Terapia Medica Nutrizionale

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199 G I D M Rassegna 25, 199-212, 2005 La crescente prevalenza dell’obesità, della sindrome metabolica e del diabete tipo 2 ha richiamato l’attenzione dei medici, dei media, della popolazione e di quanti si interessano di management sanitario. Questo trend si è manifestato in modo più evidente nelle ultime decadi durante le quali si sono avuti un aumento dell’intake calo- rico e una diminuzione della spesa energetica legata all’esercizio fisico. La terapia medica nutrizionale (MNT) è parte integrante della cura e della gestione del diabete e dell’obesità. Sebbene l’aderenza del paziente alle indi- cazioni nutrizionali e alle modificazioni dei pasti sia uno degli aspetti più problematici della cura, tuttavia la tera- pia nutrizionale è una componente essenziale per le possibilità terapeutiche. La MNT per i soggetti affetti da obesità, diabete o sindrome metabolica dovrebbe essere individualizzata tenendo presente le abitudini alimen- tari e lo stile di vita. In molte società il significato non nutrizionale del cibo supera di gran lunga la sua impor- tanza quale sostentamento. Le abitudini alimentari sono una delle caratteristiche specifiche di una cultura. Parole chiave. Terapia medica nutrizionale, diabete, obesità, sindrome metabolica, abitudini alimentari e cul- tura. The medical nutrition therapy: eating habits and culture. The growing prevalence of obesity, metabolic syndrome and type 2 diabetes has attracted the attention and concerns of the medical profession, the media, the policymak- ers and the public. These troubling trends have emerged over the past few decades, during which there has been a striking increase in caloric intake and a decrease in physical activity. Medical nutrition therapy (MNT) is integral to total diabetes and obesity care and management. Although adherence to nutrition and meal planning principles is one of the most challenging aspects of the care, nutrition therapy is an essential component of successful manage- ments. MNT for people with diabetes, obesity or metabolic syndrome should be individualized, with consideration given to usual, eating habits and other lifestyle factors. The non nutritional significance of food far exceeds its impor- tance as sustenance in most societies. Food habits are one of the identifying characteristics of a culture. Key words. Medical nutrition therapy, diabetes, obesity, metabolic syndrome, eating habits and culture. LA TERAPIA MEDICA NUTRIZIONALE: ASPETTI SOCIOCULTURALI DELL ALIMENTAZIONE G. FATATI, E. MIRRI, M. PALAZZI Unità di Diabetologia, Dietologia e Nutrizione Clinica, Azienda Ospedale S. Maria, Terni riassunto summary Nonostante siano innegabili l’utilità e la necessità di un corretto regime dietetico per prevenire e curare le più frequenti patologie del nostro tempo, pur tuttavia il numero degli insuccessi e le difficoltà che si incontrano nel riuscire a modificare i comportamenti alimentari sembrano ostacoli insormontabili. Nel 1960 la meta- nalisi dei lavori scientifici pubblicati nei 30 anni prece- denti ha portato Stunkard ad affermare che tra tutti gli obesi la maggior parte non inizierà neppure un tratta- mento e tra i pochi che perderanno peso, dopo averlo portato a termine, la maggior parte lo recupererà rapi- damente. In pratica viene delineata una malattia nella malattia ovvero il disagio legato alla grande difficoltà nel perdere peso e alla grande facilità nel riacquistarlo. È opinione comune che in molti sia presente una situa- zione di insoddisfazione per la propria immagine cor- porea che non trae beneficio dal ricorso alla dieta e spesso, al termine del trattamento, il peso recuperato è maggiore di quello perduto accentuando il disagio. Inoltre alcuni soggetti vanno incontro nel tempo ad alterni periodi di perdita e di recupero ponderale con- figurando quella che viene chiamata Weight Cycling Syndrome (WCS) e che potrebbe associarsi a un mag- gior rischio cardiovascolare (1). Infine, sono esperienze diffuse le alte percentuali di insuccessi dietoterapici che si riscontrano nei soggetti affetti da diabete di tipo 2, Introduzione *DIAB. N. 4/2005 7-12-2005 9:54 Pagina 199

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La crescente prevalenza dell’obesità, della sindrome metabolica e del diabete tipo 2 ha richiamato l’attenzionedei medici, dei media, della popolazione e di quanti si interessano di management sanitario. Questo trend si èmanifestato in modo più evidente nelle ultime decadi durante le quali si sono avuti un aumento dell’intake calo-rico e una diminuzione della spesa energetica legata all’esercizio fisico. La terapia medica nutrizionale (MNT) èparte integrante della cura e della gestione del diabete e dell’obesità. Sebbene l’aderenza del paziente alle indi-cazioni nutrizionali e alle modificazioni dei pasti sia uno degli aspetti più problematici della cura, tuttavia la tera-pia nutrizionale è una componente essenziale per le possibilità terapeutiche. La MNT per i soggetti affetti daobesità, diabete o sindrome metabolica dovrebbe essere individualizzata tenendo presente le abitudini alimen-tari e lo stile di vita. In molte società il significato non nutrizionale del cibo supera di gran lunga la sua impor-tanza quale sostentamento. Le abitudini alimentari sono una delle caratteristiche specifiche di una cultura.Parole chiave. Terapia medica nutrizionale, diabete, obesità, sindrome metabolica, abitudini alimentari e cul-tura.

The medical nutrition therapy: eating habits and culture. The growing prevalence of obesity, metabolic syndromeand type 2 diabetes has attracted the attention and concerns of the medical profession, the media, the policymak-ers and the public. These troubling trends have emerged over the past few decades, during which there has been astriking increase in caloric intake and a decrease in physical activity. Medical nutrition therapy (MNT) is integral tototal diabetes and obesity care and management. Although adherence to nutrition and meal planning principles isone of the most challenging aspects of the care, nutrition therapy is an essential component of successful manage-ments. MNT for people with diabetes, obesity or metabolic syndrome should be individualized, with considerationgiven to usual, eating habits and other lifestyle factors. The non nutritional significance of food far exceeds its impor-tance as sustenance in most societies. Food habits are one of the identifying characteristics of a culture.Key words. Medical nutrition therapy, diabetes, obesity, metabolic syndrome, eating habits and culture.

LA TERAPIA MEDICA NUTRIZIONALE: ASPETTISOCIOCULTURALI DELL’ALIMENTAZIONE

G. FATATI, E. MIRRI, M. PALAZZI

Unità di Diabetologia, Dietologia e Nutrizione Clinica, Azienda Ospedale S. Maria, Terni

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Nonostante siano innegabili l’utilità e la necessità di uncorretto regime dietetico per prevenire e curare le piùfrequenti patologie del nostro tempo, pur tuttavia ilnumero degli insuccessi e le difficoltà che si incontranonel riuscire a modificare i comportamenti alimentarisembrano ostacoli insormontabili. Nel 1960 la meta-nalisi dei lavori scientifici pubblicati nei 30 anni prece-denti ha portato Stunkard ad affermare che tra tutti gliobesi la maggior parte non inizierà neppure un tratta-mento e tra i pochi che perderanno peso, dopo averloportato a termine, la maggior parte lo recupererà rapi-damente. In pratica viene delineata una malattia nellamalattia ovvero il disagio legato alla grande difficoltà

nel perdere peso e alla grande facilità nel riacquistarlo.È opinione comune che in molti sia presente una situa-zione di insoddisfazione per la propria immagine cor-porea che non trae beneficio dal ricorso alla dieta espesso, al termine del trattamento, il peso recuperato èmaggiore di quello perduto accentuando il disagio.Inoltre alcuni soggetti vanno incontro nel tempo adalterni periodi di perdita e di recupero ponderale con-figurando quella che viene chiamata Weight CyclingSyndrome (WCS) e che potrebbe associarsi a un mag-gior rischio cardiovascolare (1). Infine, sono esperienzediffuse le alte percentuali di insuccessi dietoterapici chesi riscontrano nei soggetti affetti da diabete di tipo 2,

