Tesina di Luca Pantano

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1 Liceo Scientifico Vittorio Sereni Luino indirizzo scientifico tecnologico "brocca" tesina maturità esame di stato 2011/2012 IL REGNO DI VITTORIO EMANUELE III ATTRAVERSO LA NUMISMATICA (1900-1945) a cura di LUCA PANTANO

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Tesina sulla Numismatica

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Liceo Scientifico Vittorio Sereni Luino indirizzo scientifico tecnologico "brocca"

tesina maturità esame di stato 2011/2012

IL REGNO DI VITTORIO EMANUELE III ATTRAVERSO

LA NUMISMATICA (1900-1945)

a cura

di LUCA PANTANO

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Indice :

1. Introduzione

- Introduzione generale alla numismatica e allo scopo della tesina

- Dalla lira all'euro

2. Biografia di Vittorio Emanuele III

- La nascita, l'educazione e il rapporto con Egidio Osio

- Periodo Napoletano, viaggi all'estero e incontro con la moglie

- L'assassinio del padre e l'incoronazione a Re d'Italia

- Prime azioni da re, Libia

- 1° Guerra Mondiale

-Dopoguerra, politica interna, Etiopia e Albania

- 2° Guerra Mondiale

- Ultimi anni

3. Vittorio Emanuele III come numismatico

- Periodo 1901-1918 - 20 centesimi esagono (1918-20) - Periodo I Dopoguerra - Il fascio littorio - Impero

- Colonie

Tallero d'italia

Tallero di maria teresa

l'Italia nella monetazione albanese dal 1914 al 1943

La monetazione della somalia italiana

A.F.I.S (amministrazione fiduciaria italiana somala)

- La monetazione della Repubblica Sociale Italiana (1943-1945)

4. Italiano: Pascoli in "la grande proletaria si è mossa"

5. Fisica: Il magnetismo

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Introduzione tesina

Con questa tesina vorrei cercare di affiancare alla storia le mie conoscenze in numismatica. È bene

ricordare che con il termine numismatica si intende lo studio di una moneta sotto l‘aspetto

economico, storico, geografico, ed artistico. Ed ecco allora entrare in gioco la mia esperienza

personale: io sono un grande appassionato di numismatica, in tale disciplina ho trovato un mondo

ricco di storia ed avvenimenti appassionanti che mi hanno spinto ad avviare una collezione di

monete in continua evoluzione. Riflettendo, le monete hanno impresso diverse epoche storiche e i

simboli delle più svariate civiltà. Mi sono domandato, inoltre, se una moneta potesse essere

paragonata ad un libro di storia prettamente illustrativo attraverso il quale con la sola osservazione

delle immagini si potesse capire il contesto in cui ci si trovava.

I più grandi imperatori, i re, i comandanti, i condottieri e qualsiasi altra persona degna di gloria è

stata rappresentata sulle monete del tempo. Questo oggetto immortale, la moneta intesa come

denaro vero e proprio, è passato tra le mani di infinite genti, dai contadini più analfabeti che vi

riconoscevano l'emblema del proprio governante, ai commercianti che lo usavano come mezzo per

compiere i propri acquisti, ai grandi potenti della storia che lo intendevano come simbolo di potere.

Negli ultimi anni ho coltivato maggiormente questa mia passione, credendo nel valore non solo

materiale delle monete. Difatti, è inevitabile che nasca il desiderio di collezionare monete,

studiandole. E così, scoprendo con mio grande piacere ed ammirazione che Re Vittorio Emanuele

III fu un grande numismatico (ricercatore, collezionista, redattore) ho pensato di coniugare l'aspetto

storico con l'aspetto numismatico in una documentazione che tratti gli avvenimenti più significativi

dell'età di Vittorio Emanuele III fino all'epoca contemporanea, passando per le due guerre mondiali,

le colonie e il periodo fascista.

Ora vorrei illustrare per tappe il percorso della mia collezione e dei diversi tipi di monete dei quali

mi sono interessato e mi interesso. Tutto iniziò quando cominciai ad appassionarmi alle lire, ovvero

alla moneta presente alla mia nascita. Le rappresentazioni grafiche di queste monete furono

richieste da Re Umberto II e raffiguravano per la precisione un arancio, una spiga, dell'uva e un

ramo d'olivo ed esse erano tutte accompagnate dalla scritta 'Italia'.

Nonostante ciò non vennero mai messe in circolazione poiché dopo il breve regno del sovrano (9

maggio 1946-18 giugno 1946) gli italiani optarono per la Repubblica e il re dovette recarsi in esilio

a Caracas in Portogallo. Le prime monete della Repubblica coniate a partire dal 1946 furono

analoghe a quelle pensate da Umberto II ma al posto della scritta 'Italia' vi si trovava 'Repubblica

Italiana'.

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Queste monete permasero sino al 1950, anno in cui vennero cambiate nei simboli che tutti noi oggi

ricordiamo, ovvero l'olivo, il delfino, la spiga e la cornucopia.

Nel 1954 comparvero i primi esemplari di 50 lire con il dio Vulcano rappresentato sul dritto della

moneta; l'anno seguente furono coniate le 100 lire che rappresentavano Minerva. Dall'anno 1957

furono emesse le 20 lire raffiguranti un ramo di quercia. Nel 1977 arrivò la moneta da 200 lire

denominata 'Lavoro' e cinque anni dopo fu il turno del 500 lire. Infine, nel 1997, furono coniate le

1000 lire 'Italia Turrita'.

Esse però non furono i primi esemplari realizzati poiché già nel 1970 fu coniata una moneta in

argento da 1000 lire per celebrare i 100 anni di Roma capitale; quest'ultima non fu tuttavia la prima

moneta d'argento emessa: infatti dal 1958 fu coniato il 500 lire 'Caravelle'. Tra le altre monete in

argento emesse e degne di nota vanno sicuramente ricordate quella dedicata al centenario dell'unità

d'Italia, coniata nel 1961, e quella che celebrava i 700 anni dalla nascita di Dante Alighieri, emessa

nel 1965.

E' bene citare una tipologia di monete che spesso non è conosciuta, ma che per gli appassionati

rappresenta qualcosa di importante e raro. Si tratta delle monete commemorative. Esse vengono

emesse una volta all'anno e testimoniano personaggi celebri o anniversari di eventi storici.

Con l’introduzione dell’euro in Italia, anno 2002, il mondo numismatico si arricchì. Infatti la nuova

moneta rappresentò qualcosa di rivoluzionario da un certo punto di vista, poiché quasi tutti i paesi

d’Europa col passare degli anni aderirono all’ingresso dell’euro come moneta nazionale. Io stesso

provo interesse nel collezionare questi esemplari poiché sono dotati di particolare fascino e,

ritornando al tema delle monete commemorative, con l’arrivo dell’euro sono state emesse molte più

monete celebrative e il loro valore col passare degli anni sta diventando sempre maggiore.

Esistono vari tipi di monete commemorative: vi sono quelle che riguardano eventi caratteristici di

un unico Paese e quelle che riguardano ricorrenze comuni a tutti gli Stati aderenti all'euro e perciò

vengono coniate delle monete analoghe in tutti i paesi coinvolti ed esse hanno lo scopo di

commemorare importanti ricorrenze europee. Ad esempio nel 2007 è stata emessa una serie di

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monete commemorative per celebrare i 50 anni dei Trattati di Roma. Con scopo analogo furono

coniate altre due serie di monete, una nel 2009 e l'altra proprio nel corso di quest'anno 2012, per

ricordare il 10° anniversario dell'unione economico-monetaria europea (sebbene già nel 1999

fossero stati coniati i primi euro in Belgio, Francia e Spagna) e per festeggiare il 10° anno

dall'entrata in vigore dell'euro.

Biografia di Vittorio Emanuele III

-Nascita, educazione e rapporto con Egidio Osio

Il terzo Re d'Italia Vittorio Emanuele III di Savoia nasce a Napoli il giorno

11 novembre 1869. Figlio unico di Umberto I di Savoia e di Margherita di

Savoia, visse sin dall'infanzia in un ambiente rigoroso dovendosi abituare

alla lontananza dei genitori, chiaramente occupati

dai tanti impegni politici e sociali.

Fin da giovane fu abituato alla disciplina militare

grazie al generale Egidio Osio, incaricato dal 9

maggio 1881 di occuparsi della formazione del

principe. Egli non solo gli insegnò il rigore e

l'austerità, ma cercò anche di impartirgli una

preparazione opportuna dal punto di vista culturale.

Tra le varie discipline studiate vi erano l'arte, la letteratura, la geografia, la

storia e le lingue straniere. Inoltre tutto ciò era accompagnato da molte visite

ai luoghi di maggiore interesse culturale come le biblioteche e da frequenti

viaggi all'estero. Difatti la formazione di un futuro Re d'Italia doveva necessariamente essere in

gran parte dedicata alla cultura, virtù fondamentale della storia del paese. Nel 1889 il principe

raggiunse la maggiore età e così il suo percorso educativo terminò, ma non fu così per quanto

riguarda il rapporto personale tra Vittorio Emanuele ed il generale Osio. Essi

mantennero una fitta corrispondenza e dai diari di entrambi si può percepire la

stima e l'affetto che intercorreva tra i due.

Per di più Osio fu colui che introdusse Vittorio Emanuele III nel mondo della

numismatica, passione che il principe seguirà per tutta la vita, comunicando al

suo precettore le sue nuove scoperte o facendogli recapitare dei doni che, il più

delle volte, consistevano in monete. Le reazioni di Osio verso la passione del

principe furono spesso distaccate, forse perché il generale credeva che la

numismatica avrebbe potuto distrarre il futuro re dai suoi compiti o più

semplicemente perché provava un implicito senso di gelosia verso la spiccata

abilità del principe in tale campo.

Per arricchire le proprie conoscenze o più semplicemente per diletto

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ed interesse personale, Vittorio Emanuele compì diversi viaggi verso l'est, come ad esempio in

Russia al termine degli di studi. Tornato in Italia, l'11

Novembre 1890 Vittorio Emanuele ottenne, con il compimento

della maggiore età, una promozione militare e un nuovo

incarico: gli venne affidato un reggimento di fanteria a Napoli

e fu nominato colonnello. Il principe si occupò del suo

reggimento in modo rigoroso e professionale e sicuramente il

periodo della sua vita trascorso a Napoli fu uno dei più felici e

sereni in quanto considerava quella città un luogo molto piacevole

dove concedersi anche dei momenti di tranquillità nel tempo libero.

Inoltre vi era il mare, grande passione del futuro Re d'Italia che, nel

corso della sua vita, acquistò anche diverse imbarcazioni con le

quali compì molti viaggi sia nel Mediterraneo che nel Mare del

Nord.

Il periodo Napoletano terminò nel 1894 quando egli dovette

spostarsi a Firenze per motivi militari; Vittorio Emanuele non amò

tale città, definendola una città umida, grigia e soprattutto lontana dall'amato mare. Nel 1896 il

principe ricevette un incarico di rappresentanza da parte del padre in occasione dell'incoronazione

dello zar Nicola II, che si sarebbe svolta il 26 maggio a Mosca. Egli rimase in Russia fino all'8

giugno ed ebbe l'occasione di conoscere Elena di Montenegro, o meglio, di notarla in modo

particolare poiché sicuramente i due avevano già avuto parecchie occasioni nelle quali conoscersi.

Presumibilmente l'incontro decisivo tra i due fu 'controllato' dalla Regina

Margherita e dal ministro Crispi, i quali avrebbero già preso degli

accordi ben specifici con il re del Montenegro. Nonostante ciò l'amore

tra i due fu sentito e sincero: il 18 Agosto 1896 avvenne il fidanzamento

e il 24 Ottobre dello stesso anno i due si sposarono ed andarono a vivere

a Firenze. Essi ebbero cinque

figli: Jolanda (1901), Mafalda

(1902), Umberto (1904) futuro

erede al trono, Giovanna (1907)

e Maria Francesca (1914).

Un evento alquanto inaspettato

sconvolse la vita del principe: il 29 luglio 1900 il padre

Umberto I venne assassinato da parte di un anarchico a

Monza.

La notizia della morte del sovrano giunse a Vittorio Emanuele qualche giorno dopo, il 31 luglio,

poiché si trovava in crociera nel Mediterraneo. I funerali del padre vennero celebrati il l'8 agosto a

Monza e il giorno seguente a Roma.

Il giuramento avvenne l'11 agosto e così divenne Re d'Italia. L'ipotesi di un‘imminente ascesa al

trono era ancora remota (il padre aveva solo 56 anni)

perciò Vittorio Emanuele si trovò catapultato in una

realtà alla quale dovette presto abituarsi. Egli riuscì a

gestire il suo

primo periodo da

sovrano in modo

abile e risoluto,

sebbene le voci

riguardanti la non

volontà da parte

di Vittorio Emanuele di salire al trono furono numerose.

Vittorio Emanuele III si dedicò in modo incisivo alla politica

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estera e militare. Egli cercò di effettuare un riavvicinamento con le potenze escluse dalla Triplice

Alleanza, in particolare con Russia e Franci, mantenne inoltre dei buoni rapporti con l'Inghilterra.

Per quanto riguarda la politica interna il re volle attuare un miglioramento delle condizioni di vita

della popolazione cercando di ottenere una maggiore stabilità economica ed un'esauriente diffusione

dell'insegnamento. Egli fu spesso dipinto come un re socialista proprio per questa sua propensione

ad aiutare le classi più deboli. Un esempio su tutti fu la fondazione dell'Istituto per l'Agricoltura

(trasformatosi a seguito della 2° guerra mondiale nella FAO) voluto fortemente da Vittorio

Emanuele e da lui principalmente finanziato. I rapporti tra il sovrano e la Chiesa furono difficili.

La prima azione militare del regno di Vittorio Emanuele III

avvenne il 29 settembre 1911 con lo sbarco in Libia. Sebbene

gli obiettivi di conquista fossero di spessore, l'impresa non fu

così vincente. Infatti, nonostante la Libia fosse annessa all'Italia,

essa riuscì a conservare negli anni molta libertà ed autonomia a

causa della debole occupazione territoriale messa in atto dalle

forze italiane.

Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il 28 luglio 1914,

il re decise che l'Italia avrebbe mantenuto una posizione

neutrale poiché egli provava una forte ostilità verso l'Austria, che possedeva ancora le terre di

Trento e Trieste. La decisione del re venne condivisa dalla maggior

parte del parlamento, compreso il presidente del consiglio Giovanni

Giolitti. Purtroppo la neutralità italiana non durò a lungo in quanto

Salandra e Sonnino intrapresero delle

trattative con i due schieramenti per

stabilire quale dei due offrisse le

garanzie e le ricompense migliori. Così il

26 aprile del 1915 essi sottoscrissero il

patto di Londra, che vedeva l'Italia

contrapposta all'Impero Austro-Ungarico e alla Germania.

Vittorio Emanuele III si guadagnò l'appellativo di “Re soldato” poiché

la sua presenza al fronte fu assidua e fissa. Egli dimostrò inoltre grande

interesse e preoccupazione per le condizioni dei soldati durante le

battaglie ed era solito far loro spesso visita.

Dopo la celebre 'disfatta di Caporetto', il sovrano decise di destituire Cadorna e nominare al suo

posto Armando Diaz.

Con la vittoria, l'Italia conquistò il territorio di Trento e del Friuli

Venezia Giulia. La città di Trieste, però, rimase esclusa e fu flagellata

da un duro periodo di crisi economica e politica che portò a diversi

disordini sociali che fecero temere lo scoppio di una rivoluzione come

quella scoppiata poco tempo prima in Russia. Tutte queste agitazioni

portarono vantaggio all'ascesa del movimento dei Fasci di

Combattimento, guidato da Benito Mussolini, un socialista nel periodo

precedente alla guerra. Gli scopi di questo movimento si rivelarono

subito chiari: arrivare al potere sovvertendo l'ordine democratico.

Dall'ottobre del 1922 cominciarono i primi movimenti squadristi

di occupazione che, partiti dall'Italia settentrionale, si diffusero

rapidamente in tutto il paese fino ad arrivare alla capitale, con

l'obbiettivo di realizzare un ambizioso progetto, la 'marcia su

Roma'.

Vittorio Emanuele dovette decidere sul da farsi; egli si rifiutò di

sottoscrivere l'atto che rappresentava il ricorso allo Stato

d'assedio presentatogli dal primo ministro Facta, temendo lo

scatenarsi di una guerra civile. Facta allora si dimise e si formò

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un nuovo governo presieduto da Mussolini. L'atteggiamento del sovrano di fronte a tutto ciò rimane

tuttora alquanto indecifrabile; si presume che i fascisti in marcia su Roma fossero appena un

migliaio, mentre le forze armate erano poco meno di trentamila. Con una tale

mole di forze non sarebbe stato per nulla difficile bloccare l'avanzata dei

fascisti. Purtroppo vi furono molti fattori che fermarono qualsiasi intervento e

sicuramente le incertezze dei vertici militari e la debolezza della classe

dirigente furono tra i più decisivi. Se la monarchia avesse attuato un

opposizione più energica ed efficace, molto probabilmente il fascismo non

avrebbe visto l‘ascesa al potere. Inizialmente, con il nuovo governo non si

avvertirono differenze consistenti dal punto di vista liberale, ma con il passare

del tempo la situazione si rivelò ben differente e il fascismo si rivelò un vero e

proprio regime totalitario determinato a cancellare qualsiasi traccia di vita

democratica. Nel giugno del 1924 vi fu l'assassinio del socialista Matteotti, chiara manifestazione

del cambiamento in atto, evento nel quale il coinvolgimento di Benito Mussolini fu subito palese.

Sebbene al re furono fornite tutte le prove necessarie per incriminare il leader dei fascisti, egli, per

l'ennesima volta non intervenne, nonostante capo delle forze armate.

Il rapporto tra fascismo e monarchia fu in ogni caso molto contrastato a causa delle diverse

innovazioni che Mussolini apportò al regime istituzionale e ai costumi della popolazione. Il motivo

di discordanza più significativo, però, fu sicuramente quello che si

verificò più tardi con l‘introduzione delle leggi razziali che il

fascismo introdusse in Italia dopo le Leggi di

Norimberga emanate in Germania. Anche se la

monarchia rimaneva ancora il principale punto

di riferimento per i vertici militari e la

borghesia conservatrice, la diffusione del

fascismo nella società continuava a rafforzarsi.

Il 9 maggio del 1936. dopo la presa della capitale etiope Addis Abeba, Vittorio

Emanuele ricevette il titolo di Imperatore.

Le conquiste coloniali italiane non si

fermarono allo stato africano, infatti nel 1939 si procedette alla

conquista dell'Albania. Nonostante il

diffuso scetticismo sull'impresa,

Vittorio Emanuele aggiunse ai suoi

titoli quello di re d'Albania.Nello

stesso anno accadde uno degli eventi

più drammatici della storia europea: il 1 settembre 1939, Hitler invase

la vicina Polonia e diede inizio al secondo conflitto mondiale.

All'inizio l'Italia si proclamò neutrale ma l'anno seguente Mussolini,

certo che la guerra sarebbe durata semplicemente pochi mesi e

l'Italia avrebbe avuto facili

conquiste territoriali, decise di

entrare in guerra al fianco della

Germania contro Francia e

Inghilterra.

Vittorio Emanuele si dimostrò

sempre contrario all'entrare in

guerra dal momento che

riconosceva l'impreparazione dell'esercito italiano ed in quanto era

contrario alla politica nazista. Pochi mesi prima dell'entrata in guerra, il sovrano tentò di rovesciare

il regime di Mussolini, ma non ebbe successo. Il piano consisteva nell'ottenere un voto di sfiducia

da parte del Gran Consiglio del fascismo, e quindi di formare un nuovo governo. Il re era molto

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preoccupato per le sorti del proprio Paese in guerra, soprattutto perchè temeva che l'Italia si

inchinasse al volere dei nazisti. Il 25 luglio 1943 il re riuscì finalmente a dimissionare Mussolini,

dopo che il Gran Consiglio del fascismo ebbe deciso di togliere il proprio supporto al duce.

Venne quindi formato un nuovo governo presieduto dal generale Badoglio, che ebbe il gravoso

compito di stringere un patto con gli Alleati, per poi continuare la guerra contro la Germania, che si

sarebbe ritrovata isolata. Questo cambiamento di fronte fu criticato ed osteggiato da molti politici,

ma la volontà di Badoglio e del re prevalsero. L'armistizio con

gli Alleati venne reso noto l'8 settembre 1943: nello stesso

giorno Vittorio Emanuele si diresse verso la città di Brindisi,

dove si trasferì anche il governo, come segno di garanzia e

continuità per gli Alleati. Qui il re, dopo aver ricevuto conferma

del sostegno alleato, dichiarò ufficialmente guerra alla

Germania.

Nel giugno del 1944

Vittorio Emanuele decise di affidare la luogotenenza del

regno al figlio Umberto II, senza però abdicare. Terminata la

guerra con la resa della Germania, in Italia si aprirono le

consultazioni per il rinnovamento dello Stato. Con il

referendum del 2 giugno ormai alle porte, il re decise di

abdicare a favore del figlio, nella speranza di risollevare le

sorti della monarchia. Nonostante ciò il referendum si chiuse

con la vittoria della repubblica, e Vittorio Emanuele dovette partire in esilio verso Alessandria

d'Egitto, dove morì il 28 dicembre 1947.

Prima di partire per l'esilio il re scrisse all'allora presidente del consiglio Alcide De Gasperi:'Signor

presidente, lascio al popolo italiano la collezione di monete che è stata la più grande passione della

mia vita'.

PERIODO 1901-18

1,2,5 lire:Salito al trono, Vittorio Emanuele III decise di realizzare dei

nuovi conii, dando loro un’impronta più

moderna. Per realizzare questo compito fu fatto

chiamare al Quirinale lo scultore Filippo

Speranza, incisore capo della Regia Zecca

d’Italia. Le caratteristiche delle nuove monte,

secondo il Re, dovevano essere improntate ad

uno spirito più moderno ed innovativo. Di

contro l’incisore, che era il continuatore di una generazione di artisti legata

alle espressioni tradizionali, propose di continuare in un primo tempo

secondo le vecchie usanze e di analizzare in seguito i cambiamenti. Le

discussioni tra il giovane sovrano e lo scultore

tradizionalista continuarono fino ai primi giorni

del 1901, quando si giunse ad un ragionevole

accordo tra le due parti. Lo Speranza portò a

compimento il progetto con lo scudo 1901 con

l’aquila sabauda sul retro. Questa moneta fu la prima recante l’effigie di

Vittorio Emanuele III. Il decreto sulla Gazzetta Ufficiale del Regno

riportava la descrizione delle caratteristiche principali della moneta,

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senza alcun cenno sulla sua emissione e il suo importo totale. Il perché di tutto ciò venne spiegato

nove anni dopo: non furono riportati i dati riguardanti l’emissione poiché non era ancora stata

stabilita la sua regolarità, essendo in corso le trattative per uniformarla agli obblighi derivanti dalla

Convenzione Monetaria Internazionale. Perciò di questo scudo si coniarono solamente alcuni pezzi

poiché non si poté fare una coniazione regolare. Mentre la Zecca continuava a coniare qualche

esemplare a scopo sperimentale, dal Ministero delle Finanze arrivò l’ordine definitivo di sospendere

la coniazione. Ma quanti pezzi furono battuti allora? Ce lo dice il Carbonieri nella sua opera “La

circolazione monetaria nei diversi Stati”: centoquattordici pezzi. Tali esemplari non dovevano

considerarsi vere e proprie monete dato che la Zecca non era stata autorizzata legalmente

all’emissione. La Zecca, in accordo col Ministero competente, autorizzò la vendita a privati di quel

poco che era stato coniato. Si venne a sapere che non pochi furono invitati all’acquisto; pochissimi

gli italiani, per la maggior parte francesi e tedeschi. Il prezzo fu di L.50, che nelle contrattazioni

private poteva addirittura arrivare a quadruplicare. Così la moneta si qualificò tra le più rare:

rarissima. Essa continuò ad avere sempre un prezzo molto alto e, poiché i collezionisti si dedicano

sempre di più alle monete decimali, esso acquisterà ancora quota.

25 centesimi:Nel 1902, per sostituire i poco eleganti pezzi da 20 cent in

nichelio coniati durante il regno di Umberto I,

lo stato emise dei pezzi da 25 centesimi

raffiguranti da un lato l’aquila sabauda,

dall’altro la leggenda “Centesimi 25” in una

corona d’alloro. Essi, tuttavia, furono presto

ritirati dalla circolazione poiché, a causa della

loro grandezza e dell’aquila impressavi,

potevano essere facilmente confusi con la lira d’argento coniata a partire

dal 1901.

Le monete da 1 e 2 cent. coniate tra il 1901 e il 1908 erano, a detta del

Re, prive di significato artistico in quanto

erano le stesse usate sia da Vittorio

Emanuele II che da Umberto I. A causa di

ciò nel 1905 venne nominata una

commissione tecnico-artistico monetaria la

quale bandì un concorso per la creazione di

nuove monete da sostituire a quelle in circolazione. Lo scopo del

concorso tuttavia fallì, in quanto i ventitré concorrenti non furono in

grado di soddisfare le richieste della commissione. Di conseguenza

quest'ultima scelse direttamente quattro artisti che dovettero realizzare

una moneta ciascuno. Fu effettuato un sorteggio per assegnare ad

ognuno degli artisti un materiale specifico col quale realizzare la propria

moneta: i materiali disponibili erano l'oro, l'argento, il rame ed il

nichelio. Le monete dovevano rispettare delle precise norme; quelle realizzare in oro, argento e

rame dovevano contenere l'effigie del Re in profilo e la legenda "VITTORIO EMANUELE III RE

D'ITALIA" sul dritto, mentre sul rovescio doveva campeggiare una personificazione dell'Italia,

l'indicazione del valore e l'anno di coniazione. Le monete in nichelio, invece, avrebbero dovuto

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portare al dritto la testa dell'Italia, la leggenda "ITALIA" e l'anno di coniazione, mentre al rovescio

un partito ornamentale, nel quale doveva essere compreso lo scudo sabaudo e il valore monetale. I

progetti per la realizzazione delle quattro monete furono accettati il 13 dicembre 1906.

Argento: per sorteggio fu affidata a Calandra. Egli chiamò la sua serie

"Quadriga Veloce" e coniò monete da 1 e 2 lire portanti al dritto il busto

del Re volto verso destra con la leggenda

"VITTORIO EMANUELE III RE D'ITALIA";

al rovescio vi era l'Italia col ramo di ulivo e lo

scudo, la quadriga era posta verso sinistra e vi

era l'indicazione dell'anno di coniazione e del

valore. La moneta fu accolta positivamente ma

in molti pensavano che, con l'applicazione di alcune migliorie, essa

avrebbe potuto raggiungere il consenso assoluto da parte dei i critici. Le

nuove modifiche comprendevano un rilievo maggiore, una quadriga che esprimeva meglio la resa

del movimento, la figura dell'Italia sulla quadriga posta in modo diverso

rispetto alla precedente, ed infine fu eliminato il

cerchio contenente il profilo del Re. Questa

nuova modifica di serie fu denominata

"Quadriga Briosa”; di essa fa parte anche il 5

lire coniato solo nel 1914; essa è considerata

dagli appassionati di numismatica, giustamente,

la più bella fra quelle emesse dalla zecca

italiana durante il regno di Vittorio Emanuele III. Degna di nota è

l’allegoria di gradevole aspetto artistico rappresentata dalla scena della quadriga la quale esprime,

anche grazie alle sue importanti dimensioni, il senso della forza congiunta alla bellezza; si volle

inoltre mettere in risalto il “liberty italiano”, inserendo un significato simbolico che non sovrasta,

ma che accompagna, il valore artistico.

