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Indice
Introduzione pag. 2
Capitolo 1 – I rapporti economici internazionali pag. 5
1.1 Le teorie di base dello scambio internazionale pag. 5
1.2 Una rassegna delle principali teorie sugli investimenti
diretti esteri pag. 10
1.3 Le nuove teorie del commercio internazionale pag. 22
1.4 Globalizzazione dell’economia e le imprese multinazionali pag. 31
1.5 Analisi dei rischi nel commercio internazionale pag. 47
Capitolo 2 - Le imprese agroalimentari italiane e lo
scenario internazionale pag. 54
2.1 Ide e commercio internazionale nel settore agricolo pag. 54
2.2 Internazionalizzazione del sistema agroalimentare italiano pag. 66
2.3 La Politica Agricola Comunitaria e i suoi pilastri pag. 81
2.4 Politiche fiscali di incentivazione pag.112
Capitolo 3 - La struttura del sistema agroalimentare siciliano pag. 116
3.1 Il comparto ortofrutticolo nel sistema agroalimentare della
regione pag. 116
3.2 Le politiche a favore delle imprese siciliane pag. 128
3.3 Analisi di un caso: Società Agricola Monterosso pag. 140
Conclusioni pag. 158
Bibliografia pag. 161
Sitografia pag.164
1
Introduzione
La nuova sfida a cui sono chiamate oggi le imprese è quella di essere
competitive in un contesto sempre più internazionalizzato dove si rileva
una maggiore pressione concorrenziale di carattere sovranazionale e
dove è possibile accedere a nuovi mercati, trovando nuove opportunità di
sviluppo.
Per spiegare il concetto di internazionalizzazione è importante
sottolineare come a lungo alcuni studiosi hanno utilizzato questo termine
in un’accezione riduttiva, riferendosi implicitamente o esplicitamente
all’aspetto puramente commerciale, quindi alla tendenza delle imprese a
vendere i propri prodotti all’estero.
Il fenomeno dell’internazionalizzazione presenta anche altri aspetti, oltre
quelli più strettamente legati alla produzione, e deve essere inquadrato
nell’ambito dei cambiamenti che interessano le strategie e le azioni di
marketing.
Per internazionalizzazione si intendono i processi evolutivi delle imprese
industriali, essenzialmente quantitativi in quanto volti ad ampliare
l’estensione geografica dello spazio economico. Quando si parla di
globalizzazione si intende invece un processo qualitativamente
differente, che non riguarda unicamente l’estensione geografica delle
attività economiche, ma anche e soprattutto l’integrazione funzionale di
queste attività distribuite a livello internazionale, per cui i manufatti ed i
servizi prodotti esprimono un complesso insieme di legami in una catena
di produzione che coinvolge numerosi paesi.
La globalizzazione ha portato ad un crescente movimento di capitali a
livello internazionale, alla diffusione di tecnologie di provenienza
plurinazionale ed alla nascita di mercati sopranazionali, perciò viene
coniato il termine villaggio globale.
La globalizzazione implica una forma di produzione internazionalizzata
in cui le attività generatrici del valore, possedute, controllate e gestite
dall’impresa si distribuiscono su una pluralità di mercati per cui una
2
quota crescente del valore della ricchezza è prodotta e distribuita
tramite un complesso ventaglio di processi e di relazioni che integrano,
tramite le imprese, le diverse economie nazionali.
Tali nuovi tipi di relazioni non si esprimono nella mera espansione
internazionale della singola impresa, bensì nello sviluppo di una
divisione del lavoro tra imprese fondate in misura crescente sugli accordi
e la cooperazione tra soggetti diversi. Il passaggio da un contesto
aziendale nazionale a uno internazionale comporta un aumento di
complessità.
In un ambiente internazionale, il potenziale di vantaggio competitivo di
un’azienda è determinato sia dalle proprie risorse e competenze, ma
anche dalle condizioni dell’ambiente nazionale in cui opera, inclusi i
prezzi dei fattori di produzione, i tassi di cambio e una molteplicità di
altri elementi.
Le forze trainanti del processo di internazionalizzazione sono, in primo
luogo, i tentativi di sfruttare le possibilità offerte dai mercati esteri e, in
secondo, il desiderio di sfruttare le opportunità produttive localizzando le
attività dove possono essere gestite in modo più efficiente. In ogni caso, i
benefici ottenibili da una delocalizzazione all’estero delle varie fasi della
catena del valore di un’impresa devono essere confrontati con i maggiori
costi legati al coordinamento di attività disperse a livello globale, inclusi
quelli di trasporto e di magazzino. La globalizzazione dell’economia ha
comportato e comporta la creazione di una rete internazionale di
transazioni che riguarda merci, persone, capitali e servizi.
Le imprese italiane denotano una certa difficoltà nel presenziare
in contesti internazionali, mostrano un ritardo in termini di esportazione
rispetto ai concorrenti dell’area euro. Una possibile spiegazione potrebbe
risiedere nella fragilità del sistema produttivo italiano e nel cosiddetto
“ nanismo ” tipico delle nostre imprese. Se consideriamo poi gli
investimenti diretti all’estero questi costituiscono il 3.5 % del totale
mondiale. Le opportunità offerte dai mercati mondiali aprono nuove
3
possibilità alle imprese di poter accedere a processi produttivi innovativi
e avanzati, a nuovi mercati e nuove risorse. La nostra attenzione è
focalizzata sul sistema agroalimentare italiano nel contesto
internazionale. Tale settore, ampiamente riconosciuto come uno dei
settori fondamentali della nostra economia, fa parte di una delle “4 A”
del made in Italy italiano, poiché tali prodotti sono ampiamente esportati
e costituiscono un elemento di traino per l’economia nazionale. Le
industrie agroalimentari sono orientate all’esportazione verso i paesi
esteri piuttosto che agli IDE in quanto la produzione e la trasformazione
dei prodotti agricoli deve essere svolta in un ambiente pedo – climatico
favorevole come quello mediterraneo tipico dell’Italia.
I dati analizzati fanno registrare un incremento delle esportazioni nei
primi mesi del 2010 in presenza di un netto calo dei prezzi a livello
internazionale. Le imprese agroalimentari italiane hanno avuto un
notevole sviluppo internazionale negli ultimi anni, anche grazie al
sempre più forte attaccamento ai brand italiani sinonimo di qualità.
Il ruolo ricoperto dalle politiche europee di incentivazione delle imprese
agroalimentari, con riferimento alla Pac ed ai suoi pilastri, ai fondi
europei per lo sviluppo agricolo regionale ed alle politiche fiscali,
fornisce un supporto fondamentale per le imprese sia di piccole che di
grandi dimensioni operanti in tale settore che intendono sviluppare
rapporti con il mercato estero.
4
CAPITOLO 1 – I rapporti economici internazionali
1.1 Le teorie di base dello scambio internazionale
L’internazionalizzazione delle imprese è uno degli effetti più evidenti
dell’integrazione economica su scala mondiale e le imprese possono
creare o acquistare facilmente attività produttive all’estero al fine di
sfruttare i relativi vantaggi di costo.
La globalizzazione è quel fenomeno di crescita a livello mondiale
riguardante le interrelazioni fra i diversi sistemi economici e sociali,
mediato da istituzioni economiche. I processi di internazionalizzazione
sono da tempo studiati dalla teoria economica, indagando sia sulle
ragioni del commercio tra paesi sia sulle motivazioni che spingono agli
investimenti diretti all’estero (IDE).
Il Fondo Monetario Internazionale, nel 1997, ha dato una definizione
approssimata della globalizzazione, definendola come quella crescente
interdipendenza economica tra paesi realizzata attraverso l’aumento del
volume e delle varietà di beni e servizi scambiati internazionalmente, la
crescita dei flussi internazionali di capitali e la rapida ed estesa
diffusione della tecnologia.
In altre parole, questa crescita degli scambi internazionali di beni, servizi
e tecnologia congiuntamente a quella del flusso dei capitali stanno dando
luogo ad una forte interdipendenza economica ossia ad un fenomeno
che si può definire di globalizzazione.
Numerosi storici fanno risalire questo fenomeno a svariati secoli
precedenti, altri ritengono che risalga ai tempi della scoperta
dell’America, mentre altri ancora ritengono che già prima della I e II
guerra mondiale il fenomeno fosse già presente anche se poi disgregato
dagli eventi bellici.
Il commercio internazionale è un aspetto della teoria economica che
applica modelli microeconomici all’analisi dell’economia internazionale
e gli strumenti teorici utilizzati sono quelli classici della teoria dei prezzi
e dei mercati.
5
La finanza internazionale applica la macroeconomia all’economia
internazionale, e si interessa pertanto di variabili quali il PIL, il tasso di
occupazione, il saggio di interesse, il tasso di inflazione, il saldo della
bilancia commerciale e così via. Un’impresa può agire sui mercati esteri
in vari modi. I più comuni riguardano:
- l’acquisto di prodotti e materie prime da fornitori esteri (scegliendo
quindi mercati di approvvigionamento internazionali);
-la produzione in unità localizzate all’estero, attraverso la costituzione di
vere e proprie unità produttive in loco che richiede un notevole sforzo
economico e gestionale, e/o la produzione da parte di terzi all’estero, in
particolare in Paesi nei quali i costi del lavoro sono inferiori o in Paesi
vicini ai mercati di approvvigionamento o di sbocco (con uno sforzo di
carattere organizzativo ma senza esposizione economica);
- la vendita dei propri prodotti su mercati esteri, che richiede un
particolare impegno nel marketing: l’impresa deve infatti svolgere
accurate ricerche di mercato per comprendere bisogni e comportamenti
dei consumatori esteri, senza commettere l’errore di ritenere che i clienti
esteri si comportino allo stesso modo dei clienti italiani e non
riconoscendo differenze culturali. L’esportatore deve studiare e
analizzare la concorrenza, i prezzi applicati sul mercato, i canali di
distribuzione, i vantaggi e gli svantaggi di esportare in quel paese, i punti
deboli e i punti vincenti, i prodotti complementari, le possibili barriere
d’entrata (leggi, dazi doganali, ecc.).
Diverso dalle esportazioni è il traffico di perfezionamento passivo che
consiste in una operazione di esportazione di merci ed una successiva
loro importazione, dopo che esse hanno subito trasformazione,
lavorazione o riparazione (l’aggettivo passivo si deve al fatto che il
regime doganale comporta una passività per il paese che lo effettua).
6
Questo tipo di operazione rappresenta una forma di decentramento
produttivo, che nel caso italiano viene applicato spesso nel settore del
tessile – abbigliamento e calzaturiero.
Esistono cinque fondamentali motivi per cui si ha commercio tra paesi
diversi: a) differenze tecnologiche (nel modello ricardiano del vantaggio
comparato il commercio è dovuto proprio alle differenze tecnologiche);
b) differenze nella dotazione di risorse (nel modello di puro scambio
e nel modello di Heckscher- Ohlin è questa la motivazione base); c)
differenze nella domanda; d) esistenza di economie di scala; e) esistenza
di politiche pubbliche.
David Ricardo1 nel 1817 introduce la teoria neoclassica del vantaggio
comparato, basata sulla immobilità del lavoro tra paesi e sulla perfetta
mobilità interna, sostenendo che i paesi commerciano tra loro perché il
lavoro ha una diversa produttività tra i paesi. Egli dimostra che contano i
vantaggi comparati di costo: ogni paese tende ad esportare i beni che
riesce a produrre nel modo più efficiente e importa quelli che produce in
maniera inefficiente. Di conseguenza a ciascun paese conviene
specializzarsi nella produzione di un solo bene, ovvero quello in
cui il suo vantaggio è più elevato.
Ricardo formulò la teoria del vantaggio comparato su di una serie di
ipotesi semplificatrici: 1) solo due paesi e due beni; 2) libero scambio; 3)
perfetta mobilità del lavoro all’interno di ciascun paese, ma completa
immobilità da un paese all’altro; 4) costi di produzione costanti; 5)
assenza di costi di trasporto; 6) assenza di mutamenti tecnologici; 7) la
teoria del valore-lavoro. L’ultima ipotesi presenta particolari problemi
quando si voglia generalizzare la teoria del vantaggio comparato, ad
esempio perché il lavoro non è il solo fattore di produzione e non è un
fattore omogeneo. La spiegazione della teoria del vantaggio comparato
1 ? Ricardo D. (1817), “Principles of Political Economy and taxation”, John Murray Edition, London, Cap. 2 pag. 5 – 28.
7
sulla base della teoria del costo-opportunità, piuttosto che sulla base
della teoria del valore-lavoro, assume maggiore generalizzabilità.
Tuttavia questa teoria è stata modificata da Heckscher2 – Olhin3 nel corso
degli anni ‘30, con l’intento di evidenziare l’importanza del fattore
capitale. L’obiettivo di tale teoria è quello di spiegare le cause del
vantaggio comparato e di esaminare gli effetti del commercio
internazionale sulle remunerazioni dei fattori produttivi. Secondo la
teoria le differenze nei costi relativi emergono dalle differenze nelle
quantità relative di fattori disponibili nei due paesi. Un paese
relativamente ricco in forza lavoro e povero in capitale si specializzerà
nella produzione di prodotti ad alta intensità di capitale. Il modello si
basa sui seguenti assunti:
- due paesi; due fattori produttivi (lavoro e capitale) e due prodotti;
- i produttori nei due paesi hanno lo stesso livello di informazione,
tecnologie;
- i fattori della produzione sono mobili all’interno del paese ma non tra paesi;
- mobilità dei prodotti internamente ai paesi e anche tra paesi;
- i mercati dei prodotti e dei fattori produttivi sono perfettamente concorrenziali
- le preferenze dei consumatori nei due paesi sono le stesse.4
La dotazione fattoriale è dunque la causa dei vantaggi comparati ed il
commercio internazionale sostituisce la mobilità internazionale dei
fattori come meccanismo di pareggiamento dei rendimenti assoluti e
2 ? Heckscher E. (1919), “The effect of foreign trade on the distribuition of income”, in H. Ellis, L.A. Metzler (Eds.), “Readings in the theory of International trade”, Allen and Unwin, London, (1950), pag. 272 – 300.3 Olhin B.,(1933), “Interregional and International trade”, ed. 1967, Harvard University Press, Cambridge (MA), pag. 7 – 20.
4 ? Jetto – Gilles G. ( 2005), “Imprese transnazionali”, Carocci Editore, Roma, pag. 59 – 60.
8
relativi dei fattori omogenei tra paesi. La teoria presentava un modello di
equilibrio generale (benché limitato a due paesi, due prodotti e due
fattori) poiché esamina l’equilibrio simultaneo dei mercati dei beni e dei
fattori. L’analisi di Ohlin fa specifico riferimento agli investimenti di
portafoglio e considera che i movimenti di capitale siano indipendenti
dalla altre variabili dell’economia interna.
Il suo obiettivo è quello di analizzare la nuova posizione di equilibrio
che si viene a creare a seguito dei disturbi causati da movimenti di
capitale. L’analisi è estesa agli effetti sui tassi di cambio, ragioni di
scambio, importazioni ed esportazioni5.
Uno dei principali limiti individuati in questo modello è che esso si
concentra sul commercio di merci fra paesi senza alcuna
considerazione delle imprese come soggetti competitivi, ovvero non si fa
alcun riferimento ai cambiamenti tecnologici ed ai cambiamenti
manageriali dell’impresa internazionale.
In breve, la formulazione dei modelli tradizionali non corrisponde alla
realtà dei mercati “imperfettamente concorrenziali”, in cui i divari
tecnologici spiegano la diffusione e i ritardi tra le imprese e fra i paesi
nella specializzazione produttiva, in cui le tecnologie e le informazioni
non sono liberamente disponibili, in cui giocano un ruolo rilevante la
differenziazione e la diversificazione dei prodotti per sfruttare economie
di scala e innalzare le barriere all’entrata6.
Dunque il problema principale nell’analisi neoclassica è legato
all’ipotesi non realistica di concorrenza perfetta.
Tale ipotesi rappresentava forse un’approssimazione non eccessivamente
irragionevole della realtà nel momento in cui la teoria neoclassica è stata
inizialmente applicata al commercio internazionale. Essa diventa,
invece, troppo lontana dalla realtà quando si considerano le attività delle
imprese transnazionali7. Mundell corregge il modello H-O introducendo
5 ? Jetto – Gilles G., op. cit.. pag 61.6 ? Valdani E. – Bertoli G. (2006), “Mercati internazionali e marketing”, Egea, Milano, pag 48.7 ? Jetto – Gilles G., op. cit. pag 63.
9
per la prima volta i flussi di investimento internazionale e modifica due
ipotesi: presenza di ostacoli nello spostamento dei beni da un paese
all’altro; libertà di circolazione del capitale su scala internazionale. In
queste condizioni, i flussi internazionali di capitale assicurano che venga
raggiunto un equilibrio simile a quello del libero scambio, in cui i prezzi
relativi dei fattori e dei prodotti sono identici nei due paesi.
Se il capitale può circolare a livello internazionale, esso tenderà a
spostarsi dal paese X, dove percepisce minore remunerazione, verso il
paese Y, dove maggiore è il valore degli interessi, provocando un
cambiamento della dotazione dei fattori nei due paesi e, quindi, anche
delle loro possibilità produttive.
I flussi di capitale si arrestano solo quando i prezzi relativi dei fattori
sono identici nei due paesi, raggiungendo l’equilibrio nel punto di
tangenza tra le curve che indicano le nuove frontiere delle possibilità
produttive.
L’uguaglianza dei prezzi relativi dei fattori conduce ad una progressiva
convergenza anche dei prezzi relativi dei prodotti; nel contempo,
però, il movimento internazionale del capitale provoca anche una
riduzione della differenza nella dotazione fattoriale dei due paesi,
erodendo i vantaggi comparati all’origine del commercio che, infatti,
diminuisce progressivamente8.
1.2 Una rassegna delle principali teorie sugli investimenti diretti
esteri
La teoria di Hymer9, sviluppata nella seconda metà del ‘900, parte dalla
differenza tra investimento diretto e quello di portafoglio e indica nel
controllo l’elemento di differenziazione fondamentale. L’investimento
diretto conferisce all’impresa il controllo sulle attività economiche al
8 ? Scoppola M., (2000), “Le multinazionali agroalimentari” , Carocci Editore, Roma, pag. 126.9 ? Hymer S. H., (1960), “ The International operations of national firms: a study of direct foreign
investments”, MIT Press, Cambridge (MA), pubblicato nel 1976, pag. 14 – 35.
10
contrario di quello di portafoglio. Sottolinea che in quello diretto non
ci deve necessariamente essere il trasferimento di fondi dal Paese di
origine a quello ospitante, infatti l’investimento diretto potrebbe essere
finanziato da prestiti accesi nel paese ospitante.
Altro elemento tipico di quello diretto è la bidirezionalità dell’
investimento e il fatto che si concentra tendenzialmente in specifiche
industrie. Hymer, dopo aver delineato la presenza dei vari costi tipici di
un processo di internazionalizzazione, identifica nelle imperfezioni di
mercato la determinante che porta le imprese a sviluppare la produzione
internazionale piuttosto che una modalità esportativa.
Tali imperfezioni di mercato possono riguardare i mercati dei beni, i
mercati dei fattori produttivi, le economie di scala interne ed esterne
e l’ interferenza dei governi nella produzione o nel commercio.
Si pone il problema di verificare il momento in cui le imprese
preferiscono realizzare investimenti diretti all’estero finalizzati alla
produzione locale, piuttosto che il momento opportuno per continuare a
sviluppare flussi di esportazioni di prodotti fabbricati nel paese di
origine. Il modello di Hymer pone al centro dell’attenzione l’impresa e
non il singolo prodotto partendo dalla constatazione che la teoria
tradizionale, quella neoclassica, non riesce a spiegare l’esistenza di
investimenti reciproci tra i paesi avanzati; egli ricerca, nelle
caratteristiche dell’impresa le determinanti che influenzano il processo di
internazionalizzazione.
L’autore assegna all’impresa l’obiettivo di accrescere il proprio potere
di mercato e la quota di mercato, in quanto a questa ultima si associa un
tasso di redditività del capitale investito più elevato rispetto a quello dei
concorrenti.
La possibilità di aumentare la quota detenuta si collega alla capacità di
erigere delle barriere all’entrata che scoraggino i nuovi concorrenti e che
obblighino, in modo coatto, i produttori meno efficienti ad uscire dal
mercato.
11
Tali barriere riguardano il possesso di vantaggi competitivi di varia
natura: il controllo tecnologico, le economie di scala, la notorietà della
marca, il patrimonio di conoscenze e competenze e il controllo dei canali
distributivi.
Nella fase iniziale di sviluppo delle imprese, il mercato servito è quello
interno, a causa delle difficoltà che si verificano nella vendita sui mercati
esteri. L’impresa cresce a livello nazionale attraverso un processo di
concentrazione (aumento delle quote di mercato, acquisizioni e fusioni)
che le consente di ottenere profitti sempre maggiori. Ad un certo punto,
tuttavia, il processo di concentrazione a livello locale non può più essere
spinto oltre a causa di un numero ristretto di grandi imprese; pertanto,
l’elevato profitto derivante dal grado di monopolio raggiunto è rimasto
utilizzabile per gli investimenti diretti all’estero, i quali hanno come
obiettivo l’estensione del processo di crescita dell’impresa oltre
frontiera.
Una volta scelta la produzione in loco nei confronti delle esportazioni,
l’impresa dovrà decidere se intervenire direttamente (tramite IDE10)
oppure cedere licenze a produttori locali. Tale scelta sarà condizionata
soprattutto dalla natura degli specifici vantaggi competitivi posseduti
dall’impresa.
In particolare, l’IDE risulterà favorito quanto più i vantaggi competitivi
consistono nel possesso di conoscenze e competenze specialistiche, che
difficilmente possono essere valorizzate attraverso la cessione di licenze
o tramite accordi di collaborazione nella fase di ricerca/sviluppo e/o di
produzione.
A questo punto l’autore si pone il problema dei motivi per i quali
l’impresa decide di sfruttare il proprio vantaggio competitivo tramite
l’IDE anziché vendere il prodotto ad un’impresa locale tramite qualche
forma di accordo contrattuale.
10 ? Investimento diretto estero.
12
Secondo Hymer, un’ impresa, qualora decida di dar vita ad una propria
unità organizzativa all’estero, è destinata ad incontrare una serie di
svantaggi competitivi. Essa si trova ad affrontare costi connessi alla
necessità di interagire con culture, con lingue e con sistemi
amministrativi e sociali diversi che rendono più costosa la sua operatività
rispetto alle aziende già presenti nel territorio.
Inoltre, per un’ impresa estera, i costi per l’acquisizione di determinate
conoscenze, soprattutto del mercato, possono essere rilevanti.
Allora ci si chiede per quale motivo le imprese, nonostante la presenza di
questi costi, decidono di realizzare ugualmente degli investimenti diretti
all’estero.
Le motivazioni sono da ricondursi, principalmente, al possesso di
vantaggi di tipo oligopolistico riproposti dall’impresa stessa su scala
internazionale. Più precisamente, quando un’ impresa decide di investire
all’estero dovrà poter compensare i maggiori costi sostenuti con dei
vantaggi competitivi durevoli, ed è proprio per l’ effetto di questi
vantaggi che le aziende riescono ad essere competitive.
Dunque, l’IDE può avvenire solo in presenza di imperfezioni di mercato
tali da indurre le imprese a sostituire la tradizionale esportazione
all’investimento diretto. La teoria seminale di Hymer rappresenta un
punto di rottura rispetto alla tradizione sia precedente che successiva.
Uno dei principali elementi della sua teoria è l’accento sulla rimozione
dei conflitti dal mercato in cui operano le imprese.
Secondo la sua concezione, le principali determinanti dell’investimento
diretto estero sono in larga misura le stesse che generano l’investimento
in generale, sia a livello nazionale che internazionale, in condizioni di
oligopolio. Inoltre si riscontra un eccessivo accento sui costi delle
operazioni all’estero. Questa è una posizione comprensibile negli anni
Cinquanta e Sessanta; da allora però tali costi e rischi si sono
notevolmente ridotti11.
11 ? Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 72.
13
Un'altra interessante teoria, che si distacca da quella di Hymer, è la
“teoria del gap tecnologico” formulata per la prima volta da Posner12
(1961) che si concentra sugli sviluppi dinamici che avvengono
all’interno di un settore sotto il profilo del progresso tecnologico.
Posner analizza i meccanismi attraverso i quali un’iniziale innovazione
di prodotto in un paese porta a vantaggi tecnologici cumulativi e a
vantaggi nel commercio internazionale. A differenza di Hymer, che
focalizza la sua attenzione sull’impresa, Posner presta maggiore
attenzione al prodotto ed al tasso di innovazione a questo collegato.
La portata e la durata dei vantaggi del commercio dipenderanno dalla
portata dei vantaggi cumulativi dell’ impresa innovatrice, dalla
velocità con cui si diffonde la domanda per il nuovo prodotto e dalla
velocità di reazione delle altre imprese nazionali e straniere
nell’imitazione del nuovo prodotto13.
Quindi Posner propone una spiegazione del commercio internazionale
fondata sulle “differenze di costo comparato” generate dal differente
tasso di innovazione nei settori tra i vari paesi.
In particolare, i vantaggi economici di un’originaria innovazione in un
settore industriale sono correlati alla durata dell’intervallo temporale
durante il quale il settore innovatore usufruisce di una posizione
monopolistica sui mercati internazionali.
La durata di tale posizione è definita dalla differenza fra il tempo
necessario alle imprese straniere per imitare i nuovi processi produttivi e
il tempo occorrente ai consumatori esteri per manifestare la domanda di
nuovi prodotti14.
Tra l’altro i produttori operanti nel paese innovatore possono trarre il
vantaggio di economie di scala e da qui deriva l’effetto che una prima
innovazione può stimolare una “concentrazione” degli investimenti nel
12 ? Posner M. V., (1961), “ International trade and technical change”, in Oxford Economic Papers”, 13, pag. 323- 341.
13 ? Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 73.14 ? Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 50.
14
settore. Ne consegue un flusso continuo di innovazioni sia di prodotto
che di processo. Anche se il singolo prodotto frutto di innovazione sarà
imitato dai produttori locali, facendo venire meno il flusso esportativo
dal paese innovatore, se si considera il settore industriale innovativo
nel suo complesso (comprendente più prodotti), sarà possibile avere un
flusso esportativo stabile da parte di un paese all’avanguardia di un
settore verso gli altri paesi, proprio in quel settore in cui
esso ha per primo effettuato le innovazioni.
Il contributo di Posner rappresenta senza dubbio un passo importante
nella formulazione delle teorie di internazionalizzazione, tuttavia esso si
concentra esclusivamente su fattori d’offerta, trascurando il ruolo dei
fattori concernenti la domanda, nell’influenzare la capacità di produrre e
di commercializzare un prodotto nuovo sui mercati internazionali.
Linder15 sposta infatti l’attenzione su tali fattori; secondo l’autore, la
varietà di beni manufatti potenzialmente esportabili è determinata dalla
domanda interna:” condizione necessaria, ma non sufficiente, affinchè
un prodotto sia potenzialmente un prodotto di esportazione è che esso sia
consumato nel mercato interno”. Linder afferma che le funzioni di
produzione non sono identiche in tutti i paesi, ma che le funzioni di
produzione dei beni domandati all’interno sono quelle relativamente
convenienti.
Per ciò che riguarda, inoltre, le potenziali importazioni di un paese,
queste ultime sono a loro volta determinate dalla domanda interna; di
conseguenza, la gamma delle esportazioni potenziali è identica o inclusa
in quella delle importazioni potenziali16.
Se due paesi presentano la stessa struttura di domanda, tutti i beni
importabili ed esportabili dall’uno lo sono anche per l’altro. La
conclusione a cui si perviene è che quanto più è simile la struttura della
15 ? Linder B.S. (1961), “ An Essay on trade and transformation”, Almqvist & Wiksel, Stoccolma, traduzione Italiana: in Franco R. e Gerosa C., (1980) “Il commercio internazionale. Teorie e problemi”, Etas, Milano.
16 ? Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 51.
15
domanda di due paesi tanto più intenso è il commercio tra questi due.
Ovviamente bisogna stabilire come fare ad individuare il grado di
somiglianza delle strutture di domanda tra i due paesi; ci sono vari
fattori: il clima e la struttura geografica, la cultura, il reddito pro capite,
la distribuzione del reddito, variabili sociali e cosi via. Ovviamente tali
paesi non effettuerebbero nessuno scambio reciproco se potessero
produrre all’interno, ai medesimi prezzi relativi, i principali prodotti
richiesti dal mercato.
Le stesse forze che danno origine agli scambi all’interno di ciascuno dei
due paesi creano anche gli scambi tra di essi. Il libero scambio tra due
paesi che hanno livelli di reddito pro capite simili avrà gli
stessi effetti del commercio interno.
La teoria di Linder è stata soggetta a varie critiche. Il fatto che si riduce
solo ai casi in cui due paesi abbiano livelli di reddito pro capite simili e il
fatto di non spiegare la composizione merceologica dello scambio tra i
paesi sono alcuni degli aspetti critici messi in evidenza. Tuttavia la
teoria ha avuto un’ampia risonanza anche nel seguito della stessa
evoluzione delle teorizzazioni sul modello del ciclo di vita
internazionale.
Vernon17 negli anni ‘70 indaga sulla scelta localizzativa che affrontano le
imprese. L’autore sviluppa le sue argomentazioni usando una
configurazione a tre stadi del “ciclo del prodotto”. Nel primo stadio
egli considera che le imprese appartenenti ai paesi industrialmente più
avanzati abbiano uguale accesso alle conoscenze scientifiche. Tuttavia, a
parità di accesso a tali conoscenze non corrisponde una uguale
probabilità di applicazione delle stesse nella concreta attività di
produzione, poiché esiste un ampio divario tra la conoscenza di nuove
teorie scientifiche e la loro utilizzazione per produrre nuovi prodotti o
creare nuovi processi produttivi.
17 ? Vernon R., (1966), “ International investment and International trade in the product cycle”, in “Quarterly Journal of Economics”, 80, pag. 190 – 207.
16
Vernon considera come modello il mercato statunitense, in virtù delle
grandi opportunità di sfruttamento delle conoscenze che esso consente e
per la loro incorporazione nei nuovi prodotti. Tra l’altro è un mercato
in cui i consumatori dispongono di un reddito medio pro capite elevato,
è un mercato di ampie dimensioni e anche con abbondanza di capitale.
Secondo l’autore il prodotto innovativo troverà localizzazione proprio
negli USA.
In tale contesto, il prodotto, almeno inizialmente, non ha concorrenti
visto che è nuovo e può essere venduto a prezzi più elevati. Un’offerta a
prezzi così alti trova comunque una domanda corrispondente poiché i
consumatori sono disposti a pagare prezzi elevati grazie alla loro
disponibilità di redditi elevati. Il secondo stadio è caratterizzato sia dallo
sviluppo e maturità del prodotto, sia da una domanda crescente, che
consente alle imprese il conseguimento di economie di scala. Ne
consegue una certa standardizzazione del prodotto.
Tali condizioni fanno diminuire la presenza di barriere all’ingresso e di
conseguenza aumentano i concorrenti. Inoltre, accanto alla domanda
locale (USA) si sviluppa con molta probabilità una domanda diffusa
anche nei paesi europei più avanzati. Per le imprese del paese innovatore
si prospetta quindi l’opportunità di dare avvio ad un processo di
internazionalizzazione.
La domanda dei paesi europei sarà inizialmente soddisfatta dalle
esportazioni statunitensi, tuttavia le imprese americane potrebbero
preferire una produzione diretta all’estero per ovviare alla minaccia
eventuale da parte dei concorrenti europei che iniziano ad imitare il
prodotto e anche per la possibilità di sostenere la produzione a costi più
bassi negli stessi paesi europei.
Infatti la scelta tra esportazione e insediamento produttivo all’estero
dipende anche da variabili di carattere economico: se la somma dei costi
di produzione e di trasporto dei beni esportati è inferiore al costo medio
previsto per produrre nel paese di importazione, è probabile che le
17
imprese preferiscano evitare l’investimento diretto estero, privilegiando
quindi i flussi esportativi. Tuttavia, il progressivo sviluppo della
domanda e la costituzione nei vari paesi avanzati di un mercato interno
di dimensioni adeguate possono costituire una condizione sufficiente per
la successiva decisione di produrre direttamente all’estero18.
Man mano che il prodotto diviene più standardizzato, esso richiederà
processi produttivi che si concentrano su alta intensità di capitale e
lavoro poco qualificato. In tale fase diventano più probabili i
comportamenti imitativi e la concorrenza aumenta. Subentra così il terzo
stadio (standardizzazione e declino del prodotto), che corrisponde alla
scelta di localizzare la produzione in paesi sottosviluppati per
contenere i costi di produzione visto il basso costo del lavoro di tali
paesi. Quindi gli USA perderanno il loro vantaggio competitivo come
localizzazione produttiva.
A distanza di qualche anno Vernon revisiona la teoria analizzando
le mutate condizioni dei paesi europei. In primis l’autore nota un deciso
aumento dell’espansione geografica della rete delle operazioni delle
imprese multinazionali e tra l’altro è anche diminuito il lasso di tempo
tra l’introduzione di un nuovo prodotto negli USA e la sua diffusione in
altri paesi. Dunque le fasi di imitazione del prodotto si sviluppano in
tempi più rapidi rispetto a qualche decennio prima.
In secondo luogo Vernon considera i cambiamenti di carattere
macroeconomico dei paesi europei: le differenze tra Europa e USA si
sono assottigliate, in termini di reddito pro capite, costo del lavoro,
dimensione del mercato e gusti dei consumatori. Ciò lo induce a
concludere che l’ambiente internazionale che aveva portato il ciclo di
vita del prodotto stava scomparendo e che la teoria diventava sempre più
meno applicabile.
Non mancano le critiche al modello di Vernon. Innanzitutto il fatto che
tale teoria offre una spiegazione dell’ origine dei vantaggi comparati
18 ? Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 55.
18
limitata a un segmento particolare del commercio internazionale: quello
di prodotti manufatti concepiti per soddisfare consumatori ricchi. Poi la
sua analisi è criticata per essere limitata al caso delle innovazioni “labour
saving”.
Vernon non ha considerato come le imprese localizzate in paesi poco
dotati di materie prime, come per esempio quelle europee, fossero
interessate a introdurre innovazioni volte a risparmiare questo tipo di
fattore produttivo piuttosto che quello del fattore lavoro.
In ogni caso la teoria ha subito un logoramento, a causa dei profondi
cambiamenti dell’ambiente internazionale al punto che essa è apparsa
sempre meno in grado di fornire un’interpretazione adeguata dei processi
di internazionalizzazione delle imprese.
Infatti, l’assunto che la maggior parte delle innovazioni tecnologiche
provenissero da un unico paese (Stati Uniti), è stato superato con
l’affermarsi delle imprese giapponesi ed europee sui mercati mondiali19.
Un'altra debolezza della teoria è data dall’enfasi eccessiva posta sul
prodotto e sulla sua vita, a scapito dell’impresa in se, ciò impedisce
un’adeguata analisi della diffusione dell’innovazione da prodotto a
prodotto e dei relativi vantaggi in ambito tecnologico, manageriale e di
marketing. Nonostante le critiche, l’accento posto sull’investimento
diretto legato al divario tecnologico costituisce un notevole passo in
avanti rispetto alle teorie precedenti20.
Un altro autore che concentra i suoi studi sugli aspetti inerenti la
localizzazione degli investimenti diretti esteri è Knickerbocker21. La sua
analisi (1970) parte da considerazioni di carattere empirico. Il suo
approccio teorico differisce da quello di Vernon in quanto si concentra
sull’impresa piuttosto che sul prodotto e soprattutto sulle condizioni
macro - economiche del mercato che caratterizzano il commercio
19 ? Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 56.20 ? Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 82.21 ? Knickerbocker F. T. (1973), ‘’Oligopolistic Reaction and Multinational Enterprise’’, Division of
research, Graduate School of Business Administration, Harvard University, Cambridge (MA).
19
internazionale e le scelte di localizzazione produttiva. Egli afferma che
già nel secondo dopoguerra le imprese hanno affrontato processi di
internazionalizzazione in misura sempre maggiore e che molte imprese
(statunitensi) hanno mostrato la tendenza ad indirizzare i loro flussi di
investimenti diretti esteri verso i medesimi paesi ospitanti; poi sostiene
ancora che le imprese impegnate nell’espansione oltre frontiera
appartengono a industrie caratterizzate da strutture oligopolistiche.