Introduzione

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considerato malattia disnutrizionale ancor prima che lasindrome metabolica fosse definita come entità clinica.Tali evidenze ci hanno portato a modificare l’atteggia-mento nei confronti della dieta, non più da considera-re atto di prescrizione integrativa, ma educazione ali-mentare o meglio acquisizione di comportamenti ali-mentari corretti. La dieta è, a tutti gli effetti, parte fon-damentale di quel disease management, cioè di unagestione adeguata della malattia, che vede nel pazien-te non un recettore passivo di informazioni, ma undecisore competente e componente attiva del proces-so di cura. In tutte le patologie in cui l’alimentazionegioca un ruolo importante l’educazione alimentare èanche educazione terapeutica e deve permettere all’in-dividuo di acquisire e mantenere le capacità che pos-sono consentire di realizzare una gestione ottimaledella propria vita seppur in presenza di una patologia(2) o di un rischio di patologia. Per fare educazione ali-mentare è necessario conoscere il significato profondodell’atto alimentare per l’individuo e il gruppo di popo-lazione a cui appartiene e avere almeno un’idea diquanto la cucina, sia essa di apparenza o di sostanza,sia socialmente utile. Dopo l’esaltazione del metodo edella ragione scientifica, la cultura postmoderna tende,oggi, a demitizzare il modello esplicativo offertoci dallescienze naturali e dalla filosofia empirista, illuminista epositivista (3). Le difficoltà per i pazienti non risiedononell’apprendimento delle varie informazioni, ma nellaloro interpretazione e nella possibile utilizzazione nellapratica quotidiana (4).

Obesità, sindrome metabolica, diabete e alimentazione

Una delle scoperte mediche più importanti degli ulti-mi 20 anni è stata l’evidenza scientifica di poter pre-

venire e curare meglio la malattia con l’educazione(5). Questo assunto trova difficoltà applicative perchéi pazienti vanno dal medico per essere curati e possi-bilmente guariti e non per essere educati. Le difficol-tà sono ancora maggiori quando l’intervento riguar-da l’atto alimentare che è gravato di notevoli compo-nenti psicologiche e sociali. Importanti sono le moti-vazioni alla cura ovvero l’insieme dei fattori intrapsi-chici e relazionali che concorrono ad attivare e man-tenere i comportamenti volti non solo al curarsi nelsenso anglosassone del termine, cioè del prendersicura di sé (care), ma anche quelli volti al farsi curare.Fondamentali sono il rapporto con la malattia e la cul-tura della stessa, intesa come insieme di concetticompresi e condivisi. Qualunque processo necessitadi una valutazione di efficacia, a maggior ragione inun campo tanto delicato in cui l’educazione coincidecon la terapia e vi è la necessità continua di mettersiin discussione per tentare nuove strade e non abbat-tersi per gli insuccessi. In pratica, una volta stabiliti gliobiettivi, si deve preparare il programma per rag-giungerli e contemporaneamente i metodi di valuta-zione che debbono riguardare sia il programmaattuato sia i risultati raggiunti. La definizione, omeglio la ridefinizione, degli obiettivi e del program-ma sarà tanto più attendibile quanto più precisisaranno i metodi di valutazione. Nella figura 1 èdescritta, sommariamente, la spirale del processoeducativo. L’educazione alimentare, o piuttosto iltrattamento nutrizionale, cioè l’intervento del medi-co sull’alimentazione del soggetto, nasce contempo-raneamente alla definizione della malattia diabetica;altrettanto si può dire per l’obesità e/o la sindromemetabolica. Parlare di alimenti e di alimentazione inquesto settore può voler dire dilungarsi e impelagarsiin una trattazione enciclopedica o risolvere il tuttocon un’affermazione lapidaria del tipo “il paziente

Fig. 1. Spirale del processo educativo.

Obiettiviraggiunti

Valutazione

Definizione obiettivi

Preparazioneprogramma

Pianificazione delsistema di valutazione

Attuazioneprogramma

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deve mangiare come il resto della famiglia” e inentrambi i casi il comportamento è corretto. Infatti, latesi che l’assunzione di una maggiore quantità digrassi di origine animale, tipica di quanti vivono inuna società industrializzata, può contribuire a una piùalta incidenza del diabete e a un aumento delle suecomplicanze è stata, anche recentemente, dimostra-ta. Esiste un preciso rapporto tra elevata assunzionedi grassi saturi e ridotta azione dell’insulina endoge-na; i grassi animali peggiorano l’insulino-sensibilitàmentre quelli vegetali non la influenzano. Quandol’introito dei grassi totali è alto (> 37%) l’effetto posi-tivo della qualità scompare (6) mentre l’aderenza auna dieta di tipo mediterraneo, ricca di frutta e vege-tali, risulta associata a una riduzione significativa dellamortalità totale (7) anche in popolazioni che nonfanno parte del bacino del Mediterraneo (8). Lemodificazioni delle abitudini alimentari e dei com-portamenti sono alla base dell’aumentata prevalenzadella malattia diabetica. L’obesità e il diabete di tipo 2sono condizioni di frequente riscontro e coesistenti;solo recentemente sono stati identificati i processiche attraverso lo sviluppo dell’insulino-resistenza col-legano l’obesità addominale alla sindrome metaboli-ca e al diabete non insulino-dipendente. La scopertadella leptina ha portato il tessuto adiposo al centrodell’attenzione e ha incoraggiato ricerche che hannopermesso di definirlo come organo adiposo e di spie-gare in modo più preciso la tesi del gene risparmiato-re. Negli ultimi milioni di anni la scarsa disponibilità dicibo ha consentito la selezione di quei geni che per-mettevano un migliore sviluppo di questo organo euna maggiore resistenza al digiuno. La diffusioneendemica dell’obesità, della sindrome metabolica edel diabete è in relazione alla attuale disponibilità dicibo, senza precedenti nella storia umana, che ha tra-sformato un vantaggio evoluzionistico in uno svan-taggio metabolico (9). Negli anni si è cercato ripetu-tamente un rimedio proponendo regimi dietetici par-ticolari con risultati non sempre esaltanti. Nel 1994l’American Dietetic Association ha proposto le strate-gie necessarie per raggiungere un buon controllo gli-cometabolico nel diabetico di tipo 2 (10) che quasisempre è obeso e le ha racchiuse sotto il nome diMNT; in particolare l’intervento comprende:• ridurre l’intake calorico al fine di avere almeno una

moderata perdita di peso;• modificare l’intake di grassi;• migliorare la scelta dei cibi;• frazionare adeguatamente i pasti;• aumentare l’attività fisica;• autocontrollo ed eventuale trattamento farmacolo-

gico.