Oro: per sorteggio fu affidata a Boninsegna. Egli coniò i pezzi da 10,20,50

e 100 lire raffiguranti al dritto la tipica

rappresentazione prestabilita e al rovescio

l'allegoria dell'Italia che guida l'aratro tenendo un

fascio di spighe. Queste monete non entrarono

mai in circolazione e vennero comprate solo dai

ricchi numismatici dell'epoca.

Rame: la realizzazione della moneta in rame fu affidata a Canonica. Egli

chiamò la sua serie "Italia su prora". Essa porta al dritto la solita effigie

del sovrano colla leggenda, mentre al

rovescio vi è la figurazione dell'Italia

marinara, con l'indicazione del valore e

dell'anno di coniazione. Egli coniò pezzi da

1,2 e 5 centesimi. Nell'idea originale vi era

anche la presenza del 10 centesimi. Questa

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moneta non entrò mai in circolazione, ma fu coniata nel 1908 in occasione della posa della prima

pietra del nuovo edificio della Zecca di Roma; essa insieme alle altre tre monete della serie fu posta

come simbolo sulla suddetta pietra. Tutte le monete da 1 e 2 centesimi valore e prora furono coniate

grazie al rame ottenuto dalla fusione dei 10 centesimi di Vittorio Emanuele II ed Umberto I. Esse

furono dichiarate fuori corso nel 1924.

La moneta commemorativa del cinquantenario

Durante la seduta della Commissione annuale del 1911 venne proposta la

coniazione di una moneta Commemorativa del Cinquantenario dell'unità

d'Italia,da coniarsi nei tre metalli principali:oro

(50 lire),argento (5 e 2 lire) e rame ( 10

centesimi). Per quanto riguarda l’artista al quale

affidare l’esecuzione, la Commissione unanime

si sffidò a Trentacoste, membro egli stesso

della Commissione. L’allegoria presente sulla

moneta si riferisce a Roma antica che consegna un globo a Roma

moderna.

Nichelio: Bistolfi ebbe l'incarico di realizzare la moneta in nichelio

rappresentante al diritto la testa ideale dell'Italia con una spiga in mano e

la legenda "ITALIA". Al rovescio vi era la

figura della Libertà librata in volo con una

fiaccola. vi furono parecchie perplessità

riguardanti la scelta di questo materiale: difatti

fu ritenuto poco conveniente importare un

materiale come il nichelio per la realizzazione

delle monete quando il nostro Paese possiede molto rame, che

rappresenta anche la tipologia classica della monetazione italiana. Il 20

centesimi italiano fu certamente il più artisticamente elegante tra tutti i pezzi congeneri. Esso

possedeva un valore artistico raramente ripetibile, ma nonostante ciò fu soggetto a parecchie

critiche. Difatti la rappresentazione appariva troppo arcaica e difficilmente comprensibile per il

popolo.

20 CENTESIMI ESAGONO (1918-20).

La coniazione dei 20 centesimi “esagono” ebbe inizio nel 1918, ovvero

durante uno dei periodi storici più convulsi ed economicamente più

depressi del regno di Vittorio Emanuele III.

L'esigenza di immettere nella circolazione

monetaria nazionale un nominale da 20

centesimi si era già manifestata l'anno

precedente, a seguito della preoccupante e

progressiva sparizione dalla massa circolante

delle monete spicciole in bronzo e nichelio,

incettate dagli speculatori e sottratte alla loro naturale funzione monetaria

dalle pressanti necessità belliche della “Grande Guerra”. I tentativi che

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furono messi in atto, però, non ebbero successo e rimasero quindi circoscritti alla sola fase

progettuale. Il tempo stringeva e l'ipotesi di riprendere la coniazione del 20 centesimi “Libertà

Librata” in nichelio pressoché puro fu scartata, perciò si doveva trovare in tutta fretta una soluzione

che conciliasse le esigenze della “cassa dello Stato” con quella dell'introduzione di una moneta che

fosse adatta al particolare periodo storico. Che fare dunque? Questo è ciò che riportò il Lanfranco

nel saggio pubblicato su “Rassegna Numismatica”: “Si fece strada il pensiero di utilizzare la grossa

massa metallica monetaria costituita dai pezzi da 20 centesimi di nichelio misto (mistura di 75 parti

di rame e 25 di nichelio) coniati negli anni 1894 e 1895 e poi ritirati per essere sostituiti con pezzi

di nichelio puro. Vi erano infatti ancora conservati dei 'nichelini' in grossi quantitativi alla Zecca,

sebbene una gran parte di essi fosse già stata alienata all'industria privata come metallo. Non poteva

quindi procedersi ad una reviviscenza sic et simpliciter del corso legale del 'nichelino'. Il Lanfranco

afferma che venne a lui “la felice idea di ristampare con nuovi coni le vecchie monete” e che il

Ministero del Tesoro “senza consultare la Commissione Monetaria, diede incarico alla R.Zecca di

allestire rapidamente nuovi coni che bene fossero adatti a cancellare le vecchie impronte,

stampandone delle nuove”.

È opportuno a questo punto citare i provvedimenti che istituirono la moneta. Il primo e

fondamentale atto normativo che istituì la moneta da centesimi 20 “esagono” fu il Decreto

Luogotenenziale del 30.12.1917 nr. 2111. L'art. 3 del Decreto rimetteva invece, ad un successivo

decreto del Ministero del Tesoro, la determinazione delle dimensioni e delle caratteristiche di tali

monete. Dopo il citato Decreto Luogotenenziale nr. 2111 intervenne un altro Decreto Ministeriale

che, seppur per pochi giorni (per l'esattezza 19!), introdusse nell'ordinamento monetario del Regno

d'Italia una moneta dalle caratteristiche artistiche ben diverse da quelle che poi vennero stabilite per

il 20 centesimi “esagono”, con un successivo decreto ministeriale modificativo del primo. Si tratta

del Decreto Ministeriale 2 marzo 1918 nr. 130258 che, in attuazione del citato Decreto

Luogotenenziale nr. 2111, determinò le caratteristiche della nuova moneta di nichelio misto da

centesimi 20. le caratteristiche della nuova moneta non sono affatto quelle che si presenteranno in

seguito. Le caratteristiche del rovescio della moneta, inoltre, ricordano molto da vicino un tondello

catalogato come “prova”, anche se esso differisce dalla moneta descritta nel decreto ministeriale del

2.3.1918 per la mancanza, al dritto, del “cerchietto di pallini” e per la presenza, al rovescio, del

“simbolo di zecca R”. Saremo quindi al cospetto di una moneta mai emessa o comunque di una

moneta le cui caratteristiche vennero modificate prima che si procedesse alla sua battitura.

Come già anticipato infatti, le caratteristiche del 20 centesimi “esagono” vennero in seguito

modificate dall'art. 1 del Decreto Ministeriale 11.4.1918 che, lasciando inalterata l'impronta del

dritto, rideterminò quella del rovescio, stabilendo che essa “avrà, entro ad una classica corona

romana, circondata da un cerchietto di pallini, un esagono racchiudente nel cerchio l'indicazione

'Cent. 20' con sotto il millesimo di coniazione e l'iniziale R per Zecca”. Vi sono, inoltre, delle

anomalie riscontrate nei provvedimenti che istituirono la moneta di cui trattiamo: l'art. 3 del Regio

Decreto-Legge 21.1.1923 nr.215 stabilì infatti che “è autorizzato il ritiro delle monete di nichelio in

lega di nichel e rame da centesimi 20, emesse in virtù del Decreto Luogotenenziale 30 dicembre

1917 nr.2111”. I possessori della moneta sarebbero stati quindi rimborsati fino alla concorrenza

della somma di Lire 16 milioni, senza una scadenza temporale ma solo nei limiti della somma

suddetta. Va ricordato infine che gli ottocenteschi “nichelini” di Umberto non furono sufficienti a

soddisfare la richiesta complessiva di tondelli su cui imprimere le nuove impronte, cosicché si

ricorse all'impiego di tondelli vergini, sui quali, evidentemente, la rigatura del contorno è del tutto

assente, a differenza delle monete ristampate il cui taglio lascia quasi sempre intravedere qualche

“traccia” di rigatura. La più evidente e macroscopica di esse è che ci si dimenticò di attribuire il

corso legale al 20 centesimi “esagono”. Per la verità, un solo elemento ci consente di desumere che

alla moneta tale fondamentale prerogativa fosse stata attribuita, ed è l'art. 2 del Decreto

Luogotenenziale che stabilisce che “l'accettazione delle monete indicate all'art.1 del presente

decreto sarà obbligatoria per tutti per soma inferiore a Lire 5”. La precisazione che il 20 centesimi

“esagono” avrebbe avuto potere liberatorio seppure nei limiti della somma di Lire 5, ci consente di

ritenere come fu implicitamente accordato alla moneta il corso legale nello Stato, anche se non ci

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permette ovviamente di sapere da quale momento esso ebbe decorrenza. Un'ulteriore lacuna dei

provvedimenti è costituita dal fatto che ci si dimenticò, come avviene di consueto per i nuovi tipi

monetali, di ordinare il deposito presso l'Archivio di Stato delle impronte in piombo della nuova

moneta. Per paradossale coerenza, anche la cessazione della validità legale della nostra moneta

avvenne con il ricorso ad una fraseologia alquanto insolita. La moneta di cui ci siamo occupati

risulta “figlia” dei suoi tempi ed assume certamente la connotazione di “moneta di necessità o di

emergenza”. Riflettendo sulle anomalie illustrate sopra, si ha come l'impressione che le Autorità del

Regno d'Italia provassero quasi imbarazzo, dopo le raffinate e ricche produzioni monetali dei primi

15 anni del '900, ad immettere in circolazione una moneta “povera”. Una sorta di “Cenerentola”

delle monete, creata in tutta fretta e da dimenticare al più presto. Questo “imbarazzo” si ripercosse

anche sulla formulazione, stilisticamente poco elegante ed anzi, persino farraginosa, dei

provvedimenti istitutivi della moneta. Nonostante tutto ciò, l'<<esagono>>, soprannominato in

numismatica come “il brutto anatroccolo”, si difese con molta dignità se è vero che nel 1940 la

moneta “ha tuttavia ancora dei residui di circolazione, quantunque da tempo ne sia stato disposto il

ritiro e la sostituzione con monete di nichelio puro”.

PERIODO DEL I DOPOGUERRA:Terminata la guerra, la Zecca dovette pensare al rinnovamento

monetario emettendo delle nuove monete per lasciarsi definitivamente il passato bellico alle spalle.

Vennero coniate nuove monete di rame:

5 cent spiga: al dritto portavano l’effigie del Re volta verso sinistra e

la leggenda “VITTORIO EMANUELE III RE D’ITALIA”; al rovescio

una spiga di grano in verticale, con foglia a

sinistra.

10 cent ape: essa riprendeva le monete di Efeso. Portava al diritto la

testa nuda del sovrano volta verso destra e la leggenda “VITTORIO

EMANUELE III RE D’ITALIA”; al rovescio

un’ape che coglie il nettare da un fiore.

50 centesimi: in nichelio, venne denominato Leoni. Al dritto

raffiguravano il semibusto del sovrano volto verso sinistra, in uniforme,

e la scritta VITT.EM.III/RE.D’ITALIA. ; al

rovescio la parola AEQVITAS; la Giustizia,

con la fiaccola, era seduta su una quadriga di

leoni volti a destra.

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Alla fine della guerra, i buoni cartacei usati durante il conflitto in mancanza di metallo, da 1, 2, 5 e

10 lire vennero cambiati nelle seguenti monete del valore corrispettivo:

buono da 1 lira: riporta al dritto la personificazione dell’Italia seduta su

un trono che porge con la mano destra un ramo di ulivo (simbolo della

pace e quindi allegoria della Patria) e con la

sinistra un simulacro della Vittoria (la piccola

Nike alata che richiama la tradizione classica,

simbolo di trionfo). A grosse lettere vi è scritto

“ITALIA” e la data 1922. Sul rovescio vi è una

grande corona d’alloro, in cui è chiuso un

piccolo stemma d’Italia sormontato dalla corona reale e dalla leggenda

“BUONO DA 1 LIRA”.

buono da 2 lire: verrà trattato successivamente nella sezione riguardante il fascismo.

5 lire: fu denominato Aquilino. Al dritto porta la testa nuda del sovrano

rivolta verso sinistra e la scritta

VITTORIO.EMANUELE.III.RE.D’ITALIA.;

al rovescio un’aquila con le ali spiegate

appoggiata su un fascio littorio. Sul 5 lire è

presente un aquila sopra il fascio littorio in

quanto le monete da 5 e 10 lire vennero

coniate a partire dal 1926, periodo successivo

all’ascesa del Duce.

10 lire: venne denominato Biga. Esso riporta la consueta testa nuda del

Re rivolta verso sinistra e la scritta VITT.EM.III/RE.D’ITALIA.; al

rovescio vi è la personificazione dell’Italia, in

piedi su una biga briosa rivolta verso sinistra,

che sorregge un fascio littorio.

Con le nuove monete da 1 e 2 lire, col nuovo tipo da 50 centesimi di nichel puro e con la

sostituzione dei nominali in bronzo la Zecca lavorò in modo straordinario raggiungendo una

produzione veramente enorme.

