero o via, non nel significato di strada ma come cammino, Heidegger pone il suo pensare. Egli parla di “cammini di pensiero”6, parla del pensare come domandare che “lavora a costruire una via... la via è una via del pensiero... che l'autore ha percorso”7 e che percorrendola “provoca... una crescita”8. Se dunque i Contributi mancano di sistematicità non per questo mancano di un proprio “rigore”, di una propria forza filosofica, di una struttura intima, di una intrinseca significatività, di un dire essenziale. Tutt'altro. Ma a questo dire non ci accosteremo senza ingannarci se non come ad un cammino da percorrere, ad una filosofia che non è solamente contenutistica o meramente nozionistica ma va accolta come pensare meditativo-domandante. Senza una prospettiva di cammino o per-corso anche questo pensare heideggeriano che è i Contributi risulta a noi, per lo più, solamente un libro, ovvero libro in quanto “raccolta di saggi e discorsi”9. Da tutto ciò ne viene che, più che una premessa, queste righe sono l'accenno, l'intravedersi, di una prospettiva che chiameremo meditare-interrogante. Di tutto ciò terremo conto (sarà costitutivo) nel nostro porci di fronte ai Contributi. E verrà man mano ad emergere, ove lo si potrà vedere. Dunque in che consistono questi precedentemente denominati “punti di riferimento”? Strutturano essi il cammino di un pensare interno ai Contributi? Come essi riguardano il pensiero altro10 che ri-chiama e si incardina nella prospettiva della storia dell'Essere? Così, al terzo paragrafo dei Contributi detto Dall'evento, abbiamo già dispiegata la strutturazione del testo medesimo: “La risonanza. Il gioco di passaggio. Il salto. La

6Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 1. Ed. Mursia, Milano 1976. 7Ivi. pag. 1. 8Ivi. pag. 5. Così, ad esempio, ed in ciò empaticamente alla direzione del presente scritto,,

l'interpretazione dell'allievo heideggeriano Pöggeler: “La capacità di comprendere il pensiero di Heidegger si desta solo allorché il lettore...è disposto a comprendere tutto ciò che ha letto di volta in volta come un passo verso quel “da pensare”, verso cui Heidegger è in cammino... Come avviarsi per un cammino, come essere in cammino, Heidegger ha sempre compreso il proprio pensiero”. Otto Pöggeler, il cammino di pensiero di Martin Heidegger, pag. 9. Ed. Guida, Napoli 1991. Riguardo a quest'ultima citazione (e interpretazione), il senso, da noi assunto, de “il cammino” (o porsi-in-cammino), ricadendo sul come, ne esce assai più incisivo per lo stesso pensiero percorrente le vicinanze dell'essere: il pensiero non è qui solamente nel cammino (come direzione), qui il pensare è come cammino-incamminarsi. Alle successive pagine l'arduo mostrare ciò. Altri riferimenti ad un pensare o poetare (essendo il legame tra i due è più che intimo) come cammino-incamminarsi, sentiero, via,si riscontrano in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pagg. 45, 48, 68-69, 86, 88, 91, 98, 123, 135, 141, 150, 155, 164 (i passi), 170, 189, 201, 206. Ed. Mursia, Milano 1973. E questo solamente in un opera, sarebbe inutile stilare un elenco. Non è, d'altronde, Heidegger medesimo a dire poeticamente, di coloro che compiono la propria essenza, i viandanti? Ivi. pag. 52.

9Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 1. Ed. Mursia, Milano 1976. 10 È fin da ora opportuno chiarire che questo pensiero altro si porterà heideggerianamente a fuoco (anche)

in quanto pensiero rammemorante. Rimando, solo per un esempio, a: Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 175. Ed. Mursia, Milano 1976.

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fondazione. I venturi. L'ultimo Dio”11. Innanzitutto si noti che il capitolo finale, l'Essere, nel manoscritto risulta all'inizio, quindi posto successivamente al capitolo Sguardo preliminare12. Perciò la “conclusione”, se di “conclusione” si può parlare, in quanto manoscritta essa risiede nel capitolo denominato L'ultimo Dio. Il termine “conclusione” è qui per l'appunto posto tra virgolette a significare la valenza non di chiusura ed il non concatenamento logico/causale con cui si pronuncia tale vocabolo. Ricordiamo che non è né sarà ivi in gioco un corretto processo assertivo-concettuale, ma un incamminarsi e quindi un sentiero nel suo percorrerlo; se si vuol tenere fede a ciò che è fin qui stato riportato, posto all'attenzione, ed affermato, forse detto. Noi, dal canto nostro, non mancheremo mai di rammentare tale “interna struttura” e prospettiva. Addentro la stessa ottica, la strutturazione, sopra nominata appena, non è un elenco di capitoli, né si basa solamente su interconnessioni concettuali e causali. La parvente presentazione didascalica dei capitoli è subito dissolta da Heidegger stesso: “l'abbozzo del piano di questi Contributi ai fini della preparazione del passaggio è tratto dal piano fondamentale, ancora incompiuto, della storicità del passaggio stesso... Si tratta di una schizzo preliminare dello spazio di azione del tempo che solo la storia del passaggio crea in quanto proprio regno”13. Se nel passaggio cui si accenna è in gioco l'originarietà di ciò che è iniziale, ovvero ciò che si delineerà come l'altro inizio, nel suo legame con il primo inizio14, nella parola storicità è da intra-vedersi il richiamo (quantomeno heideggeriano) alla storia dell'essere a cui (in cui) il pensiero si deve con-formare. Qui storicità non ha nulla di storicistico, e men che meno di storiografico, essendo quest'ultimo, in quanto materia di scienza, scaturito e costituito dall'orizzonte denominato da Heidegger metafisica, o il dominante. I sei “punti di riferimento”, o fughe15, o disposizioni16, riconoscono la, ed echeggiano della, storia dell'Essere come orizzonte del domandare heideggeriano. Essi accennano all'evento17, dicono del passaggio in quanto passare posto fra gli inizi (il primo e l'altro). Tale passaggio si dà in un cammino, si dà come incamminarsi: “i Contributi domandano in un percorso che si apre solo attraverso il passaggio all'altro inizio”18. Abbiamo qui rinvenuto: passaggio, altro inizio, primo inizio, evento, storia dell'Essere. Ecco, per adesso solo nominalmente, l'orizzonte aprentesi a ciò

11Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 39. Ed. Adelphi, Milano 2007. 12Ivi. pag. 21. 13Ivi. pag. 36. 14“Il primo inizio resta decisivo in quanto primo, eppure è superato in quanto inizio”. Ivi. pag. 36. 15Ivi. pag. 20. 16Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.420. Ed. Morcelliana, Brescia. 17Dall'evento è il titolo del sopra citato par. 3 dei Contributi, nonché titolo essenziale dell'opera

medesima. 18 Ivi. pag. 34.

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che è la Kehre. Le sei fughe rimangono, però, fin qui da noi non approfondite. Per farlo ne parleremo singolarmente, pur rammentando il cammino loro soggiacente e, il che è lo stesso, l'orizzonte in cui esse affiorano, emergono. L'intima struttura (o disposizione) dei Contributi è ciò che dev'essere (e deve esserci a noi) posto di fronte guardando codesta opera medesima. Concordemente a ciò, la presenza di un (heideggeriano) pensare come in-camminarsi o “permanere nella via” (Unterwegs) è rilevato, e forse accolto, anche nella rielaborazione del pensiero dello Heidegger contenuta nel saggio di Vattimo19. In ultimo. Il percorrere non potrà certo essere quello dei Contributi. Non si vuole ripetere il testo, alla maniera dei pappagalli. Bensì ne si vuole dire (...ed in tale discrepanza è essenzialmente: linguaggio). Ma l'accento e la significatività di codesta ultima frase cadono e si pongono nel dire, ed assolutamente non nel volere (che parrebbe essere, in questo caso, nostro). Indi per cui il percorrere sarà, nel presente scritto, ben più accidentato rispetto all'opera a cui siamo posti di fronte; ed innanzitutto lo sarà nei confronti del pensare come cammino compiutosi in quanto sei “punti di riferimento”, o altrimenti detti le sei fughe. Ma il dire che focalizza permane un pensare come cammino che giunge (con ed in chi si incammina) nel (il complemento “dal” evocherebbe, più facilmente, altro rispetto ciò cui essenzialmente si va or ora facendo cenno) primo inizio all'altro inizio. Primo inizio. Altro inizio. Cosa vi è di più pensare come cammino dell'incamminarsi che giungendo al primo permane nell'altro. Soprattutto nell'attimo in cui “noi” ci mostrassimo costitutivamente appartenenti in e ad esso. E parlo al singolare poiché di “due” non se ne può (più) dire. Anche se di “due” scriveremo durante tutto il presente scritto, durante tutto il nostro percorso. Si è or ora asserito: “soprattutto nell'attimo in cui “noi” ci mostrassimo”. Ma a noi dunque, ivi nello scrivere codeste pagine, cioè nel percorrere, molto dev'essere mostrato. 19Cfr. efficacemente: Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 193, primo

capoverso, e 223, ultimo capoverso. Ed. Marietti, Genova 1989.

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APPENDICE ERMENEUTICO-INTERPRETATIVA1 (RIGUARDO LA KEHRE

A noi, l'accordato rango dei Contributi in quanto opera “di mezzo”, magari di congiunzione, ma anche opera prima e fondante nell'Heidegger cronologicamente secondo, permette senza forzature di accogliere quelle assonanze e analogie con i conseguenti o seguenti “sviluppi”, percorsi o pensieri intrapresi, del medesimo autore. Soprattutto là dove la terminologia dei Contributi trova riscontro. Sforzandoci in tal modo, senza però obbligatoriamente limitarci a cotale modo, di permanere all'interno dell'orizzonte del pensiero heideggeriano e della sua direzione. Qualunque cosa ciò significhi. Insomma, guarderemo alle cronologicamente successive opere e scritti con sensibile interesse, occhio acuto ed orecchio pronto all'ascolto. Ma questo atteggiamento non è affrontabile in chiave meramente cronologica, cioè tramite un filtro temporale-causale. L'importanza filosofica (questo, per ora, almeno, è il nostro piano) dei Contributi risiede infatti nell'esplicazione (anch'essa a livello filosofico) della Kehre, delle contrade che questa, diciamo, apre al pensare heideggeriano. Il “fallimento” di Essere e tempo sarebbe decretato dalla sua non prosecuzione e non conclusione2. Qui, in breve, e necessariamente in forma riduttiva, diremo che da tale situazione di “stallo” il filosofo di Meßkirch sa “uscirne” solo dopo alcuni anni trascorsi dalla pubblicazione della sua opera capitale. Ciò viene testimoniato limpidamente quando, proprio scrivendo sulla mai trascritta terza sezione della prima parte di Essere e tempo, egli dice: “Qui tutto si capovolge. La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l'aiuto del linguaggio della metafisica”3. A sostegno della non forzatura della nostra affermazione sulla essenzialità della Kehre nei Contributi, e per accostarci alla significatività intima della citazione appena riportata, interviene innanzitutto ciò che è la svolta stessa. Il significato della Kehre, fondante4 e, come si è intravisto, in quanto tale fin dall'inizio permanente nel pensiero del cosiddetto secondo Heidegger, ri-chiama un essenziale unico (da intendere: avente medesima direzione) pensiero-domandante. Che esso ora possa apparire come carsico non deve stupirci. Anzi, svolta ci indica anche, infatti, un “moto” di repentino e coinvolgente cambio di direzione e

1Scriviamo ermeneutico-interpretativa per distinguere e lasciare spazio alla significatività propriamente

heideggeriana del termine ermeneutica. Quest'ultima, trattandosi il presente saggio di uno scritto sullo Heidegger, verrà per cui evocata con il solo termine ermeneutica, senza alcun'altra precisazione.

2Come era, invece, negli intenti di partenza. Vedasi, riguardo alla famigerata terza sezione della prima parte: Martin Heidegger, Essere tempo, pag. 56. Ed. Longanesi, Milano 1971.

3 Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag 52. Ed. Adelphi, Milano 2002. Si ponga riguardo alle note, non è difficile coglierne un uso linguaggio prossimo a quello dei Contributi, e più aderente al dire di quest'opera.

4Non in accezione causale.

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tensione. Grazie a ciò possiamo scorgere che l' essenzialità della svolta si pone già, è, a fondamento di Essere e tempo. Ma ivi non sa forse ancora parlarsi: in questo testo il suo dire resta non-detto, pur nella tensione che lo caratterizza. É nei Contributi che il medesimo dire trova forse una voce che sa parlarne. Ovvero trova, il che è lo stesso, un pensare che tende a vibrare all'unisono di tale dire (o heideggerianamente: un pensare che è il dire soggiacente alla svolta in quanto come tale sorge e appare). Ci riferiamo a quel, cosiddetto, pensare inerente la (da comprendere: che si avvia nella) storia dell'essere. Storia dell'essere viene spesso denominato il pensiero del secondo e tardo Heidegger. Ciò starebbe a segnare il “passaggio dalla prospettiva ontologica fondamentale a quella della storia dell'essere”5, ritenuta, per l'appunto, successiva. Dunque, se questa “seconda via risulta da una trasformazione immanente della via dell'ontologia fondamentale”6, noi sottolineiamo con vigore che è “evento la parola fondamentale di Heidegger lungo la seconda via di elaborazione della domanda fondamentale sull'essenza dell'essere: la via della storia dell'essere”7. La permanenza e permeanza della Kehre come pensiero appartenente alla storia dell'essere è testimoniata chiaramente dallo stesso pensatore di Meßkirch. In una nota, risalente all'edizione del 1949, contenuta nello scritto Lettera sull'”umanismo”, troviamo le seguenti parole: “ciò che qui si dice -da notarsi il si dice e non, per esempio, è scritto, oppure, su cui si parla- non è stato ideato solo al tempo della sua stesura, ma si basa sul corso di un cammino che fu iniziato nel 1936, nell'”attimo” di un tentativo di dire in modo semplice la verità dell'essere”8. Tale “attimo” ri-chiama e testimonia l'esperienza9 di ciò che è qui detto svolta (Kehre). La appena intravista dis-posizione e configurazione filosofica della Kehre come un cammino, unita alla comparsa del termine evento10, con la sua essenzialità11, ci riportano, in uno slancio, ai Contributi.

5F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.45. Ed. Urbaniana University Press,

Roma 2004. 6Ivi. pag. 23. 7Ibidem. 8Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag. 29. Ed. Adelphi, Milano 2002. 9Questo termine, nella significatività datagli da Heidegger, verrà chiarito in seguito.䩃� 10“Il pensiero è dell'essere in quanto, fatto avvenire (ereignet) dall'essere, all'essere appartiene”. Ed in

nota: “...dal 1936 “evento” (Ereignis) è la parola-guida del mio pensiero”. Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag 35. Ed. Adelphi, Milano 2002.

11Essenzialità da subito emergente in chiara luce all'interno dei Contributi, nel primo ed iniziale (e non numerato) par. Il titolo pubblico: “Contributi alla filosofia” e Il titolo essenziale: “Dall'evento”. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 33. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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II

PREMESSA

Non è intento di questo scritto dare un panorama specifico ed esaustivo del pensiero heideggeriano o del corso della sua filosofia, sia che l'impegno di dare un tale panorama venga svolto in maniera storicistica sia che il suo svolgimento richieda ben altro. In una parola, a noi interessa il pensare heideggeriano. Se poi il pensiero dello Heidegger, nel suo non essere un sistema o una dottrina, giace interamente nel pensare heideggeriano (nel suo dire, come noi percepiamo e sosteniamo), ciò è cosa che verrà intrinsecamente a mostrarsi (non: dimostrare). Per quanto i punti e le tematiche che verremo ad affrontare, cioè quelle presenti nei Contributi, contengano impliciti rinvii con i momenti sia precedenti che successivi del pensiero heideggeriano, non ci impegneremo nel rischiarare tali momenti ed i loro legami. La dedizione del percorso di approfondimento che qui viene a trascriversi è data ai Contributi ed al pensare, tanto emergente quanto al contempo soggiacente, in (e di) quest'opera. Ora, più sopra lo si era preventivato, ciò non significa che non ci dilungheremo in descrizioni o chiarimenti, citazioni o riprese sia del pensare heideggeriano precedente, e nel pensare heideggeriano precedente, che successivo. Cioè, ove un qualche bisogno di comprensione o confronto (più che altro sul piano filosofico-speculativo) ci spinga, illumineremo taluni dati momenti dell'Heidegger antecedente o susseguente. Anzi, ciò è in certo qual modo connaturato alla struttura di scritto (tesi) che il presente insieme di fogli comporta. Ma risulta invece spesso necessario innanzitutto per il rischiararsi dei Contributi e solo “indirettamente” della filosofia che lo Heidegger apporta. Inoltre, il testo a cui ci siamo posti di fronte, leggendolo non si hanno fondati dubbi a riguardo, ha un ché della monade, di conchiuso in sé, tanto nel suo linguaggio quanto nella sua significatività, cioè nel suo dire. Tale caratteristica non significa però non ambiguo, nozionisticamente corretto, in sé compiuto, concluso1. Anzi! A ben vedere, il senso in cui ora viene menzionata la parola “conchiuso” si può maggiormente avvicinare alle caratteristiche inverse. Ciò non di meno, si è qui fermamente “convinti” che non vi siano cesure nel pensare heideggeriano (nel pensare, non nella esplicita “costruzione filosofica”). Ribadiamo: non si mancherà di accennare, risvegliare, e fondare, tal volte nascostamente tal altre no, codesta nostra convinzione, ove sia necessario e possibile farlo. Insomma, i rischiaramenti di questo nostro scritto riguardano il pensare dei

1A tal proposito cfr. Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pag. 199 Ed. Marietti,

Genova 1989.

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Contributi. Ciò, per noi, in un modo o nell'altro ma comunque, significa che codesti rischiaramenti essenzialmente già ri-guardano l'interezza e l'unità del pensare heideggeriano (qualsiasi cosa quest'ultimo si riveli essere). Dunque, ed al contempo nonostante ciò, sul piano teoretico-speculativo molti “nessi” tra un cosiddetto primo ed un cosiddetto secondo Heidegger rimangono ulteriormente non contestualizzati, non vagliati, non approfonditi, né nella loro possibile disgiunzione né nella loro possibile unitarietà. Quest'ultima premessa è generalmente valida per tutto il presente testo. Infine rammentiamo la prospettiva delineata: il pensare, dei Contributi, come incamminarsi; un pensiero come sentiero/i o via, uno stare-permanere (Gang) in tale via (Weg).

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II.I SU LA RISONANZA

Risonanza si dice di qualche cosa che ri-suona. La risonanza è eco. Eco di cosa? Non certo di un qualcosa. Allora, eco come? Eco dell'essere. L'inizio del capitolo La risonanza ci dà la possibilità, fin da subito, di non vacillare su ciò che, da noi prima chiamato “punto di riferimento” all'interno della strutturazione dei Contributi, Heidegger vuole portare alla parola. La risonanza è “dell'essenziale permanenza dell'Essere”1. Risonanza è ri-chiamare di questa essenziale permanenza medesima. In un tale ri-chiamo risuona la chiamata di chi ode. Il ri-chiamare, di cui ora siamo a tentare di parlare, chiama in quanto risponde e con ciò l'inverso. Ma con questo cosa si ha da intendere?2 Si osservi: riguardo questa vicendevole inversione del chiamare e del rispondere, con che significatività essa andrà accolta? Essa avanza e dice il come di chiamare e rispondere, mai il causale perché. Inoltre, riguardo la costruzione di questa ultima frase: se il soggetto di essa, di tutto ciò che va proponendo, rimane non definito e non univoco non è per casualità. Eppur questo non ci rassicura, difatti la nostra usuale logicità potrebbe rimanerne turbata. Meglio! Se pensiamo ad un soggetto oggettivante, o comunque ad una prospettiva ove già-da-sempre emerge un soggetto in quanto tale, non faremo altro che allontanarci da ciò che in, e con, risonanza si porta a dire. “ Qui non si deve descrivere né spiegare né disporre in un ordine qualcosa che sia lì presente”3. Ed ora, proseguendo, lasciamo pure fermentare in noi, senza scandalo né rimpianti, l'introduttiva conturbante “vaghezza” di queste ultime righe. Il chiamare e l'udire richiamante emergono nel ri-chiamo. Ma come può tale ri-chiamo darsi a comprendere? Addentro o attraverso quali sfumature esso risuona? Qual'è la sua tonalità, la sua melodia? Come il chiamare e l'udire richiamante odono il ri-chiamo che è la risonanza? Tali punti interrogativi or ora trascritti sono il domandare che ci guiderà nelle prossime pagine. Come una voce nell'acqua si propaga ovattata, eppur, la medesima, tra alti monti echeggia limpida, così la risonanza ha un'orizzonte proprio nel e dal quale emergere per sì ri-chiamare (ri-chiamare. Il che è qui lo stesso di: nell'udirne l'eco, essendone l'eco, essere così chiamata, tale risonanza, dall'udente). Ove, quindi, spazia l'essenziale permanenza dell'Essere come risonanza? “La risonanza... verso dove? La risonanza dell'essenziale

1Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 127. Ed. Adelphi, Milano 2007. 2“La risonanza... che suono ha?” Ivi. pag 128. 3Ivi. pag.128

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permanenza dell'Essere nell'abbandono dell'essere”4. Con questa frase Heidegger dove ci introduce ed induce? L'abbandono dell'essere è, in un certo qual modo, l'oggi5. Meglio, l'odierno dominante. Ma non in senso storiografico, né sociale, men che meno in accezione metastorica! Nell'abbandono dell'essere va a confluire, sotto rinnovata luce, il progetto heideggeriano di una decostruzione della metafisica6. L'abbandono dell'essere è la storia (non storiograficamente intesa) dell'Occidente. Storia che l'attuale mondo, noi pienamente compresi, è. Si noti: ciò sta ad indicare, per adesso solo a titolo informativo, che tutti gli approfondimenti e gli studi dello Heidegger compiuti sulla storia della metafisica-filosofia occidentale, da La dottrina platonica della verità al Nietzsche, trovano nel “movimento” dell'abbandono dell'essere, essendo quest'ultimo speculativamente portato al pensiero dall'Heidegger secondo, il proprio rinnovato luogo. Dunque qui, l'abbandono dell'essere è accolto, possiamo dire, come l'humus da cui può ergersi la risonanza. Ma per il pensatore che dice della risonanza, l'avere portato al pensiero l'abbandono dell'essere (e lo stato in cui quest'ultimo dis-pone) significa l'avere accolto già la risonanza medesima. L'avere accolto già la risonanza medesima, il che è lo stesso che dire, l'echeggiare della risonanza. Ma in quale stato l'abbandono dell'essere dis-pone? Heidegger ce lo indica; purché non si intenda in modalità oggettivizzante l'appena utilizzato termine: stato. Bisogna dire che l'abbandono dell'essere dis-pone nella “dimenticanza dell'essere”7. La dimenticanza è il “modo velato”8 del darsi dell'abbandono dell'essere. Ma, come altrove, se heideggerianamente intesi, abbandono e velatezza non apportano un malus, una pura negatività, men che meno incorporano un giudizio assiologico. Non per nulla a cotale velatezza “corrisponde... una comprensione dominante”9. Ovvero, quest'ultima, questo comprendere, è quello dominante nei confronti dell'essere. Come si articola questo comprendere che, a noi, appare, “in ultima istanza”, come abbandono dell'essere? Puntualizziamo: qui ci si riallaccia nuovamente ed intimamente alla storia 4Ivi. pag.127 5 “L'”oggi” – non calcolato secondo il calendario, né secondo le vicende della storia mondiale – si

determina in base al tempo più proprio della storia della metafisica: è la determinatezza metafisica dell'umanità storica”. Martin Heidegger, Il nichilismo europeo, pag. 314. Ed. Adelphi, Milano 2003.

6In Essere e tempo. Qui la decostruzione metafisica si fa, seppur brevemente, esplicita in quanto progetto filosofico. A questo riguardo si rimanda a: Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 13 e 36. Ed. Longanesi, Milano 1971. Nei Contributi. Per quel che concerne la tematica della risonanza, riferimenti alla storia della filosofia (fino, e compresa, la scienza moderna) occidentale ed ai passaggi della, a questa inerente, visione metafisica spuntano in tutto il capitolo secondo: La risonanza. Essi sono strettamente legati alla tematica dell'abbandono dell'essere. Nel testo appena citato ne troviamo, a titolo d'esempio: a pagina 130, 131, 135, 144, 157 158.

7Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 135. Ed. Adelphi, Milano 2007. 8Ivi. pag.135 9Ivi. pag.135

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dell'Occidente o metafisica, nel significato di questi a monte brevemente intravisto. Se ora nulla ci vieta di affermare che nella comprensione a tutt'ora dominante dell'essere valgono come intoccabili e oggettivi i caratteri della generalità e dell'ovvietà10, caratteri che ricordano in modo aderente il paragrafo primo di Essere e tempo11, e che l'annunciarsi dell'abbandono, che è dimenticanza, si articola in più modalità (anche estremamente quotidiane)12, dobbiamo però non lasciar scorrere via dalla vista il nostro “punto di riferimento”, cioè la risonanza. La domanda riguardo l'articolarsi su quel comprendere che noi qui richiamiamo con il termine dominante va posticipata. Comunque sia dobbiamo tenere fermo al nostro pensiero l'abbandono dell'essere (e sincronicamente la dimenticanza dell'essere) nel suo legame con la risonanza. Fatto ciò, dobbiamo immergerci nuovamente nella posizione da cui abbiamo preso le mosse, quindi: dove o in che modo ci può essere reso più nitido ciò che, con il termine risonanza, Heidegger porta alla parola? Oppure, almeno, ciò che ostacola una tale comprensione, ed anche l'ascolto dell'eco? Nel capitolo di cui trattiamo si evidenzia in altro modo, per “altra strada”, quel legame con l'abbandono dell'essere che costituisce la risonanza. Quest'altro modo si fa strada ove si viene a parlare della necessità. “L'abbandono dell'essere è l'intimo fondamento della necessità dell'assenza di necessità”13. Quest'imperativa necessità dissimula il suo svolgersi e radicarsi; nel mentre, così facendo, dissimula sé medesima in quanto necessità. Ovvero, nell'abbandono dell'essere, la necessità di concepirsi al-di-fuori di ogni luogo ove regna una necessità si presenta, in quanto dissimulatrice di necessità, come qualcosa che non ha il carattere della necessità. In che modo ha da articolarsi un tale presentarsi dissimulante? Meglio, “dove”, in che luogo, lo si può scorgere? Premettiamo, ciò viene indicato da Heidegger, purché non si com-prendano i termini dissimulazione e presentarsi in prospettiva dualistico-metafisica, cioè come antagonisti rispetto “a ciò che realmente è” (a come stanno davvero le cose). In ultima analisi: purché non ci prema la correttezza non contraddittoria delle asserzioni. “L'abbandono dell'essere si cela -ed in questo celare non è da cogliersi un qualcosa puramente negativo, ma una pienezza- nella crescente valenza del calcolo, della velocità e della pretesa di ciò che ha il carattere di massa. In questo occultamento si nasconde- per le parole occultamento e nasconde dicasi lo stesso che è stato detto per il celare- l'ostinata malaessenza

10Cfr.: Ivi. pag.136. 11Necessità di una ripetizione esplicita del problema dell'essere, Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg.

14 e 15. Ed. Longanesi, Milano 1971. 12Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pagg 136 e 137. Ed. Adelphi, Milano 2007. 13Ivi. pag.138.

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dell'abbandono dell'essere e lo rende inattaccabile”14. Con questi rimandi alla pretesa onnicomprensività e alla valenza oggettivante del calcolo, nonché alla velocità, Heidegger introduce la tematica della macchinazione e del gigantesco15. Questa tematica merita una trattazione a parte, per cui ora non verrà approfondita nelle sue caratteristiche. Ciò nonostante dobbiamo anticipare che nella macchinazione e nel gigantesco si ha la fisionomia del dominante nell'epoca attuale. È l'ultima “trasformazione” della visione metafisica, attualità dell'Occidente (questo non in senso politico-geografico). Il legame tra la modernità (Occidente) e le sue diramazioni (scienze, logica-logistica, tecnica, storicità storiografica, quotidianità, ecc...), e l'oblio dell'abbandono dell'essere si trova già presentato ne Introduzione alla metafisica16. Quel che a noi preme è comprendere che nella necessità dell'assenza di necessità ogni autentico domandare viene meno, e con esso ogni autentico pensare, ovvero ciò che Heidegger chiama, e soprattutto chiamerà nei suoi scritti più tardi, pensare meditativo17. Dunque, l'elusione della necessità dell'assenza di necessità si innerva. Al suo innervarsi, che è l'oggi, viene dato anche il nome più essenziale di nichilismo18. Termine assai fraintendibile, tenendo conto del suo uso all'interno della filosofia e della storia moderne. Anche la caratterizzazione heideggeriana del nichilismo non potrà ivi, enucleando, venire approfondita. Ri-volgiamoci, presto e nuovamente, alla risonanza ed a ciò che tale termine dice. Abbiamo accennato all'humus da cui può ergersi la risonanza, abbiamo anche, e solamente, nominato la sua provenienza. Ma ancora non siamo giunti a parlare di un aspetto essenziale della risonanza. Essa, diciamo momentaneamente, si “accompagna” ad uno stato d'animo guida: “sgomento e pudore, che però scaturiscono sempre dallo stato d'animo di fondo del ritegno”19. Stato d'animo? In che modo accettare queste parole? “Lo stato d'animo dispone l'esser-ci e dunque il pensiero in quanto progetto della verità dell'Essere in parola e concetto... Se manca lo stato d'animo tutto non è che un artificioso strepito di concetti e di parole

14Ivi. pag.139 15Esplicitamente, Ivi. par. 61 e par. 70 16Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pagg. 47-49. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990. Il tono

di codeste pagine può facilmente essere con-fuso nella retorica storicistica. 17O pensare rammemorante, o interrogante. Il termine meditazione compare al par. 75 dei Contributi.

Esso incorpora il taglio prospettico di un pensare che approfondendo sprofonda e si slancia nell'accogliere-cogliere l'Essere in ogni qualcosa, ed anche ove non vi è un qualcosa. Questo “temperamento” del “secondo” pensare heideggeriano emergerà esplicitamente più volte ancora, così venendo, per nostro vantaggio, a focalizzarsi sul piano filosofico. Il pensare rammemorante, in Heidegger, ha anche altri nomi. Nomi che lasciano emergere altre sfumature del medesimo pensare. Più avanti, in questo scritto, tutto ciò sarà ripreso più volte, e fin dove possibile approfondito.

18Cfr. par. 72 dei Contributi alla filosofia (dall'evento) 19Ivi. pag. 127

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vuote”20. Come è da comprendersi ritegno, ovvero ciò ove si riassorbono sgomento e pudore, stato d'animo guida della risonanza? Ritegno è “stato d'animo preliminare della prontezza per il rifiuto in quanto donazione. Nel ritegno domina, senza che quel retrocedere -il rifiuto in quanto donazione- sia eliminato, il rivolgersi verso l'indugiante negarsi quale essenziale presentarsi dell'Essere”21. Da dove arrivano il rifiuto (in quanto donazione) ed il negarsi (indugiante, e “dell'”Essere)? Dicono lo stesso? Probabilmente essi dicono dello stesso “movimento”. La seguente frase, estrapolata e mutila, dice essenzialmente più di quanto, interamente, non voglia affermare: “il ritegno fa sentire che l'Essere “si sottrae” all'uomo”22. Per quanto uomo permanga qui, forse, il termine più fraintendibile. Dove ci portano il “sottrarsi”, il rifiuto, il negarsi? Qui: “La risonanza dell'Essere come rifiuto”23. Così, a testo appena cominciato, nel paragrafo tre, Dall'evento, del primo capitolo. Titolazione, questa del paragrafo, che non può rimanere indifferente. La risonanza, nel suo ri-chiamo, nell'eco, avviene ergendosi dall'abbandono dell'essere (scorto “addentro” alla dimenticanza dell'essere ed all'eludente ramificarsi di questa), se tale abbandono è fatto proprio, ovvero colto-accolto, come essenziale permanenza dell'Essere. L'abbandono dell'essere diviene (ha a darsi) sentiero evocante l'essenziale permanenza dell'Essere. Ma di questi ultimi, che non sono nient'altro che accenni, si dirà solo in seguito. È nel cogliere, o “fare esperienza”24, l'intima pienezza del rifiuto (o meglio, il rifiuto come intima pienezza) che risuona l'echeggiare della “Risonanza dell'essenziale permanenza dell'Essere”25. Ma “prima” è da cogliersi (cogliere-accogliere) l'abbandono dell'essere in quanto rifiuto, e “prima ancora” l'abbandono dell'essere in quanto tale, cioè la dimenticanza dell'essere ed il suo dissimulare (con tutte le ramificazioni che questo “moto” comporta, che cioè può espletare e configurare). Questi “prima” verranno speculativamente tentati, trascritti, nei successivi paragrafi. Dobbiamo far notare come l'essenziale permanenza sia già, non espressamente né in quanto tale tematicamente, sorta nello Heidegger di Essere e tempo. Il legame si può, ad esempio, notare laddove si parla di una “comprensione dell'essere, propria dell'Esserci... L'essere nel mondo include in sé il riferimento dell'esistenza all'essere nella sua totalità: comprensione d'essere... Il problema dell'essere si risolve in una radicalizzazione della comprensione pre-ontologica dell'essere”26.

20Ivi. pagg. 49, 50 21Ivi. pag. 44 22Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.321. Ed. Morcelliana, Brescia. 23Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 39. Ed. Adelphi, Milano 2007 24Ivi. pag.127

Per un approfondimento di ciò che è l'esperire in Heidegger si rimanda oltre, ad un apposito paragrafo.

25Ivi. pag.127 26Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 24(in nota), 25 e 27. Ed. Longanesi, Milano 1971

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Lo stato d'animo del ritegno non è quindi affare della occidentale psicologia. Il ritegno come stato d'animo fondamentale non è assolutamente esperienza vissuta (con l'eccezione che questa assume all'interno della macchinazione27). Di esso si può dire che “accompagna”. Ma nemmeno; esso non accompagna nell'accezione dello “stare a fianco” di un qualcosa lì presente, né accompagna come quiddità addentro ad un qualcosa lì presente in quanto quest'ultimo abbisogni di esser accompagnato in cotale modalità. Bensì, il ritegno come stato d'animo fondamentale dis-pone. “Lo stato d'animo dispone l'esser-ci28 e dunque il pensiero in quanto progetto della verità dell'Essere in parola e concetto”29. In questa frase viene ad esserci indicata la significatività o “direzione” di un tale disporre. Il ritegno, nello specifico, è chiamato da Heidegger come ciò che è “lo stile”30 e che dà “il tono”31 al pensare iniziale, ovvero il pensiero dell'altro inizio32. Ritegno “indica appunto come il Dasein si sente, o meglio come si deve sentire, allorché si apre alla dimensione dell'altro inizio”33. Il ritegno dis-pone, introduce. Introduce dove? Noi qui rispondiamo senza additare un qualcosa nel modo della correttezza. Introduce ad (addentro a) un pensiero altro. Un pensare che è (è essenzialmente nel) dell'altro inizio. In questo dis-porre il ritegno si assona al ri-chiamo, o “movimento” dell'echeggiare, della risonanza, e lo “guida”. “Guida”, come il termine accompagna scritto più sopra, è ripieno di possibili fraintendimenti. Qui: “guida” nel senso che in un certo qual modo ne è, come in un già-da-sempre, l'apripista. Oppure, lo stesso detto in altre parole e sfumature semantiche: ne è il senso d'orientamento e, al medesimo, l'orecchio teso ad udirne. Il vibrare di ciò che è risonanza, il venire ad ergersi dell'abbandono dell'essere, il dis-porre appartenente allo stato d'animo fondamentale del ritegno hanno la medesima contrada di provenienza e di “direzione”. La contrada è l'ove in cui essi, in quanto tali, richiamati emergono, ed a cui intimamente e necessariamente tendono e si volgono. È il luogo in cui sempre permangono (non perdurano!). A chi domandasse dove sia un tale posto non gioverebbe alcuna geografia, né alcuna fantasia, né capacità astrattiva, né alcuna marmorea concettualità. Eppure il “dove”, tale “dove”, ci è donato come accenno nello Heidegger, in attimi del più semplice e

27Ivi. par. 63, 66,67,68 28Esser-ci, parola che non dice lo stesso dell'esserci di Essere e tempo, verrà chiarificato oltre, in questo

scritto. 29Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 50. Ed. Adelphi, Milano 2007 30Ivi. pag. 60 31Ibidem. 32Questo che è qui indicato esplicitamente, cioè l'altro inizio e ciò che esso nomina, verrà ad emergere ed

a chiarirsi durante il proseguire del presente scritto. Attualmente possiamo solo rinviare alla nota 14 del presente capitolo, al pensare meditativo. Anch'esso tra l'altro non ulteriormente illuminato.

33Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.320. Ed. Morcelliana, Brescia.

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tracotante34 dire. “Lo stato d'animo è il propagarsi nell'esser-ci del vibrare dell'Essere come evento”35. “La risonanza dell'Essere vuole riprendere l'essere nella sua piena permanenza essenziale in quanto evento svelando l'abbandono dell'essere”36. La risonanza; l'abbandono dell'essere e lo stato d'animo fondamentale del ritegno; essi dicono dall'evento. 34Non esuberante o eccessivo, ma ricco di essenzialità. Un'oltre. La lucida distanza dalle sottigliezze

puramente concettuali è, d'altronde, affiorata fin dagli inizi del pensiero heideggeriano, cfr. Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 107. Ed. il Melangolo, Genova 1999.

35Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 50. Ed. Adelphi, Milano 2007 36Ivi. pag. 135.

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II.II SUL GIOCO DI PASSAGGIO

Lo sviluppo nel testo di questo “punto di riferimento” ci pone fin da subito in una sorta di imbarazzo. Si evidenzia in tal modo tutto il limite della perifrasi da noi scelta ( cioè “punto di riferimento”) per designare i diversi momenti della strutturazione dei Contributi. In codesto libro, è facile notarlo, quando incontriamo delle parole che ci potrebbero dare degli appigli teoretici o pratici, in base al nostro abituale orientamento concettuale e quotidiano, succede invece che queste stesse parole non fanno altro che dire in diverso modo rispetto al sopraccennato orientarsi quotidiano. Difatti, sia che intendiamo nel modo abituale, sia che abbiamo assorbito un minimo di heideggeriana confidenza speculativa con ciò che viene detto nell'espressione “stato d'animo guida”, in entrambi i casi comunque non ci sentiamo propriamente ambientati o rimaniamo addirittura increduli e disorientati nel momento in cui leggiamo: “Lo stato d'animo guida: la voglia di superamento degli inizi interrogandosi a vicenda”1. La comprensione di ciò non è questione di neologismi. E allora...Come? Ciò che guida sarebbe: voglia di superamento? Sarebbe: in quanto voglia di superamento? Guida chi? Guida noi? Con un generico noi come risposta non diciamo niente di davvero rilevante. Invece diremo, per ora, guida nel senso di ciò che ci mostra una via, di ciò che accompagna, ed accompagna intrinsecamente, il nostro pensiero, il nostro domandare. Noi diremo, dunque, che qui il nostro pensare domandante2 è in quanto accompagnato intrinsecamente. Ma tale suo essere in quanto accompagnato intrinsecamente, qui in codesta citazione, viene detto nelle parole: la voglia di superamento degli inizi interrogandosi a vicenda. Difficile accingerci a tale frase in senso pratico, ma nemmeno in senso speculativo-concettuale risulta agevole appropinquarsi ad essa. Ciò che in tale frase viene detto non è un'etica pratica, una constatazione psicologica, e nemmeno una asserzione informativa mirante alla corretta definizione dello stato d'animo

1Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 181. Ed. Adelphi, Milano 2007 2O pensare interrogante, oppure pensare essenziale (cfr. Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag.

81. Ed. Adelphi, Milano 2001). Ricordiamo al lettore essere queste le sfumature della disposizione del pensiero in Heidegger. Il rimando esplicito a tale caratteristica d'altronde si trova nelle righe successive, a quelle appena citate, dei Contributi.

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fondamentale in questione. Né una dottrina nella sua forma teorica. Essa invece dice propriamente del gioco di passaggio. E con ciò? Con ciò tutto e niente ci è rimasto. Ma tale tutto e niente o non ci ri-chiama e scivola via dal nostro sguardo come mera irrilevanza, oppure ci spiazza nel non lasciarci orientati, ovvero ci dis-pone ad un domandare che è un ascoltare. Ad un meditare verso ciò che può, così, venirci incontro. Quel che spiazza nel non lasciare orientati, come anche quel che stupisce scuotendo dalle fondamenta (θαùμα), è forse già una preparazione di ciò che ci appare come l'inaspettato, dell'insolito, nel suo avvicinarsi. Risulterebbe prematuro addentrarci oltre nei confronti di un tale inaspettato. Attualmente più pressante, al fine della delucidazione del passo citato, è cercare di cogliere cosa siano gli inizi all'interno della frase da cui abbiamo preso le mosse con una cascata di domande. Il rinvio, ovviamente, è ai cosiddetti primo inizio e altro inizio, da noi precedentemente di sfuggita incontrati. Ma poiché qui è in questione “il confronto della necessità dell'altro inizio dalla posizione originaria del primo inizio”3 non possiamo esimerci dal rischiarare ciò che gli inizi indicano. Anche se in seguito verranno ripresi e nuovamente approfonditi più volte, essi sono sì intimamente impastati con le cosiddette sei fughe che dobbiamo approssimarci ad un loro, seppur mai sufficiente, chiarimento. Ma, ci avviamo in un tale chiarimento partendo non esplicitamente dagli inizi, bensì dagli aspetti latenti della inizialità che a codesti inizi inerisce necessariamente. Quindi, per approssimarci con il pensiero alla inizialità appena menzionata, provvisoriamente formuleremo queste domande: “dove” iniziano (ove risiedono)? Come iniziano? Che “cosa” iniziano? Ciò non significa che queste domande avranno una risposta. Tant'è vero che, complici le virgolette, logicamente stridono un poco. Meglio così. Esse infatti non domandano come chi domanda di una risposta assertiva avente carattere di correttezza. Il loro domandare vorrebbe portarci, quantomeno tematicamente (cioè per lo meno attraverso la filosofia come generalmente intesa), semplicemente nei pressi di ciò che lo Heidegger speculativamente (questo è ancora per l'appunto il piano in cui prevalentemente vogliamo muoverci) apporta nominando tali inizi. Innanzitutto, anche in ciò che il gioco di passaggio dice vanno a confluire le numerose tematizzazioni heideggeriane riferite alla storia della metafisica (questo si può notare esplicitamente nei paragrafi 91, 93, 97, 99, 102, 103, 104, 105, 106, 108, 109, 110, 112 dei Contributi), nonché quelle rinvianti al pensiero ontologico fondamentale (si veda, per esempio, la ripresa della differenza “ontologica”4). Per cui, premettiamo: il gioco di

3Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 181. Ed. Adelphi, Milano 2007 4Ivi pag. 215

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passaggio si lega essenzialmente al pensiero occidentale ed alla sua storia, i quali non sono altro che storia metafisica (storicizzarsi della metafisica). Ma non si giunga a ingannevoli quanto logicamente spontanee opposizioni. Che l'heideggeriano gioco di passaggio sia essenzialmente legato alla storia del pensiero occidentale, significa che né il gioco di passaggio è aggiunta “di qualcos'altro” rispetto alla metafisica né che la metafisica e l'intera storia della metafisica si muovono “al di fuori” dell'orizzonte ove essenzialmente risiede e può darsi ad avvenire il gioco di passaggio. A tale significatività diamo il nome di coappartenenza degli inizi. “Evidenziazione reciproca della domanda metafisica sull'essere -come domanda del primo inizio della storia dell'essere- e della domanda sull'essere appartenente alla storia dell'essere -come domanda dell'altro inizio della stessa storia dell'essere. L'unità, in cui entrambe le figure della domanda sull'essere si coappartengono essenzialmente,”5 è l'orizzonte medesimo in cui va colto l'heideggeriano gioco di passaggio. Questo orizzonte, la coappartenenza degli inizi, è, heideggerianamente parlando, storia dell'essere. Diciamo anche che questa coappartenenza può con-figurarsi come disposizione in un equilibrio di luminosità ed ombre, ovvero aperture disvelanti ed oblii velati (ma su una tale configurazione ritorneremo meglio in seguito). È comunque probabile che momentaneamente venga più facile orientarsi sulla parola coappartenenza. Per cui a questo termine ci riferiremo. Così come luminosità ed ombre richiamano logicamente spontanee opposizioni, anche l'altro dell'altro inizio, rispetto al primo inizio, richiama il contrario di ciò che comunemente si può indicare con il vocabolo coappartenenza. Cos'altro poter concepire dell'alterità? Alterità non è forse un rapporto, in qualche sua forma, di negazione? Almeno nel nostro caso, il primo e l'altro dei rispettivi inizi possono indurre a pensarlo. Si tratta qui di ri-pensare questa negazione (negation), ri-pensare il suo no. Ri-pensare questa negazione, al di là della logica di non contraddizione, della causalità e del processo dialettico, significa per Heidegger coglierla in senso originario. “Questa negazione (verneinung) originaria è piuttosto dello stesso tipo di quel rifiuto che rinuncia ad accompagnare ancora... Tale negazione... si sviluppa nel liberare il primo inizio e la sua storia iniziale e nel riporre ciò che in tal modo è liberato nel possesso dell'inizio... Tale edificare ciò che del primo inizio si erge è il senso della “distruzione” nel passaggio all'altro inizio”6. E così è ulteriormente ap-profondito ed illuminato ciò che il pensare heideggeriano intende parlando del progetto di “distruzione”, o decostruzione, della metafisica.

5F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.18. Ed. Urbaniana University Press,

Roma 2004. 6Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 190. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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É allora in una siffatta coappartenenza che risiede ciò che è portato alla parola nei termini svolgimento e passaggio, presenti nella continuazione della frase da cui, nel presente paragrafo, siamo partiti: “risposta alla domanda guida e autentico svolgimento della domanda guida; passaggio alla domanda fondamentale”7. Dunque, ritornando sui nostri passi di qualche riga, quindi accantonando per ora l'arrivo filosofico alla storia dell'essere, è nella storia del pensiero metafisico che riposano, come già-da-sempre, ciò che dicono le parole svolgimento e passaggio or ora nominate. Tutto questo ci porta a pensare che: la storia della metafisica porta nel grembo il rinvio ed il possibile accorgimento della coappartenenza sopraddetta; ciò che è metafisica “poggia” sulla possibilità/necessità del gioco di passaggio. Ma così, allora, la metafisica tutta è (rientra nella) storia dell'essere? Ma non affrettiamoci a giungere ad una qualche conclusione che possa definirsi tale! O molto ci sarà sfuggito. Concentriamoci, invece, sugli inizi. In base all'ultima citazione possiamo notare che allo svolgimento del primo compete una domanda guida (e l'inverso), mentre al passaggio dell'altro inizio compete una domanda fondamentale (e viceversa). Quali e come sono tali domande? Come si attesta in queste, o magari tra esse, il trapassare nominato espressamente nel gioco di passaggio? Come esse sono legate agli inizi? “Con il primo inizio il pensiero incomincia, dapprima implicitamente poi propriamente, a consolidarsi nella domanda che cos'è l'ente?”8. Ecco la domanda guida della metafisica secondo lo Heidegger. Si noti: “che cosa è l'ente?” è da chiedersi dell'enticità. Ovvero, si chiede rimirando l'enticità degli enti. Si guarda già verso una enticità, verso l'essenza dell'ente, cioè l'essere in quanto così (fisico-metafisica essenza dell'ente) intra-visto. E tale è la domanda guida della metafisica, e della sua storia che è l'occidentalità. Questo domandare è essenzialmente nella metafisica tutta, anche quando la metafisica chiede o parla espressamente dell'essere. Tale domandare costituisce, nella sua forma ultima, l'odierno dominante della scienza moderna, della tecnica e delle loro ramificazioni (su questa problematica, che merita un discorso a parte, ci concentreremo in seguito). Il medesimo domandare è essenzialmente in ogni dualità tra essere ed ente, ivi esso riposa e regna. Ordunque, passiamo alla domanda fondamentale. Essa parla a noi nella seguente modalità: “che cos'è la verità dell'Essere?”9. A tale domandare si giunge, cioè il medesimo domandare si dà, anche nella seguente modalità: “Perché in generale è l'ente e non piuttosto il Niente?”10. Non a caso quest'ultima figurazione dello stesso domandare emerge alla conclusione di una Prolusione il cui leitmotiv è la domanda: che cos'è metafisica? 7Ivi. pag. 181 8Ivi. pag. 190-191. 9Ivi. pag. 183. 10Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 114. Ed. Adelphi, Milano 2001

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Apriamo una parentesi. Da notarsi, riguardo alla domanda fondamentale (in entrambe le modalità presentate), come il dire dello Heidegger conii il termine Niente per dire (dell') l'essere. Una altrettanto intensa attenzione va posta alla parola Essere, in maiuscolo. Questi sono tentativi, dallo Heidegger sempre nuovamente rinnovati, di semantizzazione11 dell'essere. È bene accogliere tali tentativi di semantizzazione come probabile e sincronica sorgente del pensiero rivolto alla problematica del linguaggio. “Essere ed essere sono lo stesso eppure fondamentalmente diversi”12. In un certo qual modo, nel dire che questa frase ap-porta risiede lo spiraglio da cui scaturisce l'intero pensare heideggeriano. Ritorniamo alle due domande. L'autentico pensiero è per Heidegger sempre domandante. Noi, in concerto ad egli, diciamo che, addentro al pensare, un autentico mutamento di domanda è il darsi di una nuova direzione nel domandare. Ed una tensione altra del domandare è da cogliersi nella formulazione, nonché nel legame, ma ancor più nel loro senso intimo, di entrambe le domande dei rispettivi inizi. Questo senso intimo non è altro che il pensare interrogante dello Heidegger. Ed è proprio un tale mutamento o “passaggio, inteso storicamente13, ...il superamento...di tutta la metafisica. Solo ora la “metafisica” si rende riconoscibile nella sua essenza... La domanda: che cos'è metafisica?, posta nell'ambito del passaggio all'altro inizio, ottiene con il domandare l'essenza della “metafisica” già nel senso di una prima conquista della postazione antistante il passaggio nell'altro inizio”14. Ecco, portato alle parole, il legame, o coappartenenza, che costituisce gli inizi, ed il giocare di ciò che è il gioco di passaggio. Il passaggio “nell'altro inizio è il ritorno nel primo e viceversa. Ritorno nel primo inizio (“la ri-petizione”) non è però un trasferirsi nel passato... Il ritorno nel primo inizio è piuttosto e precisamente l'allontanamento da esso, l'occupare quella posizione di distanza che è necessaria per esperire ciò che, in quell'inizio e in quanto quell'inizio, si iniziò... Solo la posizione di distanza rispetto al primo inizio permette di esperire che... la domanda sulla verità (άλήθεια) è rimasta indomandata... e solo tale sapere ci suggerisce (spielt uns zu) la necessità di preparare l'altro inizio”15. Qui vi è un “oltrepassamento della domanda guida -appartenente alla metafisica tutta-...dell'essere dell'ente a partire dal suo proprio fondamento, che viene ricercato dalla domanda fondamentale come domanda sull'essenza dell'essere”16. “Per cui l'essenza della metafisica è altro dalla metafisica”17. Tutto questo necessita che il primo 11Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, Cap. secondo. Ed. Morcelliana, Brescia. 12Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 183. Ed. Adelphi, Milano 2007 13Ciò, qui, significa: mai storiograficamente. 14Ivi. pag. 183 15Ivi. pag. 196 16F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.19. Ed. Urbaniana University Press,

Roma 2004. 17Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 92. Ed. Adelphi, Milano 2001.

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inizio (ovvero l'accaduto oblio della dimenticanza dell'essere) risuoni come primo inizio. Da quanto antecedentemente scritto, ribadiamo non esservi per Heidegger orizzonti differenti (seppur nel medesimo fondamentalmente diversi) in cui incamminarsi al di fuori di quella sola chiaroscurale contrada ove coappartengono gli inizi. Ed è necessariamente in tale orizzonte che il gioco di passaggio può delinearsi e giungere, cioè avvenire. Ma quindi, si potrebbe obbiettare, ciò che sono gli inizi ed il gioco di passaggio giace in domande? Nella corretta formulazione di domande? Ed esattamente in quelle domande sopra trascritte? No. Se così si dovesse concepire il discorso portato fin qui, questo significherebbe che ogni riferimento fatto al gioco di passaggio sarebbe stato essenzialmente frainteso. “Nella misura in cui un pensiero si mette in cammino per esperire il fondamento della metafisica..., invece di limitarsi a rappresentare l'ente in quanto ente, esso ha già in un certo modo abbandonato la metafisica”18. Questo pensiero che si mette in cammino per esperire il fondamento della metafisica (cioè l'invece di...) ha la peculiarità di configurarsi in quanto un pensare domandante19. E non in quanto la corretta formulazione di una domanda! Né come concettualizzazione della relazione tra la domanda guida e la domanda fondamentale. “Infatti, nella misura in cui -la domanda fondamentale- interroga ancora nel modo tradizionale della metafisica -ossia in termini causali, seguendo il filo conduttore del “perché”-, il pensiero dell'essere viene completamente rinnegato a vantaggio della conoscenza che rappresenta l'ente partendo dall'ente”20. Per tale motivo, quantomeno sul

18Ivi. pag 92. 19O interrogante. O ancora, rammemorante (per un esempio: Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag.

121. Ed. Mursia, Milano 1976). È giunto il momento di rischiarare maggiormente questo punto poiché qui si tratta del pensiero già rivolto nell'altro inizio. Secondo Heidegger, per un pensare autentico “il tratto fondamentale... non è l'interrogare bensì l'ascoltare quel che viene suggerito da ciò che deve farsi problema”. Eppure noi abbiamo anche precedentemente chiamato tale pensiero interrogante o domandante; come può questo stesso presentarsi ora come ascolto. Anche qui, heideggerianamente non è da vedersi alcuna opposizione dualistica intercorrente tra il domandare e l'ascoltare. Il pensiero domandante è ri-pensamento del pensiero (e del domandare) nel significato che quest'ultimo verbo ha da tempo, in generale, acquisito. I termini meditativo o contemplativo, anch'essi usati dallo Heidegger nel riferirsi fondamentalmente ad un tale pensiero, aiutano forse ad evidenziare questo carattere d'ascolto del pensiero domandante, o anche detto interrogare pensante. Ovvero fanno emergere meglio le sfumature di cui il ri-pensamento sopraddetto, insito nell'heideggeriano pensare domandante, è costituito. Tale carattere può emergere nitidamente in quel domandare che pone “la domanda sull'essenza”. Ogni interrogare è un volgersi verso l'ascolto di ciò che già risuona. “Ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di sé stesso”. Codesta dis-posizione è il pensiero disposto all'evento (dall'evento). Tutte le citazioni di questa nota si trovano in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 139. Ed. Mursia, Milano 1973. Il ri-pensamento heideggeriano del domandare trova le sue prime esplicitazioni nell'Opera degli anni venti: “Ogni posizione di problema è un cercare. Ogni cercare trae la sua direzione preliminare dal cercato”. In: Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 16. Ed. Longanesi, Milano 1971.

20Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 114. Ed. Adelphi, Milano 2001.