Gli obiettivi della MNT (11) sono quelli di incidere sulleabitudini alimentari e sull’attività fisica in modo da rag-giungere un peso ragionevole e ottenere un buon con-trollo metabolico. La terapia medica nutrizionale vienedefinita come l’utilizzo di specifici servizi nutrizionaliper trattare una patologia, un danno o una condizionee comprende 2 fasi: valutazione dello stato nutriziona-le e trattamento (12). Per trattamento si intende laterapia nutrizionale, il counseling e l’utilizzo di supple-menti nutritivi specialistici (13). L’educazione alimen-tare diviene terapia e trova una standardizzazionemetodologica che comprende: 1) valutazione dellostato di nutrizione, della conoscenza e della capacità diautogestione da parte del paziente; 2) identificazionedegli obiettivi nutrizionali individuali; 3) attuazione diinterventi che comprendono la pianificazione dei pastie la produzione di materiale educazionale che consen-ta al paziente di migliorare il piano di intervento; 4)valutazione e monitoraggio dei risultati. Il 105° USCongress, nel Balanced Budget Act del 1997, ha richie-sto che venisse condotto uno studio dallo Institute ofMedicine (IOM) della National Accademy of Sciencesper valutare l’efficacia clinica ed economica della MNTcome possibile intervento di prevenzione. Nel 1999 loIOM ha pubblicato il rapporto conclusivo, dando ungiudizio positivo, e ha addirittura affermato la necessi-tà che una MNT individualizzata, prescritta da un die-tista abilitato che si avvalga di un consulto medico, siaun beneficio coperto dal Medicare nell’ambito di unapproccio multidisciplinare alla cura del diabete (14).La posizione ufficiale della American DiabetesAssociation 2002 sostiene testualmente che “a causadella complessità dei problemi della nutrizione, si rac-comanda che un dietista abilitato, ben informato edesperto nell’applicazione della terapia nutrizionale nel-l’ambito della gestione del diabete e della educazione,faccia parte del team della terapia medica nutrizionale.Tuttavia è essenziale che tutti i membri del team sianoben informati a tal riguardo e siano di aiuto alla perso-na con diabete che necessita di apportare cambiamen-ti allo stile di vita” (15). Tali cambiamenti sono unmezzo estremamente efficace per ritardare o meglioprevenire il diabete di tipo 2; un programma che pre-veda una perdita di peso almeno del 7% e un’attivitàfisica di soli 150 minuti alla settimana è in grado di pre-venire un caso di diabete ogni 7 persone a rischio trat-tate per 3 anni (16). Se consideriamo che negli StatiUniti almeno dieci milioni di persone hanno caratteri-stiche tali per poter essere considerate a rischio, è chia-ramente immaginabile l’efficacia anche economica diun simile trattamento. Inoltre studi presenti in lettera-tura hanno dimostrato che la MNT è in grado di ridur-re l’HBA1c di circa l’1% nei diabetici di tipo 1 neodia-

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gnosticati e di circa il 2% nei tipo 2. La MNT deve quin-di essere considerata come monoterapia, insieme conl’attività fisica, nell’approccio iniziale di tutti i pazientidi tipo 2 con glicemia a digiuno < 200 mg/dl (15, 17,18). Nonostante ciò tali evidenze incontrano ostacoli,spesso insormontabili, nel quotidiano, e la domandache ci dobbiamo porre non è cosa si deve fare, ma per-ché quello che in realtà riusciamo a fare è tanto poco.

I programmi alimentari e i punti critici

Per comprendere le contraddizioni attuali è necessarioripercorrere a grandi linee quella che può essere defi-nita la storia della nutrizione moderna e che è indisso-lubilmente legata alla storia americana. È esperienzacomune di chi si reca per la prima volta negli Stati Unitirimanere sorpreso dall’enorme numero di obesi che siincontrano e notare che tutta la popolazione sembraeccessivamente nutrita. D’altra parte, fin dalla nascitadella nazione, gli americani si sono orgogliosamenteautodefiniti popolo dell’abbondanza (19). Nonostantei primi anni del sec XVII siano stati difficili per i nuoviarrivati, pur tuttavia la maggior parte degli abitantidelle colonie americane della Gran Bretagna era nutri-ta meglio di quanti erano rimasti in patria. Nel 1770 icoloni che si ribellarono contro il governo britannicoerano in media molto più alti dei soldati inglesi o deifrancesi venuti in loro aiuto. Avevano, infatti, già rag-giunto l’attuale altezza in relazione ai vantaggi nutri-zionali di cui usufruivano. Pur vivendo in un periodostorico in cui l’economia era essenzialmente di sosten-tamento, godevano di una abbondanza di cibo dive-nuta immediatamente tradizione e abitudine. Nel1793 John Bell, medico di Philadelphia, afferma che ènaturale che gli americani siano grandi mangiatori per-ché vivono in mezzo a grandi quantità di cibo. Neglianni a cavallo tra il 1830 e il 1840 si ha la prima rifor-ma alimentare che è un misto di scienza, morale edeconomia. Il reverendo William Sylvester Grahampiega la maggior parte delle conoscenze scientifichedell’epoca alle sue idee vegetariane e a una diffidenzapseudoreligiosa verso qualsiasi cibo che si presentassealterato rispetto alla condizione naturale. La farina inte-grale viene definita “Graham flour” e dopo l’aperturadei primi negozi dietetici anche i “cracker Graham”vengono prodotti industrialmente. Verso la fine delsecolo la seconda riforma alimentare vede come pro-tagonista il Dott John Harvey Kellog, erede della tradi-zione di Graham, inventore dei corn flakes e direttoredel celebre sanatorium vegetariano a Battle Creek nelMichigan. Kellog, pur non avendo molti meriti scienti-fici, è però geniale e riesce a trasformare un luogo di

cura, fondato dagli avventisti e scarsamente frequen-tato, in una clinica alla moda in cui la clientela è con-vinta di ricevere cure all’avanguardia, dal punto di vistanutrizionale. L’interesse economico risulta predomi-nante come sempre e caratterizza anche il periodo chepuò essere definito della vitaminomania e che riguardala prima metà del Novecento. Anche in questo casoalcune evidenze scientifiche vengono esasperate tantoche quando nel 1940 i medici della celebre MayoClinic, denunciano i danni della carenza di vitamina B1

sul comportamento degli adolescenti, la tiamina vieneribattezzata vitamina morale. Più recentemente laNegative Nutrition riprende alcuni dei temi cari aGraham, specie, quando nelle mani di moralisti comegli “zuccherofobi” riecheggiano le parabole protestan-ti sui pericoli della perdita della grazia. Il successo deimovimenti descritti è sempre legato indissolubilmentea un connubio coinvolgente tra tipo di dieta proposto,atteggiamento e morale dei pazienti e ritorno econo-mico. Il riconoscimento scientifico di quanto propostonon è mai elemento fondamentale. La medicina uffi-ciale ha sottovalutato queste evidenze e ha continuatoa promulgare raccomandazioni e linee guida con fred-de e asettiche percentuali numeriche per i macronu-trienti, costantemente disattese. Eppure nel 1935Joslin scrisse: “nel suggerire ai diabetici la dieta daseguire sottolineo l’importanza dei carboidrati e solo apochi ricordo il valore delle proteine e dei grassi… seun paziente impara il contenuto dei carboidrati di settetipi diversi di cibo e utilizza il suo buon senso raramen-te commette errori madornali… i diabetici non posso-no essere assillati da regole aritmetiche superflue. Il costringere un paziente a rivolgere attenzione al sin-golo grammo di cibo può avere come conseguenza larinuncia definitiva a pesare i cibi“(20). Le principalisocietà scientifiche sono concordi nell’affermare che laquota dei carboidrati può e deve variare in base alleabitudini individuali e locali e in maniera complemen-tare con il consumo di grassi cis-monoinsaturi e puòraggiungere anche il 60% dell’energia totale a pattoche derivi principalmente da alimenti ricchi in fibreidrosolubili (frutta, vegetali e legumi) o a basso indiceglicemico (pasta, legumi, riso parboiled). L’apportocomplessivo dei grassi non deve superare il 30% equello proteico dovrebbe variare tra il 10 e il 20% del-l’energia totale (21). Nonostante la condivisione diqueste semplici norme, a distanza di circa 70 anni dalleparole di Joslin, nella pratica nutrizionale sono pur-troppo ancora presenti ostacoli legati alla culturamedica che vanno contro il buon senso e rendono dif-ficile l’aderenza alla prescrizione dietetica. Il cardinedell’atteggiamento moderno nei confronti dellamalattia è il riconoscimento della non responsabilità