IL FASCIO LITTORIO

L'utilizzo dei simboli si rivelò subito una forte caratteristica del fascismo. Oggi è possibile

affermare che il regime guidato da Mussolini sia stato un 'regime di simboli' ed è addirittura

possibile comparare il fascismo ad una religione laica poiché esso custodiva una natura religiosa

che tendeva a valorizzare la funzione essenziale dei miti e dei riti. Gli studi che furono messi in atto

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non si fermarono solamente alla sfera simbolico-mitologica del fascismo, ma scavarono più nel

profondo fino ad arrivare all'universo di riferimento dal quale derivavano i simboli e i miti. Di

conseguenza appare rilevante il ruolo del mito della Roma antica nelle radici di questa dittatura. Fu

proprio Benito a Mussolini ad autenticare il legame indissolubile tra la storia romana e la

rivoluzione fascista quando, in un articolo intitolato Passato e Avvenire pubblicato sul “Popolo

d'Italia” del 21 aprile 1922, in occasione del Natale di Roma, affermò: “Roma e Italia sono infatti

due termini inscindibili […] Roma è il nostro punto di partenza e noi sogniamo l'Italia romana, cioè

saggia e forte, disciplinata e imperiale”. Durante quello stesso discorso Mussolini ricordò che

l'impronta del fascismo, non ancora salito al potere, era da rintracciare proprio nei suoi cenni alla

romanità e nell'acquisizione del fascio littorio come simbolo privilegiato. Con il passare del tempo

questa traccia di Roma antica si manifestò in modo sempre più chiaro poiché il fascio littorio iniziò

a comparire sempre più spesso nell'iconografia pubblica. Questo simbolo divenne onnipresente e a

partire dal dicembre 1925 iniziò un cammino legislativo che nel giro di quattro anni lo avrebbe

trasformato da simbolo di partito a simbolo di Stato. In quella data Mussolini dispose che esso

venisse affisso su tutti gli edifici ministeriali ed infine il 12 dicembre 1926 fu dichiarato emblema di

stato. Il 27 marzo fu inoltre decretato che sulla sinistra dello scudo dei Savoia, stemma dello Stato,

doveva essere collocato l'emblema del littorio.

L'11 aprile del 1929 avvenne l'evento che caratterizzò la cosiddetta 'fascistizzazione': lo stemma

dello Stato, la cui foggia era cristallizzata dal 1890, fu modificato attraverso un Regio decreto

legge: lo scudo monarchico dei Savoia sarebbe stato sorretto non più da

due leoni, ma da due enormi fasci littori.

Ma la compresenza iconografica di un simbolo monarchico come l'effige

del Re con il fascio littorio trovò un concreto compimento subito dopo la

Marcia su Roma, quando si iniziò a riflettere sulla possibilità di emettere

una moneta che simboleggiasse la presa del potere da parte del fascismo.

Verso la metà di dicembre del 1922 fu recapitata al sottosegretario alla

Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo una lettera riservata della

quale non conosciamo il mittente e nella quale si avanzava tale proposta,

confidando che Mussolini avrebbe potuto indicare l'immagine più idonea alla sua realizzazione:

“Caro Acerbo dovresti interessare Mussolini perché costituisca sin da ora un segno imperituro

dell'avvento del fascismo al potere. Questo segno potrebbe consistere nella impronta speciale da

darsi ad una moneta di circolazione normale. Invece della spiga, del fiore coll'ape, Mussolini saprà

trovare una impronta significativa per l'opera restauratrice del fascismo. L'occasione si

presenterebbe ora. Sono stati emessi i buoni metallici da Lire una e la legge già autorizza

l'emissione di 150 milioni di lire in pezzi da Lire 2 di nichel”.

Il 22 dicembre Acerbo propose l'idea al Ministro delle Finanze Alberto De Stefani.

Dopo appena due giorni, il 24 dicembre, il Ministro inviò una lettera a

Mussolini con la quale garantì al duce che sarebbero state emesse delle monete

con simboli fascisti:

“[...]mi è gradito assicurare V.E. che ho già da alcuni giorni disposto che

fossero preparati i punzoni per le nuove monete divisionali e di appunto, recanti

inciso il fascio littorio, simbolo di Roma antica e della nuova Italia”.

Dopo tre giorni, il 27 dicembre, la notizia fu riportata sulla prima pagina del

giornale più importante dell'epoca, il “Popolo d'Italia”: << Il pubblico ha

accolto con piacere le monete di nichel che sostituiscono i piccoli biglietti si

Stato. Queste nuove monete porteranno impresse il Fascio Littorio, simbolo dell'antica Roma e della

nuova Italia>>.

Attraverso le parole del Ministro si percepisce un certo senso si urgenza, come se i tempi per la

realizzazione del progetto volessero essere accellerati (il Ministro comunica che i punzoni sono già

in preparazione facendo intendere che i lavori per la realizzazione erano già in atto, sebbene non

fosse vero). Al di là di tutto ciò, la coniazione di queste monete avvenne solo alcuni mesi dopo

dovendo affrontare molti imprevisti che ne rallentarono la realizzazione.

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Un lungo articolo comparso su “Popolo d'Italia” il 4 aprile del 1923 racconta, oltre alle scelte

attraverso le quali si arrivò alla selezione del fascio littorio da incidere sulle monete, il motivo per il

quale nell'Italia del primo dopoguerra (quindi nel periodo in cui l'ascesa definitiva del fascismo non

era ancora avvenuta) fu indispensabile eliminare i buoni di carta per fare spazio alle monete:

<<Tali buoni furono emessi come sostituzione degli spezzati di argento allorché l'enorme rincaro

del metallo bianco andava determinando la rapida scomparsa dei pezzi metallici da uno e due

lire>>.

In quel turbato contesto sociale non fu possibile sostituire l'argento poiché tutti gli altri materiali in

circolazione (ovvero rame, alluminio, bronzo, acciaio, nichelio ecc.) vennero utilizzati

principalmente per scopi bellici, quindi la scelta ricadde inevitabilmente sui buoni cartacei nella

speranza <<che breve ne sarebbe stata la vita per il pronto ristabilirsi di una situazione normale>>.

Dopo il secondo conflitto mondiale, tuttavia, il prezzo dell'argento non ebbe un calo determinante,

così si dovette optare per la coniazione delle monete con un altro tipo do metallo. Si ricorse al

nichel, materiale che l'Italia utilizzò già in passato per la coniazione della moneta da centesimi 20.

L'uso del nichel portava dei vantaggi, come la lucentezza e la resistenza, ma purtroppo anche degli

svantaggi come l'estrema durezza e diversi problemi conseguenti legati alla lavorazione stessa del

metallo. L'industria italiana dovette in questo caso fare ricorso a delle nuove metodiche di

lavorazione poiché in precedenza i tondelli di nichel erano

stati forniti dall'estero. Superati i problemi pratici, fu

necessario pensare a ciò che si voleva raffigurare sulle monete

come simbolo delle grandezza postbellica italiana. A questo

scopo il Ministero del Tesoro bandì nel 1922 un concorso

finalizzato a scegliere l'effige più adatta per il buono di cassa

metallico da 2 lire. A questo concorso parteciparono gli allievi

della Regia Scuola dell'Arte della Medaglia, attiva da qualche

tempo presso la Zecca ed istituita nel luglio del 1907. Il

vincitore avrebbe avuto il compito di raffigurare al dritto del

buono metallico la testa turrita dell'Italia e al rovescio l'immagine dell'aratro italico. Morbiducci ed

il suo modello furono scelti come vincitori.

Sfortunatamente la situazione dell'Italia cambiò drasticamente nel giro di pochi mesi. L'idea di

imprimere il fascio littorio circolò in maniera molto veloce e già il 1 gennaio 1923 il Consiglio dei

Ministri si riunì sotto la Presidenza di Mussolini e De Stefani annunciò che “importanti

provvedimenti in ordine alla circolazione monetaria” dovevano essere attuati. In questa seduta, oltre

alla decisione di quanto ammontare sarebbe stato emesso, si decise il simbolo ufficiale che sarebbe

stato impresso sulle nuove monete e fu Mussolini in presentare tale idea: <<Su proposta del

Presidente, il Consiglio ha deliberato che le monete di nuovo conio portino da un lato l'effige del Re

e dall'altro il Fascio Littorio>>.

Il dibattito riguardante i buoni metallici rimase tuttavia sempre in auge. L'attenzione verso i buoni

da 2 lire fu richiamata da Margherita Sarfatti, che scrisse una lunga lettera

sul “Giornale d'Italia” indirizzata a Mussolini, volendolo informare delle

proprie opinioni riguardo al processo in atto e volendogli comunicare le

proprie speranze verso una moneta che rispettasse più i canoni artistici che

quelli prettamente economici. Essa inseriva la coniazione del nuovo buono

all'interno di una antica ed illustre tradizione italica dell'arte “concettosa e

compendiosa della moneta”. La Sarfatti notava quanto la nuova moneta

potesse allontanarsi dalle tradizionali scelte artistiche e stilistiche italiche

per avvicinarsi di più verso scelte convenzionali. Il suo ammonimento

doveva servire come esortazione nel rendere le monete grandi quanto

l'Italia fascista.

Essa ricordava a Mussolini, inoltre, che l'Italia poteva vantare “un Re che

fra i numismatici del mondo è reputato forse il più dotto” ribadendo ancora una volta l'importanza

di affidare il progetto del nuovo buono a mani esperte poiché “la moneta è arma potentissima per la

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diffusione del senso della bellezza”.

Il 24 ottobre 1923, in occasione del primo anniversario della Marcia su Roma, fu emessa une serie

si tre francobolli.

Gli oppositori del fascismo dovettero presto rendersi contro che con l'imprimere l'immagine del

fascio littorio sulle monete vi fu la definitiva consacrazione socio-politica di questa dittatura.

Fu esemplare ciò che accadde il 2 gennaio 1923 sulla IV pagina del giornale “Avanti!”,

storicamente avverso al fascismo e a Mussolini, che presentava un articolo riguardante i

provvedimenti presi il giorno prima durante il Consiglio dei Ministri

dicendo sinteticamente: <<il Consiglio dei Ministri ha approvato

l'emissione di nuove monete di nichelio da una e due lire che verranno a

sostituire i biglietti dello stesso valore>>, senza citare minimamente il

nuovo stemma adottato per le monete.

L'unico accenno alla nuova effige proposto dalla rivista fu quello

riguardante la pubblicità di un nuovo marchio di sigarette sulle quali vi

era impresso il fascio littorio.

Per scegliere e ricostruire il simbolo del fascio littorio da modellare poi

sulle nuove monete fu chiamato un archeologo, il senatore Giacomo

Boni, il quale accettò con entusiasmo questo incarico e volle preparare

“un modello in natura del Fascio Littorio quale era veramente adoperato

dai romani” ed effettivamente riuscì a crearne uno con verghe lunghissime strette da alcune

corregge di cuoio e con la scure attaccata esternamente lungo il fascio. Ben diverso, quindi,

dall'iconografia classica del fascio durante la Rivoluzione Francese ovvero con la scure prominente

dalla sommità del fascio, infatti il “Popolo d'Italia” del 4 aprile scrisse: “Noi sbagliamo quindi se ci

figuriamo il fascio littorio quale viene generalmente disegnato con la scure sporgente alla

estremità”. E così la nuova immagine del fascio non rimandava solo ad

un simbolo di dominio ma anche ad un simbolo di significato religioso.

E se a Boni fu affidato il gravoso compito di sancire il nuovo simbolo

del fascio, a Morbiducci fu affidata nuovamente la raffigurazione delle

nuove monete che avrebbero recato al dritto il semibusto in uniforme

del re volto verso destra e, intorno, la dicitura VITTORIO-

EMANUELE-III-RE-D'ITALIA; al rovescio

il fascio littorio con scure rivolta a destra, la

legenda BUONO DA 2 LIRE, il segno della

Zecca, la data e i nomi dell'autore e dell'incisore. La moneta venne

emessa solo dopo alcuni mesi e finalmente il 19 luglio le principali

testate riportarono con discreta enfasi la seguente notizia: il giorno

precedente il capo del Governo Mussolini aveva fatto visita per oltre

un'ora alle officine della Zecca di Roma. Che le azioni fasciste di quel

tempo furono perlopiù propagandistiche, a partire dalla scelta del fascio

littorio, appare chiaro, e questa visita di Mussolini ed il modo in cui venne riportata dai quotidiani

ne sono un esempio.

Il 27 luglio la Gazzetta Ufficiale pubblicò il decreto del 14 giugno 1923 n° 1537 con il quale veniva

autorizzata la fabbricazione e l'emissione dei buoni di cassa in nichel da 2 lire.

Questa moneta“brillante, bella, sicura contro il logorio che il Governo nazionale ha dato all'Italia”

può dunque essere definita come una vera e propria conquista da parte dei fascisti della quotidianità

e della vita materiale italiana, poiché fissava l'iconografia fascista qualcosa di forte dal punto di

vista del potere e della propaganda.

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IMPERO

"Fu allorché Badoglio entrò ad Addis Abeba che Mussolini annunciò

trionfante la proclamazione dell'impero e pochi giorni dopo convocò a

palazzo Venezia il direttore della Zecca per

commissionargli una serie di "monete imperiali"

celebrative dell'evento, dimenticandosi che sino

ad allora era stato sempre Vittorio Emanuele III

a seguire personalmente la monetazione".