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piano speculativo-filosofico, in queste nostre pagine si è sempre ben distinto il domandare, il pensiero interrogante, e la loro direzione, da ciò che è l'aspetto (non la parvenza) di domanda di un parlare qualunque. Ma, in tutta onestà, in queste pagine dedicate al “punto di riferimento” denominato gioco di passaggio, abbiamo per lo più detto del gioco di passaggio in quanto il gioco. Gioco fra gli inizi che è loro coappartenenza. Durante ciò, seguendo Heidegger per i sentieri da lui indicati, abbiamo accennato all'intraprendere un pensiero domandante, il quale cogliesse perlomeno la possibilità di un tale gioco. Eppure il punto di fuga dell'intera tematica di queste ultime pagine rimane il gioco in sé del gioco di passaggio. Nella filosofia, in senso autentico ovvero originario, il passaggio “scinde il sopraggiungere dell'Essere..., da ogni manifestazione e percezione dell'ente”21. Non si cerchi una qualche norma ontologica in codesta mutila citazione. Quel che deve emergere dalle suddette parole è la non completezza del gioco di passaggio in quanto il gioco. Il passaggio, in sé, difatti non è stato ancora essenzialmente detto. Il termine sopraggiungere ci deve porre in una situazione di ascolto. Riguardo ad esso non dobbiamo domandarci il chi? Od il perché? Meglio sarebbe porci semplicemente all'ascolto del suo come: il sopraggiungere che scinde, e scinde da ogni..., dice più propriamente del passaggio in sé del gioco di passaggio. “L'altro inizio non è un orientamento opposto al primo ma, in quanto altro, sta al di fuori dell'opposizione e dell'immediata comparabilità”22. Ciò con la presupponibile disapprovazione dell'egregio Professore Friedrch-Wilhelm von Hermann23. Il “movimento e contromovimento” che, in modo cooriginario e non causale, coinvolge e costituisce lo svolgimento della domanda guida, il passaggio alla domanda fondamentale, la storicità24 della storia del pensiero metafisico (fino e comprese le attuali sue propaggini), cioè dell'occidentalità, prende nei Contribui l'esplicito nome de il gioco di passaggio. Eppure, si diceva, tale gioco di passaggio ci si è presentato, fino ad ora, zoppo. In egual modo si è parlato dell'altro inizio. Si è parlato del significato che nella storia della metafisica (e della filosofia occidentale) apporta ed, insieme, assume l'inizialità di quest'ultimo. Possiamo si parlare dell'altro inizio come “di un'eccedenza che viene prima e sporge oltre tutti

21Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 188. Ed. Adelphi, Milano 2007. 22Ivi. pag 197. 23La seguente frase può aiutare a comprendere la “contraddittoria” affermazione appena fatta. “Per il

pensiero che si raccoglie nell'evento la storia dell'essere, in quanto è ciò che è da-pensare, giunge alla sua fine, per quanto possa ben continuare ad esistere la metafisica”. Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 53. Ed. Longanesi, Milano 2007.

24Non storiografia, ovvero non la filosofia come materia di studio, né la filosofia come scienza mirante ad una qualche forma di correttezza o alla dimostrazione, per esempio dialettica, di essenze sovrasensibili.

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gli sviluppi del primo inizio”25, per quanto i termini “viene prima” risultino nel luogo dell'altro inizio a cui si vorrebbe giungere, a dir poco aberranti. Ma ancora non è stato propriamente detto dell'altro. Oppure con altri vocaboli: non abbiamo detto dell'eccedenza in sé (dell'eccedere nel suo come). Per cui decretiamo non essere fin qui stato propriamente indicato, o detto di..., ciò che è lo altro, dell'altro inizio. Lo altro che deve ergersi. Anche qui, non: che cosa è questo altro? Ma come esso è (si dà)? “L'altro inizio è il salto che, trasformando l'Essere, entra nella sua più originaria verità”26. Con ciò è anticipato il successivo “punto di riferimento”, il capitolo intitolato: Il salto. L'ergersi (la negazione ri-pensata) dell'altro inizio; il primo inizio in quanto tale; la coappartenenza degli inizi e l'orizzonte della storia dell'essere che, evidenziantesi, la lascia (ed anche li lascia) fruibili in tal modo; il gioco di passaggio; essi tutti dicono dall'evento.

25Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag. 231. Ed. Morcelliana, Brescia. 26Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 194. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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II.III SU IL SALTO

Premessa o avvertenza: da ora il piano speculativo-filosofico, in cui fin qui ci siamo esplicitamente prevalentemente mossi, potrà risultare insufficiente, o non adeguato, alle future trattazioni e tematizzazioni. Ciò che dell'altro inizio è totalmente diverso rispetto al primo può essere spiegato mediante un dire che apparentemente non fa che giocare con un rovesciamento mentre in verità tutto si trasforma”1. Dunque: l'incombenza del fraintendere viene ad acuirsi e “l'insolito”, “l'inatteso”, non dovranno destare l'irrigidimento nell'abituale e la volontà giudicante; la quale è portata a decretare, nel migliore dei casi, “l'insolito” in quanto anomala stranezza2. De il salto abbiamo intrinsecamente detto nelle parole altro (il totalmente altro) nell'altro inizio, e passaggio nel gioco di passaggio. “Qui, nel passaggio, si prepara la decisione più originaria e perciò più storica, quell'aut-aut di fronte a cui non rimangono nascondigli:... o restare vincolati alla fine e al suo decorso -l'inerzia della metafisica-..., oppure iniziare l'altro inizio, essere risoluti alla sua lunga preparazione... Ora però, poiché l'inizio accade solo nel salto, questa preparazione deve essere già un saltare che, in quanto prepara, deve al tempo stesso provenire e balzare via dal confronto (gioco -il gioco- di passaggio) con il primo inizio e con la sua storia”3. All'interno dei Contributi, più precisamente in ciò che il salto dice, ogni cosa che in Essere e tempo4 viene preparandosi arriva ad una nitidezza. “La

1Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 235. Ed. Adelphi, Milano 2007. 2Vi è forse una flebile analogia, solo analogia e nel significato comune (dominante) del termine, con il

pensiero che ha reso famosa la parola anomalia da noi appena usata. Al di là di questa possibilità il termine indica bene lo “stato di cose” a cui vogliamo rimandare. In merito a tutto ciò, estrapolate, forse completamente, dal loro contesto, le seguenti citazioni ci sanno però dare intuitivi consigli: “Soltanto quando tutte le categorie concettuali attinenti...sono pronte in anticipo...la scoperta del che e la scoperta del che cosa possono aver luogo assieme...in un solo istante... La novità emerge soltanto con difficoltà, che si manifesta attraverso la resistenza, in contrasto con un sottofondo costituito dalla aspettazione... L'anomalia è visibile soltanto sullo sfondo fornito dal paradigma”. Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, pagg. 79, 88, 89. Ed. Einaudi

3Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 235. Ed. Adelphi, Milano 2007. 4“L'ontologia fondamentale, da cui soltanto tutte le altre possono scaturire, deve essere cercata

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meditazione “dell'ontologia fondamentale” (fondazione dell'ontologia come suo superamento) è il passaggio dalla fine del primo inizio all'altro inizio. Tale passaggio è però al tempo stesso la rincorsa per il salto”5. Si noti, alle spalle della bibliografia heideggeriana non vi sta alcuna strategia dottrinaria. Già antecedentemente alla Kehre lo Heidegger afferma essere stato, per tramite e grazie all'atteggiamento fenomenologico, alla dissertazione di Brentano e alle riletture su Aristotele, “portato sul cammino della questione dell'essere... Il cammino seguito da questo domandare fu però più lungo di quanto credessi...ciò che tentavano le prime lezioni di Friburgo e poi quelle di Marburgo mostra questo cammino solo in maniera indiretta”6. “Essere e tempo è il passaggio al salto (il domandare della domanda fondamentale)”7. Di più, “Essere e tempo non è perciò un”ideale” né un “programma”, bensì l'incipiente inizio dell'essenziale presentarsi dell'Essere stesso, non ciò che noi conquistiamo con il pensiero, ma ciò che, ammesso che siamo maturi per questo, ci costringe in un pensiero”8, un pensiero che, tutto sommato, è, per lo meno anche, il pensare ed il cammino dello Heidegger. “Il pensiero tentato in Sein und Zeit si è...”messo in cammino” per porre il pensiero su una via per la quale esso pervenga al riferimento della verità dell'essere all'essenza dell'uomo, per aprire al pensare un sentiero”9 direzionato in tal modo. Nel quarto capitolo dei Contributi si intravedono, esplicitati dallo stesso autore, i legami che sussistono tra ciò che Essere e tempo viene in tal modo a rivelarsi, ed il pensiero heideggeriano dopo la cosiddetta svolta. Abbiamo così l'opera degli anni venti configurata come tentativo, che di “solo” tentativo necessariamente può trattarsi, di un dispiegamento della domanda guida, portato, tale dispiegamento, verso il trapasso in domanda fondamentale. L'or ora utilizzato termine trapasso è qui posto in quanto accenno ad una posizione del domandare totalmente altra, ovvero l'altro dell'altro inizio; un pensare, diciamo, portato all'altro inizio. Per giungere ad una tale posizione del domandare totalmente altra rispetto alla dominante, quindi affinché si “avanzi fino a una possibilità decidibile -cioè l'aut-aut di cui si diceva prima-, si deve anzitutto tentare... di creare un passaggio verso il salto nella domanda fondamentale”10. Ci troviamo, in quest'ultima citazione, in un certo qual modo, nella trascrizione dell'unità, forse soggiacente ma di certo oltremodo strutturale,

nell'analitica esistenziale dell'Esserci”. Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 26. Ed. Longanesi, Milano 1971. E cosa raccoglie per l'appunto Essere e tempo se non l'esplicarsi dell'analitica esistenziale?

5Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 235. Ed. Adelphi, Milano 2007. 6Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 102. Ed. Longanesi, Milano 2007. 7Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 239. Ed. Adelphi, Milano 2007. 8Ivi. pag. 247. 9Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 110. Ed. Adelphi, Milano 2001. 10Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 239. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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dei primi tre capitoli dei Contributi nel loro legame (ovvero rinvio, rimbalzo) costitutivo, e necessario, con il cammino (magari solo accidentalmente bibliografico) del pensare dell'autore di Essere e tempo. O almeno fino a questo punto, ovvero fino a questo punto di un tale camminare, camminare che noi vorremmo, perlomeno, delucidare. Nient'altro che il camminare posto in rilievo fin dal primo capitolo di questo saggio. Dunque, fino a questo punto siamo giunti. Quindi fino a ciò che ne Il salto, il nostro quarto “punto di riferimento” si viene a dire. Ma cosa si viene a dire? E, analogamente (intendersi: come cerchi concentrici nell'acqua allo gettare di un sasso, ivi sasso è il domandare) ad altre domande precedentemente poste, come si viene a dire? A questo punto torna nuovamente in questione lo stato d'animo guida. Esso è il pudore, legantesi allo stato d'animo del ritegno11. Anche qui, come nell'antecedente paragrafo, recitare le parole stato d'animo non ci è di alcun orientamento se questo duetto di termini si intende, ovvero si ac-coglie, nel modo abituale e dominante. Tutt'altro! Un tal modo devia dai sentieri che, in una qualche forma del filosofare, vogliamo portare allo scoperto. E può deviare, a maggior ragione, nel concretizzarsi di ciò che è (ovvero quello che stiamo cercando) lo stato d'animo in termini quali pudore e ritegno. All'interno di codesto possibile deviare, infatti, troppo automaticamente (quindi a maniera d'automa) pudore e ritegno si associano a condizioni psicologiche, legate alla coscienza individuale, concepiti come modalità di quest'ultima. Oppure sono addirittura formulati in accezione puramente sentimentalistica e moralista. Non ci riconosciamo e non ci troviamo forse più ambientati nella descrizione di ciò? di quel che è appena stato asserito, cioè di quello che noi abbiamo chiamato possibile deviare? E il nostro ambientarci accade comunque, fosse anche esclusivamente al fine di contraddirlo (ovvero intenderlo in quanto piatta e pura negazione di ciò che andiamo cercando)? Si rammenti: questo sta a dire che nel deviare qui nominato risiede l'orientarsi dominante e quotidiano a cui ognuno di noi, come già da sempre e per lo più, soggiace. O, più propriamente, di cui è costituito. Oppure, semplicemente, è. Ebbene però non può bastarci una determinazione puramente negativa e sterile di ciò che è il pudore heideggerianamente compreso. Se nel paragrafo precedente abbiamo tentato di chiarire il ritegno (parzialmente si, ma volutamente), ora cercheremo di rischiarare il pudore. Anche se, occorre precisare, non è di qualcosa di differente che stiamo parlando, essendo ritegno e pudore nient'altro che nomi approssimativi delle direzioni di oscillazione dello “stato d'animo fondamentale del pensiero nell'altro inizio”12.

11Esplicitamente, si guardi: ivi. pag. 233. 12Ivi. pag. 43.

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Mai questo pudore sarà timidezza, annuncia Heidegger13, mai esso sarà da concepirsi anche solo verso tale tendenza. Che anzi, un tale pudore dispone di una grande forza. Non è un egoico ritrarsi o un generico titubare. Esso, nei confronti del dominante, ha un che di “sfrontato”. Se così non fosse, come potrebbe altrimenti il pudore costituire quell'“l'azzardo”14 che il salto è. Il pudore si configura, diciamo, come “sfaccettatura” dello stato d'animo fondamentale nell'altro inizio. In quanto ciò, quest'ultimo, fa si che si possa accogliere (o, il che è lo stesso ma diversamente portato alla parola, esso è ove avviene) quell'apertura da cui “scaturisce la necessarietà della reticenza”15. Dove indica quest'apertura (dove indica il pudore medesimo)? Ovvero cosa la necessarietà della reticenza dice? Forse è or ora prematuro esaurire la risposta a questa domanda, ammesso che il rispondere heideggeriano possa essere considerato tale, perciò esauriente in senso assertivo-informativo. Quello che per noi, adesso, conta è “limitarci” a ciò che il salto è. Per cui lasceremo la reticenza, appena menzionata, nella momentanea indeterminatezza. Puntando invece il nostro interesse sulla necessarietà, anch'essa appena menzionata. Eppure la reticenza e la contrada a cui essa guarda, ed al contempo appartiene, verranno sempre più emergendo da sé. Dunque. La necessarietà di cui parla l'ultima citazione, in verità, l'abbiamo già incontrata. Il pudore come stato d'animo fondamentale nell'altro inizio è apertura sia alla, che, contemporaneamente, nella, domanda fondamentale (meglio: al e nel domandare fondamentale). Cotale domanda fondamentale (meglio: tale domandare dell'altro inizio) “scaturisce direttamente da una necessarietà della necessità dell'abbandono dell'essere”16. La necessarietà di cui parliamo ed il suo intrinseco legame con la domanda fondamentale, direzionata già all'altro inizio, competono a, e vicendevolmente ad esse compete, quell'abbandono dell'essere di cui abbiamo detto nel paragrafo primo del presente capitolo. Ed a quest'abbandono dell'essere compete, vicendevolmente, anche lo stato d'animo del pudore. Ora, un tale “orientamento”, una tale necessarietà, va esperita17. E necessariamente solo in tal modo, esperendola, “coloro che si limitano a “scrivere” una critica della domanda dell'essere” potranno approssimarsi al domandare del pensare di Heidegger. Approssimarsi qui significa: evitando il pericolo del fraintendimento. Fraintendimento, d'altronde, sempre incombente in questo luogo del pensare. Sempre incombente nel pensiero che, incamminatosi, si affaccia sul primo inizio in quanto tale, quindi nel suo rimando ad altro, ad

13Ivi. pagg. 44, 45. 14Ivi. pag. 233. 15Ivi. pag.45 16Ivi. pag. 238. 17Esplicitamente, per esempio: Ivi. pag. 240. Non approfondiremo, per ora, l'esperire heideggeriano.

Sull'esperire, ripetiamo, si dirà più avanti.

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un altro, all'altro inizio. Altro inizio che attualmente resta, all'interno del nostro percorso ne i Contributi, nonostante tutto, ancora essenzialmente adombrato. E così, è bene notarlo, in questi intrinseci rimandi l'unitaria (o la presunta tale) costituzione dei Contributi si presenta a noi, ancora una volta, nelle plurime dimensioni (o livelli) dei suoi legami strutturali. Ciò, facile capirlo, nel bene o nel male per la nostra autentica comprensione dell'opera. Ma dove, e come, la necessarietà della necessità dell'abbandono dell'essere, se esperita e così esperita, ed in ciò (l'esperire) tenendo conto della sua (di tale necessarietà) intimità con lo stato d'animo detto pudore, ci può far saltare? Visto che del salto, e del passaggio che è il salto, stiamo dicendo. Certo, nella necessarietà di cui ci sforziamo di parlare sono, seppur assolutamente non illuminati e non essenzialmente, affiorati dei legami tra l'abbandono dell'essere, per l'appunto nella sua necessità non ulteriormente chiarita, e ciò che abbiamo denominato il dominante. Ma con questo, come era sottinteso nelle domande appena poste, non s'è però propriamente detto de il salto. “Il salto è il raggiungere saltando (Er-springung) la prontezza per l'appartenenza nell'evento”18. E l'evento (Ereignis) non deve essere raggiunto “a forza con il pensiero”19 (in codesta citazione si rimira all'antecedentemente menzionato esperire quella necessarietà da noi posta a tema20; anche se, lo sappiamo, l'esperire a cui miriamo rimane non ulteriormente chiarito, né in sé né nel suo legame o rapporto con il pensiero). Ebbene. L'evento (Ereignis), il titolo essenziale della opera dei Contributi, è adesso chiamato in forma filosofica direttamente esplicitamente in causa, sia nel presente paragrafo di questo scritto, sia diffusamente nel capitolo quarto dell'opera medesima. Non potremmo però certamente prendere di petto, a livello filosofico-speculativo o meno, ciò che l'evento è. La motivazione? In base all'incamminarsi di questo scritto una tale volontà o pretesa sarebbe assolutamente fuori luogo. E quindi, cosa fare? Parlando molto sinteticamente: chi abbia letto il secondo Heidegger, o la letteratura critica a lui riferita, può essere a conoscenza del fatto che, in genere, l'evento è l'essere heideggeriano. Ma con questo non si è parlato di un bel nulla! Dando per scontato che tale asserzione sia giusta all'interno della storia della filosofia, che mai ce ne faremo, noi qui, di questa informazione! La nostra tensione, che è il pensare, non deve perciò essere catturata o attratta dalla forza di gravità di codesta parola in quanto tale. Non facciamoci preventivamente soggettivi investigatoti della sua oggettiva concettualità. O così facendo inautenticheremo radicalmente ciò che evento è. Tutto 18Ivi. pag. 241 19Ibidem. 20Non risiede qui la contrapposizione esperire/pensare, fatti/idee, bensì un ri-pensamento intimo del

pensiero e della sua direzione.

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questo sta a dire: non dobbiamo immediatamente e “spontaneamente” su di essa investigare e informarci (o pensare che ciò sia il processo giusto da mettere in atto, se non il solo!), riguardo ad essa analizzare e comparare. Ma neanche dobbiamo porre nella parola evento aspettative ontologiche, assiologiche o di qualsiasi altra sorta. Tutto questo è inerzia, è persistenza nella precondizione o pre-determinazione che per lo più, e cioè generalmente senza che noi ce ne accorgiamo, già ci assorbe. Perciò lasceremo, se riusciamo, la parola “evento”, come altre prima ma già sempre più di queste altre, nell'indeterminatezza. Diciamo però che, necessariamente, ciò che essa dice si rischiarerà proseguendo. Ma, come più indietro tematizzato, il salto dovrebbe saltare, saltare poiché tra-passare (Überwindung), nell'altro inizio. Cioè, il salto è ritrovarsi addentro al pensiero in quanto storia dell'essere. Ma, ricordiamo, il pensiero in quanto storia dell'essere (in quanto ri-posto in questa) avviene in ciò che è stato detto l'altro inizio, avviene nella inizialità e nel totalmente altro di quest'ultimo. Avviene in quel luogo in cui il primo inizio è, può essere, risiede. Giunge il momento di incominciare a dissipare le ombre che avvolgono ancora, al nostro attuale sguardo filosofico, l'altro inizio in sé. Perché questo sia possibile l'altro inizio deve essenzialmente essere ri-portato, ri-colto, nel darsi dell'Essere. É bene puntualizzare che in questo momento ci stiamo riconducendo, in modo diretto ma forse non riconoscibile immediatamente, alla necessarietà della necessità dell'abbandono dell'essere, ed alla necessarietà della reticenza (o rifiuto), precedentemente non rischiarata. Senonché, di più, noi stiamo tornando anche e proprio a quella necessarietà che ad entrambi, abbandono dell'essere e reticenza, ma in ognuno diversamente, è essenzialmente costitutiva. Tutto ciò, ciò a cui come detto stiamo tornando, lo indicheremo nel termine rifiuto. Questo “rifiuto avviene come sottrazione che coinvolge in quel silenzio in cui la verità dell'Essere secondo la sua essenza è nuovamente sottoposta alla decisione se possa essere fondata come la radura per il velarsi. Questo velarsi è lo svelare del rifiuto, il lasciar-appartenere nell'estraneo di un altro inizio”21. In altro parlare, ciò a cui stiamo “tornando”, ciò che si viene a dire ne il rifiuto, “è la prima somma donazione dell'Essere”22. Ebbene, qui viene a confluire il ri-pensamento heideggeriano della negatività in sé. Della quale negatività si intraprendeva una tematizzazione, al fine del ri-pensamento, già dal paragrafo uno del presente capitolo. Aggiungo che, quando si parlava nel paragrafo precedente di “equilibrio di luminosità ed ombre”, stavamo dicendo, e in certo modo “presupponendo” tematicamente (meglio, ci muovevamo speculativamente addentro alla prospettiva di...), null'altro che ciò che è appena emerso, ovvero de il

21Ivi. pag. 246 22Ibidem.

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rifiuto come donazione dell'Essere. In quest'ultima ondata di pensiero la logica appare vacillante. Qualcosa di quello che è stato scritto nell'ultimo capoverso potrebbe percepirsi come stridente, potrebbe non essere combaciante alla logica ed ai suoi postulati. Che la causa stia nella forma del linguaggio usato o nel contenuto non è forse ancora deciso. Ma certamente il contenuto di talune frasi, in quanto affermazioni assertive, ci appare contraddittorio: Il rifiuto è la somma donazione, ad esempio. Le medesime frasi potrebbero, in conclusione, apparirci anche come indeterminate, tautologiche nel ragionamento, vuote. Magari dettate da irrazionalità. É così che dev'essere? Da una certa angolatura si, è necessario che così sia. Ma non è questa angolatura ancora nella prospettiva del dominante che torna a dominare ai vari livelli della sua ramificazione? Non è questa angolatura un darsi della prospettiva costitutiva ed essenziale di ciò che è il primo inizio e l'oblio dell'essere non colti come tali, cioè non portati nell'aperto del pensare interrogante? Ma, al di là di questo e tutto sommato, non è poi anche questa intrinseca contraddizione l'azzardare del saltare del salto? Non è forse anche codesto vacillare della logica quello sgomento23 che fa, come una sfumatura insieme ad altre sfumature, del colore dello stato d'animo fondamentale appunto la tonalità di quel dato colore? Per inciso: le caratteristiche del salto che vanno qui di volta in volta definendosi (nel significato del “mettere a fuoco”) ci fanno percepire come il salto, proprio perché salto, è ancora e fondamentalmente dal (la posizione di slancio, non lo slancio in sé, giunge dall'intimo di...) primo inizio, ma quest'ultimo già intuito e vibrante come tale. Dunque. La necessarietà in sé, ma al contempo anche nei due modi in cui l'abbiamo nominata, è stata ri-portata al rifiuto come somma donazione dell'Essere. Il rifiuto è stato tematizzato, nel suo legame (non relazione duale24), con ciò che il salto è nel suo tra-passare nell'altro inizio dal primo inizio in quanto tale. Nel saltare del salto noi già intravediamo tutto questo. Ma il saltare del salto è l'“esperire” ciò che si è nominato il rifiuto. Il rifiuto, si diceva, è in quanto ritrarsi-sottrazione (reticenza, necessità dell'abbandono) e, al contempo, come donazione (pienezza) dell'essere. Il pensare heideggeriano, guardando all'“esperire” il rifiuto nella significatività appena detta, ri-pensa e conia per codesta “intrinseca dinamica” (pienezza nel ritrarsi) del darsi dell'essere il vocabolo fendersi. Il termine fendersi dice qui del “dispiegamento, che rimane in sé, dell'intimità dell'Essere stesso nella misura in cui lo esperiamo come rifiuto (Verweigergung) e storno (Umweigergung)”25. La parola fendersi 23Ivi. pag. 44. 24Per quel che concerne la per altro già incontrata problematica de la relazionabilità, rimandiamo per ora

a la discrepanza relazione/rimando enucleata in: Günter Figal, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, pag. 90. Ed. il Melangolo, Genova 2007.

25Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 248. Ed. Adelphi, Milano 2007. Senza

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vorrebbe quindi fare cenno all'”esperire” (il saltare del salto), nella modalità speculativamente fin qui indicata, un tal darsi dell'essere. Si potrebbe però così affermare che “l'intrinseca dinamica” che è il fendersi venga posta, e posta filosoficamente, solamente dopo il salto in quanto il saltare26. Ma questo “dopo” e questo “porre filosoficamente” sono ripieni di fraintendimenti. Tanto più quando la filosofia si incammina (nuovamente?) nel pensare non più nel senso calcolante o puramente speculativo-informativo (in un tale senso l'abituale opposizione essere/pensare sta, come un già da sempre, a fondamento27). E tanto più quando la filosofia si sforza nel tornare a dire non più in modo logico-causale. Ma non è infatti di momenti spazio-temporali in senso scientifico-fisico che siamo qui a dire. E né di sviluppi dialettici, né di connessioni causali, né di progressi di sorta stiamo dicendo. Il salto non è accumulo, non è rimando duale, non è confronto per un'ulteriore sviluppo o una nuova miglioria. Rammentiamo: il salto salta-via-da ciò che costituisce il primo inizio. “Questo salto ha bisogno della più lunga preparazione e questa implica il completo distacco dall'essere inteso come l'enticità e come la determinazione più generale”28. Il fendersi dell'essere in quanto tale non può già-mai cogliersi o, il che è lo stesso, mostrarsi addentro al primo inizio nelle sue ramificazioni ed estreme propaggini (il dominante). Il fendersi non è un concetto e una modalità dell'essere, perché le modalità (pensate in quanto: un qualcosa come modalità di...) “sono quelle dell'ente (dell'enticità) e non dicono ancora nulla del fendersi dell'Essere stesso... Le modalità restano dunque indietro rispetto al fendersi”29. É l'enticità che invece sorge all'interno della prospettiva del primo inizio (heideggerianamente, coglimento dell'essere come semplice-presenza). La metafisica e la sua storia sono continuamente nutrite da questo sorgere. Questo sorgere sorge e si consolida in quella differenza ontologica che si presenta nella coppia dualistica: essere ed ente. “Differenza ontologica è il “non” tra ente ed essere”30. Questo “non”, accolto nel modo dominante e

approfondire, bensì in quanto flebile consiglio, affermiamo che la “dinamicità” di cotale “dinamica” si prefigura già nelle parole de: Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 207. Ed. il Melangolo, Genova 1999. L'orizzonte certo, non lo si può tacere, persiste nei “limiti” dell'analisi esistenziale dell'esserci, e può perciò risultare inappropriato.

26“Il salto nell'Essere in quanto evento, e solo di qui si apre il fendersi”. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 279. Ed. Adelphi, Milano 2007. Forse il “di” del “solo di qui”, invece di un “da”, ci consiglia. Ma certamente non abbastanza. Come accogliere, perciò, ciò che viene detto da questa frase?

27Per l'opposizione essere/pensare e le caratteristiche dell'implicita differenziazione tra i due si guardi il par. Essere e pensare in: Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 125. Ed. Adelphi, Milano 2001.

28Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 279. Ed. Adelphi, Milano 2007. 29Ivi. pag. 280. 30Dell'essenza del fondamento in: Martin Heidegger, Segnavia, pag.79. Ed. Adelphi, Milano 1987. Cfr.

inoltre: Günter Figal, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, pag. 163. Ed. il Melangolo, Genova 2007. La fecondità di un tale coglimento, ora forse solamente in quanto concepire speculativo, de la differenza donerà i suoi frutti successivamente all'interno di questo nostro scritto.

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abituale, come semplice-mancanza. La quale semplice-mancanza dà adito ad una sostanziale differenza, ad una distinzione tra i due, che vengono così fondati in quanto coppia dualistica o “non”. “Questa distinzione diventa appunto l'autentica barriera che impedisce di porre la domanda dell'Essere... Ciò che importa ...è...oltrepassare questa differenza e con essa la trascendenza e domandare in modo iniziale”31. Come chiameremo, cosa mai potremo dire, allora, dell'essere che ha “quell'intrinseca dinamica” detta il fendersi? Si dirà, e lo farà Heidegger, che “L'Essere permane essenzialmente [West]”32. ...E con ciò? Con ciò si torna alla problematica prima presentata riguardo all'uso dei termini “dopo” e “porre filosoficamente”. Con ciò si ripresenta quella problematica che riguarda le categorie e le modalità dell'enticità, la loro inconciliabilità nell'incamminarsi addentro nell'altro inizio. “Fallisce qui ogni tipo di ordinamento “secondo categorie”...poiché le categorie si dicono prendendo le mosse dall'ente e in relazione a esso -ente o enticità: ente ed essere-... Qui non si dà alcuna ricerca analitica di “strutture”... Il dire iniziale sta al di fuori della differenza di concetto e cifra”33. Nell'essenziale permanenza (Wesung) dell'essere, di cui stiamo trattando, ciò che l'essenza dice non mira all'enticità dell'ente. Ciò significa: la parola essenza viene sradicata dall'alveo metafisico e sì iniziata (iniziazione) ad un parlare e dire altri. “Accadimento della verità dell'Essere: questo è l'essenziale permanenza; e dunque mai un modo d'essere che di nuovo spetta all'Essere o che addirittura sussiste in sé oltre di esso”34. “L'essenziale permanenza è ciò in cui noi dobbiamo entrare (einfahren). Ecco che cosa significa qui “esperienza” (“Erfahren”); entrare in quella permanenza per starvi e sopportarla: ciò accade in quanto esser-ci e in quanto sua fondazione”35. Entrare nella permanenza essenziale dell'essere è starvi e sopportarla, accadimento dell'esser-ci. Al pensare appartenente all'altro inizio, in linea con ciò che è stato fino a qui affermato, si accede solo tramite il salto (il tra-passare del saltare del salto). Ed il salto è lo stare “nel pensiero del più considerevole”36. Ma, “chi” sta? Così abbiamo accennato l'esser-ci, ed abbiamo nominato la fondazione. Così ci avvicendiamo nel successivo “punto di riferimento” della strutturazione dei Contributi. Il salto (saltare del salto); lo stato d'animo fondamentale del pudore; la necessarietà ri-pensata ed il rifiuto come pienezza; l'essenziale permanenza dell'essere (Wesung); costoro dicono dall'evento. 31Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 254. Ed. Adelphi, Milano 2007. 32Ivi. pag. 287. 33Ivi. pag. 281. 34Ivi. pag. 288. 35Ivi. pag. 289 36Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 88. Ed. Mursia, Milano 1976.

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II.IV SU LA FONDAZIONE

La fondazione è “già” addentro all'altro inizio. Se teniamo conto che Dall'evento è il titolo essenziale dei Contributi allora possiamo sostenere che “le ultime tre disposizioni dell'Ereignis sono espressione dell'altro inizio”1, o che, seguendo Volpi, “con la fondazione si entra nel cuore dell'evento-appropriazione”2. Guardiamo innanzitutto struttura e strutturazione delle pagine riguardanti ciò che è la fondazione. La struttura di questo “punto di riferimento” è costituita in tre espressioni: Esser-ci; verità; spazio-tempo3. Precisiamo, non sono esse, queste tre espressioni, parti, o “pezzi”, di ciò che è la fondazione. Le tre espressioni non partecipano (platonicamente) della fondazione. Tutt'al più, potremmo affermare essere queste tre dei “contemporanei momenti” della fondazione. Ma “contemporanei” e “momenti” assolutamente non nel senso di stadi uniti o separati, o consecutivi, oppure cronologicamente progressivi. Cosa sono, dunque, queste tre espressioni? Rischiarare una risposta si può ponendo un’altra domanda, ovvero affermando che tale domandare non chiede nient'altro di ciò: cos'è la fondazione? Come un diamante intagliato in molte sfaccettature, se rigirato sotto la luce, mostra differenti limpide colorazioni nella medesima sfaccettatura, così tanto le colorazioni sono le tre espressioni quanto le sfaccettature, o il diamante medesimo che rigira su di sé, sono ciò che è la fondazione. Ma, si noti, non sarebbe errato (errato qui non in accezione propriamente logico-assertiva) affermare anche l'inverso. Questo parlare oscuro, e la rilevazione della struttura stessa del quinto capitolo dei Contributi, stanno a significare che nel capitolo in questione 1Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag. 420. Ed. Morcelliana, Brescia. 2Franco Volpi, Avvertenza del curatore dell'edizione italiana, in Martin Heidegger, Contributi alla

filosofia (dall'evento), pag. 21. Ed. Adelphi, Milano 2007. 3Ivi. pag. 291.

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parlando dell'Esser-ci, della verità e dello spazio-tempo essenzialmente si dice della fondazione. Ed all'inverso, parlando della fondazione, il capitolo quinto dice delle tre, soprascritte, espressioni in questione. Ovvero, dicendo della fondazione viene detto dell'Esser-ci, della verità e dello spazio-tempo; ciò tanto quanto dicendo dell'Esser-ci, della verità e dello spazio-tempo, viene detto della fondazione. Rischiarare ulteriormente tale legame, il quale non è un mero rapportarsi a... tra delle oggettualità (ma nemmeno fra concetti), risulta assai arduo. Perciò rimireremo queste tre espressioni, rimirando quindi la fondazione medesima, nel loro essere pro-poste all'interno dei Contributi. Ma qui pro-poste significa anche filosoficamente e speculativamente poste. Ciò ci porterà esplicitamente, in parvenza, lontano dal testo a cui siamo posti di fronte. Approdando così ad altri testi, Essere e tempo in cima a tutti, del medesimo pensatore. Codesto allontanarsi forse non chiarirà “come stanno le cose” riguardo i contenuti del capitolo La fondazione dei Contributi. Non di meno risulta, anche se non sempre, fondamentale, ma fondamentale non tanto per contestualizzare il pensiero filosofico dello Heidegger ma per “seguire” (rin-tracciare) il pensare intrapreso dallo stesso. Preventivamente, per completezza, va chiarita la strutturazione di questo capitolo quinto dei Contributi. La strutturazione de La fondazione tiene certo conto della accennata tripartizione nelle, da noi cosiddette, espressioni. E lo fa anche esplicitamente (si vedano le titolazioni dei sottocapitoli). Ma, proprio in quanto strutturazione, suddivide il testo in cinque delimitazioni tematiche che, pur inevitabilmente accavallandosi tra di loro, tentano per l'appunto di limitare un dato spazio, probabilmente sul piano tematico-speculativo, in cui e su cui sviluppare il discorso. O almeno così, ai nostri attuali occhi, appare. La strutturazione del testo si suddivide in cinque sottocapitoli: a) Esser-ci e progetto dell'Essere; b) L'Esserci; c) L'essenza della verità; d) Lo spazio-tempo in quanto fondo abissale; e) La permanenza essenziale della verità come salvataggio. Noi non seguiremo codesta strutturazione, tra l'altro anch'essa non causale, per quanto in certo qual modo discorsivamente concatenata. Ci agevoleremo piuttosto della sopraddetta struttura del capitolo La fondazione. Ovvero quei “filoni” che percorrono, esplicitamente o di rimbalzo, l'intero capitolo in questione e che ne sono sostanzialmente il contenuto (ma non solamente sono in quanto questo). Per cui, nel nostro attuale addentrarci nei Contributi, terremo conto di quelle cosiddette tre espressioni che costituiscono le “colorazioni della fondazione”. Esse sono le direzioni della nostra messa a fuoco del capitolo quinto, della sua forma, dei suoi contenuti, in definitiva ed essenzialmente: del suo come cioè del dire che lo pone (pone la significatività di codesto capitolo). Cercheremo in tal modo di approssimarci, se possibile, a questo dire (che poi è il dire delle tre espressioni della fondazione), ovvero alle tre espressioni in quanto

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fondazione. Tendendo così ad approssimarci a null'altro che a ciò che è la fondazione stessa. Di primo acchito l'immagine non consecutiva che risulta dal modo in cui le tre espressioni della fondazione sono poste, e teoreticamente in sé dispiegate, non significa certo che esse non dicano dello stesso (fondazione). Comunque, nel nostro scritto vi saranno espliciti rinvii fra i tre sotto paragrafi riguardanti, rispettivamente, le tre espressioni suddette. Ciò non di meno l'intero nostro paragrafo si presenta, nella sua unità, frammentato su svariati livelli. E ne siamo consapevoli, per quanto ciò possa valere. Se questo significa che di relazioni causali in quanto tali vi sia esigua traccia, allora tale esiguità, tale mancanza che viene definita frammentarietà, non può che rallegrarci. In particolare se essa viene trasposta al di là della visuale da cui, in quanto tale, scaturisce. Lo stesso dicasi per l'interno dei sotto paragrafi, rispettivamente riferiti ad ognuna delle tre espressioni de La fondazione. La peculiarità loro è di ritornare più volte a vertere sui medesimi contenuti, i quali però vengono nuovamente proposti e ri-posti ma sempre sotto diversi versanti e diversa luce. Questo ri-porsi dei contenuti qui trattati non è relazionatile causalmente. E se lo fosse, qui lo sarebbe parzialmente e assai macchinosamente. Ma, codesto ri-porsi, nemmeno è arbitrario! Innanzitutto perché, come si vedrà poi, una tale operazione fa parte del “movimento” connaturato al pensare heideggeriano4, quello verso l'originarietà e non gli elementi primi, o dei principi, come vorrebbero invece logica, dialettica, morale e, in sintesi, la metafisica occidentale intera nelle sue espletazioni e ramificazioni. Secondo: tale ri-porsi scaturisce dal discorso medesimo, discorso che verte sui contenuti ma si preoccupa essenzialmente del loro come5, più che delle ragioni, dei perché in quanto tali.

Esser-ci Affermiamo ora questo: la fondazione è “dell'”esser-ci. Per rischiarare implicitamente ciò che è la fondazione dobbiamo rischiarare ciò che è l'esser-ci. Questo termine heideggeriano compare all'interno del presente scritto alla fine del passato paragrafo. Nei Contributi esso invece appare, ed appare in modo più che incisivo, fin dall'inizio del testo: “non è più questione di trattare “di” qualcosa o di esporre qualcosa di oggettivo, bensì di affidarsi all'evento-appropriazione (Er-eignis), e ciò equivale a

4Pur non approfondendo seduta stante, comunque rimando testualmente ad: Martin Heidegger, Tempo e

essere, pagg. 40-41. Ed. Longanesi, Milano 2007. Ivi si trova esplicito accenno a un tale “muoversi”. 5Vedasi, qui la significatività della parola “come” va nella medesima direzione, il secondo capoverso de:

Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pag. 145. Ed. Marietti, Genova 1989. Un discorso al nostro assonante, che verte sul termine tedesco “als”, è presente in: Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 27. Ed. Longanesi, Milano 2007. Parecchio interessante, anche se solo parzialmente combaciante, è l'osservazione riguardante la fenomenologia heideggeriana trovantesi in: Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pag. 130, ultimo capoverso. Ed. Adelphi, Milano 1994.

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una trasformazione dell'essenza dell'uomo da “animale razionale” (animal rationale) in esser-ci”6. È esattamente di questo che noi dobbiamo trattare. Ma parlare dell'esser-ci significa anche, quantomeno, parlare del “chi” (non però da intendersi chi-soggetto) può compiere (o heideggerianamente meglio, compiersi ne...) il saltare del salto. Perciò è per noi di primaria importanza poter parlare dell'esser-ci. E per farlo dobbiamo confrontarci primariamente con “la parte” del pensare heideggeriano situata in Essere e tempo. Poiché, se è vero che il termine Dasein (esserci) compare già intorno 19207, ed acquista la sua fondamentale significatività nel semestre del 19238, è esclusivamente in Essere e tempo che si esprime la centralità, per il pensiero heideggeriano, di una tale significatività. Non per niente infatti nell'opera capitale, a proposito dell'esserci, viene detto a chiare lettere che esso “funge da ente che in linea di principio va interrogato per primo intorno al proprio essere”9. L'intera opera capitale è un discorso sull'esserci (ma, sebbene lo si vedrà sia comunque fin d'ora ben chiaro, un discorso non limitato al solo esserci in quanto “figura” delle speculazioni filosofiche heideggeriane). Eppure, non lo si taccia, in Essere e tempo l'esserci non è “ancora” e propriamente l'esser-ci che incontriamo nei Contributi. Ma questa semplice lineetta (-), tipica dei neologismi dello Heidegger, cosa sta a significare? Non rispondiamo, o meglio, lo facciamo non affermando niente in una posizione di risposta, ma interessandoci, prima di tutto, dell'esserci; per cui volgendo lo sguardo, primariamente, ad Essere e tempo. Dunque, impattiamo con questa “figura” dell'opera capitale: l'esserci è quell'ente che “assume il ruolo principale in seno al problema dell'essere”10. Ed è a codesto ruolo che si rinvia quando viene nominato il primato ontologico dell'esserci. Ovvero è l'esserci quell'ente tra gli enti “per cui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso”11. Ma adesso, dopo un tale impatto, si proceda con calma. Intanto affermiamo, senza ombra di dubbio, che l'importanza e la centralità di questa “figura”, l'esserci, all'interno della speculazione filosofica di Essere e tempo, viene confermata fin delle prime righe dell'opera: la “comprensione media dell'essere, in cui già da sempre ci muoviamo..., alla fine appartiene alla costituzione essenziale dell'Esserci”12. Senza quel “colpo d'occhio” che è la comprensione media dell'essere non vi sarebbe alcun genere di discorso sull'essere. Ed il discorso sull'essere è ciò a cui, ed

6 Ivi. pagg. 33, 34. 7 Si veda: Note sulla “psicologia delle visioni del mondo” di Karl Jaspers in Martin Heidegger,

Segnavia, pagg.431-471. Ed. Adelphi, Milano 1987. 8 Si rimanda, se ce ne fosse bisogno, alla voce Dasein in: Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 586.

Ed. Longanesi, Milano 1971. 9 Ivi. pag. 27. 10 Ivi. pag. 28. 11 Ivi. pag. 234 12 Ivi. pag. 20.

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in cui, l'ontologia fondamentale vuole muoversi. La comprensione dell'essere non solo si riscontra, almeno per lo sguardo che sa coglierla (nel nostro caso quello dell'analisi heideggeriana), già-da-sempre mediamente e quotidianamente13, ma innanzitutto “fa parte dell'Esserci, come costituzione ontica, un essere pre-ontologico. L'esserci è siffatto che, essendo, comprende qualcosa come l'essere”14, e cioè lo fa, “prima” di tutto, pre-ontologicamente. Altrove, in una considerazione riassuntiva, leggiamo: “nell'essere di questo ente, l'esserci, è data appunto la possibilità per lui di rapportarsi al proprio essere... Potendosi rapportare al proprio essere, e all'essere generalmente inteso, e trovandosi di volta in volta in gioco in questo rapporto”15. È risaputo, e ad ogni modo l'abbiamo precedentemente sostenuto, che Essere e tempo si propone come pensiero esplicitamente indirizzato verso una ontologia che stia in una differente direzione, in un “oltre che guarda a ritroso”, rispetto alle passate ontologie (non essendo queste altro che espressioni della filosofia metafisica occidentale), e, in quanto così direzionata, che possa chiamarsi fondamentale. Ma proprio questa “ontologia fondamentale... deve esser cercata nell'analitica esistenziale dell'Esserci”16, la quale “è completamente orientata nel senso del compito conduttore della elaborazione del problema dell'essere”17. Da qui si può notare, nuovamente e più precisamente, come la possibilità di problematizzazione (il problema dell'essere) inerente all'opera capitale heideggeriana sia basata sulla comprensione pre-ontologica dell'essere, e come lo sviluppo dell'analitica esistenziale si fondi, a sua volta, sulla comprensione media18 dell'essere. Ma dunque, sorge spontaneo chiedersi, “chi” è esserci? “Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l'altro ha quella possibilità d'essere che consiste nel porre il problema -il problema dell'essere-, lo designiamo Esserci”19. L'esserci risulta quindi essere l'ente che noi stessi sempre siamo e che è (è essenzialmente) quel medesimo primato ontologico, quella posizione di scacco nei confronti della problematizzazione dell'essere. Questo significa che gli uomini possono considerarsi degli esserci aventi, poiché tali, il primato ontologico? Assolutamente no, eppure in un certo

13 É presupponendo ciò, questa medietà quotidiana, che Heidegger si avvicina al linguaggio come

problematica e sentiero che conduce alla emergenza (in entrambi i sensi) del problema fondamentale dell'essere. Si veda, ad esempio, la problematica, svolta a livello grammatico ed etimologico, esposta in: Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pagg. 63-65. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1968.

14 Ivi. pag. 31. 15Adriano Fabris, Essere e tempo di Heidegger, pag. 77. Ed. Carrocci, Urbino 2004. Rimando anche ad:

Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag. 212. Ed. Morcelliana, Brescia. 16 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 26. Ed. Longanesi, Milano 1971. 17 Ivi. pag. 30. 18 L'analitica esistenziale dell'Esserci incorpora in sé quel principio della fenomenologia, tornare alle cose

stesse, secondo cui “l'ente dovrà mostrarsi così com'è innanzi tutto e per lo più, nella sua quotidianità media”. Ivi. pag. 30.

19 Ivi. pag. 19.

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modo già-da-sempre si. “l'Esserci è onticamente “vicinissimo” a sé stesso, ontologicamente lontanissimo, ma pre-ontologicamente tuttavia non estraneo”20. È questa una risposta alla possibile umanità della “figura” heideggeriana dell'esserci? No. Eppur essa dice del legame tra essere, esserci e uomini, e quindi essa dice del primato ontologico (cosa che concerne il legame dell'essere all'essenza dell'uomo come esserci). Ma forse, a noi, non parla né dice ancora abbastanza. Per meglio comprendere riprendiamo nuovamente il discorso, e riprendiamo nuovamente dalla “figura” dell'esserci, dal Dasein. Il principale rischio riguardante il Dasein, ovvero il rischio del fraintendere tale “figura” dello Heidegger, rischio peraltro confermatosi in quanto consuetudine durante l'intera storia della filosofia occidentale, è quello “di trasporre il termine che sta per il modo della realtà dell'ente all'ente stesso e di intendere con “esserci” (Dasein) “l'esistere”, l'ente stesso realmente lì presente nel suo insieme”21. Non si intraveda perciò nella parola heideggeriana esserci l'existentia degli enti! Il che significa non si intraveda nel Dasein il che cosa nella (e della) prospettiva dell'essere (quindi dell'ente) metafisicamente colto. Esserci non rimanda qui alla realtà come semplice-presenza di enti presenti, il lì presente di un qualche qualcosa, bensì “noi stessi siamo rispettivamente l'Esserci”22. E così, al fine di una migliore comprensione, torniamo, per altra strada, a dove eravamo poc'anzi giunti: all'uomo. Quest'ultimo però persiste nel non essere né una risposta né un punto d'arrivo per noi. Ma proseguiamo comunque su questa via. All'interno di Essere e tempo il riferimento del termine esserci è esplicitamente all'uomo23. Eppure, a ben guardare, con ciò non si è detto ancora niente! Infatti, a questo punto, sorge spontanea la domanda se “in generale l'essenza dell'uomo, in senso iniziale e che decide anticipatamente di tutto, stia nella dimensione dell'animalitas”24. Tale riflessione viene spontanea anche perché durante tutta la storia metafisica occidentale, ovvero la storia dell'Occidente, si sono sedimentate e sviluppate varie dottrine e svariati pensieri che vertono sull'essenza dell'uomo25. Ma codesta varietà di dottrine e pensieri “presuppongono come ovvia l'”essenza” universale dell'uomo. L'uomo è considerato come animal rationale”26. E ciò anche, e soprattutto, ove tale definizione non appare esplicitata, in superficie, scritta o menzionata. Se

20 Ivi. pag. 29. 21 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 296. Ed. Adelphi, Milano 2007. Più

estesamente, si legga l’intero primo capoverso della medesima pagina. 22 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 28. Ed. Longanesi, Milano 1971. 23 Si veda, per esempio: Ivi. pag. 24. 24 Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag 45. Ed. Adelphi, Milano 2002. 25 Ci si rifà qui, palesemente, agli umanismi che si sono presentati durante la storia dell'Occidente. In essi

a noi importa intravedere “in generale la preoccupazione che l'uomo diventi libero per la sua umanità, e trovi in ciò la sua dignità”. Ivi. pag. 42.

26 Ivi. pag. 43.

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l'heideggeriano esserci “non è un caso di ente capace di astrarre e rappresentarsi l'essere, bensì il sito della comprensione dell'essere”27, come in fin dei conti presuppone l'analitica esistenziale, rimane però non del tutto determinata l'essenza dell'uomo che sorge appunto nell'essenziale riferimento dell'essere (Seyn) all'uomo28 come Dasein. Questo accade perché non è l'esserci un modo dell'uomo, “l’esserci non è…un carattere dell’uomo, come se il termine esteso finora a tutto l’ente –esserci- fosse per così dire ristretto alla funzione di designare l’esser presente dell’uomo”29, neppure esso è un certo tipo di umanismo. Né l'esserci è quiddità dell'uomo. Tutt'al più, parlando si il linguaggio della metafisica ma coscientemente come tale, è l'uomo degli umanismi che si sono avvicendati nella storia occidentale una “modalità” riposante nell'essenzialità dell'esserci. Ma, usufruendo ora di tali parole, a dir poco rischiamo di tornare (o restare) a comprendere il termine esserci come parallelo al significato di existentia sopra nominato e parzialmente delucidato; o comunque dato per certo è che così facendo essenzialmente non usciamo dall'orizzonte di un dire metafisico. Quindi, all'unisono con Essere e tempo, considerando che l'esserci, “a causa di un modo di essere che gli è proprio, tende a comprendere il proprio essere in base all'ente a cui costantemente e innanzi tutto si rapporta per essenza, cioè in base al “mondo” (cioè, qui, in base a ciò che è semplicemente-presente)”30, ne viene che i vari umanismi dicono della enticità dell'uomo “senza porre la questione della verità dell'essere”31. L'esserci perciò non va assolutamente colto in una tale direzione, esso non è uno tra gli umanismi né essenzialmente si incammina dalla stessa origine di questi. Heidegger ha sempre sostenuto che le metafisiche dell'Occidente fossero ancora troppo “fisiche”. Tale posizione, purché non si intenda in senso dualistico e per l'appunto metafisico, ma invece quasi in accezione seriamente “ironica”, non è certo abbandonata. Se i differenti umanismi dicono l'enticità dell'uomo, essi presuppongono, come già-da-sempre, l'interpretazione dell'ente, e pongono, inconsapevolmente o meno non cambia, l'essenza dell'uomo come ente tra gli altri enti. E, per l'esattezza, non tanto e solamente come ente animale32, 27 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 20 (nota b). Ed. Longanesi, Milano 1971. 28 Di questo riferimento, nel modo del pensiero e del linguaggio, si parla in forma esplicita nel testo:

Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag 31. Ed. Adelphi, Milano 2002. Si può notare come, all'inizio dell'opera, il termine uomo possa essere foriero di essenziali fraintendimenti.

29 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pagg. 296-297. Ed. Adelphi, Milano 2007. 30 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 28 (con nota a). Ed. Longanesi, Milano 1971. Sul senso

profondo eppur quotidiano di questa frase ci saranno ulteriori chiarimenti in seguito. Rimandiamo, per un confronto e riscontro di contenuti e significato, al paragrafo a cavallo delle pagine de: Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pagg. 297-198. Ed. Adelphi, Milano 2007.

31 Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pagg. 42,43. Ed. Adelphi, Milano 2002. Rimandiamo, per un confronto e riscontro di contenuti e significato, alla seguente frase: “Ogni volta il “Ci”,…agli inizi, è indomandato”. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 305. Ed. Adelphi, Milano 2007.

32 La animalità dell'uomo è considerata certo il punto basilare, da cui muoversi, di ogni umanismo; e, seppure senza chiarire del tutto quali concetti stiano dietro all'animalità, giustamente Regina ne dà

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ma piuttosto anche, e forse soprattutto, come l'ente dotato di ragione. Ma la ragione, sia in quanto capacità personale sia in quanto riflesso della razio divina, o in quanto progresso dell'autocoscienza piuttosto che struttura biologico-evoluzionista, oppure altro ancora, non toglie l'equiparazione ad ente che ivi sottostà. Ovvero non toglie la visione metafisica in sé qui fondante. La quale, per altro e di converso, si configura possibilità intrinsecamente propria dell'esserci (della “dinamica” che lo costituisce)33, che, in quanto tale, costitutivamente può cogliere in luogo dell'essere l'enticità. Cioè può cogliere, come già-da-sempre, “ove” risiede l'essere la semplice-presenza. Uomo è ente animale razionale. Secondo Heidegger ciò non è per nulla assodato, né, anche fosse, è in tal modo che si ha da guardare essenzialmente l'uomo. Eppure, l'uomo come ente animale razionale rimane, anche odiernamente, più che mai corretto. Ma, sempre per maggiormente comprendere la significatività de l'esserci, proviamo a porre parzialmente, ed andando a “ritroso”, l'accento sul versante del linguaggio, versante che non dobbiamo mai trascurare. E rimiriamo poi brevemente, ma da tale versante, gli arrivi del discorso condotto sino a qui. Se i vari umanismi dicono metafisicamente dell'uomo come enticità, senza in ciò porre essenzialmente il problema dell'essere, a maggior ragione Heidegger non si sottrae al compito di “trovare”34 un parlare che possa dire non metafisicamente dell'essere. Ripeto: dire non metafisicamente. È all'interno di un tale compito, il quale necessariamente richiede un ri-pensamento dell'essenza del linguaggio, che al pensare heideggeriano si dà a cogliere la “figura” dell'esserci. È solo all'interno di un tale compito e necessariamente nel dire a cui esso tende che, successivamente, si darà a pensare l'uomo come il pastore dell'essere e non il padrone dell'ente; si darà a pensare l'uomo come l'abitatore di quella dimora, ovvero il linguaggio, che è la casa dell'essere35, e non il manipolatore della comunicazione e della lingua-segno. Questo discorso, che può dare parvenza di non coerenza argomentativa, ci consiglia invece proprio su l'esserci poiché ci indica la contrada, e ci parla dello sguardo, in cui l'esserci, in quanto tale, può sorgere in luogo dell'uomo; ma che innanzitutto sorge già-da-sempre come luogo dell'uomo. Tirando le fila del percorso svolto fin qui, ciò che si pone in risalto è che in

ampio adito. Però esso, a parer mio, non pone abbastanza l'accento sulla razionalità di questo animale, che è poi ciò che caratterizza l'uomo degli umanismi. Si veda: Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag. 290. Ed. Morcelliana, Brescia.