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morale del paziente; invece verso gli obesi e ancorpeggio nei confronti degli obesi diabetici viene postoin essere il pregiudizio della irresponsabilità morale delsoggetto che è causa della propria malattia. L’obesodeve mangiare di meno perché l’iperalimentazione ècausa dell’obesità: seguendo questo filo logico la dietaviene somministrata e vissuta come agente contrario ecrea una naturale reazione di difesa che ne impediscel’attuazione. Al contrario i guaritori tradizionali e chispesso propone soluzioni alternative individuano nellasocietà, e comunque sempre negli altri, i motivi chesono alla base della patologia. L’individuo non vienecolpevolizzato e al contrario gli viene fornito un sup-porto psicologico e una serie di motivazioni che ridu-cono l’ansia. Infine la classe medica spesso ragiona innutrizione seguendo premesse non veritiere (22) deltipo:• Le persone diabetiche hanno bisogno di un program-

ma alimentare altamente strutturato, individuale eassoluto; nessuna eccezione può essere concessa. Chiragiona in questi termini non tiene conto del fattoche un programma alimentare non deve essere con-siderato una dieta in senso fortemente restrittivo,ma piuttosto una guida a una sana alimentazione. Ildiabete e l’obesità sono malattie croniche e qualun-que programma va considerato non a termine. Leraccomandazioni del 1994 dell’American DiabetesAssociation (ADA) ricordavano che non esiste e nonpuò esistere una dieta per il diabete o una dieta ADAperché la terapia nutrizionale deve essere individua-lizzata in considerazione delle abitudini alimentari edello stile di vita.

• Il sistema di scambio è l’unico approccio di pianifica-zione alimentare per i diabetici. Quando sono stateproposte le liste di scambio, le persone mangiavanoin modo più semplice e il peso dell’industria intesocome forza di penetrazione, informativa e di comu-nicazione alimentare, nettamente inferiore. La MNTsi basa fondamentalmente su un esame nutrizionalecompleto, sulla definizione di obiettivi, sull’interven-to nutrizionale e sulla valutazione.Indipendentemente dalle convinzioni personali ilsistema delle liste di scambio è ampiamente utilizza-to e utilizzabile anche se richiede lo sviluppo di unprogramma alimentare come guida per scelteappropriate in relazione agli obiettivi e ai mezzi chesi utilizzano per raggiungerli senza dimenticare lacultura del singolo.

• I diabetici possono essere divisi in pazienti di tipo 1 e ditipo 2. Ancora troppo diffusa è la tendenza a tipizza-re il paziente per patologia e a non considerarlo “atutto tondo”. Modificare la dieta dell’individuo vuoldire modificarne i comportamenti che sono indi-

pendenti dalla malattia specifica e legati a fattoriambientali e genetici.

• Somministrare una dieta è una metodica banale cherichiede poco tempo e necessita soltanto di un suppor-to cartaceo o informatico standard. Mi vorrei soffer-mare brevemente sull’ultima affermazione ricordan-do per esempio che nel nostro Paese solo pochissi-mi servizi di dietetica e/o di diabetologia hannodelle linee guida di MNT che stabiliscano anche iltempo richiesto; tanto per chiarire il concetto siricorda che da oltre dieci anni è stato stabilito eaccettato che una prima visita per MNT in un dia-betico di tipo 2 richiede un minimo di 1 ora, il primocontrollo a 2 settimane almeno 30-45 minuti e ilsecondo controllo dopo altre 2-4 settimane lo stes-so tempo. La mancanza di standard minimi digestione è uno dei momenti critici che condiziona-no il trattamento nella medicina moderna: Lucchinha affermato che, nel proprio centro, al di sotto dei34 minuti non vi può essere alcuna prestazionenutrizionale ambulatoriale accettabile (23). Altromomento critico è la composizione del team e leprofessionalità dei componenti. I dati migliori otte-nuti nel RUN-IN dell’UKPDS (UK ProspectiveDiabetes Study Group), uno degli studi-faro per idiabetologi per quanto riguarda la perdita di peso,sono stati ottenuti nei centri dove erano presenti più dietisti. Anche i dati che nascono da un’estra-polazione del DCCT (Diabetes Control andComplications Trial) dimostrano che i risultatimigliori nel controllo glicometabolico vengono rag-giunti da quanti lavorano su programmi alimentarie progetti condotti da dietisti (24). Le diverse pro-fessionalità del team devono interagire per ottenerequella educazione terapeutica in grado di aiutare ipazienti ad acquisire o conservare le competenzenecessarie a gestire al meglio la loro vita con unamalattia cronica (25). Infine, che non si debba con-fondere la classificazione del diabete con le diverseclassificazioni dei pazienti è scontato, ma nella prati-ca clinica spesso dimenticato. Sapere tutto dellamalattia è un esercizio che sappiamo fare benissimo,conoscere il paziente e le sue problematiche è unesercizio che non ci piace e non sappiamo fare. Ilpunto debole nell’approccio alla malattia è l’incapa-cità a tradurre nella pratica i risultati della ricerca. Seè vero, infatti, che il livello delle conoscenze in que-sto settore non ha fatto altro che accrescersi, èanche vero che l’applicazione di tali conoscenze èstata frammentaria. Il Diabetes Prevention Program(DPP) ha dimostrato che l’intervento sullo stile divita può ritardare o prevenire la progressione daalterata tolleranza al glucosio (IGT) a diabete tipo 2.