Questo episodio è noto a tutti ed è uno dei pochi

grossi screzi tra la diarchia del Regime Fascista (ovvero il Re da una

parte e Mussolini dall'altra). Questo evento accadde proprio all'indomani

della fondazione dell'Impero, quando Senato e Camera attribuirono al Re e al Duce, senza alcuna

distinzione, lo stesso grado di "primo maresciallo dell'impero". Il che significava mettere su un

piano di patirà il Re e Mussolini. Vittorio Emanuele III, allora, ebbe uno dei suoi pochi (conosciuti)

scatti di collera incontrollati. "Dopo la legge sul Gran Consiglio - disse il Re - questa legge è un

altro colpo mortale alle mie prerogative sovrane". Vittorio Emanuele III era diventato imperatore,

ma Mussolini si era autoproclamato il "fondatore dell'impero". Perciò agli antichi e venerandi

stemmi sabaudi si erano aggiunti i fasci e le aquile imperiali. Alle 19 del 9 maggio 1936 Mussolini

annunciò trionfante la proclamazione dell'impero (essendo entrato Badoglio, poco prima, ad Addis

Abeba). Appena 6 giorni dopo il Duce pensò di eternare nel metallo la conquista dell'impero e

convocò subito a palazzo Venezia il direttore della Zecca ordinandogli una serie di "monete

imperiali" celebrative del grande evento, il tutto per l'indomani alle 9. Insomma, la Zecca aveva

appena 24 ore di tempo per preparare gli schizzi relativi a tutti i tipi di monete allora in

circolazione. Questo atto fu già un primo scavalcamento del Re il quale, da grande numismatico,

aveva sempre seguito personalmente la monetazione, dimostrandosi estremamente geloso di questa

sua prerogativa numismatica alla quale Mussolini, a dire il vero, non diede molta importanza

descrivendola come:"Una mania innocua". In verità anche le monete erano state una spina nel

fianco di Mussolini, che lo fece soffrire non poco, poiché il Duce riuscì a invadere tutti i campi del

Re, nessuno escluso, salvo la monetazione. Sulle monete era sì comparso qualche simbolo fascista

in questi primi 13 anni del Regime (il fascio, un littore) ma i simboli sabaudi, gli antichi stemmi

reali, avevano sempre avuto la prevalenza. Mai Mussolini ebbe l'onore e la soddisfazione di vedersi

eternato su una moneta; tante medaglie, ma monete no. Le 20 lire che circolano con la testa di

Mussolini elmata e il famoso detto "Meglio vivere un giorno da leone che 100 da pecora" sono solo

una pacchiana contraffazione di fantasia, mutuata dalle 20 lire Vittorio Emanuele III del 1928 dove

l'effige del Re è stata semplicemente sostituita con quella del Duce. Il Professor Romagnoli,

incaricato di modellare le monete, dovette sentirsi come un vaso di coccio tra due vasi di ferro.

L'indomani - gli ordini erano ordini - i disegni delle 11 monete erano pronti dopo un giorno e una

notte di studi e prove. Il Duce lodò la celerità con cui il lavoro era stato eseguito, apprezzò

l'ispirazione e, raccolto il materiale, si recò dritto al Quirinale per comunicare la bella sorpresa al

Re. Sorpresa sì, bella no. Romagnoli, che conosceva bene Vittorio Emanuele III, si era ben guardato

dal rappresentare sulle monete l'immagine del Duce o di farvi apparire il suo nome. Ma dovendo

accontentare anche l'altro potente padrone (ci andava di mezzo il posto) aveva cercato di

compensare Mussolini rappresentando generosamente simboli fascisti sui rovesci delle monete.

Undici i valori di diversi materiali:

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Oro: 100 e 50 lire. Le prime recavano al rovescio un littore recante sulle spalle un pesante fascio

littorio. Sotto, a far da base, un piccolo stemma sabaudo, quasi in

castigo.

Argento: 20, 10 e 5 lire. Le prime rappresentavano l'Italia in trionfo su

una quadriga. Le 10 lire portavano al posto

d'onore l'Italia in piedi sulla prora di una nave

sempre con vittoria e fascio in mano. Sulle 5 lire

Romagnoli aveva disegnato l'allegoria della

Fecondità: una donna prosperosa attorniata da

quattro bambini, uno dei quali al petto. Questa

volta stemma sabaudo e fascio erano trattati alla

pari, uno destra e uno sinistra: l'equilibrio della diarchia era perfetto.

Nichelio: 2 lire, 1 lira, 50 e 20 centesimi. Le 2 lire e la lira portavano una

grande aquila appollaiata su un fascio, quasi a

covare i destini dell'Italia imperiale, tutto

contornato da un fascio di rami d'alloro. I 50

centesimi ripetevano l'impronta dell'aquila, ma

che non era più di prospetto, bensì volta a destra

e con le ali spiegate. Infine i 20 centesimi, una

moneta che fece chiacchierare molto i maligni:

c'era al rovescio il volto di una bella ragazza con

dietro il fascio e sopra, in piccolo, lo stemma dei

Savoia. Di chi era questa testa muliebre? Molti

sussurravano che Romagnoli, per ingraziarsi il

Duce, avesse ritratto nientemeno che Myriam

Petacci.

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21

Rame: 10 e 5 centesimi. I 10 centesimi appaiono come unica moneta della

serie in cui lo stemma coronato dei Savoia è posto

al centro del campo. Nei 5 centesimi tornava

l'aquila imperiale ad ali aperte, vista di fronte,

appoggiata su un fascio; sotto lo stemmino

coronato. Inoltre Romagnoli, incalzato dalla fretta,

scopiazzò le impronte dalle monete già battute in

passato. Era scontato che al dritto apparisse

sempre il volto del Re come era sempre avvenuto e come sempre sarebbe

avvenuto, salvo rare eccezioni, fino alla caduta della monarchia. Ma anche così il Regime, grazie ai

rovesci, usciva dalla serie imperiale vittorioso. Come accolse Vittorio Emanuele III le nuove

monete? Lo sappiamo da un'indiscrezione che Patrignani raccolse dalla bocca di un intimo di Casa

Reale, grande numismatico anche lui, il barone Cunietti, il quale riferì testualmente:"Non tutte le

figure dei rovesci riportati sulle monete della serie imperiale erano piaciute a Sua Maestà, che vi

aveva trovato troppe aquile e fasci". Su "Il Popolo d'Italia" dell'8 maggio 1937, in un articolo

elogiativo delle nuove monete si diceva testualmente "che i venerandi simboli imperiali erano

finalmente tornati sulla monetazione di Roma così come sui suoi colli era tornato l'impero" se non

altro "per riprendere e rinverdire le gloriose tradizioni del tempo antico". Mentre in realtà, come

aveva subito notato il Re che se ne intendeva, di antico non vi era proprio nulla perché le aquile e i

fasci impressi sulle monete erano frutto di un "modernismo" a tutti i costi. Il barone

commentò:"Con tutte quelle aquile finiremo alla fine per andar via anche noi", e fu un buon profeta:

Vittorio Emanuele III dieci anni dopo prendeva la via dell'esilio. Rare le 100 e le 50 lire d'oro

emesse rispettivamente in 812 e 790 pezzi e vendute ai collezionisti. Che piccole, quelle monete!

Tutto avevano fuorché dimensioni imperiali. Pesavano appena 8,80 e 4,40 grammi e avevano un

diametro di mm. 23,5 e 20,5. E pensare che appena undici anni prima le 100 e le 50 lire auree

pesavano quattro volte di più e avevano un diametro di mm.35 e 28. E le 20 lire d'argento? Belle,

grandi, pesanti, nulla da dire, quasi come i vecchi Scudi di venerata memoria. Con la differenza che

valevano quattro volte meno. Molti, troppi ricordavano ancora le 20 lire del 1923 che erano d'oro

zecchino, altro che d'argento! Ora che il nichel sembrava troppo caro, prezioso per l'Italia imperiale,

tanto è vero che si era progettato di battere i valori da 2 lire, 1 lira, 50 centesimi e 20 centesimi in

una nuova lega più economica: l'acmonital, come poi difatti avvenne nel 1938. Anche il rame era

diventato raro, serviva alla difesa della patria e doveva essere sostituito col bronzital una speciale

lega di alluminio e bronzo. A partire dal 1938 le monete già battute in nichelio furono coniate nella

nuova lega di acmonital-nichelio e poi, dal 1940, in solo acmonital, con la conseguenza che le

monete coniate nel 1938, nel 1939 e nel 1940 sono amagnetiche, mentre quelle battute negli anni

1940, 1941, 1942 e 1943 sono magnetiche e quindi attratte dalla calamita. Se l'acmonital diede

buoni risultati, non altrettanto si verificò per il barion che sostituì il rame a partire dal 1939: queste

monete ben presto accusarono una perdita del colore tradizionale, assumendo un colore nerastro che

non accontentava nessuno, né gli italiani né gli indigeni africani. "Non bone", dicevano questi

ultimi nel ricevere i 10 e i 5 centesimi in bronzital. Non avevano poi tutti i torti, abituati com'erano

sempre stati a spendere i talleri d'argento della pettoruta Maria Teresa d'Austria.

Page 22: Tesina di Luca Pantano

22

COLONIE

IL TALLERO D'ITALIA:

Tutto ebbe inizio quando un armatore genovese, Raffaele Rubattino,

acquistò da un notabile eritreo per la somma di 30 mila lire il territorio che

si affacciava sulla baia di Assab. Essendo i Genovesi rinomati per le loro

grandi qualità nel campo degli affari, il progetto di Rubattino si rivelò

subito vincente: la sua società costruì una base di rifornimenti e di servizi

per le sue navi sulla rotta Genova-India via Mar

Rosso. Nel 1882 però, la società decise, per

motivi economici, di far appoggiare le proprie

navi nei porti di Gedda e di Aden e di cedere

Assab allo Stato Italiano e così il governo dell'epoca inviò in quella zona

un corpo di spedizione i 1500 uomini.

Il 2 dicembre 1885 venne proclamata l'adesione dell'Eritrea al regno

d'Italia. Dopo aver posto rimedio alla formazione di un governo e alla

costruzione di strutture amministrative capaci di dare alla colonia e ai

suoi abitanti una valida garanzia sul nuovo sistema di vita regolato da leggi che inoltre tenevano

largamente conto dei diritti degli indigeni, si dovette pensare anche all'adozione di una monetazione

idonea a quei territori. Inizialmente vennero battute delle monete rassomiglianti a quelle del negus

Menelik nel 1891 e nel 1896, ma nel 1918, sotto il regno di Vittorio Emanuele III, il governo

italiano emise un altro tipo di moneta per l'Eritrea, ovvero il Tallero d'Italia.

Un particolare degno di nota è dato dal fatto che la figura della donna riportata sul diritto della

moneta è tratta da quella che spicca sul tallero per il Levante, battuto a Venezia sotto il doge

Ludovico Manin (1789-1797); il volto, l'acconciatura, il diadema, il mantello d'ermellino e le

guarnizioni del vestito della donna facevano intendere un chiaro riferimento alla moneta coniata

nell'epoca del Manin. Nonostante il nuovo spunto artistico non sia stato dei migliori, l'ispirazione

all'altra moneta non fu infelice, anzi, quest'ultima simboleggiava la gloriosa repubblica veneta e

perciò poteva benissimo rappresentare l'Italia in tempi più moderni.

Immesso in Eritrea, il Tallero d'Italia si trovò di fronte un antagonista d'eccezione: il tallero

austriaco di Maria Teresa del 1780, che già circolava nella colonia, nella vicina Abissinia e nel

confinante Sudan.

È difficile fare un esame comparativo tra i due talleri, a meno che non si voglia fare un'analisi dal

punto di vista storico, in quanto entrambi figurano il busto di una donna volto a destra, seppure con

sembianze diverse. Nella moneta austriaca colpisce la florida bellezza matrimoniale, anche se un po'

appesantita, dell'imperatrice Maria Teresa d'Asburgo, descritta dal diplomatico inglese Tommaso

Robinson con queste parole: “...aveva un aspetto quanto mai imponente, una grande

bellezza...perfetta dolcezza di espressione, grazia femminile,...”. Inoltre vi erano le raffigurazioni

dell'aquila asburgica e dei Savoia come stemmi delle casate regnanti delle rispettive nazioni che,

entrambe bicipiti e con le ali spiegate e caricate in petto erano talmente simili da poter essere

facilmente confuse. È evidente, quindi, che questa notevole somiglianza sia stata voluta da parte

italiana proprio per far accettare alle popolazioni dell'Eritrea la nuova moneta la quale, nonostante

ciò, non trovò un'accoglienza favorevole tanto che lo Stato Italiano, dopo aver posto in circolazione

510 mila pezzi, decise di porre fine alla coniazione. Avendo fatto esperienza, nel 1935 il governo

italiano chiese ed ottenne da quello austriaco il diritto di co-coniazione per 25 anni del tallero del

1780, permettendo così all'Italia di fronteggiare con sicurezza il problema della circolazione

monetaria in Africa Orientale durante e successivamente la campagna d'Etiopia.

Page 23: Tesina di Luca Pantano

23

IL TALLERO DI MARIA TERESA.

I talleri di Maria Teresa d'Austria sono facilmente riconoscibili anche

per i non esperti poiché si tratta di monete relativamente comuni, in

argento, a nome della grande sovrana asburgica e che coprono un

ampio arco di tempo, dal 1740 al 1780.

La creazione di due porti franchi a Fiume e a

Trieste, nel 1719, aveva fornito le condizioni

per un vivace scambio di merci attraverso il

Mediterraneo e il rinnovamento tecnologico

voluto dalla sovrana aveva portato degli effetti anche sulla moneta, che

venne ben presto richiesta e accettata nelle transazioni commerciali di

tutt'Europa. La coniazione di queste monete si estese inoltre fino

all'Arabia, alla Somalia e all'Eritrea dove le ritroviamo, con minime

varianti di peso e titolo, come emissioni italiane per sostenere la campagna militare d'Africa

Orientale.

Per quanto riguarda l'iconografia del tallero, essa può essere considerata piuttosto ripetitiva, specie

se si pensa alla durata del regno di Maria Teresa: la varietà dei ritratti è limitata, infatti essi si

limitano ad un tipo giovanile e ad uno in età matura. Ed è proprio l'immagine relativa a quest'ultimo

periodo che tutti hanno in mente e che ha caratterizzato in modo indimenticabile anche il tallero che

ha portato l'immagine di Maria Teresa in giro per il mondo. Si tratta di una moneta in argento che

reca al diritto lo stemma dell'Austria con aquila bicipite e dalla leggenda

ARCHID.AVST.DUX/BURG.CO.TYR.1780. seguita da una croce di Sant'Andrea che ricordava le

convenzioni del 1753 stipulate con la Baviera. Al rovescio troviamo un bellissimo ritratto della

sovrana, non più giovane, con il busto drappeggiato e la testa ornata da una delicatissima corona e

da un elegante velo che le dona una sembianza molto umana. Il ritratto parla di una donna ormai

matura che mantiene i tratti dell'antica bellezza.

L'ITALIA NELLA MONETAZIONE ALBANESE DAL 1914 AL 1943.