Lo studioso propone la differenza tra investimenti aggressivi e difensivi:
i primi indicano la costituzione della prima affiliata in una data industria
in un certo paese ospitante, mentre con i secondi indica la creazione di
affiliata da parte di altre imprese. Le imprese che operano in un sistema
oligopolistico sono consapevoli del fatto che un atteggiamento
aggressivo porterà a reazioni difensive e quindi si svilupperebbe una
concorrenza distruttiva. Così, per evitare questo risultato, le imprese
scarterebbero l’ipotesi di una guerra di prezzo a favore di una
concorrenza basata su altri fattori, come ad esempio la pubblicità.
Tuttavia, in quei settori in cui si verificano cambiamenti rapidi e
caratterizzati da elevati tassi di crescita, le singole imprese potrebbero
trovare conveniente adottare un comportamento aggressivo. A questo
punto, l’autore, considerando che le sole reazioni oligopolistiche non
sono sufficienti a spiegare il motivo della prima mossa dell’impresa,
decide di collocare la sua teoria in un contesto più ampio.
Egli parte dall’assunto base della teoria del ciclo di vita del prodotto di
Vernon: a) il contesto economico statunitense ha portato a delle
opportunità di sviluppo di nuovi prodotti; b) è probabile che i prodotti
siano sviluppati e creati prima nel paese in qui sono stati ideati e poi
all’estero. L’autore arriva ad affermare che le imprese statunitensi
sono state molto abili nell’aprire la strada a nuovi prodotti, anche grazie
allo sviluppo di particolari competenze in R&S, nelle strutture
organizzative e nelle tecniche di marketing.
I mercati e le economie europee restavano indietro rispetto a quelli
20
statunitensi. Le esportazioni di prodotti statunitensi venivano seguite,
in un secondo momento, da IDE, i quali in alcuni casi, venivano
preceduti dalla concessione di licenze.
Le imprese statunitensi ebbero anche vantaggi nel produrre all’estero. Il
loro vantaggio nell’accumulazione di competenze manageriali,
commerciali ed organizzative diede loro un totale vantaggio sulle
imprese locali europee. Altre circostanze possono aver spinto le imprese
statunitensi verso l’intrapresa di IDE piuttosto che verso licenze ed
esportazioni.
L’autore da riferimento all’esistenza di barriere, tariffarie e non, nei pesi
europei, e al fatto che produrre vicino al mercato di sbocco permette alle
imprese di offrire servizi di assistenza e di adattare il prodotto alle
esigenze dei consumatori locali22.
La motivazione di fondo è che gli imprenditori statunitensi mirano a
cercare e sviluppare opportunità e capacità produttive presenti oltre
frontiera. Bisogna ancora spiegare la scelta della mossa difensiva da
parte dei concorrenti.
L’investimento in un paese estero comporta un certo grado di incertezza,
lo stesso vale per le imprese rivali; tuttavia queste corrono dei rischi
anche se non investono: l’impresa che per prima ha rischiato investendo
(quindi la first mover) può trarre vantaggi considerevoli che può usare
per danneggiare i diretti rivali. Infatti tutte le competenze organizzative,
commerciali e manageriali conseguite durante la prima mossa, potranno
essere sfruttate per successive politiche aggressive.
Tutti questi vantaggi possono mutare l’equilibrio competitivo, così
le imprese concorrenti rispondono anch’esse con l’investimento diretto
all’estero. Knickerbocker alla fine spiega il raggruppamento geografico
degli IDE come il risultato di politiche difensive delle imprese tese a
minimizzare i rischi nel contesto di strutture di mercato oligopolistiche23.
22 ? Jetto – Gilles G., op. cit. pag 87.23 ? Jetto – Gilles G.,op. cit. pag. 89.
21
1.3 Le nuove teorie del commercio internazionale
Dopo la seconda guerra mondiale si sviluppa la teoria dell’investimento
diretto estero e dell’impresa multinazionale. Nel corso degli anni ’80,
dopo il declino del primato americano circa la presenza di imprese
multinazionali, si registra lo stesso declino del modello di
internazionalizzazione basato sulla multinazionale classica e si lascia
spazio ai nuovi modelli basati sulla impresa transnazionale e l’impresa
rete.
Secondo l’autore Kojima24 gli investimenti creano commercio quando si
spostano da un paese all’altro in funzione del costo relativo delle risorse,
sempre sulla base dei vantaggi comparati dei paesi. Questi tipi di
investimenti sono stati effettuati dalle multinazionali giapponesi, le quali
hanno trasferito la produzione nei paesi limitrofi a basso costo del lavoro
e con una dotazione di risorse più favorevole. In altri casi tali
investimenti verrebbero effettuati per altri motivi quali ad esempio la
presenza di distorsioni sui mercati come la concorrenza oligopolistica o le
barriere tariffarie presenti nel paese che ospita l’investimento: tali
condizioni indurrebbero le imprese internazionali a trasferire direttamente
all’estero le produzioni. Tale sistema tuttavia ha determinato l’uso di
tecnologie inappropriate in rapporto alle risorse locali del paese ospitante
(come è accaduto nei processi di espansione delle multinazionali
statunitensi) con la conseguente inefficiente allocazione delle risorse.
Le imprese giapponesi, che dagli anni Ottanta fecero il loro ingresso sul
mercato mondiale, dimostrano nella pratica la tesi di Kojima utilizzando
strategie innovative sviluppate all’interno del proprio mercato e rivelatesi
vincenti anche sui mercati internazionali. Le imprese giapponesi si
concentrarono in investimenti diretti all’estero nei settori in cui il Paese
vedeva ridursi i propri vantaggi competitivi a causa dell’incremento dei
24 Kojima K., (1978), “ Direct foreign investment: a Japanese Mode of Multinational Business Operations”, Croom Helm, London, pag. 21 – 47.
22
salari, dei tassi di cambio e della mancanza di materie prime. Gli
investimenti giapponesi erano quindi indirizzati verso i Paesi dell’area
asiatica che permettevano loro di sfruttare le varie strategie sviluppate
all’interno, ma avvantaggiandosi contemporaneamente dei minori costi
di produzione. Ciò ha permesso ad imprese giapponesi prima sconosciute
di diventare concorrenti diretti di multinazionali già presenti nel settore
da diversi anni25.
La teoria di Kojima è molto utile per comprendere gli sviluppi dei
processi di internazionalizzazione delle imprese dal secondo dopoguerra
in poi. In un primo momento le imprese sono diventate multinazionali
soprattutto allo scopo di superare le barriere tariffarie ed hanno
organizzato le loro operazioni internazionali secondo un modello
organizzativo multi – domestic, ovvero trasferendo in ogni mercato
estero l’intero processo produttivo e vendendo il prodotto localmente,
sostituendo così le precedenti esportazioni. Successivamente le imprese
hanno iniziato a localizzare ogni fase del processo produttivo in funzione
del costo relativo dei fattori nei diversi paesi, vendendo poi il prodotto
finale su tutti i mercati di consumo, adottando un modello organizzativo
di tipo globale.
La modalità tradizionale in cui si svolgono le operazioni economiche tra
i paesi è invece il commercio internazionale, consistente nello scambio
di merci, beni e servizi attraverso le frontiere nazionali. Il commercio
internazionale rimane, a livello globale, il principale tipo di transazione
economica oltre frontiera.
Le attività delle imprese transnazionali hanno un impatto considerevole
sulla distribuzione geografica del commercio; anche in considerazione
del fatto che le imprese transnazionali, in virtù dei processi di
integrazione verticale, determinano un considerevole sviluppo del
commercio internazionale intra – aziendale.
25 ? Baronchelli G., (2008), “Delocalizzazione nei mercati internazionali, dagli IDE agli offshoring”, LED
Edizioni Universitarie.
23
Questo tipo di commercio consiste nello scambio di beni e servizi tra
unità della stessa impresa operanti in paesi diversi. Si stima che esso
rappresenti non meno di un terzo del commercio mondiale e che sia in
aumento.
Le attività di produzione e di commercio internazionale delle imprese
transnazionali sono strettamente interrelate. Lo sviluppo dei mercati
internazionali, la ricerca di vantaggi di costo, l’obiettivo di penetrare
commercialmente nuovi paesi ha fatto si che le imprese tendessero ad
investire direttamente all’estero creando rapporti di collaborazione con
altre imprese del posto (licensing, franchising, joint ventures).
Gli investimenti diretti esteri hanno avuto un notevole sviluppo sia nella
forma di investimento di portafoglio (effettuato per ragioni tipicamente
finanziarie, con riferimento all’acquisizione di azioni di una società
straniera), sia nella forma diretta (IDE) ovvero il caso in cui
l’investimento è tale da conferire il controllo nella società acquisita. Dai
dati statistici si rileva che la maggior parte di IDE ha origine da società
che hanno luogo in paesi sviluppati e sono diretti anche verso le stesse
economie sviluppate.
I paesi in via di sviluppo invece ricevono investimenti diretti, specie lì
dove è possibile reperire le risorse per la produzione quali materie prime
e forza lavoro a basso costo. In conclusione si può sostenere che con la
crescita degli IDE si riduce il commercio intra – settoriale del bene
finito, che viene spiazzato dalla produzione estera delle multinazionali;
tuttavia gli IDE generano un intenso flusso di scambi intra – firm, sia di
beni intermedi che di servizi generali.
Quando le differenze nelle dotazioni tra i paesi sono così ampie da non
consentire il pareggiamento dei prezzi dei fattori attraverso gli scambi
dei beni, gli IDE possono diventare complementari al commercio.
Secondo il modello teorico basato sulla ipotesi della prossimità –
concentrazione, invece, i risultati sarebbero diversi: se i paesi sono
identici sotto il profilo tecnologico, della domanda e della dotazione
24
fattoriale, gli IDE sarebbero dovuti all’eccessivo peso dei costi di
trasporto rispetto ai costi fissi degli impianti ed ai vantaggi che derivano
da una più intensa utilizzazione delle risorse dell’impresa. In tal caso gli
IDE sostituiscono i flussi commerciali intra – settoriali.
In ogni caso, anche se i paesi differiscono tra loro, la comparsa delle
multinazionali comporta una riduzione degli scambi intra – settoriali che
non viene compensata da alcun nuovo flusso di scambio di beni: gli IDE,
quindi, sostituiscono il commercio.
Le nuove teorie sul commercio internazionale evidenziano il fatto che il
commercio e la specializzazione sono dovuti a vantaggi di economie di
scala, così come a tradizionali vantaggi comparati dovuti a differenze
nella dotazione dei fattori. Commercio e specializzazione sono quindi
guidati da alcuni elementi statici ed esogeni imputabili alla dotazione dei
fattori, e da elementi più dinamici ed endogeni legati ai rendimenti
crescenti.
Un primo tipo di economie di scala, legato alla teoria della concorrenza
monopolistica di Chamberlin, è interno all’impresa. Si ritiene che le
economie di scala crescenti non siano compatibili con la perfetta
concorrenza dato che l’impresa che realizza rendimenti crescenti ha costi
decrescenti man mano che aumenta la sua dimensione; ciò le da un
vantaggio rispetto ai concorrenti.
Dunque questo tipo di economie di scala necessita di un modello
di concorrenza monopolistica.Nell’applicazione di tale schema si assume
in genere, che l’impresa operi con un singolo impianto produttivo, per
cui livello di impresa e livello di impianto produttivo coincidono.
Un secondo tipo di economie, quelle di tipo “marshalliano” considerano
i rendimenti crescenti ottenibili tramite effetti di spillover da impresa ad
impresa e dunque le economie si riferiscono all’industria nel suo
complesso piuttosto che alla singola impresa26.
26 ? Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 141- 142.
25
In questo approccio le economie di scala rimangono compatibili con il
modello di concorrenza perfetta perché la fonte dei rendimenti crescenti
è la scala dell’industria e non quella dell’impresa/impianto produttivo.
Le economie interne aumentano la probabilità che l’impresa si
specializzi. L’esistenza di economie esterne fa sì che imprese
appartenenti alla stessa industria si localizzino nella stessa area per
godere dei benefici degli effetti di spillover.
La concentrazione spaziale dell’industria può essere verticale oppure
orizzontale. Quella verticale fa riferimento alla non commerciabilità di
alcuni prodotti intermedi ( nel senso che alcuni prodotti intermedi sono
specifici dell’impresa) e tale non commerciabilità può portare alla
formazione di distretti industriali.
Gli ulteriori sviluppi teorici modificano alcune assunzioni, soprattutto
quella relativa alla immobilità del capitale. Infatti, le teorie sugli
investimenti diretti all’estero si basano sulla sostanziale mobilità del
capitale. Gli approcci sono riferiti sia agli IDE verso paesi in via di
sviluppo che agli IDE in paesi sviluppati. Nel primo caso si considerano
diversi paesi a diversi livelli di sviluppo e con differenti dotazioni di
fattori e con presenza di economie di scala interne a livello di impianto e
di impresa.
Partendo da tali assunti si ha che la direzione degli IDE verso i paesi in
via di sviluppo determina una integrazione di tipo verticale a livello
internazionale; l’internazionalizzazione risulta essere favorita rispetto
all’uso di licenze per via degli input congiunti, inoltre si sviluppa un
commercio internazionale intra- aziendale.
Con riferimento al secondo caso (teoria di Markusen27), ovvero con
direzione degli IDE verso paesi sviluppati, gli assunti di base indicano
che i due paesi sono entrambi sviluppati e con mercati ampi, la
produzione internazionale è solo di tipo orizzontale (si producono
prodotti simili in entrambi i paesi), i due paesi hanno simili dotazioni di
27 ? Markusen J. R., (1984), “ Multinationals, Multiplant Economies and the Gains from Trade”, in “Journal of International Economics”, 16, MIT Press, Cambridge (MA), pag. 205 – 224.
26
fattori e quindi costi di produzione simili, esistono poi alti costi di
trasporto e barriere al commercio (ma non agli IDE). Sulla base di tali
assunti si determina una produzione internazionale di tipo orizzontale e
gli investimenti diretti esteri si sviluppano tra paesi sviluppati preferendo
la produzione diretta piuttosto che la concessione di licenze e con
commercio internazionale intra – industriale.
La tradizionale teoria del commercio internazionale non riesce pertanto a
spiegare come possa avvenire un commercio intra-settoriale, cioè
all’interno dello stesso settore industriale, e tra paesi molto simili per
dotazione dei fattori produttivi necessari alla produzione di tali beni.
A questo proposito, Krugman28 ha contribuito a spiegare questo
fenomeno introducendo, insieme ad altri economisti, le cosiddette
“nuove teorie sul commercio internazionale”. Tali teorie spostano
l’attenzione dal tipo di struttura produttiva presente in ciascun paese, ad
altre variabili di tipo microeconomico, quali i diversi gusti dei
consumatori, la presenza di economie per le imprese localizzate in un
certo paese, il temporaneo monopolio tecnologico posseduto da chi
presenta sul mercato un prodotto innovativo, ecc.
Più in particolare, il contributo di Krugman afferma che il commercio
internazionale esiste perché i gusti dei consumatori sono profondamente
differenti anche in riferimento ad uno stesso prodotto e perchè le imprese
hanno la possibilità di concentrare la produzione in un unico
stabilimento per sfruttare economie di scala produttive.
La prima determinante è molto importante per spiegare il nuovo
beneficio del consumatore, che non è più in termini di prezzi ma bensì
in termini di varietà di prodotti a disposizione. Tale beneficio aumenta
con il procedere dell’integrazione economica europea in quanto i
consumatori hanno a disposizione una maggiore varietà d’offerta
(all’offerta nazionale si affianca anche l’offerta proveniente dai partner
europei). La possibilità che ciascun paese si specializzi in una certa
28 ? Krugman P., (1991), “ Increasing returns and economic geography”, in “Journal of Political Economy” 99, pag. 483 – 499.
27
varietà di prodotto, pur all’interno dello stesso settore produttivo,
consente a tale paese di soddisfare la domanda di varietà che sorge anche
negli altri paesi comunitari. Si considera, in questo modo, la cosiddetta
differenziazione di prodotto: ciascun prodotto, per quanto uguale agli
altri, è in realtà profondamente diverso per quanto attiene alla sue
caratteristiche appariscenti o a quelle intrinseche.
La differenza può essere quindi sostanziale, come tra un’auto di lusso o
un’auto utilitaria, o puramente formale, come nei detersivi impacchettati
in contenitori di diverso tipo, o indotta dalla pubblicità, o attribuibile al
valore del marchio (a cui è associato un certo status symbol, o un certo
contenuto qualitativo o tecnologico), e così via. Più i paesi hanno
raggiunto lo stesso livello di sviluppo e più è probabile che i consumatori
richiedano beni differenziati, e quindi più è probabile che nasca un
commercio internazionale di prodotti diversi ma appartenenti allo stesso
settore industriale.
Le analisi empiriche condotte sul commercio comunitario indicano, per
l’appunto, che i flussi commerciali tra i paesi europei sono soprattutto di
tipo intra-settoriale, e che le dotazioni fattoriali dei vari paesi sono
piuttosto simili (EC Commission, 1996), pur esistendo comunque alcune
specializzazioni industriali di tipo nazionale.
Dal punto di vista della politica economica all’interno dell’Unione
Economica e Monetaria, se le strutture economiche sono simili, ciò
implica anche un minor “costo di aggiustamento” per i paesi partner nel
caso in cui si verifichino crisi economiche non generalizzate, ma
concentrate in un solo paese (shock asimmetrici).
Per esempio, se i consumatori europei modificassero improvvisamente i
loro gusti e non volessero più acquistare auto di piccola cilindrata, il
paese specializzato nella produzione di utilitarie dovrebbe
“semplicemente” spostare i suoi lavoratori nella varietà delle auto di
lusso (varietà che nell’esempio verrebbe molto richiesta dai
consumatori).
28
Tale spostamento rappresenta per il paese un costo di aggiustamento,
perché occorre modificare in parte gli impianti e le tecnologie utilizzate
nella costruzione delle auto, che sicuramente è inferiore al costo di
aggiustamento che ci sarebbe stato se il paese avesse dovuto
convertire la sua produzione in un altro settore (per esempio, passare
dalle auto ai computer, o all’abbigliamento), cioè in una produzione più
“distante” per quanto riguarda le caratteristiche dei fattori produttivi
utilizzati.
Per i paesi comunitari si assiste quindi ad un aumento dei flussi di
commercio internazionale che provengono dagli stessi settori (flussi
intra-settoriali) e che generano vantaggi per i consumatori in termini di
minori prezzi di acquisto e di maggiori varietà di beni a disposizione.
Tale commercio per differenziazione di prodotto viene a sua volta
distinto dalla teoria economica tra commercio di prodotti simili ma
differenti per qualità (cioè prezzo) o differenti semplicemente per la
varietà del prodotto. Nel primo caso si tratta di differenziazione verticale
di prodotto, nel secondo di differenziazione orizzontale.
Dal punto di vista metodologico, la distinzione tra le due forme di
differenziazione di prodotto nelle indagini empiriche utilizza il seguente
criterio: si ha differenziazione verticale quando i valori unitari (cioè i
prezzi) all’import o all’export dei flussi tra due paesi differiscono di più
del 15%. I prodotti sarebbero invece differenziati per semplice varietà se
i prezzi fossero meno distanti del 15%, cioè se possono essere
considerati praticamente simili.
Gli studi in materia indicano che la crescita del commercio intra-
settoriale europeo è stata soprattutto tra prodotti differenti per qualità e
prezzo. Si hanno anche facili evidenze di tale specializzazione dei paesi
europei: i tedeschi sono specializzati nella produzione di auto di grossa
cilindrata, mentre gli italiani sanno costruire bene le utilitarie;
l’abbigliamento italiano è destinato ai segmenti di mercato medio-alti,
mentre quello portoghese o spagnolo è diretto ai consumatori medio-
29
bassi; mentre i vini francesi sono di alta qualità, e quindi destinati a
consumatori esigenti, i vini greci o portoghesi sarebbero, in media,
destinati ad un consumo più popolare; ecc.
La seconda determinante del commercio internazionale, sempre con
riferimento al contributo di Krugman, riguarda la possibilità che
un’impresa sfrutti le economie di scala tecniche per produrre in un
unico stabilimento la produzione destinata atutto il resto dell’Europa.
Anziché aprire diversi stabilimenti in ogni paese europeo – come
accadeva in precedenza al fine di superare le barriere protezionistiche,
prima di tipo tariffario e poi di tipo non tariffario, che segmentavano il
mercato europeo e ostacolavano il libero commercio – con l’Unione
Economica e Monetaria l’impresa concentra la produzione in un unico
sito, dove ottiene notevoli risparmi di costi di produzione.
Le due determinanti del commercio derivanti dal contributo di Krugman,
quella relativa alla varietà dei beni e quella relativa allo sfruttamento
delle economie di scala sono apparentemente in contraddizione tra loro.
Infatti, mentre la prima spiega l’aumento del commercio intra –
settoriale, la seconda giustifica un aumento del commercio inter –
settoriale.
In realtà non è così, in quanto occorre tenere conto dell’unità di
rilevazione del fenomeno di cui stiamo trattando: le esportazioni delle
imprese, che vengono aggregate in esportazioni di settore e poi in
esportazioni di un paese.
Ma se consideriamo i dati a livello di impresa, possiamo notare come la
specializzazione necessaria per raggiungere le economie di scala avviene
generalmente all’interno di una certa varietà di bene.
Per esempio, la Fiat si specializza nella produzione di auto di piccola
cilindrata mentre le BMW nella produzione di auto sportive: si
raggiungono economie di scala se la produzione si concentra in un unico
stabilimento, ma i flussi tra la Germania e l’Italia sarebbero
comunque intra – settoriali (all’interno del settore auto) e non inter -
30
settoriali, come un’errata interpretazione della teoria potrebbe
suggerire29.
1.4 Globalizzazione dell’economia e le imprese multinazionali
Internazionalizzazione e globalizzazione sono fenomeni che denotano un
accorciamento delle distanze culturali, economiche, sociali tra i paesi nel
mondo. Tuttavia ci sono sfumature di significato diverse tra i due
termini. Il processo di internazionalizzazione è legato ai fenomeni quali
la riduzione delle barriere agli scambi commerciali ed eliminazione dei
vincoli posti agli investimenti diretti esteri e indica quindi la
progressiva integrazione economico - politica tra più mercati – paese.
La globalizzazione indica la crescita del commercio mondiale, specie
attraverso grandi compagnie che producono e commerciano beni e
servizi in differenti paesi.
È un fenomeno che fa riferimento alla similarità sia delle esigenze dei
consumatori nei vari mercati nazionali, sia delle influenze sociali e
culturali nelle varie parti del mondo. Un mercato globale ammette la
libera circolazione di merci e capitali, che non esista nessun tipo di
barriera agli scambi worldwide, un forte grado di omogeneità della
domanda e dell’offerta.
Levitt parla di globalizzazione come una convergenza di tutte le culture
verso un’unica cultura globale; la diversità nelle preferenze culturali è un
concetto superato e le esigenze, i gusti e i desideri dei popoli di tutto il
mondo diventano sempre più simili e omogenei. La globalizzazione
coinvolge consumatori, imprese, mercati, culture, istituzioni e stati. Tale
processo ha raggiunto stadi differenti nei diversi mercati dell’economia
mondiale; alcuni di questi tendono ad essere più vicini al globale di altri.
I mercati business to consumer (B2C) tendono ad essere prevalentemente
locali, nazionali o regionali per effetto di differenze socioculturali,
politico – legislative, linguistiche e monetarie.
29 ? Vitali G. (2007) “L’integrazione commerciale europea e le nuove teorie sul commercio internazionale”, Rivista “Imprese e territorio, n°4.
31
I mercati business to business (B2B) tendono ad essere più regionali o
quasi globali per effetto di economie nei costi o nei rendimenti dei fattori
di produzione, di opportunità localizzative (vicinanza a clienti
strategici operanti all’estero). Le opportunità del processo di
globalizzazione riguardano la riduzione, l’annullamento di alcune voci di
costo, l’incremento delle economie e dei ricavi. Negli ultimi decenni il
numero delle imprese in grado di competere nel commercio globale è
andato progressivamente aumentando sia in termini di esportazioni che
di investimenti diretti esteri.
Si può anche notare come le economie più aperte agli scambi
internazionali crescano più rapidamente di quelle chiuse; si verifica
inoltre come le performance reddituali delle imprese che operano sui
mercati internazionali sono superiori a quelle nazionali. L'espressione
"globalizzazione dell'economia" (Gde) risulta essere in definitiva
piuttosto generica e non univoca. Infatti è utilizzata per connotare
fenomeni differenti che presentano forti ambivalenze e che sono
spesso contraddittori.
Su questa base si propone di intendere con Gde tutti gli elementi che
caratterizzano l'attuale fase di internazionalizzazione del capitale (il cui
inizio può essere collocato intorno alla fine degli anni '60). Essa presenta
contemporaneamente elementi di persistenza e di trasformazione e può
essere interpretata come un processo che sviluppa contestualmente, ma
in ambiti differenti, omogeneità ed eterogeneità.
Non può essere analizzata come un fenomeno esclusivamente
economico, né può essere interpretata esclusivamente attraverso gli
strumenti conoscitivi delle discipline economiche.
La Gde rappresenta una delle concrete determinazioni della dinamica di
espansione e approfondimento del modo sociale di produzione
capitalistico, essa non può non coinvolgere tutti gli altri ambiti
rilevanti nella produzione/riproduzione sia a livello sociale che culturale.
32
Secondo diversi autori alla Gde si assocerebbe una radicale
trasformazione delle strategie produttive e dei processi lavorativi, alla
quale dovrebbe corrispondere una trasformazione delle forme della
regolazione sociale.
Emerge su questo tema una generale condivisione, seppur da punti di
vista anche radicalmente differenti, della tesi secondo la quale il mercato
non rappresenta di per sé uno strumento di regolazione sociale
sufficiente, quindi anche con la Gde continua ad essere necessario
l'intervento di istituzioni politiche e sociali. Le posizioni ovviamente si
divaricano in ordine all'ambito in cui si può collocare questo
intervento (locale, regionale, nazionale, sovranazionale), ai suoi obiettivi
contingenti e strategici, alle sue modalità.
D'altronde la non prevedibilità delle future traiettorie della Gde è
confermata da diverse evidenze: il carattere contraddittorio del
cosiddetto "declino" dell'egemonia statunitense; l'ambivalenza del
fenomeno della "finanziarizzazione" dell'economia la quale sembra
indicare sia la incapacità ad individuare investimenti adeguati per i
capitali eccedenti, sia una accresciuta competizione tra i territori per
attirare denaro e investimenti produttivi; la difficoltà di individuare
istituzioni sovranazionali in grado di regolare in forme cooperative
l'economia globale. Su queste basi si può allora proporre l'ipotesi che la
possibilità degli attori locali di progettare e gestire percorsi di
sviluppo relativamente autonomi non è annientata dalla Gde.
Questa possibilità e le caratteristiche assunte dallo sviluppo locale
continuano ad essere connesse alla persistenza nella società di interessi e
punti di vista eterogenei e quindi a dipendere dagli esiti, di per sé non
definitivi, del loro conflitto.
Si assume quindi che la categoria del conflitto - inteso come
contraddizione, attuale o potenziale - sia centrale per offrire una
rappresentazione adeguata del mutamento sia a livello globale che a
livello locale.
33
Per comprendere come l’internazionalizzazione modifichi le basi della
concorrenza, bisogna estendere il modello di analisi per includervi
l’influenza che l’ambiente nazionale esercita sulla singola impresa. Per
conseguire un vantaggio competitivo deve esserci una corrispondenza tra
le risorse e competenze dell’impresa e i fattori critici di successo del
settore.
I settori internazionali differiscono da quelli nazionali nelle fonti del
vantaggio competitivo. Se le imprese sono localizzate in paesi diversi, le
loro potenzialità in termini di vantaggio competitivo dipendono non solo
dalle risorse e competenze interne a loro disposizione, ma anche dalle
condizioni dell’ambiente nazionale30. La globalizzazione dell’economia
si basa sui processi di multi nazionalizzazione - transnazionalizzazione
delle imprese. Si può definire l'impresa multinazionale come un insieme
di società ognuna delle quali opera secondo le norme dell'ordinamento
giuridico del paese in cui è localizzata, essendo partecipate e
coordinate con tutte le altre da un'altra società (la società madre),
localizzata in un paese terzo, alle cui norme deve attenersi.
La definizione mette in evidenza la possibilità di una contrapposizione di
interessi tra imprese multinazionali e paese ospite.
Nel caso in cui il complesso delle norme del paese ospite limita o
intralcia le attività, la società madre potrà trovare più conveniente
investire in un altro paese (questa flessibilità è però limitata quando
l'impresa operi nel settore delle materie prime ).
La sfera d'azione della impresa multinazionale più che uno spazio
fisico, è uno spazio tecnico-economico: attraverso l'internalizzazione
delle transazioni di mercato (quando i mercati sono inesistenti o
troppo rischiosi) essa assimila nel proprio spazio economico lo spazio
geografico – istituzionale degli stati. L'internalizzazione, leggibile
come risposta alla "rigidità" degli stati, crea un'economia "parallela"
caratterizzata dai prezzi di trasferimento.
30 ? Grant R., ( 2004),“ L’analisi strategica per le decisioni aziendali”, Il Mulino, Bologna, pag. 461.
34
Nel secondo dopoguerra si possono distinguere, quattro diverse
generazioni di impresa multinazionale, relativamente alla strategia
adottata: I) quelle che si basano su investimenti supply oriented, tesi ad
acquisire soprattutto materie prime, gli Stati del "centro" e le imprese
hanno un reciproco interesse nell'espansione all'estero (prevale fino alla
fine degli anni '60); II) quelle spinte dalla concorrenza oligopolistica
verso nuovi mercati, sostituendo le esportazioni con IDE aggressivi
(market oriented), i flussi di investimento si concentrano nei paese
industrializzati (in particolare Usa-Europa), mentre nei "Paesi in via di
sviluppo" (di seguito, Pvs) si sviluppa una polarizzazione tra aree di
nuova industrializzazione e aree più fortemente periferizzate; III) quelle
che si sviluppano a seguito dell'internazionalizzazione delle attività
industriali che si accompagna a quella dell'indotto, per cui si sviluppano
imprese multinazionali (soprattutto statunitensi) che forniscono servizi
alle imprese (gli IDE nel settore dei servizi passano dal 25,2% del 1975,
al 39,9% del 1985), il fenomeno interessa pochissimo i Pvs, salvo i
"paradisi fiscali"; IV) quelle per le quali lo spazio fisico "diventa
ininfluente" agli effetti delle decisioni strategiche in materia di
localizzazione industriale dei grandi gruppi e anche dei medi.
Si tratta delle imprese multinazionali "runaway": obiettivo strategico è la
compressione dei costi aziendali attraverso il decentramento di
segmenti del ciclo tecnico di produzione nei paesi che
presentano le migliori opportunità di costo dei fattori utilizzati nella
produzione.
Si creano spazi aziendali integrati, con una distribuzione geografica
strategica per l'impresa (ma non per il paese ospite). L'impresa
multinazionale si sgancia progressivamente dal paese d'origine e
contribuisce alla continua trasformazione della divisione internazionale
del lavoro puntando alla ricerca di vantaggi comparati.
Benché la multinazionalità sia spesso appannaggio della grande impresa,
sono numerosissime anche le imprese multinazionali di media - piccola
35
dimensione (in molti paesi sono la maggioranza), anche se si muovono su
uno spazio economico limitato. In genere si ha un’internazionalizzazione
graduale, poco diversificata, verso paesi limitrofi (prolungamento del
mercato domestico), che evita localizzazioni in paesi a rischio politico
(sono quasi assenti nei Pvs), e che tende a ridurre il rischio di
investimento tramite joint-ventures. Il ruolo dell'impresa multinazionale
ha registrato mutamenti sostanziali assumendo rilievo strategico nel
riequilibrio di divari economici.
Questa funzione di redistribuzione di risorse e opportunità tra i diversi
paesi sarebbe assolta dalle multinazionali in differenti campi. Esse
creano occupazione: impiegano oggi all'estero (e quindi anche nei Pvs)
un numero di addetti superiore a quello occupato nei paesi d'origine.
Attivano la crescita economica dei Pvs: non tanto attraverso gli IDE
market-oriented quanto con quelli trade-creating per mezzo dei quali si
razionalizza la produzione nel paese di origine spostando settori labour
intensive (attraverso multinazionali runaway) in paesi a basso costo di
manodopera, dove quindi si crea lavoro e sviluppo industriale.
Crescono le esportazioni dei Pvs, anche quelli ad alta intensità di ricerca
e di tecnologia. Al movimento internazionale delle merci si sta
lentamente sostituendo un movimento internazionale dei fattori
produttivi (capitale, forza lavoro, materie prime).
Consideriamo il concetto proposto da Porter 31 di "catena del valore",
attraverso il quale si può suddividere l'impresa nelle diverse attività che
essa svolge quando progetta, produce, distribuisce e vende i suoi
prodotti. Nella strategia internazionale la catena del valore ha due
dimensioni: a) la localizzazione delle attività della catena; b) il
coordinamento delle attività dislocate nei diversi paesi.
Nell'impresa transnazionale la configurazione delle attività (risorse,
responsabilità, decisioni) risulta diffusa, non solo per sfruttare meglio i
differenziali nazionali, ma anche per offrire risposte migliori alle
31 ? Porter M.E., (1985), “ Competitive advantage: creating and sustaining superior performance”, NewYork, Free Press, ( trad. it.: “ Il vantaggio competitivo”, Milano, Comunità, 1986).
36
domande specifiche dei mercati locali; in questa configurazione diffusa
vi è la tendenza alla specializzazione delle risorse e delle capacità, e
prevalgono le interdipendenze reciproche e l'interazione cooperativa
tra le parti del sistema. La cooperazione inter-firm può essere
rappresentata come una nuova modalità competitiva per affrontare la
complessità.
Una competizione globale più aperta fa diventare, secondo Porter,
la base domestica non meno, ma più importante, mentre secondo Reich
invece si avrebbe il risultato opposto: progressiva perdita di importanza
della nazionalità delle aziende.
Grandinetti e Rullani32 sostengono che una risposta adeguata alle tesi di
Reich deve spostare l'analisi sul piano delle conoscenze e sul rapporto
dialettico tra le sfere cognitive del locale e del globale33. Allo stesso
modo rifiutano la "tesi estrema" di Levitt, secondo il quale l'impresa
globale può estendere a livelli prima impensabili la standardizzazione,
le economie di scala e la produzioni di massa, data la progressiva
omogeneizzazione del mercato e l'imporsi del consumatore globale. La
varietà non viene ridotta e l'intensità della concorrenza favorisce le
politiche di differenziazione degli out – put delle imprese.
Un modello che sembra convincere i due Autori è quello proposto da
Bartlett e Ghoshal34. La crescente complessità impone alle imprese di
adottare un modello organizzativo transnazionale; l'impresa
transnazionale sotto il profilo organizzativo si configura nella forma di
una rete integrata; le filiali all'estero sono entità specializzate e
interdipendenti, entro una logica sistemica "evoluta", sotto i due profili
32 ? Grandinetti R. – Rullani E. (1996) “Impresa transnazionale ed economia globale”,
NIS Editore, Roma, pag . 114 – 149.
33 ? Barrucci P., (1998), “Economia globale e sviluppo locale. Per una dialettica della modernità avanzata”, Pisa, Felici.
34 Ghoshal S. – Bartlett C.A., (1998), “Innovation processes in multinational corporations”, in M.L. Tushman, W.L. Moore (eds.), “Readings in the management of innovation”, Ballinger Publishing Company, Cambridge (MA), pag. 499 – 518.
37
del coordinamento e dell'apprendimento. La capacità di apprendere in
modo diffuso e di trasferire conoscenze diventa una leva competitiva
sempre più importante per le imprese che operano nei settori globali. La
specializzazione implica la differenziazione dei ruoli e delle
responsabilità delle consociate, recuperando sia i benefici della divisione
internazionale del lavoro, sia una superiore flessibilità nell'operare in
diversi mercati-paese comunque globalmente interdipendenti.
Secondo Bartlett e Ghoshal la differenziazione interna e l'integrazione
non gerarchica delle parti sono le fondamentali risposte strategiche e
organizzative dell'impresa multinazionale alla continua sfida della
complessità/globalità35. In definitiva il modello di Bartlett e Ghoshal
riconosce che è la varietà dei paesi il dato da organizzare, attraverso il
coordinamento di consociate autonome che possono attingere a tale
varietà e alimentare con questa le competenze, le strategie e le fasi di
sviluppo nei mercati esteri dell'impresa multinazionale.