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L’esecuzione di un’analisi costo-efficacia all’internodel DPP ha consentito di verificare che gli interventiintensivi sullo stile di vita sono anche economica-mente validi. L’adozione di programmi mirati di pre-venzione nei piani sanitari nazionali potrebbe com-portare importanti benefici (26). Tuttavia almenotre barriere si oppongono a interventi di questo tiponel Servizio Sanitario Nazionale. La prima è che, almomento, interventi intensivi sullo stile di vita nonsono attuabili negli ambulatori dei medici di medici-na generale e per organizzarli mancano le infrastrut-ture e i mezzi necessari. La seconda è la difficoltà arendere rimborsabili in modo congruo tali interven-ti e la terza è che è molto più facile far capire gli effet-ti benefici di uno stile di vita sano piuttosto cheriuscire a far fare scelte di vita sana (27). Lo sviluppodi programmi di “traslazione” in grado di individua-re gli ostacoli (fig. 2) che impediscono l’utilizzo pra-tico delle ricerche è uno degli obiettivi avanzati, peresempio, del Michigan Diabetes Research andTraining Center (MDRTC) (28). Se il percorso neces-sario per mettere in pratica le nuove acquisizionifosse chiaro, dovrebbero essere sufficienti il valorescientifico delle scoperte e i relativi benefici per con-sentirne l’applicazione in modo adeguato in coloroche ne possono trarre vantaggio. In realtà il passag-gio dall’evidenza scientifica alla pratica clinica è irtodi ostacoli e il relativo superamento dipende daquanta influenza possono avere questi ultimi sulmedico e sul paziente. Il primo importante passo èla precisa definizione del messaggio che si vuoletraslare; messaggi confusi e imprecisi portano arisultati altrettanto confusi e imprecisi. Purtroppodobbiamo ammettere, almeno fino a poco tempofa, l’assenza completa di conoscenze e strumentisulla comunicazione fornita dai corsi di laurea inmedicina. Si è così verificato, in genere, un aumen-to del gap tra la conoscenza medica e la percezionedell’utenza. Nel processo di comunicazione, abi-tualmente, si evidenziano due poli, un mittente o

sorgente e un ricevente o destinatario. Nel nostrocaso i due poli sono due persone, il medico e ilpaziente e il processo è molto più rapido attivandomeccanismi di trasmissione e ricezione legati all’atti-vità di codifica e decodifica del segnale che costitui-sce il messaggio informativo (29). In etologia si defi-nisce comunicazione il processo attraverso cui due opiù animali, quasi sempre della stessa specie, siscambiano messaggi. È un processo circolare in cuientrambi gli attori sono parte in causa attiva nellacostruzione comune di senso e significato condivisirispetto a quanto si vuole trasmettere. Vive, in prati-ca, sul feedback. La mancanza di un codice e di uncontesto comune (conoscenze) tra mittente e rice-vente crea delle interferenze che interrompono ilprocesso. La scarsa attenzione posta dai team nelverificare quanta parte del messaggio e quindi delleinformazioni sui comportamenti alimentari è statarecepita ed è attuabile è un altro di quegli ostacolilegati alla cultura medica che impediscono un cor-retto fenomeno di traslazione (fig. 3).

Educazione alimentare, self managementtraining e globalizzazione

Qualunque tipo di intervento finalizzato al raggiungi-mento di quello che viene definito self-managementtraining in nutrizione (30) dovrebbe tener presente lateoria di Lowenberg sulla maturazione umana alle abi-tudini alimentari (31). Il modello descrive il passaggioda un’alimentazione indispensabile per la sopravviven-za a un’alimentazione per l’autorealizzazione e in par-ticolare cinque step.1. Necessità fisiche per la sopravvivenza. È uno stadio

simile all’alimentazione degli animali che devegarantire la regolare disponibilità di quantità suffi-cienti di nutrienti.

2. Necessità sociali per la sicurezza. Una società una

Fig. 2. Il concetto di traslazione indiabetologia (modificato da Hiss RG).

Nuoveacquisizioni

Sviluppo delconsenso

Messaggio

Medici

Praticaclinica

PazientiOstacoli:Cultura medicad’organoMancanza di sintomiOrganizzazione SSN

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volta soddisfatto il fabbisogno giornaliero deve pen-sare alle scorte per esigenze future.

3. Appartenenza. L’appartenenza a un gruppo si mani-festa anche dall’omologazione consensuale dei con-sumi alimentari.

4. Stato sociale. La posizione sociale può essere defi-nita in base a quali alimenti vengono consumati e con chi.

5. Autorealizzazione. Solo quando i 4 precedenti pas-saggi sono soddisfatti un individuo può scegliere diprovare altri alimenti indipendentemente dalla pro-venienza solo o prevalentemente per soddisfazionepersonale.

In pratica questo modello è una rivisitazione della scaladelle motivazioni secondo Maslow (fig. 4) e con questaandrebbe integrata poiché passaggio fondamentale èquello della sicurezza (secondo step) che non dipendesoltanto dalle risorse disponili, ma anche dalla capacitàdi utilizzarle alla luce di indicazioni sanitarie. Nutrirsi èuna risposta a un bisogno biologico, ma il soddisfaci-mento di questo bisogno è anche una risposta socialee culturale. Secondo Lowemberg l’adesione a unadieta per scopi sanitari è più semplice in presenza diuno stato socioeconomico elevato perché l’autorealiz-zazione può facilitare la volontà al cambiamento. Inrealtà questa teoria andrebbe rivisitata alla luce deglieventi successivi alla globalizzazione che in un qualchemodo è riuscita a negativizzare l’effetto positivo del-l’autorealizzazione sulla possibilità di modificare i com-portamenti. Pertanto le conclusioni a cui era arrivatoMaslow non sono più condivisibili. Cento anni fa, conil fu Mattia Pascal, Luigi Pirandello apriva la riflessionesulla perdita di identità dell’uomo moderno. La sco-perta illuminante di Pirandello è che l’identità sociale èanche l’identità ontologica dell’individuo. Questa sco-

perta fa di una cronaca grottesca un romanzo filosofi-co: l’uomo che non ha documenti non è più un sog-getto, ma solo un individuo; in pratica diventa unacosa (32). Nel mondo moderno, la perdita di necessitàprioritarie si accompagna all’omologazione in un con-sumismo, immemore delle tradizioni e quindi senzadocumenti, che trasforma il soggetto in oggetto sep-pur consumante. E, paradossalmente, proprio chi haraggiunto l’apice della piramide è portato a consuma-re di più e a provare, per primo, le nuove offerte delmercato indipendentemente che siano alimenti chearrivino da terre lontane o nuove proposte culinarie.L’essere più facilmente disponibili ai cambiamenti cirende anche più influenzabili da parte dell’industriaindipendentemente dall’autorealizzazione.Comunemente si dice che la globalizzazione o mon-dializzazione degli alimenti è dominata da sole trecucine: fast food di tipo americano (macdonalizzazio-ne alimentare), cucina cinese e, infine, la sempre piùdiffusa cucina italiana o meglio italiota che sta provo-cando una sorta di italianizzazione della cucina mon-diale (33, 34). La cucina italiota non ha molti rapporticon la vera cucina italiana e soprattutto con le ricetteregionali, ma la ricorda nell’uso di materie prime ali-mentari o di piatti di nome e di origini italiane. Le mul-tinazionali sono costantemente al lavoro per produrrecibi senza identità, che vadano bene in Cina comenegli Usa, in Europa come in Oceania (35). Sono cibifacilmente cucinabili, facilmente assorbibili, facilmen-te acquistabili e che facilmente contrastano con pro-grammi alimentari a lungo termine. Sono cibi che nonrichiedono cultura per essere preparati e consumati ecome tali non sono in grado di trasmetterne; fortuna-tamente sembra possibile apprezzare un aumento, inquesti ultimi anni, della domanda di prodotti tipici dipari passo a una rinnovata insorgenza identitaria.

Fig. 3. Schema di un processo dicomunicazione (modificato daAlfano A).