Il 16 aprile 1939 Vittorio Emanuele III accettò

la corona d'Albania in un‘unione personale

che, per la verità, si concretizzò in una vera e

propria annessione. Per ben comprendere tale

periodo bisogna risalire ad alcuni eventi del

periodo del governo Zogu (1924-1939) ma

anche ad un antefatto militare che risale agli

ultimi mesi della prima guerra mondiale

quando, nel giugno del 1918, l'Italia occupò le regioni albanesi di Berat e

città limitrofe, mettendo in circolazione buoni da 1 lira italiana, non

datati, in testi bilingue italo-albanese. In seguito gli italiani

consegnarono queste regioni ai francesi che le tennero sino al 1920.

Seguì, il 25 dicembre 1914, un'altra

occupazione “per difendere l'integrità

territoriale albanese dall'espansione greca”,

finché il 2 agosto 1920 un protocollo

preliminare firmato a Tirana sancì il ritiro delle

truppe italiane, rendendo possibile la

costruzione dello Stato albanese nei confini del

1913. Dopo varie vicende politiche il 31

gennaio 1925 Ahmed Zogu fu eletto presidente

Page 24: Tesina di Luca Pantano

24

della repubblica d'Albania. Nel paese il flusso monetario era caotico a

causa della circolazione di tante monete di diverso valore e provenienza

(residui turchi, lire-carta italiane, franchi svizzeri

e belgi).

La carenza di banche e di una propria

monetazione indusse Zogu a chiedere all'Italia

ingenti capitali

che portarono alla creazione della Banca

Nazionale d'Albania, col privilegio di poter

emettere propria carta-moneta e moneta, avente come unità di misura

decimale il Lek, dal nome del patriota Scanderberg.

Il Patto di Tirana del 27 novembre 1926 ed il Trattato di alleanza italo-

albanese del 22 novembre 1927 rafforzarono poi i rapporti di amicizia tra

i due paesi. L'Italia contribuì subito a concretizzare i rapporti di emittenza

per conto della neo Banca Nazionale d'Albania. Inizialmente la Zecca di

Roma predispose diverse prove di conio, realizzando coniazioni di

monete d'oro e d'argento negli anni dal 1926 al 1928 con l'effigie del

presidente Zogu. Tutte le monete hanno la sigla “R” della Zecca di Roma.

Durante questo periodo l'Italia fascista tentò di inserirsi nella monetazione

albanese.

Zogu, autoproclamandosi re d'Albania il primo settembre 1928, si rivelò

un pessimo debitore e non restituì mai le somme considerevoli ricevute

in prestito: era perfettamente consapevole che la mancata restituzione era

il prezzo che l'Italia doveva pagare per mantenere l'Albania nella propria

orbita di influenza. Il 7 aprile 1939 il governo italiano procedette

all'occupazione dell'Albania e il Regno d'Italia doveva corrispondere al

Regno d'Albania 15 milioni di franchi albanesi come contributo per

l'assestamento del bilancio.

In seguito la bandiera albanese fu ridisegnata dagli italiani che vi

apposero i fasci littori mentre lo stemma sabaudo fu posto sopra l'elmo di Scanderberg.

Le monete furono coniate tutte dalla Zecca di

Roma su modelli del Romagnoli, incisi da

Motti: le prime sono datate 1939 XVII anno

dell'era fascista (che, si ricorda, scattava il 28

ottobre dell'anno solare) nei tagli d'argento di L.

5 e 10, mentre in Italia le monete d'argento non

si coniavano più dal 1937. nel 1939, anno

XVIII E.F., la serie fu completata da

un'emissione 'Acmonital' (acciaio col 18% di

cromo, nichel, molibdeno e vanadio) non magnetico, nei tagli di Lek 2 e 1, nonché di cent. 50 e 20.

Per le monete di bronzo si utilizzò la lega 'Bronzital' già sperimentata in

Italia: si ebbero coniazioni di cent. 10 e 5 datate 1940 e 1941.

Intanto il 1° settembre 1939, il Commissario Generale per le

fabbricazioni di guerra C. Favograssa annotava nel suo diario: “Al 1°

settembre 1939 le scorte di nichel erano di tonnellate 250 e poco buone

erano le previsioni per l'avvenire. Si dovette ricorrere alla raccolta di

nichel monetato per un ammontare di circa tonn. 2.500”. Di conseguenza

si provvide a coniare anche monete albanesi con la nuova lega

calamitata. Il generale Favograssa continuò a trattare della questione del

nichel nel 'Promemoria' per il capo del governo esprimendo così la sua apprensione: <<In caso di

conflitto la situazione sarebbe molto grave e minaccerebbe di diventare tragica. Senza nichel non si

possono costruire armi automatiche. Si dovrebbe fare affidamento sul poco nichel monetario ancora

Page 25: Tesina di Luca Pantano

25

in circolazione, la cui raccolta, se accelerata, potrebbe dare solo alcune centinaia di tonnellate di

nichel>>. Non potendo più continuare a coniare monete con la minima quantità di nichel, la moneta

di 2 lek, già carente nel circolante (il contingente del 1940 e 1941 era stato perduto, unitamente alla

moneta di lek 1, durante il trasporto da Roma a Tirana) fu rimpiazzata da omologhi tagli di buoni

cartacei. Pertanto, dal mese di giugno 1939 al 1942 furono emessi i seguenti nuovi tagli di biglietti

per la Banca Nazionale d'Albania sui quali vi era rappresentata l'aquila bicipite albanese ed il testo

bilingue ( Lek 2, Lek 5, Lek 10, F. 5)

LA MONETAZIONE DELLA SOMALIA ITALIANA.

Il territorio del Benadir vide la presenza italiana sin dal 1889 e da quel momento numerose trattative

portarono all'accordo del 5 marzo 1905, per il quale il Mullah islamico (capo religioso somalo) si

era impegnato ad accettare il controllo italiano in quella regione. Di conseguenza, il giorno 19 dello

stesso mese, il Benadir veniva a formare il nucleo centrale della Colonia della Somalia, con capitale

Mogadiscio.

Al momento dell'occupazione italiana,la

Somalia non era dotata di proprie monete. In

quel momento nel Paese circolavano monete

provenienti dai paesi arabi o dall'Inghilterra e la

circolazione era principalmente basata sul

Tallero di Maria Teresa. Questo sistema ledeva

in modo inevitabile il prestigio dell'Italia

poiché non era dignitoso, per una potenza

coloniale, che in un suo possedimento fossero usate monete estere, nonché spiccioli di piccoli stati

limitrofi. Così nell'aprile del 1905 fu sperimentata l'introduzione di due monete italiane, il

centesimo di bronzo ed il pezzo da 25 centesimi in nichel. Il tentativo si rivelò deludente per la

resistenza della popolazione locale all'uso delle

nuove monete. Quattro anni dopo le autorità

italiane decisero di dar vita ad un sistema

monetario autonomo creando una nuova unità

monetaria, la Besa Italiana, in bronzo, con i

valori da 4 bese,2 bese,1 besa battuti dalla Zecca

di Roma. Al diritto compare l'effigie volta a

sinistra del Re e l'iscrizione “VITTORIO

EMANUELE III RE D'ITALIA”. Sul retro

“SOMALIA ITALIANA”, diciture arabe, valore e data. Il provvedimento non fu però soddisfacente

a garantire stabilità al mercato monetario somalo data la molteplicità delle monete in circolazione.

Pertanto il decreto 8 dicembre 1910 istituì una nuova moneta, la Rupia Italiana d'argento con i

valori da 1 rupia,1/2 rupia e 1/4 di rupia. Le Rupie presentavano al diritto l'effigie del Re rivolta a

destra e l'epigrafe “VITTORIO EMANUELE III RE D'ITALIA”. Al retro

“SOMALIA ITALIANA”, corona, valore,

diciture arabe, data tra rami e rose, R, simbolo

della Zecca di Roma. Il decreto ordinò il ritiro

dei Talleri, per cui la Rupia divenne la base del

sistema monetario somalo. L'emissione di

Rupie cessò nel 1921 e per supplire alla

scarsezza del circolante, la Banca d'Italia

stampò una serie di “buoni di cassa” nei tagli

da 1, 5 e 10 Rupie. Nel giugno del 1925 entrò in vigore una nuova

riforma monetaria che introdusse nella colonia la Lira italiana con i valori da 5 e 10 lire.

Page 26: Tesina di Luca Pantano

26

AMMINISTRAZIONE FIDUCIARIA ITALIANA SOMALA (A.F.I.S.)

Il trattato di pace del 10 febbraio 1947

privava l'Italia di tutti i suoi possedimenti

coloniali, compresa la Somalia, il cui destino

definitivo veniva lasciato alle decisioni della

futura organizzazione delle nazioni unite. E

così il 21 novembre 1949 l'Assemblea

Generale dell' O.N.U. si pronunziò a favore

dell'indipendenza della Somalia, da realizzare

attraverso un periodo transitorio di amministrazione fiduciaria italiana.

Gli obbiettivi principali di questa amministrazione fiduciaria erano

enunciati già nella carta dell' O.N.U.: favorire la pace e la sicurezza

internazionale, promuovere il progresso politico-economico e la

democrazia nei territori amministrati per avviarli ad una progressiva

autonomia ed una completa indipendenza

nazionale. Il 27 gennaio 1950, il Consiglio per

amministrazione fiduciaria dell' O.N.U.

approvava il progetto di accordo per

l'amministrazione della Somalia, che,

successivamente, veniva accettato dal governo italiano (il 22 febbraio) e

ratificato dal nostro parlamento nazionale il

4 novembre 1951. Già dall'aprile 1950 l'Italia

era subentrata alla Gran Bretagna nel

governo dell'ex colonia così che la nostra amministrazione provvisoria

terminava il 22 dicembre 1951 con l'inizio del funzionamento ufficiale

dell' A.F.I.S. (Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia).

L'accordo per l'amministrazione fiduciaria prevedeva il mantenimento

in Somalia di un contingente di volontari delle forze armate e reparti di

polizia italiani per la difesa del paese e il mantenimento dell'ordine

pubblico interno.

LA MONETAZIONE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (1943-45)

In quel turbinoso periodo della storia italiana che va dall'armistizio dell'8

settembre 1943 al 25 aprile 1945 non tutti sanno che il Governo della

Repubblica Sociale Italiana aveva installato una zecca nella città di Aosta

con macchinari trasferiti da quella di Roma. In tale zecca furono battute,

nel luglio 1944, monete da 50, 20 e 10 centesimi in acmonital recanti data

1943/XXI. Essendo impossibile, per la fretta, approntare nuovi coni di

nuovo tipo, i pezzi da 50 e 20 centesimi furono emessi sugli stessi modelli

di pari valore battuti dalla Zecca di Roma. Per le monete da 10 centesimi

furono usati, perciò, i modelli dei pezzi corrispondenti coniati a Roma fin

Page 27: Tesina di Luca Pantano

27

dal 1936, ma tali modelli furono ridotti di modulo, ne fu modificata affrettatamente la data e, per

renderne più agevole la coniazione in acmonital ne fu convenientemente abbassato il rilievo. Dei

pezzi da 50 e 20 centesimi furono successivamente coniati anche esemplari di prova con la sigla di

zecca A (Aosta). Dei pezzi da 10 centesimi furono coniati, sembra, intorno ai 1.000 esemplari che in

piccola parte vennero inviati a Brescia, dove aveva sede il Ministero delle Finanze della Repubblica

Sociale. Dopo la caduta della Repubblica Sociale, però, presso la Zecca di Roma si procedette alla

distruzione degli esemplari. Secondo notizie provenienti da una fonte attendibile, si sarebbero

salvati dalla distruzione solo quei pochissimi esemplari inviati a Brescia del pezzo da 10 centesimi.

Due esemplari di questo nominale sono gelosamente conservati nel Museo della Zecca di Roma,

con la chiara indicazione della zecca emittente, ovvero Aosta. Purtroppo tutti, o quasi tutti, i

documenti di archivio di tale zecca provvisoria sono andati smarriti o distrutti. Il fatto, però, che i

dirigenti della Zecca di Roma, dopo la caduta della Repubblica Sociale Italiana e dopo il ritorno a

Roma delle maestranze e dei macchinari già trasferiti al Nord, abbiano ritenuto di accogliere nel

Museo ufficiale della Zecca di Stato questo piccolo disco di metallo nel quale si concretizza la

storia numismatica della R.S.I. sta a dimostrare che effettivamente essi avevano elementi per

stabilire che si tratta di monete emesse da una vera e propria Autorità italiana che di diritto o di

fatto batteva moneta nel territorio sottoposto al suo controllo.

ITALIANO: PASCOLI IN "LA GRANDE PROLETARIA SI È MOSSA"

Testo:

Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e

dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a

tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar

carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere

edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto

ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più

difficile ancora: ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città, dove era la

selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a

pulire scarpe al canto della strada. Il mondo li aveva presi a opra, i

lavoratori d’Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li

pagava poco e li trattava male e li stranomava.

Diceva Carcamanos! Gringos! Cincali! Degos!

Erano diventati un po’ come i negri, in America, questi connazionali di

colui che la scoprì; e come i negri ogni tanto erano messi fuori della legge e

della umanità, si linciavano.

Lontani o vicini alla loro patria, alla patria nobilissima su tutte le altre, che aveva dato i più potenti

conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più

meravigliosi artisti, i più benefici indagatori, scopritori, inventori, del mondo, lontani o vicini che

fossero, queste opre erano costrette a mutar patria, a rinnegare la nazione, a non essere più d’Italia.

Era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Sì, come Dante, a dir Terra, come Colombo, a dir

Avanti! come Garibaldi.

Si diceva: — Dante? Ma voi siete un popolo d’analfabeti! Colombo? Ma la vostra è l’onorata

società della camorra e della mano nera! Garibaldi? Ma il vostro esercito s’è fatto vincere e

annientare da africani scalzi! Viva Menelik!