33 Si rimanda, come accenno non ulteriormente approfondito, poco più sopra, nota 121. 34 Un “trovare” non diretto ad un qualcosa, ad un lì-presente, per esempio una qualche formula

grammatica o semantica. Ma un “trovare” che è innanzitutto un ascoltare e lasciar-fruire, ovvero rispondere alla chiamata. In una certa inclinazione di senso, ma non cronologica o antropologica, un “trovare” che è un ri-trovare ed un ri-torno. Cfr. Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio. Ed. Mursia, Milano 1973.

35 Entrambe queste, definiamole momentaneamente così, “caratterizzazioni dell'uomo” sono scritte, rispettivamente, a pag 73 e pag. 31 de: Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”. Ed. Adelphi, Milano 2002.

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Essere e tempo quell'ente che noi stessi sempre siamo (l'uomo?) viene denominato l'esserci. E ciò perché “è proprio di questo ente che, col suo essere e mediante il suo essere, questo essere è aperto ad esso... La peculiarità ontica dell'Esserci sta nel suo esser-ontologico”36. La comprensione media dell'essere e la comprensione innanzitutto pre-ontologica, entrambe dell'uomo e nell'uomo, “confluiscono” nell'esser-ontologico proprio dell'esserci. Così pare. Ma il dire della citazione riportata, quando pensato ed accolto nell'esperienza fondamentale della Kehre, quindi in un momento filosofico-speculativo “dimentico” (diciamo al di là) di spartizioni ontiche ed ontologiche, sta a significare null'altro che: “ciò che l'uomo è...riposa nella sua e-sistenza”37. Senonché, sempre partendo da questa esperienza e sempre mantenendo stabilmente la prospettiva in cui esistenza non è addentro ad una contrapposizione tra existentia ed essentia, la e-sistenza dell'uomo, ovvero il suo modo d'essere appartenente a lui soltanto, è nello Heidegger della Kehre colta pensata e parlata come “lo stare nella radura dell'essere”38. Dopo Essere e tempo (ma, a parer nostro, come non-detto risiede già essenzialmente da ed in Essere e tempo) “la domanda sull'essere dell'uomo risulta...determinata unicamente, nella sua direzione e portata, in base alla domanda sull'essere. L'essenza dell'uomo richiede di venir compresa e fondata all'interno della problematica dell'essere...come il luogo che l'essere reclama per la propria apertura”39. Nell'opera capitale, sia che l'esserci venga guardato come trascendenza in totalità in quanto essere-nel-mondo, e lo sia indipendentemente da un compito aprente tale “mondo” e quindi da una strategia in questo compito (con l'arrivo a possibili posizioni ed ambiguità “nichiliste”, e all'equiparazione a livello esistenziale di autenticità ed inautenticità)40, sia che lo si guardi come finitudine (data in pro-gettualità e gettatezza insiti nell'essere-per-la-morte, legate alla temporalità autentica della decisione anticipatrice, oppure date in uno spazio in cui “il mondo” è pensato solamente come un esistenziale heideggeriano)41, questa heideggeriana essenzialità dell'ente uomo che noi

36 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 24. Ed. Longanesi, Milano 1971. 37 Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag. 48. Ed. Adelphi, Milano 2002. Nella medesima

pagina vi sta una nota, riferentesi ad un contenuto parallelo a quello da noi riportato nella citazione, che rimanda proprio ad Essere e tempo.

38 Ivi. pag. 46. Per quel che concerne il binomio essentia/existentia nel cosiddetto primo Heidegger rinviamo in maniera convincente a: Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pagg. 16, 81-84, 96, 99-100, 107, 209. Ed. il Melangolo, Genova 1999.

39 Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pag. 209. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1968. 40 Mi riferisco a: Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger. Ed. Morcelliana, Brescia. La questione

si estrapola dall'intero corpo del testo. Qualche riferimento in più si ha, per esempio, nello specifico a pag. 307, più estesamente al Cap. secondo: La semantizzazione dell'essere nel giovane Heidegger; dove è presente anche la tendenza, definita Ruinanz, che riguarda l'essenza dell'uomo in genere in una prospettiva definita piuttosto nichilistica. Posso poi addurre ad esempio il contenuto delle pagg. 405-405, riguardante un certo confronto concernente il Dasein, di Essere e tempo e dei Contributi, in base a concepibili sviluppi in direzione antropologica, in senso ampio.

41 Mi riferisco a: Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 53-96. Ed. Marietti,

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stessi sempre siamo -l'esserci- si trova certo già-da-sempre intrinsecamente legata alla questione ed al problema dell'essere in essa costitutivi, ma di fatto, nell'ottica dell'analitica esistenziale la cui prospettiva impregna di sé appunto l'intero Essere e tempo (anche se, così affermando, si opacizza il sopra menzionato dire non-detto di tale libro), proprio l'esserci di cui abbiamo fin qui trattato pare risultare anteposto in “primo piano”42. In “primo piano” significa che lo stesso senso dell'essere in quanto arrivo del problema dell'essere, a cui tenderebbe l'ontologia fondamentale, può vedersi come nascente addentro l'esserci medesimo. Quindi l'apertura, la strutturale trascendenza, il “mondo”, la gettatezza del pro-getto sono si dell'esserci, ma soprattutto dall'esserci “per” l'esserci e nell'esserci (nei “confini”, nella contrada detta esserci). Possiamo dire, certo un poco riduttivamente, che nonostante Heidegger eviti e combatta esplicitamente una prospettiva metafisicamente antropologica del problema dell'essere43, se la “figura” dell'esserci (ed i suoi legami con l'uomo e l'umanità) viene evidenziata (e forse isolata), assurgendo così a “figura” dominante nel pensiero dello Heidegger, la -in Essere e tempo non-detta- significatività dell'esserci come apertura dell'essere viene adombrata ed obliata. Un siffatto processo, per altro, non è estraneo alle letture interpretative di Essere e tempo. Ma la questione proprio non deve stupirci, tenendo conto dell'impostazione data dall'analisi esistenziale, nonché dei “limiti” del linguaggio, “ancora” metafisico, connaturati all'opera capitale. È negli anni della Kehre e in quelli successivi (anni della stesura dei Contributi) che, come accennato all'inizio dell'appena trascorso capoverso, il pensare heideggeriano si focalizza, percorrendo sentieri altri rispetto all'analitica esistenziale e alla ricerca di un'ontologia fondamentale, all'essere. Giungendo così a parlare di una eventualità (il darsi dell'evento) dell'essere addentro alla (filosoficamente rinnovata) prospettiva detta storia dell'essere. “La luce in cui gli essenti si illuminano non è più proiettata dall'esserci. Piuttosto. esserci ed enti intramondani sono entro una apertura che li trascende tutti, anche se l'esserci conserva una posizione preminente”44; il per come (più che il perché) di questa preminenza l'abbiamo trascritto ed abbiamo provato a pensarlo fino ad ora. A parer mio in quest'ultima citazione viene nominato l'intimo senso della perenne scrittura, nei Contributi, della parola esser-ci, in vece del vocabolo esserci. L'esplicito e illuminato punto di fuga del pensare (espletato dal pensiero in

Genova 1989.

42 Si veda: ivi. pag. 129. E: Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag. 403. Ed. Morcelliana, Brescia.

43 Gli esempi rinvenibili sono molteplici, uno tra tutti è l'intero Cap. 49, in: Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 296. Ed. Longanesi, Milano 1971.

44 Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pag. 129. Ed. Marietti, Genova 1989. Cfr, seppure la significatività delle parole che richiamano il termine salvezza lasci un poco a desiderare, F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pagg.28-29. Ed. Urbaniana University Press, Roma 2004.

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quanto filosofico-speculativo) allora non “è più” l'esserci (nel suo tanto intrinseco e necessario, quanto essenzialmente frainteso e misconosciuto, legame all'essere), ma proprio l'essere stesso (esser-ci). Il cardine, l'asse del pensare heideggeriano si è assestato. Anche questo è Kehre. Diciamo assestato più che non spostato, e lo facciamo con coscienza di causa tenendo conto che l'essere è sempre stato ciò cui la tensione del pensare heideggeriano pone ed ha posto, quantomeno, come problematica e tematica filosofica. Tenere questo ben presente ci aiuta ad intravedere l'unità di direzione nella tensione del pensare heideggeriano, nonché la non separazione della sua filosofia in due tronconi. Se Sartre può asserire, esistenzialmente (da intendersi: corrente filosofica), che è giunto il tempo in cui si ha primariamente l'uomo (e gli uomini) e con il pensiero si è quindi giunti sul piano dell'uomo, Heidegger invece scorge chiaramente come in tutto questo sia l'essere il ciò che è da-pensare da parte del pensiero45. Nel parlare heideggeriano le non casuali lineette che, come abbiamo visto due capoversi più sopra, caratterizzano ora, per la nostra trattazione, il termine e-sistenza (come colto nella Lettera), caratterizzano anche il termine esser-ci nei Contributi. O meglio, caratterizzano tale termine successivamente alla Kehre. In verità siffatto termine (esser-ci) compare già in Essere e tempo, relazionato all'essere-nel-mondo che lo costituisce46. È anche vero però che, sempre nell'opera capitale, il “ci” è detto apertura essenziale ove (non nel senso di un dove-qui) si dà la spazialità esistenziale dell'esserci (solo e se si dà questa si ha una spazialità dello spazio in senso lato in quanto tale, cioè un “qui” e “là” generici). Ovvero, in Essere e tempo, il “ci” è pro-getto in quanto getto (pare: dal e dell'esserci) che costituisce l'essere-nel-mondo dell'esserci stesso, e quindi è ciò che l'esserci, in quanto esserci, ha sempre da-essere (a posteriori, da ciò se ne “ricava”, ne emerge, uno sfondo in quanto “comprensione” dell'essere come esserci e “ci” dell'esserci). Ma, accennavamo, solo dopo l'esperienza denominata Kehre, come nei Contributi, abbiamo sempre l'esser-ci. Lo si intuisce facilmente, leggendo quest'opera, dalle innumerevoli volte in cui tale termine vi sta scritto. Rinnoviamo ora la nostra attenzione al “ci”, ma dell'esser-ci. Il “ci” dell'esser-ci (il “Da” del Da-sein) si pone, generalmente, in quanto ciò che caratterizza l'essere di quell'ente che noi stessi sempre siamo. Nei Contributi questo “ci” viene però ri-pensato e colto come radura dell'essere47 avente carattere dell'e-sistenza. La Lettera, in questo come in

45 Detto in altro modo: “Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezung) dell'essere all'essenza

dell'uomo”.Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag. 31. Ed. Adelphi, Milano 2002. 46 Per esempio: Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 165. Ed. Longanesi, Milano 1971. 47 Anche se, seppure “limitato” alla temporalità, già in Essere e tempo si parla dell'esser-ci come “aperto

nella radura”. Ivi. pag. 415. Ma è solo nei Contributi che l'esser-ci così posto trova, in quanto “figura” della filosofia heideggeriana, un luogo adatto per dirsi con completezza nel pensiero.

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altro, esplica filosoficamente il pensare scaturito nella Kehre e viene così ad indicarci il pensare costitutivo dell'opera a cui ci siamo posti di fronte: “L'uomo è il “ci” in sé aperto. È in questo “ci” che l'essente si mantiene e viene in opera”48. “L'uomo è essenzialmente (West) in modo da essere il “ci” (Da), cioè la radura dell'essere. Questo “essere” del “ci”, e solo questo, ha il carattere dell'e-sistenza, cioè e-statico stare dentro nella verità dell'essere. L'essenza e-statica dell'uomo riposa nell'e-sistenza”49. Non ci addentreremo qui oltre nella tematizzazione della heideggeriana verità dell'essere, or ora intravista appena. Da notare invece, all'interno dell'ultima citazione trascritta, come il termine essenzialmente (l'uomo è...) ed il termine riposa (l'essenza e-statica dell'uomo...) possano rivelare una discrepanza non meglio delineata tra uomo ed esser-ci (nonché tra l'uomo e lo stesso “ci”). Premettiamo che di tale non meglio delineata discrepanza ci occuperemo durante tutto il rimanente sotto paragrafo, anche se non ovunque in modo esplicito. Nel punto in cui siamo risulta perciò più pressante, quindi per noi opportuno, dirigere lo sguardo all'esser-ci ed a ciò che esso comporta dopo la Kehre. Indirizziamo per cui, coerentemente, la nostra attenzione ai soli Contributi (nonché a qualche altro scritto successivo alla Kehre, ma non distante più di una ventina di anni da questa) ed a ciò che codesta opera ha da comunicarci al riguardo. “In Essere e tempo l'esser-ci ha ancora la sembianza dell'”antropologico” e “soggettivistico” e “individualistico” e così via, eppure ha di mira il contrario di tutto ciò; certo non come qualcosa che ci si proponesse fin dall'inizio e in via esclusiva”50. Non è forse questa affermazione riferita al “cambiamento” avvenuto nel luogo della “figura” dell'esserci, o meglio, nel percorso del pensiero filosofico che ad essa porta (ma non in ciò che in essa si ha di mira)? Il che significa lo stesso di: non è questa affermazione nettamente riferentesi al radicale, sempre in agguato, fraintendimento (il linguaggio di Essere e tempo in quanto “fallimento”) dell'esserci? Si (ci parla però, anche e prima di tutto, dell'unità della tensione del pensare heideggeriano, cosa mai abbastanza ricordata). Ma se quindi, sotto l'egida della Kehre, l'esser-ci si pone, e speculativamente deve essere posto, “in quanto superamento di ogni soggettività”51, anche la trascendenza viene ri-pensata ovvero “trasformata nel progetto avvenuto-appropriato”52. Sebbene nell'uso del termine trascendenza risieda, ad ogni modo, la distorsione53 del senso e del “luogo” dell'esser-ci. Ciò che nel cosiddetto 48 Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pag. 209. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1968. 49 Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag. 48. Ed. Adelphi, Milano 2002. 50 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 295. Ed. Adelphi, Milano 2007. 51 Ivi. pag. 303. 52 F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.28. Ed. Urbaniana University Press,

Roma 2004. 53 Cfr. Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, pagg. 127-128. Ed. Adelphi, Milano 1989. E:

Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 320 (Par. 199). Ed. Adelphi, Milano

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secondo Heidegger il termine trascendenza vuole dire sta nel “ci” come radura dell'essere, ove l'esser-ci emerge. L'esser-ci appunto è essenzialmente già, ed è già-da-sempre, addentro all'apertura-diradante (il “ci”) che è (West) il darsi dell'essere pensato come essenziale permanenza (eventualità o e-venire dell'essere pensato come evento). In tale orizzonte del pensare e del cogliere anche l'inautenticità (e l'autenticità ad essa intimamente legata) si ri-pone ri-pensata: “l'esser-ci: sostenere l'apertura del velarsi -il velarsi come darsi dell'essere l'abbiamo incontrato nei paragrafi passati-. L'esser-via: praticare la chiusura del mistero e dell'essere, dimenticanza dell'essere... L'esser-via in questo senso solo laddove vi sia esser-ci. Via: l'allontanamento, la rimozione dell'Essere... Ciò è indicato in modo insufficiente nell'inautenticità”54. Esser-via ed esser-ci sorgono addentro alla “intrinseca dinamica” dell'essere pensato, dopo la Kehre, come essenziale permanenza ed evento (ovvero colto nel suo darsi: radura per il velamento). Intuire l'unicità, l'intima unitarietà di queste due “tensioni” (tensioni non da concepire come di un qualcosa), l'esser-ci e l'esser-via, è forse cosa oscura, decisamente non abituale. Ma Heidegger medesimo dice di tale unitarietà nelle parole: “l'esser-ci, come l'essenziale permanenza delle radura del velarsi, appartiene a questo stesso velarsi che è essenzialmente in quanto evento-appropriazione”55. Ma a, questo punto, l'esser-ci, così già-sempre ed inizialmente fondato nella apertura e “dalla” apertura, così “legato” nelle sue espletazioni, nella sua gettatezza, nella sua intima costituzione all'essere colto e pensato come evento (eventualizzazione, radura del velarsi) ha ancora a che fare con l'ente che noi stessi sempre siamo? Si! Con tale risposta però bisogna certo tenere conto che la prospettiva dell'analitica esistenziale ha subito, diciamo, un radicale “cambiamento” (di cui entreremo nel merito più avanti). Ma d'altronde, gli arrivi della prima sezione di Essere e tempo non vengono filtrati e “modificati” (della significatività della parola “modificati” dicasi lo stesso di quello che si è preventivamente affermato per il termine “cambiamento”) sotto la prospettiva della temporalità autentica nella seconda sezione della medesima opera56? Per cui se vi è un ri-pensamento, appunto un “cambiamento” dell'esserci e dei suoi esistenziali nel pensiero successivo ad Essere e tempo (per correttezza, successivo alla Kehre) non dobbiamo rimanerne stupiti (o comunque non siamo di fronte al tradimento heideggeriano del pensiero dell'opera capitale e dei suoi arrivi speculativo-filosofici). Dopotutto è lo stesso Heidegger ad avvisarci che “l'esser-ci nel senso dell'altro inizio è ciò che per noi è ancora del tutto strano, ciò che mai troviamo lì... Nondimeno esser-ci e uomo stanno in un rapporto

2007. 54 Ivi. pag. 301. 55 Ivi. pag. 297. 56 Cfr. Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 133, 136. Ed. Marietti, Genova

1989.

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essenziale”57. Sosteniamo qui che l'esser-ci dei Contributi ha ancora a che fare con l'ente che noi stessi sempre siamo. Ed in maniera ancor più profonda, essenziale e fondante che non nell'opera capitale. Peccato però che l'ente che noi stessi sempre siamo non venga, dallo Heidegger, mai pensato in quanto l'uomo-umano (ad esempio quello di un qualunque umanismo occidentale). Se in Essere e tempo la questione rimane parzialmente ambigua, nei Contributi essa diviene più netta. Ciò significa anche maggiormente problematica per intuire il senso del vocabolo esser-ci, se a questo abbiamo sempre in qualche modo associato l'Uomo. Andiamo ora a leggere quello che lo Heidegger ha scritto nei Contributi di esplicito a proposito della relazione tra esser-ci (che è fondazione) e uomo (nel senso più lato immaginabile); quindi, di rimando, tra l'essere come evento e l'uomo-umano (cioè: l'Uomo, l'uomo basilare determinato, l'uomo degli umanismi). In uno dei paragrafi inequivocabilmente intitolati l'esser-ci leggiamo: “non quello che si può semplicemente ritrovare nell'uomo lì presente”58. “Esser-ci vuol dire anche un “ente”... “L'ente” non è però l'”uomo”, né l'esser-ci il suo modo d'essere (come ancora in modo facilmente fraintendibile in Essere e tempo), bensì l'ente è l'esser-ci quale fondamento di un determinato essere umano...e non “dell'”uomo in sé; anche su questo in Essere e tempo non c'è abbastanza chiarezza... Esser-ci -l'essere che contraddistingue l'uomo nella sua possibilità; dunque non vi è più alcun bisogno dell'attributo umano”59. Qui l'esser-ci, chiamato anche ciò che è degno di domanda60, è “luogo” ove subentra l'essere umano spostato “via da sé”61. Nell'esser-ci “va spostato l'essere umano per mostrargli così l'altro inizio”62. In un paio di periodi logici, aventi per argomento la fondazione e l'esser-ci, leggiamo essere in gioco “in un certo modo l'uomo -eppure ancora una volta non l'uomo”63. “L'esser-ci è essenzialmente diverso dalla semplice determinazione formale del fondamento dell'essere umano, che non ci riguarda”64. Andando poi a leggere altrove, giustappunto riguardo l'umanità (concepita nella significatività di fondamento determinato formalmente), o meglio non l'umanità ma una delle umanità, troviamo che “la forma consiste nella compagine essenziale di un'umanità che, come subiectum, è a fondamento di tutto l'ente... A formare la soggettività...è la presenza prefigurata e preformata di una specie d'uomo (di un tipo)... Certo, sul fatto che qui è in gioco l'essere umano non c'è alcun dubbio. Ma l'essere (Wesen) dell'uomo, l'“esserci nell'uomo” non è nulla di umano –nulla di antropologico in 57 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 297. Ed. Adelphi, Milano 2007. 58 Ivi. pag. 294. 59 Ivi. pag. 300. 60 Cfr. ivi. pagg. 313, 312. 61 Ivi. pag. 313. 62 Ivi. pag. 323. 63 Ivi. pag. 312. 64 Ivi. pag. 308.

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senso ampio-”65. Si intravede qui, quantomeno, un intimo rimando tra la metafisica (heideggerianamente intesa) o storia dell'Occidente, ovvero il dominante, e l'uomo come io-soggetto rappresentante e oggettivante la realtà. Non a caso, nelle stesse pagine da cui abbiamo estratto l'ultima citazione, si riprende con l'interpretazione di Cartesio66 il progetto della decostruzione della metafisica. Infine, ricordiamo di come l'inautenticità sia “divenuta”, nei Contributi (dopo la Kehre), l'esser-via poco più sopra incontrato? Se teniamo conto che l'inautenticità in Essere e tempo è presentata come una delle due modalità in cui l'esserci può attuare il suo “poter essere”67, risulta allora maggiormente chiara la, definiamola momentaneamente così, “diversità” (un aspetto rilevante di quel “fraintendibile persistente” nell'opera capitale) che attraversa esser-ci e uomo quando leggiamo, al paragrafo 201: “Se...l'esser-ci è esperito come fondamento...dell'essere umano e con ciò condotto a sapere che l'esser-ci è solo attimo e storia, allora il comune essere umano deve essere determinato, in base a ciò, come esser-via. Esso è “via” dal far fronte al Ci ed è interamente presso l'ente in quanto ciò che è lì presente (dimenticanza dell'essere). L'uomo è il via. L'esser-via è un termine più originario per dire l'inautenticità dell'esser-ci. L'esser-via, questo modo di operare su ciò che è lì presente, visto dal “Ci” e a esso appartenete”68. L'esser-ci è già-da-sempre l'uomo eppure mai come lì presente. Non l'uomo-umano è però l'esser-ci. Esser-ci è fondamento, fondamento fondante, e proprio in quanto ciò l'esser-ci non è l'uomo-umano, l'uomo-umano non fonda bensì è già-da-sempre addentro l'apertura dell'essere. Tanto addentro da esserne essenzialmente, cioè come esser-ci, quella medesima apertura a cui appartiene. È qui che si radica l'autenticità del primato ontologico, nel “ci” come pensato e fino a questo momento proposto. Il fondamento fondante non va categoricamente inteso nella prospettiva metafisica, cioè in quanto basilarità, principio, a priori trascendente. Tutte queste sono determinazioni dell'essere come enticità e semplice-presenza, figlie della visione metafisica tanto invisa allo Heidegger. Nel pensiero dei Contributi l'uomo-umano non è ridotto all'esser-ci, tuttalpiù quello si svapora s-coprendo: esser-ci (l'essere suo più proprio nel come). Con ciò però non si comprenda che esser-ci sia, per il principio di non contraddizione, nella medesimezza con l'essere! 65 Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, pagg. 125, 126. Ed. Adelphi, Milano 1989. L'umanità

come subiectum determinante è ramificazione della metafisica. “Non dobbiamo prendere l’uomo come si presenta nelle proprietà finora note”. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 440. Ed. Adelphi, Milano 2007.

66 Cfr. Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, pag. 127 Ed. Adelphi, Milano 1989. 67 Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 61. Ed. Longanesi, Milano 1971. L'inautenticità si articola

durante l'intera analisi esistenziale svolta dal testo, emergendo in quelle forme inautentiche dell'esistenza, solo a titolo esemplificativo si veda: Martin Heidegger, Essere e tempo, par. 24. Ed. Longanesi, Milano 1971. Del medesimo tenore: Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pagg.163, e 277-278. Ed. il Melangolo, Genova 1999.

68 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 321. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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Così parlare dell'uomo diviene altrettanto difficile che parlare dell'esser-ci. L'uomo non è nell'esser-ci, e quindi nel pensare ad esso conforme cioè rivolto all'essere e non all'enticità, colto e accolto né come umano in senso ampio, né in quanto avente quegli aspetti di dignità, sia morali che naturali, tanto chiacchierati, né in quanto animale razionale. Nemmeno l'uomo è solo genericamente animale o organismo biologico di una particolare specie, e nemmeno è pensato come un generico stare coscientemente tra le cose che esistono. Anche queste determinazioni nient'altro sono che figli della visione metafisica, che è visione antropologica (nonché già-da-sempre in un certo qual modo antropocentrica). Se nel pensare dello Heidegger “l'uomo è tale soltanto sul fondamento dell'esserci nell'uomo -esser-ci-, -allora- la questione relativa a ciò che è più originario dell'uomo stesso non può...essere una questione antropologica. Ogni antropologia...pone in partenza l'uomo come già uomo”69. Così l'uomo “però” non ha alcunché di genericamente umano, tanto che l'esser-ci, per il pensare dominante, può presentare un'assurdità: esso (il pensare dominante) infatti non saprebbe nemmeno come riferirsi a un tale ente che noi stessi sempre siamo (l'esser-ci). Perciò non ci sorprende poi che, dicendo l'ente che noi stessi sempre siamo, il pensiero dominante non oda appunto niente di più che una tautologia riguardante la definizione dell'uomo-umano. Ma è proprio dicendo dell'uomo (di quell'esso che è già sempre noi): l'ente che noi stessi sempre siamo, che può sorgere essenzialmente l'accenno all'esser-ci. Ciò nel e col (seguendo il) pensare dello Heidegger. In altre parole, nel dominante o visione metafisica, quando e se io preparo un qualsiasi discorso vertente sull'uomo, pur non volendo in nessun modo dar definizioni di questo, o anche solamente pensandolo e stando in silenzio, il mio riferimento va all'uomo-umano di uno degli umanismi dell'Occidente, un tal uomo-umano è sorto già-prima di ogni mio discorrerne, pensarne o starne in silenzio70. Giungendo più in profondità, l'uomo-umano è si certo essenzialità degli uomini in quanto enti, ma appunto, in quanto generalmente enti, essenzialità nel senso dell'enticità e dell'essere come semplice-presenza. Uomo è colui che ha un'anima, o è l'anima stessa, o ancora è la materia cellulare caratterizzata da una certa evoluzione? Uomo è colui che crea cultura o colui che imita la natura? Uomo è l'appartenente alle prime tre caste indù o qualunque essere raziocinante? L'uomo è tale da quale momento della sua esistenza? O egli lo è da imperituro tempo? Uomo è chi supera sé? Uomo è coloro che si differenziano da un dio? Uomini sono i greci ed i romani civilizzati oppure i barbari? 69 Martin Heidegger, Kant e il problema della metafisica, pag. 197. Ed. Laterza Roma-Bari 1985. 70 Un discorso avente analogie con questo, o comunque fino ad un certo punto congruente ad esso, è

riscontrabile in: Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pagg. 290, 294-297. Ed. Morcelliana, Brescia.

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Ognuna di queste domande potrebbe dirigersi all'ente che noi stessi sempre siamo in modalità differenti o già orientate verso conclusioni differenti. Ma la questione, per noi, è che nessuna di queste domande, nel proprio domandare, può porsi o esser posta senza quel fondamento, in esse implicitamente assunto nell'oblio, che è ri-chiamato nella parola esser-ci del pensare heideggeriano. Purché un tal fondamento fondante non sia nemmeno solo concepito, teorico-speculativamente o meno, addentro all'orizzonte dell'opposizione essentia/existentia. Esso deve invece cogliersi heideggerianamente come originarietà. “L'uomo è uomo in quanto è Dasein...ossia...è più originario dell'esser uomo”71. Rinnovando una tale ottica al nostro pensare possiamo affermare: esser-ci non è assolutamente l'espressione maggiormente corretta per designare l'ente uomo che noi stessi sempre siamo, ma la più essenziale. La qual cosa è non meramente differente, bensì altra72. Non dobbiamo però trasbordare di troppo dalla tematica proposta in questo sotto paragrafo, e poiché nel pensare heideggeriano esser-ci emerge in un essenziale legame con l'essere pensato e colto come Ereignis, ci sembra opportuno dirigerci in codesto nucleo medesimo dei Contributi: l'evento. A maggior ragione proprio se, in definitiva, discorriamo di ciò che è la fondazione. “L'esser-ci, come l'essenziale permanenza della radura del velarsi, appartiene a questo stesso velarsi che è essenzialmente in quanto evento-appropriazione”73. Solo in questa prospettiva dell'essere si può parlare dell'“uomo”, o meglio “uomo-segno”, come di colui che è “anzitutto e fondamentalmente uomo in quanto è tratto nel movimento del sottrarsi, è in marcia verso questo e in tal modo è colui che indica il sottrarsi stesso. La sua essenza risiede nell'essere un tale indice... Questo segno indica verso qualcosa che si sottrae, l'indicare non può immediatamente far vedere in modo chiaro ciò che qui si sottrae”74. Gli uomini sono coloro che, nell'essere ciò che già-sempre sono, indicano comunque verso ciò che nel darsi dell'essere stesso si sottrae (quindi si vela). Codesto “ciò” è la “dinamica” dell'essere come evento, ciò che facendo essere l'ente necessariamente non perviene all'apparenza (alla soglia, alla luce dell'apparire come modo di essere dell'essere) esso stesso come qualcosa che è lì-presente, ma che di lui si può dire essere (“rimanere”) permanenza essenziale (Wesung). Infatti, d’altro canto, solo in codesto “luogo” aperto che è l'ente che noi stessi sempre siamo può darsi dimenticanza e oblio dell'essere. Al fine della comprensione, da notare che, nella citazione trascritta, il pensare sull'esser-ci si insedia, perviene al pensiero, in quel “anzitutto e 71 Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.362. Ed. Morcelliana, Brescia. 72 Questa affermazione può essere estrapolata addirittura fin dal dire risiedente nel primo capoverso de:

Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 25. Ed. Longanesi, Milano 1971. 73 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 297. Ed. Adelphi, Milano 2007. 74 Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 90. Ed. Mursia, Milano 1976.

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fondamentalmente” (di colui che è...). Dire parlando sull'evento nei termini di “accadere essenziale complessivo dell'essere come coappartenenza della verità appropriante dell'essere con l'esser-ci appropriato dell'uomo”75, per quanto le parole appropriato e coappartenenza rivelino una non lì (lì: in quel momento del parlare) rischiarata discrepanza, convoglia il pensare ed il cogliere, e sempre-nuovamente li invoglia, all'esser-ci come existentia76. O comunque, sostanzialmente tende ad una qualche modalità di ciò che è come lì-presente, ovvero in quanto ponentesi già-da-sempre addentro al cerchio dell'apparire (sempre da intendersi come il, o “un”, modo di essere dell'essere) come lì-presente. Si palesa però, in quest'ultima trascrizione, un termine intimamente legato all'esser-ci ed al “Ci”, entrambi in quanto fondazione. Esso è la verità. O meglio la verità dell'essere, cioè verità. “Esser-ci è il far fronte all'essenziale permanenza della verità dell'Essere”77. Come accennavamo all'inizio, anche verità è fondamento. D’altronde, riferirci all’essenza della verità ed intraprendere la questione della verità dell'essere può forse chiarirci (nel pensare), nel rischiararsi a sua volta, ciò che viene detto con esser-ci e “Ci” dell'esser-ci.

Verità “È alla verità come apertura del velarsi che l'esser-ci è riferito... Progettando -il richiamo qui è al getto ed al progetto, ancora non “positivamente” delineati in Essere e tempo78- l'aperto per l'essere. Esser-ci come progettazione della verità dell'Essere (“Ci”)”79. Addentro a quel fatto indomandato ma degno di domanda, indicato dallo Heidegger col termine esser-ci, vi è costitutivamente in gioco la “fondazione della verità dell'essere”80. Nel sopraddetto intimo legame, che stiamo certo ancora delineando (evento, apertura del velarsi), tra essere (Wesung) ed esser-ci si staglia la questione della verità dell'essere, o verità originaria. Tra le pagine dei Contributi da cui abbiamo preso le mosse per il precedente sotto paragrafo possiamo rinvenire un pensiero (trascritto in frase) riguardante proprio lo stagliarsi appena nominato, esso recita: “l'essenza dell'esser-ci...è il 75F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.21. Ed. Urbaniana University Press,

Roma 2004. 76Lo stesso può affermarsi, a parere personale, riguardo la spregiudicatezza con cui il termine uomo viene

inserito all'interno della sintesi riguardante i Contributi in: Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pagg.420, 421. Ed. Morcelliana, Brescia.

77 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 310. Ed. Adelphi, Milano 2007. 78 Al di là del giudizio negativo espresso implicitamente su Essere e tempo, la gettatezza viene accolta,

seguendo ri-pensamento insito ai Contributi, e proposta a livello filosofico in quanto getto (-a) appropriante e progetto appropriato in: F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pagg.29, 45. Ed. Urbaniana University Press, Roma 2004.

79 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 295. Ed. Adelphi, Milano 2007. 80 Ivi. pag. 312.

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salvataggio della verità dell'essere...nell'ente”81. Possiamo così rischiarare l'esser-ci, quindi la fondazione come esser-ci e l'inverso, ponendolo come salvataggio (della verità dell'essere) dell'essere nell'ente. E con ciò? Con ciò si dice della verità in senso eminente. Quand'anche non si cogliesse il suo dire. Ma, cosa comportano (com-portano) verità dell'essere e salvataggio per l'esser-ci e la verità, entrambi come fondazione (la posizione speculativa che guida interamente il presente paragrafo); ovvero cosa comportano verità dell'essere e salvataggio per lasciar mettere a fuoco la fondazione medesima? Dunque, seguendo il pensare dello Heidegger e riconnettendoci ai temi dei paragrafi passati, “è diventato un problema quello che nel primo inizio non poté diventarlo: la verità stessa... L'altro inizio è il salto che trasformando l'Essere, entra nella sua più originaria verità”82. Nell'altro inizio, in quanto si è nella distanza dal primo inizio, può cogliersi il permanere indomandato dell'essenza della verità (άλήθεια), un tale “mancato accadere ha destinato fin da principio il pensiero occidentale ad essere “metafisica”... Perciò la domanda della verità è il primo passo verso l'essere pronti. Questa domanda della verità...terrà in futuro quest'ultima al di fuori delle regioni”83 del dominante o metafisica. Ma come la verità è stata domandata in tal modo? Come il pensare heideggeriano è giunto a coglierla? Ovvero, come il pensare heideggeriano coglie “verità”? Innanzitutto, nella prospettiva del pensare heideggeriano “la verità e l'essenziale presentarsi dell'Essere sono ciò che viene per primo e non ciò verso cui deve mirare il trascendimento”84. Anche in codesta affermazione si coglie quel rammemorante in quanto costitutivo predicato del pensare autentico, ma soprattutto si è già “avvertiti” di un'inversione di prospettiva. Inversione in cui il trascendere, per come è già-sempre e perlopiù colto (quindi anche pensato) addentro al dominante, svapora. In codesta inversione risiede essenzialmente il discorso “heideggeriano” sulla verità dell'essere. Ma, di nuovo: per quali strade si giunge a questa inversione? E quali sentieri del pensiero si irradiano addentro quest'ultima? La tematica dell'esser-ci, sopra sviluppata senza un qualche punto d'arrivo definito, è stata condotta partendo dai contenuti, vertenti appunto su tale “figura”, riscontrati in Essere e tempo. È giunto per noi il momento di tornare all'opera capitale. Stavolta però il nostro interesse e la nostra analisi mirano al discorso vertente sulla tematica della verità. Ed in particolar modo quest'ultima colta esplicitamente come correttezza. Quest'ultimo termine caratterizza la verità nel suo attuale essere colta. L'odierno dominante è concepire verità come correttezza. Si inserisce qui tutta quella particolare “critica” che Heidegger conduce nei confronti della 81 Ivi. pag. 307. 82 Ivi. pag. 194. 83 Ivi. pag. 196. 84 Ivi. pag. 194.

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scienza in generale, nonché l'avversione al metodo teorico-scientifico più che largamente condiviso85. Ma non si tratta un conflitto scienza/filosofia (o materie dello spirito in genere), il cui vincitore acquisirebbe lo status di maggiormente veritiero; non è questo ciò di cui qui si va discorrendo! Se così fosse non si uscirebbe di una virgola dai ranghi della metafisica. Sbaglieremmo nell'affermare che ciò di cui qui si va discorrendo è tutto il contrario, bensì diremo che altro è ciò a cui qui andiamo accennando. Perciò avvertiamo: il discorso che ha da intraprendersi, sulla base teoretica di Essere e tempo, riguarda la verità dell'essere poiché è un tentativo finalizzato ad evitare una incomprensione legata, appunto, alla significatività del termine verità. Ma, ancora, incomprensione e comprensione non sono qui delle questioni meramente intellettuali, o di accordo su parametri comunicativi. Le tematica, vertente sulla verità, contenuta in Essere e tempo si origina in seno all'analitica esistenziale. Ed ivi trova anche la sua “limitatezza”. Quantomeno limitatezza, per il pensare, sul piano filosofico-speculativo. É risaputa, almeno a livello informativo, l'ermenesi che Heidegger attua nel termine άλήθεια. Ad essa si verrà approfonditamente in seguito. Ma di tale attuazione si ha comunque traccia nella ““definizione” della verità come esser-scoperto ed esser-scoprente... -La quale- trae origine dall'analisi dei comportamenti dell'Esserci che noi, innanzi tutto, siamo soliti dire “veri” ”86. La verità è qui, in senso heideggeriano, esistenzialmente ricondotta all'esserci. La verità in quanto esser-scoprente è un modo di essere dell'Esserci. “Lo scoprire è un modo di essere dell'essere-nel-mondo. Il prendersi cura preveggente ambientalmente...scopre l'ente intramondano. Questo si fa allora scoperto. In quanto tale è “vero” in un senso secondo. Primariamente “vero”, ossia scoprente, è l'Esserci”87. Si può allora dire che “solo i fondamenti ontologico-esistenziali dello scoprire mettono a nudo il fenomeno della verità più rigorosamente originario”88. Nell'analitica esistenziale l'esserci porta cooriginariamente in sé l'esser-scoperto dell'ente intramondano. Qui si incardinano sia il significato di effettività dell'esser-gettato, appunto in un determinato mondo di enti intramondani, sia il progetto, “cioè l'aprente essere-per il proprio poter-essere”89, i quali poi fanno parte della costituzione d'essere dell'esserci. L'esserci è quindi comprendente; ricordiamoci che la comprensione è

85 A titolo d'esempio, cfr. Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pagg. 32-33 (rimando esplicito

alla questione della verità in senso ampio, la verità rispetto alle nozioni; poi più nel profondo sulla verità come verità dell'essere), 54-54 (ivi stanno lampanti rimandi al problema della scienza, metodo scientifico, e della sua sussunzione del sapere di ogni tipo). Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990. Oppure cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 423-430. Ed. Longanesi, Milano 1971.

86 Ivi. pag. 266. 87 Ivi. pag. 266. 88 Ivi. pag. 266. 89 Ivi. pag. 267.

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un'esistenziale heideggeriano90. Per cui, in quanto comprendente, “l'Esserci...può comprendersi partendo dal -(da un)- “mondo” e dagli altri oppure dal suo poter-essere più proprio. Quest'ultima possibilità,...questa apertura autentica mostra il fenomeno della verità più rigorosamente originario... L'apertura più rigorosamente originaria e autentica in cui l'Esserci, in quanto poter-essere, può essere, è la verità dell'esistenza”91. In egual modo costitutiva dell'esserci è l'altra possibilità, quella di comprendersi da un “mondo”, ed è da essa che sopravviene l'immedesimarsi nel Si, cioè essenzialmente qui riposa l'inautenticità. Codesto qui è denominato deiezione. La deiezione porta l'aperto a cadere “nei modi della contraffazione e della chiusura... L'ente non è nascosto del tutto, anzi è scoperto, ma ad un tempo contraffatto; si mostra ma nel modo della parvenza. Parimenti ciò che prima era stato scoperto risprofonda nella contraffazione e nel nascondimento”92. Tutto ciò significa, è, risiedere nella “non verità”, e questo in senso ontologico (non ontico) ma non in senso assiologico o metafisico. Tutto ciò è la significatività riposta in άλήθεια, s-velatezza. ““l'Esserci è nella verità” porta con sé cooriginariamente: “l'Esserci è nella non verità”. Ma solo in quanto aperto l'Esserci è anche chiuso”93. Nel modo della deiezione vi trova fondamento l'intero percorso ontico. In quella, sopra menzionata, possibilità cooriginaria all'Esserci, ovvero il comprendersi partendo da un “mondo” o dal “mondo”, si radica l'immedesimazione dell'Esserci stesso nel prendersi cura (che non è la Cura, l'esistenziale unificatore della “figura” dell'Esserci): “l'Esserci si comprende a partire da ciò che incontra dentro il mondo. L'esser-scoperto appartenente allo scoprire è incontrato innanzi tutto nel mondo in ciò che è es-presso. La verità è così esperita come semplice-presenza. Ma non è soltanto la verità ad essere incontrata come semplice-presenza, bensì la comprensione dell'essere in generale comprende innanzi tutto ogni ente come semplice-presenza... Questa comprensione dell'essere dell'Esserci, che si impone innanzi tutto e che a tutt'oggi non è stata RADICALMENTE e ESPLICITAMENTE superata, nasconde il fenomeno originario della verità”94. Proprio da questo dire dello Heidegger si irraggiano le “critiche” ed i ri-pensamenti sulla visione scientifica, tecnica, razionalista95. Ma soggiacente a tutte queste “critiche” è la radicale messa in discussione, meglio, la messa

90 Cfr. Ivi. Par. 31, e di rimando par. 32. 91 Ivi. pagg. 267-268. 92 Ivi. pag. 268. 93 Ivi. pag. 268. Il legame (rimando), insito nella deiezione, all'autenticità si lascia enucleare

speculativamente, certo in una operazione di estrapolazione e momentaneamente solo a maniera di generico spunto, nel testo: Günter Figal, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, pagg. 199-200. Ed. il Melangolo, Genova 2007.

94 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 272. Ed. Longanesi, Milano 1971. 95 Solo a titolo riassuntivo ed esemplificativo, ivi. pag. 273.

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in gioco, dei postulati logici96, della verità come correttezza e della sua implicita ovvietà. Tale radicalità “critica” appare assai evidente nei Contributi. In questi, parlando della verità nella visione della logica, ovvero del dominante, si legge: “per verità si intende un oggetto del computo e del calcolo, e si pone come canone la pretesa di definitiva comprensibilità da parte dell'intelletto meccanico quotidiano... Una simile pretesa non ha infatti alcuna necessarietà poiché le manca la necessità, dal momento che deriva il suo apparente diritto dall'assenza di necessità dell'ovvio... E che cosa c'è di più ovvio della “logica””97. La “critica” heideggeriana all'io formulato da Cartesio muove nella stessa direzione: il “rap-presentare dell'io-rap-presento è la certezza, il sapere che è saputo come tale”98. Dell'odierna oggettività soggettiva (o volontà di obbiettività) si può affermare, riportandola nel grembo della verità-correttezza, che “laddove la verità si vela sotto la forma della “ragione” e del “razionale” è all'opera la sua malaessenza, quella potenza distruttrice di ciò che è valido per tutti, tramite cui chiunque trova a piacimento le proprie ragioni... Questo “incantesimo” della validità generale è ciò che il dominio dell'interpretazione della verità come correttezza ha consolidato e reso quasi incontrovertibile”99. Dunque, concentrandoci nuovamente su Essere e tempo, la verità come correttezza (fondata nell'esperire la verità, nonché l'essere, come semplice-presenza, su ciò insisteremo di seguito), cioè correttezza riscontrata nel giudizio o asserzione che possono così dirsi per l'appunto vere o veritiere, nonché la soggiacenza della sua presupposizione implicita, sono un'importante obbiettivo “critico”, esplicito o meno, di tutta l'opera capitale. E ciò su più piani. “L'asserzione non solo non è il “luogo” primario della verità ma, al contrario, in quanto modo di appropriazione dell'esser-scoperto e come modo dell'essere-nel-mondo, si fonda nell'attività scoprente, cioè nell'apertura dell'Esserci. La “verità” più originaria è il “luogo” dell'asserzione e la condizione ontologica della possibilità che le asserzioni possano essere vere o false”100. Vero e falso vengono così ad essere, “solamente”, intrinseci predicati della verità colta

96 Per un riassunto sulla speculazione heideggeriana vertente l'intimità del legame tra il logico principio

di ragion sufficiente, la verità come correttezza e l'asserzione, cfr. Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 182-184, 221. Ed. Marietti, Genova 1989. Esempio speculativo di una tale messa in discussione si ha fin dagli esordi del pensiero heideggeriano, impegnato nella “sagomatura”, per lo meno teoretica, della “figura” dell'esserci non in quanto soggetto: Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 147, primo capoverso. Ed. il Melangolo, Genova 1999. Ivi, inoltre, si può intravedere quella mala-interpretazione di cui discuteremo poi, in questo scritto.

97 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 325. Ed. Adelphi, Milano 2007. Cfr. anche, sull'ovvietà dell'“io” come l'indomandato che si trova posto di fronte agli oggetti oggettivizzati, Ivi. pag. 349.

98 Ivi. pag. 332. 99 Ivi. pag. 338. 100 Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 272-273. Ed. Longanesi, Milano 1971.

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come correttezza. Vero e falso stanno già in una pre-determinatezza, ed essenzialmente non hanno assolutamente a che fare con l'oggettività come “posizione ultima raggiungibile”. “La precognizione che si accompagna cooriginariamente all'asserzione passa per lo più inosservata perché il linguaggio porta con sé una concettualità già formata... Ciò che la logica costituisce a tema nella proposizione asseverativa categorica, ad esempio “il martello è pesante”, essa lo dà già sempre per compreso “logicamente” senza bisogno di analisi di sorta”101. Urge affermare fin d'ora che ad un tale dominio della verità-correttezza si accompagna, nello sguardo della “critica” heideggeriana, la modalità della rap-presentazione. Con tale terminologia il nostro pensatore di Meßkirch non intende un mero porre immagini, sottratte dalla realtà, nella propria interiorità. Teniamo però conto che, quest'ultima frase, dopotutto, è comunque pertinente al discorso heideggeriano sulla rap-presentatività. Ad ogni modo, a proposito di ciò, nell'opera capitale, seppur sotto l'ottica dell'analisi esistenziale dell'esserci, si chiarisce cosa debba intendersi per rap-presentatività: ad un “avvicinamento specifico che interpreta preveggendo ambientalmente diamo il nome di riflessione...Il portar-vicino il mondo-ambiente ha il senso esistenziale di una presentazione...la rap-presentazione è...un modo di questa. Nella rap-presentazione la riflessione si raffigura direttamente ciò che le occorre e non ha a portata di mano. La previsione ambientale rap-presentativa non ha a che fare con -quelle che noi chiameremo, con accezione di pochezza, delle- semplici rappresentazioni”102. Il modo della rap-presentatività tornerà incisivamente sia nei Contributi che in molti degli scritti successivi a Sein und Zeit. Così facendo Heidegger focalizza i percorsi (nell'oggi già-da-sempre sgombri e spianati) che il pensare non deve seguire. Solo così egli potrà affermare, sull'orizzonte del suo stesso pensiero: “nulla è tale in questo ambito da conseguire una dimostrazione, qualcosa però può essere mostrato”103. Ma torniamo da dov'eravamo partiti: la verità-correttezza. “Tanto meno l'orientarsi rap-presentativo su ciò che è dato potrà rendere visibile l'essenza del vero, la verità: semmai sempre solo la correttezza”104. La correttezza della rappresentatività è il nostro quotidiano “rigore”. Tale “rigore” ha un'ovvietà radicata e strutturale alla quotidianità, a ciò che risulta maggiormente prossimo e confacente. Cotale quotidianità nell'opera 101 Ivi. pag. 193. Più in estesamente, nell'ottica dell'analisi esistenziale, per l'asserzione in quanto modo derivato,

derivato da un esistenziale dell'esserci, si rimanda a: Ivi. pag. 190-196. Il caso esemplare del martello viene ripreso più oltre, nell'analisi del comportamento teoretico-scientifico di una modalità di comprensione teoretica dell'ente intramondano, Ivi. pag. 427-428.

102 Ivi. pag. 424-425. In conclusione, per la verità come verità dell'asserire e del giudizio (oggettività, obbiettività) vedasi: Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pagg. 180-181, 191-192, 197. Ed. il Melangolo, Genova 1999. Inoltre, sulla struttura dell'asserire: ivi. pag. 200.

103 Martin Heidegger, Identità e differenza, in Aut Aut fascicoli 187-188 gennaio-aprile 1982, pag. 3. Ed. La nuova Italia, Firenze.

104 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 438. Ed. Adelphi, Milano 2007

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a cui ci siamo posti difronte si delinea o è esplicitata, infatti, come costruita (non nel senso di puro costrutto, ma nel senso fattuale della parola) “nella certezza del rappresentare e nella sicurezza del calcolare e delle esperienze vissute”105. Infine concludiamo, produttivamente per la nostra tematica, questa sezione di rinvii ad Essere e tempo. Ri-pensando il carattere gnoseologico dell'obbiettività della scienza e del suo progresso, sempre addentro all'analisi esistenziale la quale, nella prossima citazione, ha generalmente di mira la comprensione teoretica dell'ente intramondano, Heidegger non manca di mettere in rilievo una non meglio definita cooriginarietà della “figura” dell'esserci ad un dire comunque vertente alla verità nella sua essenza. “Nel progetto matematico della natura ciò che è decisivo...è...l'apertura di un a priori proprio di questo progetto. Quindi il carattere esemplare della scienza matematica della natura...consiste...nel fatto che in essa l'ente tematico è scoperto così come unicamente un ente -proprio in quanto tale- può essere scoperto, cioè nel progetto preliminare della sua costituzione d'essere... L'esser-presso oggettivante la semplice-presenza intramondana prende il carattere di una presentazione eminente... -Tale- scoprire...si aspetta esclusivamente la scoperta della semplice-presenza. Questa aspettazione della scoperta si fonda esistentivamente in una decisione dell'Esserci mediante la quale esso si progetta nel poter-essere nella “verità”. Questo progetto è possibile perché l'essere-nella-verità costituisce una determinazione dell'esistenza dell'Esserci”106. Ivi sta esplicitata la base filosofico-speculativa di tutto il discorso sulle scienze e sull'esperimento, nonché dell'essenziale ri-pensamento della tecnica. Gli uni e l'altro sviluppati, con una certa abbondanza, nei Contributi. Ma soprattutto, qui si dà adito alla sopraddetta cooriginarietà colta, trattenuta dal pensiero, ed espletata per lo più carsicamente nell'opera prima. Su (e di) tale cooriginarietà (esserci e verità dell'essere) in Essere e tempo viene sinteticamente annunciato: “il termine verità designa un esistenziale... La verità, intesa nel suo senso più originario rientra nella costituzione dell'Esserci”107. Ma la verità dell'essere permane ambigua. È Heidegger medesimo, così aiutandoci, a fare il punto tramite gli arrivi del pensiero precedente ai Contributi. Adesso domanderemo dunque: cosa menzionando verità dell'essere dobbiamo escludere? “L’espressione non significa: la “verità” “sullo” Essere, o addirittura una serie di proposizioni corrette sul concetto di Essere o un’inconfutabile “dottrina” che lo riguardi... L’espressione però non significa nemmeno: il “vero” Essere, magari secondo l’accezione poco chiara che intende l’ente “vero”, veridico, reale. Perché in questo

105 Ivi. pag 112. 106 Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 428-430. Ed. Longanesi, Milano 2005. 107 Ivi. pag. 273.

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caso è di nuovo presupposto un concetto di “realtà” che viene applicato all’Essere come criterio... Il risalire a “presupposti” e “condizioni” ha, entro…l’interpretazione dell’ente fondata sulla sua enticità nel senso della rappresentatezza…, un senso e un diritto, e si è perciò trasformato…nella forma fondamentale del pensiero “metafisico”… Fintanto che l’essere è concepito come una condizione dell’ente disposta dietro l’ente, cioè come condizione della sua rappresentatezza, della sua oggettività e, da ultimo, del suo essere “in sé”, fino allora l’Essere stesso è abbassato al livello dell’ente, della correttezza del rap-presentare”108. “Vero” e “falso”. Rap-presentatività, oggettivizzazione, verità-correttezza, il calcolare, tecnica e scienza, infine enticità, infine l'essere come semplice-presenza, tutto ciò è sia postazione di partenza che punto d'arrivo della “critica” dello Heidegger nei confronti della visione metafisica, del dominante. Non manca di sguardo lucido il pensatore di Meßkirch, non manca di comprendere il cammino del suo pensare, i “limiti” di esso, l'incamminarsi in cui permane immerso ma, al contempo, di cui è costituito. “Tutti i tentativi fatti finora, In Essere e tempo e negli scritti successivi, per affermare come fondamento dell'esser-ci stesso questa essenza della verità contro la correttezza del rap-presentare e dell'asserire, dovevano necessariamente restare insufficienti perché sono sempre stati condotti ancora con un atteggiamento di difesa, e quindi hanno sempre avuto come punto di riferimento ciò da cui ci si difendeva, rendendo perciò impossibile conoscere dal fondamento l'essenza della verità”109. Anche l'emergere di tale “consapevolezza” è Kehre. Ed è infatti in tale “consapevolezza” che viene a prodursi l'opera a cui siamo posti di fronte. D'altronde la complessiva “limitatezza” del pensare sulla verità in Essere e tempo è già stata rilevata. A tal proposito, parlando riguardo quest'ultima opera, leggiamo: “La prima sezione si è conclusa indicando nell'esserci come apertura la verità primaria: “v'è la verità solo perché e finché c'è l'esserci”. D'altra parte, l'ente è -è essenzialmente- solo in quanto appartiene all'apertura aperta dell'esserci: “v'è essere, non ente -enticità-, soltanto in quanto è la verità”. Questa apertura resta tuttavia ancora non pensata in modo originario”110. Ma il pensare scaturente dalla Kehre non porta al risultato di un abbandono dei precedenti arrivi sulla questione della verità. Anzi, parte della terminologia sviluppata nella “critica” sopraddetta è mantenuta nei Contributi, e pure dopo. Ma ora, nel dire complessivo dei Contributi, emerge la domanda “se la correttezza, che ha fondato...un simile rap-presentare l'ente e colui stesso che lo rappresenta possa fondare e determinare, in quanto essenza della verità, la ricerca e la pretesa del

108 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pagg. 113-114. Ed. Adelphi, Milano 2007. 109 Ivi. pag. 346. 110 Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pag. 84. Ed. Marietti, Genova 1989.