Mittente

Interferenza

Ricevente

Feedback

Azione

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Fortunatamente dico, perché sono propri della nostratradizione piatti appetitosi, ma poveri che ben si spo-sano con le esigenze del diabetico e che consentono disuperare la monotonia e la frustrazione di un piano ali-mentare a volte troppo privativo e mal sopportato(36). La ricerca dei prodotti tipici e recentementeanche biologici rispecchia un cambiamento di rotta,speriamo duraturo, che punta alla differenziazione deivari Paesi Europei e anche di singole regioni. È neces-sario evitare che un fenomeno del genere venga inglo-bato artificialmente nel sistema del consumo di massa(37) e falsificato. Più le cose sono preziose e richieste epiù facilmente vengono falsificate; in alimentazione sipossono avere falsi d’origine, false produzioni locali ofalse tradizioni. Il luogo d’origine di un olio è dove que-sto “nasce” e allora visto che l’olio nasce nel frantoio èquesto il suo luogo d’origine indipendentemente dallaprovenienza delle olive (38); di esempi similari ve nesono moltissimi, ma i falsi sono possibili perché il con-sumatore ha spesso il culto del prodotto, ma non lacultura che ne giustifica il consumo. Un approccio delteam rispettoso delle tradizioni, teso ad arricchire lacultura e le esperienze ambientali del singolo potreb-be prevenire il fenomeno appena descritto e consenti-re di ottenere risultati riuscendo anche a contrastaremessaggi di forte penetrazione come, per esempio,quelli sui prodotti light. Negli anni Novanta l’industriaha captato la necessità di muoversi in una dimensionepiù leggera intendendo per leggero qualcosa chedovrebbe appagare senza fare danni e in questa otticaè iniziata la produzione di prodotti light che altro nonsono se non prodotti modificati nei propri componen-ti in modo da apportare almeno il 25% in meno dellecalorie rispetto al prodotto originale. Consumare ali-menti leggeri è più facile che diminuire la quantità dei

cibi abituali, ma non riesce ad avere un fine educativonutrizionale; al contrario abitua al consumo senzainfluenzare il gusto che è naturalmente orientato versoalimenti ricchi in energia (39). Il consumatore conti-nua a essere consumatore in senso stretto, cambia sol-tanto il prodotto consumato. La fortuna di alcuni pro-dotti è solo in relazione all’influenza del messaggio edell’immagine proposta. D’altra parte non si può nonessere d’accordo con quanti affermano che i consu-matori inizialmente si sono adattati ai prodotti, poi iprodotti ai consumatori e ora consumatori e prodottisi adeguano alle esigenze della comunicazione e spes-so allo scambio diretto. La possibilità offerta, semprepiù frequentemente al singolo, di interferire diretta-mente con i venditori, accelererà ancora di più ilricambio e la penetrazione dei prodotti scambiabili. Sipensi alle vendite porta a porta e a quale quota di mer-cato, per prodotti direttamente o indirettamente rap-portabili con la dieta, rappresentano. Le famiglie, infi-ne, delegano sempre più spesso alle istituzioni, scuolasoprattutto, i compiti relativi all’educazione dei giova-ni compresa quella alimentare. Gli insegnanti dovreb-bero, e sovente lo fanno, inserire nei relativi program-mi obiettivi tesi a migliorare le conoscenze sull’alimen-tazione, a creare una coscienza critica di settore, a edu-care il gusto, a correggere le abitudini rischiose eaumentare il tempo dedicato all’attività fisica. Perquanto riguarda l’intervento mirato sulle conoscenzele principali società scientifiche (40) concordano chedevono essere presi in considerazione tre aspetti: quel-lo biologico, quello sanitario e infine l’aspetto etnico.L’alimentazione deve rispettare le tradizioni e indurreall’utilizzo delle risorse dell’ambiente in cui si vive; inquesto senso è evento di cultura che apporta nuovacultura.

Fig. 4. La scala delle motivazionisecondo Maslow.

Autorealizzazione esuccesso

Autostima e prestigio

Amore e senso di appartenenza

Sicurezza

Motivazione su base fisiologica

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Terapia nutrizionale specifica culturalmente efficace

Con la spiegazione il medico dissolve l’insieme deifenomeni relativi alla malattia nelle loro componentiparticolari seguendo il modello dell’oggettività scienti-fica ma così facendo riduce la complessità del corpo-vissuto alla semplicità del corpo-cosa (41). Anche se lacultura postmoderna tende a demitizzare tale modelloe ad avvicinarsi a quello comprensivo della fenomeno-logia e dell’esistenzialismo, la malattia è ancora l’og-getto specifico del sapere medico. Nel confrontomedico-portatore di patologia molti considerano trelivelli di complessità. Il primo è la complessità oggetti-va o ancora tutto ciò che può essere osservato, descrit-to o quantificato al fine della diagnosi e della cura; ilsecondo è la complessità soggettiva che è relativa alvissuto della persona. Il terzo livello è la complessitàtranspersonale che secondo qualcuno è legata ai limitidelle conoscenze sia soggettive sia oggettive e secon-do chi scrive è invece il limite di rapporto legato alloscontro tra modi di pensare diversi e alle difficoltà diaccettare punti di vista o comportamenti non scientifi-camente corretti. La dietetica clinica presenta limitatedifficoltà oggettive; il consenso scientifico sulla corret-ta alimentazione è un dato di fatto, non altrettanto sipuò dire per il secondo e il terzo livello di complessità.Infatti, la dieta o meglio l’abitudine a consumare deter-minati alimenti, il modo di consumarli, quando e dachi vengono consumati, sono una caratteristica speci-fica della cultura dei popoli. Le tradizioni alimentarifanno parte del patrimonio ereditario dell’individuo alpari del linguaggio o dell’abbigliamento e spesso sonol’ultimo fattore culturale a modificarsi, in caso di emi-grazione, ma anche quello più difficile a essere com-preso. Le società più deboli sono spesso travolte daicostumi della civiltà dominante con effetti a volte dele-teri. Gli indiani Pima, abbandonati gli usi e costumi deipadri, sono diventati per lo più obesi, diabetici, malatie oggetto di studio per gran parte del mondo scientifi-co. Uno di loro, Penna che Ronza al secolo GorgeWebb, in un volumetto dal titolo Ricordi di un IndianoPima, ben prima di noi medici aveva capito il proble-ma. Infatti nell’introduzione dice: “Questi miei antena-ti… furono abituati a vivere in stretto contatto con lanatura, usandone le risorse per nutrirsi e vestirsi. Forsequesto fatto, ha a che vedere con la loro longevità, per-ché tutti raggiunsero un’età molto avanzata” (42). Ilmondo scientifico sa tutto sulla genetica metabolicadei Pima, ma sicuramente poco sulle modificazioniambientali e politiche che hanno costretto un popoloche ben si era adattato agli Spagnoli nel XVII secolo esuccessivamente all’esercito americano al quale vende-