Page 28: Tesina di Luca Pantano

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I miracoli del nostro Risorgimento non erano più ricordati. Così queste opre tornavano in patria

poveri come prima e peggio contenti di prima, o si perdevano oscuramente nei gorghi delle altre

nazionalità.

Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso

la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale si protende

impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu

abbondevole d’acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e giardini; e ora, da un pezzo, per l’inerzia

di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un deserto.

Là i lavoratori saranno, non l’opre, mal pagate mal pregiate mal nomate, degli stranieri, ma, nel

senso più alto e forte delle parole, agricoltori sul suo, sul terreno della patria; apriranno vie,

coltiveranno terre, deriveranno acque, costruiranno case, faranno porti, sempre vedendo in alto

agitato dall’immenso palpito del mare nostro il nostro tricolore.

E non saranno rifiutati, come merce avariata, al primo approdo; e non saranno espulsi,alla loro

prima protesta. Vivranno liberi e sereni su quella terra che sarà una continuazione della terra nativa,

con frapposta la strada vicinale del mare. Troveranno, come in patria, ogni tratto le vestigia dei

grandi antenati.

Anche là è Roma.

E Rumi saranno chiamati. Il che sia augurio buono e promessa certa. SÌ: Romani. SÌ: fare e soffrire

da forti. E sopra tutto ai popoli che non usano se non la forza, imporre, come non si può fare

altrimenti, mediante la guerra, la pace.

— Ma che? — Il mondo guarda attonito o nasconde sotto il ghigno beffardo la sua meraviglia. —

La Nazione proletaria, la nostra fornitrice di braccia a prezzi ridotti, non aveva se non il piccone, la

vanga e la carriola. Queste le sue arti, queste le armi sue: le armi, per lo meno, che sole sa

maneggiare, oltre il coltello col quale partisce il pane e si fa ragione sulle risse. Si diceva bensì che

era una potenza; e invero aveva avuto un cotal risveglio che ella chiama risorgimento. Così la

nazione era risorta. E risorta, volendo dar prova di sè, era stata vinta da popoli neri e semineri E ora

... —

Ecco quel che è accaduto or ora e accade ora.

Ora l’Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant’anni ch’ella rivive, si è presentata al

suo dovere di contribuire per la sua parte all’umanamento e incivilimento dei popoli; al suo diritto

di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli

volenterosi quel che sol vogliono, lavoro; si è presentata possente e serena, pronta e rapida, umana e

forte, per mare per terra e per cielo.

Nessun’altra nazione, delle più ricche, delle più grandi, è mai riuscita a compiere un simile sforzo.

Una lunghissima costa era in pochi giorni, nei suoi punti principali, saldamente occupata.

[…] Proletari, lavoratori, contadini. Il popolo che l’Italia risorgente non trovò sempre pronto al suo

appello, al suo invito, al suo comando, è là. O cinquant’anni del miracolo! I contadini che spesso

furono riluttanti e ripugnanti, i contadini che anche lontani dal Lombardo-Veneto chiamavano loro

imperatore l’imperatore d’Austria, e ciò quando l’imperio di Roma era nelle mani del dittatore

ultimo, i contadini che Garibaldi non trovò mai nelle sue file ... vedeteli!

Page 29: Tesina di Luca Pantano

29

[…]Quale e quanta trasformazione! Giova ripeterlo: cinquant’anni fa l’Italia non aveva scuole, non

aveva vie, non aveva industrie, non aveva commerci, non aveva coscienza di sè, non aveva ricordo

del passato, non aveva, non dico speranza, ma desiderio dell’avvenire. In cinquant’anni è parso che

altro non si facesse se non errori e anche delitti; non si cominciasse se non a far sempre male e non

si finisse se non col non far mai nulla. La critica era feroce e interminabile e insaziabile. Era forse

un desiderio impaziente che la animava.

Ebbene in cinquant’anni l’Italia aveva rifoggiato saldamente, duramente, immortalmente, il suo

destino.

Chi vuol conoscere quale ora ella è, guardi la sua armata e il suo esercito. Li guardi ora in azione.

Terra, mare e cielo, alpi e pianura, penisola e isole, settentrione e mezzogiorno, vi sono

perfettamente fusi. Il roseo e grave alpino combatte vicino al bruno e snello siciliano, l’alto

granatiere lombardo s’affratella col piccolo e adusto fuciliere sardo; i bersaglieri (chi vorrà

assegnare ai bersaglieri, fiore della gioventù panitalica, una particolare origine), gli artiglieri della

nostra madre terra piemontese dividono i rischi e le guardie coi marinai di Genova e di Venezia, di

Napoli e d’Ancona, di Livorno, di Viareggio, di Bari. Scorrete le liste dei morti gloriosi, dei feriti

felici della loro luminosa ferita: voi avrete agio di ricordare e ripassare la geografia di questa che

appunto era tempo fa, una espressione geografica.

E vi sono le classi e le categorie anche là: ma la lotta non v’è o è lotta a chi giunge prima allo

stendardo nemico, a chi prima lo afferra, a chi prima muore A questo modo là il popolo lotta con la

nobiltà e con la borghesia. Così là muore, in questa lotta, l’artigiano e il campagnolo vicino al

conte, al marchese, al duca.

Nè là esistono classi nè qua. Ciò che perennemente e continuamente si muta, non è. La classe che

non è per un minuto solo composta dei medesimi elementi, la classe in cui, con eterna vicenda, si

può entrare e se ne può uscire, non è mai sostanzialmente diversa da un’altra classe.

[…]In guerra, combattiamo e spargiamo sangue, e in prima il nostro, non per disertare ma per

coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanare e incivilire, non per asservire ma per

liberare. Il fatto nostro non è quello dei Turchi. La nostra è dunque guerra non offensiva ma

difensiva. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra

da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto, sequestrano per

sè e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vesti, case, all’intera collettività che ne

abbisogna. A questa terra, così indegnamente sottratta al mondo, noi siamo vicini; ci fummo già; vi

lasciammo segni che nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono a cancellare; segni della

nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo.

In faccia a noi questo è un nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un dovere nostro.

Così risponde l’Italia guerreggiante ai fautori dei pacifici Turchi e della loro benefica scimitarra;

degli umani Beduini-Arabi che non usano violare e mutilare soltanto cadaveri; degli industriosi

razziatori di negri e mercanti di schiavi.

[…]Così l’Italia si è affermata e confermata. Ora è incrollabile. Può (perdonate la bestemmia; ché in

verità ella non può!) essere ricacciata al mare, essere costretta ad abbandonare l’impresa, essere

invasa, corsa, calpestata, divisa e assoggettata ancora: ella è e resterà, non può morir più una

nazione in cui le madri raccomandano ai figli che partono per la guerra, di farsi onore.[…] I nostri

feriti non trascineranno per le vie le mutile membra e la vita impotente. No. Saranno quello che per

la madre e per i fratelli è il figlio e fratello nato o fatto infelice. Saranno i careggiati, i meglio

riguardati, i più amati. Essi ci ricorderanno la prima ora che abbiamo avuta, dopo tanti anni, di

coscienza di noi, di gloria e vittoria, d’amore e concordia.

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[…]Benedetti voi, morti per la Patria! Riunitevi, eroi gentili, nomi eccelsi, umili nomi, ai vostri

precursori meno avventurati di voi, perchè morirono per ciò che non esisteva ancora!

Voi l’Italia già grande ha raccolti nelle braccia possenti.

[…]Benedetti, o morti per la Patria! Voi non sapete che cosa siete per noi e per la Storia! Non

sapete che cosa vi debba l’Italia! L’Italia, cinquant’anni or sono, era fatta. Nel sacro

cinquantennario voi avete provato, ciò che era voto de’ nostri grandi che non speravano si avesse da

avverare in così breve tempo, voi avete provato che sono fatti anche gl’italiani.

Analisi del testo:

In questo testo compaiono elementi nazionalisti tipici dell’epoca che, inevitabilmente,

influenzarono anche il mite e benevolo poeta. Pascoli espone con ardore i suoi più sentiti pensieri

riguardo alla rinnovata situazione dell’Italia coloniale, evidenziando accuratamente le varie ragioni

per le quali questo nuovo periodo imperiale era visto da lui come un “riscatto italiano”, costituito da

rinnovo sociale e culturale ed arrivando anche a discolpare un mezzo come la guerra.

Innanzitutto il poeta espone il problema dell’emigrazione, condizione che in precedenza

costringeva molti italiani a lasciare la propria patria a causa di condizioni lavorative non accettabili

che portavano a disoccupazione e misere retribuzioni. Egli sottolinea in maniera incisiva le fatiche e

i soprusi ai quali i poveri compatrioti dovevano sottostare in terre straniere. Questi richiami si

collegano alla presenza delle “nazioni ricche”, ormai abituate a tiranneggiare le cosiddette “nazioni

proletarie”, più povere e meglio assoggettabili. Il sacrificio di questi uomini, disposti a cambiare

luogo geografico e condizioni sociali, è visto come un qualcosa di molto malinconico poiché il

distacco dalla madrepatria comporta una condizione di particolare vulnerabilità e fragilità.

Pascoli si dimostra un nazionalista persuaso e consapevole, fiero delle grandiose radici storiche

italiane che, secondo il suo parere, hanno il diritto ed il dovere di tornare a splendere in questa terza

epoca di splendore, preceduta dall’età imperiale romana e dalla fioritura sociale dell’età Comunale

medievale. Difatti, un Paese così fecondo di cultura e storia non può essere sminuito o svalutato in

alcun modo, perciò l’emigrazione è vista anche come qualcosa di ignobile per un paese del calibro

dell’Italia, che non deve più trovarsi nella situazione di non poter garantire degne risorse ai propri

cittadini.

Nelle parole del poeta si nota una giustificazione ai mezzi bellici; infatti, con la conquista della

Libia, gli italiani possono restare nella propria patria in quanto le colonie costituiscono un

prolungamento della terra natia. Oltretutto, la Libia era un tempo romana, perciò questa riconferma

territoriale è particolarmente sentita poiché la nazione italiana sarebbe stata capace di infondere alla

colonia quell’ordine e civilizzazione che, ad esempio, gli arabi non erano riusciti a conferirle,

facendo regredire quella regione fino a renderla solo un deserto. Ed è in questo punto che Pascoli

manifesta il razzismo: difatti egli non si sottrae dal giudicare come barbare, incivili e feroci

popolazioni come quella turca e quella araba. Queste nazioni necessitano un rinnovamento civile

che può essere apportato solo dalla nazione italiana, rinnovamento che doveva essere impartito

anche attraverso l’uso della forza.Perciò questa guerra di colonizzazione assume un carattere

unificante per l’Italia poiché tutti gli sforzi compiuti dai soldati e dalla gente saranno poi

“ricompensati” attraverso la dominazione italica, che permetterà al paese di acquisire una posizione

di rilievo rinvigorendo lo spirito nazionale e risolvendo molte delle sue problematiche interne.

D’altronde tutto quanto il discorso è incentrato asulla lode delle gesta italiane, screditando

fortemente il lavoro intrapreso dalle popolazioni locali sul territorio e sottolineando tutto ciò che di

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buono l'Italia poteva realizzare. In questo brano si parla anche della lotta tra le classi, fortemente

osteggiata dal poeta. Nel testo troviamo l’esempio dei soldati in guerra: essi combattevano fianco a

fianco accomunati da un unico scopo, le differenze date dai diversi luoghi di provenienza regionale

o dalle caratteristiche fisiche o piuttosto da quelle sociali passavano in secondo piano. Ciò significa

che le classi fanno parte di ogni ambito, persino quello bellico, ma sono destinate a scomparire

quando l’interesse comune è mirato verso un bene primario e superiore. Perciò ognuno di noi deve

prendere atto della propria condizione sociale, trarne il meglio e cercare di vivere in armonia con gli

altri. Ecco perché egli si dimostra tanto benevolo con la condizione italiana, quanto molto

puntiglioso per quello che riguarda le critiche ai paesi stranieri. Infine, è notevole l’energia con la

quale Pascoli presenta il suo discorso, ed è altrettanto considerevole la foga con la quale l’immagine

dell’Italia viene sostenuta. Tuttavia il giudizio del poeta non può essere considerato obbiettivo ed

imparziale poiché è frutto del clima nel quale egli vive e pensa. Tutto ciò non rende assolutamente

la trattazione meno efficace o ammirevole, anzi, attraverso essa abbiamo una visione puramente

nazionalista proprio come se ci trovassimo nell’epoca citata, ma in ogni caso il suo pensiero va

compreso valutando i diversi fatti storici che vi ci hanno portato.

Fisica: Il magnetismo

Un po'di storia:

Il termine magnete fu attribuito dai filosofi della Scuola di Mileto: con il sostantivo magnhtis liqos

veniva infatti indicata la roccia magnetica che si rinveniva nelle cave adiacenti alla città di

Magnesia al Silipo, nell’attuale Turchia. Infatti, sin dai tempi di Talete (VI secolo a.C.), era noto

come quest’ossido di ferro, detto MAGNETITE, fosse in grado di attrarre la

limatura di ferro. Secondo la leggenda narrata da Plinio il Vecchio (23 -

79 d.C.) al capitolo 25 del Libro XXXVI della sua opera enciclopedica Historia

Naturalis, fu bensì il pastore cretese “Magnes” a scoprire e a dare il suo nome

al magnes lapis. Egli stava passeggiando per la campagna, quando, con sua

sorpresa, il bastone ricoperto di ferro col quale camminava si attaccò ad una

roccia: lottando contro la forza che proveniva dalla roccia magnetica, il pastore

cadde a terra. Stupito ed impaurito, Magnes tornò a casa e riferì la sua strana

esperienza ai propri compaesani. Le persone del villaggio andarono a vedere con i propri occhi la

roccia con la strana proprietà di attrarre qualsiasi oggetto costituito da ferro, pensando che si

trattasse di magia …

Agli inizi dell’800, l’idea che la natura possedesse un’unità dinamica andò

diffondendosi. Il fisico danese Oersted effettuò nel 1820 un famoso

esperimento per dimostrare le interazioni tra elettricità e magnetismo. In

questo esperimento vi era un ago magnetico che, posto nelle vicinanze di un

filo percorso da corrente, subiva l’azione di una forza che ne deviava la

posizione iniziale. L’azione di questa forza

determinava la rotazione dell’ago magnetico, perciò la

causa della rotazione non poteva essere una forza, ma

un momento. Un altro dato significativo è da attribuire al fisico francese

Ampère che descrisse il magnetismo come un aspetto dell’elettricità in

movimento. Mentre in generale un magnete e una carica in quiete non

interagiscono tra loro, una carica in moto esercita un’azione su un polo

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magnetico: quindi i magneti non sono le uniche sorgenti di campo magnetico. Dall’esperimento di

Oersted consegue che una corrente elettrica circolante in un filo è in grado di produrre un campo

magnetico. Con l’unificazione degli studi dei fenomeni elettrici e magnetici e delle loro interazioni

nasceva così l’elettromagnetismo.