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vero”111. Ora l'inquadramento heideggeriano della questione della verità non deriva da un'esistenziale dell'esserci. La stessa verità-correttezza ne risulta meglio delineata: correttezza “è una “specie” di verità che resta indietro rispetto all'essenza originaria, come sua conseguenza, e che già per questo non arriva a cogliere la verità originaria”112. Ma cosa ci dicono queste ultime parole? Cosa ci possono comunicare di maggiormente approfondito, rispetto a quel che già è stato affermato nell'opera capitale, sulla questione della verità? I termini ed i contenuti ritornano parzialmente immutati, eppure è come essi vengono detti ciò che apporta una differenziazione. Rammentiamo, è il titolo essenziale, l'evento (e con esso il carattere di epocalità113 dell'essere), il taglio prospettico dei Contributi. “L'essenza della verità è il velamento diradante dell'evento. Il velamento diradante è essenzialmente in quanto fondazione dell'esser-ci; fondazione è però ambiguo. La fondazione dell'esser-ci accade in quanto salvataggio della verità nel vero che solo così è essenzialmente. Il vero fa sì che l'ente sia essente. Quando l'ente viene in tal modo a stare nel Ci, si rende rap-presentabile. La possibilità e la necessarietà del corretto è fondata. La correttezza è un'inevitabile propaggine della verità. Laddove dunque la correttezza predetermina l'”idea” di verità, tutte le vie che conducono alla sua origine sono ostruite”114. Nei Contributi è in ballo “se la verità in quanto correttezza degeneri nella certezza del rappresentare e nella sicurezza del calcolare..., oppure l'essenza inizialmente infondata dell'άλήθεια in quanto radura del velarsi giunga a un fondamento”115. Ovvero, la significatività di queste citazioni appena trascritte è essenzialmente ciò che ri-chiama l'incamminarsi del pensare costituente l'opera di cui siamo a discutere (ma mai ri-chiamo è una volontà di conoscere o sapere). Ad ogni modo, anche qui siamo giunti troppo velocemente a ciò che si voleva dire, meglio, a ciò che lo Heidegger dice sulla questione della verità. Forse la nostra rincorsa non è stata né preparata né meditata a sufficienza. Perciò, suddividiamo tematicamente gli apporti dei Contributi in tale questione. Innanzitutto affermiamo che, andando oltre i parametri dell'esistenza fissati dall'analisi esistenziale dell'esserci, la verità-correttezza (ovvero in certo qual modo la verità originaria) è nei Contributi nettamente riconnessa, o meglio reinserita, nell'orizzonte dell'oggi. Non però in senso sociologico.

111 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 349. Ed. Adelphi, Milano 2007. 112 Ivi. pag. 325. l'indietro all'interno della citazione non va concepito come causale, o logico, o in

riferimento ad una quiddità della verità, nemmeno come “negativo”, sostanzialmente manchevole. Nel proseguo della pagina citata l'autore medesimo non manca di precisarlo.

113 Per l'epocalità dell'essere cfr., seppure nella limitazione tematico-speculativa della porzione del saggio e nell'interpretazione dell'ermeneutica heideggeriana, Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 212-213. Ed. Marietti, Genova 1989.

114 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pagg. 339-340. Ed. Adelphi, Milano 2007. 115 Ivi. pag. 112.

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Nell'oggi qui significa: nell'orizzonte del contemporaneo darsi della metafisica, nell'orizzonte delle ramificazioni del dominante. Codesto orizzonte assume svariate nomenclature, se si guarda l'intero itinerario del pensare heideggeriano. Per quel che concerne i Contributi, più oltre lo incontreremo nello specifico in quanto macchinazione. Se, sulla scorta dei precedenti paragrafi, il soggiacente non-detto dell'epoca in cui noi siamo (quindi essenzialmente che costituiamo e che ci costituisce) può essere svelato al pensare volto all'originarietà in quanto abbandono dell'essere ed oblio di codesto abbandono, allora alla medesima epoca, ed in modo connaturato allo stesso “movimento”, “si accompagna...la cieca smania del “vero” sotto le sembianze del volere sul serio... L'ignoranza dell'essenza della verità; del fatto che, prima di tutto ciò che è vero, devono essere decise la verità e la sua fondazione”116. Ciò sta a dire che nell'oggi “la verità è la grande spregiatrice di tutto ciò che è “vero”, giacché quest'ultimo subito la dimentica”117. In secondo, con il pensiero vertente l'evento e l'epocalità dell'evento, quest'ultima in senso assolutamente non storicista, come darsi dell'essere torna anche tutto il filone della decostruzione della storia della metafisica; proprio ed innanzitutto riguardo alla questione della verità e della sua essenza. L'interesse manifestato per i cosiddetti presocratici (palese è l'interesse nel testo Che cos'è metafisica? Risalente agli anni della Kehre) e l'innovativa lettura di Platone (La dottrina platonica della verità risale al 1932, ma è scritta nel 1940, comunque in anni molto vicini all'esperienza detta svolta) sono gli arrivi teoretici di un tale ritorno. Il termine άλήθεια compare, assieme ad una interpretazione di esso, già con Essere e tempo, ma con i Contributi e cronologicamente dopo di essi tale termine esplode nella sua portata filosofica. Questo esplodere coincide con un rinnovato e maggiore “interesse” rivolto al linguaggio, cotale “interesse”, in sé, viene sufficientemente indagato da Vattimo118. Esso si lega intimamente con il ri-pensamento ermeneutico vertente l'essenza del linguaggio (che sfocerà filosoficamente nell'opera In cammino verso il linguaggio), e coincide con un nuovo indirizzo dell'etimologia119 (un “uso” di questa volto all'originarietà nel linguaggio) nonché quindi con l'importanza rinvenuta nel ed affidata al non-detto. Intrisi, anche, della totalità di codesto emergente orizzonte sono, consapevolmente o meno, tutti quei paragrafi dei Contributi che rimandano su vari piani ai pensatori occidentali, alle dottrine passate in senso ampio, ed alle parole (spesso “analizzate” o poste a tema) che in queste ultime si innalzano, esplicitamente o non, in tutta la loro im-portanza e fondatezza. Con lo stesso spirito appare espressa la seguente frase: “La “dottrina” di un pensatore è ciò che nel suo dire -nella 116 Ivi. pag. 137. 117 Ivi. pag. 328. 118 Cfr. Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, cap. 4,5. Ed. Marietti, Genova 1989. 119 Ivi. pagg. 182, 198,199.

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sostanza del suo esprimere ed in genere ideare, o nel suo parlare- rimane non detto, e a cui l'uomo è esposto affinché vi si prodighi. Per poter esprimere e quindi conoscere il non-detto di un pensatore, qualunque ne sia la natura, dobbiamo ri-pensare ciò che ha detto”120. Premesso ciò, è il “personaggio” di Platone (il suo pensiero) che spesso svetta (qualcuno direbbe: negativamente) in quei paragrafi dedicati alla storia della filosofia occidentale, all'essenza della metafisica in accezione heideggeriana, alla focalizzazione della verità. Questo poiché, in sintesi, “ciò che...rimane non detto è una svolta (Wendung) intervenuta nella determinazione dell'essenza della verità”121. Il “personaggio” di Platone esprime teoreticamente, filosoficamente ed eticamente una tale svolta, egli incarna (ed esterna, espleta) tale svolta intervenuta. Una svolta sotto il cui cielo tutt'ora essenzialmente siamo a muoverci. Platone è il portavoce autorevole di una determinata acquisizione dell'essenza della verità. Il suo portare (la voce) si marmorizza in una dottrina, il non-detto di quest'ultima è la svolta menzionata poc'anzi. “Per opera di Platone l'άλήθεια si trasforma in accessibilità nel duplice senso dell'essere libero dell'ente come tale e della diafanità per la percezione. E se l'άλήθεια è vista solo dalla “parte” dell'ente come tale, allora questa accessibilità può chiamarsi anche manifestatività, e il percepire rendere manifesto. L'άλήθεια resta ovunque la svelatezza dell'ente, e mai quella dell'Essere; e questo già per il fatto che la άλήθεια, anche in questa interpretazione iniziale, costituisce l'enticità (φύσις, schiudimento), l'ιδέα, la visività”122. Nella storia (anche qui, non storicista) dell'άλήθεια, nel senso di tale parola, “presto rimase determinante soltanto la relazione causale..., finché da ultimo tutto scivolò nell'indeterminatezza della “coscienza” e della perceptio”123. Infatti la dinamica della verità-correttezza non si ferma certo alle speculazioni platoniche, né essa si impone sul solo piano della filosofia (qui si rimanda, principalmente ma non esclusivamente, alla macchinazione; la quale tematica avrà un paragrafo ad essa adibito). E così, ri-leggendo per esempio le dottrine ed i “personaggi” di Cartesio, di Kant, e dell'idealismo in genere, all'interno del percorso della sopra menzionata dinamica, lo Heidegger giunge alle soglie della nostra età. Arrivando ad esempio a sostenere che, riprendendo proprio la perceptio, “non appena...la ragione è posta al di sotto di se stessa, si è resa meglio coglibile a se stessa...-essa trae- da questo successo il criterio della comprensibilità e della ragionevolezza. Questa ragionevolezza diventa ora

120 Martin Heidegger, La dottrina platonica della verità, in Segnavia, pag. 159, Ed. Adelphi, Milano

2002. 121 Ibidem. 122 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 329. Ed. Adelphi, Milano 2007. Cfr.

anche, ivi. pag. 331. 123 Ivi. pag. 335.

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l'unità di misura di tutto ciò che vale e può valere, ossia di tutto ciò che può essere essente e dirsi tale”124. Inutile sarebbe qui ripercorrere heideggerianamente tutta la fondamentale interpretazione platonica125 dell'άλήθεια, altrettanto inutile risulterebbe ripercorrere l'intero itinerario126 che in codesta interpretazione trova il suo primo (a noi pervenuto) formulato e compiuto avvio filosofico-speculativo ed etico. Ai fini del presente tema è invece di grande importanza porre in risalto il domandare sull'essenza della verità (cioè qui: la messa in crisi dell'ovvietà di logica e verità-correttezza e dell'asserzione come il luogo della verità; “domandare in quanto cercare il fondamento da cui e su cui deve essere la verità”127), nonché l'intima connessione di tale domandare con la significatività originaria della parola άλήθεια, appunto colta e pro-posta dallo Heidegger come dis-velamento o s-velatezza (ά-λήθεια). Insomma, queste nostre pagine devono far risaltare come la valenza della parola άλήθεια si trovi già impostata nei Contributi, e soprattutto come la parola in questione, appunto in quanto verità (filologicamente: piattamente tradotta “verità”), sia portante in una ermeneutica (heideggeriana) che verte all'originarietà ed al fondamento dell'attuale ramificazione della metafisica; ciò passando per, ma ri-pensando, quel progetto di decostruzione della metafisica che ora vede nella heideggeriana lettura della dottrina platonica l'esplicito suo punto d'avvio. L'άλήθεια, s-velatezza, è qui cardine. Cardine nel senso che essa, come storia della metafisica occidentale, “rimane fissata nella accessibilità e manifestatività, e ciò che in essa resta indomandato...è l'apertura come tale”128(in un certo modo, la “s-”), è cardine “nel fatto che appunto la “radura” e il “diradato” non furono colti”129. “Ciò che è velato si trasformò nell'assente e l'accadimento del velamento andò perduto e con esso la necessità di fondarlo propriamente”130 (la “-velatezza”). Dunque, nel menzionato ritorno, anche all'interno dei Contributi, della decostruzione heideggeriana vi sta come cardine il termine άλήθεια in quanto esso, proprio ri-pensato ermeneuticamente secondo l'originarietà del linguaggio, accenna (fa il cenno) ad una “biunivocità” (s-velatezza: s-; -velatezza) non contraddittoria di ciò che è verità. Cioè accenna 124 Ivi. pag. 332. Cfr. anche ivi. pag. 333. 125 Cfr. ivi. pagg. 331-332. Per un intenso quanto contratto resoconto di questa interpretazione rinvio a:

Martin Heidegger, La dottrina platonica della verità, in Segnavia, pag. 188, Ed. Adelphi, Milano 2002.

126 Avente, a volte, una agghiacciante scrittura didascalica, l'apparentemente disconnesso (poiché tanto non causale quanto scevro di premesse) itinerario in questione lo si trova, ad esempio, al par. 210 e 231 del testo qui preso in esame. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), rispettivamente pagg. 330-331, e pag. 352. Ed. Adelphi, Milano 2007.

127 Ivi. pag. 359. 128 Ivi. pag. 329. 129 Ivi. pag. 335. 130 Ivi. pag. 336.

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intrinsecamente all'essenza della verità ed a un'esperienza ad essa volta. Codesta “biunivocità” ci porta al terzo punto di questo sotto paragrafo. É ri-pensando l'etimologia della parola greca άλήθεια (verità) come s-velatezza che lo Heidegger viene richiamato ad un pensare originario riguardo ciò che in tutta la storia dell'Occidente si presenta come il concetto di verità. L'indicazione di codesto richiamo ci è fornita dallo stesso Heidegger dei Contributi, nelle pagine in cui si egli stesso si chiede, dandosi risposta: “su che cosa si fonda la determinazione dell'essenza della verità come velamento diradante? Su un sostegno fornito dalla άλήθεια”131. Anche altrove possiamo riscontrare similari ed assonanti pensieri: “la risposta alla questione dell'essenza della verità è il dire di una svolta (Kehre) entro la storia dell'essere... Verità significa quel velarsi diradante che è il tratto fondamentale dell'essere (Seyn)... poiché all'essere (Seyn) appartiene un velarsi diradante, esso appare inizialmente alla luce di un sottrarsi che vela. Il nome di questa radura (Lichtung) è άλήθεια”132. In codesto ultimo estratto si fonda la possibilità e la necessità di poter dare una risposta indicativa (che indica verso..., che fa cenno ad...) alla questione della verità, nell'affermazione “l'essenza della verità è la verità dell'essenza”133. Affermazione fondante che altrimenti, come per altre dello Heidegger, verrebbe indubitabilmente ad essere una tautologia. La questione della verità è essenzialmente questione dell'essere (ma essenzialmente non è l'essere, come invece coglierebbe una visione metafisica). In ciò verità è fondazione. Quel “movimento” dell'abbandono dell'essere (darsi dell'essere come abbandono) incontrato nei precedenti paragrafi inerisce, anche, alla “dinamica” dell'essenza della verità. Già Essere e tempo rivela (o almeno intuisce come “sfondo”, si muove verso...) codesta dinamica, eppure non sa darle il respiro di cui necessita, poiché non sa coglierla oltre (più originariamente) l'orizzonte della fenomenologia dell'esserci, e si appoggia (cioè ne fa base di partenza per la speculazione filosofica sulla questione della verità, il terreno saldo da cui spaziare) più che altro su quell'aspetto che verrà chiamato malaessenza della verità (verità-correttezza, asserzione come luogo della verità). La sopraddetta “biunivocità” non conflittuale de la verità come velarsi diradante è meglio espressa dallo stesso Heidegger con il termine ambiguità. La nostra “biunivocità”, o ambiguità, nei Contributi diviene ciò che è già da cogliersi nel porre la questione della verità. “Si prendono le mosse dalla essenziale ambiguità: la “verità” intesa come il “vero”; il vero è però la verità in quanto velamento diradante dell'evento”134 (dell'essere, Seyn, ac-colto e pensato come evento). E così (ma, di nuovo, non in accezione causale) “la 131 Ivi. pag. 360. 132 Martin Heidegger, Dell'essenza della verità, in Segnavia, pag. 156, Ed. Adelphi, Milano 2002. Questo

brano risale ad una aggiunta datata 1949. 133 Ibidem. 134 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 347. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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verità si presenta essenzialmente come il vero di volta in volta portato in salvo. Eppure questo vero è ciò che è solo come il non-vero, non essente e al tempo stesso non fondativo”135. “Questo sradicamento della verità è connesso alla velatura dell'essenza dell'Essere”136. Ripercorrendo il cammino con altre parole, essendo l'essenza della verità originariamente sottraentesi, “l'essenza della verità è la non verità...Questa frase, consapevolmente formulata come contraddittoria,...intende esprimere il fatto che alla verità appartiene il carattere negativo, però assolutamente non come una mancanza, bensì come ciò che oppone resistenza, quel velarsi che viene nella radura come tale. Con ciò è colto il riferimento originario della verità all'Essere in quanto evento”137, in accordo con quanto da noi sopra ripreso ed affermato. Approdati sino a qui dobbiamo adesso considerare la nostra quarta suddivisione. Essa riguarda (ri-guardare) il fondamentale legame fra verità ed esser-ci; ma proprio ciò sta senz'altro a significare che qui ci si rivolge (ri-volgersi) essenzialmente a null'altro che la fondazione. In codesto riguardare sono però compiuti alcuni passi “a ritroso”. Dobbiamo volgerci alla questione della verità nel suo emergere come questione. Essa va in certo qual modo “legittimata”. Nei Contributi questo “legittimare” è compiuto diversamente rispetto all'ottica d'analisi esistenziale dell'esserci e alla via “negativa” che prende le mosse dalla “critica” alla pre-determinatezza della verità-correttezza o della asserzione logicamente veritiera. La “legittimazione” è infatti compiuta proprio nell'apertura costitutiva dell'esser-ci. Però qui nel sta a significare come. Abbiamo precedentemente sostenuto che la domanda sull'essenza della verità in quanto autentica è un domandare tendente già al “fondamento da cui e su cui deve essere la verità” (ed in ciò si fa cenno al legame con il pensare conforme alla storia dell'essere). Eppure, in tale domanda, l'autenticità, compresa dal cosiddetto secondo Heidegger come tensione verso l'originarietà, non è ben delineata nel suo orizzonte. È necessario infatti chiedere: “da dove proviene però il domandare? Non contiene esso nel fondo un'evasione dell'uomo in un aperto che si apre per velare? E questo, il velamento diradante, non è forse l'essenza della verità?”138. Codesta profonda evasione dell'uomo (si noti: v'è l'uomo, ma esso è già-sempre “accantonato” in vista dell'esser-ci) in un aperto che si apre per velare è esser-ci. Cooriginariamente, l'apertura che si apre per velare (apertura dell'aperto e radura per il velarsi139) è essenza della verità. Questo che noi abbiamo spesso denominato intimo legame, o solamente legame, soggiace in tutto lo scritto de i Contributi: ove l'interrogativo è 135 Ivi. pag. 383. Cfr. “schema” di par. 220, in: ivi. pag. 340. 136 Ivi. pag. 352. 137 Ivi. pag. 350. 138 Ivi. pag. 359. 139 Cfr. ivi. par. 214.

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esplicitamente su di che cosa si debba trattare nella questione della verità, ne ricaviamo che tale che cosa è, “prima della fondazione dell'essere umano, nell'esser-ci in quanto fondamento della sua verità”140; verità viene detta essere “il fondamento sostenuto per la fondazione dell'esser-ci che crea”141; “l'esser-ci...è lo stesso essere del Ci. Il Ci è però l'apertura dell'ente in quanto tale nel suo insieme, il fondamento dell'άλήθεια pensata in modo più originario”142. Cotale cooriginarietà in quanto fondazione è confacente alla storia dell'essere, alla “dinamica” dell'essere come evento-essenziale permanenza (Wesung). Cioè essa è l'essere (Seyn), ovvero l'essere (Seyn) si dà. “Bisogna pensare prima di tutto...che la radura mantiene nell'aperto ciò che si nasconde, e fa sì che l'attrazione che ne proviene, essendo determinante, dia il tono all'esser-sé di colui che progetta. Solo così accade ogni volta l'affidamento in proprietà all'essere e, in esso, l'assegnazione allo stesso gettante”143. Von Hermann, sempre riguardo quella cooriginarietà di esser-ci e verità nei Contributi, parlerà di “essere-progettante appropriato dal getto (-a) appropriante”144. L'intimo legame insomma è, “anche”, “all'”essere (colto e pensato come evento-essenziale permanenza). “L'essenza originaria è però la radura del velarsi, ossia la verità è verità originaria dell'Essere (evento)”145. Radura, velarsi, essere (evento), verità (originaria). Parlavamo prima di “biunivocità” non contraddittoria. In ciò si pensava espressamente alla radura come diradante velarsi (in ciò già si guardava all'essere come evento). Cotale velarsi si rischiara, esso “è un carattere essenziale dell'Essere, e precisamente in quanto l'essere ha bisogno della verità e l'esser-ci è perciò fatto avvenire e fatto proprio, ed è così in sé originariamente evento-appropriazione”146. Questo appena menzionato avvenire e fare proprio non dice null'altro che ciò: la “verità si presenta essenzialmente solo, e già sempre, come esser-ci”147. Solamente così dell'uomo si può dunque dire “guardiano della verità dell'Essere (fondazione dell'esser-ci)”148. Siamo ricondotti alla fondazione. Di essa si è detto ovunque si parlasse dell'altro inizio. E nell'altro inizio, infatti, dell'uomo si può dire 140 Ivi. pag. 334. 141 Ivi. pag. 328. 142 Ivi. pag. 296. Cfr. retrospettivamente, Martin Heidegger, I problemi fondamentali della

fenomenologia, pagg. 287, 288. Ed. il Melangolo, Genova 1999. 143 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 351. Ed. Adelphi, Milano 2007. 144 F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.29. Ed. Urbaniana University Press,

Roma 2004. L'interesse comunque va a tutto il primo capoverso della pagina indicata. 145 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 326. Ed. Adelphi, Milano 2007. Così

von Hermann, con un taglio di significato del discorso volto al carattere di storicità della verità dell'essere: “d'ora in poi Heidegger chiama la verità dell'essere radura del velarsi”. F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.28. Ed. Urbaniana University Press, Roma 2004.

146 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 327. Ed. Adelphi, Milano 2007. 147 Ivi. pag. 381. 148 Ivi. pag. 473. “Verità “è” come fondazione del Ci e dell'esser-ci”. Ivi. pag. 326.

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(transpropriandolo) essere il guardiano dell'essere in quanto fondazione nell'esser-ci (il rinvio esser-ci/uomo non è, né speculativamente né in altro piano, trasparente; questa trasparenza potrà forse apparire, teoreticamente, solo a conclusione dello scritto). Un guardiano generalmente sorveglia. Un guardiano ha cura di ciò che è posto a sua tutela. Il guardiano dell'essere è “colui” che essendo opera ciò che Heidegger definisce il salvataggio (o salvataggio dell'essere o ancora salvataggio dell'essere nell'ente), in tale essere-operare riposa l'esser-ci. Ma ci si può chiedere, come in un apparente circolo, “da dove provengono la necessità e la necessarietà del salvataggio? Dal velarsi. Per non rimuoverlo, e anzi per conservarlo, c'è bisogno del salvataggio di questo accadimento”149. La dinamica (in Regina essa è parzialmente riscontrabile sotto l'appellativo di: strategia dell'Ereignis) del diradare velante nella radura necessita il salvataggio in quanto l'essere, diradando, si vela. Esser-ci significa porsi in tale radura, radura nella quale l'ente che noi stessi siamo è già-da-sempre gettato. Ma porsi in tale radura significa proprio accogliere la verità dell'essere. Codesta verità “è il primo vero, quello diradante-latente, dell'Essere. L'essenza della verità sta nell'essere il vero dell'Essere e nel diventare, così, origine per il salvataggio del vero nell'ente, il quale solo tramite ciò diventa essente”150. Così in Vattimo: “la conoscenza della verità non è un incontrare le cose “al di là” dei nostri pregiudizi e del nostro “modo di vedere”: le cose sono vere non nel senso che sono lì davanti a noi -sicché si debba cercare di ridurre al minimo tutto ciò che non è presenza bruta, tutto ciò che è punto di vista o interpretazione- ma perché appartengono ad una certa apertura dell'essere, a quel progetto gettato...che noi stessi già sempre siamo”151. Da questa posizione, nel taglio prospettico che si dà a cogliere, “vero” e “falso” stanno e possono sorgere (o assurgere) addentro alla stessa152 apertura153, così come autenticità ed inautenticità stanno e sorgono addentro a quello stesso “luogo” che è l'esserci di Essere e tempo; seppur, qui e adesso, cotale esserci è stato ripensato in un più ampio respiro (trasferendolo al di fuori dell'analitica esistenziale). E solamente da questa posizione o taglio prospettico risulta possibile non fraintendere quel “bisogno” che all'essere, in quanto esso si dà, compete necessariamente ed essenzialmente, ovvero quel bisogno dell'esser-ci, quest'ultimo proprio in quanto appartenenza all'essere. Ed in codesta

149 Ivi. pag. 382. 150 Ivi. pag. 343. 151 Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pag. 182 Ed. Marietti, Genova 1989. 152 La stessa, o lo stesso, è ora usato nella sua essenziale differenza con l'uguale. Cfr. Martin Heidegger,

Identità e differenza, in Aut Aut fascicoli 187-188 gennaio-aprile 1982, pag. 19. Ed. La nuova Italia, Firenze. Da notarsi le assonanze con il termine heideggeriano: cooriginarietà.

153 Cfr., con le debite differenze, il processo dialogico di non-verità/verità (per quanto la verità sia qui lasciata un poco indeterminata): Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.109. Ed. Morcelliana, Brescia.

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maniera anche il “luogo” degli uomini, in quanto tale, è maggiormente illuminato154: “l'appartenenza all'Essere, però, è essenzialmente solo perché l'essere nella sua unicità ha bisogno dell'esser-ci, essendovi fondato e fondando l'uomo. Altrimenti nessuna verità è essenzialmente”155. “L'Essere però è qui al tempo stesso concepito come evento-appropriazione. Entrambi si coappartengono: la retrofondazione nell'esser-ci e la verità dell'Essere in quanto evento”156. Si è voluta far intravedere l'intimità tra verità ed esser-ci. Da quest'ultimo siamo partiti per il presente paragrafo, ad esso infine torniamo brevemente e solo per introdurre l'ultima espressione di ciò che è fondazione. L'esser-ci dunque viene dallo Heidegger dei Contributi denominato anche il frammezzo (quel frammezzo tra “uomo fondatore di storia” e dèi; per inciso, non approfondiremo qui codesto parlare, o via di “espressione”, del dire heideggeriano). Che significatività ha qui il vocabolo frammezzo, se esso dice dell'esser-ci? Tale frammezzo o esser-ci fonda (lascia fondare) lo spazio-tempo. Spazio-tempo, nello Heidegger dei Contributi, è come, in quanto, fondo abissale. Cosa affiora in queste ultime frasi e nelle parole in cui esse si parlano? Possono esse rischiarare ulteriormente l'esser-ci e la verità, ovvero ciò che è fondazione? A ben guardare, infatti, un'ultima espressione di ciò che è fondazione manca all'appello: lo spazio-tempo.

Spazio-tempo Nei Contributi vi è una sezione esplicitamente riferita allo spazio-tempo. Essa è ubicata all'interno del capitolo quinto, il capitolo a cui l'intero presente paragrafo fa riferimento. In codesta sezione, anche e consecutivamente per riconnetterci al passato sotto paragrafo, si rivela nettamente l'intimità di legame (lo stesso) che costituisce il pensare quando ri-volto ed attratto all'esser-ci (e al Ci), quando alla essenziale verità e, appunto, quando allo spazio-tempo. “Spazio-tempo appartenente all'essenza della verità quale fondamento che apre la radura per il velamento”157. “Lo spazio-tempo è solo il dispiegarsi dell'essenza dell'essenziale permanenza della verità”158. “Lo spazio-tempo in quanto scaturisce dall'essenza della verità e vi appartiene... Lo spazio-tempo e la “fatticità” dell'esser-ci”159. In queste pagine dei Contributi, lo annotiamo per prematura completezza, lo spazio-tempo è menzionato anche, proprio in riferimento all'esser-ci, come “luogo” dell'apertura (apertura che

154 Cfr. estesamente il par. 195 de: Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento). Ed. Adelphi,

Milano 2007. 155 Ivi. pag. 315. 156 Ivi. pag. 316. 157 Ivi. pag. 369. 158 Ivi. pag. 376. 159 Ivi. pag. 363.

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costituisce, affermiamo riduttivamente per ora, il Ci) o il diradato in-mezzo all'ente160. A partire dalle ultime citazioni si può intuire, in quanto fondo delle affermazioni, quella stessa (ribadiamo, non l'uguale) essenzialità delle tre cosiddette espressioni. Essenzialità che da svariate pagine ci sforziamo (non nel senso di una forzatura, arbitrarietà, ma nel senso di una tensione) di mostrare, oppure focalizzare ed individuare, come fondazione. Su tutto questo torneremo a conclusione del paragrafo. Lo spazio-tempo però potrebbe sembrare di estrema importanza innanzitutto nel rinviare al “tempo”. “Lo spazio-tempo...non ha ancora nulla dello “spazio” e del “tempo”...comunemente noti, eppure contiene in sé lo sviluppo che porta ad essi”161. Il “tempo” perviene ad essere, addentro Essere e tempo, temporalità. La temporalità, in quanto momento conclusivo, anche se “parziale”, dell'analisi caratterizzante Essere e tempo162, assurge infatti a tematica di grande interesse per chiunque voglia avvicinarsi al pensiero heideggeriano. Ma codesto rinvio va certamente chiarito, anche e proprio perché in Essere e tempo, e da prima ancora, la tematica del tempo, intesa per ora in senso lato, si esplica questione decisiva della direzione dell'analisi interna al primo Heidegger. Ma troviamo perciò, per quel che ci concerne, i germi embrionali dell'espressione (in accezione nostra, cioè legata a la fondazione, come sopra) spazio-tempo al di fuori dell'esplicito “spaziare” dei Contributi, cioè nella tematica del tempo ed ancor più nella heideggeriana temporalità? Certo. Ma così non si è assolutamente detto né, in senso eminente, de lo spazio-tempo in quanto fondazione, né del “tempo”, e men che mai della temporalità (heideggerianamente pensata). Ancor meno s'è detto se vi è un legame, e se vi è di che genere, tra spazio-tempo e temporalità heideggeriana. Per appropinquarci a delineare una qualche forma di risposta a tali problemi aperti dobbiamo riferirci a quei poc'anzi accennati embrionali germi de lo spazio-tempo. Germi risiedenti nel pensare, e sicuramente germi carsici. Essi saranno da noi per lo più presentati ed assunti nella loro negatività. Negatività però è nel presente sotto paragrafo un termine che può rischiarare più che altro a livello speculativo. É perciò palese, prima di tutto, che cotale negatività venga intesa in quanto tale necessariamente nei confronti de lo spazio-tempo (Contributi), e non rispetto all'analisi esistenziale fondata sulla (cioè nei “limiti” della) e dalla “figura” dell'Esserci. Tale negatività di cui siamo a trattare, la quale può apparire in questa sede in quanto speculativamente sussunta ne 160 Cfr. il punto 3 in: ivi. pag. 326. 161 Ivi. pag. 377. 162 A tal riguardo rimando ad: Martin Heidegger, Tempo e essere, pagg. XIX-XX, XXII dell'Avvertenza

all'edizione italiana. Ed. Longanesi, Milano 2007.. Secondariamente rimando anche ad: Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pagg. 160-161. Ed. Adelphi, Milano 1994. Si parla poi di una “ripetizione” originariamente temporale di tutte le strutture esistenziali scoperte dall'analitica esistenziale in: Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pag. 60 Ed. Marietti, Genova 1989. Per tutte codeste posizioni vi è da confrontare il par. 8 di Essere e tempo.

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l'espressione de la fondazione spazio-tempo, si trova invece assai radicata (per lo più sommersa) in quel pensare dei Contributi esplicitamente riguardante lo spazio-tempo. Infatti, parlando della (ovvia) quadrimensionalità e rap-presentatività di spazio e tempo (comunemente intesi) assieme (abbinati), cioè nella visione teorico-fisica, il pensatore di Meßkirch scrive: “qui spazio e tempo sono abbinati dopo essere stati entrambi ridotti prima allo stesso livello di ciò che è calcolabile e rende possibile il calcolo”163. Nella germinale negatività che andiamo rintracciando si trova il calco dell'impronta di quella “critica” al cosiddetto dominante nelle sue articolazioni. Ma, perché mai interessarci ad una tale negatività? Codesta negatività, in quanto tale, è mutata (e, si potrebbe dire, trasvalutata) poiché è mutato (trasvalutato), quantomeno sul piano filosofico, l'orizzonte che la contiene (“da” l'analitica dell'esserci “a” la storia dell'essere). Nonostante ciò, una certa fisionomia di tale negatività resta, dopo la Kehre, inequivocabilmente riconoscibile. Dunque. Se nei Contributi possiamo leggere: “Il “tempo” è tanto poco conforme all'io quanto poco lo spazio è conforme alla cosa...lo spazio non è oggettivo né il tempo soggettivo”164, è però già negli anni in cui viene pronunciata la conferenza dalla quale viene tratto il testo Il concetto di tempo che la tematica della temporalità è affrontata con un taglio filosofico-interpretativo assai “originale”. Ovvero, per il fine del nostro scritto, già da qui risiedono i germi che peculiarmente conducono (cioè condurranno ma già conducono, ovvero possibilità) al pensiero rimirante lo spazio-tempo (fondo abissale, Contributi). L'appena menzionato testo del giovane Heidegger domanda infatti, e, cosa non indifferente, lo fa mettendo in discussione il tempo fisico-naturale (la “critica”), “se l'essere umano -è- nel tempo in senso eminente, in modo che da esso si possa ricavare che cos'è il tempo”165. Da tali basi si delinea, certo ancora confusamente rispetto all'opera capitale, una “figura” dell'esserci che, come in Essere e tempo, sta in una tanto peculiare quanto particolare “situazione” con il proprio esistere (che è essenzialmente trascendere), o meglio, con il già-da-sempre proprio essere. Bisogna qui porre in risalto che cotale peculiare particolarità, almeno ne Il concetto di tempo, è in quanto l'esserci si caratterizza come il tempo166. Senonché il tempo che è l'esserci si mostra già alla riflessione di codesto primo Heidegger come temporalità: “l'esserci non è il tempo, ma la temporalità”167. Ciò qui sta a significare, in breve, che l'esserci è già-

163 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 369. Ed. Adelphi, Milano 2007. 164 Ivi. pag. 368. 165 Martin Heidegger, Il concetto di tempo, pag.31. Ed. Adelphi, Milano 1998. 166 Cfr. ivi. pag. 48 (la parola concetto non aiuta certo ad intenderlo come esistenziale heideggeriano, ma

d'altronde la discrepanza concetti/esistenziali si focalizza in Essere e tempo). 167 Ivi. pag. 49.

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sempre, il precorrimento o ciò che-è-futuro (qui risiede una anticipazione del ri-pensamento heideggeriano de la morte, essere-per-la-morte, e della decisione anticipatrice, il da-venire, il lasciar sopraggiungere, l'estasi autentica costituente il futuro168); ma, ancora più “a monte” (da intendersi: originariamente), ovvero proprio in tutto questo che abbiamo appena scritto, significa che “in tale precorrere io sono il tempo in senso autentico, io ho il tempo...il tempo è ogni volta mio...il tempo è temporale”169. Il tempo è intimamente ontologico, il tempo mio è ontologico, quell'ente che già-da-sempre sono è temporale, è temporalità. A noi deve premere, qui ed ora, innanzitutto l'emergere del fatto che il tempo è pensato in una tensione, e meglio sarebbe parlare di una torsione, volta all'originarietà. Ovvero tempo è qui colto, diciamo, come “luogo”, e cioè appunto come esserci (o esser-Ci, ma codesto sempre pensato addentro Essere e tempo). Tale orizzonte si delineerà, espliciterà, e forse amplierà, solo con l'opera capitale. Abbiamo precedentemente menzionato una messa in discussione del tempo fisico-naturale. Ne Il concetto di tempo si incammina (ma non si compie, permane piuttosto nebulosa) infatti una decostruzione (ri-pensamento) delle elaborazioni del tempo (sia di quelle culturali che di quelle empirico-quotidiane, per chi crede ancora necessaria una tale precisazione). “L'esserci è lì con l'orologio, magari soltanto con quello immediato del giorno e della notte. L'esserci calcola e domanda della quantità di tempo... Ricondurre il tempo alla quantità significa prenderlo -”qualitativamente”- come “ora” presente...l'esserci fugge dinnanzi al “come”170 e si attacca al “che cosa” di volta in volta presente -di volta in volta presente: qui già nella heideggeriana significatività di semplice-presenza-”171. Anche cotale decostruzione, come si vedrà, è portata avanti in senso eminente nell'opera capitale. In un qualsiasi ripercorrimento del pensiero dello Heidegger, ovvero come parzialmente e fino a qui il nostro scritto ha la pretesa di presentarsi, è da una tale decostruzione (“messa in discussione”) che si avvia il sentiero di comprensione (anche) della temporalità e della sua autenticità; ed è proprio su questo sentiero che si possono scorgere quei sopraddetti germi che,

168 Per un sunto che rimiri insieme temporalità ed essere-per-la-morte si veda: Gianni Vattimo, Essere

storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 60, 66, 68-69, 77. Ed. Marietti, Genova 1989. Per un sunto che enuclei tematicamente decisione anticipatrice ed estasi heideggeriana “del” futuro, con un implicito rimando all'essere-per-la-morte, nonché un esplicito legame alla temporalità, rimando ad: Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pagg. 236, 247. Ed. Adelphi, Milano 1994. Infine: Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pagg. 248, 255, 256, 295. Ed. il Melangolo, Genova 1999.

169 Martin Heidegger, Il concetto di tempo, pag.49. Ed. Adelphi, Milano 1998. 170 Per tale “come” di codesto primo Heidegger, sicuramente vicino alla fenomenologia, rimando ad:

Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pagg. 130-131. Ed. Adelphi, Milano 1994. 171 Martin Heidegger, Il concetto di tempo, pagg.42-43. Ed. Adelphi, Milano 1998. Per approfondire

ulteriormente la semplice-presenza, in heideggeriana accezione di sussistenza, cfr. Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 296. Ed. il Melangolo, Genova 1999.

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ripetiamo, con l'apporto della propria negatività avvicinano (ma mai soli giungono) il nostro comprendere a lo spazio-tempo dei Contributi. Codesta decostruzione, dunque, ci ha accennato il tempo-ora. Esso in quanto tale è stato così posto nella differenza da una non meglio delineata temporalità costitutiva dell'esserci (l'esserci ha tempo). Ma, come il primo e la seconda si sviscerano addentro al pensare dello Heidegger? E poi, che cosa essenzialmente hanno a che fare entrambi con lo spazio-tempo dei Contributi? Ammesso che, infine, essi abbiano davvero a che fare con tale espressione de la fondazione. Seguendo dunque codesta pista, o sentiero, occorre adesso sintonizzarci nuovamente ad Essere e tempo. Sintonizzarci ha qui il senso di rintracciare quei germi di cui sopra si diceva. Germi che abbiamo appena intravisto ne Il concetto di tempo. Essi vanno però, nella loro messa a fuoco, progressivamente e possibilmente ambientati all'interno dell'orizzonte dei Contributi (nella Kehre). Orbene, la problematizzazione de il tempo-ora, o decostruzione del tempo nella sua ovvietà, potrebbe sembrare essere base (posta a base, a sostegno primario) per la questione de la temporalità e del tempo in senso lato, ma, sebbene in un certo qual modo nel pensare soggiacente all'opera capitale essa (la problematizzazione de l'ovvietà del tempo) sia già-sempre impastata nell'istante stesso in cui la suddetta questione (la temporalità) è posta, nel percorso filosofico-speculativo di Essere e tempo non è così che l'analitica procede172. È risaputo che tutta l'analisi esistenziale, incentrata ne l'esserci, della prima sezione del testo porta a la Cura173. Essa si pone (ontologicamente) come decisione anticipatrice. Successivamente si va alla ricerca del senso de la Cura (cioè l'unità de la Cura e della sua struttura) e lo si trova proprio ne la decisione anticipatrice. Quest'ultima si costituisce come unitaria (unitaria nelle sue tensioni: futuro essente-stato presentante) solo nella temporalità (pensata ontologicamente). La Cura, e la sua struttura (esistenzialità, effettività, deiezione), sono quindi riportate e soprattutto fondate “nell'unità estatica -delle tre estasi orizzontali-temporali- della rispettiva totale temporalizzazione della temporalità...la temporalità si temporalizza tutta in ogni estasi. La temporalità non significa una “successione” delle estasi... La temporalità si temporalizza come avvenire essente-stato e

172 Analogamente: Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pagg. 268-269. Ed. Adelphi, Milano

1994. 173 La prima sezione di Essere e tempo, tutta la fase preparatoria. Effettività, esistenzialità, deiezione.

Riguardo la Cura, sinteticamente e forse riduttivamente, trascriviamo: “La totalità formale esistenziale dell'insieme delle strutture ontologiche dell'Esserci deve...essere colta nella seguente struttura: essere-avanti-a-sé-già-in (un mondo) in quanto esser-presso (l'ente che si incontra dentro il mondo). Questo essere è espresso globalmente nel termine Cura, che qui è usato in senso ontologico-esistenziale puro”. Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 235. Ed. Longanesi, Milano 2005. Per un sunto rimando anche a: Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pagg. 160-161. Ed. Adelphi, Milano 1994.

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presentante. L'apertura del Ci e le possibilità esistentive fondamentali dell'Esserci, l'autenticità e l'inautenticità, sono -quindi- fondate nella temporalità... La temporalità estatica apre originariamente il Ci nella radura. Essa è il regolativo primario dell'unità possibile di tutte le strutture esistenziali essenziali dell'Esserci”174. Per inciso, non dobbiamo ora fossilizzarci su quella discrepanza riguardante, in questo specifico caso, il Ci dell'Esserci che risulta rispetto ai Contributi (vedasi passati sotto paragrafi). Tale discrepanza comunque non sarà lasciata nella vaghezza, come poi già precedentemente (implicitamente o meno) ci si è prodigati (su diversi piani) a non lasciarla tale nei confronti di altri specifici casi. Torniamo a noi. Il tempo-temporalità dunque (dell'Esserci, il fondamento-senso unitario della Cura) è sia orizzonte che prospettiva di partenza di tutta l'analisi che troviamo nella sezione seconda dell'opera capitale. Tale temporalità, in quanto estatico temporalizzarsi (su di ciò si tornerà poco oltre), ha un intimo carattere che al nostro sondare i contenuti di Essere e tempo non può rimanere indifferente: “in quanto essenzialmente deiettiva, la temporalità si perde nella presentazione; guidata alla visione ambientale preveggente, non solo si comprende a partire dall'utilizzabile di cui si prende cura, ma cerca...in ciò che la presentazione incontra costantemente come presente nel mezzo utilizzabile, i fili conduttori per articolare ciò che nel comprendere è in generale compreso e interpretabile”175. “Poiché la temporalità costituisce in modo estatico-orizzontale l'essere aperto del Ci..., essa è originariamente già sempre interpretabile, e come tale nota, al Ci... L'interpretato espresso nell'”ora”, noi lo chiamiamo “tempo”. Ciò rivela...che la temporalità...innanzitutto e per lo più è nota soltanto in questo contesto interpretativo guidato dal prendersi cura”176. Ma, si noti, innanzitutto e per lo più177. In codeste citazioni, oltre a trovarvi il sostegno per l'assunzione, da noi propugnata, di una cooriginarietà (implicita nella sopraddetta “dinamica”) di inautenticità ed autenticità, si scorge anche quell'intimo carattere della temporalità (non dimentichiamo, dell'Esserci, ovvero in Essere e tempo) di fronte al quale noi non possiamo qui restare inerti. L'intimo carattere non trascurabile è proprio questo della “velante” essenziale (e tale a “maggior ragione” poiché “velante”) deiettività (deiettività come un heideggeriano

174 Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 414-415. Ed. Longanesi, Milano 2005. Cfr. ivi. par. 65, La

temporalità come senso ontologico della cura. Cfr. Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pagg. 220, 251. Ed. Adelphi, Milano 1994.

175 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 437. Ed. Longanesi, Milano 2005. Cfr. anche pag. 479: “l'Esserci è già sempre aperto a se stesso come essere-nel-mondo e...ha già sempre scoperto l'ente intramondano, il tempo interpretato risulta costantemente datato a partire dall'ente che si incontra nell'apertura del Ci”.

176 Ivi. pag. 478. 177 Qui si impone la significatività prettamente heideggeriana della frase. Per tale significatività cfr.

Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pag. 246. Ed. Adelphi, Milano 1994.

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esistenziale; si rammenti la molteplicità strutturale della Cura che possibilita l'accesso dell'analisi alle estasi temporali. Deiettività quindi già presentata, sotto differente luce però, nella prima sezione dell'opera capitale; vedasi ad esempio la trattazione del Man). In tale deiettività della temporalità (la sopra denominata differenza, stante nella differenza, che compete al tempo-ora, o “tempo”, quando colto come tempo-ora) può essere ri-pensato il “tempo”, e può così stagliarsi il tempo-mondano o intratemporale (nel quale soltanto, appunto, può emergere un tempo-ora) in quanto tale: “La temporalità in quanto estatico-orizzontale, temporalizza qualcosa come il tempo-mondano, che costituisce l'intratemporalità dell'utilizzabile e della semplice presenza”178. “Il tempo interpretato risulta costantemente datato a partire dall'ente che si incontra nell'apertura del Ci”179. “Nella misurazione del tempo, che per essenza necessariamente dice-ora, il misurato è in certo modo dimenticato come tale in vista della determinazione della misura, sicché non resta nulla di riscontrabile al di fuori dell'estensione e del numero”180. “Soltanto la temporalità dell'Esserci, con l'apertura del Ci, rende possibile una datazione del tempo di cui ci si prende cura...comprensione più originaria del fatto che la misurazione del tempo, cioè il farsi esplicitamente pubblico del tempo di cui ci si prende cura, si fonda nella temporalità dell'Esserci”181. L'opera capitale è colma di espliciti riferimenti al cosiddetto tempo-ora182. L'intera compagine di tali riferimenti soggiace nei Contributi (tale soggiacere lo si è visto, seppur appena, e lo si vedrà meglio poi). Ma essa, addentro Essere e tempo, è per l'appunto ancora germinale nei confronti di un pensare volto e confacente all'orizzonte, sul piano filosofico-speculativo o meno, della storia dell'essere. La compagine qui nominata si può riferire, nell'opera capitale lo fa giust'appunto sotto il temine di deiezione, a ciò che precedentemente noi abbiamo accennato con la “dinamica” dell'essere. È a tal fine che poniamo l'accento su la deiezione. Ma ove ciò si viene ad im-porre (perlomeno come teoreticamente stabile)? Abbiamo poi, fin qui, trattato del tempo-ora, e solo indirettamente, o meglio implicitamente, della temporalità. Eppure l'accento nell'opera capitale, basta leggerne il titolo, è posto sul “tempo” (presumibilmente “tempo” ri-pensato come temporalità) non sul solo tempo qui denominato tempo-ora. “Nel” (in senso costitutivo del termine: come) pensare heideggeriano vi stanno due differenti esplicitazioni (espletazioni) de la deiezione, due cammini che si dipartono dalla medesima prospettiva (ed analisi) e spesso si intersecano necessariamente. Ma ciò che più conta è che essi possono 178 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 492. Ed. Longanesi, Milano 2005. 179 Ivi. pag. 479. 180 Ivi. pag. 490. 181 Ivi. pag. 486-487. 182 Cfr. pagg. 483, 484, 485 488-489, 491, 492, nonché l'intero par. 81.

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“stagliarsi” all'interno dell'apparire di due diversi orizzonti. E solo ivi, all'interno del nostro percorso, e non prima, si impone l'approfondimento e la “completezza” della heideggeriana temporalità in quanto tale. In Essere e tempo l'esserci si determina esplicandosi come prendersi cura (ne la Cura come molteplicità strutturale, gli esistenziali, rilevata dall'analitica esistenziale), di volta in volta e già-da-sempre, ne le tre estasi temporali. É risaputo che le tre estasi, nel loro connaturato reciproco ri-mirarsi, sono assolutamente cooriginarie. Ed in ciò esse si svelano come temporalità, senso dell'essere de l'esserci, unità che ne sta a fondamento “poiché senso significa unità”183 (o quantomeno unità nella, cioè de la, tensione), determinazione degli esistenziali che costituiscono la Cura. La cooriginarietà delle estasi è temporalità, in ogni esistenziale si apporta la triplicità delle estasi (con la preminenza di qualche d'una), e l'Esserci risulta essere costitutivamente temporale (in senso autentico). Solo così, a ritroso rispetto l'analitica esistenziale, l'esserci è essere-nel-mondo; e solo così può sorgere una intramondanità degli enti in quanto enticità (quindi, in una parola, l'ente in quanto ente; nell'opera capitale: il piano ontico come mediazione all'ontologico). Ma di una siffatta temporalità autentica necessariamente sarà da dirsi che essa si dà. E come l'essere (Seyn), anche il tempo-temporalità (in Essere e tempo: tempo dell'esserci) non è una enticità. Questo vuole significare che esso non va, ed essenzialmente non può, alla stregua dell'essere (Seyn), venire “maneggiato” come ente (o essenza degli enti, o “a priori” rispetto l'enticità in genere; magari tramite le categorie concettuali, o con macchinari). “Se il tempo della cura...non è in alcun modo un ente: il tempo, nella sua trascendentalità, non “è”, ma “si temporalizza”... Il tempo è tutto nel suo esteriorizzarsi:...è tutto nelle sue ecstasi, e non qualcosa che esca da sé; è il suo uscir da sé nell'unità delle sue ecstasi”184. Temporalità, deiezione, Esserci. Analogamente alla citazione riscontriamo, nei Contributi (spazio-tempo): “tempo e spazio (originariamente) non “sono”, bensì si presentano essenzialmente”185. Possiamo adesso dirigerci a la deiezione, mettendola così “nuovamente” a fuoco, ovvero prendendo quindi atto, ed assumendo e “comprovando” ove possibile, della trattazione fin qui svolta. Veniamo perciò alla sopraddetta (da noi presunta) “biforcazione” (binomio) de la deiezione tenendo espressamente conto di ciò che si è poc'anzi assunto. Uno. Possiamo intravedere che la deiezione “stagliata” come inautenticità186 (e, di rimando, autenticità: quindi assunta nell'orizzonte

183 Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pag. 251. Ed. Adelphi, Milano 1994. 184 Ivi. pagg. 252-253. A proposito della problematica esposta nella nota posta dall'autore ad una parte

della citazione qui presente, essa sarà affrontata implicitamente più oltre. 185 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 376, fine primo capoverso. Ed. Adelphi,

Milano 2007. 186 Cfr. il chiaro primo capoverso de: Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 497. Ed. Longanesi, Milano

2005.

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dell'ontico come differenziato dall'ontologico, sempre partendo, perciò, dalla “figura” dell'Esserci) si delinea in quanto perdersi, errare (erranza non errore!), fra l'ente (possibilità del sorgere de il tempo-ora e conseguente intellegibile enucleazione di questo). Quindi, intratemporalità con esplicito riferimento al Si (Man) della quotidianità. In tale “stagliarsi” (che essenzialmente concerne -rimbalza tra- tanto l'autentico “attimo” e situazione quanto l'inautentica “presentazione”) viene a porsi, e può così ergersi, l'interezza del percorso (indipendentemente dai procedimenti del proprio articolarsi nell'analisi interna all'opera prima), il quale dall'Esserci giunge agli esistenziali che lo costituiscono, e quindi alla Cura, e quindi alle estasi, e quindi al tempo-temporalità come senso dell'essere dell'Esserci (ovvero: dall'ontico all'ontologico nell'Esserci). Due. D'altro canto la deiezione come darsi dell'estasi presentificante (si nella cooriginarietà con le altre due estasi, ma rimirando la sola temporalità che si temporalizza (il come de la temporalità), ovvero in una posizione d'essenziale preminenza, la quale, in parziale accordo con Severino, sola pone ponendosi fondazione metodologica187) se “stagliata” non solamente in quanto esistenziale dell'Esserci, e men che meno rap-presentata in quanto tale (uscita di qualcosa da qualcosa che è altro dall'uscente), ma esclusivamente intima della -non ulteriormente concettualmente delineata- temporalità (che, ripetiamo ancora, solamente è come temporalizzarsi, e null'altro di essa può essenzialmente dirsi) altro non è che il darsi “nell'”apparire188 (apparire non è qui l'altro dall'invisibilità, poiché quest'ultimo è modalità del concepire la semplice-presenza, ma il venire-alla-presenza189 -ivi sta un ri-chiamo: essenziale permanenza dell'essere-). Certamente cotale deiezione non rinuncia all'incarnare tutto il “moto” di erranza di quell'ente che noi stessi sempre siamo (quindi nella sua essenzialità o “autenticità”, prima ancora che nella sua dimensione pubblica), ma tutto viene assorbito in (e, nello stesso, donato da) ciò che abbiamo precedentemente richiamato con “dinamica” dell'essere (il diradante-velare). Ai fini del nostro sotto paragrafo si accenna (fare cenno: è data possibilità di scorgere) e si indica così, forse, un legame con lo spazio-tempo (come

187 Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pagg. 309-310. Ed. Adelphi, Milano 1994. 188 Sbilanciando la significatività sul darsi (es gibt), cioè, comunque e proprio in questo, rischiarando il

senso ivi riposto nel darsi dell'apparire. Lo spiraglio intuitivo è pervenuto, estrapolando dal contesto e con il taglio visivo costituente il presente scritto, da: Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pag. 310, terzo e quarto capoverso. Ed. Adelphi, Milano 1994. Ma, a sostegno, cfr. Martin Heidegger, Tempo e essere, pagg. 8 e 9, l'intero primo capoverso. Ed. Longanesi, Milano 2007. Inoltre, volendo, vedasi criticamente, cioè prima di tutto con le debite discrepanze di coglimento ed i delimiti di analisi tematica: Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pag. 269. Ed. Adelphi, Milano 1994. Cfr. anche la fine del primo capoverso di: ivi. pag. 270.

189 Una tale ermenesi o ri-pensamento (presenza-disvelamento, evento) viene forse “consigliata”, con un insieme di fraintendimenti ritornanti ai confini dell'analitica esistenziale dell'Esserci, dallo stesso Heidegger: Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 36, primo capoverso. Ed. Longanesi, Milano 2007.

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fondazione quindi anche come essenziale verità dell'essere), ed infine un risonare dell'essere come evento (Contributi). L'indicare non è qui rischiarato maggiormente, né nell'attuale “stato di cose” del presente scritto può far si che lo sia. Per contro, nell'ottica dell'analitica, ovvero Essere e tempo, affermare che “il tempo, come intratemporalità, “proviene” anch'esso dalla temporalità dell'Esserci”190 è riassorbire la temporalità, fino al suo più proprio intratemporalizzarsi intramondano, nella (addentro la) “figura” dell'Esserci. Ciò anche se si asserisce poi che il tempo-temporalità è senso di tale “figura”. É cioè in atto una riduzione (riconduzione) inferita e presupposta. Anche per tale affermazione non vi è maggiore rischiaramento, né nell'attuale “stato di cose” del presente scritto se ne può far si che vi sia. Ad ogni modo può esservi un ambientarsi intuitivo rispetto al discorso sopra svolto. Giustamente, in una di poco precedente frase, il termine senso, in quanto temporalità della “figura” Esserci, accenna a qualcosa di “essenzialmente insolito” (che significatività mai ha, o dà, qui senso?). Ma in esso (senso) nulla di più viene mostrato (dis-velato) e parlato a noi che stiamo qui in ascolto (ammesso che lo siamo). “Limiti” dell'analitica esistenziale insiti all'opera capitale magari... ma in che modo dire proprio di “limiti” (seppur tra virgolette)?! “Il “tempo” è già in Essere e tempo pensato in riferimento alla svelatezza... Il tempo -così in Essere e tempo è chiamato il senso dell'essere -per inciso, dell'essere dell'Esserci, o meglio, intravisto dall'Esserci (trampolino di slancio)- non è in quell'opera né una risposta né ciò su cui deve arrestarsi il domandare, ma è a sua volta il nome per una domanda. “Tempo” è il nome dato a ciò che più tardi sarà chiamato verità dell'essere”191. Breve parentesi. Non si diceva d'altronde, appena prima del presente capitolo, di un pensare (qui heideggeriano) come cammino o sentiero, meglio, come un incamminarsi (cioè come nostra tensione ad assumerlo, o dis-velarlo, in quanto tale; “chiave di lettura”)? Non si scorge in codesta ultima citazione un pensare come incamminarsi, in-cammino? Comunque, l'indizio di un ri-pensamento (non di una semplice analogia terminologica) del tempo-temporalità vertente a lo spazio-tempo (nella ricerca di una qualche significatività di codesto) dei Contributi si può rintracciare addentro l'opera tarda Tempo ed essere. Per appropinquarci in tale ri-pensamento enucleiamo brevemente ciò che, all'analitica esistenziale della seconda parte dell'opera capitale, risulta essere lo “spazio”. Dopo aver intravisto la spazialità come uno spazializzare dell'Esserci, vincolato al prendersi cura dell'ente utilizzabile intramondano (heideggeriano strumento), si passa al ri-pensamento degli esistenziali sullo sfondo della temporalità in quanto senso dell'essere

190 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 445. Ed. Longanesi, Milano 2005. 191 Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 36. Ed. Longanesi, Milano 2007.