vano frumento e mais, a trasformarsi da agricoltori deldeserto, autonomi, in poveri lavoratori ambulanti e ingrassi e diabetici pensionati statali (43). Nel 1980 solol’8,8% di tutti gli occupanti della zona del fiume Gila,la Pimeria alta, lavoravano ancora nell’agricoltura resadifficoltosa da progetti di irrigazione sbagliati doposcientifici furti di acqua a favore dei coloni bianchi. Ilmondo scientifico tende poi a sottovalutare che nelleciviltà moderne il simbolismo alimentare ha superatoquello strettamente religioso e di appartenenza perdivenire grossolanamente identificativo. Negli StatiUniti, per esempio, nell’immaginario collettivo i poverimangiano riso e fagioli, i ricchi caviale e champagne,gli yuppies formaggi caprini e chardonnay. Le donnesicuramente preferiscono le insalate mentre gli uominila carne e le patate. Altri luoghi comuni: i neri scelgonoil cibo per l’anima, gli ebrei cibi delicati, gli italiani lapizza. Alcuni Asiatici seguono i principi dello yin/yanche è una filosofia riguardante le forze opposte dell’u-niverso. Applicata alla dieta, si ritiene che ogni pastodebba contenere forze yin (fredde) ossia verdure,alghe, pesce ed erbe e forze yan o calde come carne,pollo, fritture, alcol e spezie. I modi di mangiare dei vipsono argomento di culto e fanno notizia: al largo dellostretto di Messina Gianni Agnelli amava consumareriso e scampi, Ursula Andress adora le mezze manichealla zingara, Valentina Cortese il risotto con la zucca eGeorge Bush odia i broccoli che invece erano predilet-ti da Reagan (44). Perché le nostre raccomandazionivengano rispettate devono tener presente le tradizionialimentari, il significato e l’impatto che le stesse posso-no avere sulla malattia e quindi superare la complessi-tà soggettiva e interpersonale. I comportamenti delnutrizionista potranno essere diversi se l’impatto delpiatto tradizionale viene considerato positivo, negativoo neutro, ma comunque dovranno sempre tenere nelgiusto conto il vissuto soggettivo dell’individuo.L’incoraggiamento a continuare nelle abitudini ali-mentari positive e il modificare quelle a impatto nega-tivo può essere di aiuto nella terapia nutrizionale cultu-ralmente specifica. In una società globalizzata, inassenza di frontiere fisiche e comunicative, chi si inte-ressa di alimentazione a scopo medico deve essere ingrado di fornire una informazione comprensibile,attuabile e di forte immagine. I ”guaritori” tradizionali,in alcune culture primitive e non solo, operano in unregno olistico e trattano le cause spirituali o gli squilibrinaturali alla base di una malattia. Sono in grado di offri-re un importante sostegno psicologico e riducono l’an-sia (45) indipendentemente dal risultato. La fortuna ditante diete strane e dei relativi inventori sta proprio nel-l’assecondare le richieste del cliente che spesso sonobasate sulla necessità di rassicurazioni e sulla ricerca del

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“rimedio magico” che aiuti a superare quel particolaremomento. Ci deve far riflettere anche il fatto che il dia-bete è un fattore di predizione indipendente per l’uti-lizzo di una “medicina” complementare e alternativa(CAM) e che proprio i diabetici con età > 65 anni e conun più alto livello culturale la utilizzino (46). La causa diquanto descritto va ricercata nella scarsa forza di pene-trazione dei nutrizionisti come singoli e dei centri comestrutture. La fredda razionalizzazione di alcune prescri-zioni dietetiche per quanto scientificamente corretta èdestinata all’insuccesso proprio per l’incapacità e l’im-possibilità di rispettare le attese e creare un modellovincente. L’utilizzare delle scelte alimentari consolidatedalla tradizione, al contrario, rappresenta un’immagi-ne forte, sfrutta in parte la cultura del singolo e ha unaforza di penetrazione positiva. Negli USA è stato tenta-to un approccio rispettoso delle caratteristiche cultura-li in termine di lingua, dieta, enfasi sociale, partecipa-zione familiare e incorporazione di credenze culturali inriferimento alla salute in messicani americani diabeticiche ha confermato i vantaggi di un intervento di que-sto tipo rispetto a quello tradizionale (47). Nel 1998 èstato pubblicato uno studio pilota condotto sugliIndiani Pima al fine di verificare l’aderenza a modifica-zioni dello stile di vita, confrontando un piano struttu-rato dietetico e di attività fisica (Pima Action) rispetto aun intervento, non strutturato, basato soltanto sul rin-forzo delle tradizioni e della cultura del popolo (PimaPride). Invariabilmente, gli aderenti al Pima Pride hannoavuto risultati migliori sia sul peso sia sulla prevenzionedella malattia diabetica. Più recentemente un’espe-rienza analoga è stata condotta su obesi e sovrappeso-diabetici di origine messicana in cui veniva implemen-tato un tipo di dieta tradizionale “mexican-style diet”utilizzando in modo flessibile alimenti a basso indiceglicemico. I risultati ottenuti sono stati analoghi. Questitipi di intervento, meno diretti, meno strutturati e piùpartecipativi, possono essere considerati più accettabi-li e, alla fine, di maggiore utilità (48, 49). La flessibilitàe la possibilità di superare la monotonia delle prescri-zioni dietetiche convenzionali è risorsa che abbiamoimparato a sfruttare solo recentemente nonostante lalezione della storia. Infatti, i primi ricettari culinarinascono proprio nei conventi di clausura per superareil malcontento che un regime alimentare troppo rigidoe soprattutto ripetitivo provocava. San Benedetto nellasua “Regola” inserisce “la misura del bere” e “l’ora deipasti” e Suor Maria Vittoria della Verde nel 1583 tra-scrive ben 170 ricette. Il desiderio di interrompere lamonotonia dei pasti in occasione delle feste ha, in que-sti casi, suggerito di raffinare la preparazione dei cibi edelaborare una vera e propria cucina dei religiosi diffe-renziata secondo le regioni, ma percorsa da uno spiri-

to comune: il mangiare nel refettorio (50) che divienepunto centrale di aggregazione e integrazione.

La cucina tradizionale come strumentodi health management

A fronte di tanti input che agiscono come fattori di con-fusione siamo dell’idea che sia necessario puntare, tuttele volte che si voglia fare un intervento nutrizionale, suelementi stabili, accettabili e condivisibili. Se il raziona-le di una sana alimentazione è ormai unanimementeaccettato ed è comune per l’obeso, il diabetico o ilpaziente affetto da sindrome metabolica, diversi sonogli strumenti utilizzati per metterlo in pratica. Dallediete a scambio ai gruppi di rinforzo molto è stato pro-vato e con alterne fortune. Tentare di cambiare le abi-tudini alimentari di adulti è impegno arduo e gravatofrequentemente da insuccessi soprattutto se si cerca diincidere su alimenti cardine dell’identità alimentare. Ifuturisti si accorsero di queste difficoltà quando lancia-rono la rivoluzione culinaria futurista che si proponevadi “modificare l’alimentazione del nostro popolo, forti-ficandolo dinamizzandolo e spiritualizzandolo connuovissime vivande in cui l’esperienza, l’intelligenza ela fantasia sostituiscano economicamente la quantità,la ripetizione e il costo… La cucina futurista sarà libera-ta dalla vecchia ossessione del volume e del peso e avrà,per uno dei suoi principi, l’abolizione della pastasciut-ta… per quanto gradita al palato,... vivanda passatistaché appesantisce, abbrutisce, illude, rende scettici,lenti, pessimisti” (51). In Marinetti la gola diventapunto centrale del piacere di fronte al quale i due sessiraggiungono l’effettiva parità. La voluttà del palato èconsiderata ascensionale, dal basso verso l’alto delcorpo umano, e questa spinta diventa norma igienica emorale. Il futurismo contrappone leggerezza e snellez-za a pancioni e “panciofichisti” impiombati da unacompattezza opaca e cieca (52). Marinetti dimostròuna eccezionale coerenza perché i banchetti futuristiebbero realmente luogo e scatenarono polemicheanche all’interno dello stesso movimento; i redattori di“Nuovo Futurismo” dichiararono guerra al capo nonconsiderando l’arte culinaria marinettiana degna di unmovimento culturale. La maggior parte degli Italiani laconsiderarono solamente come una provocazione diun movimento in continua sfida con il gusto correntelontana dai gusti, dalle abitudini e dalle necessità delpopolo. Per questi motivi non ebbe successo e la pasta,introdotta nella cucina dei nobili siciliani da servitoriarabi nel tardo Medioevo (53), ha continuato a essereuna meravigliosa protagonista della cucina mediterra-nea in genere e italiana in particolare. D’altro canto