Prendendo in mano una barretta magnetica, la prima cosa della quale ci si

accorge è che essa presenta due centri di forza, ovvero due poli magnetici, che

corrispondono alle due estremità. Questi due poli sono stati denominati polo

nord e polo sud. Successivamente, prendendo in considerazione due magneti,

si nota un comportamento regolare di attrazione e repulsione tra le estremità di

uno dei magneti e quelle dell’altro: infatti ciascuna estremità di un magnete è

attratta verso un’estremità dell’altro magnete e respinta dall’altra. I poli magnetici si presentano

sempre in coppia, formando il dipolo magnetico. Pur spezzando una barretta magnetica in due

(ottenendo pezzi più piccoli) otterremmo in ogni caso un polo nord e un polo sud. Perciò si ha

sempre a che fare con due poli. Questo magnetismo è dovuto a delle cariche elettriche in

movimento.

Il campo magnetico:

Il magnete, sia artificiale che naturale, modifica lo spazio

circostante determinando un campo di forze chiamato campo

magnetico (grandezza vettoriale rappresentata dal vettore

induzione magnetica B). Ogni punto del campo ha un'intensità,

una direzione e un verso. Direzione e verso sono definiti come

la direzione e il verso in cui punta il polo nord dell'ago di una

bussola di prova posta in quel punto. Per trovare l'intensità,

consideriamo una particella carica (indichiamo con q la carica stessa) che, muovendosi a velocità

costante, penetri in una regione dello spazio in cui è presente un campo magnetico uniforme diretto

perpendicolarmente alla velocità della particella. Quando quest’ultima entra nel campo magnetico,

essa viene deflessa lungo una traiettoria curva, che analizzata si rivela circolare. Una deflessione del

genere deve essere causata da una forza che giace nel piano della traiettoria della particella e che sia

in ogni punto perpendicolare la velocità della particella. Di che forza si tratta quindi? Sappiamo per

certo che non è presente né un campo elettrico né la forza di gravità, pertanto in un campo

magnetico una particella carica può essere soggetta a una forza. Variando l’entità della carica

elettrica della particella, la sua velocità e l’intensità del campo magnetico, si

trova che l’intensità della forza che devia la particella carica è direttamente

proporzionale a ciascuna di queste tre grandezze: F=qvB

B rappresenta la forza magnetica per unità di carica in moto e per unità di

velocità. Da questa equazione si deduce che l’unità di misura SI del campo

magnetico è il N/C x (m/s) (unità di misura chiamata tesla (T)). La forza F che

compare nell’equazione precedente è detta forza di Lorentz.

La direzione e il verso della forza che agisce su una carica elettrica in moto in un campo magnetico

si possono ricavare attraverso la regola della mano destra:

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a) Se il pollice della mano destra punta nel verso di v e l’indice punta nel verso di B, il medio teso

punta nel verso di F, nel caso di una particella carica positivamente. b) Se le dita della mano destra

sono puntate nel verso di v e quindi curvate verso la direzione di B, il pollice teso della mano punta,

nel caso di una particella carica positivamente, nella direzione e nel verso di F. Se la particella è

carica negativamente, il verso della forza F è opposto a quello in cui punta il pollice.

Puntando il pollice della mano destra nel verso della velocità e l’indice nel verso del campo, il dito

medio, disposto perpendicolarmente al piano individuato dai primi due (dalla parte del palmo)

indica il verso di F.

Anche il campo magnetico come quello elettrico ha un flusso e una circuitazione.

Il flusso è una misura del numero di linee di forza del campo magnetico che

attraversano una data superficie. Consideriamo dapprima un piccolo

magnete;le linee di forza del campo B escono dal polo nord del magnete per

rientrare nel polo sud. Sappiamo che non è possibile scindere i due poli

poiché, spezzando il magnete, otterremmo solo due magneti più piccoli ma

con caratteristiche uguali al magnete da cui derivano. Ogni microscopico

dipolo, all’interno del magnete, crea il proprio campo magnetico e

l’inscindibilità dei due poli impedisce alle linee di forza di “spezzarsi”. È

come se tali linee proseguissero all’interno del magnete, richiudendosi su se stesse: il campo

magnetico è caratterizzato da linee di forze chiuse.

Al contrario una carica elettrica puntiforme positiva può essere considerata come una “sorgente”, da

cui si originano le linee del campo elettrico, e un “pozzo” in cui le linee di campo hanno termine,

quindi le linee del campo elettrico sono linee aperte: hanno un’origine ed eventualmente un

termine. Questa fondamentale differenza tra campo elettrico e magnetico si riflette nel calcolo del

flusso del campo B attraverso una superficie chiusa. Se indichiamo con S il vettore diretto

perpendicolarmente al piano della superficie e avente l’intensità pari all’area di S, avremo che:

Dove Ѳ è l’angolo formato dai vettori B e S, considerando B uniforme nella regione delimitata da

S. Nel caso in cui la superficie non sia piana, possiamo immaginare di suddividerla in tante piccole

aree elementari ∆S₁, ∆S₂, … ,∆Sn, ciascuna delle quali possa essere considerata piana e formi un

angolo Ѳi con il campo Bi, che rappresenta il vettore campo magnetico relativo alla superficie ∆Si.

Il flusso complessivo si ottiene dalla somma dei flussi elementari:

Page 34: Tesina di Luca Pantano

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Questa equazione definisce il flusso del campo magnetico attraverso la superficie S, talvolta

denominato flusso dell’induzione magnetica. L’unità di misura del flusso dell’induzione

magnetica è i weber (Wb), che equivale nel SI al tesla per metro quadrato (Tm²).

Consideriamo ora una superficie ideale chiusa S che racchiude un magnete. Se le linee del campo B

sono chiuse, necessariamente a ogni linea di forza uscente dalla superficie S ne corrisponde sempre

una entrante. Poiché le linee uscenti ed entranti contribuiscono al calcolo del flusso di B con segni

opposti, possiamo affermare che il flusso totale che attraversa la superficie S è nullo. Queste

semplici osservazioni ci permettono di enunciare il teorema di Gauss per il campo magnetico:

Il flusso del campo magnetico attraverso una qualunque superficie chiusa è

sempre nullo

La circuitazione del campo magnetico, calcolata lungo una linea chiusa, è proporzionale

all’intensità di corrente che attraversa la superficie delimitata dalla linea stessa. Una corrente che

attraversa la superficie delimitata dalla linea chiusa viene definita corrente concatenata al

circuito. Nel caso in cui più correnti siano concatenate alla linea chiusa, potremmo fare questo

esempio: consideriamo un generico circuito, fissiamo come verso di percorrenza della linea il verso

antiorario. Al circuito sono concatenati due fili rettilinei percorsi dalle correnti I₁ e I₂. Indichiamo

con il simbolo x la corrente entrante nel piano del foglio e con il simbolo . la corrente uscente (I1 e

I2). In questo caso la circuitazione del campo magnetico è data da:

La costante μ0 si chiama permeabilità magnetica del vuoto e vale: μ0 = 1,26 10-6

N / A2

Generalizzando ulteriormente potremmo ricavare:

Questa equazione esprime il cosiddetto teorema della circuitazione di Ampère, che possiamo

enunciare in questo modo: la circuitazione del campo magnetico lungo una linea chiusa è data dal

prodotto fra la permeabilità magnetica µ₀ e la somma algebrica delle correnti che attraversano la

superficie delimitata dalla linea chiusa.

Proprietà magnetiche della materia:

Le sostanze in base alla loro permeabilità relativa

possono essere divise in: paramagnetiche (permeabilità assoluta di poco superiore a quella del

vuoto), ferromagnetiche (permeabilità variabile con la saturazione, inizialmente crescente e poi

decrescente) e diamagnetiche (permeabilità assoluta di poco inferiore a quella del vuoto).

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Nel 1846 Faraday scoprì che un campione di

bismuto avvicinato ad un magnete veniva da esso

debolmente respinto. Questo comportamento

anomalo si verificava anche con argento, rame,

mercurio e acqua. Faraday chiamò diamagnetiche

tutte queste sostanze ( chiamate nel parlare tutti i

giorni "sostanze non magnetiche"). Le sostanze

sotto la forma di diamagnetismo hanno atomi e

molecole prive di un momento proprio di dipolo magnetico, in quanto gli

effetti magnetici di tutti i moti degli elettroni si annullano. I materiali

diamagnetici sono dunque sostanze che vengono debolmente respinte da un

campo magnetico.

Il paramagnetismo è una forma di magnetismo che alcune

sostanze mostrano solo in presenza di campi magnetici,

polarizzandosi nello stesso senso rispetto al campo applicato. I

materiali paramagnetici sono caratterizzati a livello atomico da

dipoli magnetici che si allineano con il campo magnetico

applicato, venendone debolmente attratti. In particolare, il

paramagnetismo si osserva in quei

materiali le cui molecole posseggono un

momento di dipolo magnetico proprio, come l'aria e l'alluminio. Nel caso

dell'aria, l'effetto paramagnetico è a carico della molecola di ossigeno, che

possiede doppietti elettronici spaiati degli orbitali esterni responsabili

dell'effetto. Contrariamente ai materiali ferromagnetici (attratti da campi magnetici allo stesso

modo), i materiali paramagnetici non conservano la magnetizzazione in assenza di un campo

esterno applicato. Esempi di sostanze paramagnetiche sono: alluminio, calcio, ossigeno, platino,

sodio, potassio, uranio, magnesio.

Il ferromagnetismo è la proprietà di alcuni materiali di essere

fortemente magnetizzati anche se non sottoposti ad alcun campo

magnetico esterno. Questa proprietà si mantiene solo al di sotto

di una certa temperatura, detta temperatura di Curie (per il ferro

questa temperatura è 768°C), al di sopra della quale il materiale

si comporta come un materiale paramagnetico. Sono materiali

ferromagnetici la magnetite e il ferro

cobalto, nichel, numerosi metalli di

transizione e le loro rispettive leghe. I materiali ferromagnetici diventano a

loro volta dei magneti quando vengono immersi in un campo magnetico

esterno, poichè l'effetto del campo magnetico è quello di orientare i momenti

magnetici propri delle molecole parallelamente alla direzione del campo

stesso. Nelle sostanze ferromagnetiche è particolarmente accentuata la

tendenza a "catturare" le linee di campo magnetico, propria anche delle

sostanze paramagnetiche. Tale fatto viene utilizzato al fine di creare degli

schermi magnetici che rendono lo spazio al loro interno praticamente

insensibile ai campi magnetici esterni. Anche nei materiali ferromagnetici

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gli atomi hanno un momento magnetico non nullo, ma l’orientamento di questi momenti magnetici

non è completamente casuale. Infatti fra gli atomi vicini del materiale vi è una

forte interazione che porta alla formazione di gruppi di atomi, detti domini

magnetici (o domini di Weiss, dal nome del fisico che nel 1907 ne ipotizzò

l’esistenza), all’interno dei quali tutti gli spin sono allineati tra di loro, ma i

diversi domini sono disallineati tra di loro. Sotto l’azione del campo magnetico

i domini che hanno un orientamento magnetico parallelo alle sue linee di forza

tendono a modificare l’orientamento dei domini vicini allineandoli con il

campo magnetico esterno o facendo contrarre tutti i domini il cui campo

magnetico non è allineato con quello esterno. Si ha quindi un notevole incremento del campo

esterno.

Applicazioni pratiche dell’elettromagnetismo

Grazie all’elettromagnetismo ci è concesso l’utilizzo di diversi strumenti che sono in grado di

facilitare gli studiosi e i ricercatori nella loro routine quotidiana. Tra questi dispositivi vi sono:

Il galvanometro:

Il motore in corrente continua:

Il tubo a raggi catodici:

Lo spettrometro di massa:

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BIBLIOGRAFIA

Testi scolastici:

G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia, dalla storia

al testo. Vol. F. Il Decadentismo. Paravia Editore, 2000.

J.D. Wilson, A.J. Buffa, Fisica. Percorsi e Metodo Vol.3, Principato, 2004.

A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Nuovi Profili Storici Vol.3: Dal 1900

a oggi, Laterza Edizioni Scolastiche, 2008.

Testi storici e/o riguardanti la disciplina numismatica:

Lucia Travaini, Storia di una passione: Vittorio Emanuele III e le monete,

Edizioni Quasar, 2005.

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38

Fabio Gigante, Catalogo Nazionale delle monete italiane dal 1700 all’euro:

Gigante 2012, Gigante Editore, 2012.

Altre fonti:

- I materiali storici originali dell’epoca (tra cui foto e decreti) sono stati gentilmente donati da

alcuni amici di un forum sul web che tratta di

numismatica, al quale io stesso sono iscritto:

http://www.lamoneta.it.

- Acquisizione immagini: l’80% delle foto sono state realizzate da mio zio, Roberto Palladini

(http://www.robertopalladini.it), e le monete che compaiono sono tutte quante appartenenti

alla mia collezione. Il 20% rimanente mi è stato prestato da alcuni amici appartenenti al

forum sopra citato.

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La mia bella, seppur giovane, collezione numismatica:

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