Il dibattito attuale, secondo Grandinetti e Rullani, sembra polarizzarsi su
due posizioni: a) quella dell'organizzazione multi - domestica, che
riconosce autonomia alle filiali o alle consociate su una base di tipo
territoriale (con un'autonomia strategica delle unità nazionali o
continentali); b) quella dell'impresa globale (secondo la lettura di Levitt)
che identifica centri globali di responsabilità per funzione, i quali hanno
autorità sulle attività delle imprese ovunque localizzate. Rispetto a
questa polarizzazione la soluzione "transnazionale" di Bartlett e Ghoshal
rappresenterebbe il superamento della rappresentazione dicotomica
locale-globale, prendendo così le distanze sia dal modello che valorizza
in modo unidimensionale le autonomie locali, sia da un modello
riduttivamente"globale".
Fondamentale, secondo i due Autori, diventa il riferimento alle economie
di scala a livello di conoscenza. La scelta di concentrare le conoscenze in
35 Grandinetti R. – Rullani E. (1996) “Impresa transnazionale ed economia globale”, NIS Editore, Roma, pag. 115 – 136.
38
un unico punto significa legare le innovazioni possibili al sapere
contestuale di un singolo paese. Mentre va sottolineato che la
conoscenza contestuale prodotta nei diversi paesi è una risorsa, sia come
arricchimento delle conoscenze già codificate, sia per la ri-
contestualizzazione e l'utilizzazione del sapere codificato nei diversi
paesi.
L'autonomia locale può allora entrare in gioco in due modi: a)
diventando una specificazione interna della posizione globale, ossia di
reti che sono unificate globalmente per competenza distintiva, ma
articolate in una varietà di soluzioni che utilizzano il sapere contestuale
delle consociate. Il criterio globale risponde alla logica della rete dove i
nodi centrali possono risiedere nelle consociate e non necessariamente
nella casa-madre; b) le consociate sono collegate in una rete come un
insieme di "business unit autonome", le quali costruiscono le loro linee
di divisione del lavoro con altre consociate estere, ma anche con imprese
indipendenti.
A queste business unit è affidata la funzione comunicativa e
relazionale con tutto il contesto nazionale di riferimento.
In questo modo, il modello organizzativo transnazionale, superando la
dicotomia centralizzazione/decentramento, opera innanzitutto all'
interno dell'organizzazione una distribuzione selettiva del processo
decisionale, e quindi dei luoghi in cui si gestisce il coordinamento,
tramite sistemi formali e informali. Quando la densità delle relazioni di
scambio nell'ambito dell'insieme organizzativo locale della consociata
è alta, ad essa deriva un potere nei confronti della casa- madre alla
quale risulta difficile rispondere in base al principio gerarchico. D'altra
parte, un'elevata densità nel network esterno corrisponde tipicamente a
un elevato livello di interazioni tra le consociate della multinazionale.
In sintesi Grandinetti e Rullani sostengono che le reti globali
rappresentano un modo di organizzare il sistema cognitivo della
39
produzione internazionale, un integratore specifico (diverso dai mercati e
dalle gerarchie) su cui può reggersi la divisione del lavoro cognitivo su
scala internazionale.
In particolare, nell'internazionalizzazione tipica dell'epoca post– fordista,
la divisione del lavoro si appoggia a reti trans– contestuali, trasferendo
così la conoscenza tra i tanti mondi locali che partecipano all'economia
globale36.
Da una recente analisi di alcuni gruppi multinazionali europei
emergerebbe un quadro in qualche misura coerente con l'approccio dei
due Autori: non sarebbe individuabile un unico modello di
internazionalizzazione; si hanno invece soluzioni organizzative
differenziate, all'interno delle quali variano i compiti affidati alle
consociate. Queste avrebbero maggiore autonomia nella gestione delle
risorse umane e nello stesso tempo assumerebbero comportamenti più
omogenei sulla base dell'accelerata internazionalizzazione del
management. L'omogeneità aumenta nelle effettive modalità di
funzionamento delle organizzazioni, in quanto la spinta competitiva alla
maggiore efficienza rivaluta il ruolo delle economie di scala e la capacità
di ottimizzare su scala globale la divisione del lavoro. Aumenta
l'importanza delle divisioni verticali e quindi della capacità di gestire e
valorizzare le differenze in un'ottica globale. Da ciò deriverebbe la
necessità per l'impresa di sviluppare un management con un forte
radicamento locale, ovvero una struttura tipicamente etnocentrica al
fine di connettere più culture regionali e creare la rete di rapporti sui
quali costruire i vantaggi competitivi derivanti dal processo di
internazionalizzazione.
Ciononostante i due Autori (così come nella interpretazione della
globalizzazione), anche in riferimento alla specifica analisi del
processo di trans – nazionalizzazione, sembrano prospettare una
troppo facile e pacifica convergenza tra le morfologie e le strategie
36 ? Grandinetti R. – Rullani E., op. cit., pag. 147 – 149.
40
transnazionali, da una parte, e le caratteristiche e le possibilità di auto-
direzione dei contesti locali, dall'altra. In questo modo, nonostante
l'enfasi sulla varietà,vengono di fatto sottovalutate le differenze sia tra i
processi di trans – nazionalizzazione, sia tra i contesti locali, i quali
presentano in realtà differenti concentrazioni di capacità e di risorse con
le quali poter affrontare gli attori e i vari processi di sviluppo
internazionale.
Un altro limite ricorrente della proposta è riscontrabile nel modo con cui
è tematizzato il ruolo della conoscenza. La conoscenza e le informazioni
che in un determinato contesto sono valutate come "rilevanti"
rappresentano indubbiamente nell'attuale fase dello sviluppo capitalistico
un bene fondamentale. Certamente questo bene trova nelle "reti" trans –
nazionali un canale di circolazione preferenziale. Ma che nell'economia
trans – nazionale la conoscenza rappresenterebbe il meccanismo di
integrazione più adeguato (rispetto alla gerarchia e al mercato) è
un'affermazione difficilmente sostenibile. Grandinetti e Rullani
sostanzialmente suggeriscono la tesi secondo la quale la conoscenza è un
"integratore" al pari della fiducia, della reciprocità, delle relazioni tipo
clan. Al contrario la conoscenza, proprio in quanto bene prezioso, è
trattata come una merce, oppure circola incorporata nelle merci (forza-
lavoro compresa). In quanto merce è scambiata sul mercato con denaro e
il suo prezzo dipende dal suo livello di standardizzazione/innovatività e
da altri fattori (ad esempio i rapporti di forza tra i contraenti).
Ovviamente all'interno della impresa transnazionale la conoscenza, oltre
a poter assumere la forma di merce scambiata nel mercato interno tra
filiali e tra queste e la casa-madre, è un fattore di produzione che, al pari
degli altri fattori di produzione, viene collocato nei modi più adeguati
per massimizzare le performance dell'impresa stessa.
Il controllo della conoscenza è un terreno di conflitti assai aspri sia nella
dialettica locale/globale (nella relazione tra impresa transnazionale e
contesto locale ), sia nei rapporti di produzione. Nella dialettica
41
locale/globale è verosimile che le forze globali dispongano di maggiori
risorse rispetto ai soggetti locali, per cui per le prime sarà più
facile tradurre le "conoscenze contestuali" (frutto dell'esperienza) in
conoscenze astratte e formalizzate, viceversa i secondi incontreranno
maggiori difficoltà, pur avendo acquistato una determinata merce-
conoscenza, a tradurre il suo contenuto astratto nello specifico contesto
di utilizzazione. Non a caso le imprese trans – nazionali riescono -
nel commercio di tecnologie - a imporre ai contraenti più deboli
l'acquisto di interi pacchetti di conoscenza, in quanto all'utente manca
spesso il know-how necessario o di base per sfruttare a pieno le
potenzialità di un singolo segmento di conoscenza.
Nell'ambito dei rapporti di produzione il capitalista e i suoi agenti hanno
bisogno, per legittimare il loro potere sociale, di mantenere il più alto
controllo possibile del processo lavorativo, di conseguenza alla forza –
lavoro verranno "cedute" esclusivamente le conoscenze e le
informazioni necessarie per garantire determinati risultati produttivi (e
questo vale sia nella "vecchia" organizzazione taylorista, sia nella
"nuova" organizzazione toyotista), viceversa attraverso le più "moderne"
e "sofisticate" tecniche di gestione delle risorse umane (paternalismo,
coercizione, ricatto, ecc.) la direzione di impresa cercherà di ottenere
gratuitamente le conoscenze e le informazioni che vengono
costantemente prodotte e fatte circolare sulle linee di produzione dalla
forza-lavoro.
In un processo di internazionalizzazione è di assoluto rilievo per
l’impresa individuare e scegliere i paesi verso cui orientare la propria
attività. Le due variabili fondamentali sono il grado di attrattività di un
paese che deve ospitare i flussi commerciali o gli IDE e il grado di
accessibilità dello stesso. Per quanto riguarda l’analisi della attrattività,
questa va valutata rispetto alle dimensioni del paese, alle caratteristiche
della domanda ed al grado di accettazione del prodotto. L’analisi si basa
su una serie di screening successivi in modo da individuare un gruppo di
42
paesi potenziali verso cui estendere l’attività internazionale dell’impresa.
Con il primo screening si individua infatti un primo gruppo di paesi per i
quali ancora non sia possibile esprimere un giudizio negativo, quindi
individuare quelli in ordine ai quali non sia da escludersi l’interesse per
l’impresa(paesi accettabili). Con il secondo screening si cerca di
individuare il mercato potenziale in ciascuno dei paesi presi in
considerazione e quindi un terzo e ultimo screening teso ad individuare
quei paesi in cui si prospetta una maggiore coerenza tra la domanda
primaria e la specifica offerta aziendale.
Tutto il processo di selezione di basa sull’analisi di un insieme di
variabili macro-ambientali: fisico – geografiche, demografiche,
economiche, tecnologiche. Circa le variabili demografiche bisogna
considerare l’entità numerica della popolazione, la densità abitativa, la
dispersione geografica e la tendenza allo spostamento. Una popolazione
molto numerosa non è detto che sia attraente, se pensiamo ad un paese
molto popoloso ma caratterizzato da una crescita economica marginale
logicamente non sarà reputato come un’area interessante sulla quale
poter investire. Le variabili economiche da considerare riguardano il
prodotto interno loro, la disponibilità di fonti energetiche, il potere di
acquisto della popolazione, la distribuzione del reddito e la propensione
al consumo.
Dopo aver delineato le determinanti che rendono un paese più o meno
attrattivo, bisogna verificare il grado di accessibilità ed eventualmente
correlarlo al grado di attrattività dello stesso. L’accessibilità dipende da
due ordini di fattori: quelli relativi alle barriere artificiali che le imprese
devono affrontare qualora vogliano avviare un processo di
internazionalizzazione e poi quelli relativi all’ambiente competitivo
tipici del paese verso il quale orientare la propria offerta commerciale.
L’ambiente competitivo comprende l’analisi della concorrenza reale e
potenziale ( considerando le loro risorse a disposizione, la strategia
43
perseguita, i loro obiettivi), le caratteristiche della domanda e le
variabili del marketing mix da adottare ( variabili relative alle
caratteristiche dei canali distributivi, alle politiche di comunicazione, al
pricing).
Per quanto riguarda le barriere artificiali, queste solitamente sono
distinte in tariffarie e non tariffarie37. Quelle tariffarie indicano
l’imposizione di una tariffa specifica il cui pagamento è obbligatorio da
parte delle imprese che vogliono introdurre le loro merci in altri paesi
che non fanno parte dell’unione doganale. Ciò implica logicamente
un’aggravio dei costi per l’impresa che diventa anche meno competitiva
rispetto alla produzione delle imprese locali. La barriera tariffaria per
eccellenza è il dazio doganale che consiste in una imposta indiretta sui
beni che circolano da uno Stato ad un altro e viene riscossa nel momento
in cui una merce fa ingresso nel territorio doganale dello Stato.
Nonostante l’OMC abbia cercato di abbassare e di armonizzare i
dazi doganali per rendere più efficiente il sistema economico
internazionale, i prelievi daziari rimangono ancora piuttosto diffusi
riducendo il vantaggio competitivo di costo di cui un impresa potrebbe
disporre. Per evitare che il costo del dazio si rifletta sul prezzo della
merce al consumo, le imprese sono costrette ad accollarsene l’onere
riducendo i propri margini. I dazi a scopo fiscale hanno l’intento di
conseguire un’entrata tributaria colpendo i consumi delle merci
provenienti dall’estero, mentre i dazi a scopo protettivo intendono
impedire od ostacolare l’ingresso di alcuni prodotti stranieri.
Per quanto riguarda il criterio di calcolo del dazio si distinguono i dazi
ad valorem, ad pesum e misti. I dazi ad valorem sono prelievi
proporzionali, con aliquota percentuale, al valore imponibile della merce
importata, mentre per quelli ad pesum l’aliquota è fissa per ogni unità di
37 ? Valdani E. – Bertoli G., op cit. pag. 143 – 144.
44
bene importato a prescindere dal prezzo. I dazi misti integrano i due
sistemi su riportati.
Altro strumento tariffario sono i diritti integrativi di confine: un insieme
di tributi imposti dalle autorità doganali che riproducono gli stessi
meccanismi di funzionamento del dazio; tra questi elenchiamo
l’IVA, i diritti di monopolio, tasse di varia natura, diritti di
magazzinaggio e facchinaggio, le tasse di imbarco e di sbarco, le tasse di
ispezione della merce.
Passando ad analizzare le barriere di carattere non tariffario iniziamo a
discorrere sul contingentamento delle importazioni: consiste in un
provvedimento delle autorità competenti che mira a stabilire una
limitazione quantitativa all’approvvigionamento estero di determinate
merci. La conseguenza di un simile limite alle importazioni è quella di
generare incrementi dei prezzi delle merci al consumo. Altro tipo di
barriera sono gli embarghi e i divieti di esportazione che vanno oltre
le ragioni di carattere economico, spesso infatti vi sono motivi di
carattere politico come per esempio la garanzia della sicurezza nazionale
lì dove ad esempio alcune merci potrebbero essere applicate in campo
militare.
Una tipica barriera non tariffaria è costituita dalle regole tecniche e
standard di prodotto. Per commercializzare un prodotto agricolo o
industriale, infatti, non è sufficiente pagare un dazio doganale ma
occorre che il prodotto nazionale o importato sia sicuro. Per determinare
la sicurezza di un prodotto, molti paesi hanno sviluppato nel corso degli
anni delle regole tecniche che indicano le caratteristiche che i prodotti
devono possedere o i modi di produzione che devono essere seguiti.
Accade così che un’impresa che voglia internazionalizzarsi debba
seguire una pluralità di prescrizioni normative in materia di
caratteristiche tecniche di base che devono essere assicurate nei prodotti
collocati all’estero.
45
Oltre alle regole tecniche ci possono essere altri requisiti di carattere non
obbligatorio il cui rispetto è necessario al fine di beneficiare di un
trattamento commerciale in qualche modo più favorevole. Grazie
all’azione condotta soprattutto dall’ISO (International Standard
Organization), si è creato un processo di armonizzazione delle regole e
degli standard tecnici relativi ad una pluralità di settori merceologici38.
Altro tipo di barriera non tariffaria è costituita dai calendari di
importazione che stabiliscono determinati periodi dell’anno in cui può
essere liberamente effettuata l’introduzione di nuovi prodotti all’interno
dello Stato, mentre viene bloccata in altri periodi. Tendenzialmente
l’accesso delle merci è reso possibile nei periodi della bassa stagione
agricola, cioè proprio nel momento in cui la produzione stagionale
interna ha già trovato assorbimento sul mercato nazionale. Ultimo tipo di
barriera non tariffaria è data dalle misure di carattere valutario e
finanziario, tra tali misure ricordiamo: le restrizioni valutarie consistono
in un controllo statale sui cambi delle valute in modo da incidere sul
costo dei beni importati; autorizzazioni governative per acquisire valuta
estera; soppressione o temporanea sospensione della convertibilità.
Altri strumenti affini sono i cambi valutari multipli che pongono
implicitamente un limite all’ingresso delle merci straniere poiché
l’autorità monetaria nazionale discrimina i cambi di acquisto e di vendita
delle valute. La discriminazione dei cambi riferita all’importazione può
consentire l’attuazione di una politica economica tendente a rincarare le
merci estere non considerate di prima necessità ed a rendere convenienti
quelle giudicate di elevato grado di utilità per l’economia nazionale39.
Sulla base dell’analisi della attrattività di un paese e della sua
accessibilità, le imprese che vogliono internazionalizzare la propria
attività dovranno stimare il numero di paesi verso i quali orientarsi, la
38 ? Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 157 – 158.39 ? Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 163.
46
tempistica dello sviluppo internazionale e la posizione competitiva
acquisibile.
1.5 Analisi dei rischi nel commercio internazionale
Negli ultimi decenni il commercio internazionale è cresciuto a un ritmo
doppio di quello della crescita del PIL globale, il flusso internazionale di
capitali finanziari e investimenti diretti esteri è più che raddoppiato
nell’ultimo decennio ( in rapporto al PIL mondiale), la ricerca di
economie di scala e di diversificazione ha indotto le imprese ad investire
capitali e tecnologie all’estero, ad acquisire know – how dall’estero, ad
approvvigionarsi di beni e servizi dovunque sia più utile e
conveniente40.
Dal lato delle imprese che si internazionalizzano, si tratta sempre di
decisioni complesse, accompagnate da un processo di trasformazione
aziendale fondamentale e spesso irreversibile e va sottolineato che le
attività economiche internazionali sono soggette a tutti i rischi che
caratterizzano ogni business.
Per identificare le categorie di rischio è opportuno partire dalle fonti,
esaminandole sotto il profilo delle differenze che si presentano tra i paesi
coinvolti. Si tratta di differenze di natura geografico – climatica,
culturale, politico – legislativa41.
Per gli stati le cui imprese affrontano processi di internazionalizzazione,
le implicazioni possono essere in termini di competizione a livello di
paese o di area regionale nell’attrazione di investimenti internazionali, in
termini di permeabilità delle economie nazionali ai fenomeni di
instabilità finanziaria ed economica e quindi in termini di politiche
protezionistiche a livello di mercati – regione.
40
? Pagliacci M., (2010),“Rischi finanziari nelle operazioni commerciali”, Franco Angeli, Milano, pag 84.
41 Pagliacci M., op cit. pag 85.
41
47
Un problema importante, che una impresa che si internazionalizza deve
affrontare, è quello relativo alla gestione della diversità. La diversità è
connessa a tutta una serie di rischi:
- Rischio paese: identifica il rischio del mancato o negativo esito
dell’operazione d’affari a causa di eventi politici, sociali , economici,
finanziari del paese ove la controparte opera.
- Rischio di cambio: è generato dalla volatilità delle monete di
riferimento, in relazione al valore della propria moneta.
- Rischio variabilità delle condizioni di domanda/offerta: si
manifesta quando le condizioni inizialmente previste subiscono un
cambiamento significativo per ragioni politico-normative, per una crisi
economica o per l’entrata di nuovi prodotti o concorrenti.
- Rischio di incremento dei costi e/o variabilità dei prezzi: tali eventi
sono particolarmente problematici quando si manifestano in presenza o a
causa di controparti pubbliche, quando gli spazi di trattativa e di
rinegoziazione dei contratti sono ridotti o esclusi.
- Rischio legale: si manifesta anche in relazione alla difficile o
controversa interpretazione delle normative locali, ma soprattutto quando
si incorre in liti giudiziarie con soggetti locali42.
Un particolare tipo di rischio è quello fisico nelle fasi di trasporto,
magazzinaggio e nella gestione complessiva della compravendita. I
trasferimenti espongono le merci a tutta una serie di rischi che possono
compromettere il buon esito dell’operazione, determinando danni
all’integrità della merce. Per quanto avanzati possano essere i vettori
utilizzati e perfezionate le tecniche di imballaggio, il trasferimento di una
merce difficilmente potrà evitare il rischio che l’originaria integrità o
altri termini della consegna vengano meno.
Da un lato ci sono tutti i rischi relativi ad eventi naturali o fortuiti non
controllabili dall’uomo, dall’altro lato ci sono i cosiddetti “atti umani”
che comprendono gli atti incolpevoli ( imprevedibili e che provocano
42 ? Pagliacci M.. op. cit., pag. 86.
48
incidenti ai mezzi di trasporto); atti colpevoli i quali per fatto colposo
provocano incidenti ai mezzi dei vettori o perdite, avarie e ritardi alle
merci; atti dolosi, come furti, manomissioni o danneggiamenti
internazionali. Il rischio fisico può essere ricondotto anche alla
combinazione degli elementi sopra considerati43.
Si procede ora ad una descrizione delle principali metodologie che la
dottrina e la pratica hanno elaborato in questa materia. Particolare
rilevanza assume il rischio politico, il quale si riconnette a possibili
provvedimenti adottati dalle pubbliche autorità del paese estero, in grado
di compromettere lo sviluppo delle attività dell’impresa nel mercato di
riferimento. I provvedimenti possono essere adottati, oltre che per
motivazioni politiche, per motivazioni di carattere economico, come per
esempio quando un paese si trova ad affrontare una situazione di
recessione o di iperinflazione.
Root considera il rischio politico suddiviso in quattro classi: rischi di
instabilità, rischi sul controllo della proprietà dell’investimento, rischi
operativi, rischi di trasferimento.
I rischi di instabilità riguardano l’eventuale insorgere di conflitti nel
paese estero, la eventuale instabilità del governo oppure l’avvio di
ostilità verso altri paesi. Invece i rischi relativi al controllo della
proprietà riguardano quelle situazioni in cui i beni di una impresa
potrebbero essere oggetto di provvedimenti restrittivi ( espropriazione,
requisizione, collettivizzazione), oppure delle rinegoziazioni contrattuali
con ridefinizione di norme e provvedimenti.
I rischi operativi derivano dalle conseguenze negative indotte da
normative su regimi fiscali più stringenti o sui limiti imposti al personale
proveniente dal paese di origine dell’impresa, oppure normative su
vincoli all’import – export di materiali, controlli pubblici sui mezzi.
43 43 Caroli M. (2008),“Economia e gestione delle imprese internazionali”, McGraw-Hill, Milano, pag 232- 232.
49
Infine i rischi di trasferimento sono relativi alla eventualità che l’autorità
locale imponga restrizioni in materia di trasferimento di capitali. I rischi
qui indicati possono determinare una condizione di vulnerabilità
dell’impresa che è legata ai seguenti fattori:
- qualità dei rapporti che il paese di origine intrattiene con quello ospite;
- tipo di prodotto offerto e/o la tecnologia di cui l’impresa dispone;
- dimensioni aziendali, nel senso che di solito la percezione
“minacciosa” associata all’impresa è tanto più elevata quanto maggiori
sono le sue dimensioni;
- visibilità aziendale, nel senso che la vulnerabilità dell’impresa aumenta
al crescere della visibilità. Del pari, la forza contrattuale del governo
ospite sta nell’importanza del proprio mercato, nel grado di controllo di
accesso al mercato, nella disponibilità di fattori produttivi a basso costo.
Tra le varie problematiche che i processi di sviluppo internazionale
presentano possiamo considerare la più elevata complessità
dell’ambiente internazionale, specie in riferimento alla varietà degli
ambienti socio – culturali e, quindi, la compresenza di differenti
modelli di comportamento di consumo e di differenti modalità di
risposta alle scelte dell’impresa.
Un’altra problematica può riguardare l’esistenza di politiche,
atteggiamenti comportamenti delle autorità nazionali nei confronti delle
imprese estere che possono restringere le modalità di ingresso, oppure
innalzare il grado di rischio dell’investimento minacciando azioni ostili o
adottando misure di protezione a favore delle imprese locali.
Ancora risulta problematico il fatto che le decisioni di investimento e i
programmi di allocazione delle risorse siano resi più complessi, e i loro
esiti meno prevedibili, a causa delle diverse velocità che caratterizzano i
processi di crescita delle economie dei singoli paesi.
Infine altro aspetto problematico è la contemporanea presenza, per un
medesimo business, di diversi livelli di tensione competitiva; a livello
50
internazionale, infatti, l’impresa è chiamata a confrontarsi sia con
imprese locali che con imprese internazionali44.
I settori internazionali differiscono da quelli nazionali nelle fonti del
vantaggio competitivo. Il ruolo svolto dalla disponibilità di risorse a
livello nazionale nella competitività internazionale è oggetto della
teoria del vantaggio comparato; tale espressione si riferisce all’efficienza
relativa nella produzione di beni diversi. Tradizionalmente la teoria ha
posto l’accento sul ruolo svolto dalle risorse naturali, dalla manodopera e
dalla disponibilità di capitali nel determinare il vantaggio.
Tuttavia le ricerche empiriche sottolineano la rilevanza delle risorse
“sviluppate internamente”, tra le quali spicca per importanza la
conoscenza e le risorse necessarie a commercializzare la conoscenza45.
Per comprendere come le condizioni nazionali delle risorse influiscano
sulle strategie di internazionalizzazione, dobbiamo esaminare due tipi di
decisione strategica: le decisioni relative alla localizzazione della
produzione e quelle relative alle modalità di entrata in un mercato
straniero. Una delle più forti motivazioni in favore di una strategia
multinazionale è la possibilità di accedere a risorse disponibili in altri
paesi.
Le decisioni circa la localizzazione della produzione devono tenere conto
di vari fattori: a) la disponibilità delle risorse: le imprese dovrebbero
localizzare l’attività dove le condiziono sono più favorevoli; b)
specificità del vantaggio competitivo; c) la trasferibilità dei beni: la
possibilità di localizzare la produzione lontano dal mercato di
destinazione dipende dalla trasferibilità del prodotto, infatti, alti costi di
trasporto, forti preferenze nazionali dei consumatori e la presenza di
barriere allo scambio favoriscono la produzione locale.
Le decisioni di localizzazione devono tenere conto del fatto che l’offerta
di un qualunque bene o servizio è composta da una catena verticale di
attività, le cui caratteristiche variano notevolmente. Di conseguenza, è
44 ? Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 97 – 100.45 ? Grant R. M., op. cit., pag. 462 – 463.
51
possibile che paesi diversi offrano vantaggi differenti in ciascuno stadio
della catena del valore.
In linea di principio, un’impresa può identificare le risorse necessarie in
ciascuna fase della catena del valore e quindi determinare quali paesi
offrono tali risorse al costo più basso. Per esempio Nike ha localizzato
design e R&S negli Stati Uniti, produzione di tessuti, gomma e
componenti di plastica per calzature in Corea, Taiwan e Cina, e
assemblaggio in India, Cina, Filippine e Indonesia46.
In ogni caso, i benefici ottenibili da una delocalizzazione all’estero delle
varie fasi della catena del valore devono essere confrontati con i
maggiori costi legati al coordinamento di attività disperse a livello
globale. Bisogna anche considerare i costi di trasporto e di magazzino.
Per esempio, per un’impresa che punti alla rapidità delle consegne
sarà costretta a rinunciare ai vantaggi di costo legati alla catena del
valore de localizzata a livello internazionale e dovrà sviluppare le varie
operazioni di produzione e tutto il resto attraverso un sistema integrato
basato anche sulla prossimità geografica e con un rapido accesso al
mercato finale.
Molti studiosi hanno cercato di elaborare set di indicatori specifici con
l’intento di evidenziare ed analizzare il grado di rischio presente in un
paese. Ci sono sistemi qualitativi i quali non hanno formule pre-
costituite, ma si basano su valutazioni soggettive e di conseguenza c’è
una certa difficoltà nell’effettuare le comparazioni tra paesi. I sistemi
quantitativi a lista di controllo (check – list) tendono a identificare
singoli fattori politici, sociali ed economici ritenuti capaci di esercitare
una significativa influenza sul rischio paese.
A ciascuno di tali fattori viene associato uno o più indicatori, a cui far
corrispondere una misurazione quantitativa e una ponderazione; ciò
rende possibile l’attribuzione di punteggi parziali per ciascun settore
dell’analisi, per giungere a un punteggio totale.
46 ? Grant R. M., op. cit., pag.468 – 469.
52
Altri sistemi quantitativi, quali i modelli econometrici, sono costruiti e
utilizzati per la loro capacità di segnalare con sufficiente anticipo il
potenziale insorgere di difficoltà debitorie.
Qualunque sia la metodologia applicata, essa deve basarsi su un
completo set di informazioni quanto più attendibile possibile. In
definitiva , le metodologie qualitative possono andare bene se l’obiettivo
è una valutazione di tipo politico o amministrativo; l’analisi quantitativa
è consigliabile quale supporto di decisioni aziendali.
53
CAPITOLO 2 - Le imprese agroalimentari italiane e lo scenario
internazionale
2.1 IDE e commercio internazionale nel settore agricolo
La nuova situazione internazionale richiede alle imprese la presenza sui
mercati esteri, sia con investimenti diretti esteri sia attraverso flussi di
esportazione orientati verso i mercati più profittevoli. Pertanto
l’operazione di esportazione è sempre più spesso affiancata e/o sostituita
da ulteriori alternative strategiche di internazionalizzazione. Emergono
così nuove necessità: dalla costituzione all’estero di nuove filiali
commerciali all’investimento in impianti fuori i confini nazionali.
L’ampliamento dell’area d’influenza della competizione internazionale
si estende ben oltre le semplici operazioni di scambio commerciale
comprendendo, con diversa intensità, anche altre funzioni aziendali
(importazione delle materie prime, delocalizzazione dei processi
produttivi, joint venture, ecc). E’ inoltre necessario sottolineare come la
scelta relativa all’internazionalizzazione assuma sempre più chiaramente
i connotati di una strada obbligata per le imprese e non dunque quelli di
una pura iniziativa discrezionale.
I processi di internazionalizzazione affrontati dalle imprese sono anche
influenzati dai notevoli cambiamenti degli stili di consumo dei
consumatori. Anche nel settore alimentare si evidenzia una maggiore
segmentazione e articolazione del target dei consumatori i quali
ricercano prodotti sempre più specifici, di alta qualità e provenienti da
particolari zone geografiche.
Questa tendenza è accompagnata dalla presenza di un altro fenomeno
strettamente connesso: la globalizzazione dei gusti e delle preferenze. In
questo nuovo contesto i prodotti alimentari e in particolare quelli agro -
alimentari hanno acquisito un’importanza crescente, soprattutto in
termini di servizi incorporati attraverso il processo di trasformazione
54
delle materie prime agricole e della dimensione “immateriale” del
prodotto finito, ovvero l’insieme di informazioni, conoscenze, abilità e
valori in esso contenuti. Quest’ultimo aspetto è particolarmente evidente
nei prodotti agro – alimentari tipici che assommano appunto una serie
di attributi non solo di tipo materiale (specificità delle materie prime,
attributi del prodotto), ma anche immateriale ( patrimonio di conoscenze
relative al processo produttivo e alle sue modalità, know – how
specifico delle risorse umane impegnate nella produzione, legame con il
territorio e/o con la tradizione di un dato luogo, capitale reputazionale
del prodotto e/o della sua origine geografica).
Vanno inoltre prese in considerazione le profonde trasformazioni che
interessano la struttura dell’agricoltura e dell’industria di trasformazione
dovute all’avvento di nuove tecnologie di produzione e di gestione
dell’informazione, della comunicazione e dei trasporti che agevolano in
maniera sostanziale rapporti internazionali.
Emerge anche la tendenza a favorire una diversa localizzazione
territoriale delle varie ed eterogenee funzioni che l’azienda è chiamata a
svolgere, richiedendo una particolare attenzione alla modalità di
combinazione di queste in modo da consentire una gestione armonica e
coordinata dell’intera struttura dell’impresa, soprattutto se la de-
localizzazione è di portata internazionale.
Le aziende dunque si trovano di fronte ad uno scenario sempre più
complesso che sono chiamate ad affrontare effettuando una scelta tra
diverse alternative strategiche che variano in base ad un complesso di
fattori di diversa natura, a partire da quelli di tipo strutturali fino ad altri
specifici del singolo caso aziendale.
In linea generale alle aziende impegnate nei processi di
internazionalizzazione è richiesto di:
- scegliere se immettere un prodotto standardizzato oppure differenziato
a seconda dei vari paesi target delle imprese (oppure un prodotto
intermedio tra questi);
55
- ricercare quali funzioni localizzare nel paese d’origine e quali
disperdere tra i paesi dove l’impresa è presente o intende essere presente;
- valutare per quali funzioni esiste l’opportunità di operare in
collaborazione con partner locali;
- valutare le alternative di crescita interna oppure esterna, ossia scegliere
tra costituire ex novo oppure acquisire la nuova unità produttiva
all’estero;
- decidere lo spazio di autonomia gestionale dell’ unità all’estero ( una
maggiore autonomia dell’unità deve essere valutata alla luce delle
necessità di coordinamento dell’intera struttura internazionale).
La nuova situazione internazionale comporta altresì la necessità per le
aziende di dotarsi di una funzione di esportazione più complessa47.
La dimensione strategica va valutata anche per le operazioni di vendita
all’estero: bisogna scegliere tra diverse strategie a seconda della natura
del prodotto, dei costi di produzione e di commercializzazione,
dell’intensità della concorrenza nel paese estero, dei gusti e delle
consuetudini dei consumatori, oltre a valutare opportunamente la
struttura dei canali di uscita del prodotto e della distribuzione alimentare
nel paese target.
Nel caso dei prodotti agroalimentari, il fulcro delle modalità di
internazionalizzazione è costituito dalla funzione commerciale. Ciò
deriva in particolare dalla natura e dalle caratteristiche stesse dei prodotti
(in particolare se con denominazione di origine tipica o protetta): ovvero
si tratta di produzioni strettamente legate al territorio di origine
(provenienza delle materie prime utilizzabili, luogo in cui avvengono le
successive fasi di lavorazione e trasformazione), le cui caratteristiche
sono codificate nell’ambito del disciplinare di produzione, uno dei
documenti fondamentali per il riconoscimento della denominazione.
47 ? www.innovazione.arsia.toscana.it
56
A monte del processo di organizzazione della funzione di esportazione,
le imprese decidono se intraprendere un progetto di vendita sui mercati
internazionali sulla base di una richiesta di fornitura proveniente da un
cliente estero, cogliendo in sostanza un’opportunità di vendita, oppure a
seguito di preordinate strategie di sviluppo delle vendite sui mercati
esteri.
Nel primo caso la scelta di sfruttare un’opportunità di vendita emersa
senza alcun intervento da parte dell’azienda produttiva non prevede
generalmente l’assunzione di particolari rischi finanziari e la necessaria
programmazione di investimenti futuri in quanto l’alternativa di vendere
il proprio prodotto all’estero non ha un impatto diretto sulla strategia
globale dell’azienda.
Nel caso in cui, invece, l’azienda persegua un obiettivo di crescita e di
sviluppo sui mercati internazionali, allora sarà realizzata una strategia
per l’export a partire dalla scelta del Paese di destinazione attraverso
studi di mercato, seguita dalla definizione del tipo di clientela target,
delle modalità con cui sviluppare i contatti con i clienti, del prodotto da
collocare, del suo sistema distributivo e del suo prezzo di vendita, oltre
che dalla determinazione del piano finanziario delle risorse da investire
nel progetto.
A prescindere dalla motivazione che spinge un’azienda ad essere
presente sui mercati internazionali, la funzione di esportazione comporta
una serie di attività in parte comuni ad entrambi gli scenari appena
descritti e necessarie per il raggiungimento dell’obiettivo di vendita.
Agli estremi di tale processo incontriamo da un lato l’azione di raccolta
delle informazioni necessarie per esportare in relazione al Paese da
servire, dall’altro invece le azioni per la riscossione del credito derivante
dall’operazione di vendita. Tra questi due estremi si collocano una serie
di interventi che possono variare a seconda delle decisioni che l’impresa
di produzione è chiamata a prendere. Ogni passaggio successivo alla
decisione di attivare il processo di esportazione verrà caratterizzato
57
a seconda delle decisioni dell’unità di produzione, nonché dalle
condizioni del mercato di destinazione e della tipologia di prodotto da
esportare.
Generalmente il passo successivo prevede la definizione di
un’organizzazione relativa alla funzione di esportazione che può
coinvolgere personale interno oppure esterno all’impresa.
L’azienda è poi chiamata a scegliere una o più modalità perseguibili per
realizzare le strategie di esportazione o per cogliere opportunità di
vendita all’estero. Qui di seguito descriviamo brevemente le strutture e i
metodi principali che si possono adottare per esportare:
1. Grossisti e commissari esportatori: rappresenta una tra le più note
modalità di esportazione particolarmente adottata dalle imprese di
piccola – media dimensione che si affidano a degli intermediari per
esportare il proprio prodotto.
Se da un lato questa modalità richiede minimi impegni per le unità di
produzione (soprattutto dal punto di vista finanziario) dall’altro
comporta un’attenta selezione degli intermediari, in modo da ridurre i
rischi connessi a questa modalità distributiva (affidabilità degli operatori
e loro presenza nell’ambito dei circuiti distributivi del Paese di
destinazione).