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dell'Esserci. Qui “l'entrata dell'Esserci nello spazio è possibile solo sul fondamento della temporalità estatico-orizzontale. Il mondo non è semplicemente-presente nello spazio; tuttavia lo spazio è scopribile solo all'interno di un mondo”192. Analogamente, ma con un taglio estraneo all'opera capitale, nei Contributi possiamo leggere: “lo spazio -generalmente e comunemente inteso- così rappresentato si rende rap-presentabile in una presentificazione (in una determinata temporalità) questo però non dice nulla di ciò che lo spazio stesso è”193. Nell'opera prima dello Heidegger spazio-qui e tempo-ora sono assunti come estasi (adesso generalmente intesa, quindi generica fuoriuscita) nella e della deiezione (l'esistenziale) dell'Esserci. Lo spazio-qui è essenzialmente riconducibile e riducibile, addentro allo zoppo concludersi di Essere e tempo, alla estasi (qui heideggeriana) deiettiva-presentificante del tempo-temporalità. La temporalità inautenticamente concepita e colta si cerca nelle relazioni spaziali medesime. Spazio-qui e tempo-ora si pongono correlati (e, se si è colta la direzione del presente discorso, correlati è il termine a loro più consono). Orbene, premesso ciò procediamo verso il tardo Tempo ed essere. Abbiamo precedentemente detto che il “tempo” non è un qualcosa di essente (enticità). Abbiamo anche detto che il tempo-temporalità sorge nel momento in cui il triplice irradiarsi del tempo è colto e pensato come estasi. Ed estasi è cooriginarietà. La temporalità d'altronde è tutta nel suo più proprio temporalizzarsi. In cotale pensare la cooriginarietà è (risiede) un coappartenersi delle estasi “nel loro offrirsi -l'un l'altra- per arricchirsi a vicenda. La loro unità unificante -il tempo-temporalità dell'opera prima- può determinarsi a partire dal loro carattere proprio, ovvero dal fatto che si offrono a vicenda per arricchirsi -adesso il senso è posto addentro la “dinamica”, meglio, come “dinamica” di vicendevole offrirsi-arricchirsi-. Ma che cosa offrono per arricchirsi a vicenda? Nient'altro che se stesse...: ciascuna di loro offre il proprio essere essenzialmente presente [An-wesen] -quella essenziale presenza (permanenza) che abbiamo più sopra rivelato riguardo al ri-pensamento della deiettività, darsi nell'apparire, venire-alla-presenza-. Con questo offrire si dirada ciò che noi chiamiamo lo spazio-di-tempo. L'espressione...nomina...l'aperto che si dirada nel reciproco offrirsi di advento, essere-stato e presente -le tre estasi adesso pensate in quanto “svincolate” dall'analisi dell'Esserci- per arricchirsi a vicenda. Soltanto questo aperto...concede quello spazio che rende possibile l'estensione costitutiva di ciò che abitualmente è a noi noto come “spazio”. Questo diradarsi... per arricchirsi a vicenda è -diremo quindi sulla scorta dell'abituale- pre-spaziale – soltanto per tale motivo si può concedere spazio allo spazio, cioè si può dare spazio -può essenzialmente essere

192 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 436. Ed. Longanesi, Milano 2005. 193 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 368. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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(Seyn) come darsi de lo spazio-”194. La significatività intima di tutta quest'ultima citazione è racchiusa (non rinchiusa) in queste poche parole dei Contributi: “Lo spazio- tempo è il contenente che raccoglie attraendo e rapendo, il fondo abissale così disposto e in modo corrispondente disponente”195. Ma proprio qui soggiace quella, già nominata, “dinamica” dell'essere, ma stavolta nella sua interezza. Nei Contributi attimo196 è chiamato quel “luogo” che è solo in quanto raccoglimento (l'offrirsi per arricchirsi a vicenda, cooriginarietà, della citazione di Tempo e essere) delle estasi, ivi esse si inseriscono e così fondano. Nell'attimo dei Contributi riecheggia la decisione197, esistenzialmente intesa ed essenzialmente inerente all'Esserci e a lui soltanto, che l'analisi di Essere e tempo estrae e raggiunge dal e nel suo stesso sito d'analisi; ma qui riecheggia in un orizzonte differente. L'attimo dei Contributi è già-posto in proprietà198 all'esser-ci, e proprio in tal modo ponendolo, ponendo cotale esser-ci. La temporalizzazione (il più proprio temporalizzarsi della temporalità tutta, ri-pensamento della deiezione prima compiuto) è nei Contributi ciò che fonda abissalmente (fondo abissale, spazio-tempo) in quanto è disposizione del negarsi o dis-posizione dell'essere (Seyn) (l'indugiare dei Contributi). “Il negantesi si nega però indugiando199, e dà così la possibilità della donazione e dell'appropriazione... Questa attrazione ammette la possibilità della donazione come possibilità che è essenzialmente, le dà spazio. L'attrazione è il dare spazio all'evento... Il dare spazio fonda ed è il sito dell'attimo -qui si tirano le fila-. Lo spazio-tempo in quanto unità della temporalizzazione e della spazializzazione originarie è...originariamente il sito dell'attimo, e questo è la spazio-temporalità, abissale, dell'apertura del velamento”200. Offrire che dirada e vela, darsi del tempo che si dà, custodia di ciò che permane riserbato, si leggerà analogamente tra le pagine di Tempo ed essere201. “Lo spazio-tempo va dispiegato nella sua essenza quale sito dell'attimo dell'evento”202. Si impone nuovamente la “dinamica” dell'essere, l'evento. Anche alla espressione spazio-tempo vi compete un rimando al primo 194 Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 19. Ed. Longanesi, Milano 2007. 195 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 377. Ed. Adelphi, Milano 2007. 196 “Lo spazio-tempo in quanto sito dell'attimo in base alla svolta dell'evento”. Ivi. pag. 348. Cfr. Ivi. pag.

366, ultimo capoverso. Da confrontare anche il cenno, nel suo legame a la decisione ed all'esser-ci, Ivi. pag. 376, secondo capoverso.

197 Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pagg. 324-325. Ed. Adelphi, Milano 1994. L'analisi della decisione è legata al fenomeno esistenziale della coscienza. Se ne ricava un sunto aderente ai contenuti di Essere e tempo.

198 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), par. 197. Ed. Adelphi, Milano 2007. 199 Cfr. espressamente, riguardo l'indugiante diniego, “la vicinanza avvicinante avente il carattere del

rifiuto e del riserbo” in: Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 21. Ed. Longanesi, Milano 2007. 200 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 375. Ed. Adelphi, Milano 2007. Per il

diniego indugiante, il quale ri-chiama la nostra “dinamica” dell'essere, cfr. limpidamente ivi. pag. 371. 201 Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 21. Ed. Longanesi, Milano 2007. 202 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 320. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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inizio. Cioè anche lo spazio-tempo trova nei Contributi un posto addentro la decostruzione del dominante, fin dai suoi velati, ed anche in codesto caso velanti, inizi203. Indi per cui si trova il posto anche per un rinvio, questa volta un po meno “esplicito” ma altrettanto esplicato e necessario se sino a qui si è proceduto camminando insieme, all'altro inizio204. Ciò non di meno lo spazio-tempo in quanto fondo abissale risulta la espressione della fondazione più ostica ed ermetica per il pensiero filosofico-speculativo. Il perché, e più che altro il per-come, di ciò si rischiarerà più oltre in questo scritto. Concludo trascrivendo un utile esempio di cotale osticità di cui si è venuto a parlare. “Lo spazio-tempo è l'avvenuto fendersi dei solchi in cui si volta l'evento, la svolta tra appartenenza e chiamata, tra abbandono dell'essere e accenno che conquista (il vibrare dell'oscillazione dell'Essere stesso!). Vicinanza e lontananza, vuoto e oscillazione, slancio e indugio -termini secondo i quali noi abbiamo intuitivamente e per “analogia” scelto le parole “dinamica” dell'essere, nella significatività sino ad ora indicata, e proprio a tali heideggeriani termini rimirante-”205. Riportiamoci su la fondazione e le sue tre, da noi definite, espressioni. Spazio-tempo è più originario di ogni tempo-ora e di ogni spazio-qui (nonché della temporalità inerente all'Esserci come ricavata dall'ontico verso l'ontologico in quanto passaggio attraverso l'analisi esistenziale del medesimo Esserci). Tale è fondo abissale, e tale è proprio come la fondazione (il nostro “punto di riferimento”). E tale viene dallo Heidegger, in svariati passi, assimilato (quantomeno sul piano teoretico) all'essenza della verità: “salvataggio della verità e dunque dello spazio tempo -tra l'altro salvataggio è essenzialmente dell'esser-ci- nell'ente”206. Nei Contributi la chiarificazione (l'illuminarsi) di ciò che è fondazione sorge, paradossalmente rispetto all'ermetismo del linguaggio ma come non mai in codesta opera medesima, giustappunto ove si parla dello spazio-tempo come fondazione abissale. Quest'affermazione poteva essere ricavata o estrapolata già dall'inizio del presente sotto paragrafo, ma è nostra intenzione esternarla maggiormente e fondarla con citazioni direttamente prese dal testo a cui siamo posti di fronte. L'essenza dello “spazio” e del “tempo” è posta (ed ha da cogliersi, dice l'autore) “in quanto spazio-tempo -e poiché tale è essa- appartenente all'essenza della verità quale fondamento che apre la radura per il velamento”207. “Spazio” e “tempo” “sono originariamente uniti nello spazio-tempo; appartenendo all'essenza della verità sono la fondazione abissale del Ci, tramite il quale...sono fondati l'ipseità e tutto ciò che dell'ente è vero -credo che adesso si possa 203 Cfr. ivi. pagg. 367-368. 204 Cfr. ivi. pagg. 377-378. 205 Ivi. pag. 364. 206 Ivi. pag. 373. 207 Ivi. pag. 369. Riguardo l'essenziale verità cfr. ivi. pag. 372 e 376, penultimo capoverso.

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evitare di fraintendere cotale “vero” dell'ente o almeno evitare la sua ovvietà-”208. La spazio-temporalità (o sito dell'attimo) è “del” Ci209. Ciò che è la fondazione è nelle e come le tre espressioni esser-ci, verità, spazio-tempo. In codeste ultime trascrizioni de i Contributi si parla di tutte e tre le espressioni, si dice del legame loro costitutivo e in esse stesse costituente, si dice del loro come210, si dice de la fondazione. Ribadiamo. Ciò che è fondazione è il darsi (nei Contributi ac-colto esplicitamente ed in parole scritte, quantomeno, sul piano filosofico) del fondamento. Ma quest'ultimo diviene (appare, si dona come, si dà) fondazione solo nell'esser-ci (Ci), nella verità (essenza della verità, originarietà della verità), nello spazio-tempo (in quanto fondo abissale). Tutto ciò nei Contributi sta a dire: fondamento è fondazione come esser-ci, verità, spazio-tempo. Esser-ci, verità, spazio-tempo dicono essenzialmente dall'evento. Ciò che è la fondazione dice nell'evento. Essa già-da-sempre riecheggia dall'evento.

II.V LINEA TRASVERSALE: LA MACCHINAZIONE

Alla fine del primo capitolo è stato precisato che l'andamento del presente scritto, nonostante sia quasi totalmente incardinato “sui” Contributi, o meglio vertente al pensare che costituisce essenzialmente quest'opera di riferimento, non seguirà linearmente il procedere del testo medesimo a cui ci siamo posti di fronte. Non vi è aderenza tra la strutturazione dei Contributi e l'esplicarsi del procedere del nostro scritto. Non è su tal piano che si può cogliere un loro combaciare. In codesta premessa sta la collocazione di ciò che qui denominiamo “linee trasversali” dei Contributi. L'ambito di scelta, il registro semantico, dei termini usati è lo stesso de i cosiddetti “punti di riferimento”. Ma cosa si propone o ripone nella perifrasi “linee trasversali”? Nel testo a cui siamo posti di fronte vi sono alcune tematiche, o meglio sarebbe dire questioni aperte, che si pongono appunto trasversalmente rispetto alla strutturazione del libro medesimo. E trasversalmente poste nonostante siano le uniche vere zone tematiche che possano definirsi tali. Cioè: vi sono un certo numero di questioni aperte che stanno, contenutisticamente, addentro ad un pressoché delineato limite

208 Ivi. pag. 368. 209 Ivi. pag. 375, fine terzo capoverso. 210 Torna qui nello specifico ed esplicitamente il come (als). Cfr. Martin Heidegger, Tempo e essere, pag.

27, terzo capoverso. Ed. Longanesi, Milano 2007.

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tematico, al quale possono essere ridotte o ricondotte, ma che si trovano per lo più sparpagliate (a volte solo con richiami nominali) nei diversi capitoli dei Contributi. Per quanto poi, non lo si dimentichi, anche codeste questioni aperte (come eminentemente accade per i punti di riferimento) non si esauriscono (appiattiscono) nel mero contenuto; ma anzi apportano, quantomeno, un'intrinseca ermenesi, loro costitutiva, appartenente ad un orizzonte altro rispetto al dominante. Ad ogni modo esse si presentano assai più consone ad una lettura propriamente speculativo-filosofica. In proposito vi sarà maggior chiarezza, vi sarà nel mentre del nostro addentrarci in queste linee trasversali. Ma perché mai ora, quando mancano ancora all'appello due cosiddetti punti di riferimento, introdurre codesto discorso? Intanto perché ogni linea trasversale può essere, in certo qual modo, come abbiamo detto, conchiusa filosoficamente in sé. Nel senso però che la sua problematicità rimane aperta ma rimanda essenzialmente ad altro rispetto al suo concretizzarsi questione o tematica filosofico-speculativa. Ma soprattutto poiché, ed in ciò si illumina il significato anche della frase precedente, al di là della presenza testuale non indifferente di cotali questioni, esse aiutano ad avvicinarci (ma in verità al contempo possono distoglierci) al pensare dei Contributi. Non lo fanno però, ribadiamo, su un unico medesimo piano. Quello in cui ed a cui l'intero presente capitolo tende, che più che un piano è, lo abbiamo da tempo affermato, una prospettiva detta il pensare (qui heideggeriano, dei Contributi) come cammino (in-cammino), rimane assai “prossimo” ad una determinata linea trasversale. Quest'ultima prende prevalentemente, nei Contributi, il nome di macchinazione (Machenschaft). Questa prospettiva fin qui da noi tendenzialmente assunta (e desunta), prospettiva sempre adocchiante il come del semplice contenuto, ingloba ed al contempo viene inglobata da ciò che in Heidegger viene denominato macchinazione. La rischiarazione è duplice, rimbalza. Dunque, affermiamo preventivamente, nello Heidegger la macchinazione si incarna in “quel mentre” che si pone come primo inizio-altro inizio. Ma in che senso ciò? È fin da ora che possiamo permetterci, per ben direzionare il domandare di cotale domanda, di convogliare unitamente macchinazione ed essenza della tecnica (problematizzazione de la tecnica moderna). Ebbene però, in armonia con quel che è stato assunto in precedenza (la valenza dell'assunzione non è qui ulteriormente specificata, questo perché essa può divenire chiara solo dopo avere affrontato la macchinazione), “tutto ciò che è tecnica non giunge mai all'essenza della tecnica. Non sa neanche dove sta di casa”1. Come si giungerebbe dunque all'essenza della tecnica? La risposta del 1 Martin Heidegger, La svolta, pag. 31, secondo capoverso. Ed. il Melangolo, Genova 1990.

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pensare heideggeriano ( i Contributi) è macchinazione. Bene, codesta affermazione verrà assunta ed approfondita nelle prossime pagine; ma non sarà definitiva, perlomeno non in quanto asserzione. La macchinazione è intimamente legata alla questione della tecnica, alla sua problematizzazione. Il ri-pensamento problematizzante della tecnica trova nella macchinazione l'esplicarsi di uno sguardo limpido e profondo che sa addentrarsi. Ne la macchinazione viene ad operare un ricongiungimento, un ri-accoglimento, ri-pensamento, di tutta una questione aperta (appunto la questione della tecnica, dell'essenza della tecnica moderna, la quale sarà così, e propriamente anche tramite il delinearsi di tali parole, essenzialmente focalizzata) in seno al darsi dell'essere, orizzonte originario. Oppure, filosoficamente: addentro a la storia dell'essere. Si premette, sulla linea di codesto discorso “introduttivo”, che la parola macchinazione trova posto principalmente nei Contributi. In altre opere successive del medesimo autore essa non compare2. Ciò non vuole dire che in queste o altrove non vi sia un pensare (ri-pensare) che stia nella stessa “frequenza” riguardo la medesima cosiddetta questione aperta. L'aver, nel trascorso paragrafo, rischiarato lo scandibile tempo-ora, nonché il frazionabile spazio-qui, ci posiziona già in un netto vertere a la macchinazione. La macchinazione è infatti intimamente legata all'essenza del calcolabile (quindi del calcolo in quanto calcolare). La calcolabilità d'altronde altro non è che la possibilità della rap-presentazione dell'essenza (quindi, qui, nell'essenza) originaria del quantitativo. La calcolabilità si dà legata (e rilegata) nella grandezza o nella quantità intese come categorie (ovvero poste, ontologicamente, su lo stesso piano de la qualità come categoria). Ma le categorie essenzialmente sono in quanto determinazioni dell'essere come enticità (vedasi discrepanza categorie/esistenziali in Essere e tempo). Possiamo così comprendere che nell'oggi, ovvero nelle ramificazioni del dominante, “spazio e tempo non possono essere capiti altrimenti che quantitativamente, al massimo in quanto forme di tali quantità. Pensare poi lo spazio-tempo come qualcosa di totalmente non quantitativo ha l'effetto di una pretesa strana”3. Siamo, in tal modo, già resi vicini a quel ri-pensamento che opera in quanto, nei Contributi, emerge la macchinazione. Per iniziare, nell'opera a cui siamo posti di fronte la macchinazione è es-posta sotto un altro vocabolo. Il quale ne risalta talune fisionomie senza però obliarne l'intero aspetto, cosa tra l'altro non possibile se si permane nel pensare che siamo a ripercorrere. Cotale vocabolo è il gigantesco, il calcolabile-suddivisibile, per rifarci allo spazio-tempo in quanto

2 Da macchinazione a Ge-stell, cfr. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 24,

ultimo capoverso. Ed. Adelphi, Milano 2007. 3 Ivi. pag. 153.

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innanzitutto e per lo più inteso (dimensioni), o, in una parola, il quantitativo, ma il quantitativo nel suo esser ri-pensato essenzialmente. Nello Heidegger, perciò, il gigantesco “non è più ciò che di oggettivo e rap-presentabile appartiene a un illimitato “quantitativo”, ma è la quantità come qualità. La qualità è intesa qui come carattere fondamentale del quale, del “che cosa”...dell'Essere stesso”4. Teniamo quindi a mente, per non fare confusione con le categorie “dell'”enticità, la significatività heideggeriana de la qualità, estratta da quest'ultima citazione. Peculiare al gigantesco diviene l'illimitato; ciò che non è vincolato ad un limite alcuno, ovvero l'illimite del rap-presentare pianificante caratterizza il gigantesco. Il quantitativo come il gigantesco domina nell'oggi l'ente tutto. Il rap-presentare è il “luogo” ove si fonda l'essenza del quantitativo o il gigantesco, ed il rap-presentare “si attiene come tale sempre e contemporaneamente all'ente e si occlude del tutto nei confronti dell'Essere”5. Enticità. Del gigantesco l'enticità ne è, ne è fondamento (...lo fondamento e non a fondamento). Ed essa è fondamento della stessa macchinazione di cui il gigantesco è appunto tratto somatico, espressione (in accezione uguale a quella usata per rischiarare l'intimo legame fra esser-ci, verità, spazio-tempo e la fondazione). Ma non disperdiamoci nelle profondità dell'enticità, riportiamo piuttosto lo sguardo sull'essenza più ampia del calcolabile. Fissiamoci dunque su la macchinazione o essenza della tecnica (ma anche codesta “tecnica” qui ri-pensata in seno all'orizzonte delle storia dell'essere). Heidegger arriva, se non (per certo) alla definizione di questa, alla fissazione (qui a livello speculativo-filosofico) dell'orizzonte ad essa assonante, cioè con-facente. “Lo schema della generale e calcolabile spiegabilità tramite cui qualsiasi cosa è ugualmente resa comparabile con qualsiasi altra e diventa del tutto estranea a se stessa, trasformata...a se stessa più ancora che solo estranea”6. Più mirate a la macchinazione che non al suo orizzonte, sono le prossime heideggeriane parole: macchinazione, “questa è la denominazione di una determinata verità dell'ente (della sua enticità). Anzitutto tale enticità è per noi coglibile come oggettività (l'ente in quanto oggetto della rappresentazione). La

4 Ivi. pag. 152. 5 Ivi. pag. 154. 6 “...Il riferimento di non avere riferimento”. Ivi. pag. 150. Se queste parole richiamano forse da lontano

l'analisi del “comportamento teorico” soggiacente alle scienze, in Essere e tempo; è invece del loro stesso “timbro vocale” il dire, passante nel ri-pensamento della fisica, della psichiatria, della storiografia, della filologia, de La scienza in genere (l'inaggirabile), e che il tale ri-pensare pone a questione l'oggettità, in: Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pagg. 35-42. Ed. Mursia, Milano 1976. Sempre a tal proposito, in armonia con quest'ultimo rinvio, ma con un occhio di riguardo rivolto all'autofondazione del comportamento teoretico-scientifico (tematica della verità e della realtà), leggasi: Martin Heidegger, Tempo e essere, pagg. 76-77, l'esempio di partenza è quello della cibernetica, l'esempio qui è poi la postazione di ascesa (o discesa nelle profondità) del discorso. Ed. Longanesi, Milano 2007. Ed ancora: Martin Heidegger, La svolta, pag. 29, in particolare le ultime righe. Ed. il Melangolo, Genova 1990.

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macchinazione la coglie però più profondamente, più inizialmente, perché la riferisce alla τέχνη... Dominio del fare e dell'artefatto”7. Ivi sta la problematicità, heideggerianamente storica, che il ri-pensamento heideggeriano colpisce, sì portandola (l'essenza della tecnica moderna) in superficie, ed in ciò portando cooriginariamente l'orizzonte suo proprio. Ma non ci si fraintenda! Codesti ultimi fare ed artefatto non sono dipendenti dall'operare degli uomini, dal pianificare (qui in senso quasi tecnico ma al contempo più immateriale possibile) di costoro, dall'umano dominare ciò che ci sta intorno8. Rammentiamoci dell'orizzonte! Ebbene la questione si pone come altra, più che non solamente contraria: è nella macchinazione che emergono codesti operare, pianificare, dominare. La macchinazione stessa, al contempo, sorge in essi, meglio, sorge come essi (eppur già-sempre in quanto tale, allo sguardo che sa vederla). “Il fare (τέχνη)...ci è noto come comportamento umano. Senonché proprio questo è possibile solo sul fondamento di un'interpretazione dell'ente che ne metta in luce la fattibilità -quindi enticità avente, diciamo, carattere e aspetto di fattibilità-...in maniera che ormai vale la preponderanza di ciò che è fattibile e di ciò che si fa, ciò che in breve è chiamato macchinazione... Macchinazione in quanto essenza dell'enticità nel pensiero moderno”9. Facile, dalle ultime parole, è pensare la macchinazione come temperamento stesso del dominante. Temperamento radicato nell'oggi come non mai. In codesta interpretazione, che il testo medesimo consiglia, vi affluisce, di nuovo, la decostruzione della metafisica. Qui intesa nel senso proprio de il dominante, e riferita ad un suo, attuale, cosiddetto carattere10. “Il sorgere dell'essenza dell'ente nel modo della macchinazione...comincia ad avere effetto fin dal primo inizio del pensiero occidentale”11. Una aura di epocalità dell'essere emana da la macchinazione. Sappiamo come codesta parola, epocalità dell'essere, risulti lontana da ogni storicismo. Altrove è scritto che “nel vicendevole porsi di uomo ed essere, siamo in ascolto dell'appello che determina la nostra epoca. L'im-posizione -il Ge-stell, l'im-posizione (Vattimo), ove affluirà ciò che nei Contributi viene parlato in quanto macchinazione- è ovunque qualcosa che ci riguarda direttamente”12. Epocalità “dell'”essere. L'essere si epocalizza. 7 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 149. Ed. Adelphi, Milano 2007. Cfr.

anche, rileggendo codesta nota a cui si rimanda integrata con l'apporto teoretico, cioè l'assunto, della nota trascritta nel nostro testo, ivi. pag. 87, inizio del secondo capoverso. Oppure, compiendo la medesima operazione, in ivi. pag.442, secondo capoverso. Entrambi tali rimandi dicono dell'enticità e della rap-presentatività, ma con un'accezione consona a la macchinazione.

8 Limpidamente e senza ulteriori rinvi, cfr. Martin Heidegger, Identità e differenza, in Aut Aut fascicoli 187-188 gennaio-aprile 1982, pag. 10, primi 3 capoversi. Ed. La nuova Italia, Firenze.

9 Ivi. pagg. 144-145. 10 Esplicitamente, cfr. ivi. par. 64. La medesima asserzione può essere inferita per il gigantesco, a

proposito vedasi: ivi. par. 71. Ed ivi. pag. 429, le forme del gigantesco annoverate. 11 Ivi. pag. 149. Cfr. par. 64. 12 Martin Heidegger, Identità e differenza, in Aut Aut fascicoli 187-188 gennaio-aprile 1982, pag. 12,

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“Interrompiamo” e rammentiamo: il pensare come cammino, porsi-in-cammino, è in codesto intero capitolo la prospettiva ed al contempo il punto di fuga che incarniamo. In ciò rientrano tanto i due inizi quanto l'epocalità (dell'essere). Eppure non si equivochi: pensare come “via” non significa che ci sia un per-corso da un qui ad un lì (in qualunque genere li si voglia intendere), ma significa che vi sono sentieri da percorrere (propriamente, il pensare). Il senso di ciò è filosoficamente zoppo, nebuloso, inadatto, fuori luogo. Ebbene, fin qui, così deve restare. Ricollochiamoci indietro di un capoverso. Macchinazione riguarda da vicino l'oggi che ci costituisce. Un epocalizzarsi dell'essere diviene l'orizzonte di comprensione, fosse anche parziale, de la macchinazione. L'epocalizzarsi, già incontrato precedentemente, non rischiara la comprensione dell'essere nel suo darsi, non rischiara la “dinamica” dell'essere, non da solo e non nel luogo dove siamo or ora giunti durante il nostro incamminarci. A dispetto di ciò, l'epocalizzarsi dell'essere va, concordemente al discorso ri-guardante la macchinazione, approfondito. Epocalità è ciò che viene pensato, è ciò che richiede qui di pervenire ad un qualche rischiaramento. Almeno all'interno dei margini concernenti la macchinazione. Così Vattimo: “nell'epoca finale delle metafisica, questa si rovescia, per così dire, nel proprio opposto -opposto non altro- e diventa l'ordine pienamente attuato di un certo mondo;...non è più altro che il modo di funzionare -“fare”- di una certa struttura storica e di una certa civiltà. Ciò può accadere quando sia andato perduto...anche l'ultimo ricordo della differenza ontologica... L'aspetto più significativo di questo processo è la tecnica moderna...completa incapacità di pensare”13. Troviamo, concordemente al nostro scritto: non un pensiero, pianificare-calcolare o rap-presentante, bensì il pensare. Cioè, fin qui, un pensare come in-camminarsi. Ancora riguardo alla citazione appena trascorsa, il fraintendimento dell'epocalità, filtrandola attraverso una qualche forma di interpretazione (più che altro storicistica), è ora più che mai possibile. Non credo si possa infatti affermare (heideggerianamente, si intende) che la “macchinazione -è- la forma dominatrice in cui l'epoca presente si organizza al fine di ignorare la risonanza dell'altro inizio”14. Fosse anche solo, poi, per la necessaria esclusione di ogni possibile darsi dell'essere (“dinamica”) che possa “in sé nulla escludere” (la tecnica ivi sarebbe difatti esclusa; in merito si vedrà poi). Ma non è nostra intenzione fossilizzarci su cotale

secondo capoverso. Ed. La nuova Italia, Firenze. Per epocalità ed im-postazione, con l'accento su quest'ultima, cfr. ivi. pag. 12, primo capoverso. Inoltre, per un esplicito riferimento all'epoca attuale, in quanto epoca (dell'incanto), si veda: Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), par. 59, primo capoverso. Ed. Adelphi, Milano 2007.

13 Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 43-44. Ed. Marietti, Genova 1989. Cfr. anche legame tecnica (ri-pensata) e storicismo, ivi. pag. 45.

14 Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.326. Ed. Morcelliana, Brescia.

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asserzione. Né inserirci in alcuna polemica. Epocalità dell'essere dunque. Essere pensato come l'evento ed essenziale permanenza. Sappiamo che le principali fratture (i concetti, l'essenziale concettualizzazione de...) a cui il pensare metafisico “ha sottoposto” l'essere ed il pensiero che ad esso si riferisce (fratture emerse, ma certamente non in quanto fratture, in toto nella filosofia occidentale), anche se si potrebbe concisamente dire: la comprensione dell'essere, sono individuate dallo Heidegger ne Introduzione alla metafisica. Sappiamo anche che esse non sono accettate dal pensatore di Meßkirch, e che anzi l'intera sua filosofia, e tanto più il pensare di questa, è volta ad un loro ri-pensamento evocante e già-sempre vertente all'appropriazione dell'essenza della verità dell'essere. Essenza della verità, per l'appunto, altra dalla verità della metafisica o dominante. Recepiamo, ma è Heidegger stesso ad esplicitarlo, da codesta direzione del suo pensare (l'avvicinamento a ed il ri-coglimento di Parmenide consta in ciò) che l'essere è. Ed essendo, di esso si può solamente dire che si dà; o in linguaggio poetico: “che tutto è disposto nel suo abbraccio”. L'epocalità emerge come epocalità (il darsi ne l'oggi) in questo poetico abbracciare che inerisce all'essenza dell'uomo già-da-sempre più d'ogni altro “qualsiasi cosa”. Ma rischiarare oltre la macchinazione attraverso questa direzione (passando per l'epocalità dell'essere) è prematuro. Interrompiamo quindi, per ora, l'ulteriore percorrere tale strada, e riportiamoci più a monte, tenendo comunque ben presenti gli arrivi a cui siamo giunti. Dobbiamo infatti ancora meglio delineare, per quanto ce lo permettano i Contributi, i, per così dire, tratti somatici de la macchinazione. Ed uno nello specifico, preso atto della sua espansione e valenza: esso viene denominato “esperienza vissuta”. Abbiamo sopra accennato a il fare ed ai suoi derivati, ri-pensati all'interno del discorso su la macchinazione, come non-dominio degli uomini. Eppure, di converso, nell'articolarsi della macchinazione (ne l'oggi; il gigantesco in quanto tratto o espressione) il riferimento al soggetto rap-presentante, in quanto membro (apparentemente principale) del rapporto soggetto/oggetto, ovvero l'io-soggetto (egoità), è posto nell'importanza (im-portanza)15, o potenza. “Con il massimo di oggettività degli oggetti...si accompagna...il trionfo del soggettivo... Esaltazione del soggetto e dell'oggettività dell'oggetto... Individualismo e anonimità; questa alternativa è proprio il punto di arrivo della metafisica”16; qui metafisica in senso ampiamente

15 “Nel gigantesco si mostra la grandezza del “soggetto” certo di se stesso che costruisce tutto in base al

proprio rap-presentare e produrre...in ogni caso il “soggetto” (uomo) si dispiega qui diventando il centro dell'ente”. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pagg. 429-430. Ed. Adelphi, Milano 2007. Per quanto concerne il binomio soggetto/oggetto, per altro precedentemente incontrato, all'interno del pensiero del cosiddetto primo Heidegger rinviamo ad: Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 150. Ed. il Melangolo, Genova 1999.

16 Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 46. Ed. Marietti, Genova 1989.

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heideggeriano, nonché in tono epocale. La macchinazione è l'orizzonte (epocale) in cui l'io-soggetto può giungere in auge. Così, da tale accenno prende il via la possibilità di introdurre, nel presente scritto, il cosiddetto tratto somatico (concernente la macchinazione) de l'esperienza vissuta. Ma cotale accostamento (macchinazione ed esperienza vissuta), innanzitutto e per lo più, viene metabolizzato come un assurdo, o un controsenso, oppure un qualcosa di perlomeno stridente. Non ce ne stupiamo (ivi, in noi, ormai tutto dà meraviglia, ma assolutamente niente stupisce o sconcerta). Ma le cose non stanno così nel pensare a cui noi siamo ad accompagnarci. Nei Contributi la macchinazione si costituisce in stretti e forti vincoli all'esperienza vissuta. L'opposizione che le separa non ha, heideggerianamente, nulla di originario, niente di essenziale. Tale opposizione resta altresì vincolata all'unica essenza che costituisce entrambe; la quale poi, per quel che concerne codesto paragrafo, altro non è che la macchinazione medesima, indi fondante. Ma in che modo o in che senso la macchinazione si costituisce in stretti vincoli con l'esperienza vissuta? Nonché, e prima ancora, cos'è esperienza vissuta nel pensare dello Heidegger? “Esperienza vissuta” è una delle poche perifrasi alla quale Heidegger, nei Contributi, attribuisce una definizione che possa dirsi speculativamente definitoria. Per la precisione la definizione si riferisce al vivere esperienze. Tanto meglio. Ma si deve tener conto di questo: come altrove, ciò (la definitorietà) non sta a dire che nella proposizione definitoria in questione, in quanto tale, è riposta l'intera significatività de l'esperienza vissuta in quanto ri-pensata nell'orizzonte della storia dell'essere o dell'evento. Comunque, premettiamo che l'esperienza vissuta è adocchiata dallo Heidegger in quanto fenomeno dell'apparire (un apparire avente, al “palato” del pensare, un certo sapore. La malaessenza. Vi torneremo approfonditamente poco oltre). Quindi del, o meglio, come, darsi dell'essere17. Ne viene, heideggerianamente, che l'esperienza vissuta è in quanto fenomeno dell'apparire; ed è legato essenzialmente alla macchinazione. Però, aggiungiamo, combacia 17 Già abbiamo fatto cenno a quest'aspetto (in accezione quasi somatica) del pensare (heideggeriano); o

del cogliere (il che è lo stesso, se ne dirà poi). Qui vi si propongono taluni rimandi testuali. “”Essere” significa “apparire”... Quest'ultimo non è qualcosa di accidentale... L'essere è (West) come apparire”. Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pag. 111. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990. Da porre in rilevanza l'è (West) ed il come. Fecondo percepiamo, poi, un rimando testuale a Severino. L'analogia , meglio, il risuonare, del dire della precedente citazione echeggia: “L'essere, tutto l'essere, è; e quindi è immutabile. Ma l'essere che è manifesto è manifesto come diveniente -anche qui, come è codesto come? non è una risposta che richiediamo, è tale come che deve farci gravitare-... Si vuol dire che tutto l'essere...è già da sempre tratto in salvo e da sempre e per sempre ospitato e contenuto nel cerchio immutabile dell'essere: tutto il positivo tutto quanto c'è di positivo nel divenire -cioè il “divenire” essenzialmente ri-pensato-, è”. Emanuele Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, pagg. 29 e 30. Ed. Adelphi, Milano 1982. Assai diverso, probabilmente, dall'incontrato laureando e dottorando giovane Severino. Forse però quel giovane Severino può riflettere “semplicemente” nuove colorazioni alla luce di quest'ultima, e in esso più matura, citazione.

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(speculativamente: inerisce) solo parzialmente al ri-pensamento heideggeriano dell'esperire in toto. Ri-pensamento, non scordiamolo, a cui si è già più volte accennato, eppure, fino a qui, ancora mai essenzialmente lo si è rischiarato. Veniamo a cosa debba intendersi, nello Heidegger, per esperienza vissuta: “mettere in relazione a sé come centro di riferimento l'ente in quanto rap-presentato e includerlo così nella “vita”... L'uomo in quanto “vita” (animal rationale) (ratio – rap-presentare!). Solo ciò che è vissuto e che si può vivere come un'esperienza,...ciò che l'uomo è capace di portare a sé..., può valere come “ente””18. Mettere in relazione a sé dunque. Ed in quanto ciò farne (il soggetto logico-grammaticale è ora ininfluente) un qualcosa di “vissuto” (come nell'accezione in cui si dice: “uomo di mondo”) e così dall'io ingerito. Sé. Relazione. Parole che sono, qui per noi, spie d'allarme nonostante, ma proprio per ed in tale “nonostante”, il loro ampio e quotidiano uso. Tutto questo ha a che fare primariamente con la certezza dell'io19. “Il sorgere dell'esperienza vissuta... -promuove e consolida- il modo di pensare antropologico”20. L'esperienza vissuta è antropocentrica. Esperienza vissuta è antropocentrismo. Antropocentrismo fonte di molte “visioni del mondo e della vita”, finanche nell'accezione più idealistica, più ottusa, più odiernamente ideologica che di cotale perifrasi possa intendersi (gli “ismi”). Eppure cotale antropocentrismo (esperienza vissuta) non dice, pur parlando e blaterando enormemente, assolutamente nulla di essenziale né riguardo gli Uomini-umanismi né sull'essenza di quell'ente chiamato, occidentalmente, uomo. Già-da-sempre all'antropocentrismo-esperienza vissuta soggiace (o con meno parole: esso è come) l'enticità ed, esso è, una pre-determinata interpretazione della verità. Da qui l'espansione del modo di pensare antropocentrico e/o antropologico largamente condiviso anche quando non manifestamente accettato (o addirittura esplicitamente contestato). Da qui l'antropologia nel suo possibilizzarsi in quanto tale nonché, magari successivamente magari fin da subito, risulta ininfluente, come scienza. Ecco, quantomeno sul piano di approccio contenutistico, la “prova del nove” di ciò che, tramite lo Heidegger, andiamo affermando su il fenomeno de l'esperienza vissuta: “qualora si consideri il comprendere come una specie di conoscenza che constata le “esperienze vissute” interiori di un “soggetto” e, in maniera corrispondente, si consideri colui che comprende come io-soggetto, allora viene meno ogni speranza di capire ciò che si intende -heideggerianamente- con comprensione dell'essere -esplicitamente Essere e tempo, l'orizzonte di avvio, problematizzazione, dell'intero

18 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 147. Ed. Adelphi, Milano 2007. 19 Cfr. ivi. pag. 149. 20 Ibidem.

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pensare heideggeriano-. Da ciò risultano inevitabilmente i più grossolani fraintendimenti”21. Infine, per tematica completezza de l'esperienza vissuta: così come nel gigantesco l'illimite è caratterizzante, o meglio costitutivo, anche l'esperienza vissuta e macchinazione “per essenza...non conoscono alcun confine... Più di tutto è a loro estranea la forza della custodia... Tutto è aperto e nulla è impossibile. Esse devono credere di essere la totalità e ciò che perdura”22. É però per noi, in questo nostro ripercorrere il pensiero e soprattutto il pensare dei Contributi, di maggior rilievo una “particolarità” de l'esperienza vissuta in quanto tale. “Particolarità” filosofico-speculativamente definibile peculiare all'esperienza vissuta nel suo rapporto con la macchinazione. Vediamo... Macchinazione ed esperienza vissuta, “entrambi sono termini che denominano la storia della verità e dell'enticità come storia del primo inizio”23. Ma l'esperienza vissuta si configura innanzitutto come un mascheramento-obliante della macchinazione, macchinazione in quanto essenziale fondamento de le esperienze vissute24. “Quanto più incondizionatamente l'esperienza vissuta vale come criterio di misura della correttezza e della verità (e dunque della “realtà”...), tanto più improbabile diventa...un riconoscimento della macchinazione come tale. Quanto più improbabile è questo disvelamento, tanto più indiscutibile è l'ente -ovvietà nell'oggi, non necessità necessitanti, l'essere come “il più generale” e non ciò che vi è di più problematico, oblio appunto-”25. L'ente come enticità, rap-presentatezza, calcolabilità, lungi dall'esser posto in discussione, permane in quell'ovvio ove una “critica” effettuante un ri-pensamento (come quello heideggeriano, per esempio) nell'orizzonte dell'essere, ove un pensare autenticamente tale, proprio non ha senso alcuno. L'altro non perviene, velato si adombra, un o ogni altro inizio resta dimentico di sé. La macchinazione come esperienza vissuta consolida se medesima come macchinazione e pone nell'incanto del e nell'oggi26. O, percorrendo l'altro versante: la dominante “vera realtà” (i modi della realtà veritiera, correttamente asserita) di cui l'esperienza vissuta e la macchinazione fanno sfoggio (o presuppongono), della quale queste due si sentono spesso araldi e portavoce, tiene in serbo come essenza, in quanto

21 Ivi. pag. 262. Ed ancora: “Lo stare a comprendere (Ver-stehen) l'essere in quanto fondazione della sua

verità è dunque il contrario della “soggettivizzazione” poiché implica il superamento di ogni soggettività e dei modi di pensare da essa determinati -antropocentrici ad esempio-”. Ibidem.

22 Ivi. pag. 148. 23 Ivi. pag. 150. 24 “Macchinazione ha come elemento corrispondente, a lungo tenuto in ombra..., l'esperienza vissuta”.

Ibidem. 25 Ivi. pag. 145. 26 Rimando a: ivi. par. 59.

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maschera (verbo, non sostantivo), l'abbandono dell'essere27. La macchinazione si sottrae. Come l'abbandono dell'essere im-postosi nel nascondersi e poi nell'oblio. Costituisce essi (la macchinazione; l'abbandono dell'essere) la stessa “dinamica”? Probabilmente non è un caso ritrovare esplicitamente macchinazione e esperienza vissuta, nel loro reciproco legarsi, impastati all'enucleazione (e problematizzazione) dell'abbandono dell'essere, e perciò essenzialmente appartenenti a quell'oggi da codesto abbandono caratterizzato essenzialmente, sviluppata proprio agli inizi del capitolo La risonanza28. Capitolo da cui promana, teoreticamente, il percorso intero dell'opera alla quale siamo posti di fronte. Capitolo in cui abbiamo iniziato ad intravedere ciò che abbiamo nel presente scritto denominato la “dinamica” dell'essere (Seyn). D'altronde, altrove29, per certo terminologicamente eppur mai solamente su codesto piano, “una” risonanza ed “un” salto appaiono quantomeno inerenti (nello Heidegger) al ri-pensamento (e problematizzazione) del mondo della tecnica. E meglio sarebbe parlare de il mondo come tecnica. Lo stesso dire degli ultimi nostri capoversi risiede, limpido e contratto, racchiuso, nella seguente heideggeriana frase: “la macchinazione è la prima ma ancora a lungo velata malaessenza dell'enticità dell'ente”30. Si affaccia qui la malaessenza (Un-wesen), o malaessenza dell'essere (Un-wesen). Essa, d'estrema im-portanza nell'intera opera dei Contributi, nel presente scritto, però, solo adesso può essere propriamente introdotta. Codesta parola, malaessenza, è il più ampio e sfumato orizzonte da dover accogliere per cogliere la macchinazione (eppure mai solamente essa) in quanto tale. Quest'ultima, macchinazione, si configura (è) perciò: tanto essenza della tecnica moderna, odierno dis-porsi dell'essere come enticità, quanto malaessenza dell'essere. Concentriamoci, solo un attimo, qualche citazione infatti basterà, su codeste due “costituzioni” (in entrambe le accezioni) de la macchinazione. Macchinazione come essenza della tecnica moderna: “la tecnica è un modo del disvelare. La tecnica dispiega il suo essere (West) nell'ambito in cui accadono disvelare e disvelatezza, dove accade l'άλήθεια”31. Malaessenza come macchinazione: “la macchinazione stessa e -essendo essa l'essenziale presentarsi dell'Essere- l'Essere stesso si sottraggono”32. 27 Cfr. ivi. pag. 149, primo capoverso. Rimando anche, per un esplicito legame tra “movimento”

d'abbandono dell'essere e il vivere esperienze, con particolare riguardo alla pianificabilità soggettivistica e per il ri-pensamento di ciò che nel dominante è “concretezza”: ivi. pag. 476, primo e secondo capoverso.

28 Ivi. pagg. 129-130. 29 Martin Heidegger, Identità e differenza, in Aut Aut fascicoli 187-188 gennaio-aprile 1982, pag. 15,

ultimi due capoversi. Ed. La nuova Italia, Firenze. 30 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 146. Ed. Adelphi, Milano 2007. 31 Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 10. Ed. Mursia, Milano 1976. Cfr. la tecnica moderna come (il

eppure al contempo un) disvelamento: ivi. pagg. 11-12. Come disvela? Meglio, Chi disvela? L'essere (Seyn) si dà, dandosi disvelandosi e velandosi.

32 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 145. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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Si compie, in tali parole, e nella fattispecie come malaessenza, una sorta di entropia dell'heideggeriano discorso svoltosi fin qui. Malaessenza è, innanzitutto sul piano filosofico-speculativo, ciò che chiama l'essere. Chiamandolo ri-chiama, o in una parola sola: dice. Chiamandolo in tal modo, ri-chiama null'altro che la cosiddetta “dinamica” (precedentemente, a sprazzi, posta a tema per quanto possibile al piano in cui, prevalentemente, siamo a muoverci) all'essere costitutiva. Anche se malaessenza appare inerente all'oggi (le sembianze del gigantesco e della massa) e fondamentalmente in quanto esso33 ella si staglia, “ma” proprio in ciò risulta assai agevolato il travisare la significatività medesima di storia ed epocalità heideggeriane, è l'essere (Seyn) che malaessenza dice. L'essenza della tecnica detta macchinazione è l'essere medesimo che dandosi si sottrae; cioè sottrarsi come darsi ne la macchinazione e darsi come sottrarsi ne la macchinazione (la quale essendo tale “dinamica” la espleta, e viene così detta malaessenza) vengono qui a collimare in un unico vocabolo: malaessenza. Malaessenza è la “dinamica”. Lungo questo versante non si può andare teoreticamente oltre (questo mai significherebbe, comunque stessero le cose, che il porsi in cammino del pensare finisca, tutt'altro, anche e proprio in ciò il pensare permane come l'in-cammino; sempre che di pensare fin qui si tratti e non d'altro!). Ad ogni modo, riguardo il darsi dell'essere come la macchinazione si facciano e si lascino dire il breve succedersi di parole dello Heidegger medesimo. “L'essere si invia e sussiste sempre come un destino... L'essenza della tecnica è l'essere stesso... La tecnica la cui essenza è l'essere”34.

33 Ivi. pag. 389, terzo e quanto capoverso. 34 Martin Heidegger, La svolta, pag. 11. Ed. il Melangolo, Genova 1990. Per contro, a mo di prova del

nove, il riassorbimento dell'essenza della tecnica nella luce dell'evento (Er-eignis) ed alla luce dell'evento (l'evento ad-viene), passante per il pensare riposto nella heideggeriano termine “im-postazione” (Ge-stell), e sì “traslando” (testualmente trasformando) lo stato di dominio della tecnica in uno di più essenziale “asservimento”, Martin Heidegger, Identità e differenza, in Aut Aut fascicoli 187-188 gennaio-aprile 1982, pag. 13, primo capoverso. Ed. La nuova Italia, Firenze.

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III

III.I IL PENSARE COME PENSARE ESPERENTE

La prospettiva di visuale, ed al contempo il punto di fuga, di tutto lo scorso capitolo è stata dis-posta nella seguente configurazione assertiva: il pensare come cammino o sentiero, un in-camminarsi. Pensare non è il solo pensiero, nemmeno quando quest'ultimo viene valutato il Pensiero, né, per altro verso, il pensare può essere ridotto o accostato al calcolare-pianificare, “diversamente che nel processo presentativo della scienza stanno le cose nell'ambito del pensiero”1. Il pensare viene invece a delinearsi come porsi-in-cammino (guarda a caso nel medesimo passo della citazione de In cammino verso il linguaggio si trova “l'immagine” della contrada aprentesi e delle vie che come pensiero si danno a percorrere). Porsi-in-cammino ove chi pone è il pensare medesimo, ove l'oggetto pensato (essere) ed il soggetto che pensa (l'ente che noi stessi sempre siamo in quanto cor-rispondente all'appello dell'essere; essere, appello, rispondere, in esso e di esso stesso costitutivi; tutto ciò: il pensante) non hanno più alcuna valenza fondante, ove cioè si dà l'orizzonte in cui non si com-prende (poiché come tale ivi non è, sta) il loro “ovvio” discrimine2, ove il cammino non è un “da qui a lì”, ove l'incamminarsi è epocalità e storicità dell'essere che si dà (la sopraddetta “dinamica”, per come fino ad ora è emersa), ove l'incamminarsi è l'ente che noi stessi sempre siamo nell'attimo (apertura-contrada) in cui raggiunge essenzialmente il suo più proprio costitutivo “esser messo in gioco”; o con linguaggio heideggeriano (Essere e tempo) e più ampiamente, l'esser-gettato cioè la gettatezza dell'esserci nella sua costituzione e problematicità ascendente. Tutte codeste, nella loro stessa direzione, sono, quindi è, la tensione che ci ha condotto, o lo ha prevalentemente fatto. In questa tensione si con-figurano gli inizi nel loro corrispondersi e nel loro senso si filosofico ma soprattutto più che meramente contenutistico o “peggio” ancora nozionistico. Certo se gli inizi sono ac-colti storicisticamente o storiograficamente come “tappe” di un qualcosa, oppure idealisticamente come dispiegarsi nella storia, nel tempo, della storia umana e universale, o anche solamente di quella biologico-naturale (il che è lo stesso), allora nulla è stato colto del pensare come porsi-in-cammino. Questo pensante camminare non prevede, né abbisogna, di meta, di arrivo. È il porsi (pensare) che si dà come cammino. Il pensare come porsi in cammino è pensare esperente. Se infatti si accentua il porsi la significatività della frase vira verso ciò che in queste 1Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 141. Ed. Mursia, Milano 1973. 2Cfr. limpidamente, Martin Heidegger, La questione dell'essere, in Oltre la linea, Ernst Jünger-Martin

Heidegger, pag.142. Ed. Adelphi, Milano 1989.

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pagine viene denominato pensare esperente. D'altronde potremmo rinviare testualmente ad una strofa heideggeriana, nella quale troviamo una “equiparazione”, un'analogia (qui da intendersi: come i cerchi concentrici nell'acqua allo gettare di un sasso), di non poca importanza per noi: “...quel che interessa è un'esperienza, un essere in cammino”3. Per quanto concerne il nostro scritto è ivi compiuta “un'inversione”. Tutto quello che è prospettiva e punto di fuga del precedente capitolo diviene, permanendo in quanto pensare, esperente. Molto è qui dubbioso: ma esperente e che cosa o che qualcosa? Ed in che modo, inoltre, ci si accosta, nonché su quale piano avviene tale accostarsi, a (in) codesto incamminarsi che esperisce, ed è, proprio così, come pensare? Rammentiamo che taluni termini e significati comparsi nel precedente capitolo troveranno solo ora il più proprio ambientarsi. Nonché, a volte, anche la propria completezza filosofico-teoretica, seppur per certe significatività non si può parlare di una tale completezza o comunque di una completezza in quanto tale. Tal altre terminologie troveranno tutto ciò, qui, solo molto parzialmente; così attendendo, in attesa di ulteriori, ma mai aggiuntive, “inversioni”. Abbiamo infatti, in passato, in più di un caso, rimandato oltre la significatività di certe parole o perifrasi. Altre volte abbiamo sottaciuto o assunto l'incompletezza di senso insita in certi altri vocaboli o affermazioni. Questo non significa assolutamente che, in questi ultimi casi, si andrà a caccia di definizioni informative o di spiegazioni corrette. Per “risalire” (“invertire” in...) ad un pensare esperente bisogna preventivamente chiarire cos'è esperire nello Heidegger, e ove rinvenirne traccia nei Contributi. Chiarimento da noi stessi, per l'appunto, posticipato numerose volte. Abbiamo qui già avuto occasione di incontrare quel ri-pensamento, effettuato in vista dell'essere, che, muovendosi essenzialmente su differenti piani, decostruisce la “frammentazione dell'essere” o limitazione dell'essere. Essendo quest'ultima assodata e perpetrata (anche) filosofico-speculativamente (uno dei piani). “Frammentazione” è poi una modalità (forse specifica di un piano) di dire l'abbandono dell'essere ed il suo, tanto già-da-sempre quanto progressivo, auto-oblio. Oblio, a sua volta, già-sempre incombente e minaccioso addentro cotale abbandono. Il ri-pensamento di cui parliamo verte a “criticare”, trasportare fino al punto critico, mettere in crisi, le assodate nonché ovvie categorie dell'enticità. “Frammentazione dell'essere” è dunque fondamento de la Realtà. E tramite codesta “frammentarietà” la Realtà sa fondarsi indiscutibilmente (e se lo comprova, dimostra, a livello filosofico-speculativo tanto quanto a livello scientifico). Quale maggiore evidenza (e- 3Ibidem (pag. 141).

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videnza) della diversità Realmente esistente fra pensiero-pensare ed essere? Non solo in quanto l'essere, poiché davvero reale, non è l'evanescente pensiero. Cioè: il pensiero è più assimilabile ad un “fantasma” che non al davvero reale, a meno che non si riconduca il pensiero-pensare alla realtà base dei procedimenti chimici ed elettrici (nonostante questi ultimi non siano tutt'ora spiegati) da cui scaturirebbe, poiché effetto di una causa ben constatata e definita. Quando poi si tratta di concepirlo in quanto facoltà dell'uomo, facoltà agente in modo eminente (per esempio pensando le, o alle, operazioni matematiche necessarie alla progettazione di un grattacielo) sul reale, se ne deduce una maggiore correttezza nel concepire cotale effettività d'azione come processo di apprendimento-memorizzazione, accumulazione, e riconfigurazione-sviluppo o evoluzione. Tutto ciò avente a base il procedimento dell'astrazione intrecciato con le personali esperienze (“l'esperienza vissuta”). Non solo, dicevamo, in quanto tutto ciò, ma anche, e questo “ma anche” non porta a nessuna contraddizione proprio rispetto all'ultima lunga concatenazione di affermazioni, poiché “il pensiero si colloca in guisa tale di fronte all'essere, che questo gli risulta pro-posto (vor-gestellt) e pertanto gli si oppone come un oggetto (Gegen-stand)”4. Opporsi come oggetto, venir concepito ed ac-colto come oggettità, essere il: come oggettità. Rap-presentatività. Enticità. Qui è l'essere che desume, “acquisisce”, riceve il suo significato, ultimo ma al contempo fondante (nell'accezione di basilare), da cotale pensiero-pensare. Pensiero-pensare a sua volta concepito, rap-presentantesi, colto, come eminente facoltà dell'Uomo. Pensiero così, magari, tanto filosoficamente quanto intuitivamente, assurto a prima ed obbiettiva certezza: Io Penso indi per cui Sono. “Il dire-io...deve essere inteso come un dire-io-penso”5. Dalle ultime frasi si possono sviscerare numerose concezioni, fin anche in parvenza (sintomatica de lo stesso) contrarie. Eppur addentro alla totalità di esse “non solo l'essere non è compreso in modo indeterminato, ma altresì...la comprensione determinata dell'essere si muove già essa stessa in un campo di osservazione -senso e direzione della prospettiva, pre-determinatezza- preventivamente determinato. I movimenti entro questo campo...hanno finito per entrarci nella carne,...tanto che noi non riconosciamo il campo stesso né ci vien nemmeno fatto di notare o di comprendere il problema che lo concerne. In questa prospettiva già istituita e dominante, che regge e guida ogni nostra comprensione dell'essere, noi siamo immersi...tanto più profondamente e in modo tanto più nascosto... e tuttavia l'esplicazione della distinzione di essere e pensare fa già essenzialmente parte dell'opera di costruzione e

4Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pag. 125. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990. 5Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 379. Ed. Longanesi, Milano 1971. Più estesamente cfr., con i

suoi accenni alla Realtà, alla res cogitans, alle categorie, l'intero paragrafo 64.