2. Importatori stranieri: è un tipo di strategia simile a quella
precedente, con la differenza che in questo caso la scelta di operare con
un intermediario estero comporta il vantaggio per l’azienda di
produzione di affidarsi a un operatore in grado di conoscere meglio il
mercato di destinazione, da confrontare con le difficoltà che possono
scaturire dalla distanza geografica e dalle barriere linguistiche,
specialmente nel caso di piccole aziende produttive che incontrano
difficoltà nell’attivare rapporti commerciali con l’estero (conoscenza
delle lingue e dell’uso del computer).
58
Questa modalità è frequentemente adottata dalle piccole-medie imprese
oppure da quelle che intendono conoscere a fondo un mercato prima di
effettuare investimenti diretti.
3. Accordi commerciali con catene distributive estere per la fornitura di
private label: in questo caso la vendita del prodotto in un paese estero
avviene sotto il contrassegno di marche di operatori commerciali del
paese target, in particolare quelli della GDO, note con il nome di private
label .
Tra gli aspetti positivi questa strategia consente di raggiungere risultati
rapidi in base alla capillarità della catena distributiva e alla sua
importanza in termini di riferimento per il consumatore finale, non
comportando per i produttori la necessità di stanziare investimenti per
infrastrutture di vendita o per attivare e sostenere determinate politiche
di promozione del prodotto e/o del marchio.
Allo stesso tempo questa modalità comporta però una sostanziale
riduzione del potere contrattuale dell’impresa produttrice, spesso
costretta a sottostare ai criteri imposti dalle grandi aziende di
distribuzione, aumentando il rischio di incorrere in una bassa
remunerazione del prodotto oppure in una rapida esclusione dal mercato
in caso di mancato rinnovo del contratto da parte dell’acquirente
straniero.
4. Consorzi per le esportazioni tra imprese: è una strategia che prevede
l’istituzione di un organismo consortile specializzato per la promozione,
realizzazione e gestione delle operazioni di esportazione dei prodotti
realizzati dalle aziende consorziate. La creazione di appositi organismi
risulta utile in particolare per le piccole e medie imprese, ossia quelle
unità di produzione che spesso non possono affacciarsi sui mercati
internazionali a causa dei limiti di tipo dimensionale. Il Consorzio per
le esportazioni si occupa di raccogliere e fornire informazioni sui mercati
59
esteri e di effettuare un’ attività di ricerca di importatori. Tramite questa
strategia difficilmente si riescono a realizzare e perseguire politiche di
marketing aggressive. In linea generale l’area d’azione di questi
Consorzi è piuttosto ridotta a causa del limitato impiego di capitale e per
la mancanza di controllo dei principali elementi del marketing mix da
parte delle imprese aderenti.
5. Società di commercializzazione all’estero: questa modalità di
commercializzazione all’estero comporta la costituzione di una società
da parte di diverse imprese produttrici, oppure tra le aziende di
produzione e gli importatori al fine di curare la commercializzazione dei
prodotti in uno o più mercati geografici.
Oltre a un forte impegno organizzativo e finanziario, tale strategia
richiede la presenza di collaboratori di alto livello professionale
relativamente alla conoscenza del mercato e alla gestione
amministrativa, finanziaria e commerciale, insieme alla capacità di
sostenere gli oneri connessi.
Visto il livello di competitività su scala internazionale, ci si potrebbe
chiedere quale sia il ruolo che le imprese multinazionali rivestono nei
diversi mercati agroalimentari. Un’opinione diffusa le ritiene
responsabili di distorsioni nei mercati agroalimentari: l’imponente
struttura transnazionale consentirebbe frequenti comportamenti
oligopolistici, di fronte ai quali produttori agricoli, imprese nazionali e
gli stessi governi non avrebbero sufficiente potere contrattuale.
Nei mercati agricoli le imprese multinazionali sono innanzitutto degli
importanti traders internazionali che svolgono il ruolo di intermediari tra
paesi esportatori e paesi importatori. In molti casi, esse hanno anche
intrapreso processi di integrazione verticale: prima hanno acquistato le
strutture necessarie per il commercio internazionale (sistemi di trasporto
marittimo e fluviale, impianti di stoccaggio e di conservazione della
merce) poi si sono ramificate nei settori finanziario e bancario, per
60
garantirsi l’approvvigionamento del capitale di anticipazione necessario
a finanziare le operazioni di trading; infine, hanno esteso le loro attività a
valle nei settori della trasformazione delle commodities e, in alcuni casi,
anche a monte nella produzione agricola e dei mezzi tecnici48.
Nel settore agricolo, sebbene in termini assoluti poco interessato
dall’ondata di IDE che ha investito gli altri settori, prevalgono flussi in
una sola direzione, provenienti soprattutto dai paesi avanzati e destinati
ai paesi non – OCSE e ad alcuni paesi avanzati.
In agricoltura assumono particolare importanza le varie dotazioni
naturali dei paesi: una parte consistente degli investimenti delle
multinazionali si è indirizzata verso alcuni paesi in via di sviluppo,
perché caratterizzati da un ambiente pedo – climatico più favorevole ad
alcune produzioni e da una maggiore disponibilità di terra. Il problema di
questo settore è che certe risorse tipiche del mercato di origine non sono
facilmente, se non addirittura per nulla trasferibili o replicabili in mercati
stranieri.
In alcune circostanze, le imprese multinazionali hanno effettuato IDE
anche nella produzione agricola. Questo è il caso di numerosi beni
tropicali, come le banane, il cacao, il caffè, lo zucchero e il cotone,
produzioni nelle quali le multinazionali dei paesi sviluppati hanno
acquistato piantagioni nelle ex - colonie, allo scopo di riesportare i
prodotti nei mercati di origine; ancora oggi controllano segmenti
consistenti dell’economia agricola dei paesi in via di sviluppo, gestendo
parte delle esportazioni agricole che spesso costituiscono le principali
voci attive della bilancia commerciale. Viceversa, nell’emisfero boreale
gli IDE in agricoltura sono meno diffusi49.
Le imprese multinazionali sono presenti nei diversi stadi finali della
filiera agroalimentare, dall’industria alimentare, al settore distributivo,
fino alla ristorazione. L’industria alimentare si caratterizza per un livello
48 ? Scoppola M., (2000), “Le multinazionali agroalimentari”, Carocci Editore, Roma, pag. 61- 6249 ? Scoppola M., op. cit., pag. 63.
61
di “multinazionalizzazione” delle imprese generalmente elevato. In
questo settore la crescita degli IDE è iniziata nel dopoguerra e proseguita
fino ai giorni nostri ad un ritmo sostenuto, concentrandosi soprattutto
nei paesi avanzati. Per esempio le imprese alimentari statunitensi
hanno inizialmente intrapreso processi di integrazione orizzontale “in
senso stretto”, stabilendo nuove filiali all’estero che producevano lo
stesso bene prodotto negli Stati Uniti e privilegiando, tra le varie
destinazioni, i mercati europei.
Successivamente sono cresciute le multinazionali europee e giapponesi
che hanno localizzato una parte consistente delle proprie filiali nel
mercato statunitense. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta le
multinazionali hanno consolidato la loro presenza nell’industria
alimentare occupando posizioni di leadership in diversi mercati50.
Infine, in alcuni casi le ragioni degli IDE devono essere ricercate
nell’evoluzione dei rapporti tra l’industria alimentare e la distribuzione,
tra le quali è recentemente emersa una forma di competizione verticale:
la crescente concentrazione nell’industria alimentare ha infatti generato
un indebolimento del potere contrattuale dei settori a valle. Anche gli
IDE sono frutto della competizione verticale: a seguito dei diffusi
fenomeni di internazionalizzazione delle imprese alimentari le imprese
del settore distributivo hanno espanso la loro attività all’estero allo scopo
di aumentare il proprio potere contrattuale.
La distribuzione geografica di IDE in agricoltura si distingue da quella
che prevale nell’industria alimentare, denotando il diverso operare in
termini di localizzazione nei due settori. Nel settore agricolo, anche i
flussi di IDE tra paesi sviluppati sono determinati dalla diversa dotazione
delle risorse, per esempio Stati Uniti e Australia che presentano vantaggi
naturali per la produzione agricola costituiscono le principali
destinazioni delle principali multinazionali alimentari51.
50 ? Scoppola M., op. cit., pag. 63- 65.51 ? Scoppola M., op. cit., pag. 166.
62
Dunque la disuguaglianza nella dotazione delle risorse rappresenta un
importante fattore di localizzazione degli IDE in agricoltura, anche se
tendenzialmente le imprese hanno preferito investire nei mercati
relativamente più vicini sotto il profilo sia della distanza geografica che
di quella linguistico – culturale per ridurre i costi di insediamento
all’estero. Non è un caso, infatti, che le imprese europee abbiano
preferito stabilire le proprie filiali nelle ex – colonie.
Tra l’altro, anche i governi dei paesi ospiti hanno inciso sulla
localizzazione degli IDE agricoli, adottando spesso delle politiche non
neutrali nei confronti delle multinazionali. Alcune variabili che in altri
settori sono ritenute importanti fattori di localizzazione degli IDE in
agricoltura, invece, non hanno avuto un’influenza di rilievo.
Trascurabile è, ad esempio, l’incidenza di eventuali barriere tariffarie
alle importazioni di prodotti agricoli nei paesi ospiti: infatti, nella
maggioranza dei casi le imprese multinazionali hanno stabilito aziende
agricole con lo scopo di riesportare il prodotto su altri mercati piuttosto
che per rifornire il mercato locale per aggirare i condizionamenti
derivanti da eventuali barriere52.
Gli IDE nel settore agricolo sono investimenti che creano commercio;
sono stati determinati in molti casi non tanto dalla necessità di superare
le distorsioni dei mercati esteri, quanto piuttosto dalle differenti
dotazioni fattoriali nei vari paesi, infatti la localizzazione delle filiali
estere è orientata dalle risorse naturali.
A differenza degli IDE del settore agricolo, quelli che si sviluppano a
livello di industria alimentare sono caratterizzati da flussi incrociati tra
paesi sviluppati, ovvero IDE intra – settoriali e tra paesi simili ( America
del Nord, Europa, Giappone). In questo caso non c’è un’influenza delle
dotazioni fattoriali ma delle caratteristiche del mercato estero e si
configurano quindi come investimenti “market oriented”, per cui la
localizzazione geografica è scelta sulla base della dimensione del
52 ? Scoppola M., op. cit., pag. 168.
63
mercato estero, sulla base della domanda e della prossimità al mercato di
consumo. In questo caso le barriere commerciali sono rilevanti e
influiscono sulle scelte di localizzazione degli IDE dell’industria
alimentare. Le multinazionali hanno spesso trasferito gli impianti di
produzione proprio in quei mercati protetti da barriere commerciali sia
per conservare nel paese estero le precedenti quote di mercato (che
sarebbero spiazzate dal dazio), sia perché hanno usufruito di un prezzo
locale artificialmente elevato e della protezione dalla concorrenza
internazionale.
Infine, da alcuni studi empirici si è riscontrata una correlazione positiva
tra i tassi di cambio e IDE, vale a dire, in periodi di deprezzamento
(apprezzamento) della valuta del paese ospite sarebbero aumentati
(diminuiti) i flussi di IDE in entrata. Nel breve periodo gli IDE sono
correlati con le variazioni del tasso di cambio solo se le imprese adottano
assetti intermedi tra quello multi - domestic e globale, mentre in caso
contrario le fluttuazioni dei cambi non inciderebbero sui profitti53.
Quindi gli IDE delle imprese alimentari seguono il principio della
prossimità – concentrazione e pertanto essi si configurano come sostituti
del commercio poiché la produzione estera spiazzerebbe del tutto le
precedenti esportazioni e i prodotti di consumo finale sono venduti
prevalentemente sul mercato locale. Tuttavia, giungere a delle
conclusioni definitive non è possibile dal momento che esistono ipotesi
discordanti circa i rapporti tra IDE e commercio estero.
Il tema della sostituibilità tra IDE e commercio è molto dibattuto e
controverso poiché accanto alle ipotesi del rapporto di sostituibilità se ne
affiancano altre che fanno leva su una complementarità, infatti
Malanoski per esempio ha individuato una correlazione positiva per gli
IDE destinati ai paesi non – OCSE e per le imprese caratterizzate da una
elevata differenziazione di prodotto, mentre Overend solo per alcune
tipologie di imprese.
53 ? Scoppola M., op. cit., pag. 170 – 171.
64
Nel processo di crescita degli IDE ha rivestito una particolare
importanza il ruolo delle barriere commerciali. Iniziamo ad analizzare gli
effetti dei dazi in presenza di imprese multinazionali. L’imposizione di
un dazio nei flussi commerciali verso l’estero fa scattare la
convenienza a produrre direttamente nel paese protezionista, questo
meccanismo è chiamato “tariff jumping” in quanto l’impresa salta il
dazio producendo direttamente all’estero. In questo modo gli IDE
diventano sostituti del commercio internazionale per cui le precedenti
esportazioni vengono sostituite con la produzione diretta all’estero.
A parità di dazio, la convenienza dell’impresa a esportare, produrre
localmente, o combinare le due strategie di vendita del prodotto sul
mercato estero, dipende dalla differenza tra i costi marginali nel paese
estero e quelli nel mercato di origine: quanto maggiore è tale differenza,
tanto minore sarà la convenienza per l’impresa a spostare la produzione
all’estero54.
Tuttavia non è detto che l’imposizione di un dazio sia uno
strumento sempre valido per favorire lo sviluppo di IDE, ciò dipende
anche dalla struttura del settore in cui le imprese operano, dalla presenza
di concorrenti locali che possono avere vantaggi di costo non irrilevanti
rispetto all’impresa estera.
I negoziati internazionali per la liberalizzazione commerciale, avviatisi a
partire dall’ultimo dopoguerra, hanno subito negli anni più recenti una
notevole accelerazione, con la diffusione di accordi di varia natura: dagli
accordi multilaterali come il GATT, a quelli preferenziali, alla
proliferazione delle aree di libero scambio e delle unioni doganali.
La rimozione dei dazi di per sé genera un incremento degli scambi
commerciali e, qualora il dazio protegga dei monopoli interni, la
liberalizzazione può portare ad un aumento della concorrenza sul
mercato.
54 ? Scoppola M., op. cit., pag. 198.
65
Inoltre, la liberalizzazione può condurre allo sfruttamento delle piene
economie di scala, in quanto favorisce la concentrazione della
produzione nelle zone in cui i costi sono più bassi.
Tuttavia l’eliminazione del dazio non è detto che comporti un aumento
della concorrenza poiché crescerebbero le importazioni ma diminuirebbe
la produzione interna.
Bisogna considerare che se un impresa nazionale detiene il monopolio
nel paese protezionista, la rimozione del dazio comporta un aumento
della concorrenza perché entrano nuovi rivali attraverso le importazioni;
qualora il monopolista sia la filiale di una multinazionale, invece, la
liberalizzazione non comporta alcuna riduzione del potere di mercato55.
La creazione di unioni doganali, come nel caso dell’Unione Europea, ha
determinato un ampliamento delle dimensioni dei mercati, all’interno dei
quali non ci sono barriere agli scambi, diminuiscono i costi di trasporto e
di transazione per le imprese che vi operano. In ogni caso, in tale
mercato allargato, le imprese possono sfruttare le economie di scala
concentrando gli impianti in un unico paese riducendo i costi di
produzione. Come conseguenza, le imprese internazionali esterne
all’Unione vi investirebbero non tanto per difendere le loro quote di
mercato, quanto per mantenere un adeguato livello di competitività nei
confronti delle imprese interne all’Unione.
2.2 L’ internazionalizzazione del sistema agroalimentare italiano
Le imprese del comparto agroalimentare italiano sono caratterizzate da
una forte polverizzazione e difficilmente tendono alla cooperazione, ciò
pone delle difficoltà sia di relazioni con il settore a valle sia in termini di
capacità competitiva dei prodotti italiani sullo scenario internazionale. In
particolare, la GDO ha necessità di prodotti agricoli di qualità, ma anche
quantitativamente adeguati alle proprie esigenze di continuità dei flussi
di vendita.
55 ? Scoppola M., op. cit., pag. 218 – 220.
66
Le aziende italiane, pur stando nel gruppo di testa sulla scena mondiale,
hanno difficoltà competitive rispetto ad altri operatori internazionali e
soffrono di costi legati alle economie di scala e ciò si traduce in costi più
elevati e difficoltà di capacità di risposta alle sollecitazioni del mercato.
Questa ridotta capacità aziendale è avvertita con maggiore
problematicità in considerazione delle difficoltà infrastrutturali in molte
parti del paese. Nella tabella 1 sono indicati i risultati dell’analisi SWOT
condotta dall’INEA.
- TABELLA 1. Analisi SWOT del settore agroalimentare italiano.
Fonte: INEA (2008)
67
L’Italia è un paese strutturalmente deficitario negli scambi
agroalimentari: il comparto, infatti, rappresenta una delle principali voci
passive della nostra bilancia commerciale con l’estero, seconda solo a
quella dell’energia.
Negli ultimi due decenni, tuttavia, si è assistito ad un tendenziale
miglioramento del saldo agroalimentare, trainato soprattutto dal
cosiddetto made in Italy, ovvero da quella parte delle esportazioni di
prodotti agroalimentari trasformati, a saldo commerciale stabilmente
positivo, che richiamano all’estero la dieta alimentare italiana e che
hanno visto crescere le quote di mercato sia nei confronti dei partner
tradizionali dell’Italia (Unione Europea, USA) che nei mercati più
giovani (Giappone, Australia, Sud Est asiatico).
Il nostro paese si colloca sul mercato internazionale di prodotti
agroalimentari come forte importatore di materie prime agricole,
mentre invece il deficit è molto più contenuto se si guarda alla sola
industria alimentare. In particolare, l’Italia si approvvigiona in gran parte
dall’estero per quei prodotti, prevalentemente agricoli, ma anche della
prima trasformazione, che vengono reimpiegati come materie prime
per l’industria alimentare, mentre il paese è meno dipendente dai mercati
internazionali per quanto riguarda i prodotti destinati al consumo
alimentare diretto.
Il commercio internazionale dell’Italia negli ultimi anni è
progressivamente cresciuto fino a superare i 700 miliardi di euro nel
2008. Il saldo della bilancia commerciale è passato da una condizione
positiva ad una posizione debitoria di oltre 4 miliardi. Questo trend
negativo è causato principalmente dalla crescita rilevante delle
importazioni che, dal 1995 al 2008, sono più che raddoppiate passando
da 173 ad oltre 362 miliardi di euro.
Le esportazioni, pur aumentando nel suddetto periodo, sono cresciute
meno delle importazioni. Il saldo commerciale del comparto
68
agroalimentare è quindi migliorato passando da –9,4 miliardi di euro a -
6,7 miliardi56.
Anche il sistema agroalimentare nazionale nel corso degli ultimi decenni
ha visto crescere l’importanza degli scambi commerciali e quindi del suo
grado di apertura verso i principali paesi europei ed extraeuropei.
L’apertura dell’Italia verso il resto del mondo si è concretizzata con un
forte aumento degli scambi commerciali dei prodotti agricoli ed
alimentari che nel 2008, registrano un valore complessivo(agricoltura
ed industria alimentare) superiore ai 32 miliardi per le importazioni e
attorno a 25 miliardi per le esportazioni.
- Grafico 1.Gli scambi agroalimentari dell’Italia (Var. % sul corrispondente
trim. anno precedente)
Fonte: INEA (2010), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”
56 ? www.bologna.confcooperative.it
69
La situazione per le esportazioni agroalimentari italiane, illustrata nel
Grafico 2 riportato in basso, indica come nei primi tre mesi del 2010
sono aumentate le vendite all’estero verso quasi tutte le aree.
Come per le importazioni, un ruolo centrale è svolto dai partner europei,
ma in questo caso sono tutte le principali aree di destinazione a mostrare
(nel primo trimestre 2010) un’inversione di tendenza rispetto
all’andamento fortemente negativo registrato nello stesso periodo
dell’anno precedente e, più in generale, in tutto il 2009.
Il trend positivo per le esportazioni trova conferma nell’analisi dei
singoli paesi: dei dieci principali clienti, ai quali viene destinato oltre il
70% delle esportazioni agroalimentari italiane, solo per la Svizzera non
si riscontrano variazioni, con le componenti quantità (+6,7) e prezzo
(-6,4%) che si compensano; in tutti gli altri casi, nonostante la riduzione
dei prezzi, si riscontrano incrementi, in valore, compresi tra il 3,4 %
(Grecia) e il 18,8% (Austria)57.
- Grafico 2. Destinazione delle esportazioni agroalimentari italiane (Var. % I Trimestre). La dimensione delle sfere rappresenta il peso delle esportazioni AA destinate ad una determinata area rispetto alle esportazioni AA complessive dell’Italia, in riferimento ai primi 3 mesi del 2010.
Fonte: Istat (2010), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”
57 ? INEA (2010),“Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag 45.
70
Le imprese globali che sono conosciute in Italia per avere un brand e un
approccio globale e che notoriamente affrontano i mercati internazionale
con lo stesso prodotto o tendenzialmente con un prodotto uniforme sono
tra le più sensibili al tema della configurazione del coordinamento delle
decisioni. Altro aspetto interessante è che risulta fortemente prioritario
per queste aziende lavorare sulla centralizzazione e sulla socializzazione;
quindi molte di queste imprese credono di poter portare avanti il loro
approccio storico, tipicamente di tipo etnocentrico, in virtù del quale
definire le proprie strategie sulla base del mercato interno per poi
internazionalizzare il sistema, limitandosi a verificare che non esistano
ostacoli. Un approccio di questo tipo viene portato avanti centralizzando
le decisioni e presupponendo un minimo di coordinamento ai fini della
verifica finale della mancata esistenza di vincoli all’implementazione.
Le imprese italiane, specie le multinazionali che sviluppano investimenti
diretti esteri, riescono in qualche modo ad avere approcci globali. La
globalizzazione delle attività di marketing non è quindi impossibile.
Non bisogna, tuttavia, dimenticare che le aziende italiane hanno
sovente successo sulla base di fattori largamente noti alla letteratura,
ovvero grazie al fatto che i prodotti italiani sono molto differenziati e
peculiari, indipendentemente dal settore a cui ci riferiamo. Lo stile, il
gusto e il design diventano così fattori di differenziazione esclusiva e
quando un’impresa ha prodotti tendenzialmente unici, che non entrano in
collisione diretta con i prodotti della concorrenza, ha normalmente di
fronte segmenti transnazionali.
L'approccio globale è favorito anche dalla riconoscibilità dei prodotti e
dal fatto che le imprese pongono il loro focus sulle similarità
transnazionali, senza scadere in un approccio globale di massa. La
presenza delle imprese italiane sui mercati esteri evidenzia seri segnali di
difficoltà, resi palesi dalla flessione della quota italiana sulle esportazioni
mondiali, scesa dal 5% dei primi anni Novanta a meno del 3% attuale.
71
Le imprese italiane non solo hanno perso terreno a vantaggio dei diretti
concorrenti asiatici, ma sono anche in ritardo rispetto alle esportazioni di
alcuni dei tradizionali concorrenti europei (Francia, Germania e Spagna).
Le cause di tali difficoltà di inserimento nel circuito internazionale del
commercio sono molteplici, ma due sono particolarmente rilevanti: la
struttura dimensionale del sistema produttivo italiano e la forte
specializzazione settoriale delle nostre imprese.
Anche sotto il profilo degli IDE il ruolo delle imprese italiane risulta
piuttosto marginale: gli investimenti diretti all’estero infatti costituiscono
solo il 3,5% del totale mondiale, una quota inferiore rispetto a quella
tipica dei concorrenti europei. Risulta anche limitato il ricorso alle nuove
forme di internazionalizzazione come le joint venture o l’instaurazione di
accordi di natura commerciale con operatori esteri. È necessario, per le
imprese italiane, non prescindere da un costante miglioramento della
loro capacità di presidio del mercato internazionale al fine di difendere la
competitività del paese.
L’instabilità della presenza internazionale delle imprese italiane si
associa alla limitata capacità delle stesse di diversificare i mercati di
sbocco e cioè di essere contemporaneamente presenti in più aree. Da
qui la concentrazione delle vendite in pochi mercati, quelli
territorialmente più vicini. Basti pensare che, secondo i dati disponibili,
la quota delle imprese monomercato, benché in tendenziale flessione, è
ancora elevata. E non a caso le imprese monomercato sono anche le più
piccole58.
Le imprese italiane hanno dimostrato eccellenti capacità di adattamento
dei loro prodotti alle esigenze espresse dai mercati locali, con
tempestività e flessibilità non di rado superiori rispetto ad altri
concorrenti internazionali. Di contro, le imprese giapponesi hanno
dimostrato l’efficacia della politica degli “incrementalismi”, ovvero dei
58 ? Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag 111.
72
costanti miglioramenti apportati alla tecnologia e alla configurazione dei
loro prodotti.
Queste tendenze inducono le imprese agroalimentari a sperimentare
presenze in mercati esteri sia europei che non. Le principali modalità di
ingresso nei flussi commerciali internazionali sono quelle esportative
con eventuali rapporti con grossisti – importatori stranieri che
acquisiscono la merce dai produttori italiani. Infatti la bilancia
commerciale del settore agroalimentare è migliorata dal 2005: si
tratta di una tendenza di segno opposto a quella del commercio estero
complessivo che ha pagato gli effetti dell’apprezzamento dell’euro sul
dollaro e del caro petrolio.
Il buon risultato dell’agroalimentare è da attribuirsi all’aumento delle
esportazioni ed al contemporaneo rallentamento delle importazioni. Tra i
principali paesi esportatori di tali prodotti, l’Italia occupa ancora un
posto di rilievo, con una quota di mercato mondiale consistente,
maggiore di quella di paesi a forte vocazione agroalimentare quali
Canada, Brasile, Cina.
Nell’ambito della U.E. l’Italia ha una quota di circa il 7% dell’export
agroalimentare interno all’area. L’andamento delle ragioni di scambio
negli ultimi anni è stato più favorevole per l’agricoltura per effetto della
crescita accentuata dei prezzi all’export dei prodotti agricoli. Ciò indica
non solo una tendenza positiva ad esportare prodotti di maggiore valore
unitario (quindi maggiore qualità) rispetto a quelli importati; ma grazie
al potere di mercato degli esportatori è stato possibile in questi anni
scaricare sui prezzi esteri la forte crescita dei prezzi all’origine dei
prodotti agricoli.
Osservando il fenomeno della internazionalizzazione, si rileva che
l’industria alimentare italiana è uno dei settori più attivi in termini di
internazionalizzazione e un ruolo fondamentale lo giocano la produzione
e la qualità.
73
Anche la capacità di innovare è un fattore determinante per il successo
imprenditoriale e permette di creare vantaggi competitivo a livello
settoriale tra i vari paesi poiché favorisce l’aumento della produttività e
migliora le performance di impresa.
Da una valutazione dedotta attraverso l’indicatore sintetico
dell’innovazione, proposto dalla Commissione Europea, l’industria
alimentare italiana è in linea con la capacità innovativa del settore
riscontrata in Europa59.
Sul tema del made in e della valenza competitiva legata al marchio sui
propri prodotti, il marchio di origine è ritenuto un fattore di successo.
Sono soprattutto le aziende di minori dimensioni a considerare il
made in Italy un fattore particolarmente determinante per la propria
strategia di internazionalizzazione, come evidenzia il saldo delle risposte
per le imprese con meno di 50 addetti. Gli investimenti diretti esteri
giocano un ruolo importante nella crescita economica e nello sviluppo
territoriale.
Con il notevole aumento dei flussi IDE nel settore agroalimentare a
livello mondiale l’attenzione si è concentrata sul dibattito relativo alle
determinanti che spingono alla scelta di un territorio piuttosto che un
altro. Non esiste ancora un lavoro definitivo ed univoco sulle
determinanti degli IDE.
Alcune delle più frequenti analisi sui fattori che influenzano gli IDE
includono: l’entità del mercato, il costo del lavoro, i tassi di interesse, le
barriere protezionistiche, tassi di cambio, predisposizione all’export,
struttura del mercato, distanze geografiche, stabilità politica e affinità
culturale.
Nel corso dell’ultimo decennio il valore aggiunto dell’agricoltura
italiana si è ridotto, mostrando un settore in affanno e che va valutato
con preoccupazione. La produttività del lavoro dell’agricoltura è molto
59 ? www.ministeroattivitàproduttive.areainternazionalizzazione.it
74
più bassa, circa la metà, rispetto a quella dell’economia nel suo
complesso. Tutto ciò può essere attribuito a fattori strutturali, quali le
ridotte dimensioni delle aziende agricole che caratterizzano il territorio
italiano.
La riduzione dei prezzi agricoli all’origine è da ricollegare all’andamento
dell’offerta. Il problema è che i prezzi di vendita dei prodotti agricoli
sono più bassi nella fase di origine, mentre lo stesso non si è verificato
nel resto dell’economia, dove i costi relativi ai mezzi di produzione, ai
prodotti energetici ed ai concimi hanno subito un aumento.
I consumi domestici di prodotti alimentari delle famiglie italiane, hanno
avuto negli ultimi anni un andamento stagnante, poiché si è registrata
una crescita dei prezzi al consumo e un calo dei volumi, infatti la
contrazione delle quantità acquistate ha riguardato tutti i gruppi di
prodotti, con riduzioni notevoli per gli ortaggi, per la frutta fresca e
trasformata. Tra i principali paesi esportatori di prodotti agroalimentari
nel mondo, l’Italia occupa ancora un posto di rilievo, con una quota di
mercato mondiale consistente, maggiore di paesi a forte vocazione
agroalimentare quali Canada, Cina e Brasile.
I primi mesi del 2010 sembrano mostrare segnali di ripresa per gli
scambi con l’estero dell’Italia, sia per la bilancia complessiva che per il
settore agroalimentare, dopo un 2009 caratterizzato dal crollo dei flussi
internazionali di beni come conseguenza della crisi economica mondiale.
Nel 2009, infatti, dopo il trend positivo registrato negli ultimi anni, le
esportazioni si sono ridotte dell’8%, mentre per le importazioni la
contrazione ha raggiunto il 10%. Tali riduzioni significative del settore
agroalimentare sono decisamente più contenute del commercio
complessivo dell’Italia che si riduce, infatti, di oltre venti punti
percentuali, determinando un aumento del peso del settore
agroalimentare che raggiunge l’8,5% delle esportazioni e supera il 10%
delle importazioni totali del Paese60.
60 ? INEA (2010), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag 42.
75
Nel primo trimestre 2010, per quanto riguarda la bilancia commerciale
complessiva, tornano a crescere sia le importazioni (+14,3%) che le
esportazioni (+9,4%) dopo una contrazione, nello stesso periodo del
2009, vicina al 23% per entrambi i flussi. Anche gli scambi con l’estero
dei prodotti agroalimentari evidenziano, nel primo trimestre, un trend
positivo dopo il calo, nello stesso periodo dell’anno precedente, del
10,6% per i flussi in entrata e del 5,7% per quelli in uscita. Le
importazioni agroalimentari si attestano a 8.036 milioni, con un
incremento dell’8,3%, mentre crescono di oltre dieci punti percentuali le
esportazioni, pari a 6.433 milioni di euro. Ne consegue, per il settore,
una sostanziale stabilità del deficit commerciale, che passa da 1.590
milioni (I trim. 2009) a 1.603 milioni di euro (I trim. 2010), mentre
migliora di un punto percentuale il saldo normalizzato19, che si attesta a
-11,1%. Questi risultati acquistano maggiore rilievo se confrontati con la
performance degli scambi complessivi al netto dell’agroalimentare: in
questo caso, infatti, il saldo commerciale peggiora di quasi 4 miliardi di
euro, attestandosi a -6.798 milioni, mentre il saldo normalizzato (-4,7%)
peggiora di oltre il 2% nel trimestre considerato61.
Grafico3. Principali clienti dell’Italia Grafico 4. Principali fornitori dell’Italia
Fonte: INEA (2010), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”.
61 ? INEA (2010), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag. 43 – 45.
76
Nel complesso, quindi, la performance degli scambi con l’estero dei
prodotti agroalimentari sembra essere positiva: dopo aver mostrato, nel
corso del 2009, una maggiore tenuta in un periodo di congiuntura
fortemente negativa per l’economia mondiale, il settore agroalimentare
italiano, nei primi mesi del 2010, sembra reagire meglio di altri settori,
mostrando maggiori segnali di ripresa negli scambi internazionali.
Analizzando le componenti che hanno determinato questo trend positivo
emerge che sono quasi esclusivamente i volumi scambiati ad essere
cresciuti mentre si assiste ad un netto calo dei prezzi.
Alla crescita degli scambi agroalimentari, registrata all’inizio del 2010,
si associa quindi una preoccupante riduzione dei prezzi delle vendite che,
dopo essersi contratti di cinque punti percentuali nel corso del 2009, si
riducono dell’8,6% nei primi tre mesi del 2010 (rispetto allo stesso
periodo dell’anno precedente)62.
A livello mondiale, secondo il rapporto della FAO63, la caduta dei prezzi
dei cereali e dello zucchero è stato uno dei principali fattori a
determinare il declino dei prezzi registrato nei primi mesi del 2010; in
particolare, il prezzo dello zucchero si è quasi dimezzato, rispetto al
picco raggiunto all'inizio dell'anno, a causa delle prospettive di un
aumento significativo della produzione.
In generale, il calo dei prezzi è in parte attribuibile all’aumento generale
dell’offerta: il boom dei prezzi di alcune produzioni, registrato nel
biennio 2008 - 2009, ha portato ad una ripresa delle scorte ed un
aumento del rapporto stock/utilizzo e secondo la FAO questa tendenza
prevarrà anche nel 2011.
Analizzando la tabella 2 che indica i primi 5 comparti di esportazione
negli scambi agroalimentari dell’Italia, è evidente come, dal lato delle
esportazioni, i principali comparti hanno mostrato un andamento
negativo nel 2009; un’eccezione è rappresentata dagli ortaggi trasformati
62 ? INEA (2010),“ Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag. 43 – 44.63 ? www.fao.org/newsroom/it.
77
per i quali le vendite all’estero sono cresciute del 5,5%: in realtà le
quantità vendute di ortaggi trasformati si sono ridotte del 3%, anche se
compensate dal marcato aumento dei prezzi (+8,5%).
Particolarmente rilevante la contrazione delle vendite, in valore, per la
frutta fresca (-20,1%) che, per i principali prodotti, ha subìto il
più pesante calo dei prezzi (-18%).
Per questo ultimo comparto l’analisi trimestrale mostra una ulteriore
contrazione, sebbene molto contenuta, mentre una netta inversione di
tendenza si riscontra per le esportazioni di bevande che, dopo essersi
ridotte del 5,8% nel 2009, tornano a crescere di oltre il 14% nei primi tre
mesi del 2010.
- Tabella 2.Primi 5 comparti di esportazione negli scambi agroalimentari
dell’Italia
Fonte: INEA( 2010), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”.
78
- Tabella 3 . Primi 5 prodotti di esportazione negli scambi agroalimentari dell’Italia
Fonte: INEA (2010), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”.
Nel 2009 i prodotti del made in Italy64, nonostante una contrazione
significativa delle esportazioni (-5,9%), sembrano tenere meglio
rispetto agli altri comparti dell’agroalimentare. La maggiore riduzione si
riscontra nel made in Italy “agricolo”, a causa del citato crollo dei
prezzi per la frutta fresca.
Per il made in Italy “trasformato” e “dell’industria alimentare”, invece, il
calo è stato inferiore al 4%. Tra i prodotti maggiormente colpiti dagli
effetti della crisi economica troviamo la pasta (-9,8%) e l’olio d’oliva
(-21,4%), mentre nettamente positivo è il risultato dell’export di
pomodoro trasformato che, grazie all’impennata dei prezzi registrata nel
2009, ha mostrato una crescita in valore pari all’8%.
L’analisi dell’andamento dei vini confezionati, principale voce di
esportazione del made in Italy, permette di rilevare come i vini non
64 ? L’INEA, sulla base dei dati Istat, realizza l’aggrega il Made in Italy in tre componenti: agricolo, trasformato e dell’industria Alimentare.
79
VQPRD, grazie ad un discreto incremento delle quantità vendute,
abbiano tenuto meglio rispetto ai vini di qualità, per i quali al calo dei
prezzi si è sommata la contrazione dei volumi esportati.