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consolidamento di questo preliminare campo di osservazione”6. Questo è lo stesso humus in cui e da cui si articola e diparte ogni esperire denominato scientifico (il moderno esperimento), nella sua peculiare estrapolazione (decodificazione) di un ordine o di una conferma (teoria) e nei suoi “principi” non ulteriormente ricavabili7 (non il mero Metodo; ma, ad esempio, la verità-correttezza a questo soggiacente; o per tornare a noi, l'ovvietà del davvero Reale). Nel darsi dell'essere (Seyn) (la nostra “dinamica”), nel modo di essere dell'essere (Seyn) (cioè venendo alla presenza ma mai solamente come semplice-presenza o enticità), il pensiero è ac-colto (tanto colto quanto accolto) nel suo pensare, pensare come corresponsione-richiamo del e all'essere, corresponsione-richiamo come il medesimo darsi (similmente a prima, più poeticamente: tutto abbracciante) dell'essere che si dà (Seyn). Α-άλήθεια. Interrompo a proposito di quest'ultimo capoverso. In esso: o si fa cenno ad un risuonare che ci investe fin dal profondo (essenzialità l'ente che noi stessi sempre siamo) e si fa temperie, oppure, se non si decanta nella viscosa stranezza, si ristagna nella ancor meno (se possibile) utilizzabile evanescente tautologia (in entrambe le due ultime opzioni siamo: anomalia, erroneità più assoluta). Dunque l'esperire non sorge, come già-da-sempre ed in-sé, confinato alla Realtà reale ed alle sue ancelle “modi della correttezza”. Non sorge, nell'orizzonte “dello” Heidegger (intendesi: non del Suo Personale in quanto Persona), discosto ed antitetico al pensare. “Anzi”, dicevamo, si ha un pensare (porsi-in-cammino) esperente. Ma visto che l'esperire, comprese le sue ramificazioni, contrapposto al pensiero-pensare non si rischiara più da quell'humus il cui orizzonte chiamiamo enticità, precedentemente ci domandavamo: cos'è dunque esperire nel pensatore di Meßkirch? Anche qui, però, la domanda da porsi non è un: che cosa? Oppure: Il che cosa? Ma: come? “Fare esperienza di qualcosa -si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio- significa che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma. Parlandosi di “fare”, non si intende affatto che siamo noi, per iniziativa e per opera nostra, a mettere in atto l'esperienza: “fare” significa qui provare, soffrire, accogliere ciò che ci tocca adeguandoci ad esso. Qualcosa “si fa”, avviene, accade. -E poiché nel brano della citazione si parla del, e si ri-pensa il, linguaggio lo Heidegger afferma:- Fare esperienza del linguaggio significa quindi: lasciarsi prendere dall'appello del linguaggio, assentendo ad esso, conformandosi ad esso... Fare esperienza di qualcosa significa: lungo il

6 Ivi. pagg. 126-127. 7Tematica qui non maggiormente approfondita. Cfr. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia

(dall'evento), pagg. 172-173, o più estesamente cap. 76-80. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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camino, per strada, raggiungere qualcosa. Fare esperienza di qualcosa significa: che quel qualche cosa al quale giungiamo, mentre siamo in cammino per raggiungerlo, proprio esso ci sopraggiunge, ci colpisce, ci prende in quanto ci trasforma secondo se stesso”8. Esperente in senso originario è dis-posizione all'apertura del darsi che apre. All'essere, che essendo (West; essenzialmente permanendo), si dà. Esperire e presenza (heideggerianamente: presenza essenziale non “solo” semplice-presenza; venire-alla-presenza o apparenza non “solo” parvenza) evocano così nuove tonalità, di colorazioni originarie, essenzialmente altre rispetto alle dominanti. Ove sono state lasciate traccie, nel pensare dello Heidegger, di questo medesimo pensare (e pensare domandante-interrogante) esperente? Per noi archeologi di traccie, in ciò sfortunati, scrutando i testi che contengono le sue parole, ma, ancor più, tanto nei primi quanto nelle seconde, scrutandoli come il dire di cui egli risuona, e di cui, a volte, ci può aver lasciato esplicita testimonianza. In tutta la tensione di questo risuonare, se ciò è praticabile. Con un occhio di riguardo nei confronti di tutto il precedente capitolo, quindi facendo fermentare soprattutto ciò che si è detto e seguito sul pensare come un cammino (e su gli inizi), possiamo accingerci alla lettura delle seguenti parole, parole vertenti null'altro che l'essenzialità del domandare (precedentemente nominato: pensare-domandante) heideggeriano: “la progressione del domandare è in sé il cammino di un pensiero che, invece di fornire rappresentazioni e concetti, si esperisce e si mette alla prova come cambiamento del riferimento all'essere”9. Ivi sta essenzialmente il “problema” (delle virgolette se ne capirà poi il motivo) del fraintendimento. “Problema” di cui, con l'avvallo dello Heidegger, si è preso in precedenza semplicemente atto proprio in quanto impedimento nella comprensione (questa intesa innanzitutto e per lo più nel senso e nelle tonalità della correttezza). “Problema” che in codesto nostro scritto sta di casa, l'ultima citazione ne indica infatti la porta, solamente ora che siamo a parlare del pensare esperente. Così, tanto rispetto al medesimo “problema” quanto rispetto all'heideggeriano domandare (precedente citazione), i Contributi: “ogni discorso è qui esposto a fraintendimenti e vulnerabile se non gode del favore di coloro che per un tratto essenziale attuano insieme a noi il domandare e di qui, e soltanto di qui, comprendono ciò che è detto abbandonando le rappresentazioni tradizionali (cfr. le annotazioni correnti a Essere e tempo)”10. E noi esattamente Essere e tempo vogliamo or ora rimirare. No, non si ha intenzione di esularsi dai Contributi. Bensì di passeggiare, proprio con 8Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pagg. 127 e 141. Ed. Mursia, Milano 1973. 9Martin Heidegger, Dell'essenza della verità, in Martin Heidegger, Segnavia, pag. 157. Ed Adelphi,

Milano 1987. 10Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 300. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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quest'ultimi alla mano, nei solchi avertisi con (con cioè: in quanto sono nell'opera posti e conservati) e nell'opera capitale. Ora i contenuti di quest'opera, in quanto tali, non ci interessano minimamente. È invece il suo come (pensare esperente) che ci attira e richiama. Per lasciarci attirare passiamo, similmente a poco fa ma stavolta nel compimento della sopraddetta passeggiata, attraverso gli spazi indicati nel precedente capitolo. Taluni propriamente in-dicati e tal altri individuati. Sì da conservare, ove riesce, una consecutività. Rammentiamo: prospettiva ed al contempo punto di fuga: pensare esperente. L'anteriormente incontrato esser-ci (nel sotto paragrafo ad esso dedicato più di una sono le questioni in cui non si è avuto accesso), il quale bisogna qui intendere come insistenza nell'esser-ci, viene infatti parlato anche in quanto “esperienza della gettatezza nel Ci... Affinché...-un- domandare totalmente diverso, in quanto modo di farsi carico dell'esser-ci, avanzi fino ad una possibilità decidibile, si deve anzitutto tentare, in base alla domanda giuda..., di creare un passaggio verso il salto nella domanda fondamentale... Essere e tempo è il passaggio al salto (il domandare della domanda fondamentale)”11. D'altronde il pensiero che pensa all'evento (titolo essenziale dei Contributi,) è, sorge, si condensa, si coagula, “in una meditazione resa necessaria e mantenuta dalla necessità dell'abbandono dell'essere”12 (rammentiamo il dispiegarsi del dominante come necessità dell'assenza di necessità?). “Domandare dell'essenza della verità e dell'essenziale permanenza dell'Essere: che cos'altro è se non la risolutezza per la meditazione estrema? Tale risolutezza, però, cresce dall'apertura per ciò che è necessario e che rende inevitabile l'esperienza della necessità dell'abbandono dell'essere”13. Per mezzo di un repentino rinvio dall'esser-ci ad Essere e tempo abbiamo così nuovamente incontrato: salto, passaggio, domanda fondamentale, abbandono dell'essere, necessità di cotale abbandono, essenza della verità, essenziale permanenza dell'essere, la meditazione (pensare-meditante). Parole già abbondantemente delineate, certo per quanto era possibile farlo addentro le profondità dei Contributi e nei livelli in cui ci siamo mossi (probabilmente anche quelli nozionistico e propriamente biografico, sicuramente quello contenutistico o speculativo-filosofico, e se ci si ha seguito il non ulteriormente chiarificato pensare o pensare come un porsi-in-cammino). Eppure parole che solo adesso, forse poiché un inatteso o ancora troppo oscurato livello si illumina promanando nuova luce, possono dischiudersi in una messa a fuoco dal respiro più ampio e dai contorni forse maggiormente delineabili. Solo ora che il pensare esige d'esser “messo a fuoco” come pensare esperente. Ma mai esso potrà esserlo in quanto

11Ivi. pag. 239. 12Ivi. pag. 346. 13Ivi. pag. 390.

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nozione, né in modo essenziale in quanto semplice-contenuto (tutto sommato codeste permangono le limitazioni del dire come scrivere un saggio, che sia tale). Procediamo però nella passeggiata. Risulta per noi particolarmente significativo rintracciare (scovarne, seguirne, custodirne le traccie) l'abbandono e l'oblio dell'essere come impulso del pensare esperente costitutivo ad Essere e tempo all'interno del protocollo di un seminario sulla conferenza efficacemente ed emblematicamente intitolata Tempo ed essere. Non sterile ci sembra infatti la vicenda concernente questa semplice inversione di vocaboli, indipendentemente dalle ininfluenti e probabilmente deluse aspettative che penderono sulla conferenza in questione. “in che modo si può caratterizzare l'esperienza fondamentale che guida l'impostazione di Essere e tempo?... Di certo l'intera metafisica ha pensato e concettualizzato l'essere dell'ente, venendo così alla luce anche la verità dell'ente, ma...non è mai stata discussa la sua verità come tale, restando anzi dimenticata. L'esperienza fondamentale di essere e tempo è quindi quella della dimenticanza dell'essere. Ma “dimenticanza” va qui intesa nel senso greco di “velatezza” o “velarsi”... Il pensiero di Heidegger potrebbe essere inteso -radicalmente frainteso-... come un rivelare e mettere a disposizione il fondamento su cui poggia tutta la metafisica e a cui essa non può accedere, e precisamente come se col pensiero di Heidegger fosse superata e quindi eliminata la dimenticanza dell'essere durata finora”14. E quest'ultimo radicale fraintendimento è, ancora peggio, incomprensione, incolmabile discrepanza. Incomprensione delle articolazioni della metafisica e dei legami fra queste e il pensiero heideggeriano, fosse anche “semplicemente” sul piano contenutistico-speculativo, ma è incomprensione essenziale nella (come) discrepanza con il pensare heideggeriano. Cioè di tutta la costituzione fondante di tale pensare. Se si prosegue nella lettura delle pagine del Protocollo la significatività dell'affermazione appena fatta può essere più volte osservata (sia nell'accezione oculare sia, al contempo, in quella “comportamentale”). Altrove, cronologicamente prima, ma analogamente (cerchi concentrici nell'acqua) troviamo lo stesso: “poniamo però -ed Heidegger vi si pone- che all'oltrepassamento della metafisica corrisponda lo sforzo di imparare a prestare attenzione all'oblio dell'essere, per farne esperienza e per assumere questa esperienza...e...custodirla -nel (accogliendola necessariamente come) riferimento dell'essere “all'uomo”-”15. Anche 14Martin Heidegger, Tempo e essere, pagg. 37-38. Ed. Longanesi, Milano 2007. 15Martin Heidegger, Introduzione a: “che cos'è metafisica?”, in Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?,

pag. 99. Ed. Adelphi, Milano 2001. Il più pensante di quel pensiero che è qui richiesto, proseguendo nella lettura della medesima pagine, è appunto più pensante come esperente. Poiché, nello Heidegger, l'esperire è ri-pensato e ri-colto tanto quanto il pensare. Più oltre in questo scritto anche tutto ciò troverà una sua “inquadratura”. Così, racchiudendo essenzialmente entrambi i ri-pensamenti in sé, il pensiero-rammemorante (cfr. ivi. pag. 93): qui il pensare-rammemorare, quasi, si potrebbe dire, materializzando il pensare che esso è, esperisce come rammemorare.

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codeste estrapolate ultime righe si sviluppano dalla delucidazione del pensiero soggiacente, tentato eppur già-in-avvio, a Sein und Zeit. La “controprova” di un pensare esperente, soggiacente e fondante l'esplicarsi (che poi, volendo, è precisamente esplicarsi di sé medesimo in quanto pensare) in Essere e tempo, possiamo speculativamente enuclearla dal medesimo scritto del 1949. Molti anni ci separano dall'opera capitale. Per inciso: essenzialmente intrinseco alla heideggeriana “critica” del pensare metafisico, “critica” che ha la consuetudine di spuntare ovunque nelle citazioni, è proprio un pensare esperente ed esperente in una certa tensione. Parentesi. Gravitando nell'ambito dell'appena trascorso inciso, si constata inoltre in codesto prossimo brano a venire, la possibilità dell'avviarsi di una generica comprensione della peculiare animosità e dell'accento di quella controversa, spesso poco notata, e non definitiva seppure a parer mio sincera, rottura con La filosofia (filosofia come materia e scienza). La quale dilunga le sue radici ed i suoi rami nell'arco di un'intera vita, e che infine manifestamente si ripercuote in una avversione all'ambiente accademico, in un'ironia dai contorni tuttavia indefiniti sulla professionalità professorale, e probabilmente nella “ritirata” dall'ambiente pubblico-accademico alla Foresta Nera. Definire (dare una definizione o spiegazione) tali atti (in accezione teatrale) tramite una concettualità volontaristica, oppure analizzarli in ottica psicoterapeutica o sociologica, mi sembra soluzione assai gretta e tutt'altro che nitida. Nitido invece è qui manifestato il consolidarsi di una discrepanza tra pensare e La filosofia. Ritorniamo a noi. Dunque i toni della lettura sono, nella prossima citazione, posti sull'oblio dell'essere, ivi riconoscibile come filosofia (La filosofia): “La filosofia non potrebbe portare una prova della potenza dell'oblio dell'essere...,-oblio- che in Sein un Zeit è...il richiamo destinato al pensiero -lo è in quanto esperente-pensare destinato a sé stesso, al pensare esperente-, che sia più evidente della sonnambolica sicurezza -l'ovvietà- con cui essa è passata sopra all'unica e autentica questione di Sein un Zeit. Qui non si tratta quindi di fraintendimenti nei confronti di un libro, ma del nostro essere abbandonati dall'essere”16. Il pensare come pensare esperente ci si può rivelare anche attraverso tracce e percorsi differenti rispetto alla problematicità (sviluppata per lo più tematicamente) dell'esperire essenzialmente l'abbandono dell'essere. Sappiamo che tempo-temporalità è il nominativo, nelle “limitazioni” congenite ad Essere e tempo, di ciò che successivamente verrà parlato come essenziale verità dell'essere. Porre la domanda sull'essenza della verità ci può introdurre in un ri-pensamento dell'ovvietà del concetto verità (vedasi verità-correttezza, cfr. sotto paragrafo secondo Verità del par.

16Martin Heidegger, Introduzione a: “che cos'è metafisica?”, in Martin Heidegger, Segnavia, pagg. 329-

330. Ed. Adelphi, Milano 1987.

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II.IV). Eppure, l'ovvietà del concetto di verità si può ben radicare anche ove è stata posta la domanda sull'essenza della verità. Poiché, essenzialmente: è il domandare ri-pensante che essendo tale scalza e dissipa l'ovvietà; non la domanda formulata, né il semplice contenuto, ma solamente il loro come. Non ogni domanda è un domandare. Cosa fa di una domanda un autentico domandare? Il suo come. Il porsi (l'im-porsi) del domandare (heideggerianamente altro) ri-pensante è pensare esperente. “L'impostazione della domanda della verità pare ora del tutto arbitraria, perché da molto tempo la domanda della verità non è più una domanda... tanto che noi non esperiamo né capiamo affatto la domanda sulla verità del vero nella sua necessarietà di domanda”17; il domandare. Il pensare-domandante (heideggeriano) sulla essenza de la verità è esperente essenzialmente; in tal caso, seguendo la citazione: una necessarietà, come d'altronde nel caso dell'abbandono. In definitiva però, il percorso di passeggio più immediato (cioè: il più ingannevole) per potersi accorgere e mostrare il senso altro evocatosi, in totale concerto con l'Heidegger dei Contributi e per noi soprattutto proprio in codesta opera, nel pensare e nell'esperire (così ri-colti, cooriginariamente), è quello dell'esplicito e netto riferimento testuale. Ciò a condizione che si sia “sedimentato” l'incamminarsi portanteci, e portantesi, sino qui. Riferimento testuale enucleato, comunque sia, senza avergli torto un capello, come si suol dire, ed in tutta la sua potenza espressiva. A guardar bene già abbiamo trascritto traccie, nel caso specifico rimiranti: esser-ci e pensiero-esperente (ammesso poi che si possa parlare di due “cose”, in quanto tali distinte cioè relazionatili, sì quindi da scrivere “ed”). Difatti codesti passi scrutati bisbigliano fortemente, al nostro udire, quel che andiamo trattando nel presente paragrafo. Ma non sono gli unici. “Dell'esser-ci si può dire solo fondando, nel compimento speculativo della risonanza, del gioco di passaggio, e del salto”18. Ivi si dice della fondazione, nonché, in essa, di tutti i punti di riferimento fin ora incontrati. Ma ivi tale: dire solo fondando (esser-ci), è un pensare come pensare esperente. E, parallelamente ma più manifestamente, per ciò che segue affermasi lo stesso. “Nella ά-λήθεια, s-velatezza, si esperisce: l'esser velato e, parzialmente e di caso in caso, il superamento e la rimozione dello stesso”19. Codesta ultima frase è la discrepanza (di coglimento), non intravedibile (appunto coglibile) filologicamente, tra ά-λήθεια e l'ovvia verità (ciò= spiraglio de la: grecità). In queste parole è posta tutta la distanza discriminatoria (problematizzabile) fra ά-λήθεια s-velatezza e verità-correttezza. Di traccie ve ne sono svariate20. 17Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 337. Ed. Adelphi, Milano 2007. 18Ivi. pag. 309. Più estesamente gli interi paragrafi 189 e 190. 19Ivi. pag. 335. 20Sarebbe lungo riportarli tutti, indi per cui, rimando direttamente ad essi (ognuno avente una peculiare

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E, fuori uscendo dai Contributi, troviamo, restando prossimi all'ambito della im-portanza del domandare: “cerchiamo -chi si incammina congiuntamente al pensare heideggeriano-... di penetrare nel fondamento della metafisica, perché vi vogliamo esperire la distinzione di essere ed ente -e non si dovrebbe qui rinviare il pensiero, che è perciò una qualche razio o calcolabilità, ad una delle tante varianti della distinzione-relazionante di un qualcosa (essere) con un qualcos'altro (ente), e cioè codesti “qualcosa” entrambi in quanto enticità; ma probabilmente già non se ne è potuto fare a meno; ecco perché usiamo l'epiteto-perifrasi: il dominante; ed ecco perché il pensiero non può qui essere “solamente” pensiero, con quella significatività è già-da-sempre come questo più che non solo in questo, ma pensare ovvero pensare esperente (nel medesimo ri-pensante e cogliente)-, più precisamente ciò che la distinzione stessa in quanto tale regge in sé: il rapporto dell'uomo con l'essere. Potremo domandare -significativo è ivi l'uso del “domandare”- rettamente la domanda decisiva soltanto se prima esperiremo più chiaramente -limpidamente, rischiaratamente- ciò che è chiamato “distinzione di essere ed ente””21. Ed ancora, così ci parla, in modo assai diradante e luminoso, Heidegger stesso sopra il suo pensare: “Fintanto che non esperiremo in maniera pensante -ed ivi sta tanto illuminato “l'oggetto” dell'affermazione quanto diradata la nostra presente tematica (il come)- ciò che è... Lo sguardo dentro a ciò che è, avviene?”22. Per completezza, tengasi conto di questo: “sguardo dentro a ciò che è” si pone come il nome dato al ciclo di una serie di quattro conferenze tenute dal pensatore tedesco, ciclo di conferenze che si trova parzialmente redatto e trascritto nel testo La svolta, dalle cui pagine è stata estratta la passata citazione. Ed all'interno dell'appena citato testo incappiamo nella frase: “...corrispondere all'essere e al suo appello e, nel corrispondere, di appartenere all'essere. Questo corrispondere iniziale, compiuto propriamente, è il pensiero. Solo pensando impariamo ad abitare nell'ambito in cui avviene l'affrancamento del -del- destino dell'essere, l'affrancamento dall' -dalla- imposizione”23. Si può ivi meglio comprendere la discrepanza e la discriminazione heideggeriana di: pensiero/calcolare-calcolabilità, rap-presentatività, pensiero metafisico, articolazioni del Si. D'altronde, non si domanda forse Heidegger, a proposito della sentenza eraclitea (ripresa dei frammenti 30, 16, 53, 50, poi 72), se essa “parla sulla

sfumatura; nonché poi, teoreticamente, una contestualizzazione): ivi. pagg. 343, 361 (verità); 341 (verità e radura); 196 (altro inizio); (ed ancora) 195, 244, 346, 437-438, 463.

21Martin Heidegger, Il nichilismo europeo, pag. 303. Ed. Adelphi, Milano 2003. 22Martin Heidegger, La svolta, pag. 31. Ed. il Melangolo, Genova 1990. 23Ivi. pag. 17. Per l'impostazione (Gestell; Ge-stell) anche denominata il pericolo, qui anche parlata in

quanto essenza de l'oggi, esplicarsi de il dominante, cfr. (la forma è quella della definizione filosofica) ivi. pag. 9, primo capoverso, e secondo capoverso (impostazione “ed” essere = la nostra: “dinamica” dell'essere).

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base di una esperienza del pensiero che sostiene già ognuno dei suoi passi?”24. Ma codesto pensiero, in cui siamo incappati testualmente nelle ultime due citazioni e forse a volte troppo oscuramente utilizzato, almeno in quanto vocabolo, addentro le elaborazioni filosofiche del medesimo Professore di Friburgo, si è preferito qui parlarlo come pensare (e precisamente pensare come un porsi-in-cammino esperente). Ciò per poter affondare, fin d'ove ci è possibile, lo sguardo in esso, e necessariamente in esso sprofondare ed esser sì s-pro-fondati. D'altronde è il pensare soggiacente (fondante) ai Contributi il solo unico filo conduttore del presente scritto. Con ciò, però, si dice propriamente di null'altro che dall'evento. Eccoci dunque. Infine, per non fraintendere ma anche per porre in luce le oscurità (nel loro permanere ombrose ed infittirsi) anziché obliarle, devesi stabilire manifestamente che non si è fino ad ora inteso questo: che da un esperire essenziale possa nascere un pensiero che poi si sviluppa sopra quella esperienza essenziale. Quasi a mo di secrezione. Tuttalpiù, usando consciamente il linguaggio della metafisica, devesi dire: in quella esperienza essenziale. O meglio, in un linguaggio che tende ad altro: come, essenziale esperienza. Ovvero: essenziale esperire è già pensare esperente. Pensiero/esperienza sono ri-colti e ri-accolti in un'orizzonte posto al di là di un loro qualunque contrasto, in quanto tale, visualizzato come segue: essere/pensare. Pensare esperente è coglibile, qualora si individuassero i termini ancora come antitetici o distinti, come cooriginarietà. Gli angoli lasciati bui di tutto l'appena trascorso paragrafo dovranno essere rischiarati più oltre. Ora si giungerà ove, assai addietro, s'era preso il via, ovvero ai cosiddetti punti di riferimento de i Contributi. 24Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 191. Ed. Mursia, Milano 1976.

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III.II SU I VENTURI

“Solo nel confronto con il primo inizio, però, l'eredità diventa eredità, e i venturi diventano eredi”1. I venturi è il nome dato dallo Heidegger al capitolo sesto de i Contributi. Ci sembra di poter sostenere che la parola “venturi”, nonché l'intero medesimo capitolo sesto, permangono enigmatici ad ogni analisi filosofico-contenutistica di sorta. La tentazione è, tramite le modalità ed il “rigore” di una siffatta analisi, concepire i venturi in senso storicistico. Ma in ciò, a parer nostro, si attua una banalizzazione ed un fraintendimento essenzialmente metafisico (in accezione heideggeriana). Per certo è che il vocabolo non ha precedenti, né viene ripreso dalla susseguente speculazione filosofica heideggeriana. Che poi comunque i venturi siano detti parlandosi in differente maniera, questo non è facile asserirlo. Escludiamo fin d'ora trattarsi di seguaci della dottrina heideggeriana (poiché il pensare non può essere dottrina, filosofica o morale). Innanzitutto, come d'altronde non meno che per l'esser-ci (Contributi), così anche per i venturi parlare di Uomo non si confà essenzialmente. Confacente è qui parlato in senso forte, cioè non meramente: non corretto. Bensì, tutt'altro, confacente: non come tale (tale cioè Uomo=soggetto, ciò di cui qui si ha da parlare, base solida, per i venturi) sorgente nell'orizzonte del pensare de i Contributi. Già dalla precedente citazione si può intravedere come quel pensare che è in-cammino agisca in ciò che i venturi sono, sono cioè venturi. Con venturi infatti, prosegue poi il paragrafo 101, non si dice di posteri. Non sono coloro che, da un dato momento temporale in poi o successivamente ad un accadimento storico (in senso comune-storiografico), vengono semplicemente dopo. Proprio in ciò, cioè non come incarnate mutazioni del tempo-ora, essi sono posti nella epocalità degli inizi. Ovvero intrinsecamente già annunciano gli inizi in quanto tali, sono nunzi dell'altro inizio. Essere venturi è, appunto, essere eredi (per ora: conglomerare, farsi carico di...) non solamente posteri. Ne i venturi vi è una osmosi non del tutto definibile, mai però meramente avvenuta sul piano speculativo-filosofico, di quell'esserci (Essere e tempo) già-sempre posto come esistenza (heideggerianamente intesa, non existentia; esserci di cui: già-sempre ne va del proprio essere) con la prospettiva contemplante (contemplante in entrambe le accezioni) gli inizi (epocalità dell'essere). Necessariamente solo addentro a gli inizi possono darsi i venturi, cioè come tali. Ed essendo i Contributi opera parlante cotali inizi, la “figura” dei 1Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 207. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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venturi si trova ivi emersa e pensata. Ribadiamo: il pensare addentro i Contributi non è storicisticamente rinvenibile né avvicinabile. Ma, innanzitutto, il rimando, nei (in quanto) venturi, al primo inizio è posto in luce non tanto perché nella passata citazione cotale inizio compare menzionato, quanto piuttosto poiché, se ci si è seguito essenzialmente, l'intera opera a cui siamo posti di fronte è un porsi-in-cammino. Codesto porsi compete necessariamente agli inizi. Ad un pensare vertente ad essi, e ad essi, come tali, rimirante. Ma abbiamo precedentemente cercato di mostrare (non dimostrare!) ciò: il pensare (i Contributi) come porsi-in-cammino è esperente essenzialmente. Ci verrà quantomeno concesso, da parte del lettore, lo “sforzo” di tenerne conto, non in quanto mera informazione per la acquisizione o concepibilità di un pensiero, bensì come il pensare stesso costituito in quello “sforzarsi”. Tenerne conto quand'anche tutto ciò fosse ancora colto nelle fattezze di una pura stranezza. Cosa possiamo parlare dei venturi? Da dove tentare un rischiararli? Dagli inizi e dal pensare come esperente essenzialmente. I venturi, dice Heidegger, sono (avvengono) in quanto vanno preparati: “occorre preparare questi venturi”2. Non si intraveda qui un progetto nel senso volontaristico del termine, ma nemmeno in accezione più ampia e, potremmo definire, sociale. i venturi non si pianificano, ma emergono, e nell'emergere è già il pensare iniziale, volto all'altro inizio, corrispondente all'essere, rispondente all'evento. Essi emergono nella “preparazione”, non sono pianificati dalla volontà. “Per tale preparazione serve il pensiero iniziale in quanto tacere che raggiunge l'evento”3. Pensiero iniziale è un pensare esperente porsi-in-cammino. Cosa esperisce (sempre in accezione heideggeriana della parola)? Rammentiamo il sentiero costituente la struttura de i Contributi, il da-percorrere, il pensare come in-camminarsi, ciò che rimbomba e si fa largo ne La fondazione (ovvero: come ciò che l'heideggeriana fondazione dice)? Esser-ci non è stato da noi affrontato come “espressione” di ciò che è la fondazione? Ed, nello stesso, ponendoci pensare in-cammino non siamo dunque, almeno speculativamente, passati al fianco di ciò che innanzitutto risuona in un siffatto pensare, di ciò che è la heideggeriana risonanza? “Esser-ci: che cos'altro è se non la fondazione dell'essere di costoro che sono, dei venturi...?”4. Cooriginariamente, la risonanza dell'abbandono dell'essere, e la necessità di questo abbandono5, è già-sempre ac-colta in codesto fondare. Anche qui viene espressamente in luce il pensare esperente, come ciò che è parlato in quanto stati d'animo (guida, fondamentale). “Lo stato d'animo-guida della risonanza è lo sgomento dello svelantesi abbandono dell'Essere e al tempo stesso il 2Ivi. pag. 387. 3Ivi. pagg. 387-388. 4Ivi. pag. 391. 5Cfr. pag. 390, secondo capoverso.

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pudore di fronte all'evento che risuona -si noti: queste due “situazioni” non vanno ac-colte come due separati-... L'originaria armonia degli stati d'animo-guida viene pienamente intonata solo dallo stato d'animo fondamentale. In esso sono i venturi”6. In quanto pensare esperente, quest'ultimo “in esso sono” è sapere. Ma, rimbalzando al temperamento del pensare come porsi-in-cammino, “questo sapere è poi privo di utilità e non ha alcun “valore” -non è odierna scienza, né dottrina, né morale, né un qualche “ismo”, né pianificare-... Non si può calcolare chi pervenga -pervenire non è acquisire o inventare-scoprire!- a tale sapere, né ve lo si può costringere”7. Viene fortemente affermato che “lo stato d'animo fondamentale però, non deve tanto essere descritto quanto piuttosto realizzato nel complesso del pensiero iniziale”8. E così veniamo di nuovo convogliati in direzione di un pensare come pensare esperente. Il pensare esperente è come in-camminarsi, ed in-cammino senza meta alcuna poiché l'essere in-cammino è già completezza di un tale pensare. Questa tonalità costitutiva del pensare di cui siamo a parlare non è altro che il domandare ed il cercare (sempre in accezione heideggeriana). Abbiamo precedentemente visto che il mettersi in cerca (pensare) è esser-già dis-posti dal cercato verso esso, è rispondere ad un appello; così quel sapere appena sopra menzionato, così il domandare. “L'in-quietudine del domandare non è una vuota insicurezza, ma l'apertura e la custodia di quella quiete che...attende la semplice intimità della chiamata e affronta l'estrema rabbia dell'abbandono dell'essere... Cercare non è mai un mero non-avere-ancora, un mancare di qualcosa... Solo il cercare conduce colui che cerca...all'ipseità dell'esser-ci in cui accadono la radura e il velamento dell'ente -darsi della “dinamica” dell'essere, come Ci-9. L'ipseità dell'esser-ci “è il ritrovato (Fund) insito già nel cercare... Domandare dell'essenza della verità e dell'essenziale permanenza dell'Essere: che cos'altro è se non la risolutezza per la la meditazione estrema?”10. Meditazione estrema che in sé com-porta, può com-portare, il salto. Salto avente, rincorso sulla via del pensare11, tutte quelle connotazioni tonali che del pensare esperente12 stiamo cercando di mostrare, quantomeno sul piano speculativo-filosofico; se poi in codesto tutto ciò risulti possibile è ancora da decretare. Qui, cercare e domandare: esser-aperti a la risonanza. Cotale esser-aperti è già come pensiero iniziale (voltosi al primo inizio), il quale non è pensiero ma 6Ivi. pag. 388. 7Ivi. pag. 389. L'incolmabile distanza tra porsi-in-cammino e metodo filosofico si può, a parer nostro,

vedere prefigurata fin dalle parole de: Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 315. Ed. il Melangolo, Genova 1999.

8Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 388. Ed. Adelphi, Milano 2007. 9Ivi. pag. 390. 10Ibidem. 11Cfr. ivi. pag. 388, prime due righe. 12 In tali toni leggiamo, ad esempio, riferendoci, testualmente, a i venturi, anche parlati come “coloro che tramontano in senso essenziale”: “l'epoca del tra-monto è conoscibile solo per coloro che vi appartengono”. Conoscere-appartenente. Ivi. pag. 389.

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pensare come porsi-in-cammino e pensare esperente (connotazioni tonali, delle quali sono impregnati anche quegli epiteti heideggeriani, ad esempio rammemorante o domandante). Il pensiero iniziale prepara i venturi, in ciò esso presta servizio. Preparazione de i venturi è in tale pensare. Ma allora preparazione assolutamente non vuole esser nulla di arbitrario o pianificatore, né a livello dottrinario né su quello storicistico. Preparazione o meditazione estrema sono “tratti somatici” (in accezione nostra, cfr. paragrafo II.V) de La decisione. Tale decisione non è quindi il decidere su qualcosa o per un qualcosa. Questa decisione è deciderci in, decidersi come. La decisione ha carattere d'epocalità e riposa, già-sempre, nell'aperto del darsi dell'essere (riposa essenzialmente come Ci?). Ma codesto riposare non ha niente di statico né anche solo di generalmente “tranquillo”. Non si vuole però qui sostenere una dinamicità di tale riposare. È altro che dobbiamo ivi intravedere: “il compito alla luce e lungo il percorso della decisione è: il salvataggio della verità dell'evento... In che modo è presa la decisione? Con il dono o il rimanere assenti di coloro che sono segnati in maniera eminente e che noi chiamiamo i venturi”13. La decisione è già-sempre, in quanto tale: imminente; propria nell'imminenza; come imminenza14. Essa, assieme alla sua preparazione (prima accennata nei riguardi de i venturi), rimane difficile da percepire nel dominare del dominante (gigantesco, macchinazione)15. Ma ciò non è in contraddizione con l'incombenza sua propria della decisione e della preparazione di quest'ultima (rammentiamo: malaessenza e “dinamica”). Piuttosto il dominare del dominante si dà su tale incombere, avviluppandosi ad essa ed in tal modo velando, ovvero oscurandola, obliandola. L'oblio è infatti volgersi de la decisione stessa. Ma un volgersi che appunto oblia (anche qui giunge la “dinamica”). “La decisione deve creare quello spazio-tempo... esser-ci ha bisogno della più lunga preparazione che proviene dal pensiero iniziale”16. L'incombere sta comunque nella necessità della sua incombenza. La necessità però si svela (dis-oblia) tale solamente come la sopraddetta decisione, o preparazione di questa. La conclusione del paragrafo 45 dei Contributi ci rimanda ad una filosofia colta nella sua iniziale auroralità, nel suo pensare e mai assolutamente come materia di studio, scienza, dottrina, facoltà, o mero, essenzialmente vago, pensiero. Ma al contempo, le medesime frasi, ci parlano dei venturi nel loro rimirare l'ad-venire, ma codesto giammai cronologicamente inteso. Troviamo infatti: “da dove trae la propria necessità la filosofia -non più materia, né giornalismo- futura? Non deve risvegliarla essa stessa iniziando?... Di questa necessità, in quanto fondamento della necessarietà della filosofia, si 13Ivi. pag. 116. 14Cfr. esplicitamente pag. 117, gli ultimi due paragrafi: “chi non conosce questa necessità, non presagisce

neanche l'ombra dell'imminente decisione”. 15Cfr. pag. 118, secondo capoverso e ultimo capoverso. 16Ibidem, terzo capoverso.

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fa esperienza -qui più che mai in accezione heideggeriana- attraverso lo sgomento -vocabolo usufruito per lo stato d'animo-giuda- nel giubilo -sgomento e giubilo cooriginariamente colti ricordano l'elleno θαùμα- dell'appartenenza all'Essere che, come un accennare, spinge all'aperto l'abbandono dell'essere”17. La risonanza risuona; risuonando: echeggia l'abbandono dell'essere. Prima di concludere è opportuno fare taluni rinvii ad altre “figure” sorte all’interno della speculazione filosofica heideggeriana, ciò poiché tali “figure” risultano, nel pensare, assonanti alla non definitoria, e proprio anche in in ciò mai meramente filosofico-speculativa, sagomatura de i venturi. Cotali “figure” saranno ivi menzionate, nel loro esser reciprocamente assonanti a i venturi, ma non ulteriormente approfondite. La conclusione sulla effettività o sulla possibilità di tali assonanze rimane, a sua volta, non definitoria. Abbiamo poc'anzi trascritto brani che parlano di una filosofia (vertente agli inizi in quanto tali) futura. Testualmente (e forse solo nominalmente), il futuro nella medesima accezione di essenziale ad-venire già-sempre mai cronologico, torna, e torna nello specifico per quel che ora attrae il nostro interesse, anche in altre pagine dei Contributi. “Esser-ci significa fondamento della possibilità dell'uomo futuro e l'uomo futuro è in quanto si fa carico di essere il Ci, ammesso che egli si concepisca come guardiano della verità dell'Essere -e non padrone dell'ente-... “Fondamento della possibilità” è detto -cioè, per noi, parlato- ancora -però- in termini metafisici18, ma è pensato”19 (cioè, per noi: dice, pensato come pensare) nella vicinanza o nell'appartenenza alla storia dell'essere e della sua verità. Un pensare che cor-risponde all'evento. In assonante riferirsi all'esser-ci siamo incorsi anche nella sagomatura de i venturi. D'altronde, subito appresso, incappiamo in una assai inaggirabile “difficoltà”, e questo che si viene a dire è valido in tutto il presente scritto, tanto più poiché esplica la costitutività di un pensare esperente nel dire dello Heidegger: “l'esser-ci nel senso dell'altro inizio è ciò che per noi è ancora del tutto strano”20. Ciò che viene parlato come uomo futuro rimira i venturi? “L'animale non ancora fissato del suo vero essere è l'uomo contemporaneo”21. Nell'affacciarsi sul dire poetante di alcune strofe di Trakl Heidegger perviene ad illuminare alcune sagome cariche di 17Ivi. pag. 119, a fine pagina. 18Cfr. Otto Pöggeler, il cammino di pensiero di Martin Heidegger, pagg. 177-190. Ed. Guida, Napoli

1991. Il riferimento della nota, sia per quanto concerne i “limiti” del linguaggio metafisico sia per quel che ri-guarda la tensione (direzione) del ri-pensamento del fondamento (“critica” al principio di ragion sufficiente ed ai sensi comuni che il vocabolo fondare porta con sé, nonché scorci del progetto decostruttivo della metafisica), è a: Dell'essenza del fondamento in: Martin Heidegger, Segnavia, pag.79. Ed. Adelphi, Milano 1987.

19Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 297. Ed. Adelphi, Milano 2007. 20Ibidem. 21Il linguaggio nella poesia in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 52. Ed. Mursia,

Milano 1973.

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significatività. Essi “col loro camminare...iniziano tale cammino”22. Essi vengono denominati “lo straniero”, ed “i mortali” o “fiera azzurra”, o ancora “viandanti”. Essi sono “pochi... -ed il loro avvento è- raro”23. Pochi e rari sono parole che troviamo nell'importante paragrafo 524 dei Contributi. Se l'opera a cui siamo posti di fronte è un preparare (nella significatività precedentemente assunta) i venturi che così avvengono, ed in ciò è domandare in un percorso25 (pensare come porsi-in-cammino) allora forse codesti pochi e rari sono coloro che hanno da ad-venire come venturi. Coloro a cui il senso dell'opera Dall'evento è tanto rivolto quanto riposto. D'altronde ciò potrebbe esserci consigliato nella lettura del paragrafo 45 del medesimo testo. In codesto paragrafo, precedentemente citato, chi si contraddistingue in quanto “i venturi” vengono parlati anche, ma innanzitutto, come “quei pochi singoli”26. Analogie nominali forse nulla di più. Ma possiamo chiederci: ciò che viene parlato come “lo straniero”, di cui i “viandanti” rammemorano ed il quale vogliono raggiungere o seguire, rimira i venturi? Per quanto concerne la “fiera azzurra” o i “viandanti”, essi vengono denominati, anche e con altrettanto peso ma forse più incisivamente, “i mortali”. Ciò poiché essi possono morire27 (l'essere-per-la-morte di Essere e tempo prefigura già, essenzialmente, i mortali) e non solamente decomporsi (In cammino verso il linguaggio), perire (Saggi e discorsi), decedere. I mortali sono Uno dei Quattro riflessi del “gioco di specchi”28 della Quadratura o Quadrato (in quanto Uno dei Quattro essi sono lo stesso degli altri Tre), enigmatico e fondamentale per l'ultimo Heidegger. Su di esso, Quadrato, vi torneremo in seguito senza però porlo davvero a tema. Gli uomini odierni, “gli animali razionali devono anzitutto divenire dei mortali”29. Divenire. Ad-venire. Gli uomini degli umanismi, l'Uomo, su ed in cui gli umanismi possono sorgere e già-da-sempre con-fermarsi, è assai distante da codesti mortali. Anche l'esser-ci, fondazione dell'esser che è i venturi, sta in altrettanta distanza sia da quegli uomini sia da questo Uomo. Ciò che viene parlato come i mortali, l'ad-venire innanzitutto mortali, (i “viandanti”) rimira i venturi? Possiamo ora avanzare uno scorcio. Questo scorcio non è una parentesi nel nostro discorso, bensì esso ap-porta la direzione e la tensione del vedere che si vuole intraprendere. Mi sembra, ormai, che tutte quelle perifrasi (ad es: i mortali, ma anche esserci) o quegli epiteti (ad es: l'uomo futuro) che

22Ibidem. 23Ibidem. 24Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 41. Ed. Adelphi, Milano 2007. 25Cfr. titolazione paragrafo 1 in: ivi. pag. 34. 26Ivi. pag. 117. 27Cfr. esplicitamente La cosa in: Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 119, primo capoverso. Ed.

Mursia, Milano 1976. 28Ivi. pag. 120. 29Ivi. pag. 119.

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starebbero a parlare dell'uomo, certo heideggerianamente tendono a dire dell'essenza de gli uomini (nei sensi più lato possibili), ma in quanto dell'essenza dicono, parlando, essi dicono altro da gli uomini o l'uomo (sempre nei sensi più lato possibili). Ed ivi si pone, a parer mio, almeno nella contrada del pensare (che è come in-cammino esperente), l'intimo senso di quell'ente che noi stessi sempre siamo (esserci), di quell'ente che siamo essenzialmente, ma che permane fondamentalmente ambiguo, speculativamente “irraggiungibile”, in tutto lo Heidegger. Da questo “trampolino di lancio” che è l'ultimo capoverso possiamo arrischiarci, sì concludendo il presente capitolo, a sondare più profondamente i venturi. Però non solamente essi, pure l'esser-ci poiché fondazione dell'essere di costoro che sono i venturi (di costoro che hanno a ad-venire). Sondare è lasciar darsi luogo all'eco del dire insito ai Contributi, ma è anche, per noi, il “lancio”, sempre rischioso, in un maggiore rischiaramento. “I venturi, coloro che sono insistenti nell'esser-ci fondato, con l'animo disposto al ritegno, ai quali soltanto l'essere (salto) in quanto evento giunge, li fa avvenire e li fa propri e li autorizza al salvataggio della sua verità”30. “Dove e quando la “fiera azzurra” -i mortali, i viandanti- raggiunge la sua vera essenza la figura umana in cui precedentemente compariva vien meno. Cade l'uomo antico, perde il suo modo d'essere, si tramuta”31. È curioso che in questa ultima citazione, dunque, l'uomo appare figura o figurazione. “Figura” è stato da noi usato per apostrofare, introdurre, l'esserci dell'opera capitale. In codesto “tramuta” si compie niente di meno che una vera e propria Kehre (svolta, inversione in altro). La Kehre appartiene al pensare (parlato non metafisicamente: è come pensare) dello Heidegger, non al solo suo pensiero, alla sola sua speculazione filosofica, né al mero suo interesse (nonostante qualsiasi valore si voglia accordare ad esso), ad esempio personale o appassionato. “Dinamica” dell'essere. Kehre. Evento (Ereignis). A noi, ivi, codesto parlare dice di un pensare che è, è cioè altro, pensare trasfigurante. Nella trascrizione degli ultimi brani citati si intravede già un pensiero che è come trasfigurazione. Ci siamo “lanciati”, e lanciando ci arrischiamo. L'esser-ci, l'uomo (nei sensi più lato possibili). Il loro “legame” rimandantesi. Tutto ciò non può venire colto-accolto (posto, ma mai soltanto come pensiero!), nel suo essenzialmente, che da un pensare trasfigurante. Ad esso vuole vertere il prossimo capitolo.

30Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 393. Ed. Adelphi, Milano 2007. 31Il linguaggio nella poesia in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 52. Ed. Mursia,

Milano 1973.

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I venturi, dicendo già-sempre dall'evento, dicono nell'evento. Essi dicono come evento.

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IV

IV.I SU L'ULTIMO DIO

Parrà anomalo, rispetto alla strutturazione del nostro scritto, non avanzare il nuovo “punto di inversione” (il come trasfigurazione) che riguarda il pensare di cui siamo a tentare di parlare, e di cui siamo a tentare il dire. Tanto più tenuto conto del fatto che la fondamentale parola “trasfigurazione” l'abbiamo poc'anzi già nominata, e forse finanche già introdotta magari un poco provocatoriamente. Affronteremo infatti il capitolo settimo de i Contributi: L'ultimo Dio. Ma come mai ciò? Perché, prima, non avvicinarci (compiendo cioè un'altra “inversione” rispetto alla concezione ovvia e pubblica riguardante il pensiero) invece alla trasfigurazione, non tentare cioè di mostrare tale nuova prospettiva di visuale, che al contempo si presenta anche punto di fuga, del pensare? Forse non è essa necessaria per la essenziale com-prensione (qui “comprensione” è aggettivo o predicato di “essenziale”, vocabolo che è da cogliersi verbalmente) del capitolo settimo dell'opera a cui siamo posti di fronte? Lo è. Lo è nella misura in cui lo sono, ed in essa (ne la trasfigurazione) permangono ad essere, le altre irrinunciabilità (come porsi-in-cammino esperente) del pensare che fino adesso abbiamo tentato di seguire. E dunque? Ne l'approssimarsi a la trasfigurazione, però, il come del pensare giunge alla sua estrema ed insolita fondazione (sempre heideggerianamente intesa), se fin qui ci si ha seguito nell'incamminarsi. Tanto più insolita quanto inusuale, finanche insulsa. E cosa vi è di più inusuale, nell'oggi, che cotale parlare di pensare e cotali parole che siamo ad usare? Cosa di più inutile, non utilizzabile (semplicemente-maneggevole)? Le risposte a tali domande sono da noi state poste su un piatto d'argento, per chiunque domandi nei termini della metafisica e del concetto sicuro e stabile, o della tecnica nelle sue ramificazioni. Ma rimane, invece, non subitanea la comprensione del perché, proprio valorizzando “ottimisticamente” ciò che si è appena asserito, non appropinquarci ora verso la trasfigurazione. Che forse nell'Ultimo Dio non vi sia ancora esplicita traccia di essa? Traccie, svincolate dal loro essere esplicite o meno, ve ne sono in tutto il testo dei Contributi. Anzi, tali tracce sono come (dall'evento) i Contributi. Dobbiamo però, più che essere spronati dalla sopra menzionata valorizzazione, sostare nella e lasciarci permeare dalla inusualità, dalla stranezza di ciò che abbiamo fin qui seguito, nella cui compagnia ci siamo in-camminati, e che forse abbiamo intravisto. D'altronde e innanzitutto, parafrasando quel che è stato scritto poc'anzi, parlare su la trasfigurazione potrebbe implicare l'intraprendere a nostra volta, ovvero intraprender-ci, un pensare come trasfigurante. Cotale “parlare su” si compierebbe allora in

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quanto dire. Viene meno frettoloso riferirci all'ultimo “punto di riferimento” dell'opera in questione, ed al contempo lasciare fermentare o decantare quelle traccie di trasfigurazione, testualmente manifeste o meno è ininfluente, che potremmo rinvenire in esso. Nonché quelle indicazioni, sempre riferite alla trasfigurazione, comparse nel precedente nostro paragrafo. Heideggerianamente, l'indeterminatezza o la non-definibilità, lo ribadiamo, non stanno, ivi, nella manchevolezza o come un alcunché di negativo (in senso neutro e non ad esempio morale, un alcunché appunto, un essenziale alcunché). Piuttosto, confà affrontare L'ultimo Dio preventivamente al cimentarci in una focalizzazione su l'essere (fino ad ora problematizzato). Focalizzare che ivi necessita, soprattutto costitutivamente, il pensare come trasfigurazione; poiché si attiene (tale nostro futuro focalizzare) essenzialmente all'esplicarsi di quest'ultimo e come quest'ultimo; ciò almeno nel presente scritto. Tutto perché il presente scritto si vuole conchiudere, in parte, tentando per l'appunto di mettere a fuoco l'essere (fino ad ora problematizzato) nell'ottica, emersa e di volta in volta ancora emergente, de i Contributi. Indi per cui preferiamo subito affrontare il breve ma oscuro (ovvero anch'esso contenutisticamente impenetrabile essenzialmente) capitolo settimo. Innanzitutto l'introduzione, riguardante la non banalizzazione ed il non porsi come semplice-contenuto, fatta al nostro paragrafo Su i venturi trova terreno fertile anche in codesto paragrafo. In egual modo si richiede quello “sforzo” di tenere conto di ciò, a costo di subentrare nella stranezza. Ad ogni modo, essendo il settimo capitolo dei Contributi assai “scottante”, a conferma basti leggerne le parole del titolo, questa introduzione potrebbe non risultare sufficiente. Quindi, con determinati limiti e di volta in volta anche al di là del presente paragrafo, torneremo intrinsecamente ad affrontare una non banalizzazione, o meglio, a sorreggere e tener desto un pensare, fin qui già incontrato, vertente ciò che in Heidegger viene parlato in quanto: ultimo Dio. L'ultimo Dio risulta altrettanto oscuro de I venturi e, altra somiglianza, è composto da poche pagine scritte. Codesto è il capitolo finale dell'originale manoscritto. Esso non è un capitolo religioso, perlomeno nell'accezione e nella significatività che tale termine odiernamente comporta o preventivamente (o magari anche solo prevalentemente) assume. Il settimo capitolo dell'opera a cui siamo posti di fronte è indubitabilmente caratterizzato da scorci direzionati al sacro o divino, ma anche cotali termini risultano assai, essenzialmente, fraintendibili in massimo grado. Non dirò quindi, causa le medesime motivazioni, che, sempre ne L'ultimo Dio, si possono intravedere anche insolite angolature spirituali1 o rimiranti 1In merito a quest'ultimo vocabolo, però, si potrebbe rinviare, in modo assonante, al saggio sulla poesia di

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l'aspetto animico. Ebbene, prima di confrontarci con questa problematica sul divino, la quale infatti implicitamente tornerà di seguito, vediamo ciò che si può mostrare (i suoi tratti somatici), Contributi alla mano, su quella “heideggeriana” sagomatura richiamata con: l'ultimo Dio. Tale sagomatura (l'ultimo Dio) non può tollerare, analogamente ad altre “figure” emergenti nel pensare dello Heidegger, un sapere che si avvicini ad esso in modo calcolante (figlio della metafisica, il dominante). Un cotale voler-sapere infatti, necessariamente alla sua costituzione e quindi al suo orizzonte, non porta in sé alcuna apertura, alcun rimirare, che si rivolga (volgersi verso...) ad una tale sagomatura (la quale viene qui, con Heidegger, parlata: l'ultimo Dio). Essa rimane estranea e forse, nel migliore dei casi, anomala (non-interessante se non in quanto anomalia, cioè ridotta nell'orizzonte del dominante). È in seno a tale voler-sapere che nasce un approccio alla sagomatura in cui “l'ultimo”, o ultimità dell'ultimo Dio, viene a cogliersi “solo come un cessare e una fine”2. Nei confronti del sagomarsi, ivi sempre indicato con: ultimo Dio, non si può calcolare ma si deve “cambiare modo di meditare, sia pure a rischio di qualcosa di estraneo e incalcolabile”3. Così come, non solamente al contrario del..., bensì, in altro da tempo-ora e spazio-qui (in tutte le loro innumerevoli, propriamente empiriche o astratte varianti), “l'inizio” come inizialità non è mero punto d'avvio, anche codesto “l'ultimo” non è mediocre loco d'arrivo o tragitto finale. Non sta come termine. Non è il confine oltre al quale non viene propriamente niente. Non è il compendio, la definitiva rivelazione (anche in senso comunemente religioso). Non è l'ultimo che, avvenuto, poi si pietrifica ed incanala in un qualche perdurare o in qualche eterno (anche se le due cose, perdurare ed eterno, non vanno credute sinonimi). L'ultimità dell'ultimo Dio è invece (e non anzi) assai assonante, analoga (in accezione nostra), a l'inizio heideggerianamente ri-pensato, a l'altro inizio4 nella sua inizialità. Il luogo loro proprio (di tali ultimità ed inizialità), luogo non rap-presentabile né consuetudinariamente spaziale, è già-sempre in eccelsa posizione di smacco su ogni determinazione metafisica5 (su ciò si tornerà due paragrafi oltre). Questo luogo loro proprio è parlato, heideggerianamente: verità dell'essere. Con l'ultimo Dio “entriamo nello spazio-tempo della decisione sulla fuga e l'avvento degli dèi”6, lo schiudersi di una tale decisione non poteva essere

Trakl, poesia e saggio in cui esso vocabolo, per l'appunto, compare. Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio. Ed. Mursia, Milano 1973.

2Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 399. Ed. Adelphi, Milano 2007. 3Ibidem. 4“L'altro inizio di incommensurabili possibilità della nostra storia”. Ivi. pag 403, secondo capoverso. Cfr.

anche: ivi. par. 253. 5“La fine è solo laddove l'ente si è svincolato dalla verità dell'Essere... La fine è l'incessante e-così-via a

cui l'ultimo, in quanto ciò che è più iniziale, si è da tempo e fin dall'inizio -già da sempre- sottratto”. Ivi. pag. 407.