Nel corso dei primi tre mesi del 2010 anche il made in Italy, come
l’agroalimentare nel complesso, mostra una ripresa, in valore, delle
esportazioni (+9,4%); anche per questi prodotti bisogna, però, riscontrare
un calo dei prezzi di vendita (-6,5%) che, sebbene meno marcato rispetto
ad altri settori, potrebbe destare preoccupazioni data la necessità di un
corretto riconoscimento sul mercato, attraverso la componente prezzo,
della maggiore qualità di questi prodotti.
Uno dei principali mercati di sbocco per questi prodotti è rappresentato
dagli Stati uniti, verso i quali le esportazioni agroalimentari italiane sono
cresciute, nel primo trimestre 2010, di oltre otto punti percentuali grazie
anche all’apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro.
È interessante evidenziare l’andamento, nell’ultimo periodo, dei due
principali prodotti di esportazione verso gli USA, entrambi appartenenti
al made in Italy e con un’incidenza complessiva vicina al 25% sulle
vendite agroalimentari italiane destinate a quest’area: i vini rossi e rosati
di qualità e l’olio di oliva vergine ed extravergine.
Per entrambi i prodotti le vendite, nel corso del 2009, si sono ridotte tra
il 12% e il 15%; mentre nei primi tre mesi del 2010 tale contrazione è
stata in parte recuperata con incrementi tra l’8% e il 6% rispetto allo
stesso periodo dell’anno precedente.
Altro mercato di grande interesse è quello cinese che, sebbene
rappresenti “solo” lo 0,5% delle esportazioni agroalimentari italiane,
risulta in forte sviluppo negli ultimi anni. Nel 2009 la Cina è stata
sostanzialmente l’unico dei principali 30 clienti verso cui siano
aumentate le esportazioni agroalimentari e tale incremento è stato di
oltre 35 punti percentuali65.
65 ?INEA (2010), “ Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag. 48- 49.
80
2.3 La politica agricola comunitaria e i suoi pilastri
Un fatturato di circa 73 miliardi di Euro, di cui oltre 14,5 esportati, 460
mila addetti che operano in 70 mila imprese. Questi i dati aggregati del
“made in Italy” agroalimentare al 2010, il terzo in Italia dopo quelli della
meccanica e del tessile- abbigliamento. Ma oltre i dati il patrimonio
enogastronomico italiano è l’essenza stessa della cultura, dello stile di
vita e delle tradizioni del nostro Paese. Oggi il mercato mondiale offre
sfide ed opportunità straordinarie a questo comparto che dovranno
trovare nelle istituzioni interlocutori attenti, reattivi e propositivi.
Il panorama aperto dalle positive risoluzioni del vertice WTO di Doha
sulla salvaguardia dei prodotti di qualità crea le premesse per avviare una
seria politica mondiale di contrasto alla contraffazione ed imitazione dei
prodotti eno - alimentari a denominazione registrata ed allo stesso tempo
offre un eccezionale elemento di identificazione per rendere più efficace
e produttiva la promozione pubblica e le politiche di penetrazione
aziendali.
In questo quadro di maggiore certezza internazionale, il Ministero delle
Attività Produttive, il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e le
Regioni sono concordi nell’operare congiuntamente ed in sintonia per
una promozione e valorizzazione di sistema che, rispettando le
specificità, consenta di unificare ed ottimizzare le immense risorse
promozionali oggi disperse in troppi canali.
La ricchezza del patrimonio agroalimentare italiano, costituito da grandi
imprese e da piccole aziende, da specialità tipiche e da produzioni
industriali, è tale da poter essere promosso con efficacia sui mercati
esteri, a condizione di identificare le priorità da raggiungere, le
strategie di intervento da adottare, i mercati da interessare, i
soggetti da coinvolgere, le risorse da utilizzare.
In questo contesto, è quindi indispensabile uno strumento di confronto
costante e concreto fra le categorie produttive, le istituzioni e tutte le
81
parti coinvolte, al fine di poter ricondurre ad una visione nazionale
ed unitaria la politica promozionale sui mercati esteri che segua la
linea logica: obiettivi – strategie – strumenti – interventi – risultati. Il
sostegno al settore primario nel nostro Paese si articola su diversi
livelli di competenze e responsabilità, utilizzando strumenti finanziari e
regolativi altamente differenziati tra loro sia in termini di dotazione di
risorse, sia per obiettivi e finalità.
La Politica Agricola Comune (PAC) è la maggiore componente di spesa
dell’Unione Europea, nonché uno dei maggiori driver dell’agricoltura e
dell’economia delle aree rurali europee. La PAC (Politica Agricola
Comune o Comunitaria), fin dal suo inizio si era prefissata due obiettivi:
1) Soddisfare gli agricoltori grazie al prezzo di intervento. Questo era il
prezzo minimo garantito per i prodotti agricoli stabilito dalla Comunità
Europea. Il prezzo delle produzioni non poteva scendere al di sotto di
questo;
2) Orientare le imprese agricole verso una maggiore capacità produttiva
(limitando i fattori della produzione, aumentando lo sviluppo tecnologico
e utilizzando delle migliori tecniche agronomiche).
Il primo pilastro della PAC è la sezione Garanzia del FEOGA (Fondo
europeo di orientamento e garanzia in agricoltura) che finanzia i
pagamenti diretti agli agricoltori e le misure di gestione dei mercati
agricoli attuate nell’ambito delle Organizzazioni comuni di mercati
(OCM) che rappresentano il primo pilastro della PAC e costituiscono lo
strumento fondamentale di regolazione dei mercati nella misura in cui
disciplinano la produzione e il commercio dei prodotti agricoli degli
Stati-membri: eliminando gli ostacoli che possono inibire gli scambi
intracomunitari di prodotti agricoli e mantenendo una barriera dognale
comune nei confronti dei paesi terzi con i quali si interagisce.
82
In seguito alla riforma della PAC del 2003, la maggior parte delle OCM
sono sottoposte al nuovo sistema di pagamento unico per azienda e di
disaccoppiamento. Gli Stati membri che fanno parte dell' Unione
sin dal 1° maggio 2004 partecipano direttamente al nuovo sistema.
Inoltre modifiche sono state introdotte nei meccanismi di gestione delle
crisi e nella qualifica ambientale delle aziende.
La PAC dovrebbe contribuire a mantenere un sistema agricolo
diversificato sul territorio, in particolar modo nelle aree remote, e
assicurare la fornitura di beni pubblici. La Politica Agricola
Comunitaria ha costituito, fin dal Trattato di Roma, uno degli
strumenti principali per la costruzione dell’Unione europea. Oggi, a
cinquant’anni dal suo avvio, è innegabile il ruolo della PAC come
catalizzatore nei processi di integrazione economica e sociale nei Paesi
dell’Unione. Progressivamente nel tempo, talvolta con una velocità non
del tutto allineata con i cambiamenti degli obiettivi da raggiungere, sono
stati modificati compiti e funzioni.
I processi di revisione degli strumenti a disposizione della PAC sono stati
accompagnati da conseguenti rettifiche finanziarie che hanno
sostanzialmente ridotto il budget a disposizione, passando dall’89% di
peso nel bilancio comunitario (comprensivo delle spese dello sviluppo
rurale) del 1970 al 44% dell’attuale quadro finanziario ( come evidenzia
il Grafico 5, indicando l’andamento dal 1970 sino alle previsioni relative
al 2013)66. Tale evoluzione si è resa necessaria anche a seguito della
revisione degli obiettivi di coesione dell’Unione e del suo progressivo
allargamento, mediante un maggiore ruolo assegnato alle politiche di
sviluppo regionale.
66 ? De Castro P., (2010), “European agriculture and new global challenges”, Donzelli Editore, pag 98
83
- Grafico 5. Evoluzione della spesa comunitaria per capitoli agricoli (% sul totale)
Fonte: De Castro P., (2010), “European agriculture and new global challenges”,
Donzelli Editore, pag. 98.
Il secondo pilastro della PAC è rappresentato dagli investimenti in
favore dello sviluppo rurale, finanziati per la programmazione 2007-
2013 dal Fondo Europeo per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale
(FEASR). Come si è visto in precedenza il budget a disposizione dello
sviluppo rurale ha assunto quote crescenti nel bilancio comunitario, e
attualmente pesa per quasi il 10% del totale. Per la programmazione
2007-2013 le risorse assegnate allo sviluppo rurale sono state
incrementate rispetto all’iniziale assegnazione a seguito degli effetti
della modulazione obbligatoria (anni 2007 e 2008) e dell’attuazione
dell’Health Check (dal 2009).
Sulla base di questi incrementi, attualmente, il nostro Paese conta su una
dotazione comunitaria (fonte FEASR) di quasi 9 miliardi di euro (pari al
9% del budget complessivo assegnato a tutti gli Stati Membri), a cui si
aggiungono altri 8,6 miliardi di euro di spesa pubblica nazionale e
regionale per il periodo 2007-2013.
84
Quindi, quasi 18 miliardi di euro rappresentano il capitale a disposizione
delle aree rurali per conseguire gli obiettivi del rafforzamento della
competitività (asse I), miglioramento delle condizioni ambientali (asse
II), innalzamento della qualità della vita e sostegno alla diversificazione
del reddito (asse III) e supporto alla creazione e mantenimento di forme
di governance locali (asse IV)67.
Le risorse aggiuntive FEASR derivanti dalla modulazione obbligatoria,
dalla riforma vino, dall’Health Check (HC) e dal Recovery Plan (reg. CE
n. 473/2009 per il miglioramento delle infrastrutture per internet a banda
larga per le aree rurali) sono state complessivamente per tutti i 27 Stati
dell’Unione pari a 5,2 miliardi di euro, e 694 milioni di euro sono stati
destinati al nostro Paese. Questo nuovo ammontare di risorse ha
comportato nel corso del 2009 una revisione degli strumenti
programmatori che danno attuazione alla politica di sviluppo rurale (il
PSN e i PSR), secondo procedure complesse e con uno sforzo
organizzativo che, a volte, appare sproporzionato, tanto più se si
considera che in molti casi gli obiettivi richiamati dalle nuove sfide
dell’Health Check risultano già integrati nei documenti di
programmazione approvati. Le risorse aggiuntive dell’HC sono state
trasferite con un vincolo di destinazione alle cosiddette “nuove sfide” e
nel nostro Paese le scelte finanziarie fatte nei programmi hanno attribuito
il 20% delle nuove risorse agli investimenti per la banda larga e alle
risorse idriche, il 19% alla biodiversità, il 18% alla ristrutturazione del
settore lattiero caseario, il 17% ai cambiamenti climatici e, infine, il 6%
alle energie rinnovabili.
Il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) è uno
strumento, istituito dal regolamento (CE) n. 1290/2005, che mira a
rafforzare la politica di sviluppo rurale dell’Unione e a semplificarne
l’attuazione. Migliora in particolare la gestione e il controllo della nuova
67 ? INEA (2010),“Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag. 52 – 54.
85
politica di sviluppo rurale per il periodo 2007-2013. Il presente
regolamento stabilisce le norme generali per il sostegno comunitario a
favore dello sviluppo rurale finanziato dal FEASR. Definisce inoltre gli
obiettivi della politica di sviluppo rurale e il quadro in cui essa si
inserisce. Il Fondo contribuisce a migliorare:
- la competitività del settore agricolo e forestale;
- l’ambiente e il paesaggio;
- la qualità della vita nelle zone rurali e la diversificazione dell’economia
rurale.
Il Fondo fornisce un’assistenza complementare alle azioni nazionali,
regionali e locali che contribuiscono alle priorità della Comunità. La
Commissione e gli Stati membri vigilano inoltre sulla coerenza e la
compatibilità del Fondo con le altre misure di sostegno finanziate dalla
Comunità.
Ogni Stato membro elabora un piano strategico nazionale
conformemente agli orientamenti strategici che sono stati adottati dalla
Comunità. Ogni Stato membro trasmette in seguito il proprio piano
strategico nazionale alla Commissione prima di presentare i propri
programmi di sviluppo rurale. Il piano strategico nazionale copre il
periodo che intercorre tra il 1° gennaio 2007 e il 31 dicembre 2013, e
comprende:
- una valutazione della situazione economica, sociale e ambientale, e
delle possibilità di sviluppo;
- la strategia adottata per l’azione congiunta della Comunità e dello Stato
membro,le priorità tematiche e territoriali;
- un elenco dei programmi di sviluppo rurale destinati ad attuare il piano
strategico nazionale e la ripartizione delle risorse del FEASR tra i vari
programmi;
- i mezzi volti ad assicurare il coordinamento con gli altri strumenti della
politica agricola comune, il FESR, il FSE, il FC, il Fondo europeo per la
pesca e la Banca europea per gli investimenti;
86
- eventualmente, l’importo della dotazione finanziaria destinata al
raggiungimento dell’obiettivo «convergenza»;
- la descrizione delle modalità di attuazione della rete rurale nazionale
che raggruppa le organizzazioni e le amministrazioni operanti nel settore
dello sviluppo rurale e l’importo destinato alla sua attuazione. I piani
strategici nazionali sono attuati mediante programmi di sviluppo rurale
che presentano una serie di misure raggruppate intorno a 4 assi:
-Asse 1: miglioramento della competitività dei settori agricolo e
forestale;
-Asse 2: miglioramento dell’ambiente e dello spazio rurale;
-Asse 3:qualità della vita in ambiente rurale e diversificazione
dell’economia rurale;
-Asse 4: Leader (attuazione di strategie locali di sviluppo tramite
partenariati pubblico-privati denominati «gruppi d’azione locale).
Le strategie applicate a territori rurali ben delimitati devono conseguire
gli obiettivi di almeno uno dei tre assi precedenti; i gruppi d’azione
locale hanno inoltre la possibilità di attuare progetti di cooperazione
interterritoriali o transnazionali.
Il FEASR è dotato di un bilancio di 96,319 miliardi di euro (prezzi
correnti) per il periodo 2007-2013, ossia il 20% dei fondi destinati alla
PAC. Su iniziativa degli Stati membri, il Fondo può finanziare azioni
relative alla preparazione, alla gestione, alla sorveglianza, alla
valutazione, all’informazione e al controllo dell’intervento dei
programmi, entro il limite del 4% dell’importo totale di ciascun
programma.
L’importo del sostegno comunitario allo sviluppo rurale, la sua
ripartizione annuale e l’importo minimo da assegnare alle regioni che
possono beneficiare dell’ obiettivo "convergenza" sono stabiliti dal
87
Consiglio, il quale delibera a maggioranza qualificata su proposta della
Commissione, conformemente alle prospettive finanziarie 2007 –
2013 e all’ accordo interistituzionale sulla disciplina di bilancio
e il miglioramento della procedura di bilancio. Per la programmazione
gli Stati membri tengono altresì conto degli importi provenienti dalla
modulazione.
La Commissione vigila inoltre affinché il totale degli stanziamenti
provenienti dal FEASR e da altri Fondi comunitari come il Fondo
europeo di sviluppo regionale, il Fondo sociale europeo e il Fondo di
coesione, rispetti determinati parametri economici.
Nell’ambito della gestione condivisa tra la Commissione e gli Stati
membri, questi ultimi devono designare, per ciascun programma di
sviluppo rurale, un’autorità di gestione, un organismo pagatore e un
organismo di certificazione.
Essi sono inoltre responsabili dell’informazione e della pubblicità
relative alle operazioni cofinanziate. Ciascuno Stato deve altresì
creare un comitato di sorveglianza che accerti l’efficacia dell’attuazione
del programma. L’autorità di gestione di ogni programma deve inoltre
trasmettere alla Commissione una relazione annuale relativa alla
esecuzione del programma.
La politica e i programmi di sviluppo rurale sono oggetto di valutazioni
ex ante, intermedie ed ex post, intese a rafforzare la qualità, l’efficienza e
l’efficacia dell’attuazione dei programmi di sviluppo rurale.
Queste valutazioni saranno volte a trarre insegnamenti sulla politica di
sviluppo rurale, identificando i fattori che hanno contribuito al successo
o al fallimento dell’attuazione dei programmi, gli impatti socioeconomici
e gli impatti sulle priorità comunitarie. Al termine del negoziato con
Bruxelles, il quadro complessivo dei PSR risulta essere il seguente.
Al primo asse, che è finalizzato al rafforzamento complessivo del settore
attraverso investimenti diretti all’innalzamento della competitività, viene
dedicato quasi il 40% del budget pubblico complessivo.
88
Il secondo asse che ha come obiettivo il miglioramento delle condizioni
ambientali, in prevalenza tramite l’erogazione di premi aziendali,
assorbe un altro 40% e il rimanente 20% si divide tra il terzo e quarto
asse.
Nel dare attuazione alla Politica di sviluppo rurale, un ruolo centrale
nelle procedure di funzionamento è dedicato alla capacità di spesa. Già
dalla passata programmazione era stato introdotto per tutti i fondi
strutturali (compreso il fondo di sviluppo regionale e fondo sociale
europeo) il meccanismo del disimpegno automatico.
Secondo tale meccanismo, se nei due anni successivi all’iscrizione nel
bilancio comunitario delle risorse finanziarie queste non vengono spese
per i programmi per i quali sono state impegnate, tali risorse vengono
stornate dal programma di riferimento e ritornano a Bruxelles per venire
reimpiegate.
La capacità di spesa, intesa come rapporto tra le risorse programmate e
quelle erogate, pertanto, diventa non solo un indicatore di efficienza
amministrativa ma anche uno strumento premio/penalità68.
Nel corso del 2010 si è intensificato il dibattito sulla forma che dovrà
assumere la Politica agricola comunitaria dopo il 2013. Nel giugno del
2010 è stata aperta dalla Commissione europea la consultazione
pubblica, anche con un forum on-line, finalizzato a raccogliere
contributi, idee e pareri da parte di istituzioni, stakeholder e cittadini, ed
entro il 2010 è prevista la comunicazione della Commissione.
La discussione si incentra su tre aspetti fondamentali: gli obiettivi che la
politica dovrà porsi, alla luce di un quadro economico profondamente
mutato negli ultimi cinque anni, le risorse finanziarie su cui potrà
contare, in un’ottica di revisione complessiva del bilancio comunitario, i
meccanismi di funzionamento che dovrà adottare, coerenti con il nuovo
scenario di riferimento.
- Tabella 4. Risorse finanziarie FEASR e Spesa pubblica per regione (milioni di e
68 ? INEA (2010), “ Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag. 55 – 60.
89
articolazione per asse)
90
In questo paragrafo cerchiamo di delineare gli aspetti salienti della
discussione, tralasciando le ipotesi di budget, in quanto queste ultime
saranno frutto di un ripensamento più complessivo delle politiche
europee.
Partendo dagli obiettivi di carattere più generale, la nuova PAC dovrà
essere coerente con quanto previsto dalla “Strategia 2020” approvata dal
Consiglio europeo del 25 e 26 marzo 2010, e formalmente adottata il 17
giugno 2010, che stabilisce tre priorità di intervento:
a) crescita intelligente: sviluppare un’economia basata sulla conoscenza
e sull’innovazione;
b) crescita sostenibile: promuovere un’economia più efficiente sotto il
profilo delle risorse, più verde e più competitiva;
c) crescita inclusiva: promuovere un’economia con un alto tasso di
occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale.
La PAC, a prima vista, è poco “citata” nella Strategia 2020; tuttavia, è
necessario incorporare ed esplicitare gli obiettivi della PAC in un’ottica
di sviluppo sostenibile ed evidenziare il possibile contributo
dell’agricoltura europea al conseguimento stesso degli obiettivi della
Strategia.
Tra i temi tipici della PAC che maggiormente confluiscono nella
Strategia 2020 si ritrovano: il sostegno alle tecnologie “verdi” e
innovative; gli investimenti in competenze, formazione e
imprenditorialità; la gestione sostenibile delle risorse naturali; la
produzione di energie rinnovabili; la creazione di beni pubblici di natura
ambientale; lo sviluppo di un’economia rurale a basse emissioni di
carbonio. Va ricordato, inoltre, che la PAC incide profondamente sulle
prospettive di sviluppo regionale in quanto investe il 47% della
superficie europea e coinvolge oltre 18 milioni di occupati, con una
distribuzione territoriale non omogenea. In questo contesto, la PAC
riveste un ruolo fondamentale per contribuire allo sviluppo di
comunità rurali redditizie e dinamiche, garantendo, allo stesso tempo,
91
uno sviluppo socio-economico sostenibile ed equilibrato del territorio
europeo69.
Sulla base dei discorsi ufficiali del Commissario europeo e della
documentazione di carattere “istituzionale”, la nuova PAC dovrà essere
pensata per rispondere alle diverse agricolture che contraddistinguono il
territorio allargato dell’Unione e dovrà conseguire gli obiettivi legati alla
sicurezza alimentare, il cambiamento climatico, la protezione dei suoli e
delle risorse naturali, la crescita economica delle aree rurali. Gli
strumenti a disposizione della PAC dovranno, pertanto, essere rivisti.
Riguardo agli strumenti di applicazione, in primo luogo vi sono alcune
considerazioni di carattere generale che riguardano la semplificazione
della PAC, la sicurezza alimentare e il riconoscimento di un valore di
esistenza dell’agricoltura in economie fortemente sviluppate come quelle
europee. Il peso amministrativo e la complessità di regole costituiscono
un ostacolo all’utilizzo efficiente delle risorse disponibili.
Per il caso italiano basti pensare quanto detto in precedenza
sull’avanzamento della politica di sviluppo rurale. La possibilità di poter
disporre di un quadro finanziario nazionale all’interno del quale
collocare i programmi regionali potrebbe senza dubbio rappresentare una
soluzione che permetterebbe di utilizzare al massimo le risorse assegnate
al nostro Paese.
Il valore della sicurezza alimentare attiene sia la quantità di risorse
disponibili per un paese che la qualità di tali risorse.
Oggi più che mai la sicurezza alimentare si associa ai concetti di
salubrità alimentare e di qualità dei prodotti agricoli, ma la crescente
volatilità dei prezzi ha rimesso al centro dell’attenzione politica anche il
problema del fabbisogno alimentare di conseguenza, di strumenti che in
qualche modo possano garantire stabilità alle produzioni di alimenti.
69 ? Istituto per studi ricerche e informazioni sul mercato agricolo (2004); “L’impatto
della riforma PAC sulle imprese agricole e sull’economia italiana”, Franco Angeli, Milano.
92
Collegato a questo aspetto è quello del valore di esistenza del settore
primario in contesti sviluppati dove il declino proprio dell’agricoltura,
associato alla età avanzata degli agricoltori e la forte competizione
della terra verso altre attività rischia di far scomparire l’agricoltura e con
sé la tradizione produttiva, sociale e culturale propria dei contesti
agricoli e rurali.
Entrando nel merito dei singoli strumenti, si possono considerare gli
aspetti legati agli aiuti diretti, alle misure di mercato anche per favorire
la stabilità dei redditi e allo sviluppo rurale. Di seguito ciascun elemento
viene esaminato riportando i principali aspetti oggetto di discussione e
qualche riflessione per il nostro paese.
Per quanto concerne gli aiuti diretti,l’orientamento è quello di proseguire
sulla strada degli aiuti disaccoppiati, anche se sarà necessario
rivedere i parametri con i quali gli aiuti vengono assegnati.
Il modello storico utilizzato dall’Italia, che di fatto mantiene inalterato
lo status quo della distribuzione degli aiuti, non potrà essere mantenuto,
soprattutto nel momento in cui si assegnano obiettivi specifici ai premi,
come la remunerazione della produzione di beni pubblici. In termini
molto generali, il tema vede la discussione incentrarsi su un livello di
aiuti base, il flat rate, calcolato su base regionalizzata tra tutti gli Stati
membri, a cui possono essere associati aiuti integrativi in relazione a:
- la localizzazione aziendale (come nel caso di aree svantaggiate o con
svantaggi specifici);
- la situazione economica generale del Paese (si pensi alle disparità di
potere di acquisito esistenti);
- gli impegni specifici, perlopiù di carattere ambientale, che l’azienda si
assume;
- la remunerazione legata alla produzione di esternalità positive e beni
pubblici “europei” (cioè non altrettanto producibili a livello locale).
Quest’ultimo aspetto si collega ai temi della produzione di beni pubblici
legati alla conduzione dell’attività agricola. Il sostegno, in questa logica,
93
è dettato dalla necessità di assicurare e mantenere le varie esternalità
positive che l’agricoltura genera: paesaggio, gestione delle risorse
naturali, implicazioni di carattere ambientale e lotta al cambiamento
climatico, biodiversità, occupazione e vitalità delle aree rurali, salubrità
degli alimenti, tipicità e riconoscibilità geografica dei prodotti, ecc.
Il tema degli aiuti diretti è particolarmente sentito nel nostro Paese, in
quanto da una comparazione con gli altri Stati membri emerge come in
Italia il contributo dei pagamenti diretti alla formazione del reddito sia
piuttosto modesto, come illustrato nel Grafico 670.
- Grafico 6 - Peso dei pagamenti diretti e degli altri sussidi comunitari al
reddito agricolo (2006 – 2008).
70 ?INEA (2010), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag 61.
94
In riferimento alle misure di mercato da impostare per la PAC dopo il
2013, queste dovranno rispondere ad una serie di esigenze
dell’agricoltura, prima tra tutte la stabilità dei redditi. L’elevata
volatilità dei prezzi di questi ultimi due anni ha determinato forti
scompensi nel settore, con una forte instabilità nei redditi agricoli e un
sostanziale squilibrio nei rapporti tra gli attori della filiera agro-
alimentare.
Le misure di mercato, in questo contesto possono essere fortemente
ripensate da un lato per disporre di adeguati strumenti di gestione del
rischio e dall’altro per migliorare le relazioni lungo la filiera produttiva e
una più equa ripartizione del valore aggiunto.
Il dibattito su questo fronte è piuttosto aperto a partire dalle esperienze di
progressiva revisione delle OCM. In particolare, si evidenziano i risultati
del lavoro del “Gruppo di alto livello” costituito nell’Ottobre 2009 per
fronteggiare la crisi che ha colpito il settore lattiero caseario, anche in
previsione dello smantellamento del sistema delle quote latte (il 1° aprile
2015).
Il gruppo ha concluso i suoi lavori il 15 giugno 2010 ed ha formulato
sette raccomandazioni, che possono rappresentare un orientamento anche
per gli altri comparti. In sostanza le raccomandazioni formulate sono:
a) il rafforzamento dei rapporti contrattuali tra produttori e trasformatori,
promosso anche da linee guida con carattere vincolante;
b) il consolidamento di una contrattazione collettiva dei produttori, volta
a negoziare collettivamente le condizioni contrattuali;
c) l’utilizzo di organizzazioni interprofessionali con lo scopo di garantire
la concentrazione dell’offerta;
d) la trasparenza nella filiera, con una sorveglianza sui prezzi dei
prodotti alimentari;
e) l’esame di possibili strumenti “compatibili con la scatola verde” per
ridurre la volatilità del reddito;
f) la tutela delle norme di commercializzazione e dei marchi di origine;
95
g) l’innovazione e la ricerca, ricercando complementarità con le
iniziative promosse nell’ambito dello sviluppo rurale e dei programmi
quadro della ricerca.
Particolare attenzione dovrà essere dedicata alle questioni legate alle
stabilità del reddito, non solo per la volatilità dei prezzi ma anche per le
condizioni atmosferiche e generali di produzione. Su questo argomento il
dibattito è particolarmente acceso e riguarda, principalmente, le modalità
di assicurazione dell’esercizio dell’attività agricola.
Anche su questo argomento, la riflessione dovrà partire sulle esperienze
maturate sul tema, come nel caso dell’applicazione dell’art.68 e di
alcune iniziative sperimentate a livello europeo, come schemi
assicurativi pubblici sulle perdite di reddito o di profitto o attivazione del
mercato dei future.
Per l’Italia l’insieme degli strumenti da attivare all’interno del
contenitore “misure di mercato” dovrebbero portare al riconoscimento
del “modello agroalimentare europeo”, con lo scopo ultimo di rafforzare
la competitività internazionale delle produzioni attraverso il
riconoscimento della qualità e della diversificazione dei prodotti
piuttosto che attraverso una mera competizione di prezzo. Il rispetto
delle norme in materia di sicurezza alimentare, qualità, ambiente,
benessere degli animali si traduce, infatti, in uno svantaggio competitivo
nei confronti di chi non è sottoposto alle stesse regole e ai costi che ne
conseguono.
Per lo sviluppo rurale, dalle discussioni e prime proposte presentate dalla
Commissione, gli obiettivi che la politica di sviluppo rurale post 2013
intende porsi ricalcano la struttura dell’attuale assetto, con una maggiore
integrazione con la Strategia 2020 e riguardano:
1) sviluppare un settore agricolo competitivo, migliorando l’efficienza
delle risorse: accanto alla modernizzazione e ristrutturazione uno
speciale focus dovrebbe essere dedicato alle tecnologie verdi,
all’adattamento ai cambiamenti climatici e allo sviluppo di energia
rinnovabile. Gli strumenti da utilizzare fanno riferimento
all’innovazione, trasferimento di tecnologie, acquisizione di
competenze, investimenti “verdi”;
96
2) Conservare le risorse naturali, che si declina nella mitigazione e
adattamento ai cambiamenti climatici, la gestione sostenibile del
territorio al fine di conservare gli ecosistemi, la gestione delle risorse
naturali, biodiversità, acqua e suolo. I mezzi previsti per sostenere
questo obiettivo sono pagamenti ai gestori del territorio per i beni
pubblici forniti, formazione e servizi di consulenza;
3) Sviluppare le aree rurali, con la valorizzazione del potenziale
locale e l’inclusione sociale. In questo ambito trovano collocazione
investimenti e mobilizzazione del capitale sociale (cooperazione,
networking, strategie place based) per diversificare l’economia
rurale, sviluppare le infrastrutture locali, mobilitare e collegare gli
attori locali, compreso il partenariato pubblico-privato71.
La posizione italiana sullo sviluppo rurale è stata presentata il 13 aprile
2010. La politica di sviluppo rurale viene considerata il principale
veicolo per il conseguimento di obiettivi legati alla competitività e
all’occupazione, con un ruolo centrale dell’agricoltura nel produrre beni
e servizi pubblici, anche di carattere sociale.
La posizione italiana affronta gli aspetti legati agli obiettivi da
conseguire con la politica di sviluppo rurale, e suggerisce alcuni
strumenti per la gestione.
Riguardo agli obiettivi, la competitività non deve essere affrontata in una
sola visione aziendale, ma dovrà essere utilizzata una logica territoriale
(intesa come l’insieme delle tecniche produttive, delle relazioni tra
soggetti, dal paesaggio alla cultura), che permette alla qualità
agroalimentare di affermarsi sui mercati. Il richiamo all’approccio
territoriale permea la posizione italiana nel suo complesso, in quanto
afferma che le diverse priorità tematiche dovranno essere meglio
ancorate ai fabbisogni di ciascun territorio.
71 ?INEA (2010), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag. 62 – 63.
97
Mantenendo gli obiettivi degli attuali Assi III e IV alle competenze dello
sviluppo rurale, il secondo pilastro dovrà avere una visione integrata e di
supporto sia nelle aree rurali più remote, sia in quelle periurbane, dove
maggiori sono i richiami e la competizione esercitata dai settori non
agricoli.
Infine, un’importanza rilevante viene assegnata al potenziamento della
governante, Nel 2005 ha preso avvio la più importante riforma della
Politica Agricola Comunitaria (PAC) dalla sua istituzione. Una riforma
radicale che ha introdotto una nuova modalità di sostegno al settore
agricolo: il pagamento unico per azienda (PUA), disaccoppiato dalla
produzione (disaccoppiamento), subordinato al rispetto di norme di
gestione ambientale e del territorio (condizionalità).
I principali punti della politica comunitaria sono riassumibili cosi:
- Disaccoppiamento: un pagamento unico per azienda agli agricoltori
dell’UE, indipendente dalla produzione; gli agricoltori, in linea di
principio, riceveranno il pagamento unico per azienda sulla base
delle somme percepite nel periodo di riferimento 2000-2002.
- Condizionalità: il pagamento sarà condizionato al rispetto delle norme
in materia di (cross-compliance) salvaguardia ambientale, sicurezza
alimentare, sanità animale e vegetale e protezione degli animali, nonché
all’obbligo di mantenere la terra in buone condizioni agronomiche ed
ecologiche.
- Modulazione: riduzione dei pagamenti diretti allo scopo di finanziare la
nuova politica di sviluppo rurale; la modulazione si applica alle aziende
con più di 5000 euro/anno di pagamenti diretti, nelle seguenti
percentuali: 3% nel 2005, 4% nel 2006, 5% dal 2007 in poi.
- Rafforzamento del secondo pilastro PAC: potenziamento della politica
di sviluppo rurale, nuove misure a favore dell’ambiente, della qualità e
del benessere animale, nonché per aiutare gli agricoltori ad adeguarsi
alle norme di produzione in vigore nell’UE.
98
La politica nazionale di supporto all’agricoltura risente dell’influenza di
diversi fattori:
- il ruolo preponderante delle Politica agricola comunitaria e di sostegno
allo sviluppo rurale, che definisce regole, investimenti ammissibili e
condizioni finanziarie, così come si è visto nel capitolo precedente;
- l’assetto istituzionale, che conferisce alle Regioni specifica competenza
in materia agricola;
- l’assottigliamento progressivo e costante delle risorse pubbliche
nazionali disponibili per promuovere politiche positive nel settore,
particolarmente sentito negli ultimi anni.
Partendo dall’ultimo punto, oltre a diverse disposizioni contenute nel
recente dl 31 maggio 2010, n. 78 recante “Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” che
rappresentano l’ultimo tassello di una politica pubblica restrittiva per
fronteggiare gli squilibri di bilancio, da dicembre 2008 e nel corso del
2009 il CIPE ha azzerato le risorse assegnate al Fondo Aree
Sottoutilizzate per il Piano attuativo Nazionale (PAN) “Competitività dei
sistemi agricoli e rurali”. Il Piano consisteva nel rilancio del settore a
partire da tre obiettivi di fondo: il rafforzamento della filiera e della
qualità delle produzioni, il ricambio generazionale e la ricerca e
l’innovazione, con una dotazione complessiva di 875 milioni di euro.
Anche gli altri strumenti più di carattere tradizionale hanno subìto
decurtazioni nelle fonti di finanziamento, in particolare:
- il Fondo di Solidarietà Nazionale, per il quale i tagli sono stati in
qualche misura compensati dall’utilizzo dell’art.68 del reg. (CE) n.
73/2009, mediante l’articolo 11 del Decreto MiPAAF del 29 luglio 2009
(GU 220 del 22/09/09) e le risorse dell’’OCM Vino;
- il Piano Irriguo Nazionale, che ha mostrato forme di razionalizzazioni
della spesa nella misura del 10% per impegni già assunti, ottenute grazie
alla rimodulazione di progetti esistenti e con riduzioni nella misura del
45% per nuovi investimenti dal 2011 al 2025, riducendo di fatto la
possibilità di nuovi investimenti;
99
- gli investimenti di assistenza tecnica nazionale, quasi del tutto azzerati
in parte per carenza di fondi e in parte per trasferimento di competenze
alle Regioni. A fronte di queste rilevanti riduzioni, le forme di sostegno
al settore derivano sostanzialmente da benefici di carattere fiscale e
previdenziale, grazie a un sistema contributivo più leggero rispetto agli
altri settori.
La stessa definizione di Imprenditore Agricolo Professionale,
costituisce un’opportunità rilevante per una fetta di produttori che
possono beneficiare di effettivi risparmi di imposte. In realtà, la politica
fiscale e contributiva costituisce, attualmente, il principale strumento di
sostegno nazionale del settore. Se anche quest’ultimo fosse messo in
discussione senza dubbio si creerebbe uno scompenso settoriale con
ripercussioni di rilievo su produzione, occupazione e reddito.
Da questo punto di vista, con particolare attenzione occorrerà seguire gli
sviluppi della Legge 5 maggio 2009, n. 42 "Delega al Governo in
materia di federalismo fiscale,in attuazione dell' articolo 119 della
Costituzione", con la quale si stabiliscono in via esclusiva i principi
fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario, e disciplina l'istituzione del fondo perequativo per i territori
con minore capacità fiscale per abitante.
La difficoltà finanziaria nel promuovere politiche positive, che sembrano
essere non sostenibili in quanto utilizzano risorse scarse, viene in
qualche misura bilanciata da un sistema regolativo che punta a sostenere,
da un lato, la trasparenza e l’efficienza dei mercati e, dall’altro, scelte
sempre più consapevoli del consumatore. Nel corso del 2009, infatti,
diversi provvedimenti sono stati orientati proprio a definire i sistemi di
qualità certificati e sistemi di tracciabilità in vari comparti. Tra questi si
ricordano:
- lo sviluppo di progetti sulla tracciabilità dei prodotti e in particolare
dell’olio; il decreto attuativo del reg. (CE) n. 182/2009 del 10 novembre
2009 sulle norme di commercializzazione dell’olio d’oliva;
100
- il D. leg. n. 61 dell’8 aprile 2010, che sostituisce la Legge 164 sulla
denominazione dei vini, decreto reso necessario dalla riforma OCM
vino. In questo caso l’applicazione della politica comunitaria ha avviato
un processo di revisione sostanziale a livello nazionale e ha introdotto
delle novità non solo per rispondere alla legislazione comunitaria ma
anche ad esigenze specifiche nazionali;
- la circolare attuativa del 31/03/2010 del sistema di tracciabilità degli oli
vegetali puri per la produzione di energia elettrica;
- la definizione, in corso di realizzazione, dei Sistemi di qualità nazionali
ai sensi del reg. (CE) n. 1974/2006;
- per passare al secondo aspetto, l’assetto istituzionale, le iniziative di
vigilanza, semplificazione, controllo e regolazione a livello centrale
costituiscono elementi di confronto e concertazione con le
Amministrazioni Regionali, che, come si è detto in precedenza hanno
competenze esclusive in materia.
Questo aspetto talvolta agevola la realizzazione di iniziative nazionali
largamente condivise; in altri casi, però, può rappresentare un punto di
debolezza del sistema regolativo in quanto le responsabilità sono
frammentate tra diversi soggetti, e con difficoltà si riesce a riconoscere
l’interesse nazionale.
Inoltre, in numerosi casi i temi trattati hanno bisogno del
coinvolgimento di altri ministeri competenti (Salute, Ambiente,
Sviluppo Economico ecc.) e le iniziative possono subire rallentamenti
nei processi decisionali e perdita di efficacia. A questo riguardo, proprio
per rappresentare la necessità di un raccordo con gli altri Ministeri
competenti, si segnala che nel marzo 2009 è stato presentato dal
MiPAAF il disegno di Legge n. 2260, di concerto con il Ministro
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, con il Ministro
per i Rapporti con le Regioni e con il Ministro per le Politiche Europee,
che ha per oggetto “Disposizioni per il rafforzamento della competitività
del settore agroalimentare”.
101
I sette articoli di cui si compone il disegno di legge mirano, da un lato, a
rilanciare il settore mediante i contratti di filiera e di distretto e,
dall’altro, a rafforzare il sistema di tracciabilità delle produzioni e a
contrastare le frodi con un potenziamento complessivo del sistema e
delle sanzioni72.
L’evoluzione degli ultimi anni del settore primario italiano e le recenti
dinamiche negative che hanno interessato l’economia nel suo complesso
e l’agricoltura in particolare costituiscono i segnali di un profondo
processo di ristrutturazione che dovrà interessare il settore nel prossimo
futuro. A livello nazionale vi sono due grandi aree di lavoro. La prima
riguarda il riconoscimento di temi e fabbisogni su cui è opportuno avere
una visione ampia e che rifletta i temi di rilevanza nazionale, mentre
la seconda si fonda sulla necessità di trovare migliori strumenti di
governance istituzionale proprio per fronteggiare la frammentazione di
competenze e rendere il sistema nel suo insieme più efficiente.
Riguardo ai fabbisogni di valenza nazionale, è sempre più evidente la
percezione che i prossimi anni saranno caratterizzati da una progressiva
scomparsa di aziende non capaci di stare sul mercato. Questa fuoriuscita
comporta la necessità di attivare strumenti per governare il processo, in
modo tale che non vi sia un semplice abbandono.
In primo luogo, poiché i valori fondiari sono superiori alle possibilità di
remunerazione dall’attività agricola, potrebbero essere adottati sistemi
che agevolino l’affitto dei terreni e la loro mobilità in termini di impiego
produttivo. Un secondo importante passaggio è costituito dalla capacità
delle produzioni italiane di competere in uno scenario dove i
prezzi oscillano senza che il produttore possa minimamente influenzarne
l’andamento.
Tale capacità si costruisce sulla differenziazione del prodotto, la
qualità e l’organizzazione in filiera. Questi strumenti si basano tutti sul
concetto di “tracciabilità” delle produzioni, che costituisce, se vogliamo,
72 ? INEA (2010),“Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag 65- 66.
102
il livello minimo della qualità. La tracciabilità è anche un importante
strumento di comunicazione e sensibilizzazione per il consumatore.
Se è vero che in periodi di crisi economica l’attenzione del consumatore
è prevalentemente rivolta al prezzo, è pur vero che una fascia di
consumo è stabilmente attratta dalla salubrità e dalla qualità della
produzione. Su questo tema, pertanto, l’attenzione va rivolta a rafforzare
i sistemi di tracciabilità e le iniziative di educazione del consumatore. Su
questi due aspetti possono essere poi costruite strategie di filiera e
commerciali (in particolare i rapporti con la grande distribuzione
organizzata). In questi ultimi tempi è emerso con forza il molteplice
ruolo dell’agricoltura nell’ offrire beni e servizi oltre che produzioni
alimentari.
Le bio-energie, l’agricoltura sociale, la vendita diretta costituiscono delle
opportunità di reddito e occupazione di rilievo proprio per quelle realtà
che non riescono ad essere competitive sul mercato.
Infine, per evitare un abbandono con gravi conseguenze negative
sull’ambiente, un compito specifico va assegnato alle iniziative di
ricerca, di sviluppo, di assistenza tecnica e formazione. Il passaggio
progressivo da un’agricoltura intensiva ad una estensiva, le innovazioni
necessarie a ridurre i costi di produzione, la necessità di adottare pratiche
più sostenibili dal punto di vista ambientale e del risparmio idrico ed
energetico, creano una domanda di ricerca che deve confrontarsi con uno
scenario profondamente mutato nel corso degli ultimi cinque anni.
Le stesse attività di assistenza tecnica e formazione, in relazione a temi
di rilevanza nazionale, possono costituire delle valide opzioni di
supporto, senza per questo interferire su competenze di natura
regionale73.
Questo tema apre il campo alla seconda area di lavoro: il miglioramento
degli strumenti di governance delle politiche agricole. A dieci anni
73 ? INEA (2010), “ Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag. 65 – 67.
103
dalla riforma del titolo V della Costituzione, sono intervenuti importanti
cambiamenti nella definizione delle politiche agricole che vanno dal
sempre maggiore ruolo della Politica Comunitaria nell’orientare e
condizionare le scelte nazionali, con flussi finanziari che rappresentano
oltre i 2/3 di quelli dedicati al settore, alla riduzione delle disponibilità di
fondi pubblici per sostenere specifiche iniziative nazionali.
Inoltre, le nuove funzioni assegnate all’agricoltura assieme con i processi
di federalismo fiscale (si veda quanto detto nelle pagine seguenti in tema
di politica regionale) complicano un quadro articolato di competenze,
strutture organizzative e amministrative di riferimento.
Non si vuole entrare nel dettaglio in un tema tanto delicato, tuttavia è
opportuno avviare una riflessione, da un lato, sull’utilizzo di modelli di
concertazione più efficienti, capaci di superare situazioni di vischiosità
istituzionale, e, dall’ altro, su soluzioni organizzative e gestionali
che permettano di utilizzare al meglio i flussi finanziari generati dalle
politiche comunitarie.
La competenza regionale in materia agricola, come è noto, si incrocia
con altri livelli di competenza sia in quanto la materia agricola non
riguarda più solo l’aspetto “produttivo” ma è direttamente connessa alla
tutela dell’ambiente e del paesaggio, all’alimentazione, al governo del
territorio, ecc. sia per la complessa interazione tra le politiche
comunitarie, nazionali e regionali attuate attraverso una pluralità di
strumenti di programmazione sia di carattere generale che settoriali.
La maggiore autonomia in materia agricola ha prodotto a livello
regionale diversi approcci, che si sono concretizzati in diverse scelte
normative e giuridico - istituzionali.
Se si analizza l’intervento regionale nel settore agricolo e
agroalimentare, nel corso del 2009, è possibile individuare le linee
direttrici principali delle politiche regionali:
- il rafforzamento e la semplificazione del quadro normativo che
disciplina l’attività agricola;
- il sostegno al consumo di prodotti regionali;
104
- gli interventi di tipo agro - ambientali;
- la gestione del rischio per le emergenze per fitopatie e danni da incendi
o condizioni climatiche avverse (alluvioni, grandinate, ecc.);
- il sostegno all’economia locale attraverso un miglioramento
dell’accesso al credito e della fiscalità.
L’impianto strategico portato avanti nella maggioranza delle Regioni,
riprende, almeno in parte, le grandi priorità della Politica di sviluppo
rurale per la programmazione 2007/2013 (competitività dell’agricoltura,
gestione del territorio, diversificazione delle zone rurali/qualità della
vita, governance locale).
Più in particolare, dopo l’approvazione dei PSR dalle varie Regioni sono
state avviate le procedure di attuazione delle misure quali l’apertura dei
bandi, la raccolta delle domande e della relativa documentazione tecnica,
fino ad arrivare alla concreta erogazione dei fondi comunitari.
Molte Regioni hanno avviato, nel corso del biennio 2009-2010, il
pagamento di spese riconducibili ai cosiddetti trascinamenti (misure agro
ambientali, investimenti nelle aziende agricole, trasformazione e
commercializzazione dei prodotti agricoli e agriturismo), al pacchetto
giovani (comprendente misure relative ad investimenti aziendali, alla
formazione, consulenza, agriturismo e sistemi di qualità), alle indennità
compensative e alle misure forestali.
Per quanto riguarda l’assetto strutturale della legislazione, molte Regioni
hanno proseguito l’opera di sistemazione e adeguamento del quadro
normativo e regolamentare avviata negli anni precedenti, aumentando
altresì le procedure di valutazione degli effetti delle leggi e/o delle
politiche.
La semplificazione normativa e il riordino sono obiettivi inseriti, già da
tempo, nell’agenda politica delle Regioni al fine di ridurre la
numerosità e migliorare la qualità/leggibilità della propria produzione
normativa che rende difficile a cittadini e operatori l’individuazione della
105
regola da applicare74. Ciò ha comportato, da un lato, una riduzione del
numero di leggi prodotte e, dall’altro, una maggiore attenzione delle
Regioni per i processi di riordino e razionalizzazione normativa
soprattutto in seguito ad un’aumentata propensione, rispetto ai primi
anni dopo le riforme amministrative e costituzionali, delle stesse sia a
legiferare in alcune delle materie di nuova attribuzione sia
all’introduzione di Testi unici di settore.
A ciò si aggiunge, nel corso degli ultimi anni il passaggio
dall’utilizzo di norme di “manutenzione” riguardanti interventi di
modifica e integrazione di leggi preesistenti rispetto a leggi che
disciplinano interamente una determinata materia.
D’altro canto però, continuano ad avere un certo rilievo le leggi di tipo
“intersettoriale” che condizionano il settore agricolo e la legge
finanziaria regionale quale legge “contenitore”, che, al di là del numero
degli articoli, fa registrare un ampliamento del suo contenuto “tipico”.
Tale legge, infatti, oltre ad autorizzare il rifinanziamento delle leggi
regionali di spesa relative ai diversi settori di intervento e a
dettare disposizioni sia di natura patrimoniale e produttiva sia sul
contenimento della spesa, dispone anche su profili ordinamentali,
organizzativi o microsettoriali.
A tale legge si affiancano i numerosi interventi che, nel corso degli
ultimi, anni hanno inciso sul riordino territoriale e sul conferimento di
funzioni e compiti amministrativi al sistema delle autonomie locali.
La conoscenza e l'utilizzo dei prodotti agricoli e agroalimentari di
qualità, l'accesso diretto del consumatore al mercato di tali prodotti,
nonché la riduzione dei consumi energetici e delle emissioni inquinanti
legate al loro trasporto sono alla base degli interventi di sostegno al
consumo di prodotti regionali.
In tale ottica, assumono primaria importanza gli interventi volti al
rafforzamento della produzione e del consumo di prodotti agricoli e
74 ? INEA (2010) ,“Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag. 68 – 69.
106
agroalimentari di prossimità, di qualità riconosciuta e certificata e
biologici, nonché l'organizzazione di filiere corte di tali prodotti, tramite
misure di politica economica volte alla valorizzazione sia delle
produzioni locali che del territorio regionale, alla divulgazione e
comunicazione in ambito agricolo, agroalimentare e forestale,
all’innovazione e allo sviluppo integrato delle zone rurali e
dell’economia locale.
Si tratta di atti normativi evidentemente accomunati dallo scopo
strategico di avvicinare domanda e offerta dei prodotti agricoli, agendo
anche in forma indiretta sui processi di filiera e sulla disciplina dei
distretti rurali e agroalimentari di qualità, sul sostegno delle
produzioni tipiche locali e del loro consumo, sulla promozione della
vendita diretta, sugli accordi per l’integrazione delle filiere e delle filiere
corte, sulla tutela delle piante, delle risorse genetiche, razze e varietà
locali di interesse agrario, sull’istituzione di enoteche regionali, strade
del vino e dell’olio, sulla tutela e la promozione dell’apicoltura,
dell’agriturismo, delle fattorie didattiche e sociali.
Al fine di assicurare condizioni di tutela e valorizzazione
dell’ambiente, salvaguardandone le componenti naturali e biologiche
favorevoli all’insediamento umano e allo sviluppo della flora e della
fauna, le Regioni adottano una serie di provvedimenti sia relativi al
settore agricolo in senso stretto sia a valenza ambientale ma con
potenziali effetti sul sistema delle imprese agricole, o riguardanti il
settore forestale e della pesca, quali: istituzione di parchi e riserve
regionali, norme per la pianificazione paesaggistica e la valorizzazione
del paesaggio, la tutela della piccola fauna, della flora e della
vegetazione spontanea, incentivi per la produzione di energia elettrica da
fonti rinnovabili, l’istallazione di impianti eolici e fotovoltaici, nonché
interventi in materia di bonifica, finalizzate alla difesa e al deflusso
idraulico e alla tutela del paesaggio agricolo e rurale, vallivo e lagunare,
alla provvista e all’utilizzazione delle acque a uso prevalente irriguo, alla
107
conservazione e valorizzazione del patrimonio idrico. Particolarmente
rilevanti sono stati negli ultimi anni gli interventi volti a
consolidare/limitare le esposizioni debitorie e agevolare l’accesso al
credito delle piccole e medie imprese agricole e agroalimentari.
Più in particolare, in numerose Regioni sono stati approvati interventi in
funzione anti-crisi per favorire la ripresa dell’economia locale,
promuovere lo sviluppo economico e rilanciare la competitività del
sistema produttivo locale, attraverso finanziamenti agevolati per la
formazione di scorte, finalizzati all'acquisto di prodotti e materiale di
consumo funzionali all'esercizio dell'attività agricola (mezzi tecnici di
produzione a logorio totale, cioè quei prodotti/materiali di consumo che
esauriscono il loro effetto nel corso dell’annata di riferimento); credito
agrario di esercizio a tasso agevolato, al fine di migliorare
l'efficienza economica e produttiva delle aziende in considerazione
delle condizioni climatiche avverse, nonché della perdurante crisi
congiunturale.
Vengono concessi, nei limiti del regime “de minimis”, il concorso nel
pagamento degli interessi sui prestiti agrari di conduzione e sui prestiti
agrari pluriennali, destinati alla ristrutturazione dei debiti di natura
agraria a breve termine.
Altri interventi riguardano il consolidamento delle passività onerose in
agricoltura, i contributi per il pagamento degli interessi sui
prestiti di esercizio, comprese le passività arretrate, e per il
consolidamento delle passività onerose gravanti sulla gestione e
derivanti da operazioni creditizie in essere.
Di seguito, vengono riportati i dati, relativi alle risorse di politica agraria
(restano escluse rispetto al sostegno pubblico complessivo le
agevolazioni), media 2002-2008, ripartiti per fonti e per regioni.
Le spese di politica agraria (escluse le agevolazioni) dagli anni 2000 in
poi hanno registrato una media di 11,2 miliardi di euro, anche se dal
2006 al 2008 il sostegno non ha mai superato la soglia degli 11 miliardi
108
di euro, con l’eccezione dell’anno 2001 quando è salito a 12,4 miliardi,
si registra nel complesso un trend decrescente della spesa pubblica per
l’agricoltura. Con riferimento all’ultimo anno disponibile (ovvero il
2008) il consolidato complessivo (trasferimenti e agevolazioni) assomma
a 16,1 miliardi di euro, dei quali 10,4 miliardi (64,5%) dovuti ai
trasferimenti e 5,7 miliardi alle agevolazioni (35,5%)75.
Negli ultimi quattro anni il sostegno derivante da trasferimenti di origine
comunitaria si è attestato intorno al 50% circa del totale, mentre quelli di
origine statale (Ministeri e enti nazionali quali Sviluppo Italia, ISMEA,
ISA) hanno registrato una diminuzione costante passando dai 18,5
miliardi di euro del 2005 ai 12,2 miliardi del 2008, diminuzione
compensata in parte dall’aumento della componente regionale soprattutto
nelle annualità 2006 e 2008, quando il peso di queste risorse si è attestato
al 38% circa. Se si fa riferimento alle sedi dove si decide la destinazione
dei trasferimenti, la componente comunitaria supera peraltro quella
nazionale: 54,1% UE , 45,9% Italia.
Più in particolare, le spese FEAGA (1° Pilastro PAC) rappresentano il
49% del totale, quelle FEASR (sviluppo rurale) solo il 5%, le spese
regionali il 38% e quelle dei Ministero e degli enti nazionali l’8%.
- Grafico 7 - Composizione dei trasferimenti di politica agraria, (2005-2008)
Fonte: INEA (2009), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”.
- Tabella 5. Spese di politica agraria suddivise per fonti e per Regioni,media
(2002 – 2008).
75 ? INEA (2010), “ Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”, Roma, pag. 70 – 72.
109
110
I trasferimenti su base regionale evidenziano, nel periodo che va da 2002
al 2008, un sostegno medio annuale abbastanza simile sia per il Nord
(44% pari a 4.823 miliardi di euro) che per il Sud e le Isole (41,9% pari a
4.606 miliardi), mentre al Centro i trasferimenti hanno un incidenza
minore (14,2% pari a 1.555 miliardi).
- Grafico 8 - Spesa media per trasferimenti di politica agraria suddivise per
circoscrizioni (media 2002-2008)
Fonte: INEA (2009), “Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana”.
In estrema sintesi, si rileva un trend decrescente della spesa pubblica per
l’agricoltura. I dati del consolidato evidenziano a livello nazionale, in
conseguenza a politiche di contenimento della spesa pubblica, una
riduzione della spesa, non legata al cofinanziamento comunitario, per il
settore agricolo.
Le Regioni, quindi, sempre più, incontrano importanti vincoli di cassa –
riconducibili al patto di stabilità – e a prevalenti esigenze di spesa, in
particolare quelle relative alla sanità.
2.4 Politiche fiscali di incentivazione
111
La precedente finanziaria del 2008, in campo agroalimentare, ha
implementato una serie di disposizioni a livello fiscale volte ad
incentivare l’attività delle imprese agricole e alimentari. Sono riportati
qui in basso i principali punti indicanti le agevolazioni fiscali per gli
imprenditori:
1. La soluzione del Contenzioso Cooperative/INPS: viene prevista la
possibilità di rateizzare i contenziosi pagando il 100%, senza sanzioni, in
venti anni e versamento degli interessi legali. Per chi ha già versato,
viene riconosciuto un credito previdenziale del 40% maggiorato degli
interessi legali. E’ una norma che riguarda numerose cooperative
agricole, anche di grandi dimensioni;
2. Agevolazioni per l’acquisizione d’impresa (art. 1 comma 46): viene
prevista un’imposta sostitutiva dell’IRES e dell’IRAP, del 12% per i
maggiori valori da acquisizione fino a 5 milioni di euro, 14% fino a 10
milioni, 16% oltre i 10 milioni: inoltre l’imposta sostituiva è versata
ratealmente.
Si tratta di un significativo incentivo alla concentrazione anche per le
piccole e medie imprese agroalimentari, che può essere di interesse
cooperativo.
3. L’esclusione dall’IRAP dei premi comunitari erogati per la
ristrutturazione del settore bieticolo-saccarifero, insieme a 50 mln di
euro per il 2008; le riconversioni degli stabilimenti sono facilitate;
4. L’applicazione dell’aliquota agevolata IRAP agricola anche alle
cooperative forestali;
5. Lo sviluppo della multifunzionalità agroforestale attraverso
l’applicazione di norme per le cooperative per affidamento di lavori da
parte di enti pubblici ed enti locali.
A proposito del credito d’imposta per l’internazionalizzazione, lo
schema di decreto legislativo approvato recentemente in via preliminare
112
dal Consiglio dei Ministri, con il quale sono state recepite le richieste
della Commissione europea per rendere operativa la norma, ha reso
l’incentivo molto più favorevole per le imprese cooperative agricole,
eliminando la riduzione ad un terzo del beneficio per tali imprese
prevista dalla finanziaria 2007, in modo che le cooperative agricole
possano beneficiare del credito d’imposta in misura piena.
Con la finanziaria 2007 sono state introdotte importanti misure di
sostegno, rese operative nei mesi scorsi: dalla riduzione del cuneo
fiscale agli incentivi alle imprese recati dal Fondo investimenti del
Ministero dello sviluppo economico, all’incremento del fondo Made in
Italy.
Nel decreto legge “Milleproroghe”, recentemente convertito in legge
31/2008, sono stati destinati 150 milioni di euro al regime di aiuti per
l’agro - industria gestito da ISA Spa, un regime molto gradito dalla
Cooperazione agricola. Inoltre ISA potrà contare su ulteriori risorse
grazie all’incorporazione di Buonitalia spa.
- Grafico 9 – Destinazione spese ISA S.p.a. per settore.)
Fonte: ISA S.p.a. (2009)
113
Anche questo potrà favorire l’internazionalizzazione delle imprese
cooperative. Con il recente decreto interministeriale sul riordino degli
incentivi del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, poi,
è possibile il rilancio dei contratti di filiera e di distretto, grazie ai fondi
accantonati dal Fondo aree sottoutilizzate per le finalità del settore
agroalimentare.
Si ricorda che la legge finanziaria per il 2007 (n. 296/06), aveva previsto
incentivi fiscali alla internazionalizzazione del sistema agroalimentare.
In particolare, ai commi da 1088 a 1090, viene previsto un credito
d’imposta di un importo pari al 50% del valore degli investimenti in
attività di promozione pubblicitaria realizzati da imprese agricole e
agroalimentari, anche in forma cooperativa, in mercati esteri.
L’agevolazione riguarda gli investimenti realizzati in eccedenza rispetto
alla media di quelli analoghi fatti nei tre periodi di imposta precedenti.
Essa è stata efficace per i periodi d’imposta 2008 e 2009. Sotto il
profilo soggettivo l’incentivo ha riguardato le imprese, anche
cooperative, operanti nel settore agricolo e agroalimentare che, negli
esercizi 2008 e 2009, hanno effettuato investimenti in attività di
promozione e di marketing sui mercati internazionali76.
Per determinare l’ammontare dell’incentivo fiscale occorre confrontare
gli investimenti in attività promozionale su mercati esteri realizzati nel
periodo di imposta e nei due successivi con la media di investimenti
analoghi realizzati nei tre periodi di imposta precedenti.
Pertanto, ai fini della determinazione dell’agevolazione per il periodo d
imposta 2009, la media riguarda gli investimenti effettuati nel periodo
2006-2008.
In ogni caso, il comma 1090 precisa che possono beneficiare
dell’incentivo fiscale alla internazionalizzazione delle imprese agricole e
agroalimentari anche quelle che hanno iniziato l’attività da meno di
tre anni, purché fossero già in attività al primo gennaio 2007.
76 ? www.gazzettaufficiale.it
114
In tal caso la media da considerare è quella risultante dagli investimenti
effettuati nei periodi di imposta precedenti a quello in corso al primo
gennaio 2008 o 2009. In sostanza per i contribuenti in attività da meno di
tre anni si deve assumere la media facendo riferimento agli anni di
attività precedenti a quello dell’investimento.
Rientrano nella agevolazione le campagne promozionali attuate mediante
comunicazione diretta, quali la stampa, i cartelloni pubblicitari, messaggi
televisivi, le ricette culinarie, l’organizzazione di eventi e di promozione
di fiere, le manifestazioni e varie azioni di comunicazione diretta rivolte
ai consumatori stranieri.
Sono inoltre agevolate le spese sostenute per la locazione e
l’installazione di stand e quelle destinate ai servizi forniti anche da
consulenti esterni. Sono invece non agevolate le spese sostenute per
l’esportazione vera e propria di prodotti agricoli all’estero.
Il credito d’imposta potrà essere utilizzato soltanto in compensazione di
altre imposte o contributi a debito ai sensi dell’articolo 17 del Dlgs n.
241/1997.
In sostanza mediante il credito d’imposta potranno essere non versate le
imposte dirette che risulteranno dalle dichiarazione, l’Iva, l’Irap e i
contribuiti previdenziali dei lavoratori dipendenti o del titolare e
comunque limitatamente alle imprese individuali77.
L’articolo 5 del decreto 24 luglio 2009 dispone che il credito d’imposta
non concorre a formare il reddito ai fini delle imposte dirette e dell’Irap.
Quindi le imprese agroalimentari tassate a bilancio, non dovranno
assoggettare a imposte la sopravvenienza attività corrispondete al credito
d’imposta78.
77 ? www.agricoltura24.com78 ? www.politicheagricole.it/ministero
115
CAPITOLO 3 - La struttura del sistema agroalimentare siciliano
3.1 Il comparto ortofrutticolo nel sistema agroalimentare della
regione
Prima di introdurre l’analisi del settore agroalimentare siciliano sembra
opportuno indicare la differenza tra agricoltura e industria
agroalimentare. L'agricoltura è l'attività economica che consiste nella
coltivazione di specie vegetali. La finalità principale dell'agricoltura è di
ottenere prodotti dalle piante da utilizzare a scopo alimentare o non, ma
sono possibili anche altre finalità che non prevedano necessariamente
l'asportazione dei prodotti.
Tradizionalmente, nella cultura italiana, l'agricoltura è popolarmente
riferita allo sfruttamento delle risorse vegetali a fini alimentari, mentre lo
sfruttamento delle corrispondenti risorse di origine animale,
l'allevamento, ne è quasi ritenuta antitetica. A fini scientifici e giuridici,
comunque, entrambe le materie sono comunemente riunite nella più
vasta accezione di agricoltura, che abbraccia la coltivazione delle piante
(arboree, erbacee), l'allevamento degli animali e lo sfruttamento delle
foreste.
A differenza della semplice raccolta dei prodotti naturali della terra,
l'agricoltura è una tecnica che interviene modificando i fattori naturali
della produzione vegetale allo scopo di incrementare, in qualità e
quantità, il prodotto. La raccolta, infatti, sfrutta la produzione naturale
del tutto subordinata alle esigenze specifiche delle piante e alle
dinamiche dell'ecosistema senza alcun intervento dell'uomo.
L'agricoltura prevede invece l'intervento dell'uomo nel correggere, a suo
favore, le condizioni intrinseche ed estrinseche che determinano la
produzione vegetale.
116
L'industria agroalimentare è un settore che si occupa della
trasformazione, della conservazione e della commercializzazione dei
prodotti agricoli e alimentari. La trasformazione agroalimentare consiste
in un processo tecnologico ed economico in grado di creare valore
aggiunto ad un prodotto agricolo. Il prodotto agroalimentare può avere
forma e condizioni diversi rispetto al prodotto agricolo ( materia prima).
L'industria agroalimentare comprende tutte le imprese che operano a
monte o a valle della produzione agricola ed alimentare.
Molte delle imprese agricole e agroindustriali del Sud - Italia affrontano
difficoltà finanziarie rilevanti soprattutto nei rapporti con la grande
distribuzione, la quale si avvantaggia di un potere contrattuale maggiore
rispetto ai produttori, determinando la conseguente perdita di quote di
mercato per le imprese produttrici e/o trasformatrici di prodotti agricoli.
Le principali cause vanno rintracciate nella eccessiva frammentazione
del sistema produttivo meridionale e nelle ridotte dimensioni delle
imprese che operano sia nelle fasi a monte della filiera, sia in quelle più a
valle e poi nella scarsa collaborazione attuata tra i vari imprenditori, che,
ricorrendo all’associazionismo, avrebbero la possibilità di accrescere il
loro potere contrattuale e porsi in maniera più integrata con la grande
distribuzione. Nonostante negli ultimi anni siano aumentate le nuove
denominazioni e marchi di origine, le produzioni meridionali continuano
ad essere prevalentemente “unbranded”.
Il settore primario siciliano è stato da sempre il volano dell’economia
regionale. Tuttavia nell’ultimo decennio la crisi a livello nazionale, che
ha investito il settore dell’agricoltura, ha assunto dimensioni notevoli:
500.000 sono le aziende che in Italia, tra il 2000 e il 2010, hanno chiuso i
battenti. Solo nel 2010, sono state 20 mila le imprese scomparse dal
mercato. Secondo una stima della Cia79, entro il 2013 potrebbero
79 ? www.cia.sicilia.it
117
chiudere altre 150 mila aziende. Solo in Sicilia, dal 1990 a oggi, gli ettari
coltivati sono passati da 1,6 a 1,25 milioni. Nello stesso periodo, le
imprese agricole siciliane che hanno chiuso i battenti sono state 184
mila. Se nel 1990, c’erano in tutta l’Isola 18 mila allevamenti, oggi sono
circa 7 mila. Gli agricoltori siciliani si trovano schiacciati da un lato
dall’aumento dei costi di produzione, dall’altro dalla contrazione del
valore della produzione. Tra il 2005 e il 2010, la Cia ha calcolato
aumenti del 30 per cento del costo dei fertilizzanti, del 22,4 per i
mangimi e del 7,4 per i carburanti. Più o meno nello stesso periodo, tra il
triennio 2006-2008 e il 2009, secondo l’assessorato regionale
all’Agricoltura, i redditi derivanti dalla coltivazione dei cereali sono
scesi in media del 38 %. Un trend negativo che riguarda quasi tutte le
produzioni: l’olio (-24 per cento), l’uva da vino (-46 per cento), l’uva da
tavola (-25 per cento), le arance (-17 per cento). Crollano anche i redditi
delle produzioni zootecniche, con una riduzione del 41 per cento nel
settore ovi-caprino e del 39 per le carni bovine80.
A conclusione del 2009 l’anagrafe delle imprese siciliane chiude in
pareggio, ma artigianato e agricoltura sono i settori più in difficoltà.
Questo è quanto risulta dall’ultimo studio condotto da Infocamere81, la
società consortile che si occupa di rilevare per ogni trimestre i tassi di
natalità e mortalità che riguardano le imprese italiane.
Gli ultimi dati confermano la tendenza già in atto da tempo e cioè che le
società di capitale stanno crescendo in maniera sostenuta a fronte di una
riduzione progressiva delle ditte individuali. In effetti, è stata proprio la
diversa forma giuridica delle imprese a determinare il crollo di
determinati comparti economici e, per contro, lo sviluppo di altri. Ciò è
chiaramente osservabile nel caso delle imprese che operano nel settore
dell’artigianato e dell’agricoltura la cui componente principale è
costituita dalle ditte individuali o società di persone che stanno subendo i
duri colpi della crisi.
80 ? www.cia.sicilia.it 81 ? www.infocamere.sicilia.it
118
Molti sono i fattori che concorrono a causare le suddette difficoltà e pare
che il problema non sia tanto la crisi produttiva quanto la scarsità dei
mezzi per commercializzare i prodotti agricoli e artigianali in modo da
renderli competitivi sui mercati nazionali ed esteri. In sostanza, imprese
molto piccole, come nel caso di ditte individuali, mancano di personale
specializzato e hanno una scarsa attitudine all’innovazione.
Altri fattori da considerare sono il difficile rapporto tra imprese di piccole
dimensioni e banche, soprattutto per quanto riguarda l’accesso al credito,
e la necessità di sviluppo dei processi di internazionalizzazione82.
Le imprese meridionali dovrebbero puntare alla differenziazione del
prodotto, enfatizzandone la qualità e il processo di identificazione con il
territorio di origine.I dati ISTAT sull’andamento dell’export testimoniano
che, nonostante la ricchezza di offerta sul mercato internazionale, la forza
di immagine dei prodotti non consente al Mezzogiorno di fare quel salto
competitivo necessario ad instaurare un processo di sviluppo e di crescita
adeguato.
Le imprese agroindustriali del sud hanno mostrato livelli di crescita
economica e dimensionale differenti e non omogenei a causa della
struttura industriale preesistente. Come conseguenza, le politiche di
sviluppo messe in atto dalle varie autorità regionali hanno avuto un
impatto diverso da regione a regione.
Nel caso della Sicilia, le politiche di incentivazione piuttosto che spingere
verso la creazione di forme associative, come è avvenuto in maggior
misura nelle altre regioni meridionali, hanno avuto l’effetto di
incrementare le immobilizzazioni tecniche che hanno inciso sull’aumento
del fatturato medio83.
Il Coreras84 nel corso del 2004 ha condotto un’interessante indagine sulle
82 84 www.infocamere.sicilia.it83 85 Coppola F.S., Capasso S., Ferrara O., (2005) “Il sistema agroalimentare nel Mezzogiorno:le sfide
dell’industria agroalimentare”, Rassegna Economica n° 2, dicembre, Napoli
84 ? www.coreras.it
119
imprese del comparto agroalimentare siciliano che sono certificate ISO
9001 e ISO 14001 in parte. Il campione di imprese considerato si adatta
bene all’universo complessivo delle aziende agroalimentari siciliane in
quanto molte di queste risultano essere certificate secondo gli standard
internazionali, anche per rispondere meglio a quelle esigenze di sicurezza
alimentare proprie dei consumatori.
Dai risultati dell’indagine è emerso che il settore agroalimentare siciliano,
in linea generale, è costituito da imprese di tipo tradizionale, con una
struttura organizzativa accentrata nella persona dell’imprenditore. Le
forme giuridiche più comuni sono infatti l’impresa individuale e la
società di persone (società semplice o di fatto, società in nome collettivo,
società in accomandita semplice).
Le imprese rilevate che adottano le certificazioni ISO 9001, ISO 14001,
UNI 10939 ed 11020, sono invece prevalentemente (58,3% del totale),
pur con alcune differenziazioni, società di capitale (società per azioni e
società a responsabilità limitata).
Questa peculiarità è indice di un elevato livello di solidità economica ed
organizzativa che consente di far fronte agli impegni economici e
gestionali legati all’acquisizione ed al mantenimento della certificazione.
Le società di capitale si riscontrano in tutti i settori ed in particolare
per le attività più “industrializzate” (vitivinicolo e conserve vegetali e
succhi), mentre sono meno frequenti nelle attività più “agricole” quali
quelle che lavorano il prodotto fresco (agrumi, ortofrutticolo).
Infatti nel settore agrumario la forma giuridica più rappresentata è la
società di persone (50% del totale attività). L’impresa associativa invece
è predominante nel settore ortofrutticolo (45,5% del totale attività),
mentre il settore olivicolo si divide fra l’impresa individuale e la società
di capitale.
Nelle imprese rilevate, risultano occupati a pieno tempo 1.607 addetti, dei
quali 7,9% indipendenti e 91,4% dipendenti, a cui si aggiungono 1.806
stagionali. Il cospicuo numero dei dipendenti lascia intendere che si tratta
120
di imprese moderne con una struttura organizzativa suddivisa in reparti e
con una attribuzione definita delle competenze e delle responsabilità.
La maggiore presenza di addetti a pieno tempo si riscontra nei settori
lattiero-caseario, vitivinicolo e delle conserve vegetali e succhi, che
insieme ragguagliano il 61,5% del totale addetti.
La gran parte degli stagionali viene assorbita da quei settori in cui le
lavorazioni si concentrano in alcuni periodi dell’anno: infatti il 74,4%
degli stagionali è occupato nell’agrumario fresco e nell’ortofrutticolo,
segue il settore vitivinicolo e delle conserve vegetali e succhi (insieme
19,7%)85.
Le società di capitale assorbono la quasi totalità degli addetti a tempo
pieno: l’analisi per settore economico infatti, mette in evidenza che
soltanto nell’ortofrutticolo e nell’olivicolo si conta una buona percentuale
di impiegati nelle società cooperative (40,2%) e nelle imprese individuali
(34,2%).