6Ivi. pag 397.

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menzionato che: spazio-tempo (vedasi: II.IV Spazio-tempo). Anche qui, come ne Su i venturi, “decisione” non è di competenza della volontà degli uomini, né della volontà di enti sovrannaturali7. Bensì con decisione qui si dice svolta “nell'”evento: nei Contributi è parlata come in-cammino (pensare come porsi in-cammino) “attraverso” risonanza, gioco di passaggio, salto, fondazione. Queste parole ivi menzionate, compreso l'”attraversare”, se ci si è posti nel sopraddetto “sforzo” e ci si è seguiti sin qui, non hanno nulla de: libero arbitrio, autoconsapevolezza, presa di coscienza, autonomia razionale. Nulla di soggettivistico o, più estesamente, antropocentrico o, ancor più, antropomorfico. Per previa completezza, riguardo ciò che la citazione recita: se questi dèi siano gli stessi oppure i medesimi di quelli che, in quanto Uno, condensano il Quadrare dei Quattro, non ci è data ora la possibilità di sondarlo. Piuttosto: “la pluralità degli dèi non è sottoposta ad alcun numero, bensì all'intima ricchezza dei fondamenti e degli abissi nel sito dell'attimo del rilucere e del velamento del cenno dell'ultimo Dio”8 (tonalità di epocalità). Essi (dèi), nei Contributi, indicano il divino ri-pensato dallo Heidegger come apertura e darsi dell'essere. Tale è la loro potenza (assolutamente da non intendersi come potere di dèi, sennò tutto, dèi e darsi dell'essere, cadrebbe nel più banale, nelle elaborazioni più becere, ovvero già-sempre addentro al coglimento della semplice-presenza). E propriamente in quanto ciò gli dèi costituiscono intimo legame con l'ultimo Dio. Difatti ad una domanda riflessiva sull'ultimità del Dio, lo Heidegger si risponde: “se l'ultimo -ultimità- Dio va chiamato così -è- perché alla fine la decisione sugli dèi porta tra costoro ed eleva così al massimo l'essenza dell'unicità della divinità”9. Se cotale “unicità” è colta in senso generalmente storicistico o antropologico o ancora psicologico, persiste non esservi alcuna possibilità di sintonia a ciò che ivi si viene a dire10. E, ugualmente, se quest'ultima “divinità” viene colta in senso odiernamente religioso nessuna sintonia è pensabile-esperibile, tutt'al più si intra-vedono solamente contenuti e vocaboli avvicinabili e paragonabili, o magari attaccabili e criticabili, ma pur sempre nell'orizzonte dell'odierno concetto e significato di religione-religiosità11.

7“Che il Dio viva o resti morto non lo decidono la religiosità degli uomini né tanto meno le aspirazioni

teologiche della filosofia e delle scienza naturali”. Martin Heidegger, La svolta, pag. 31. Ed. il Melangolo, Genova 1990. Riguardo alla significatività della religiosità e delle aspirazioni teologiche, entrambe or ora menzionate, parleremo posteriormente, in merito a discrepanze o meno nel dire.

8Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 403. Ed. Adelphi, Milano 2007. Inoltre, per l'attimo, heideggerianamente da intendersi, cfr. poco oltre in questo scritto, nota 12.

9Ivi. pagg. 398-399. 10“L'ultimo Dio...sta al di fuori di quella determinazione calcolante cui rimandano le espressioni “mono-

teismo”, “pan-teismo” e “a-teismo”... Le...specie di “teismo” esistono soltanto dai tempi dell'apologetica giudaico-cristiana, che ha come presupposto speculativo la metafisica”. Ivi. pag. 403.

11“Tutti i “culti” e le “chiese” invalsi fon ora -si badi, invalsi fon ora-, e cose del genere, non potranno essere l'essenziale preparazione dell'incontro dell'uomo -poi non più esprimibile in tal parola- e del

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Dunque gli dèi, il divino ri-pensato nello Heidegger, possono av-venire ed essere-nella-fuga, per usare alla lettera i termini heideggeriani. Con la sagomatura dell'ultimo Dio, lo abbiamo precedentemente affermato, entriamo nello spazio-tempo di decisione ed attimo (heideggerianamente inteso)12 sulla fuga e l'avvento degli dèi. A tal riguardo, se così si può dire, si delinea il “cenno”. Il far-cenno è chiarificazione de l'ultimo Dio. Il cenno è infatti, sempre heideggerianamente, parlato: “in quanto evento”13. Esso cenno sta come “capitare e...mancanza dell'avvento così come...fuga degli dèi che sono stati e...loro latente trasformazione -trasformazione: perviene forse qui null'altro che: trasfigurazione?-”14. Il cenno pone l'ente nell'abbandono dell'essere “e -si noti: “e”, non “ma”- al tempo stesso irradia la verità dell'essere come suo intimo rilucere”15. Mancanza avvento, fuga degli dèi, abbandono dell'essere. Abbandono dell'essere: ivi possiamo, forse, orientarci. Onde evitare facili sovrapposizioni miranti ad una concettualizzazione, sovrapposizioni che comunque sia, al di là dell'abitudine concettualizzante, in codesto loco rimarrebbero vuote informazioni assertive, e che di per sé non si confanno al nostro scritto ed ai suoi intenti, prima di proseguire affermiamo in concerto con Heidegger che “l'ultimo Dio non è l'evento stesso, ma ne ha bisogno come di ciò cui appartiene il fondatore del Ci”16. Tale bisogno non ha il temperamento del dipendere da... Né della sola mera relazione di dipendenza estrapolata dal dipendere da... Noi, certo calcando lo Heidegger, abbiamo già indicato (puntato l'indice verso...) dell'evento ove si è tentato di dire sul diradarsi velantesi del darsi dell'essere, ove emerse cioè quel che noi abbiamo da tempo incominciato a denominare: intima “dinamica” dell'essere. “Dinamica” cui l'abbandono, nuovamente appena incontrato, è costitutivo. Con il viso rivolto all'ultimo Dio l'abbandono dell'essere viene parlato come rifiuto. Rifiuto, però, già essenzialmente dice della “dinamica”. “Il rifiuto è la somma nobiltà della donazione e il tratto fondamentale del velarsi, la cui evidenza costituisce l'essenza originaria della verità dell'Essere. Solo così l'Essere diventa lo

Dio nel centro dell'Essere. Anzitutto, infatti, deve essere fondata la verità dell'Essere stesso”. Ivi. pag. 407.

12Attimo è menzionato e parlato dallo Heidegger “in quanto lampeggiare dell'Essere proveniente dal far fronte all'evento semplice e mai calcolabile di ogni spazio-tempo -spazio-tempo come fondazione-”. Ivi. pag. 401. “Evento-appropriazione di quella svolta in cui la verità dell'Essere giunge all'Essere della verità”. Ivi. pag. 406. L'attimo può essere parlato nel suo esser-orientato all'ente che noi stessi sempre siamo (esserci), oppure senza esplicito riguardo per tale orientar-si.

13Ibidem. 14Ibidem. 15Ibidem. 16Ibidem. Non ci impunteremo teoreticamente sul fondatore del Ci (l'esser-ci), a cui per altro è dedicato il

par. 255. Sia perché viene a noi più fecondo acuire la questione del bisogno, sia perché dell'esser-ci già è stato detto, all'interno del nostro scritto, qualcosa. Ma anche perché, onde evitare sovrapposizioni e fraintendimenti, si ritiene di maggior coerenza (compattezza), trattandosi de i Contributi, parlare de i venturi nel loro legame all'ultimo Dio; se in inadeguati termini di “legame” possiamo dire.

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straniamento stesso, il silenzio del passar via dell'ultimo Dio”17. È passando via che l'ultimo Dio fa cenno, avendo esso stesso la sua “essenziale permanenza nel cenno”18. Se nell'abbandono dell'essere rimbomba silenziosamente il rifiuto, ed in codesto rimbombare silenzioso sorgendo si staglia, e in ciò passando-via, la sagomatura dell'ultimo Dio, allora il rifiuto stesso in quanto malaessenza dell'essere (fendersi) è necessario (“dinamica”), e necessario in massimo grado per d-evenire (Ereignis; Kehre; trasfigurazione) tale; d'altronde leggiamo che tutte le probabili maniere (ramificazione ed articolarsi del dominante nei soggiacenti suoi tratti somatici dell'ovvietà) in cui il rifiuto (ed il passar-via del Dio) viene “compensato” (essenzialmente: oblio della dimenticanza) stanno “in odio per prima cosa” all'ultimo Dio. O meglio, esso le ha in odio. “Compensare” è anche, abitualmente, spontaneo compito, nonché forse merito, della filosofia (nell'odierna accezione di codesto vocabolo) e delle eterogenee istituzioni filosofiche, in senso ampio (ciò verrà successivamente enucleato e tematizzato). “L'estrema lontananza dell'ultimo Dio nel rifiuto è una singolare -insolita- vicinanza, un riferimento che nessuna “dialettica” deve sfigurare o rimuovere. La vicinanza, però, risuona nella risonanza dell'Essere dall'esperienza della necessità del suo -recidivo- abbandono”19. Tutto, nuovamente, giunge e con-giunge al (poter) pensare il darsi dell'essere come (trasfigurazione) verità dell'essere (Seyn). Senza giungere alla pienezza (mai meramente filosofico-speculativa) del rifiuto, possiamo anche “solamente” fermentare (qui ed ora tematicamente) nell'abbandono dell'essere per poter infine parlare de: i venturi e l'ultimo Dio. Quale “legame” infatti, e “legame” risulta tutto sommato vocabolo assai inadeguato ed infelice, intercorre costitutivamente fra ultimo Dio e venturi? Non sono essi entrambi ultimi e futuri, nelle accezioni assunte durante l'ultima coppia dei nostri paragrafi? Va sottolineato che il tono in cui l'ultimità del Dio è parlata consiglia un che di inaggirabilmente iniziale (sempre in senso heideggeriano). Una posizione di smacco propriamente non-valicabile. Questa ultimità rimira l'esser-ad-venienti dei venturi. Ciò non significa, lo puntualizziamo ancora una volta, che vi sia perciò presente un rapporto causale. L'ultimità, invece, si focalizza (e cooriginariamente si lascia-esser messa a fuoco) in quanto orizzonte tanto dell'ad-venire come venturi, quanto del sorgere medesimo di tale ad-venire. L'ultimo Dio deve esser a lungo presagito, e sì preparato (nella significatività che codesta parola ha acquisito, su i venturi, durante il precedente paragrafo), per passar-via illuminando il suo luogo ed

17Ivi. pag. 398. 18Ivi. pag. 401. 19Ivi. pag. 403.

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ambito20. Tali lunghezza e presagire permangono però piuttosto oscuri, sempre che non li si voglia intendere in accezione abituale, ma ormai tale automatico atteggiamento, lo si dovrebbe aver inteso, ivi non si confà essenzialmente, e dovrebbe aver perciò lasciato cadere il suo esser automatismo. Codesti lunghezza e presagire si rischiarano se rimiriamo primariamente i venturi, e se, successivamente eppur implicitamente, percorriamo nuovamente ma a ritroso le vie (Contributi), ed i differenti piani, che ci hanno condotto all'ultimo Dio. Quel che comunque permane, fino a tutt'ora, adombrato necessita di una delineazione di ciò che noi abbiamo parlato, più sopra, con trasfigurazione. Ad ogni modo, torniamo a concentrarci brevemente su i venturi. Impugniamo, sì tentando di portare a coagulazione, quelle affermazioni dello Heidegger, alcune sparpagliate frasi nel capitolo settimo dell'opera a cui siamo posti di fronte, dicenti del sopraddetto “legame”. Il “legame” infatti persiste ove si parla de: “i venturi dell'ultimo Dio”21. I venturi come venturi dell'ultimo Dio. I venturi sono dell'ultimo Dio, sono in quanto dell'ultimo Dio. Del suo passar-via. Questi venturi dell'ultimo Dio “sono preparati solo e soltanto tramite coloro che trovano, misurano e costruiscono la via del ritorno (Rüchweg) dall'abbandono dell'essere che hanno esperito -Essere e tempo-... Questi ritornanti sono i veri pre-cursori dei venturi”22 (Heidegger medesimo?). “I pre-cursori devono essere iniziali -l'inizialità- in maniera sempre più originaria rispetto a coloro che li “precedono” (cioè vengono dopo), e, nella domanda da porre -il domandare fondamentale-, devono pensare in modo ancora più semplice, ricco e incondizionato la stessa unica e identica cosa -l'essere e la sua verità-”23. “Sono davvero pochi -i pochi i rari- coloro che sanno che il Dio aspetta la fondazione della verità dell'Essere e dunque il salto dell'uomo nell'esser-ci”24. I venturi, poiché venturi dell'ultimo dio, devono “sostenere la risonanza dell'evento in quanto rifiuto”25. In ciò, come ciò, essi appartengono a, poiché è ad essi costituente (coappartengono), la “dinamica” dell'essere (Seyn). 20Ivi. pag. 402, penultimo capoverso. 21Ibidem. 22Ibidem. 23Ivi. pag. 406-407. 24Ivi. pag. 407. Da guardasi anche “i singoli” ne: ivi. pag. 405, penultimo capoverso. 25Ivi. pag. 403.

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IV.II IL PENSARE COME TRASFIGURAZIONE

“...Allo stesso modo “macchinazione” è

un certo tipo di comportamento umano e, improvvisamente e propriamente, significa

viceversa l'essenza (la mala-essenza) dell'Essere nella quale soltanto si radica il

fondamento della possibilità delle “faccende” (Betriebe). Questo

“viceversa” non è però semplicemente un trucco “formale” per capovolgere i

significati in mere parole, ma la trasformazione dell'uomo stesso”

(Martin Heidegger, Contributi alla filosofia)

Giungiamo dunque al pulsare del testo a cui siamo posti di fronte. Il come di questo giungere dispone essenzialmente (da pensarsi verbalmente) il giungere medesimo, ma l'ad-venire di tale come non compete a nessuna volontà o scelta, né consta di alcun impegnarsi in... oppure appassionarsi ad...1 Abbiamo già cercato di mostrare quanto il pensiero dello Heidegger nei Contributi, l'opera a cui ci riferiamo, sia un pensare coglibile come porsi-in-cammino (ciò e insito a gli inizi e l'inizialità) e come esperente (nei toni heideggeriani di un ri-pensamento dell'esperire, precedentemente visto). Ovvero pensiero non come mera idealità, né semplice dottrina, né corrente filosofica, né, più incisivamente, come ciò che si distanzia di per sé dal reale (pur influenzandolo, nonché su ed in esso basandosi) e dal pragmatismo. Pensiero non come quel in sé che si configura alterità rispetto a qualunque (odierna) esperienza oppure concetto dell'essere. Pensiero non è ivi ciò che può giungere allo stabile (a quello che è stabile e che dà conoscenza esatta) attraversando e lasciandosi alle spalle il fluire del diveniente intero2. Ma, altra faccia della medaglia, pensare (il pensiero dello Heidegger qui) non è nemmeno il muoversi di una attitudine che riesce a “saltellare” e interrelazionare il substrato della non sufficientemente sensata ed asettica realtà. Pensare non è distinto dall'essere in quanto alla sua essenziale (da cogliersi verbalmente) provenienza. La distinzione categoriale di essere e pensare, riscontrabile in ogni momento della storia dell'Occidente e sui più diversi piani, è parto di

1Nessun soggettivismo, nessun decisionismo vige in quel pensiero (pensare) che corrisponde alla storia

dell'essere. Cfr. ipseità ed esser-ci: “Il giungere-a-sé non è mai una rappresentazione separata dell'io, bensì l'assunzione dell'appartenenza nella verità dell'essere, salto dentro il Ci... L'a-sé non ha alcun carattere di decisione e non possiede alcuna consapevolezza della cattura nell'accadimento dell'esser-ci... Ma il “da sé” è un'ingannevole superficie. Da sé può essere mera “ostinazione” alla quale sfuggono ogni assegnazione e ogni affidamento in proprietà che -i quali- provengono dall'evento”. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 318. Ed. Adelphi, Milano 2007.

2Codesta frase non dice altro che un come, in tal caso un come che Heidegger denomina metafisico.

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una data pre-determinatezza, di una data fisionomia dell'esistere (non in accezione di: existentia/essentia), di un dato cogliere e di un dato come. Ciò, per certo, necessita di una con-temporanea (cooriginaria) contropartita nel ri-pensamento (Seyn) dell'essere, dell'essere medesimo. Ri-pensamento orientato nell'oltre da ogni concettualizzazione. Codesto ri-pensamento (coglimento altro) dell'essere è, a parer nostro, impulso e tensione (il “direzionarsi”), cuore pulsante, di tutto ciò che Heidegger ha portato a scrittura filosofica. In queste pagine è ancora una volta sul pensiero, e cioè sul pensare, che dobbiamo porre la nostra attenzione (in e ad esso con-centrandoci). Questo, se ci si è seguiti fin qui, non significa che nel far ciò non si dica dell'essere (Seyn), tutt'altro! Comunque sia, riprendendo il nostro discorso da qualche frase addietro, il pensiero non è nello Heidegger attitudine o facoltà dell'uomo (in senso lato), né in quanto raziocinio, né in quanto immaginazione, né in quanto astrazione, né in quanto intuizione pura (su di questa vi sarebbe da approfondire). Ma proprio il rimando all'uomo di un tale, forse ancora troppo oscuro, pensare, permane assai problematizzante. Questa essenziale problematicità è stata in questo scritto precedentemente toccata ed intravista, esplicitamente all'interno del nostro paragrafo dedicato all'esser-ci. In quel paragrafo, difatti, ci siamo appositamente sottratti a chiarimenti di qualunque genere riguardo a talune specifiche affermazioni sopra menzionate o a “zone rimaste oscure” (o perlomeno teoreticamente non inquadrate). Tanto queste “zone oscure” quanto quelle affermazioni specifiche a cui stiamo or ora facendo riferimento si volgevano, propriamente, ad un rischiaramento dell'esser-ci (poiché espressione de la fondazione); nonché implicitamente al rapporto esser-ci e Uomo o umanità degli uomini (cioè essenza pensata e colta ancora metafisicamente o enticamente). Codesta è una via, qui la prediletta, attraverso la quale si possa, ivi, parlare de la trasfigurazione come quel pensare la di cui trascrizione, quantomeno tentata, noi denominiamo Contributi. Lo ripetiamo, ma adesso forse in un orizzonte ad esso (esso: ciò che si ha a ribadire in un diverso parlarsi) più famigliare, ivi non si pone in gioco una curiosità, una volontà interpretativa, né una volontà in genere, bensì ciò che è altro da una qualsivoglia volontà: una risonanza (cfr. La risonanza); ciò che lo Heidegger chiama evento-appropriazione. E dunque proprio lungo tale via dell'esser-ci, appunto, si può parlare, facendolo in massimo grado, nei seguenti termini: “Con la fondazione dell'esser-ci ogni rapporto all'ente è trasformato ed è prima esperita la verità dell'Essere”3. Quanto futili oppure astratte o finanche superstiziose devono apparire queste ultime parole a chi non ci ha fin qui minimamente seguito. In chi, cioè, il dire de i Contributi non trova risonanza alcuna. Ciò 3Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 319. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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non di meno, a coloro i quali un pensare non parla già-mai in quanto facoltà umana (oppure non solo umana) o strumento e giammai sotto i canoni del calcolare-pianificare (in accezione più ampia possibile, o macchinare in significatività heideggeriana), leggere “trasformato” non lascerà né indifferenti né ricondurrà nell'ovvietà delle concezioni, ovunque diffuse (il dominante), del messaggio comunicativo di un tale vocabolo. Innanzitutto il tono di codesto “trasformato” mette in gioco ed investe, e ciò in quanto trasfigurazione, la significatività e la costitutività di quello che ha da trasformarsi. Abbiamo precedentemente cercato di notare (Su la fondazione) come la fondazione di cui Heidegger dice non competa ad una volontà. Come il fondare che è l'esser-ci non competa a nessun arbitrio dell'umo o di qualcuno (o qualcosa) d'altro. Tale notare consta anche dell'assunzione-guida di una non causalità o cooriginarietà. Tale orizzonte di cooriginarietà viene d'altronde parlato, nell'ultima citazione: verità dell'essere (cfr. sotto paragrafo verità). L'esperire inizialmente (da cogliersi verbalmente; inizialità) quest'ultima, il pensare-esperendola come tale, è la fondazione dell'esser-ci cooriginaria alla trasformazione. Trasformazione dell'ente si. Ma tale affermazione risulta pienamente fraintendibile. Il rapporto (altro infelice termine) con l'ente viene a trasformarsi, e viene in modo tale che sia la stessa verità dell'essere a darsi innanzitutto (inizialmente) esperita. Certo non si tratta, metafisicamente, di una qualche verità esperita prima; o di una qualche causa prima che è veritiera rispetto al tutto. Il “prima” e il “esperita” della citazione in questione non si rischiareranno mai a sufficienza se non ci si focalizza, ed anche in tal caso nulla è certo (scontato), su quel “trasformato”. Tentiamo ora una scomposizione (ermeneutica) di significatività (non logica, né grammaticale): nel “rapporto” all'ente che si dà (tale rapporto) come trasformato, viene ad esperirsi “prima”, come ente e rapporto trasformati, la verità dell'essere, cioè l'iniziale orizzonte che viene qui parlato: verità dell'essere. Il termine “trasformato” occupa, per la direzione del nostro confronto ermeneutico con il brano heideggeriano, una posizione assai rilevante. Ma per il vocabolo “trasformato”, a maggior ragione se riposto addentro alla scomposizione che abbiamo poc'anzi tentato, può conseguire una incomprensione essenziale. Noi ivi, come tale vocabolo (trasformato), diciamo trasfigurazione. L'intera frase in questione appare in una più incisiva significatività. L'incisività, che è anche appunto altrettanta problematicità, si esplica però già nel coglimento della citazione medesima e come scomposizione medesima. Nel parlare speculativo-filosofico dello Heidegger vi è già (“sottaciuta”) trasfigurazione. Il dire ad esso soggiacente è un parlare che indica ed essenzialmente già-sorge ne la trasfigurazione. “Adesso il domandare dell'Essere non pensa più partendo dall'ente -enticità, ma non concettualmente colta né coglibile-, bensì è reso necessario -essenzialmente (verbalmente) necessario- dall'Essere stesso

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come il pensiero che raggiunge l'Essere”4. Negli slarghi (spazi aprenti-si) di un cotale appena menzionato parlare che indica, si può concepire l'esplicito e manifesto “porsi a tema” di certe “questioni”, magari finanche patite (e certamente esperite dallo Heidegger) come a dir poco “pressanti” (vicine) ed eminenti. Esperire l'abbandono dell'essere (impulso heideggeriano alla compilazione di Essere e tempo) e l'oblio di questo, in quanto tali, è già-come (cooriginarietà) trasfigurazione. É già il dominante (l'ovvio trasfigurato), ma non ancora riflettuto ed intravisto tale, che si dà (indi che si dà ad-esser-accolto) come abbandono dell'essere. Ci si concentri, rinnovatamente, al come, esso è cardine non logico-razionale della significatività, baricentro in equilibrio di senso. Breve inciso. In tale contrada (orizzonte) del parlare trasfigurato, o dire trasfigurante, il che è lo stesso, attraverso cui siamo forse venuti or ora a muoverci, ci abbaglia e ci colpisce la questione del linguaggio (ri-pensato) nella sua essenzialità (da cogliersi verbalmente). Cioè la sua problematicità propria. E quindi, ma lo avanziamo senza alcuna ovvietà logico-causale (sennò lo inferiremmo), la “difficoltà” e l'inadeguatezza o meno del linguaggio usato, tanto di quello metafisico (decretato dallo Heidegger inadeguato) quanto di quello denominato heideggeriano (rispondente, forse, all'appello dell'essere; oppure anch'esso inadeguato; oppure estraneo in egual modo dell'appello). Torniamo a noi. “Solo l'esser-ci, e mai una “dottrina”, può produrre dal fondo il mutamento dell'ente”5. In codesta citazione ciò che è stato avanzato a riguardo del “trasformato” lo si può avanzare nei confronti del “mutamento”. Ed ancora di trasformarsi si parla qui: “la presa di potere dello spazio-tempo come essenziale presentarsi della verità entro la fondazione ventura dell'esser-ci tramite il salvataggio della verità dell'evento nell'ente che in tal modo si trasforma”6. In questo brano citato è da notarsi la menzione (certo mai-solamente tale) de l'evento (verità dell'evento; verità, evento). A trasformarsi qui è esplicitamente, nell'analisi logico-grammatica del periodo, l'ente (lo Ente). D'altronde un presupponibile groviglio tematico e speculativo di uomo, esser-ci, coloro che tra-montano (i venturi o i preparatori di questi ultimi), si riscontra piuttosto limpidamente nel seguente passo: “coloro che veramente tra-montano non conoscono la torbida “rassegnazione”...-né- il chiassoso “ottimismo” che -non sa né può- guadagnare finalmente se stesso trasformandosi”7. Il guadagno di sé ad-viene nel trasformare, come trasformazione. Nell'opera a cui siamo posti di fronte, il se stesso sta “...a dire...ipseità dell'esser-ci in cui accadono la radura e il velamento

4Ivi. pag. 417. 5Ivi. pag. 118. 6Ivi. pag. 377. 7Ivi. pag. 389.

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dell'ente”8. Non siamo qui davanti ad un auto tradimento delle posizioni teoretiche sulla soggettività. Non siamo ad un ripiegamento, da intendersi in significatività di manchevolezza, in direzione della volontà di sé o dell'arbitrio personale, oppure sovra personale che sia. Difatti “il giungere-a-sé non è mai una rappresentazione dell'io, bensì l'assunzione dell'appartenenza nella verità dell'essere, salto dentro il Ci”9. Siamo invece a fronte, sia nell'interezza di codeste ultime citazioni sia nelle singole parole che abbiamo posto in risalto, di un parlare del pensare come trasfigurante; e forse abbiamo anche, sempre “nelle” medesime frasi, un modo del linguaggio già consono ad (in) un tale pensare, già dicente cotale pensare. Il percepire, seppur soffusamente, una oscurità immanente tanto ai vocaboli evidenziati (trasformare; mutare; giungere-a; salto; esser-ci) quanto al loro parlarli, può essere indicativo di quella trasfigurazione di cui siamo qui a tentare di dire. Sappiamo e rammentiamo che Heidegger non coglie automaticamente, laddove vi è una indeterminatezza, la già-da-sempre e per lo più scontata parzialità o manchevolezza (nelle sue innumerevoli manifestazioni). Ovvero non coglie, in essa indeterminatezza, quella (ovvia) relazione oppositiva alla determinatezza (a sua volta assunta: come enticità; ne la enticità). L'impenetrabilità, l'oscurità, l'esser ermetici, la “fatica”, di molto dei testi heideggeriani convoglia in quel che noi abbiamo denominato: pensare come trasfigurazione. Convoglia ove tale pensare si parla, dicendosi. Cerchiamo di catalizzare le precedenti citazioni ed assunzioni, e farlo non esclude certo un nostro percorrere retrospettivo. Il seme dell'esperire l'abbandono dell'essere (necessario, nello Heidegger, per il salto; ed allo Heidegger per la concretizzazione di Essere e tempo e più radicalmente per la messa a fuoco ed il sorgere de la problematica dell'essere: verità originaria, senso) germoglia ben presto, negli scritti (è proprio il caso di dirlo: nell'esistenza) dello Heidegger, ad esempio attraverso le giovanili seguenti parole: “...noi non vogliamo sapere, calati in una prospettiva storiografica, come stanno le cose... Non è qui in gioco la conoscenza di una filosofia, ma la capacità di filosofare”10. Se certamente codesta citazione viene da noi estrapolata rispetto al suo proprio contesto (cosa sia la fenomenologia heideggeriana), non di meno però, a causa di questa nostra operazione, il suo dire non permane propulsivo per il pensiero dello Heidegger. La sua essenzialità, il suo dire, difatti, non vengono a mancare, e si spandono a macchia d'olio, sia assorbiti che trasudati nel pensare stesso del filosofo di Meßkirch. Essenzialità e dire che rimbombano, analoghi (in senso nostro), nelle 8Ivi. pag. 390. 9Ivi. pag. 318. 10Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 1. Ed. il Melangolo, Genova

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susseguenti più mature parole: “...non si tratta affatto di modificare soltanto il rappresentare e la sua direzione, bensì di s-postare l'essere umano nell'esser-ci. Il domandare e il pensiero devono certo essere iniziali, ma appunto nel passaggio”11. Certo pure adesso ci siamo dilettati, per quel che concerne il seguire la matassa del presente nostro discorso, nel compiere e leggere una estrapolazione dal contesto. Anche se poi, tutto sommato, abbiamo dalla nostra il fatto che tale contesto sono i Contributi medesimi. Che anzi, ivi viene a parlarsi palesemente proprio quel passare de il gioco di passaggio, proteso verso l'inizialità, il quale è stato argomento di un nostro precedente paragrafo. Ma il punto adesso non è questo. Poiché la nostra attenzione, e perlomeno questa, deve gravitare sulle parole: “non si tratta affatto di modificare soltanto...” e “...bensì di s-postare l'essere umano nell'esser-ci”. Torna nuovamente esplicita, su base testuale, una discrepanza tra uomo ed esser-ci. In essa si tratta di: uno s-postare nel... e nello stesso di ciò (de lo spostare-nel...) il soltanto modificare il rappresentare e la sua direzione viene decretato essenzialmente insufficiente (ma non in significato quantitativo-qualitativo), o meglio non adeguato essenzialmente, non con-sono (facente parte del suono; risonante). Quale portata ha un tale s-postamento (codesto s-postare che pone “in”, come, altro)? Di cosa consta questo s-postare? É esso forse un s-postar-si oppure un esser-s-postati? E come se ne può parlare, rischiarandolo, senza incappare in essenziali fraintendimenti? Lo s-postare (brano citato) non è un s-postar-si né un esser-s-postati, bensì altro da questi opposti che sorgono, tali, ove il soggetto, in quanto soggettività, già-sempre pone l'oggetto, in quanto oggettità (e quindi, possibilmente, correttamente tendente alla oggettività). Cotale domanda non ha da porsi, se ci si è seguiti sino a dove ci troviamo, cioè nella prospettiva a cui tendiamo (siamo ne la tensione verso...) All'ultima domanda non vi è risposta. Questo non perché, al contrario della precedente, essa non abbia da porsi. Ma poiché al fraintendimento essenziale, ovvero heideggerianamente (qui tale predicato risulta “stretto”) il già-sempre non-coglibile, non si può ovviare (riparare) in alcun modo che non sia, per l'appunto, il salto (s-postante), che non sia un pensare trasfigurante. Ed è “proprio semplicemente” ciò il cardine attorno cui abbiamo qui, più volte, roteato. Per quel che concerne il parlare sullo, oppure dello, s-postare, noi avanziamo l'ipotesi che lo Heidegger luminosamente dica de lo s-postare, or ora in questione (...nell'esserci), ove menzionerà i mortali. Per inciso, da tale riferimento si potrebbe anche abbozzare una risposta alle prime due soprascritte domande. Usiamo “abbozzare” poiché la risposta definitoria, e in quanto tale esaustiva, non è ivi concepibile nella sua 11Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pagg. 364-365. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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strutturale portata di correttezza avvallante (sazietà del raziocinio esercitantesi). In altre parole: in quanto tale non è consono (as-sonante) attendersi e protendersi verso codesto rispondere definitorio. Si è dunque alluso ad i mortali, facenti parte, nel cosiddetto tardo Heidegger, di quella Quadratura la quale non possiamo, qui nel nostro scritto, enucleare, né della quale possiamo teoreticamente occuparci. Il riferimento a tali mortali è infatti da noi colto e mostrato esclusivamente nel suo, congenito, essenziale, pensare trasfigurante. Inoltre, con validità per tutto il seguente discorso vertente la sagomatura de i mortali, premettiamo: il fenomeno de l'essere-per-la-morte in quanto esistenziale (seppur radicalizzante) dell'esserci, emergente dall'analisi esistenziale dell'opera capitale12, ed essere per la morte in quanto determinazione del sé dell'esser-ci (e solo di esso esser-ci) come pro-getto della verità dell'essere (orizzonte) stessa13 (la quale determinazione a parer nostro prefigura i mortali in quanto l'ad-venire mortali) sono tra loro sfalsate. Con questo non si vuole assodare o asserire che in Heidegger vi sono instradate due “idee” sulla morte, bensì che il coglimento (altro rispetto al comune dominante), l'esperire, e l'attuazione di ciò che viene per lo più chiamato “morte” segue, pur nella medesima tensione (direzione), due ottiche enucleanti tra loro sfalsate. L'una consona all'analitica esistenziale ed avente, a detta dello Heidegger, un linguaggio ancora metafisico. L'altra sarà da rischiararsi ancor più di quanto sino a qui non la si sia intravista, ma che tutto sommato si può definire vertente ad un pensare assonante (con-sono) alla storia-verità dell'essere. Tornando a noi ed all'opera a cui siamo posti di fronte, scriviamo: i mortali appaiono (“apparire” nel senso tracotante e confacente alla verità dell'essere, senso che per tale termine è già stato precedentemente sostenuto) nel loco ove è dispiegato l'uomo. Vi è, difatti, nei Contributi, e la questione non è meramente nominale, una esplicita preannunciazione della Quadratura e del suo gioco di specchi, in questa l'Uomo (la maiuscola è perché in tal caso Uomo starebbe come Quadratura) compare in luogo de i mortali14. Non si può dare torto a chi leggendo “i mortali” coglie gli uomini. Non tanto per questioni culturali (in accezione intellettualistica) o letterarie, tra l'altro non ulteriormente approfondite se non sempre e di continuo ancora letterariamente. Non si può, comunque, dar torto per il medesimo motivo secondo cui in Essere e tempo l'uomo e l'esserci possono risultare 12Martin Heidegger, Essere e tempo, sezione seconda cap. primo. Ed. Longanesi, Milano 1971. 13Cfr. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pagg. 283-286. Ed. Adelphi, Milano 2007. 14Ivi. pag. 309. Nonché il Cielo è parlato Mondo. Similmente, di un tale parlare differenziato nel suo

riferirsi alla Quadratura, che nel caso specifico non nostro (Cielo e Mondo) si sviluppa “dalla “dinamica di op-posizione-attrazione” Mondo/Terra già contenuta nella riflessione heideggeriana sull'opera d'arte, sembrerebbe essersene accorto Pöggeler . Cfr. Otto Pöggeler, il cammino di pensiero di Martin Heidegger, pagg. 279-280 Ed. Guida, Napoli 1991. Cfr. inoltre ivi. pag. 254, primo capoverso e pag. 255.

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sovrapposti o concepiti sostanzialmente indifferentemente l'un l'altro, ad esempio come aspetti relativi, facoltà, o basi di fondo l'uno dell'altro. Al che, in siffatta posizione, certo l'essenziale (in senso verbale) significatività della Lettera sull'umanismo sbiadirebbe e lascerebbe forse basiti taluni suoi lettori, ma si guadagnerebbe che la compagine del cosiddetto primo Heidegger ed il significato-collocazione del suo pensare, in primis dell'opera capitale, sarebbero finalmente intesi come una filosofia dell'esistenza (in accezione storicistica e dottrinaria, ovvero: comunemente intesa). A qualche compiaciuto scrittore di manuali di filosofia tale procedimento sembrerà un piccolo prezzo da pagare per raggiungere un definitorio intendimento sul pensiero dello Heidegger. Ma a noi non compete alcuna scrittura di manuali. E teniamo comunque ad affermare, ma senza alcun carattere di scusante, che cotale definitorio intendere (come filosofia dell'esistenza) non ha, in sé essenzialmente, alcuna arbitraria forzatura. Torniamo ivi, infatti, al punto focale di questo nostro paragrafo: l'arbitrio non c'entra, nel fraintendimento essenziale vi è in gioco null'altro che un pre-coglimento. Solamente tenendo ben presente tutto questo allora si potrà parlare, nello Heidegger, di un pensare trasfigurante. Heidegger medesimo sottolinea che proprio nel parlare di un essere per la morte (ma anche de l'essere-per-la-morte) e del pre-corrimento de la morte (quindi, esistenzialmente, dell'esserci; quindi ri-pensamento del fenomeno de la morte e de il morire) “si insinuano e si diffondono i più gravi e insensati fraintendimenti”15. I medesimi fraintendimenti, o comunque la loro origine basilare, costituiscono l'intendere “i mortali” semplici uomini. Ci siamo già imbattuti (III.II), durante il nostro scritto, nella problematicità di un morire rispetto al semplice-perire. Ma ciò che deve ora catturare la nostra concentrazione è il dire nel parlare de “i mortali”. Poiché, se ivi (come “i mortali”) vi è un pensare trasfigurante, affermare che “i mortali sono gli uomini”16 ha addosso tutto il peso e le conseguenze del cogliere metafisico anche detto dominante. Tant'è che logicamente (si evidenzi tale termine nella sua prospettiva), se si prosegue di poche righe oltre l'ultima citazione, incappiamo in una affermazione comportante contraddizione quando leggiamo: “gli uomini razionali devono anzitutto divenire dei mortali”17. Qual'è il tono di codesto “divenire”? Ma, precedentemente a tutto ciò, certamente si obbietterà che: se per lo Heidegger l'uomo non è animale razionale il sillogismo l'uomo –

15Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 284. Ed. Adelphi, Milano 2007. Ancora

una volta: fraintendere (essenzialmente) non è erroneità o mera parzialità di vedute, e nemmeno intellettualistica ignoranza al fine di un giudizio esplicantesi in una corretta asserzione. Cfr. retrospettivamente Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 309. Ed. il Melangolo, Genova 1999.

16Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 119. Ed. Mursia, Milano 1976. 17Ibidem.

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animale razionale – i mortali, non comporterà contraddizione ma sarà invece messa in crisi l'ovvietà dell'asserzione: l'uomo è animale razionale. Questo è assai corretto rispetto alle posizioni dello Heidegger su tali temi. Eppure, non di meno, in ciò facilmente potrebbe non venir detto nulla di essenzialmente altro! Ovvero, compiendo un passo arretro: uomo è animale razionale; gli uomini (in quanto già-da-sempre e per lo più, nonché ovviamente, intesi come animali razionali) razionali devono anzitutto divenire dei mortali; il loro (de l'animale razionale e de i mortali) essere, cosa emblematica, non comporta lo stesso. Cioè: l'uomo non è “solamente” mortale (esplicante l'essere-per-la-morte), bensì l'uomo è un mortale (heideggerianamente) ove ad-viene a mortale. Ed appunto, i mortali (heideggerianamente) sono anzitutto divenuti tali. L'”anzitutto” ha la luminescenza dell'inizialità (lo smacco dell'altro inizio sulle determinazioni metafisico-occidentali); il “divenuti” assona all'ad-venire (evento). Tutto ciò in Heidegger è come pensare trasfigurante. Dall'animale razionale (uomo) a i mortali vi è trasfigurazione, salto. Essi, come l'ente che noi stessi sempre siamo, sono essenzialmente (West) Lo stesso. Lo stesso orizzonte-comprendente è esser-ci. I mortali, in quanto tali, gravitano all'esserci, esplicanti come sono la loro propria essenzialità (verbalmente) caratterizzante de (volendo, il fenomeno de) la morte (heideggerianamente ri-colta) autenticamente colta. L'ente che noi stessi sempre siamo, esser-ci, non è uomo. Come esser-ci esso (l'uomo) è traspropriato18 all'essere (Seyn). Quanto già-sempre lo sarebbe “i mortali”. É in un tale dire e parlare che si dà un pensare trasfigurante (Heidegger). Eppure, proprio come trasfigurante, esso è già-sempre in-bilico, leggendo lo Heidegger, tra il dominante (il primo) e l'altro. Lo stesso in-bilico avviene essenzialmente (da cogliersi verbalmente) laddove si parla tanto dell'esserci (Essere e tempo) quanto dell'esser-ci (Contributi). Ma ciò è probabilmente valido per tutti i termini (ri-pensati dal loro significato ovvio o pubblico) più caratterizzanti il pensiero dello Heidegger, posto che tale pensiero si mostri, per l'appunto, un pensare come trasfigurazione. A tal proposito, ed in modo più che attinente al nostro presente “sforzo” di focalizzare la sagomatura dell'esser-ci in seno ad un pensare trasfigurante, riportiamo un brano riferito giust'appunto a quell'indeterminato “rapporto intercorrente” (parole assai infelici) fra uomo ed esser-ci. Lo facciamo perché ancora insistiamo nello sforzo di un rischiaramento della contrada di cui siamo a tentare il dire. Ma abbiamo un altro buon motivo, il traduttore ha (non entriamo nel merito filologico della cosa) codificato e trascritto, noi crediamo tenendo fede ad Heidegger, proprio la parola

18Vedasi, per quel che concerne i “limiti” di traduzione dal tedesco e un approfondimento su il

traspropriare: ivi, nota 7 pag. 24 e nota 1 pag. 45.

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“trasfigurato” all'interno di un brano non certo ausiliario per la sua significatività . “Il progetto non va “spiegato”, bensì trasfigurato nel suo fondamento e abisso, e in esso, vale a dire nell'esser-ci, va spostato l'essere umano per mostrargli così l'altro inizio della sua storia”19. Se ci troviamo istintivamente attratti (ad esempio incuriositi oppure indignati) dai termini “sua storia”, “essere umano”, “altro inizio”, “mostrargli”, ed inoltre assumiamo tali parole come una affermazione o un giudizio assertivo, facilmente il nostro coglimento, il nostro mettere a fuoco, non coglierà nulla di essenzialmente altro in codeste parole. Cioè: in queste parole, nel loro significato comunicativo e messaggio intellettivo nonché intellegibile, ci si orienta come in qualunque comune asserzione, o giudizio, o discorso logico, che siano essi affermativi, negativi, necessari, probabili, dimostrati, elucubrati, veri (corretti) o falsi (non corretti), ecc... Una tale ovvietà dell'orientarsi è il più inarrivabile fraintendimento, la maggiore incontrovertibile “non messa in discussione” che il dominante incorpora, a fondamento, e quindi dimentica, come sue proprie più disparate ramificazioni. A parere nostro una tale incomprensione, o per lo meno una similare, risiede laddove due famosi esponenti del pensiero filosofico del trascorso secolo hanno, con risultati pressoché opposti, analizzato, interpretato e criticato il parlare ed i contenuti esposti nel pensiero heideggeriano. Codesta operazione è stata condotta, in entrambi i casi, al bagliore della ricerca di una contestualizzazione (o forse: sistemazione) di quest'ultimo pensiero, nonché di una sua, non isolata ma certo manifesta, caratterizzazione politico-dottrinaria20. Ebbene costoro, nei loro giudizi, non si rivolgevano all'Heidegger tardo né si basavano su di esso. Di tali rivolgersi e basarsi bisogna pur tenerne conto. Ma ciò, qui, poco importa. Difatti il brano di cui ci apprestiamo a parlare può esser visto avente analogo tenore per il medesimo bagliore e per la medesima caratterizzazione. Però noi accentriamoci, era d'altronde questo il nostro intento, sulla soprascritta citazione nel suo come, nel cooriginario suo, bisbigliante, non-detto dire. È eclatante, al nostro sguardo, che anche in codesta frase si trovi il termine “spostato”. Esso è quel termine da cui sopra abbiamo preso il via per parlare ed a-ffrontare, attraverso la sua rischiarazione, il dire ad esso costitutivo nella misura in cui quest'ultimo a noi perviene; quindi, ivi, con

19Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 323. Ed. Adelphi, Milano 2007. 20Cfr. Ernst Cassirer, Il mito dello stato, pagg. 495-496. Ed. Longanesi, Milano, 1996. Ed: Karl Löwith, Il

nichilismo europeo, pagg. 62-67. Editori Laterza, Bari 1999. In entrambi i rimandi è esplicitamente la gettatezza dell'esserci o anche fatticità dell'esserci a dare il

via alle posizioni sostenute. Il fatto che, anche tenuto conto trattarsi di libri abbastanza differenti, si concluda con due risposte pressoché opposte a noi lascia un poco a desiderare, oltre a consigliarci un coglimento degli opposti giudizi in quanto due facce delle medesima medaglia (prospettiva di messa a fuoco). Inoltre, rimandiamo a: Günter Figal, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, pagg. 269-271. Ed. il Melangolo, Genova 2007.

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occhio attento ad un pensare come trasfigurante. A dover essere s-postato è ancora l'uomo (l'essere umano). Esso va spostato nell'esser-ci. Si noti: tale “nello” permane logico-grammaticalmente piuttosto nebuloso. Scomponendo e ricomponendo il parlare della frase in questione ne viene che cotale s-postare sorge in seno ad una trasfigurazione nell'esser-ci (che è l'ove va s-postato l'uomo; “ripensare l'intero essere umano – non appena esso sia fondato nell'esser-ci – secondo la storia dell'essere (ma non “ontologicamente”)21), la quale trasfigurazione si dà, al contempo, come non “spiegazione” (elaborazione-pianificazione calcolante, macchinazione, coglimento nel dominante) de il progetto. Il progetto è pro-getto, progetto gettato, e si impasta in ciò che Heidegger pronuncia, fin dall'opera capitale, come gettatezza e fatticità dell'esserci. Certo in Essere e tempo tutto viene ancora “limitato” metafisicamente, d'altronde lo è nel medesimo modo tanto nell'autore (uso di un linguaggio metafisico) quanto nell'orizzonte (sì teoretico, ma inizialmente-già nell'esplicarsi del pensare). Ed infatti a noi si confà attenerci, anche nel linguaggio, al fine di cimentarci brevemente, non possiamo esimercene, nella delucidazione del termine “progetto” (nonché getto de la: gettatezza dell'esserci; questo al di là della deiezione esistentiva), ai momenti posteriori rispetto l'opera capitale. Ciò anche perché le sfumature in cui si espande e rifrange22 l'intimo senso di “progetto” (Entwurf) sembrano venire a parola dopo la Kehre23. Momento questo (nel caso specifico cronologicamente non delineato con esattezza) in cui, cosa di primaria im-portanza, il “progetto” stesso contemporaneamente si affranca dall'analisi fenomenologica (completa o meno che essa sia) incentrata all'esserci. E perciò (proprio in ciò) cooriginariamente si affranca dai pre-determinati vincoli di una indeterminatezza teoretica e causale, nella intrinseca sua (della pre-determinata indeterminatezza) direzione mirante al progettante, nonché quindi anche al progettato come oggetto gettato (ivi soggiace: essere come produzione). Il domandare non si volge quindi più nel direzionarsi al “che cosa” ed al “chi”, ma, ebbene, nella direzione-tensione del come. In un cotale volgersi interrogante “mondo” viene, heideggerianamente, ulteriormente ad approfondirsi, ed, ancor più, esso viene ri-pensato inizialmente. E proprio codesta direzione-tensione viene parlata, senza nascondere l'enigmaticità che le compete, nella Lettera, nei passi di questa dove soggiace un ri-pensamento de l'uomo. É ivi che l'uomo viene parlato

21Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 123. Ed. Adelphi, Milano 2007. 22Cfr. anche solo didascalicamente, ma nei loro reciproci legami, rinvii e percorsi neologici, le voci

correlate alla voce Entwurf in: Martin Heidegger, Segnavia, pag. 495. Ed. Adelphi, Milano 1987. 23Precedentemente ad essa si può leggere sinteticamente sul progetto, al di là delle ormai canoniche parti

di Essere e tempo in cui è legato al Verstehen indi prettamente alla “figura” dell'esserci: Dell'essenza del fondamento in: ivi. pagg.114-115. A tal riguardo rimandiamo anche a: Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 268. Ed. il Melangolo, Genova 1999.

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“pastore dell'essere...non...padrone dell'ente”24. In tale parlare si dice della originarietà (inizialità dell'apertura originaria) in cui è (West) l'uomo, meglio, si dà uomo (es gibt). Essa originarietà, nella Lettera, Heidegger la denomina: essere-gettato. Ovvero gettatezza che intimamente compete all'esser-ci ed, al con-tempo, essenzialmente (verbale) all'essere25, nonché, necessariamente e solo in, come, codesta apertura, anche all'uomo. E ciò che la si esperisca o meno, che ne si riesca in quanto uomini o non, che sia obliata la sua dimenticanza o che essa venga nuovamente illuminata. Essere; essere-gettato; esser-ci. Come tale condizione della gettatezza (in codesta intravista radicale significatività) “l'uomo,...e-sistente controgetto nell'essere in quanto evento -(ed.1949)-, è più che animal rationale proprio in quanto è meno rispetto all'uomo che si concepisce a partire dalla soggettività... In questo “meno” -e più- l'uomo non perde nulla, anzi ci guadagna, in quanto perviene alla verità dell'essere... Esser chiamato dall'Essere stesso alla custodia della sua verità. Questa chiamata avviene con il getto da cui scaturisce l'essere-gettato dell'esser-ci”26. L'enigmaticità, a cui il guadagnare del “ci guadagna” non sfugge, enigmaticità da noi precedentemente fatta notare, enigmaticità congenita ad un discorso vertente la gettatezza, l'esser-gettato, il pro-getto, non viene a mancare nemmeno nei Contributi. Enigmaticità è ciò che compete ad un discorso vertente sulla gettatezza e sul pro-getto, indi per cui sull'esser-ci. Enigmatico è quando il numerare svapora. Enigmatico è luogo dove soggetto ed oggetto non sono più dati in quanto tali. Enigmaticità è il come, tornante su sé. Enigmatico sta a dire un pensare trasfigurante che già-soggiace. Enigmatico è qui l'essenzialmente (verbale) contrario dell'ovvio. Enigmatico è il labile confine di identità e differenza. Enigmatico sono ente ed essere se posti nel ri-pensamento. D'altronde, ove non si dà enigmaticità, occultamento ed ovvietà del predominante spadroneggiano27 in molteplici, diverse, e finanche opposte (op-posto non è contrario), esplicazioni. Siamo dunque pienamente d'accordo con Aristotele e l'intera metafisica (Occidente): l'uomo (in accezione più ampia possibile) è animale razionale. Questo non significa che “uomo” non possa s-velasi, cioè darsi (essere essenzialmente), come altro da ciò: senonché proprio in ciò trasfigurerebbe il suo esser-umano (uomo: animale razionale) eppur giammai l'esser-ci. Ma sopratutto, questo non significa che dell'uomo Heidegger dica. Ed ancora più inizialmente, questo non implica certo, in noi e qui, che uomo sia ovviamente quell'ente che noi stessi sempre essenzialmente siamo. Poiché quest'ultimo è (West) esser-ci. E verso esso, nella vicinanza ad esso, o 24Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag 73. Ed. Adelphi, Milano 2002. 25Cfr. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), par. 182. Ed. Adelphi, Milano 2007. 26Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag 73. Ed. Adelphi, Milano 2002. 27Cfr. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 323, primo capoverso. Ed. Adelphi,

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comunque ad altro dall'uomo (i mortali), si può giungere (ovvero: ci “viene” dato, si dà), assieme ad Heidegger, in un pensare trasfigurante e solamente, in Heidegger, come (in) questo. Oppure, se tutto ciò non dovesse essere la via percorsa o la direzione intrapresa, nulla importa se esplicitamente o meno: ogni cosa essenziale dallo Heidegger parlata, per quel che ci concerne, nei Contributi, si inclinerebbe ad ogni istante nello sbilanciarsi come coglimento del dominante (genitivo dove il cogliere “appartiene” a il dominante, ma al contempo: il dominante non è, cioè enticità, bensì “solamente” si dà come, cioè è, coglimento28). Nel venire incanalato nelle innumerevoli articolazioni di questo dominante, sì facilmente cadendo nell'arbitrio dell'ovvio o nell'assenza di essenzialità, oppure nell'astratto di una vuotezza, o ancora nella mera informazione contenutistica “filosofica”; in un orizzonte di assenza della dimenticanza ed oblio dell'essere (Seyn). Così, infine, quel soprascritto “spiegare” il progetto (da intendersi: volontà di spiegazione, dell'aver-sotto-mano, orientarsi calcolante), implicante lo spiegarlo correttamente, magari anche grazie a strumentazioni eterogenee e teoremi di varia natura, non si può essenzialmente (da comprendersi verbalmente) avvicinare al progetto stesso. Non può avvicinarsi a ciò che si dà come pro-getto. Nell'imperio del dominante e nell'esplicarsi delle articolazioni della prospettiva e del coglimento metafisici (Occidente) il progetto si “raggiunge” (“giunge”) solamente come trasfigurazione; tale è il dire de i Contributi. Negli slarghi aprentisi di codesto “come”, ad-viene (un) pensare trasfigurante (...vi è già stato in quanto tale?...per quanto ininfluenti, tale questione permane irrisovibilmente aperta, ma giammai in quanto problema da risolversi). Continuando a gravitare direzionati al pensare dei Contributi come pensare trasfigurante, desideriamo ora compiere un piccolo passo a ritroso. Verso l'inizio del presente paragrafo abbiamo menzionato i preparatori de i venturi (dell'altro inizio), essi sono stati nominati: coloro che tra-montano. Di codesti preparatori lo Heidegger parla, almeno a nostro avviso, assai poco. Ove però, nei Contributi, se ne parla, lì viene a rischiararsi il pensare trasfigurante che ne sta a fondamento, intrinseco alla loro parlata ed esposta “sagomatura”. A noi non compete altro che, se ci si è seguiti sino a qui, riprendere con tono adeguato tale parlare ora in questione. D'altronde si potranno così notare alcune parole a cui abbiamo precedentemente già fatto caso (ad esempio: l'ambiguo, l'oggi). Parole in cui abbiamo riposto una significatività tutt'altro che secondaria ed in cui abbiamo tentato di mostrare una tonalità spesso non colta né intravista, ciò ha valenza per la direzione del nostro scritto. Ma il nostro scritto è semplicemente interamente volto al pensare de i Contributi. “I pensatori transitori e per

28Tale “precisazione” trova una corrispondenza in: ivi. pag. 417, ultimo capoverso (la domanda “della”

verità dell'Essere si svela come la domande dell'Essere “della” verità).