I risultati mettono in evidenza che le imprese oggetto dell’indagine sono
per lo più di piccole e medie dimensioni e che le certificazioni volontarie
di sistema e di prodotto hanno una scarsa diffusione tra le imprese di
piccolissime dimensioni (a conduzione familiare, con un numero di
addetti inferiore a 6 e fatturato inferiore a 500 mila euro); le quali,
gravate da vecchi e nuovi adempimenti legislativi, come l’Haccp, il
regolamento 178/2000 sulla tracciabilità ed i più recenti regolamenti sugli
Ogm e sugli allergeni, non sono in grado di affrontare i costi aggiuntivi
derivanti dall’acquisizione e mantenimento di una certificazione
volontaria.
Una conferma della prevalenza della piccola e media dimensione delle
imprese rilevate si ha facendo riferimento alla ripartizione per classe di
fatturato. Risulta che ben il 65 % delle imprese rilevate ha indicato un
85 ? Il Consorzio regionale per la Ricerca Applicata e la Sperimentazione (Coreras), ha condotto questa indagine nel corso del 2004 in collaborazione con l’Assessorato regionale Agricoltura e Foreste della Regione Sicilia.
121
fatturato compreso tra i 2,5 milioni e i 25 milioni di euro (si tratta
sopratutto di imprese vitivinicole, ortofrutticole ed agrumarie).Le imprese
con un fatturato inferiore ai 2,5 milioni di euro ragguagliano invece il
28,3%: il settore maggiormente rappresentato è quello olivicolo.86
Analizzando altri dati del Coreras, risulta che l’export dei prodotti
agricoli siciliani è calato negli ultimi dieci anni. Flessione che si è acuita
nel biennio 2008-2009 a causa della crisi economica internazionale. Di
contro, dal 2000 a oggi è aumentata l’importazione, e se questo doppio
fenomeno dovesse continuare la bilancia commerciale siciliana andrà in
pareggio, mentre finora è sempre stata in attivo (attualmente per circa 80
milioni di euro).
Secondo i dati elaborati in vari studi dal Coreras87, negli ultimi dieci anni
le esportazioni dei prodotti dell’agricoltura siciliana sono calati del 2,5%
con un segno fortemente negativo dei prodotti dell’industria
agroalimentare (-11%), mentre i prodotti agricoli venduti sfusi hanno
fatto registrare un incremento del 6%.
Al contrario l’import è aumentato del 16% con un balzo del 30% per
quanto riguarda l’industria alimentare. Il biennio della crisi, invece, ha
registrato solo segni negativi sia per l’export (- 17% in totale, con i
prodotti agricoli a - 25% e quelli dell’industria agroalimentare a – 6%)
che per l’import (-9%).
La Sicilia non è una regione dove si può consumare tutto ciò che si
produce, anzi ha una vocazione all’internazionalizzazione: soltanto il
30% dei prodotti può rimanere in Sicilia, il resto dovrebbe andare fuori,
tuttavia oggi solo il 10% supera i confini nazionali.
Nello specifico, il comparto ortofrutticolo, costituisce il punto di forza
di intere aree agricole, rappresentando il 23 % circa del valore della
86 ? www.coreras.it 87 ? www.coreras.it
122
produzione agricola regionale ai prezzi di base (865.967 milioni di euro,
Istat, media 2000-2006). In Sicilia la vocazione pedo-climatica
rappresenta un vantaggio competitivo soprattutto nelle fasce costiere, sia
per le colture protette sia per quelle di pien’aria, di conseguenza, le
produzioni siciliane possono essere presenti sui mercati interni ed esteri
con un esteso calendario stagionale ed una vasta gamma di produzioni
orto–frutticole. L’orticoltura si sviluppa su una superficie di circa 90.000
ettari (Istat, media 2000-2006), pari al 6% circa della superficie agricola
utilizzata.
In Sicilia, secondo l’ultimo censimento dell’Istat (5° Censimento
Generale dell’Agricoltura - anno 2000), le aziende orticole ammontano a
circa 29.604 con una superficie investita pari a 24.000 ettari, di cui
24.013 operano in pien’aria con una superficie totale di 17.444 ettari e
6.376 in ambiente protetto (quasi esclusivamente in serra) con una
superficie di 6.687 ettari. Si evidenzia una notevole riduzione delle
aziende orticole (-27,6%) e delle superfici investite (-27,3%)88.
La diminuzione del numero delle aziende e delle superfici investite
dovuta probabilmente dall’uscita dal mercato degli operatori più deboli,
lascia tuttavia inalterato il problema della polverizzazione aziendale. Con
il Reg. CE n.1182/2007 (del Consiglio del 26 settembre 2007), pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale n. 273 del 17 ottobre 2007, sono state messe in
atto delle strategie al fine di risolvere le problematiche inerenti la
frammentazione aziendale e l’offerta produttiva e tali da favorire la
programmazione, la valorizzazione, la concentrazione e la
commercializzazione della produzione, determinando l’aggregazione
dell’offerta all’interno del settore ortofrutticolo. In Sicilia operano
complessivamente 68 strutture associative (dati aggiornati al 25/05/2007)
di cui: 53 OP (Organizzazioni di Produttori) riconosciute ai sensi dell’art.
11, e 15 Gruppi di produttori riconosciute ai sensi dell’art. 14; delle 68
88 ? www.agrinnovazione.regione.sicilia.it/reti/Orticoltura
123
associazioni solo 21 operano nel settore degli ortaggi (tutte le altre
trattano quasi esclusivamente agrumi). La quantità di ortaggi concentrata
dagli organismi associativi è modesta e si aggira intorno al milione di
quintali (6% della produzione orticola regionale) destinata quasi
esclusivamente al mercato nazionale.
Il sistema agroindustriale è caratterizzato da una struttura tradizionale
basata su un elevato numero di aziende agricole e di imprese
agroalimentari di modesta dimensione economica così come il sistema
distributivo, che appare frammentato ed economicamente debole. La
Sicilia nel periodo 2000-2006 ha rafforzato la sua posizione
nell’interscambio dei prodotti orticoli freschi mostrando una sensibile
crescita del valore del saldo commerciale (+9%).
Il valore medio annuo del saldo degli ortaggi è stato di circa 102 milioni
di €, ed è costituito soprattutto dal pomodoro che con 83 milioni di €
detiene l’81% del valore delle esportazioni siciliane degli ortaggi.
I volumi di pomodoro esportato ammontano in media all’anno a 56.000
tonnellate, pari al 16% della produzione regionale di pomodoro. Fra gli
altri prodotti, le patate, carote, navoni e barbabietole da insalata che
costituiscono insieme il 17% del saldo ( 16,8 milioni di €). Precocità
e caratteristiche organolettiche sono i requisiti che caratterizzano
l’orticoltura siciliana, ma che, da sole, non sono sempre sufficienti a
mantenere i mercati o a guadagnarne di nuovi, anche in considerazione
del fatto che la domanda è sempre più controllata dalla Grande
Distribuzione e dalla Distribuzione Organizzata89.
Tutto ciò impone la produzione di “prodotti riconoscibili” (Prodotti a
Marchio), ad alto contenuto salutare (Integrato – biologico) e a “percorso
noto” (rintracciabilità). Ad oggi l’orticoltura siciliana può contare
solamente di una attestazione di qualità: il pomodoro di Pachino Igp, per
il quale sono state riconosciute, al 2006, circa 160 aziende produttrici e
89 ? www.agrinnovazione.regione.sicilia.it/reti/Orticoltura
124
una produzione certificata di 600 tonnellate, mentre sono in corso di
riconoscimento a DOP: il pomodoro, la melanzana e il peperone di
Vittoria
Per quanto riguarda le colture biologiche, dal 2003 sono stati coltivati
1.702 ettari (il 15% della SAU nazionale a biologico) per una
produzione di oltre 41 mila tonnellate (22% della produzione nazionale
biologica), anche se dal 2001 il comparto è in diminuzione la Sicilia
vanta il primato su tutte le altre regioni italiane.
In particolare le colture che incidono maggiormente sulla superficie a
coltivazione biologica risultano: la patata (30%), la carota (19%) e il
melone (17%), mentre sulla produzione risultano: pomodoro (27%),
carota (24%), patata (18%) e cavolo (14%)90.
Il settore orticolo siciliano grazie alla coesistenza di attività di pieno
campo e di attività sotto serra consente di esprimere un mix produttivo
particolarmente ampio che rappresenta un potenziale vantaggio
concorrenziale per l’accesso alla Grande Distribuzione, esigente nel
richiedere forniture puntuali di una vasta gamma di prodotti orticoli per
un arco temporale più lungo possibile.
Negli ultimi anni, attraverso la ricerca scientifica e i tecnici di settore,
sono state perfezionate le tecniche colturali e ridotti i costi di
manodopera con conseguente incremento della qualità delle produzioni e
delle rese per ettaro .
L’analisi SWOT , riportata di seguito, mette in risalto i punti di forza e di
debolezza, le opportunità e le minacce del settore agroalimentare sicliano.
PUNTI DI FORZA: aree a forte vocazione produttiva; potenziale
idoneità all’export; propensione all’innovazione; buone capacità
professionali nella fase di produzione; produzioni di elevata qualità
suscettibili di riconoscimenti (IGP, DOP); calendario di raccolta molto
esteso; potenziale specializzazione distrettuale. Dal punto di vista della
90 ? www.agrinnovazione.regione.sicilia.it/reti/Orticoltura
125
struttura della filiera, il pregio e la tipicità dei prodotti siciliani sta
agendo come potente aggregante; attorno ad essi si stanno infatti
costruendo delle realtà che non sono solo caratterizzate dall'alta qualità
del prodotto, ma anche dalla capacità di affrontare il mercato in maniera
efficace e competitiva, cercando di supplire alle debolezze che derivano
della dimensione mediamente piccola della aziende.
PUNTI DI DEBOLEZZA: polverizzazione aziendale; carenza della
produzione, conservazione e miglioramento del materiale di
propagazione; carenza di manodopera specializzata; limitata presenza
di figure manageriali nelle imprese; scarsa differenziazione del prodotto
finito; scarsa organizzazione dell’offerta e difficoltà nella creazione di
consorzi e strutture associative; scarsa integrazione di filiera;
insufficiente valorizzazione dei prodotti a marchio (DOP, IGP). A causa
della polverizzazione aziendale la filiera si trova ad affrontare una serie
di problematiche che dovranno essere affrontate costruendo una rete di
relazioni in grado di sopperire alla mancanza di imprese forti, capaci di
guidare la filiera. Tra questi problematiche:
- l'offerta di prodotti scarsamente concentrata e poco organizzata;
- i costi di produzione elevati a causa delle difficoltà e del ritardo nella
implementazione di tecniche innovative da parte delle imprese,
soprattutto nell'ambito delle coltivazioni in ambiente protetto;
- la carenza di strategie volte a differenziare il prodotto o ad allargare il
proprio mercato verso l'estero, dovuta alla mancanza di imprenditorialità
e di orientamento al mercato;
- lo scarso coordinamento tra le imprese della filiera e la
frammentazione delle politiche sul territorio e delle azioni di marketing
mirate solo su singoli prodotti o aziende91.
91 ? www.resintsicilia.net
126
OPPORTUNITA’: aumento della domanda nei mercati emergenti;
aumento dei consumi di prodotti di quarta e quinta gamma; crescente
sensibilità dei consumatori per prodotti sani e di qualità; affermazione
dei sistemi di qualità; apprezzamento al consumo dei prodotti
mediterranei e di provenienza siciliana; valorizzazione nell’ambito del
turismo enogastronomico.
Vista la crescente attenzione dei consumatori alla qualità dei prodotti, il
riconosciuto pregio delle produzioni ortofrutticole siciliane offre
già da sé l'opportunità alla filiera siciliana di avere un ruolo di primo
piano nel mercato italiano ed internazionale.
Inoltre la filiera siciliana ha già iniziato ad implementare azioni volte a
rendere i propri prodotti ancora più distinguibili, approfittando delle
norme sulla tutela dei prodotti e della disponibilità di risorse finanziarie
comunitarie, nazionali e regionali. Ma l'eccellenza dei prodotti non è
sufficiente. È infatti necessaria un'altrettanto eccellente struttura
produttiva e di accesso al mercato.
La creazione di consorzi e distretti, che ha caratterizzato l'evoluzione
della filiera ortofrutticola siciliana negli ultimi anni, potrebbe proprio
essere la strada giusta per colmare, attraverso una fitta rete di relazioni,
le carenze dovute alla polverizzazione aziendale.
Attraverso questa rete sarà possibile intraprendere progetti, troppo
complessi e costosi per le singole piccole imprese, volti a
migliorare la produzione, la promozione e la commercializzazione,
anche all'estero, dei prodotti tipici della Sicilia.
Sarà inoltre opportuno puntare ad ottenere un prodotto differenziato e
di altissima qualità, adatto a soddisfare le esigenze di un mercato di
nicchia, così eludendo la concorrenza dei prodotti ortofrutticoli di
bassa qualità e basso prezzo presenti in grande quantità nel mercato dei
prodotti ortofrutticoli92.
92 ? www.resintsicilia.net
127
RISCHI: accordi multilaterali che favoriscono l’ingresso sul mercato di
prodotti dei paesi extra UE; aumento della concorrenza di prodotti a
basso prezzo provenienti dai paesi emergenti sia sul mercato nazionale
che internazionale; perdita di quote di mercato per il mancato accesso
alla grande distribuzione; impoverimento del patrimonio genetico e delle
produzioni tipiche93.
Tuttora, la scarsa imprenditorialità, la mancanza di una efficace
organizzazione comune, indispensabile soprattutto in un contesto così
frammentario, rischia di disperdere le potenzialità di cui gode la filiera
ortofrutticola siciliana, facendole perdere quote di mercato che saranno
difficili da recuperare in futuro.
Le difficoltà sono acuite dall' aumento della competitività dei
paesi che si affacciano sul Mediterraneo; la pressione dei prodotti
concorrenti potrebbe ridurre i margini di guadagno delle imprese
ortofrutticole siciliane a livelli insostenibili, dati anche gli alti costi di
produzione sostenuti a causa del mancato adeguamento alle innovazioni
tecnologiche.
3.2 Le politiche a favore delle imprese siciliane
Le imprese agroalimentari siciliane, che hanno intrapreso la strada
virtuosa dei marchi volontari, possono fare riferimento ad una serie di
strumenti finanziari messi a disposizione dalle normative comunitarie,
nazionali e regionali. Questi incentivi, dedicati appunto al sostegno
economico di quelle iniziative volte all’acquisizione delle certificazioni
volontarie di sistema e di prodotto, si concretizzano in varie forme dal
contributo in conto capitale a quello in conto interessi, dal credito
d’imposta al bonus fiscale. Accade tuttavia che, visto il carattere
“locale” di alcune di queste iniziative, manchi un quadro di unione
coerente a cui fare riferimento per acquisire informazioni: l’operatore
93 ? www.agrinnovazione.it
128
rischia, pertanto, di mancare ad importanti opportunità di
finanziamento94. La politica dei governi regionali, nazionali e della
Comunità Europea in questi ultimi anni è stata lontana dall’affrontare le
problematiche dell’agricoltura in generale e di quelle della fascia
trasformata, che va da Pachino e Vittoria a Gela e Licata, in particolare.
Senza un vero progetto agricolo e agroalimentare le istituzioni locali,
regionali, nazionali ed europee, si sono limitate a gestire, di volta in volta,
in modo notarile, interventi tradizionali di emergenza, sponsorizzazioni di
diverse sagre, programmi inconcludenti di valorizzazione dei prodotti
tipici e iniziative sostanzialmente propagandistiche ed elettoralistiche.
Nessun nodo strutturale è stato realmente affrontato; la serricoltura sta
rapidamente morendo, centinaia di imprese agricole falliscono e
chiudono.
Unica politica portata avanti dai governanti è stata quella di tirare la
volata alle grandi imprese che hanno deciso di de-localizzare le
produzioni, di accettare un mercato senza regole che condiziona la vita di
migliaia di piccole imprese contadine ( la formazione del prezzo del
prodotto ortofrutticolo deve essere trasparente e il dumping non può
essere consentito), di una totale assenza di leggi sul credito agevolato alle
piccole imprese contadine. Tra i vari obiettivi da perseguire per le aree
agricole della regione si individuano:
- Potenziamento e riqualificazione delle strutture mercantili dotando di
strumenti operativi, a partire dai regolamenti, le società di gestione mista
pubblico – privata, al fine di avviare la realizzazione di servizi per i
produttori, per i commissionari, per i commercianti e per i consumatori,
certificazione per la tracciabilità, la salubrità e quanto possa servire alla
identificazione del prodotto con il territorio.
- Il sostegno alla Filiera Corta, al fine di favorire il rapporto diretto tra
produttori agricoli e consumatori, attraverso la valorizzazione della
94 ? www.coreras.it
129
vendita diretta in azienda o in spazi attrezzati dei Comuni; la filiera
corta realizza, a parità di qualità, vantaggi economici sia per il produttore
che per il consumatore.
- Ricerca e formazione che, nella competizione basata sulla qualità del
prodotto e sull’innovazione, rivestono un particolare valore strategico;
- La grande realtà della serricoltura iblea, con prodotti orticoli e floricoli di
grande valore, merita ed esige in tempi rapidissimi un Centro di Ricerca,
altamente qualificato, capace di sostenere e orientare il processo già in
atto di riconversione qualitativa e di innovazione competitiva delle
aziende serricole;
- Occorre conoscere ed analizzare la concorrenza straniera per consentire
la costruzione di strategie mirate, valorizzando le peculiarità dei territori
e cogliendo le opportunità del mercato. Suggerire orientamenti produttivi
in funzione delle dinamiche commerciali e produttive a livello europeo;
- Creare sinergie tra tutti gli attori della filiera produttiva che comincia dai
fornitori di genetica (ditte sementiere) fino ai commercianti, alla GDO
(grande distribuzione organizzata) ai consumatori finali dei nostri
ortaggi. Esiste una legge della Regione Sicilia (17/2004) che prevede
iniziative miranti alla migliore conoscenza del processo di formazione
del prezzo finale di vendita, anche mediante l’apposizione del doppio
prezzo (origine e consumo) e la riattivazione dell’osservatorio regionale
dei prezzi dei prodotti ortofrutticoli;
- Integrare le piccole realtà produttive in un sistema che consenta a queste
aziende stesse, responsabilizzandole, di interagire con il sistema agricolo
produttivo e commerciale, così da competere con concorrenti di
dimensioni e risorse finanziarie maggiori.
- Avviare un profondo processo di riorganizzazione e ristrutturazione degli
enti e degli istituti strumentali della Regione Sicilia per l’agricoltura,
130
sopprimendo enti come l’ESA, riformando i Consorzi di Bonifica
riducendo il loro numero;
- Dare vita ad iniziative per contrastare la criminalità nelle campagne e
l’infiltrazione mafiosa nelle grandi strutture di commercializzazione.
Per il settore agricolo il POR Sicilia prevede finanziamenti a tasso
agevolato ed a fondo perduto per la commercializzazione dei prodotti
dell’Agricoltura e della Zootecnia. Il POR Agricoltura Sicilia ha per
scopo l’aumento della competitività delle aziende di produzione
alimentare e la commercializzazione dei loro prodotti95. I finanziamenti
alle imprese agroalimentari in Sicilia possono arrivare fino al 90%
dell’investimento complessivo. Vi sono anche finanziamenti agevolati
rivolti ai giovani imprenditori agricoli, che subentrano ad un parente in
un’azienda agricola, per l’acquisto di macchine agricole. È prevista
anche l’incentivazione di quelle attività agricole che attrezzano i propri
fabbricati rurali per la recettività turistica (ospitalità e ristorazione). Vi
sono in arrivo anche finanziamenti a tasso agevolato per scorte,
carburanti e manodopera agricola. La Regione Sicilia ha sempre
riconosciuto all’agricoltura un ruolo fondamentale per l’economia
regionale.
Per le imprese agroalimentari della Sicilia, Invitalia offre un pacchetto
di finanziamenti per gli imprenditori che vogliono avviare l’attività
o che puntano ad inserirsi nella filiera. La L. R. 13/86 prevede
finanziamenti per i conduttori di imprese agrarie e zootecniche in Sicilia.
I prestiti a tasso agevolato per l’agricoltura in Sicilia hanno la durata
massima di 12 mesi ed importi massimi che variano in relazione al
beneficiario e all’annata agricola. Il credito agrario viene erogato
direttamente dalle banche convenzionate con l’Assessorato Regionale
dell’Agricoltura.
95 ? www.regionesicilia.it/Agricolturaeforeste
131
Nonostante la regione siciliana presenti un’economia caratterizzata da
una realtà agricola molto sviluppata e variegata, a livello industriale e
distributivo rimane fortemente confinata nell’ambito delle piccole
imprese (“filiera spezzata”). Le azioni sulle quali puntare potrebbero
essere quelle di aggredire le problematiche infrastrutturali, migliorando
gli aspetti legati alla logistica; collegare in un ottica di vera filiera la
realtà agricola a quella industriale senza tralasciare l’aspetto
commerciale e distributivo; affrontare il problema della piccola
dimensione con adeguate forme di incentivazione e di formazione
culturale ed imprenditoriale; riorientare le risorse destinate allo sviluppo,
ponendo maggiore attenzione alla ricerca e alla innovazione e infine
puntare maggiormente sui marchi di impresa.
In un contesto competitivo come quello odierno, in cui le spinte alla
globalizzazione e alla interdipendenza dei mercati si fanno sempre più
forti, le imprese meridionali si trovano a dover rispondere con delle
strategie di delocalizzazione, investimenti in nuovi impianti, creazione di
economie di scala ma anche e soprattutto puntare sulle strategie di
commercializzazione internazionale e di marketing. Sono infatti le
grandi reti commerciali che consentiranno alle imprese di ottenere la
necessaria presenza sullo scenario internazionale e l’incremento delle
vendite.
La tempesta finanziaria mondiale degli ultimi due – tre anni, con la
conseguente caduta della domanda e dei prezzi dei prodotti alimentari,
ha ulteriormente aggravato la situazione di crisi che attanaglia
l’agricoltura siciliana da oltre un decennio. Diverse sono le cause esterne
alla regione, come diverse sono le cause interne, anche se riconducibili
ad un’unica essenza.
Delle prime, costituendo variabili indipendenti, bastino solo pochi cenni
tematici: la globalizzazione dei mercati, con sempre minori vincoli e
protezione e con aumento esponenziale della competitività fra imprese e
132
fra paesi, quale conseguenza della evoluzione delle politiche
internazionali; la profonda modifica della PAC, che da un forte
sostegno ai prezzi dei prodotti ed a pesanti interventi di mercato è
passata al pagamento unico aziendale ed alla piena libertà
imprenditoriale; la profonda e diversificata evoluzione della domanda
alimentare, in modo speciale nei paesi ad economia avanzata, che ha
provocato il mutamento negli stili di vita e di consumo e la richiesta
sempre più esigente di sicurezza, qualità, trasparenza di informazione.
In questo contesto risulta competitivo il paese, il territorio, l’impresa che
realizza sul mercato una gestione razionale e d’insieme degli
approvvigionamenti a partire dal processo di produzione agricola, a
seguire con la trasformazione agroalimentare, la commercializzazione e
la distribuzione alimentare, fino ad arrivare al mercato finale, dove
impera il consumatore, soggetto principe i cui bisogni e convinzioni
sono da soddisfare.
I fenomeni appena accennati negli ultimi 25-30 anni hanno determinato
un profondo cambiamento (complessità) nei rapporti fra settori e fra
imprese e contemporaneamente una più forte interrelazione fra essi.
Diventa così prevalente la funzione della distribuzione moderna, la
quale per soddisfare la domanda del consumatore, abbisogna di prodotti
confezionati ed etichettati, rilevanti nelle quantità, differenziati nella
gamma tipologica, di qualità costante e garantita, consegnati con
puntualità e con calendario piuttosto ampio.
Ne deriva un approccio fra le imprese della filiera opposto alla logica
neoclassica o tradizionale di domanda/offerta, basata su politiche
orientate al prodotto, ovvero quasi esclusivamente alle sue caratteristiche
tecniche, e si affermano sempre più, nei rapporti produttivi e
commerciali, politiche di impresa definite in rapporto ai bisogni dei
consumatori ed all’interno della catena del valore al fine di soddisfare il
consumatore96.
96 ? www.PSRsicilia.it
133
Sono dunque ormai i settori agricolo e industriale, o per meglio dire
l’impresa agricola e l’industria agroalimentare, a dover rapportarsi ed
adeguarsi alle esigenze delle imprese distributive, le quali per effetto
della globalizzazione diventano sempre più società multinazionali. E non
il viceversa come avveniva qualche decennio fa.
In definitiva nel corso dei passati decenni si è modificata l’impostazione
strutturale ed organizzativa del settore agricolo trasformandolo in
sistema agroalimentare, dove risulta ampliata non solo la rete delle
relazioni con il mercato, ma anche con quella dei servizi e con altre
attività territoriali.
Le strutture, l’organizzazione e le modalità comportamentali e
strategiche delle imprese agricole, agroalimentari ed alimentari per stare
sul mercato sono ormai quelle dettate dalle politiche di marketing.
E’ questo dunque il contesto di riferimento per l’agricoltura e
l’agroalimentare della Sicilia. Per cui, al fine di individuare le cause
interne della crisi profonda in cui versa, è da chiedersi: l’operatività del
settore agricolo e del sistema agroalimentare regionale è coerente in
termini strutturali, organizzativi, gestionali, culturali al contesto
produttivo, competitivo, distributivo e della domanda al consumo
(senza riferimenti territoriali) ? O più esplicitamente e precisamente,
l’offerta agroalimentare siciliana (e per conseguenza tutto il suo sistema
a monte) è coerente con la domanda espressa dal/i segmento/i di mercato
(target) a cui potenzialmente i suoi prodotti agricoli sono destinati, per
caratteristiche genetiche delle specie e varietà coltivate, per
caratteristiche pedo -climatiche degli ambienti in cui sono coltivati, per
le vicende storiche e culturali vissute nella molteplicità dei secoli dalle
popolazioni e dai territori dell’isola? Nel mondo globalizzato la
destinazione dei suoi prodotti è il target che si colloca nella fascia medio
alta del reddito dei consumatori?
Secondo la organizzazione dei processi produttivi e di filiera si possono
inoltre distinguere due diverse tipologie d’agricoltura:
1) L’agricoltura tradizionale che limita il processo alla produzione di
derrate agricole di massa, destinate al mercato regionale e nazionale ed a
consumatori a reddito medio basso; adotta nei processi anche tecnologie
134
industrialmente moderne per la produzione e per la difesa del prodotto,
ma non estende questi processi, in tecnologia e soprattutto in
organizzazione, fino alla fase finale del prodotto finito in modo che
possa minimizzare il costo totale di filiera; non ha dimensioni di offerta
dell’impresa tali da operare nei canali commerciali corti (produzione-
grande dettaglio) e pertanto opera nei canali commerciali lunghi
(produzione - intermediazione- dettaglio).
Questa condizione comporta elevati costi di transazione e pertanto
elevati costi di filiera che allargano il differenziale prezzi alla
produzione-prezzi al dettaglio; non ha la capacità di valorizzare il grande
patrimonio genetico di prodotti tipici, tradizionali, storici, ecc. che
l’ambiente naturale, la storia e la civiltà millenaria del mediterraneo
hanno nei secoli accumulato, ma piuttosto tende a disperderlo
introducendo specie e varietà (in tutti i comparti produttivi)
sostitutive, non sempre esprimenti le specificità che derivano
dall’ambiente pedo-climatico, territoriale, paesaggistico e dalla storicità
dei beni culturali ed enogastronomici.
Questa Sicilia agricola tradizionale rappresenta la parte preponderante
della produzione: in quantità l’85-90%, in valore il 70-75% della
produzione agricola di base. La struttura produttiva è costituita
dall’azienda agricola individuale, condotta da agricoltori in età avanzata.
Solo in alcuni comparti (specialmente il vitivinicolo) si riscontra
l’organizzazione associativa, che però (fatte poche e talvolta importanti
eccezioni) adotta processi di lavorazione che si limitano alle prime fasi
della trasformazione industriale e/o del commercio; e pertanto, pur
concentrando l’offerta del prodotto primario, non opera nei mercati esteri
e non adotta politiche di qualità e di marketing.
Questa agricoltura ha presenza quasi esclusiva sui mercati regionale e
nazionale di massa, affollati da competitors (anche stranieri, persino nei
comparti tradizionali per la Sicilia, come quelli ortofrutticolo e
135
agrumario) più forti ed efficienti nella fase commerciale e nei rapporti
con la grande distribuzione organizzata (GDO)97.
In questa agricoltura le crisi economiche e di mercato sono divenute
ormai ricorrenti, sia nei comparti che fino a poco tempo fa erano il fiore
all’occhiello della sicilianità (come il comparto serricolo), sia nei
comparti oggi emergenti (come quello vitivinicolo).
Questa è la Sicilia agricola che, per sopravvivere, necessariamente ha
dovuto basare la sua operatività sugli aiuti regionali e comunitari previsti
dalle politiche agricole e dalle organizzazioni comuni di mercato (OCM)
sui prodotti. E che non è stata capace dopo quattro generazioni di
politiche comunitarie strutturali di modificare la sua struttura fisica, la
sua struttura giuridica e soprattutto l’organizzazione e l’assetto
produttivo nel passaggio epocale da agricoltura-settore ad
agroalimentare-sistema, che invece ha caratterizzato i paesi ad economia
sviluppata dell’Europa negli ultimi trent’anni.
2) L’agricoltura moderna ed orientata al marketing che organizza
processi di filiera fino alla realizzazione del prodotto confezionato,
spesso certificato, per il consumatore e per segmenti di mercato a reddito
medio alto; ha dimensioni di offerta o immette nel mercato prodotti di
qualità tali da operare nei canali corti (produzione confezionata - grande
distribuzione organizzata) e/o direttamente nei canali HORECA (in
diverse tipologie di ristorazione e catering); ha come mercati di
riferimento quello nazionale e per quote anche rilevanti quelli esteri
(area industrializzata dell’Europa, del Nord America, del Giappone e
paesi emergenti del Sud Est asiatico, Russia e recentemente anche Cina
ed India); realizza prodotti di qualità e valorizza i prodotti tipici,
tradizionali, storici, ecc.; valorizza con la multifunzionalità i beni
ambientali e culturali, l’artigianato, il turismo enogastronomico,
l’agriturismo ed in definitiva la linea slow food dei sapori e dei saperi.
97 ? www.PSRsicilia.it
136
Questa Sicilia agroalimentare rappresenta in quantità il 10- 15% ed in
valore il 25- 30% della produzione agricola di base. In questi quantità
e valore di prodotti confezionati per il consumatore sono compresi i
prodotti di qualità, tipici con o senza denominazione riconosciuta
(DOP, IGP, DOC, DOCG, IGT), storici, tradizionali, biologici, con o
senza marchio collettivo, con o senza certificazione di qualità.
La struttura produttiva è costituita dall’impresa agroalimentare con
diverse forme giuridiche: individuale (in prevalenza), associata, società
di capitali, ecc.; applica, seppur a diversi gradi, politiche e strategie di
marketing perché mirate a soddisfare la domanda del consumatore
moderno in diversi segmenti del mercato nazionale ed in parte
consistente del mercato estero.
La sua capacità competitiva si può considerare (seppur a diversi gradi)
elevata sia per la organizzazione dei processi e per i rapporti con i
buyers, sia per la specificità delle produzioni siciliane (vino, olio, arancia
rossa, orticoli di qualità e di gusto, pistacchio, formaggi e latticini,
conserve alimentari, ecc.), che nel segmento di mercato differenziato e
specifico assumono caratterizzazioni di concorrenza monopolistica.
In questa Sicilia agricola le crisi economiche e di mercato o non si
verificano o sono sopportabili; i successi di fatturato e di profitto portano
le imprese continuamente ad ampliarsi e/o ad innovarsi, utilizzando con
efficacia le opportunità (risorse finanziarie e servizi) regionali, nazionali
ed europee. Molte di queste imprese agroalimentari sono sorte e/o
evolute per l’intraprendenza di giovani imprenditori e/o professionisti
(anche donne), il cui successo ha fatto da richiamo agli imprenditori di
altre regioni italiane o a personaggi dello spettacolo specialmente nel
comparto vitivinicolo.
Il fattore differenziale fra queste due agricolture è costituito dal
capitale umano, ossia dalla cultura professionale e dalla capacità
innovativa dei soggetti che gestiscono ed operano nell’impresa, nella
ricerca, nelle istituzioni pubbliche, nel territorio.
137
Ed è dalla qualità del capitale umano che dipende la capacità di fare
impresa e di avere rapporti con il mercato moderno, di produrre e di
adottare le innovazioni, di supportare con azioni, servizi e politiche le
imprese nel contesto del mercato e nei rapporti con la società, di
salvaguardare e valorizzare l’ambiente ed il territorio per la qualità della
vita della collettività e quale plus per la produzione alimentare.
La crisi strutturale ed economica riscontrabile in tutti i comparti
dell’agricoltura regionale ha dunque come causa primordiale il
lentissimo passaggio evolutivo da agricoltura - settore ad agroalimentare
- sistema. La lentezza di questo passaggio è direttamente proporzionale
alla velocità di evoluzione spontanea della cultura professionale degli
operatori del sistema (agricoltori, imprenditori, manager, maestranze,
operai, tecnici, funzionari pubblici, ecc.).
Non si spiega diversamente, se non con questa lentezza di evoluzione
spontanea della cultura professionale, il fenomeno degli enormi ritardi
nella realizzazione dei progetti d’investimento previsti almeno dal 2000
ad oggi dalle misure POR, dai PIT, dai Patti Territoriali, dai Contratti di
Programma, dagli APQ, che coinvolge in un insieme i programmatori
nell’elaborare processi di sviluppo reali e moderni, gli imprenditori
nell’individuare in quest’ambito le idee progettuali produttive, i tecnici
nel dare corpo progettuale all’idea, i funzionari pubblici nell’istruire e
nel controllare la realizzazione del progetto.
E’ la mancanza di scienza e conoscenza a creare inefficienza nel sistema
del sostegno allo sviluppo e non (almeno spesso) la carenza di risorse
finanziarie, se addirittura non si riesce a spendere nei tempi tecnici
necessari neppure quelle disponibili.
L’Agenda di Lisbona ha indicato come obiettivi dello sviluppo la qualità
e la competitività. Questi termini per avere significato operativo
abbisognano di interventi mirati al miglioramento ed alla evoluzione
della cultura professionale (bene pubblico) non facilmente producibile
e/o reperibile sul mercato delle professioni perché abbisogna di un
138
processo lungo nel tempo e diffuso nel territorio, le cui determinanti
sono: ricerca e sperimentazione, assistenza tecnica ed organizzativa,
divulgazione, formazione professionale ed imprenditoriale. Il prodotto
della cultura professionale moderna è l’innovazione (continua, dinamica,
interagente) di processo, di prodotto, di organizzazione, di norme,
regole, di cultura tecnica, informatica, logistica, imprenditoriale
capace di superare tutti i gap del territorio, come appunto dimostrano
le imprese nazionali ed estere che in gran copia approvvigionano il
mercato alimentare al dettaglio della Sicilia, specialmente nella sua
forma GDO98.
Al centro del sistema c’è dunque l’impresa orientata al marketing (non
l’azienda agricola), che ha capacità d’investimento strutturale e
produttivo per il consumatore moderno (target-obiettivo) e per il
cittadino fruitore delle risorse territoriali ed ambientali. L’impresa
agroalimentare orientata al marketing richiede e valorizza il lavoro
tecnico ed intellettuale, specialistico e professionale, richiede e produce
innovazioni, crea e cura rapporti e legami con i mercati finali al consumo
nazionale ed estero, con il territorio naturale, agrario, urbano, con le
attività extra agricole (artigianato, beni culturali e turismo).
Purtroppo occorre constatare che stiamo vivendo anni in cui la politica
non approfondisce i temi dello sviluppo, insistendo spesso più sulle
formulazioni che sull’essenza dei processi, e nell’affrontare le
problematiche emergenti e le crisi strutturali sembra limitarsi agli aspetti
fisici, dato che gli interventi sono rivolti quasi sempre agli investimenti
materiali, mentre l’impegno a migliorare con l’Alta Formazione il
capitale umano è flebile o insufficiente sia a livello regionale che
nazionale. L’occasione per modificare incisivamente al meglio l’attuale
situazione nell’agroalimentare regionale è data dalla prossima riforma
della PAC; nel calendario politico amministrativo di Bruxelles ne è
prevista l’approvazione nel 2012 e l’entrata in vigore con il 2013.
98 ? www.PSRsicilia.it
139
3.3 Analisi di un caso: la Società Agricola Monterosso
Un interessante caso aziendale di internazionalizzazione commerciale di
prodotti agroalimentari è quello della Società Agricola Monterosso.
L’impresa, con sede a Chiaramonte in provincia di Ragusa, si occupa
di trasformazione di prodotti della filiera agricola per renderli
direttamente fruibili ai consumatori finali.
L’azienda nasce come produttrice di semilavorati per conto di grosse
aziende italiane per poi evolversi producendo prodotti finiti da destinare
direttamente al consumatore.
Oggi l’Azienda produce in minima parte semilavorati per altre
aziende e si è specializzata nella produzione e commercializzazione, in
vari modi, del pomodorino ( ciliegino ), attività in cui sono adesso i
leader mondiali.
Fra i prodotti che l’azienda produce troviamo sul mercato la salsa pronta
di ciliegino (confezionata nella tradizionale e caratteristica bottiglia di
birra in vetro scuro), salsa al piccantino, crema di carciofi, crema di olive
e confezioni di pomodorino semisecco.
L’Azienda fornisce prodotti ai grandi marchi della distribuzione come
Esselunga, Conad, Sisa, Sidis, Despar e a tutta la GDO in genere. Il core
business dell’azienda si basa essenzialmente sulla produzione della
famosa salsa di ciliegino imbottigliata nelle classiche confezioni in vetro
da 330ml.
L’azienda ha anche una propria produzione di ciliegino oltre che la
diretta fornitura su base locale. Iniziamo ad analizzare da vicino la storia,
la struttura e l’evoluzione della Società Agricola Monterosso.
Alla base dello sviluppo dell’azienda c’è l’impegno di 2 generazioni
della famiglia Arestia. Dalla metà degli anni 70 ad oggi ogni
componente della famiglia ha messo la propria dedizione e la propria
creatività al servizio dell’impresa.
- Figura 1- Stabilimento dell’azienda (Chiaramonte Gulfi – RG)
140
Fonte:
Fonte: www.agromonte.it
Alle origini c’è stata l’intuizione di conservare gli ortaggi, soprattutto
peperoni, in salamoia. In seguito poi all’exploit della coltivazione in
ambiente protetto (serre) del pomodorino ciliegino e del pomodoro a
grappolo, la famiglia Arestia ha voluto andare ben oltre sperimentando la
parziale essicazione dei prodotti e la relativa conservazione in olio. Il
risultato è che oggi la Società Agricola Monterosso è leader nella
produzione del Pomodorino Ciliegino e del Pomodoro semisecco.
L’azienda si trova nel comune di Chiaramonte Gulfi, area a forte
connotazione agricola, essa si espande su una superficie coperta di 4.500
mq all’interno della quale tecnologiche attrezzature e sapienti maestri
danno vita alla gamma Agromonte.
Con un organico di 100 dipendenti tra fissi e stagonali, la società
Monterosso si è posta tra gli obiettivi da raggiungere nel 2011
l’ampliamento delle quote di mercato estero inserendo il proprio
prodotto nella GDO estera. Attualmente l’azienda è presente sul mercato
141
estero ma con il proprio marchio collegato ai marchi dei gruppi di
riferimento presenti in tutto il mondo .
- Figura 2. Salsa di ciliegino in bottiglia di vetro da 330 ml.
Fonte: www.agromonte.it
L’intenzione è quella di passare alla distribuzione diretta con il
proprio marchio, ma senza per questo abbandonare le attività odierne con
i grossisti e di catering. La Società Agricola Monterosso lega il proprio
nome alla qualità e alla genuinità per garantire un eccellente servizio ai
consumatori. La mission è “permettere alle persone di assaporare i
prodotti della nostra terra, sapientemente preparati a regola d’arte
secondo le ricette tradizionali”. Una costante ricerca delle migliori
materie prime disponibili tutto l’anno. Lo scrupoloso controllo della
filiera ci permette di mantenere alti gli standard qualitativi.
La politica della qualità si traduce quotidianamente in un’accurata
selezione della materia prima disponibile tutto l’anno grazie alla
coltivazione in ambiente protetto. L’azienda, certificata B.R.C. e con
142
sistema I.F.S., segue un rigoroso piano di auto controllo igienico
sanitario seguendo il sistema HACCP, redatto da tecnici specializzati.
Il BRC (British Retail Consortium, l’insieme delle organizzazioni che
rappresenta gli interessi degli operatori della Grande Distribuzione in
Gran Bretagna) ha pubblicato lo standard BRC, che stabilisce i requisiti
minimi di standard igienici negli stabilimenti di lavorazione dei prodotti
alimentari. Lo standard nasce perciò con lo scopo di uniformare e
mettere in comune i criteri a fronte dei quali le organizzazioni della
Grande Distribuzione e/o gli organismi di certificazioni accreditati
effettuano le verifiche di conformità dei fornitori.
Lo standard si adatta a qualsiasi realtà produttiva senza vincoli di
prodotto o del paese in cui avviene la lavorazione. La rispondenza ai
requisiti dello standard non è un requisito legale ma è fortemente
raccomandata dagli operatori della Grande distribuzione inglese. La
società Agricola Monterosso, anche in virtù della sua massiccia
presenza nei mercati della grande distribuzione inglese, ha ritenuto di
prioritaria importanza conseguire questo tipo di certificazione, a
dimostrazione della grande attenzione per la qualità e la soddisfazione
del cliente – consumatore. Lo stesso principio ispiratore venne adottato
dal BDH (l’associazione che rappresenta gli interessi degli operatori
della Grande distribuzione tedesca) che ha emesso lo standard IFS
(International Food Standard).
L’azienda, che dal 2008 al 2010 è passata da un fatturato di 4 a 6 milioni
di euro, risulta essere leader per la produzione di Pomodori Ciliegino
tipo e Pomodori semisecchi, prodotti del tutto innovativi nel panorama
delle specialità del pomodoro. Agromonte, marchio da anni specializzato
in tale produzione, vanta un’esperienza pluriennale nel settore agro-
alimentare. Occupando un ruolo di leadership in Italia per la qualità e la
genuinità dei prodotti, la gamma Agromonte comprende: specialità,
bruschette, grigliati, pesti, sottolio, spalambili.
143
I prodotti Agromonte, tutti certificati e garantiti, sono vanto ed
espressione del made in Sicily; tanti prodotti buoni e gustosi, ideali per
condire primi piatti o per guarnire sfiziosi contorni.
I prodotti a marchio Agromonte, rigorosamente siciliani, richiesti e
apprezzati in tutto il mondo hanno una risonanza a livello globale.
Agromonte è un marchio di prodotti genuini selezionati e
successivamente lavorati utilizzando metodi tradizionali. Il vantaggio
competitivo della società è costituito dal fatto di essere i soli, o quasi, a
produrre un prodotto tipico della zona: la salsa di ciliegino. A tale
vantaggio si accompagna una strategia di diversificazione del portafoglio
prodotti, che vanno dal ciliegino semisecco ai prodotti spalmabili, dai
sott’oli ai grigliati sottaceto come accennato prima.
La struttura dell’impresa si è evoluta nel corso del tempo mantenendo
sempre la tipica tradizione familiare integrata però con un organico più
ampio e comprendente le varie figure manageriali ai vari livelli
direzionali, fondamentali per il funzionamento dell’impresa. L’azienda è
dotata di un Presidente, di un Amministratore Delegato, di un direttore
vendite per la vendita in Italia e un direttore vendite per le esportazioni,
una sezione produzione, sezione acquisti, personale e consulenti per la
parte finanziaria. I principali ruoli dirigenziali sono occupati dalla
famiglia del titolare. Il reparto della produzione è quello con il maggior
numero di addetti tra capireparto e operai che si occupano delle varie fasi
di analisi del prodotto (ciliegino e non solo) in entrata, la verifica delle
caratteristiche del prodotto, la prima lavorazione, quindi il successivo
imbottigliamento della salsa.
Gli altri settori dell’ azienda comprendono il responsabile della
qualità,di fondamentale importanza per garantire la sicurezza al
consumatore, il direttore dell’area commerciale che si occupa della
gestione delle vendite, del pricing, della proposta del prodotto in nuove
aree geografiche, dell’analisi delle quote di mercato, nonché delle
politiche di marketing e di comunicazione del prodotto.
144
Si aggiungono a tali figure il responsabile amministrativo e il
responsabile della logisitca e del magazzino, il quale si occupa della
gestione delle scorte e della ottimizzazione dei flussi logistici di
trasporto sia in entrata (materia prima da lavorare), sia un uscita ( out –
put da esportare nelle piattaforme sia italiane che estere per conto dei
grossisti – distributori).
Il prodotto utilizzato per fare la salsa è il ciliegino proveniente
esclusivamente dalle coltivazioni locali e anche dalla produzione che
avviene direttamente a livello aziendale che per l’appunto gestisce ettari
di coltivazioni.
Questo è senza dubbio un importante punto di forza poiché consente
all’azienda di utilizzare un prodotto sempre fresco e facile da
reperire, ottenibile con prezzi vantaggiosi dal mercato locale grazie ai
buoni rapporti con i fornitori che l’azienda è in grado di gestire e grazie
ai bassissimi costi di trasporto. Il rapporto con i fornitori si sviluppa nel
contesto del noto mercato ortofrutticolo di Vittoria, bacino di utenza di
centinaia di rivenditori di prodotti agro – alimentari, crocevia di
commercianti e grossisti del mondo dell’ortofrutta non solo siciliano.
Il pomodoro in arrivo alla fabbrica viene stoccato in cella o nel piazzale
coperto in funzione del tempo medio di attesa. Le cassette con il
pomodoro sono rovesciate manualmente sul nastro di cernita, dove
alcune operatrici provvedono all’operazione di sgrappolatura e
depicciolatura del prodotto, nonché ad una sua cernita qualitativa. Il
pomodoro cernito viene posto nella vasca di lavaggio, dove viene lavato
con il sistema del borbottaggio. Il prodotto lavato viene scottato in acqua
calda per un periodo variabile.
L’operazione di scottatura, oltre a bonificare il prodotto dal punto di
vista batteriologico, rende più morbidi i tessuti e crea sulla pelle della
bacca delle lacerazioni che in un secondo tempo favoriranno la
fuoriuscita del siero.
145
Il prodotto scottato viene poi trattato in passatrice ottenendo succo e
scarti rappresentati da bucce e semi. Il succo dopo un momentaneo
stoccaggio è fatto affluire alla pentola di cottura dove si assiste alla
miscelazione con olio e altri aromi.
Si procede quindi alla fase di concentrazione del prodotto che ha una
durata variabile in funzione del grado brix che si vuole ottenere nel
prodotto finito (9/10 gradi brix). Una volta pronta la salsa viene pompata
nel serbatoio isolato posto sopra la dosatrice che riempirà a 90°C i vasi.
Il vaso pieno viene quindi tappato e pastorizzato nelle apposite vasche.
I tempi di pastorizzazione sono di circa 10 minuti a 85°C, terminati i
quali si procederà al raffreddamento sino a raggiungere i 40/45 gradi al
cuore. Il vaso verrà lavato, poi asciugato ed etichettato. Sull’etichetta
vengono stampati il lotto e la data di scadenza. I vasi vengono quindi
confezionati in termo-pack e posti su bancali pronti per la spedizione.
L’azienda è fortemente orientata al consumatore ed ai bisogni da questo
espressi, e alla creazione di una clientela fidelizzata. Obiettivo infatti è
quello di acquisire sempre nuove fasce di clienti, anche in ambiti
geografici diversi da quelli abituali in cui il prodotto potrebbe avere una
risonanza ancora maggiore viste le differenti abitudini alimentari che
esistono tra un paese e un altro e vista anche la tendenza di configurare
la dieta mediterranea come quella più seguita per i vantaggi che apporta.
Proponendo il prodotto attraverso fiere e degustazioni si consente ai
potenziali clienti di poter testare il prodotto direttamente cogliendone le
sue qualità; allo stesso tempo l’azienda cerca di mantenere i clienti di
sempre proponendo anche nuovi prodotti (custode acquisition e
custode retention).
- Figura 3 – Strategia di orientamento al cliente (acquisizione e fidelizzazione)
146
Fonte: www.agromonte.it
Le numerose certificazioni sono un importante segnale di
riconoscimento di qualità del prodotto che consentono all’azienda di
conquistare anche quelle fasce di mercato più esigenti e attente alla
qualità e sicurezza del prodotto.
L’azienda ha partecipato al Piano Qualità Farm formando il personale
sui temi della Comunicazione, del lavoro di Squadra e del Marketing,
mettendo 15 dipendenti in formazione.
Dai dati elaborati si registra un buon rapporto con le risorse umane
dell’azienda, la passione per il lavoro viene motivata grazie al
riconoscimento dei meriti dei lavoratori a tutti i livelli e ad un adeguato
rapporto salario-competenze. La cultura aziendale si rispecchia nel motto
“l’azienda è di tutti e siamo tutti importanti”.
I dati risultanti dall’orientamento ci danno conferma che l’azienda sta
attraversando una fase di cambiamento sia strutturale (impianti e forme
di energia alternative) che organizzativo . Rispetto l’items “Ci sono
riunioni periodiche di verifica dell’azienda”, il risultato delle percentuali
si attesta con un 50% che dichiara “per niente” e il restante 50% che
afferma “poco”.
Si tratta sicuramente di un dato che va posto in rilievo per quanto
concerne l’aspetto della comunicazione interna aziendale, nonché i
momenti di condivisione dei processi operativi e organizzativi. Tuttavia
tale risultato va visto e interpretato alla luce dei risultati degli items
ricadenti in questa area: per esempio alla domanda “Accetto facilmente i
147
cambiamenti” è da notare come il 67% risponde “abbastanza” e un buon
33% risponde “poco”.
La scarsa o insufficiente frequenza di incontri interni, frena il processo
di comunicazione e condivisione delle informazioni rendendo la
posizione del lavoratore meno flessibile rispetto processi di
cambiamenti, tuttavia il risultato degli items registra una situazione di
propensione dei lavoratori ad eventuali fasi di riorganizzazione.
Se andiamo ad analizzare i successivi items “ Mi stimola affrontare
nuovi incarichi” e “ Conosco il percorso di crescita professionale”,
risulta una ottima propensione alla crescita professionale nonché il
riconoscimento della vision e mission aziendale, per tali ragioni i
lavoratori richiedono quindi maggiori opportunità di verifiche e incontri
interni.
L’Item inerente la soddisfazione professionale, dai risultati prodotti, fa
emergere un buon grado di soddisfazione di ciascun lavoratore
(l’83 % si dichiara abbastanza soddisfatto) e proseguendo col successivo
item “la mia vita personale è bilanciata con quella professionale” fa
emergere sicuramente un clima generale di soddisfazione, elemento
determinante per la produzione e produttività dell’azienda.
Si registra un forte clima di collaborazione e propensione a lavorare in
gruppo. La propensione ad aiutare a inserirsi nell’ambiente viene
confermata infatti dalle seguenti percentuali: il 50% risponde “molto”,
mentre il restante 50% risponde “abbastanza”. La capacità di
comunicazione è fondamentale per muoversi a proprio agio in un
ambiente di lavoro in cui le relazioni con i colleghi e con gli altri settori
possono risultare determinanti. Saper collaborare e, quindi, saper
spiegare agli altri le nostre richieste, è fondamentale sia
nell'organizzazione del lavoro interna che nei rapporti con i clienti.
148
Passando ad analizzare l’ambiente competitivo, il contesto geografico di
riferimento permette di poter identificare una vasta gamma di
concorrenti. Tuttavia non possiamo dire che si tratti propriamente di
concorrenti diretti quanto piuttosto di potenziali entranti. Premettendo
che una effettiva concorrenza non esiste , in quanto le caratteristiche del
prodotto “ Salsa di ciliegino” sono uniche, possiamo ravvisare dei
potenziali entranti nel business di riferimento considerando soprattutto
le imprese operanti nel contesto siciliano che producono prodotti simili
e che effettuano esportazioni all’estero.
L’azienda Ottagono s.r.l. rappresenta in primis uno dei potenziali
concorrenti in quanto la gamma prodotti “Siciliano” potrebbero insidiare
le quote di mercato dell’azienda Monterosso. I prodotti “Siciliano”sono
il risultato di ricerche condotte nell’ambito di un progetto comunitario
(azione 7.1 del PRAI - Programma Regionale di Azioni Innovative -
Innovazione Sicilia FESR 2000 - 2006 - Progetti innovativi e Reti di
cooperazione), sviluppato grazie alla costituzione di una ATS
(Associazione Temporanea di Scopo) formata da una rete di
cooperazione, la “Rete Ottagono”.
Quest'ultima prende il nome dal numero di entità presenti nel corso del
suddetto progetto: sei aziende ortofrutticole siciliane, un ente di ricerca
di Palermo ed uno studio di consulenze di Ragusa che ha coordinato le
attività.
La ricerca vera e propria si è sviluppata ad Ispica (RG), dove la Rete
Ottagono ha allestito un laboratorio pilota, diretto da un Tecnologo
Alimentare, per sviluppare innovazione di prodotto e di processo tramite
la trasformazione di ortofrutticoli freschi forniti dalle aziende della rete.
In un anno di ricerche sono stati elaborati quasi 500 prodotti
innovativi per originalità e tecnologie produttive, al punto da rendere
tale lavoro uno dei migliori quaranta progetti analoghi avviati in Europa.
Anche i risultati ottenuti dalle varie prove di degustazione, effettuate al
Vinitaly di Verona (2006) con la Regione Sicilia e all'estero (Svezia,
149
Svizzera, Germania, ecc.), hanno condotto parte dei componenti della
rete a capitalizzare i risultati formando la nuova società: Ottagono Srl.
Altra impresa che potrebbe rappresentare un concorrente è
“Ortobarocco”, specializzata nella produzione di salsa di ciliegino.
L’impresa, ubicata a Scicli, in provincia di Ragusa, si trova in una zona
caratterizzata da un ambiente pedo – climatico molto favorevole alla
produzione del ciliegino e quindi poi alla sua lavorazione –
trasformazione in salsa. L’impresa è stata costituita dai fratelli Morana e
dalle due mogli, come continuazione dell’esperienza familiare nella
produzione di ortofrutta in genere. Negli ultimi anni poi, si è
specializzata nella coltivazione di pomodoro ciliegino (più comunemente
conosciuto come pachino) diventando leader del settore, e di recente è
stata avviata la trasformazione del pomodorino presentandosi sul
mercato nazionale ed internazionale, con la famosa “ salsa di pomodoro
ciliegino”.
Nasce così il marchio "Casa Morana" . L’impresa si occupa solo della
trasformazione del proprio pomodoro ciliegino ed opera solo nei mesi
estivi (da giugno a settembre) poiché in estate il pomodoro ciliegino
raggiunge il max grado di dolcezza necessario per ottenere delle ottime
trasformazioni in termini di gusto e sapore.
Obiettivo principale di Casa Morana è quello di portare sulle tavole di
tutto il mondo il prodotto made in Italy, di fare conoscere le mille
sfaccettature del pomodoro ciliegino siciliano all’insegna della genuinità
e tradizione siciliana.
Altro potenziale concorrente che opera nel mercato locale può essere
costituito dall’azienda Lucifora che produce la salsa di ciliegino oltre ai
vari prodotti sott’olio e sott’aceto. L’azienda ragusana propone aromi
che vengono utilizzati quotidianamente nella cucina tradizionale
mediterranea:prezzemolo, origano, menta, peperoncino piccante.
Lucifora è un’impresa che si impegna nel proporre ai propri clienti i
migliori ingredienti per conservare intatte le proprie ricette, senza uso di
150
conservanti: carciofi, pomodori, pomodorini, olive, capperi, peperoni,
melanzane, funghi. Da qui nasce la scelta di usare olio extra vergine
d’oliva che garantisce un sapore inconfondibile.
L’azienda Lucifora, produce e confeziona, da oltre 40 anni, salsa di
ciliegino, sott’oli, sott’aceti, sughi pronti, caponate di altissima qualità.
I prodotti utilizzati, come l’olio extra - vergine d’oliva e tutte le
materie prime, con la loro genuinità, mantengono i sapori tradizionali
siciliani nel tempo, senza utilizzo di alcun conservante.
Gli ingredienti sempre freschi di stagione, garantiscono una
indiscutibile qualità dei prodotti ancora oggi lavorati e farciti a mano
secondo la ricetta di Giovanni Lucifora, fondatore dell’azienda.
Anche se non si tratta di un concorrente diretto in quanto non fa della
salsa il suo principale prodotto, tale azienda potrebbe rappresentare un
potenziale nuovo entrante nel business tipico della Società Agricola
Monterosso.
Altra concorrente locale è l’Azienda Agricola Biologica Sant'Antonio
Abate che nasce nel 1977 ad Ispica, in provincia di Ragusa, sulla costa
sud - orientale della Sicilia.
L'Azienda si estende su una superficie di 60 ettari di terra interamente
coltivata secondo il metodo di agricoltura biologica ad ortaggi, agrumeti,
oliveti. Integralmente certificata "Biologico" dal 1995 l'Azienda è
specializzata nella produzione di ortaggi, nella loro trasformazione,
essiccazione e conservazione sott'olio extra vergine d'oliva e di salse di
pomodoro.
La filosofia aziendale è produrre specialità genuine e naturali, prive di
conservanti, coloranti ed esaltatori chimici di sapori, garantendo la
naturalezza.
Il processo di essiccazione a cui sono sottoposti gli ortaggi (essiccazione
naturale in serre / 5000 mq di essiccatoi coperti) fa sì che essi
mantengano inalterata la propria struttura, i principi nutritivi e
151
caratteristiche organolettiche. Ciò consente di avere un prodotto di
qualità e soprattutto sicuro, caratteristiche fondamentali per mantenere o
acquisire nuovi clienti nel mercato.
L'azienda produce gli aromi per condire gli ortaggi sott'olio extra vergine
di oliva ed è proprietaria di un uliveto, sempre coltivato con metodo
Biologico, dal quale ottiene l'olio per la conservazione degli ortaggi e
delle salse. Una produzione che grazie al completo controllo della filiera
è garantita "dalla terra alla tavola".
La Società Agricola Monterosso è una realtà imprenditoriale che ha
sempre mirato ad ampliare i propri orizzonti commerciali non solo verso
tutto il territorio italiano ma anche in tutto il globo, consapevole
dell’unicità del proprio prodotto e della forte tradizione del settore
agroalimentare tipica della nostra regione.
I mercati esteri privilegiati sono quelli europei per un fattore di vicinanza
e di immediatezza nel comunicare il prodotto e gli attributi ad esso
legati, per non parlare poi delle tradizioni alimentari che possono essere
molto diverse passando da un continente all’altro.
- Figura 4 – La mission di Agromonte.
Fonte: www.agromonte.it
152
Proprio il caso delle differenti abitudini alimentari e della impossibilità
di produrre un prodotto simile in contesti come quelli nord europei, ha
fatto incrementare le richieste del prodotto “ salsa di ciliegino” nei vari
paesi esteri, obiettivo della Società Agricola Monterosso.
Questo aspetto diventa uno dei principali fattori critici di successo che
consente all’impresa di acquisire rilevanti quote di mercato anche oltre –
oceano, sia nel mercato asiatico che in quello americano. Nello specifico,
il 67% della produzione è destinato al mercato italiano, da nord a sud, il
restante 33% è invece destinato all’estero.
Di questo 33%, il 60% sono esportazioni a livello europeo mentre la
restante percentuale è destinata ai mercati extra – comunitari. I principali
paesi importatori sono Irlanda, Inghilterra, Danimarca, Svezia, Francia,
Svizzera. Interessanti sono i rapporti con gli altri continenti: si verificano
flussi esportativi anche in USA, Giappone e Cina.
- Grafico9 – Quote di mercato estero (2010)
Fonte: Soc. Agricola Cooperativa Monterosso (2010).
Come si desume dal Grafico 9, si nota che il prodotto di base dell’
azienda (salsa di ciliegino) è conosciuto in tutto il mondo. Il
mercato privilegiato è quello del Nord e Centro Europa (Danimarca,
153
Irlanda, Germania, Inghilterra, Francia, Svezia, Svizzera), ciò può essere
dovuto alla minore concorrenza presente in tali contesti geografici e alla
grande attenzione dei clienti ad un prodotto di qualità e non facile da
reperire sul mercato. Si aggiungono inoltre le quote di mercato a livello
extra – europeo, nell’ambito asiatico (Giappone) e americano (USA).
Come sostenuto in precedenza, mancano dei veri e propri concorrenti
effettivi in quanto il prodotto è pressoché unico considerando le sue
proprietà organolettiche e le modalità di produzione, nonché il tipo di
prodotto (ciliegino) utilizzato per produrre la salsa. Questo permette
all’impresa di avvantaggiarsi di un forte potere contrattuale nei confronti
dei buyers sia nazionali che esteri.
Analizzando i punti di forza e di debolezza possiamo individuare il
posizionamento dell’impresa in riferimento al settore in cui opera. Circa
i punti di forza, gioca un ruolo propulsivo, e quindi favorevole allo
sviluppo, la voglia di crescere e migliorare, condivisa da tutto il
personale dell’azienda.
“Agromonte” dalla data di fondazione ad oggi ha avuto una crescita di
fatturato del 300-400%. Vige un ottimo rapporto con le risorse umane
dell’azienda; la passione per il lavoro viene motivata grazie al
riconoscimento dei meriti dei lavoratori a tutti i livelli e grazie anche ad
un adeguato rapporto salario - competenze.
La cultura aziendale si rispecchia nel motto “L’azienda è di tutti e siamo
tutti importanti”. Interessante punto di forza è la capacità innovativa non
solo in termini di prodotto, ma anche di processo: l’azienda sta
conducendo degli studi per poter applicare degli impianti di produzione
orientati alla green economy, impianti e forme di energia alternative
infatti sono ancora sotto studio al fine di accertarsi che gli eventuali costi
aggiuntivi diano risultati economicamente validi.
Tra i punti di debolezza possiamo indicare: il contesto sociale in cui
opera “Agromonte”; dove emerge una bassa propensione ad associarsi in
154
consorzi, da qui ne deriva una competizione negativa che non favorisce
le aziende presenti sul territorio.
L’eccessiva presenza di imprese isolate in centinaia di nuclei, fa si che la
loro offerta perda forza sul mercato dovendosi confrontare con il potere
della grande distribuzione, decisamente più competitiva. Per essere
all’altezza di competere con la grande distribuzione bisognerebbe
che le numerose aziende presenti sul territorio si consorziassero in
un unico centro che unisca le numerose unità produttive, accedendo al
mercato attraverso una voce unica che li rappresenti tutti. Esistono
anche, talvolta, elementi ostativi da parte di amministratori poco
competenti o politicizzati. A causa dell’opposizione di un comune
amministrato dalla destra, fallì, solo per ripicche di ordine politico, il
tentativo di aprire nella città di Vittoria un centro per confezionare
prodotti ortofrutticoli freschi. Elementi ostativi provengono anche dalla
difficoltà che le aziende trovano nel ricevere i necessari aiuti dagli istituti
di credito.
Un altro elemento di difficoltà si rintraccia nella presenza sul mercato di
prodotti, per la maggior parte provenienti dalla Cina, di bassissimo costo
con i quali è difficile competere.
L’Azienda si difende dalla concorrenza di questi ultimi puntando molto
sulla qualità. Una bottiglietta di salsa di pomodorino “Agromonte” ha un
prezzo sul mercato che oscilla tra 1.59 e 1.80 euro per un peso di 330
grammi. Una confezione di pelati di provenienza cinese ha un prezzo che
oscilla tra 0.60 e 0.90, centesimi di euro per una confezione di peso pari
a 660 o 720 grammi. Naturalmente il prodotto proveniente dai mercati
cinesi ha una qualità pessima, esso viene ottenuto miscelando acqua e
concentrato di pomodorino. Questo fa si che oltre a non essere di qualità
paragonabile al prodotto “Agromonte”, se ci si fa attenzione, non risulta
neanche conveniente, poiché, una volta messo in padella e cucinato
perderà la metà del proprio peso e in più bisognerà anche
necessariamente condirlo.
155
La modalità utilizzata per penetrare i mercati internazionali è
l’esportazione diretta verso i paesi che richiedono il prodotto. L’azienda
ha creato una vasta rete di rapporti commerciali con i vari grossisti i
quali importano la merce per rivenderla ai vari distributori (D.O., G.D.,
normal trade) e dettaglianti in un secondo momento.
Quindi la Società Agricola Monterosso non possiede piattaforme
distributive all’estero, né filiali di produzione, né crea accordi di
collaborazione con altre imprese estere. Tutta la produzione avviene a
livello locale al fine di dare un’immagine di originalità, genuinità e
unicità al prodotto commercializzato.
Per quanto riguarda le strategie di marketing, la Società Agricola
Monterosso si affida a delle politiche di comunicazione dirette ed
efficaci che garantiscono una percezione del prodotto tra i vari acquirenti
esteri fortemente legata alla grande tradizione alimentare italiana,
sinonimo di qualità del prodotto.
Esso viene destinato in tutti i mercati in modo standardizzato, senza
applicare eventuali adattamenti del prodotto in rapporto alle variabili
etno – culturali sempre presenti nei vari contesti geografici di
esportazione.
Proprio per questo il prodotto è in forte espansione su scala mondiale e
conta delle quote di mercato rilevanti. La classica modalità di marketing
è quella diretta che si basa sulla vendita personale, trattandosi di
un’impresa operante nel business to business, il personal selling si adatta
bene alla circostanza, ovvero presentando direttamente i prodotti
aziendali agli acquirenti potenziali (grossisti e distributori) allo scopo di
realizzare la vendita. Questa modalità consente di far conoscere nei
minimi dettagli il prodotto ai buyers che potrebbero essere anche
sottoposti a delle influenze da parte dei salespersons, in modo da
ottenere una maggiore efficacia nella proposta del prodotto.
Un grande supporto alle strategie di marketing applicate è dato dalle
molteplici manifestazioni fieristiche svolte in ambito agroalimentare nei
vari paesi esteri: addirittura è stimato che, a livello B2B, le
156
partecipazioni fieristiche rappresentino una quota pari al 50 – 70 per
cento del budget di comunicazione complessivo. Si tratta di strumenti di
comunicazione molto efficaci dando risposte professionalizzate e
specifiche alle esigenze degli acquirenti.
La manifestazione fieristica diventa come una vetrina per l’impresa che
mostra la gamma dei prodotti affiancando una comunicazione
specializzata in rapporto ai vari potenziali acquirenti presenti.
Altra modalità di marketing diretto sono le campagne promozionali
effettuate direttamente nei punti di vendita (ipermercati, supermercati,
superstore) con corner assortiti dei vari prodotti Agromonte, con
l’intento di avere un riscontro diretto con il consumatore.
L’Azienda ritiene particolarmente importante il marketing, essa investe
costantemente anche nelle forme tradizionali di pubblicità, specie nella
carta stampata, facendo sì che il marchio “Agromonte” sia presente in
diverse riviste e giornali, per citarne alcune: Panorama, Donna Moderna,
TV sorrisi e canzoni, Chi, Visto, Gambero Rosso, Food, Cucina
Moderna, Economy. In programma è la presenza anche a livello
televisivo. L’azienda è presente anche sulla rete attraverso il proprio sito
web.
- Figura 5. Campagna pubblicitaria Agromonte (aprile 2010).
157
Fonte: www.agromonte.it
CONCLUSIONI
La globalizzazione dell’economia è un processo che oggi giorno tutte le
imprese sono chiamate ad affrontare. I vantaggi competitivi ottenibili dal
commercio estero o dagli IDE fanno si che per le aziende diventi di
prioritaria importanza orientarsi al mercato internazionale, sia per quanto
riguarda la fase di produzione, sia per quanto concerne la vendita degli
out – put.
Nel presente lavoro si è cercato di individuare la situazione del sistema
agroalimentare italiano nell’ambito internazionale. L’industria
alimentare italiana è uno dei settori dell’economia nazionale più attivi in
termini di internazionalizzazione, in questo ambito giocano un ruolo
importante le produzioni di qualità, le quali hanno evidenziato negli
158
ultimi anni performance ancora più soddisfacenti sui mercati esteri
rispetto a quello interno.
L’incremento delle esportazioni registratosi nel 2010 è un segnale
positivo per il settore, non a caso l’Italia occupa un posto di grande
rilievo tra i principali paesi esportatori di prodotti agroalimentari a
livello mondiale, con una quota di mercato consistente maggiore rispetto
a quella di paesi a forte vocazione agro – alimentare quali Canada, Cina
e Brasile.
L’Italia è anche tra i primi paesi a livello europeo a godere di un elevato
numero di sussidi e di incentivi a favore delle imprese agroalimentari.
Come è stato evidenziato nel secondo capitolo infatti, si nota la grande
importanza della PAC e dei sui tre pilastri: 1) le politiche agricole
comunitarie costituite soprattutto dal fondo FEOGA (Fondo europeo di
orientamento e garanzia in agricoltura) che finanzia i pagamenti diretti
agli agricoltori e le misure di gestione dei mercati agricoli attuate
nell’ambito delle Organizzazioni comuni di mercati (OCM), e dal Fondo
europeo per lo sviluppo rurale (FEASR) articolato in 4 assi che è
destinato a finanziare i programmi di sviluppo rurale; 2) le politiche di
sviluppo rurale, che sono a sostegno dello sviluppo socio – economico
delle comunità rurali; 3) la politica delle strutture, per migliorare la
qualità e la sicurezza dei prodotti alimentari. La PAC dovrebbe
contribuire a mantenere un sistema agricolo diversificato sul territorio, in
particolar modo nelle aree remote, e assicurare la fornitura di beni
pubblici.
Per quanto riguarda lo stato del settore agroalimentare siciliano viene
confermata una situazione critica. A pesare sui produttori siciliani sono
stati il perdurante clima di incertezza e la riduzione della capacità
produttiva del settore. Ma il 2010 e’ stato segnato anche da altro, come
la flessione degli investimenti e la preoccupante stagnazione dei
consumi alimentari così come dalle possibili tensioni sui mercati
internazionali. Il “caro-gasolio”ha condizionato i bilanci di molte
159
aziende, soprattutto di quelle serricole che nel distretto ragusano
dell’ortofrutta e del florovivaismo rappresentano valori economici di
tutto rispetto nel paniere produttivo regionale. Uno scenario complesso
quello dell’anno produttivo ed economico appena concluso dal quale
emerge ancora una volta che è mancato un vero ricambio generazionale
nei campi.
Le principali cause inerenti le difficoltà finanziarie delle imprese
agricole siciliane vanno rintracciate nella eccessiva frammentazione e
polverizzazione del sistema produttivo e nelle ridotte dimensioni delle
imprese che operano sia nelle fasi a monte della filiera, sia in quelle più a
valle e poi nella scarsa collaborazione attuata tra i vari imprenditori, che,
ricorrendo a strutture quali consorzi e associazioni potrebbero fare valere
un maggiore potere contrattuale nei confronti della grande distribuzione.
Le possibili soluzioni sono da rintracciare dunque nello sviluppo di
consorzi e forme associative di gruppi di imprese e nella capacità di
creare prodotti a marchio riconosciuti a livello sia nazionale che estero,
puntando comunque alla denominazione di origine tipica e/o protetta.
Il presente lavoro cerca anche di fornire un supporto per quelle imprese
che volessero intraprendere la via dell’internazionalizzazione mettendo
in evidenza non solo il piano delle riforme comunitarie e dei programmi
di intervento a supporto delle imprese operanti nel settore, ma
evidenziando anche le modalità e le problematiche relative all’
accesso nei mercati stranieri, sia in termini di produzione diretta sia in
termini di sola commercializzazione, facendo riferimento alle varie
opzioni possibili circa la creazione di accordi con imprese straniere,
aperture di filiali all’estero, creazione di canali commerciali
internazionali e/o sviluppo di piattaforme distributive.
In ultima analisi il caso aziendale offre un concreto esempio pratico circa
tali modalità di commercializzazione dei prodotti dell’industria
alimentare nel contesto internazionale, mettendo in evidenza
l’impossibilità sia di coltivare i prodotti agricoli direttamente all’estero,
160
in quanto è necessaria la presenza di un ambiente pedo – cimatico
favorevole quale quello del mediterraneo, sia di sviluppare IDE per le
fasi di lavorazione dei prodotti agricoli in unità aziendali estere con
basso costo di manodopera poiché il prodotto perderebbe in qualità
durante il trasporto.
Non a caso la società analizzata preferisce acquisire i prodotti da
lavorare direttamente in loco e attivare la produzione a livello locale per
trasformare il prodotto. In un secondo momento vengono attivati i flussi
commerciali internazionali solo in riferimento ai mercati di sbocco
piazzando il prodotto finito. Ciò consente di avere prodotti freschi pronti
per la lavorazione e di operare verso i mercati esteri con la sola attività di
commercializzazione del prodotto.
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