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essenza ambigui devono sapere espressamente anche questo, cioè che il loro domandare e il loro dire sono inintelligibili per l'oggi che persiste incalcolabile nella sua durata. E ciò non perché gli odierni non siano abbastanza intelligenti o abbastanza informati su ciò che viene detto, bensì perché -qui- l'intelligibilità significa già -da già-sempre- la distruzione del loro pensiero”29. In codesti pensatori transitori o preparatori tra-montanti, una trasfigurazione, la stessa cui verte il pensare heideggeriano, si ha a compiersi, ad-viene, accade, e li fa tali: essi “hanno realizzato -accaduto- una prima cosa necessaria -necessaria per il loro stesso accadere come tali-: non aspettarsi da un ente la verità senza -e qui il senza è heideggerianamente pieno e tracotante come il nulla- cadere nel dubbio e nella disperazione. Coloro che ancora...non si sono assicurati un'intesa su ogni cosa, ma hanno conservato la prima e unica cosa da domandare, l'Essere”30. Tale trasfigurare stesso è il compito (avviene in quanto esplicarsi) medesimo di codesti pensatori transitori o “viandanti iniziali”31. Anteponendoci ad una conclusione del presente paragrafo, non ci esimiamo dall'affermare che avendo fino a qui tentato il dire de l'uomo, de i mortali, e de l'esser-ci, rispettivamente nel e come coglimento di un pensare trasfigurante, abbiamo così detto, senza che se ne fosse parlato, essenzialmente nient'altro in più di ciò che lo Heidegger denomina: traspropriazione. Codesta traspropriazione infatti “concerne” (altro molto infelice vocabolo) uomo (ma in ciò essenzialmente esser-ci) ed essere (Seyn)32. Il suo “concernere” è invero però originario, e cooriginario. D'altro canto ne la traspropriazione risuona nient'altro che l'evento-appropriazione (Er-eignis)33: siamo qui a parlare nientemeno che dell'accadere dell'Evento (Ereignis). Ma riconcentriamoci ancora sul pensare come trasfigurante. Bisogna ora infatti rendere noto un altro momento del pensare heideggeriano dove, a nostro vedere, affiora un trasfigurare: lo stesso pensare trasfigurante può lasciarsi mostrare anche ove viene parlata, restando entro i margini dei Contributi, la cosiddetta differenza ontologica. Anche cotale differenza ontologica è tematica presente, ovvero giunge a problematizzazione, in tutto il pensiero heideggeriano. E per questo a maggior ragione è sottoposta alla confusione, ad un essenziale sbilanciamento (nel senso sopra inteso). Non ci approfondiremo ne la differenza ontologica con la stessa intensità

29Ivi. pag. 423. 30Ibidem. 31Ibidem. Da notarsi il termine “viandanti” da noi prima incontrato, e certo in maniera non neutra. 32Cfr., anche se esula testualmente dai Contributi: Martin Heidegger, Identità e differenza, in Aut Aut

fascicoli 187-188 gennaio-aprile 1982, pag. 10, la prima abbondante metà della pagina. Ed. La nuova Italia, Firenze. Da sottolineare ivi la menzione di un salto, testualmente rinvenibile nel riferimento ad un “necessario...salto...verso quell'appartenere [Gehören] che per primo deve concedere reciprocanza tra uomo ed essere e rendere visibile la costellazione che li comprende entrambi”.

33Cfr. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 545. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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con cui abbiamo affrontato la precedente “questione”. Resteremo quindi ad un livello di indicazione, ciò nonostante ivi si dice de la differenza ontologica. Anche in questo caso, se assunto tutto il percorso (ammesso che sia per-corso e non informazione, contenuto filosofico) nel quale fino ad ora ci siamo “sforzati” e che abbiamo intrapreso (quindi: pensare trasfigurante), è Heidegger medesimo a dire de la differenza ontologica, così parlandone: “Questa “differenza”...è soltanto uno spunto non in direzione della domanda guida, bensì per il salto nella domanda fondamentale, non per giocare confusamente con dei segni (ente e essere) ormai fissi, bensì per risalire alla domanda sulla verità dell'essenziale permanenza dell'Essere e cogliere così in modo diverso il riferimento di Essere ed ente, tanto più che anche l'ente in quanto tale è sottoposto a un'interpretazione trasformata -da notarsi il “trasformata”- (salvataggio della verità dell'evento) e non sussiste più alcuna possibilità di far passare surrettiziamente “l'ente” come “oggetto rappresentato” o come “in sé sussistente” o simili”34. Codesta citazione porta con sé tutto un trasformare, il quale, a chi non ci ha seguito sino a qui, permarrà assai incomprensibile (essenzialmente estraneo) quanto ovvio, forse misterioso, oppure assolutamente accidentale rispetto al contenuto del brano, se non addirittura nemmeno si farà ad esso caso. Non si può però tacere che qui, in noi, la “questione” identità e differenza, come pensare trasfigurante, è pressante. Lo è abbastanza da coinvolgere cooriginariamente (in prospettiva tematico filosofica si direbbe: nel medesimo tempo) ciò che viene heideggerianamente parlato con: enticità o essere come semplice-presenza, essenziale permanenza dell'essere o essere come essenziale permanenza, ente ed essere (Seyn). Nientemeno che, foss'anche solo contenutisticamente, le “questioni” fondamentali del pensare Heideggeriano. Ma pressante per noi significa che proprio ivi giace ogni “difficoltà”: difficoltà, tutta metafisica (sempre in accezione heideggeriana, ma nel senso più possibile pregnante), di poter parlare ancora e di nuovo, principialmente o non, filosofico-ontologicamente o meno, di “essere” e di “ente” in genere. L'accadere essenziale (verbalmente) che: l'ente è l'essere, così come il fatto che si possa dire: l'ente è l'essere, stanno entrambi ed insieme nel darsi o accadere (in accezione heideggeriana più radicale possibile) di un pensare trasfigurante35. Molto altro vi sarebbe da parlare riguardo ad un pensare come trasfigurante, vi sarebbe solamente però ove vi fosse la necessità per un tale parlare, l'indicazione per esso, l'udito atto ad accoglierne il dire. Comunque e ad ogni modo, a noi che siamo partiti dai Contributi per

34Ivi. pag. 215. 35Nel testo a cui siamo posti di fronte possiamo rimandare a: ivi. pag. 418, la seconda frase della pagina.

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permanere e lasciarci permeare in e da essi, compete esclusivamente ciò che fino a qui ci ha accompagnato. Eppure: codesto accompagnare non risulterà già-mai abbastanza, già-da-sempre mai bastante, in coloro che fino a qui hanno colto (veduto, intrapreso il camminare) una interpretazione filosofica del pensiero heideggeriano, o una speculazione teoretica su di esso, o soprattutto un parlare assertorio e tendenzialmente (nonché, probabilmente, in sé tendenzioso) dimostrativo ad esso connesso oppure su di esso basato. Non pretendiamo, non lo abbiamo giammai preteso, di aver detto l'ultima parola, quella definitiva, sui Contributi, tutt'altro: noi abbiamo sempre teso (nella tensione verso... in tensione nel...) al come di codesta opera. Quindi se sui Contributi una parola “definitiva” è stata da noi detta, questa parola è bensì la prima, l'iniziale, e giammai l'ultima. Affermato ciò, ci sembra d'obbligo ritornare all'inizio del nostro percorso, rivoltarci in esso per poter scrutare all'indietro, e finanche percorrerne a ritroso i momenti costitutivi. Ciò non può essere fatto a caso, oppure a maniera di riassunto, né al fine di una riprova, o come conclusivo “esame di coscienza”. Quando all'inizio del presente scritto venne messa in rilievo la struttura dei Contributi subito si intravide un intrinseco, ed “in” essa essenziale (verbalmente), pensare come porsi-in-cammino o sentiero. Ed un tale porsi-in-cammino o sentiero è effettivamente fin qui stato tentato, cioè quantomeno posto possibile. Ebbene in quella struttura e quindi in questo porsi-in-cammino già si annunciavano i successivi due cosiddetti “punti di inversione” del come “del” pensare. “Punti di inversione” caratterizzanti il pensare, o meglio quel come che appunto, qui, si configura: un pensare. Quel come, o quei due “punti di inversione”, che abbiamo denominato rispettivamente esperente e trasfigurante. Nel cammino che fino a qui ci ha com-portato cotali ulteriori due “punti di inversione” erano certo necessari per poter giungere a la trasfigurazione medesima. Ciò non di meno, ed ivi viene testimoniata anche l'eccezionalità dell'opera a cui siamo posti di fronte, tutto codesto percorso che ci ha portati fino a la trasfigurazione, quest'ultima compresa, è già parlato in quella che abbiamo poc'anzi ricordato essere stata denominata la struttura de i Contributi. Ma addirittura anche la, da noi cosiddetta, strutturazione del medesimo testo trasporterebbe con sé l'interezza del percorso che ci ha fin qui portati. Vi è un solo ed unico punto di inversione nei Contributi. Cotale punto di inversione noi lo chiameremo momento di svolta. Sì da rammentarci ciò che svolta (Kehre) dice in tutto lo Heidegger. Per l'ennesima occasione lasceremo alle parole scritte da Heidegger stesso la “fatica” del rischiarare il discorso da noi appena intrapreso oppure, che dir si voglia, appena sciolinato: “salto è l'aprente gettarsi “dentro” l'esser-ci. Questo si fonda nel salto. Ciò dentro cui esso, aprendo, salta, si fonda solo

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tramite il salto”36. Quel cammino (strutturazione, pensare, il come) denominato Contributi è un cerchio che si ri-volta (ri-balta) in sé per in sé chiudersi. Il cerchio si chiude ma il suo chiudersi è solamente l'aprirsi (un aprirsi) verso il più-iniziale, tensione d'originarietà. Il cammino è una spirale che non si restringe vista dall'alto, è un cerchio. La trasfigurazione ed il salto sono “semplicemente” il percorrere questo cerchio in spirale. Siamo giunti alla traspropriazione nell'evento, dove “nell'” non è per lo più atto a dire ciò che vien detto, poiché logico-grammaticalmente non può dire un tale nell'evento. Il salto: fa ad-venire una astratta speculazione filosofica concernente il vago e magari inutile (finanche, incomprensione più essenziale non può forse esservi, inesistente) essere, un dire rimirante quell'originario (cooriginario) orizzonte iniziale chiamato: verità dell'essere. Essere (Seyn) è ciò che è da pensare ed è ciò stesso che pone in un tal pensare37. In ciò, proprio in ciò, sia salto che evento non hanno niente di estraneo al pensare. Il Salto è momento di svolta. Il salto dice null'altro che dell'evento.

36Ivi. pag. 303. Per quel che si scriverà di seguito, e cioè, con poche misere inadatte parole, una

cooriginarietà di salto, svolta, evento, traspropriazione ed esser-ci, rimandiamo a: ivi. par. 255, i primi quattro capoversi. Qui sono manifestamente nominati e tematizzati insieme: svolta evento, traspropriazione, esser-ci.

37“Che l'essere stesso riguardi un pensiero, e come lo riguardi, non sta, né in primo luogo né soltanto, in potere del pensiero. Il fatto che l'essere stesso colpisca un pensiero e il modo in cui lo colpisce porta il pensiero a quel salto grazie al quale esso scaturisce dall'essere stesso, per corrispondere così all'essere come tale; evento (Ereignis)”. Introduzione a: “Che cos'è metafisica?” (1949) in Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 94. Ed. Adelphi, Milano 2001.

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V

V.I COMPENDIO “SULL'”ESSERE

“Il fatto che noi ancora non pensiamo non

si fonda per nulla sul fatto che l'uomo non si volge ancora con intensità

sufficiente verso ciò che di per sé vorrebbe essere

considerato. Che noi ancora non pensiamo deriva

piuttosto dal fatto che ciò che è da-pensare (dieses zu-Denkende) si

distoglie (abwendet) esso stesso dall'uomo”

(Martin Heidegger, Saggi e discorsi)

Con questo nostro quinto capitolo non si vuole aderire alla scelta editoriale riguardante la pubblicazione dei Contributi, i quali terminano appunto con il capitolo ottavo: L'Essere. Ci siamo difatti già pronunciati su come nel manoscritto le cose stiano diversamente. L'Essere non è perciò un ultimo, inatteso, cosiddetto “punto di riferimento”. L'intento di questo compendio è ben altro, esso infatti esula speculativamente dai Contributi. E non esula da quest'opera meramente perché i nostri riferimenti testuali saranno spesso esterni ai Contributi, come se poi tale atteggiamento fosse una novità rispetto a tutto l'antecedente nostro scritto. Piuttosto: codesto esularsi è solamente a livello speculativo-filosofico poiché ogni pensare dice essenzialmente dell'essere. Ad ogni modo, in certe occasioni non si mancherà di mostrare, qui innanzitutto e per lo più teoreticamente, un intimo legame (teoreticamente una interrelazione) o assonanza, con il percorso a cui ci siamo fino ad ora accompagnati. C'è da affermare primariamente che sentiamo di dover approdare a codesto nostro Compendio giacché abbiamo spesso parlato, in buona parte del nostro scritto, espressamente o meno, di “dinamica” dell'essere. Cercheremo, a ragion veduta, di enucleare il senso di codesta “dinamica” dell'essere. Ciò rimane lo sprono nella composizione del presente paragrafo. Se si comprende tale sprono quell'esularsi speculativo poc'anzi preannunciato può rivelarsi, poi, ben più fertile e familiare nell'orizzonte del pensare che sono i Contributi, nonché in quel tentativo di parlarlo (l'orizzonte del pensare) che è il nostro scritto, piuttosto che non distante dai semplici-contenuti dell'opera a cui siamo posti di fronte. Premettiamo inoltre che non ci giova né rallegra usufruire del termine “essere”, sappiamo che tale vocabolo è a dir poco irrecuperabile e

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filosofico-speculativamente inflazionato. Heidegger medesimo aveva piena percezione di ciò. A tal proposito consigliamo vivamente di cogliere, durante la lettura, “dinamica” dell'essere come un tutt'uno: “dinamica” dell'essere. Sì sperando, infine, che ciò agevoli una fuoriuscita dal dominante, nonché non-detto, coglimento di codesto termine (“essere”), coglimento ovvio ed intrinseco in tutte le modalità di significato che esso (“essere”) ha conosciuto nella storia dell'Occidente. Innanzitutto, però, “dinamica” dell'essere non tenta di dire nulla di diverso di ciò che lo Heidegger ha parlato, in un modo o nell'altro, durante tutta la sua “produzione filosofica”. Quindi i termini usati saranno a buon vedere heideggeriani. Da ultimo, con codesto Compendio è nostro intento evitare fraintendimenti (preliminari) tanto su: il darsi dell'essere, quanto su: il dominante e le sue ramificazioni. É infatti concepibile oppure possibile, e noi lo crediamo fermamente, accorgersi di come si possa cogliere codesti due (darsi dell'essere e dominante): due “soggetti”, e come tali (“soggetti”) interpretarli in quanto principi (di qualunque natura si concepisca: morale, ontologica, storica, dialettica, ecc...). Abbiamo pronunciato, in svariate parti delle precedenti pagine, “dinamica” dell'essere ove (in luogo di...) lo Heidegger tende ad annunciare ciò che egli chiama con: verità dell'essere, senso dell'essere, ma anche essenziale permanenza dell'essere ed evento. Questo pronunciare la “dinamica” è stato portato avanti al fine di rilevare un tratto essenziale (verbalmente) del “sagomarsi” insito all'essere (Seyn) quando cerchiamo di avvicinarci ad esso pensando e portando codesto pensare a fenomeno (in accezione fenomenologica). A parer nostro infatti il già-da-sempre noto (concepibile) ambientarsi, o sempre-rinnovata focalizzazione addentro al (come) coglimento dominante, che nel caso specifico assume i tratti della speculazione filosofica su base logico-assertiva (o altro), ravviva il suo dominio e la sua ovvietà (incombenza) in quei luoghi ove lo Heidegger parla “di un che di negativo”. Velatezza, abbandono, Nulla, inautenticità e quant'altro. Qui, per quel che concerne l'interpretazione, l'indagine filologica o in genere la lettura dello Heidegger, risiede il più automatico e mai-problematizzato cogliere al e dell'oggi costitutivo. Fin dall'analitica fenomenologica votata all'indagine sulla “figura” dell'esserci, quindi sull'esistenza heideggerianamente intesa, si può intravedere l'inusualità e la “difficoltà” di recepire talune significatività proposte dallo Heidegger per i suoi neologismi o per l'utilizzo ri-pensato di alcuni termini. Tali inusuale e “difficoltà” sono spesso messe a nudo dal medesimo pensatore della germanica Foresta Nera. Principalmente a tal scopo sono da intendersi le tante barriere ed i numerosi avvertimenti che Heidegger erige contro l'incomprensione essenziale dei suoi scritti, più oltre verrà enfatizzata l'im-portanza dell'inaspettato “timbro” con cui è

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stato pronunciato un simile avvertimento. D'altronde di tali barriere ed avvertimenti ne troviamo anche nei Contributi1. Essi (barriere ed avvertimenti) si rifanno molto spesso alle letture dell'opera capitale che si sono susseguite negli, non più tanto pochi, anni trascorsi dalla sua pubblicazione. Ciò, a parer nostro, perché proprio con Essere e tempo si affacciano nuovi vocaboli e nuove significatività, quindi, essenzialmente, inattesi e, cosa non scontata, oscuri sensi. Cotale oscurità è intrinseca a ciò che denominiamo “dinamica”, eppure come “dinamica” dell'essere l'oscurità di senso non è più data tale. Ritorniamo a “quel che di negativo”, poiché da questo può pervenire la possibilità di avvicinarsi o assumere ciò che “dinamica” dell'essere tenta di portare seco, di dire, parlando e indicando de la svelatezza e de il nascondimento, della verità originaria e del dominante. Le nostre assunzioni e il loro mostrarsi saranno accompagnate da incursioni testuali, ed occasionalmente approderanno a brevi parafrasi di tali brani estrapolati. “Limitiamoci” ora alla “figura” dell'esserci ed all'analitica esistenziale di Essere e tempo. Leggendo quest'opera ci si può avvedere del fatto che una discriminante è posta, in posizione iniziale, nell'esserci: l'autenticità che può esplicarsi in ciò che è altro dal Si ed irraggiare tutto un orizzonte fenomenico, oppure l'inautenticità che si dirama nella quotidianità, nel coprimento delle possibilità ultime, originarie oppure essenziali che costituiscono l'esserci o l'essere dell'esserci. Ecco un'opposizione! E per di più quella fondante! Questo è tanto giusto per la semantica logico-grammaticale quanto corretto per le asserzioni logico-razionali, e lo è nel grado in cui rispetti codesti parametri ed i loro principi. Ma le cose non stanno così nel pensare heideggeriano. Poiché in esso non vi sono, a tal proposito, due elementi (in accezione ampia) che, essendo in “relazione” o comunque in un contatto, si causano oppure si elidono-escludono. Bensì si dà una duplicità cooriginaria di atteggiamenti. “ Un tale ente che noi stessi sempre siamo...non è solamente identico a s stesso in senso ontologico-formale..., e non è neppure soltanto consapevole -di ciò-..., ha invece un'identità specifica con se stesso: l'ipseità (Selbstheit)... È fatto in modo tale che ha se stesso..., e solo per questo può anche perdersi”2. Brevemente: In, come, codesta ipseità, legata al carattere di intramondanità (determinata come enticità) dell'esistenziale (originario) essere-nel-mondo, l'esserci può perdersi ed esistere principalmente in modo inautentico oppure (aprirsi) esistere autenticamente. Avevamo già discorso su questa duplicità in passato. Ma ora ne sottolineiamo il tono, la tonalità in cui se ne dovrebbe, heideggerianamente, parlare. Poiché “esistenza inautentica non significa esistenza apparente, falsa. Piuttosto, l'inautenticità appartiene 1Una unica esemplificazione valga per tutte: Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento),

pag. 109, quinto capoverso. Ed. Adelphi, Milano 2007. 2Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 163. Ed. il Melangolo, Genova

1999.

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all'essenza dell'esserci fattuale – ma per essenza (verbalmente) l'esserci è fattuale ed altresì gettato, heideggerianamente storico-. L'autenticità è soltanto una modificazione, non una cancellazione totale dell'inautenticità”3. Se ci si avvicina a quel “circolo ermeneutico” in cui l'esserci si comprende nel mondo (esso ha un mondo, è già-sempre nel mondo) che si disvela nell'esistenza, e principalmente o per lo più in quanto si svela comunque come intamondanità (totalità di appagatività, ecc...) che porta un (quel) mondo, allora si potrà intravedere la cooriginarietà, ovvero il come dell'inautenticità ed autenticità proprio in quanto esistere dell'esserci. E con esso (cooriginarietà) verrà indicata la tensione che pronunciamo dicendo “dinamica” dell'essere. Ma “l'oggetto” dell'ultimo discorso e della citazione non era forse l'esserci? Ed infatti, la “figura” dell'esserci non conchiude ciò che si apre, cioè potrebbe aprirsi, dicendo essere (Seyn) e verità (senso) dell'essere (Seyn). Liquideremo questa osservazione rammentando i “limiti” intrinsechi ad Essere e tempo, ed alla “figura” dell'esserci si intende. Approdiamo, sulla scorta dell'osservazione e del rammentare appena avanzati, all'esser-ci de i Contributi. Abbiamo cercato di mostrare che esso non è una “figura”, filosofica o meno, né un modo per intendere: l'uomo; cose entrambe che, invece, ancora possono competere all'esserci dell'opera più famosa dello Heidegger. Ma in quale maniera, dopo aver cercato di mostrare la cooriginarietà di esser-ci ed evento o comunque avere compiuto una focalizzazione dell'esser-ci come fondamento, parlare all'unisono di “dinamica” dell'essere ed esser-ci al fine di rischiarare tale “dinamica”? Enucleando il Gioco di passaggio si è parlato della ri-presa, avente carattere di originarietà, del primo inizio in quanto tale, come un esser-già-orientati verso l'altro inizio. Il cosiddetto, cosiddetto dallo Heidegger, pensiero “metafisico”, che con più ampio e profondo respiro possiamo indicare: coglimento dell'essere come semplice-presenza e velamento (non da intendersi: volontà di velare!) della verità dell'essere, non è estraneo né all'esser-ci né al darsi dell'essere (Seyn). Il darsi (si dà) dell'essere (Seyn) parla de lo stesso di ciò che viene qui parlato con “dinamica” dell'essere. La metafisica, nell'ampio respiro poc'anzi assunto, non è un altro da codesto stesso. Non è l'opposto, né il contrario, né l'alter ego del darsi dell'essere. Bensì, come un qualcosa (la) metafisica (cioè proprio in quanto “metafisica”) oblia quell'originario darsi dell'essere anche detto verità dell'essere. Ma la metafisica in quanto “metafisica”, cioè un qualcosa, non giunge al suo fondamento; propriamente: non si sa pensare. Allo stesso modo di tutte le sue ramificazioni. La verità dell'essere, l'essere nella sua verità ovvero il darsi dell'essere (ove ogni “del” contiene intrinsecamente il “limite” precedentemente individuato), non è un qualcosa. In tal senso essa non è, bensì si dà. In ciò si può dire il 3Ibidem.

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nulla è l'essere. Questo dire, che mai può divenire una semplice-affermazione, è ben oltre, e cioè: altro, che corretto; tanto più che una decisione finale sulla sua correttezza permane in una sorta di limbo. Esso (cotale dire) parla nell'orizzonte della “metafisica”, ma al contempo talmente spro-fonda in questo (nell'orizzonte) ed in essa (“metafisica”) da parlarne (sia della “metafisica” che dell'orizzonte di questa) già dal suo fondamento. Tutto ciò si intraprende, heideggerianamente si esperisce, come esser-ci (o in altro modo, Heidegger ne dice parlando de l'esserci): “Se si rende visibile la “metafisica” come accadimento che appartiene all'esser-ci in quanto tale, ciò non varrà come ancoraggio “antropologico” assai scontato della disciplina della metafisica nell'uomo, bensì con l'esser-ci è conquistato quel fondamento in cui si fonda la verità dell'Essere, in modo tale che l'Essere stesso giunge ora originariamente -inizialmente- a dominare e che una posizione del trascendimento dell'ente, che appunto muove dall'ente e precisamente in quanto lì presente e in quanto oggetto -un qualcosa-, è divenuta impossibile. Si mostra -e già-mai dimostra- così finalmente che cos'era la metafisica, ossia questo trascendimento dell'ente -essere- in direzione dell'enticità (idea)... L'interpretazione dell'essenza della “metafisica”, diventando anzitutto e assolutamente una fondazione dell'esser-ci, sbarra alla “metafisica” ogni via verso una ulteriore possibilità -un ulteriore ramificarsi-”4. Così come nell'esser-ci sta la “dinamica” dell'essere, essa stessa sta eminentemente (“anche”) come pensare. Il pensiero pensa sempre l'essere, tanto quanto ogni linguaggio dice sempre “è” (“in ogni parola l'essere si esprime e tace così la sua essenza”5), e sì pensando coglie ed accoglie l'enticità, o comunque sia un qualcosa. E da questo luogo, da codesto coglimento, si dipana ogni possibilità di ciò che nei Contributi viene alla parola con “macchinazione”. In tutto ciò il pensiero fa del pensante colui che ha interamente e intrinsecamente quelle capacità che lo contraddistinguono (ed ivi riecheggia ancora, però in una accezione un poco differente, l'animale razionale), o in altro modo: l'orizzonte della Cultura. Avendo tali intrinseche capacità egli agisce, non solamente fa oppure reagisce. Al contempo codesto pensiero del pensante, per essere necessariamente tale, adombra la sua origine essenziale (verbalmente) ed oblia la tensione che da quest'ultima proviene, o meglio: la direzione che essa è e ciò che, essenzialmente permanendo, lascia sorgere. Dimentica l'apertura, originarietà, senso. Il pensiero è qui cooriginario eppur altro dal pensare. Pensare è quel termine col quale abbiamo indicato il pensiero ri-volto e richiamato inizialmente (inizialità) dall'abbandono dell'essere; quindi parola con cui abbiamo indicato cotale abbandono e il suo echeggiare che si fa pensare. Cotale pensare è sì, prospetticamente

4Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 184. Ed. Adelphi, Milano 2007. 5Martin Heidegger, Il nichilismo europeo, pag. 311. Ed. Adelphi, Milano 2003.

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dall'adombrarsi, pensare trasfigurante. Ivi pensare: echeggiare che “ap-porta” o “porta” (senza che vi sia portante/portato da distinguersi, cioè nemmeno la possibilità di un tale distinguere) verità dell'essere, coglimento dell'apertura originaria. “Poniamo però che all'oltrepassamento della metafisica corrisponda lo sforzo di imparare a prestare attenzione all'oblio dell'essere, per farne esperienza -heideggerianamente intesa- e per assumere questa esperienza nel riferimento dell'essere all'uomo -che così non può già-più dirsi tale- e lì custodirla... tutto dipende dalla capacità del pensiero di farsi, a suo tempo, più pensante. E ciò avviene quando il pensiero, invece di intensificare i suoi sforzi ad un livello più alto, è rinviato a un'origine diversa -l'altro; qui: l'eörterung de In cammino verso il linguaggio-. Allora il pensiero posto dall'ente in quanto tale, e che perciò lo rappresenta e così lo schiarisce, è sostituito da un pensiero fatto avvenire dall'essere stesso”6. Onde evitare di irretirsi in nuovi essenziali fraintendimenti, si oda quel che vien di seguito. Verità dell'essere non è (la logica qui vorrebbe un “però”) “minore” (di meno sé) ove sta l'adombramento, bensì ogni adombramento è verità dell'essere, ciò qui significa: sempre-già verità dell'essere si-dà, al con-tempo e cooriginariamente, come l'adombramento. L'essere non semplicemente-è bensì si dà (Seyn, es gibt). Ecco poiché noi pronunciamo: “dinamica” dell'essere. Ma dunque “dinamica” parla se non di contrari, di un'opposizione? No, non nel senso ovvio e abituale perlomeno. Ma a tal proposito, in vece dello Heidegger, avanzano alcune domande radicali. Sia codesta radicalità sia il domandare de le domande permangono validi nelle pagine che seguono. “L'essere è insieme ciò che è più vuoto e ciò che è più ricco...più comprensibile e che più si oppone a ogni concetto...più detto e più taciuto... L'essere ci si svela in una molteplicità di aspetti contrapposti... Ma tutte queste...sono davvero opposizioni nell'essenza dell'essere stesso? Non sono piuttosto opposizioni proprie del modo in cui noi ci rapportiamo all'essere, nel rappresentare e nel comprendere, nell'usare e nel fare-affidamento-su, nel ritenere (dimenticare) e nel dire?... Il rapporto -con l'essere- si mostra discorde. D'altronde è ancora aperta la questione se questa discordia...dipenda da noi o dall'essere stesso...oppure se...questo nostro rapporto con l'essere scaturisca dall'essere stesso... Una questione la cui soluzione decide cose importanti sull'essenza di questo rapporto. Ma ancora più angustiante:...il nostro rapporto con l'essere, guardando alla fattispecie, è mai un rapporto discorde..., in modo...che questa discordia domina completamente noi stessi, cioè il nostro rapporto con l'ente? Dobbiamo rispondere: no. Nel nostro rapporto noi stiamo sempre da un lato delle opposizioni... e anche a questo facciamo appena attenzione e

6Introduzione a: “Che cos'è metafisica?” (1949) in Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 99.

Ed. Adelphi, Milano 2001.

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quindi non lo sappiamo nemmeno in quanto opposto all'altro...l'essere rimane per noi qualcosa di indifferente -di obliato-... Stiamo fuori da quella discordia ancora inesperita del rapporto con l'essere”7. Chi “sta fuori” è l'oggi e la metafisica tutta, il dominante. Indi, ciò che ci costituisce; nonché le modalità di esistenza (in accezione comune) che per lo più ci caratterizzano. D'altronde in nostro rapporto con l'essere non può mai solamente dirsi in quanto semplice-rapporto. Il coglimento dell'esistenza avanzato dallo Heidegger e l'irruzione (teoretica, ma giammai solamente tale) dell'esserci come quel particolare ente che noi stessi sempre siamo e di cui ne va del proprio essere necessariamente escludono, o meglio essenzialmente già-mai includono, che si possa dire “sull'”essere e “dell'”essere in quanto semplice-rapportarsi o (una) relazione. Certo la relazione pare confacente alla prospettiva filosofico-speculativa, tant'è vero che la storiografia di tale prospettiva ne dà testimonianza. Ma non è codesta prospettiva a ri-chiamarci, bensì altro da essa. Ed ancora, come può una cosa opporsi a sé medesima in sé medesima? Come potrebbe il darsi dell'essere opporsi alla verità dell'essere che esso è? Certo questa è un'aporia ovunque si dica di un qualcosa. Ma in questo dire lo essere è colto come enticità. Codesto dire, nonché pensare, sorge dal percorrere le contrade dell'enticità, dell'abbandono dell'essere stesso. Ma è propriamente addentro un tale domandare che, all'unisono con lo Heidegger, può formularsi un parlare di “lo stesso” e de “l'essenziale permanenza dell'essere”, ma anche de “l'essere non è bensì si dà”, ed ancora “evento”, nonché sopravvenire la problematicità de la verità (cioè: come si dis-pone l'essenza della verità? Al di là dell'ovvio che la investe). Poiché un tale parlare ora può dire ciò che così viene alla parola (per chi nemmeno si è posto-in-cammino ivi sta: tautologia). Nel formularsi, come formularsi, ebbene, non vi è colui che formula, né colui che recepisce la formulazione, e poi ad esempio la comunica, vi è solo assonanza all'essere e cioè pensare. Altresì, costellazione de l'essere e l'ente che noi stessi sempre siamo, si esprimerebbe forse lo Heidegger. Permanere in un tale domandare e nell'assenza di “risposte”, o meglio responsi (ovvero esattezza, cioè definizioni rassicuranti, continue nuove sedimentazioni de l'ovvio), è la pratica del pensiero heideggeriano. Ed è la subitanea discrepanza che in essa avviene, discrepanza nel porsi a fonte della prassi speculativo-filosofica e alla sua storiografia, ove essa non è da-già-ridotta (riassorbita in) a queste. Nella atmosfera presente vogliamo in brevità, prima di proseguire, mettere in evidenza alcune “smagliature”, “smagliature” quindi rispetto a ciò che è stato (heideggerianamente) nello specifico parlato durante quest'ultimo paragrafo, da noi rinvenute nella significatività di certe parole oppure, forse, nella lettura-interpretativa de i Contributi nella quale codeste 7Martin Heidegger, Il nichilismo europeo, pag. 311-13. Ed. Adelphi, Milano 2003.

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medesime parole vengono a formularsi. In ogni caso, vorremo solo esporre un esempio, tra molti, di quanto “facilmente”, e addirittura ovviamente, il pensare dei Contributi possa essenzialmente fraintendersi. Leggiamo: “Heidegger chiama “macchinazione” la forma dominatrice in cui l'epoca presente si organizza al fine di ignorare la risonanza dell'“altro inizio”... La natura reattiva della macchinazione si tradisce a motivo dell'attenzione particolare che essa pone a fare di ogni residua problematicità, nella quale “risuonerebbe” la sua sconfitta, ...qualcosa di semplicemente “vissuto”... Chi grida sempre più forte -il rumoreggiare della macchinazione- per coprire la voce altrui -testualmente: la strategia di salvezza dell'essere- si rivela strutturalmente perdente”8. Potrebbe la “strategia di salvezza dell'essere”, diciamo, sostituire in toto la nostra “dinamica”? E, cosa di ben più fondamentale valenza, è tale “strategia” assonante al pensiero e ad un parlare heideggeriani, tenendo conto che di esso ci importa, il quale perlomeno tenta un dire la verità dell'essere, e cioè il darsi-velarsi dell'essere stesso? Sentiamo di non poter rispondere affermativamente a tali domande. Non tanto perché “strategia di salvezza” pare implicare una volontà, seppur generica, un imprecisato premeditare, ed uno stratega, nonché uno spazio-campo discernibile ove applicare tale strategia, ed altresì una finalità. Questo però potrebbe essere frutto del nostro “limite” ancora “metafisico” di intendere le parole in questione. Ma il nostro responso non è affermativo nemmeno solamente perché i vocaboli “si organizza al fine di...”, “natura reattiva”, “si tradisce”, “sconfitta”, “perdente”, nonché la medesima “strategia di salvezza” urtano, con il loro messaggio sempre emotivamente collocato e giammai neutrale, ed altresì con il loro perlomeno comune e diffuso significato, la nostra “heideggeriana sensibilità”, ammesso che ci si sia accompagnato sino a qui; o meglio: urtano quella nostra direzione di coglimento (tensione) ormai orientata nella vicinanza ai luoghi di quel lo stesso, fonte e foce di ogni darsi che è essere (Seyn). Ma, il rispondere è negativo, soprattutto poiché qui in questa citazione vi sta, a nostro vedere, un come già-ambientato nella contrarietà più che non in (come) quell'opposizione, in quella costellazione, sopra tramite lo Heidegger parlate. L'opposizione sorge in uno stesso orizzonte (abbracciante), la contrarietà assurge a sé (diviene in quanto tale) da differenti direzioni di prospettiva che, necessariamente, in qualcosa cozzano. Il darsi velante dis-velante dell'essere, la sua verità, non porta contrarietà alcuna. O, così, già-mai si direbbe in alcun modo de l'essere (...ma non si colga ivi una universalità in quanto predicato di un “l'essere” sì enticizzato, né una onnicomprensiva unicità, per di più magari numerica, a mo della corrente lettura filosofica de il Parmenide di Platone). Ad ogni modo, nel pensare dello Heidegger, cioè nel costitutivo suo esser 8Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag. 326-327. Ed. Morcelliana, Brescia.

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vertente all'essere, contrarietà (ad esempio una dualità principiale) non viene com-portata, già-mai. Ed in cotale maniera, ovvero permanendo nella medesima atmosfera, ci riallacciamo a dove, poc'anzi, abbiamo incominciato quest'ultima mirata digressione. Siamo infatti a trascrivere di seguito taluni passi che più chiaramente mostrano (mai però solo filosofico-speculativamente) appunto codesto “cogliere” (mai però solamente teoretico), anche detto pensare, vertente-rimirante la verità dell'essere ed il suo darsi. Non sforando dai limiti, sul piano tematico, della trascorsa digressione siamo a trascrivere proprio su la “macchinazione”, e sul suo fondamento, heideggerianamente dall'ottica del darsi dell'essere, indi vertendo a quell'orizzonte originario denominato: verità dell'essere. Tale vertere ivi avviene come pensare. “Ma a questa verità dell'essere, al rifiuto, appartiene il velamento del non ente come tale...la dissipazione dell'Essere. Adesso...deve restare l'abbandono dell'Essere. Lo scioglimento...: tutto è ora compreso nella pianificata governabilità e precisione di un decorso sicuro e di una dominazione “senza riserve”... Tutto questo deve diventare -trasfigurarsi e-venire-, in quanto malaessenza, più necessario di prima, perché ciò che più di tutto è strano ha bisogno anche di ciò che in questa forma è oltremodo corrente, e il fendersi dell'Essere non deve essere ricoperto... Il rifiuto è la somma nobiltà della donazione e il tratto fondamentale del velarsi, la cui evidenza costituisce l'essenza originaria della verità dell'Essere ”9. Leggendo codesto brano, ed altresì nella tensione (“fatica”) del seguirne il dire, si scorgono differenti parole aventi diverse significatività rispetto all'antecedente inciso testuale. A delucidarci su questa nostra affermazione, indipendentemente della finalità di assumerla o meno, basti la caratterizzazione de il rifiuto, precedentemente da noi perlomeno enucleato a tema sul piano speculativo, che compare subito all'avvio della citazione tratta dai Contributi. In un tale con-fronto, con ciò che noi denominiamo “dinamica” e che più d'ogni altra cosa inerisce al pensare (heideggeriano), si rendono percepibili quelle “smagliature”, nonché la loro portata, sopra attribuite al testo non dello Heidegger. Proseguendo approdiamo, infine, ad un altro brano, decisamente singolare, del medesimo pensatore. Esso di potrebbe malamente definire una sorta di “presa a cuore” della lettura, più in generale dell'approssimarsi, già-mai neutri, rispettivamente del e al proprio pensiero. Ivi si mostra anche il temperamento di ciò che abbiamo fin qui tentato di richiamare con pensare. In sincerità dubitiamo che vi sia una tale “presa a cuore”, almeno nel carattere sentimentale che ad essa inerisce comunemente. Ciò non di meno per certo la singolarità e particolarità del brano non va, per tal motivo, a diminuire. Si noti che “metafisica”, in senso epocale e 9Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 398. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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propriamente heideggeriano, resta, anche qui, in questione, ma mai in quanto La questione che è da pensare. Scrive Heidegger: “per intendere...il pensiero heideggeriano...è importante capire che quello che abbiamo definito come il non-pensare durato fino a oggi non è affatto un'omissione, ma va pensato come la conseguenza -ma ivi non si colga: causalità principiale- del velarsi dell'essere. Il velamento dell'essere, inteso come la sua privazione, appartiene alla radura dell'essere. La dimenticanza dell'essere - la quale costituisce l'essenza della metafisica e divenne l'impulso da cui scaturì Essere e tempo - appartiene all'essenza dell'Essere stesso. Per un pensiero che pensa all'essere -il cosiddetto pensare, in questo scritto- si pone così il compito di pensare l'essere in modo tale per cui la dimenticanza gli appartiene essenzialmente... Tale pensiero non è affatto un'eliminazione della dimenticanza dell'essere, bensì è un porsi e uno stare in essa. Il destarsi dalla dimenticanza dell'essere per rivolgersi a essa è dunque il ridestarsi nell'evento. Solo nel -cioè come- pensiero che pensa all'essere stesso, all'evento, è possibile esperire la dimenticanza dell'essere come tale”10. Automaticamente vien da dire che non si può biasimare coloro che hanno tacciato Heidegger di essere illogico o a-logico. Ma l'automatismo di ciò “che è logico”, rientrando a tutti gli effetti ne l'ovvio, già-da-sempre diviene estraneo ad un pensare rimirante e assonante la verità dell'essere come quello heideggeriano. Ci si consenta, prendendo spunto da un conciso confronto, un'ultima affermazione. Vorremmo infatti porci nettamente nei confronti del tanto utilizzato e bistrattato quanto frainteso vocabolo “metafisica”, e farlo principalmente nell'accezione di questo più diffusa. Ivi, nell'interezza del congenito non-mai-completato nostro percorso, non è in gioco: la metafisica (sia heideggerianamente che in senso proprio o ristretto), che è in quanto oltrepassamento e superamento, o comunque una non specificabile “miglioria”, della non-metafisica o pre-metafisica, la quale metafisica si diceva, a sua volta, viene sopraggiunta da uno sviluppo di sé stessa (un pensiero, “heideggeriano”, appunto denominato: assonante alla storia dell'essere), che un tale sopraggiungere sia senza soluzione di continuità o meno in questa sede non importa alcunché, e sì essendo la metafisica medesima lascia sé stessa alle proprie spalle, in quanto essa è ora solamente la base del successivo propagarsi di quel nuovo (dello sviluppo) adesso sopraggiunto o in tal maniera sopraggiungente. Tale è la prospettiva, a parer nostro, adottata da Von Herrmann, niente meno che il suo guardare e vedere. Tutto codesto auto-superamento, qui forse banalmente concentrato in poche righe, può esser concepibile, e non certo

10Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 53. Ed. Longanesi, Milano 2007. È curioso che proprio un

brano trascritto da tale conferenza sancisca la chiusura del nostro scritto su i Contributi.

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solo a livello teoretico, sia che venga percepito ed assunto in quanto storico (storicisticamente inteso), oppure in quanto intellettuale, o in quanto religioso (in accezione odierna) sia che esso abbia le maniere e le modalità della dialettica hegeliana piuttosto che quelle della progressione lineare-causale, o ancora finanche quelle occasionali-casuali. Bensì la sola “questione in ballo” è tra i cooriginari s-velatezza e velatezza dell'essere; e fra questa cooriginarietà: trasfigurazione. Di ciò che in codesto paragrafo è stato intrapreso, tentato, mostrato, rischiarato, frainteso, che è rimasto totalmente insignificante, o inconsiderato, abbiamo tentato di parlare ora, alla fine del nostro scritto. Il salto d'altronde non ha bisogno di alcuna pianificazione né di venire premeditato, così come non richiede nessuna dimostrazione né alcun genere di “base” o fondo su cui poterlo, o potersi, asserire. Il salto nemmeno “si aspetta al varco” o si richiede come lo si fa con un favore, non compete ad una fede speranzosa nel.. né ad una volontà di... Esso non semplicemente-è (enticità). Bensì, e tali per lo più saranno ininfluenti parole, ad-viene e, il che è lo stesso, ad-venendo lascia-sorgere. Meglio: esso semplicemente avviene trasfigurando. Trasfigurando.

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APPENDICE CONCLUSIVA: SU LA FILOSOFIA

Questo paragrafo, pur chiudendo il nostro scritto, non tratta di conclusioni su di esso basate. Non vi sono conclusioni teoretiche alle quali dobbiamo o vorremmo approdare, al di là di quelle già assunte e precedentemente riportate, tenendo conto poi che queste, essenzialmente, non le abbiamo parlate in quanto conclusioni. Per tal motivo codesto paragrafo è denominato Appendice. Inoltre, quest'ultima piccola parte del nostro scritto esula dal rimanente che l'ha preceduta. Ne esula certo in buona parte sul piano tematico-speculativo, e forse si distingue da esso anche nei toni. Questo nonostante i testi di riferimento permangano i Contributi ed altri, già incrociati, comunque coevi o successivi alla cosiddetta Kehre. Ad ogni modo, nonostante l'esularsi del presente paragrafo, parlando de “la filosofia” ci sembra di poter comprendere, almeno parzialmente, il significato del titolo pubblico ed ufficiale del testo a cui siamo posti di fronte. I Contributi, difatti, sono contributi apportati alla filosofia, se si asseconda la titolazione esclusa dalla parentesi. I risvolti “pragmatici” o “pratici”, ma per chi si è a noi fin qui accompagnato non vi è bisogno di tali classificazioni, di quel che si andrà a dire potranno divenire, in taluni, motivo di una certa sorpresa. Ci rallegreremo nel caso in cui riuscissimo a scuotere certuni, ormai assodati, confini, ma tutto sommato non è questo il nostro intento. Non è del tutto fuori luogo chiedersi, ivi: qual'è la filosofia dello Heidegger? Anzi possiamo affermare che partendo manifestamente da tale domanda essa ci dispone, almeno in parte, favorevolmente a quel che andiamo scrivendo. Prescindiamo qui da qualunque implicazione ontologica di questa domanda, ovverosia anche dell'uso e significatività delle parole che la compongono. D'altro canto sembra esserci qui un che di contraddittorio. Non possiamo infatti fare a meno di notare quante volte abbiamo precedentemente ripetuto che il pensiero dello Heidegger non è tanto caratterizzabile come pensiero filosofico (predicato del pensiero) quanto piuttosto è in quanto pensare. Perché dunque parlare ora di filosofia in accezione, di primo acchito, quasi dottrinaria o storicistica? Facciamo ciò, invece, poiché adesso desidereremmo rischiarare ulteriormente proprio taluni versanti di codesta demarcazione. Demarcazione, fondantesi in una discrepanza, sì tanto comparsa ed usata durante il nostro scritto. Sincronicamente si andrà parlando della filosofia e degli spazi occupati da questa, e indirettamente perfino, a grandissime linee, dei suoi mutamenti. Tutto ciò sarà dispiegato in maniera concisa e sempre puntando e vertendo verso la distanza spalancatasi tra “una filosofia” dello Heidegger e La filosofia. Perché mai ciò? Perché codesto è un sentiero che si può percorrere e che il

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pensatore di Meßkirch indica, non per vanità o per indottrinamento ma solo poiché, percorrendolo egli stesso, è necessitato a farlo. Chi si intende accostarsi autenticamente al pensare dello Heidegger deve necessariamente, a sua volta, porsi-in-cammino. Questo dis-porsi lo abbiamo, esplicitamente o meno, fino a qui ripetuto. Magari tutto quanto apparirà una provocazione, oppure un vano sostenere la altrità, cioè l'intrinseca discrepanza, di ciò che qui abbiamo parlato attraverso “pensare”, e quindi senza riuscire a raggiungere un definitorio concetto né di essa né di quest'ultimo. Nonostante ciò, o proprio in questo, il cardine dell'intero seguente discorso è nientemeno che: il pensiero e la filosofia. Ed in codesta atmosfera problematizzante il pensiero e la filosofia, viene pronunciata la frase: “gli equivoci da cui non cessa di essere circondata la filosofia sono provocati soprattutto dal comportamento di gente come noi, vale a dire dei professori di filosofia. Il loro compito solito, d'altronde giustificato e altresì utile, è quello di trasmettere una certa conoscenza, conforme alle esigenza di una media cultura, delle filosofie finora esistite. Si ricava così l'impressione che proprio questa sia la filosofia”1. La brevità di questo paragrafo non ci lascia margine di indugio, siamo convinti che il pensare non spetti più a La filosofia, né ad essa si confaccia. Parentesi: ivi ci leghiamo nuovamente a i Contributi ed al nostro scritto, ma già-mai meramente ai loro contenuti, bensì nel loro essenziale (verbalmente) come, perciò il sopraddetto esulare permane valido. A La filosofia più non compete quell'apertura dalla quale essa sorse sì cercando di mantenersi in vista di essa (l'apertura) e del suo stesso sorgere. “Ciò che per i meri discendenti resta oggetto di erudizione e di indagine storica e, alla fine, nient'altro che informazione scolastica, la storia del pensiero metafisico nelle sue “opere”, deve prima diventare storia in cui ciascuna cosa si raccoglie nella propria unicità ed emana, come un lampo di luce nel pensiero, una verità dell'Essere nello spazio incommensurato proprio di quest'ultimo. Poiché qui l'Essere stesso rende necessaria una grandezza dell'esserci speculativo”2. In questa atmosfera va forse collocato anche quel singolare interesse dello Heidegger per i pensatori aurorali ellenici? Può darsi, ma di ciò non ci occuperemo. Quello che invece possiamo affermare, viene inevitabile per noi marcarlo, è che anche qui, per quanto in forma implicita, vi sta a parlarsi un pensare trasfigurante. Quel “diventare” del brano citato ne è, al nostro ascoltare, avvisaglia. Il passo soprascritto parla di “pensatori da preparare”, ossia dice de i venturi, e sì dicendo rischiara il

1Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pag. 23. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990.

Introduttivamente all'argomento di codesta ultima parte del presente scritto, senza entrare nel merito del rinvio, rileviamo una soggiacente discrepanza tra “filosofare” e pensare fin dalle parole pronunciate in: Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pagg. 270-271, 273. Ed. il Melangolo, Genova 1999.

2Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 421. Ed. Adelphi, Milano 2007.

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loro luogo nonché il loro sagomarsi, ed inoltre rischiara cosa è da intendersi per decostruzione della passata metafisica. Non solo, quello che ora più ci compete è puntualizzare che, nel senso della citazione, si può far più luminoso quel riferimento dell'intrinseco pensare heideggeriano ad altro dal pensiero filosofico. In tal senso maggiormente esplicita, ed ancora vertente ai venturi pensatori dell'altro inizio, ci appare la seguente frase: il “compito della posizione del fondamento (Grund-legung) della domanda sull'Essere...non resta certo limitato alla filosofia”3. Poco dopo si può leggere una nitida presa di distanza dagli eruditi in filosofia e dai giornalisti. Irrilevante? Potrebbe. Ma proseguiamo lasciandoci questa eventualità alle spalle. Si calibrino bene, si soppesino, anche solamente in un possibile avvicinarsi semplicemente-contenutistico alla “filosofia” heideggeriana, i successivi estratti, e si faccia caso all'avvisaglia di una possibile discrepanza con “l'idea” e la “pratica” (perlomeno odierna) de La filosofia. “Che si mostri interesse per la filosofia non significa affatto che vi sia già una attiva disposizione a pensare. Anche il fatto che ci dedichiamo per anni a penetrare i trattati e gli scritti dei grandi pensatori non è ancora una garanzia che pensiamo o che siamo almeno preparati a imparare a pensare. L'occuparci di filosofia può anzi ingannarci nel modo più tenace, dandoci l'illusione di pensare, perché, in fin dei conti, “filosofiamo””4. Il pensare già-sempre rimira all'originarietà che lo fa avvenire, ossia esso pone “espressamente il problema del campo di ascolto e dell'orizzonte -coglimento de: verità dell'essere- propri del pensiero delle origini”5. L'originarietà e la tensione che il pensare heideggeriano esplica verso cotale problematizzazione già-mai “può però esaurirsi in una indagine storiografica che si limiti a stabilire quali presupposti impliciti stiano alla base del pensiero delle origini, usando -peraltro- come criterio ciò che l'interpretazione successiva ha riconosciuto come verità stabilita e ciò che invece non è più riconosciuto tale, in quanto superato nel processo di sviluppo”. Pensare assume così, intimamente, la tonalità dell'ascolto del cominciamento verso la costitutiva inizialità di quest'ultimo. Ciò (pensare), nell'oggi cioè addentro il dominante, com-porta una problematizzazione più che radicale tanto dell'ovvio (la verità, l'essere) quanto del non intravisto e sempre-già obliato (verità dell'essere come radura del velarsi, abbandono dell'essere). Il pensare è domandante, avviene interrogante-meditativo, può apparire (venire alla s-velatezza) come “condizione”6, già-mai si configura in quanto un generico far filosofia, filosofare, oppure esercitare la filosofia, sapere di filosofia, possedere cognizioni, altresì esso nemmeno è concettualizzare e teorizzare la realtà, porre attenzione e 3Ivi. pag. 285. 4Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 87. Ed. Mursia, Milano 1976. 5Ivi. pag. 163. 6Rimando esplicitamente a: Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pag. 33, secondo capoverso.

Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990.

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riflettere sulle cose, né solamente un “non dare per scontato nulla” o “vedere una doppia faccia in qualunque cosa”, né infine tutto ciò messo insieme in quanto: puro atto del pensare. Il pensare heideggeriano non è rivoluzionario, perché non si “limita” a ri-voluzionare quel che è il fondamento nonché l'esplicarsi del dominante, bensì è altro poiché verte all'originarietà, ossia nella tensione del trasfigurare quel fondamento (indi per cui trasfigurare cotale dominante, e le sue ramificazioni, innanzitutto mettendolo a nudo) “in” quel non-detto orizzonte originario, da lungo per lo più obliato, che fa essere in quanto tale (fondamento) quel medesimo dominante fondare. Ai nostri occhi (di studenti de La filosofia) la primaria e superficiale (che sta in superficie), e perciò avvicinabile, possibilità di prorompenza insita nel pensiero heideggeriano non si trova nelle lungimiranti implicazioni ri-pensanti la nostra cosiddetta realtà (ad esempio: sfruttamento di “ogni” come fondo, tecnica, enticità e mondo) che esso necessariamente porta in sé7, bensì riposa in codesto essenziale (verbalmente) suo pensare in quanto discrepante da La filosofia. E cioè discrepante fondamentalmente dal come delle articolazioni del dominante (in e di cui La filosofia partecipa pienamente). Di ciò che or ora siamo a tentare il dire si ha testimonianza, ma più in profondità rispetto a quella sopraddetta superficialità, in ogni radicale indeterminatezza e non definitorietà (l'essere è il nulla), di esso ne parla ogni ri-pensamento dell'ovvietà (l'essere della verità; pre-determinatezza della logica)8. Ed in codesti indeterminatezza e ri-pensamento, come essi, più che essi, indicano di ciò che or ora siamo a tentare il dire quegli “stati di sospensione” a cui, “nel”( ovvero: come) pensare heideggeriano, si può giungere poiché essi giungono, ossia possono avvenire, seguendone le traccie del sentiero percorso, negli stessi luoghi di quel percorrere, sì pervenendo (si tenga nota: il soggetto della presente frase rimbalza ed è “appositamente” lasciato non-collocabile). La prima, e qui anche avente carattere iniziale, necessarietà che comunque sorge (diviene, e-viene, si dà) addentro una tensione al pensare avviene ove si cessi o mai-si-inizi di propriamente studiare, appassionatamente o meno, il pensiero. Cotale cessare o mai-iniziare non è in nessun caso però una volontà, ossia già-mai si dà come potere di volere, o l'inverso. Nei luoghi del percorrere l'ad-venire del pensare, che sì perviene dischiudendosi, non si ha né si dà nessun soggetto né alcun oggetto9. E così durante il 1935, ben prima del ritiro nella Foresta nera, forse alle 7Cfr. ad esempio: ivi. pag. 48, secondo e terzo capoverso. 8Per un manifesto rimando testuale, “la logica...considerata come piovuta dal cielo”: ivi. pag. 36. 9Per rischiarare, ove ve ne fosse il motivo, le ultime frasi rimandiamo a: Martin Heidegger, Saggi e

discorsi, pag. 87, l'intero terzo capoverso. Ed. Mursia, Milano 1976.

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soglie della Kehre, forse nell'anticamera di questa, quel pensatore proveniente da Meßkirch poté, probabilmente inascoltato essenzialmente, dire: “ci poniamo al di là di ciò che è all'ordine del giorno. Il nostro interrogare si spinge al di là dell'usuale e di ciò che rientra nell'ordine del quotidiano... Domandare -il nostro- che è al di fuori dell'ordine. Esso è interamente libero e volontario, pienamente ed espressamente fondato su di una segreta base di libertà, su ciò che abbiamo denominato il salto”10. Come in una vallata, queste ultime righe echeggiano di un domandare interrogante postosi, ben oltre ad ogni ovvietà o evanescenza ed a ogni contraddizione, nelle parole: “Perché vi è, in generale, l'essente e non il nulla?”11.

10Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pag. 24. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990. 11Ibidem.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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Adriano Fabris, Essere e tempo di Heidegger. Ed. Carrocci, Urbino 2004.

Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger. Ed. Marietti, Genova 1989.

Emanuele Severino, Heidegger e la metafisica, pagg. 324-325. Ed. Adelphi, Milano

1994.

F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger. Ed. Urbaniana University

Press, Roma 2004.

Günter Figal, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà. Ed. il Melangolo,

Genova 2007.

Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger. Ed. Morcelliana, Brescia.

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TESTI NON ESPLICITI DI PERSONALE RIFERIMENTO TEORETICO

Emanuele Severino, Essenza del nichilismo. Ed. Adelphi, Milano 1982.

Friedrich Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita. Ed. Adelphi, Milano

2007.

TESTI SECONDARIAMENTE CITATI

Ernst Cassirer, Il mito dello stato. Ed. Longanesi, Milano, 1996.

Karl Löwith, Il nichilismo europeo. Editori Laterza, Bari 1999.