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l’antropologia, da sempre, ha considerato l’alimenta-zione come il tratto distintivo di una cultura che apreun ventaglio di sentieri che conducono all’ecologia, allatecnica, alla vita familiare e alla religione (54). Per Dalìla paranoia che conduce alla genialità deve per forzapassare attraverso le proprie radici più forti ossia la lin-gua e la cucina. E in un geniale payés catalano comeDalì, in tutti i suoi scritti, in tante delle sue opere sonopresenti gli alimenti di quella terra rossa “dove il fortevento di tramontana scolpisce le rocce e i cuori”(55).Per quanto ci riguarda, è vero che in una storia larga-mente oscura com’è quella della cucina casalinga ita-liana, il capitolo della nascita dei sistemi gastronomici èuno dei più misteriosi (19). Comunque è innegabile l’e-sistenza di ricette regionali e/o locali che si identificanocon gruppi di popolazione e più di altri elementi nesono carattere distintivo. In Italia le varie regioni e lediverse aree all’interno delle regioni hanno conservatouna straordinaria ricchezza e diversità di cibi e viniancora strettamente legati al territorio (56). WilliamBlack definisce questa realtà come un patrimonio cul-turale legato a un meraviglioso attaccamento a tuttociò che davvero è legato ai sensi e che è contrario all’ap-piattimento del mondo industriale che nega il poteredel gusto. Seguendo questo ragionamento, da alcunianni, impostiamo l’educazione alimentare attraversopercorsi che portano alla riscoperta e all’utilizzo di piat-ti e ricette della tradizione. A tal fine abbiamo prodottodelle pubblicazioni sotto forma di guida a una alimen-tazione razionale, che rivisitano ricette tipiche e accan-to a consigli medici raccontano, se pur stringatamente,il significato e il peso che la cucina tradizionale e regio-nale ha avuto nella nostra società. Obiettivo è quello dicreare un rapporto stabile e collaborante tra equipe esoggetto come superamento di quel rapporto dualecurante-curato vissuto come imposizione necessaria,ma non bene accetta se parliamo di alimentazione. LeLIGIO (Linee Guida Italiane Obesità) sottolineano comeil risultato di qualunque intervento sia in diretta relazio-ne con la possibilità di un contatto professionale conti-nuo tra terapeuta e paziente; questa nostra guida oaltre analoghe hanno anche il fine di consentire il con-tatto continuo e di fare in modo che il rapporto non siinterrompa per l’impossibilità di accettare una prescri-zione dietetica a volte subita come frustrazione sociale.Consentono, poi, di non demonizzare alcuni alimenti ogruppi di alimenti e di incidere positivamente e stabil-mente sui comportamenti alimentari che sono unaspetto importante dello stile di vita. Per ottenere que-sto scopo qualsiasi strumento, manuale o libro che sia,deve essere molto vicino ai bisogni e soprattutto ai desi-deri del singolo; i piatti della cucina tradizionale posso-no essere di aiuto perché propri di quel patrimonio cul-

turale che si eredita al pari dei geni, rassicuranti perchéconosciuti e non privativi e ora anche di moda. In pra-tica stiamo parlando di quelle radici che sono state defi-nite “roots that speak to the world” che ci consentonodi riconoscere gli individui. Infatti, dopo oltre undecennio è venuta meno, per dirla con le parole diGiovanni Capnist, Presidente dell’Accademia Italianadella Cucina, quella infatuazione per la nouvelle cousi-ne, venuta d’Oltralpe, che aveva contagiato tanti cuo-chi famosi. Ormai, anche in Francia si assiste alla risco-perta della tradizione in cucina e in tavola, e possiamoaffermare che nel nostro Paese questa battaglia è ormaivinta. Più difficile sarà difendere quei prodotti di nicchiainsidiati dalle norme comunitarie dalla possibile inva-sione di alimenti geneticamente modificati. Oggi sidice che l’omologazione consensuale dei comporta-menti che fa nascere il senso di appartenenza a unasocietà si ritrova non solo nella religione e nel mistici-smo ma anche nella simultaneità dei desideri consumi-stici e dei modi per soddisfarli. La cucina insieme allalingua rappresentano l’ultima cosa che resta a chimigra, ma anche a chi subisce la migrazione, e puòessere elemento di confronto di identità diverse e discontro di identità. Alcune poesie dialettali, recuperatee poi riportate nelle nostre pubblicazioni, dimostranocome il senso di appartenenza a una società era legato,almeno in passato, alle consuetudini alimentari al paridel dialetto. Lo stile e le abitudini alimentari si modifi-cano, si creolizzano, persistono e ritornano anche sullabase delle situazioni di contesto (54), ma i cambiamen-ti sono più facilmente accettati se rispettano e anzi riva-lutano gli alimenti primari dei singoli gruppi di popola-zione. In un periodo di grande riscoperta di tutto ciòche è “modernariato”, mediare i consigli dietetici conricette tradizionali rinforza l’identità regionale del sin-golo e impedisce quella spersonalizzazione dell’inter-vento che porta spesso al fallimento. Altro evento nonproprio abituale per una guida salutistica è la presenzadell’abbinamento piatto-vino dando la preferenza avini di qualità in linea con quanto presente in letteratu-ra sugli effetti positivi per assunzioni moderate. È opi-nione personale che nei gruppi di rinforzo vada inseri-to quello che è lo studio del gesto nell’alimentazione alfine di arrivare a una tipizzazione accurata dell’indivi-duo, assumendo il gesto stesso, automaticamente unvalore rituale al quale non pensiamo in modo specifico.La sequenza di gesti e movimenti che caratterizzano ilnostro modo di consumare i pasti e di bere sono espres-sione di un particolare vissuto e nascondono un rap-porto preciso tra causa ed effetto. Per esempio la botti-glia preziosa di vino, degustata in occasioni particolarie con persone care al padrone di casa, racchiude in sé ilpercorso compiuto del gesto. Un prodotto prezioso

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non può essere svilito da un uso comune (non puòessere offerto a tutti e in tutte le occasioni); questa è lacausa. L’effetto è la gratificazione di chi lo riceve che sisente partecipe e attore dell’evento. Per tale motivoquando si parla di atto alimentare, seppur all’interno diun percorso di prevenzione o addirittura di terapia, sideve arrivare a rendere finito l’intero gesto che è il con-sumare un pasto, rispettando la ritualità dello stesso.L’educazione alimentare ha finora spesso sottovalutatoil legame fondamentale tra l’uomo e il suo nutrimentoe cioè il principio del piacere (57). E non solamente ilpiacere intrinseco derivato dall’uso e consumo delcibo, ma soprattutto il piacere della scoperta, quello dimanipolare materie prime per creare alimenti, il piace-re del gioco che a tavola diventa convivialità e parteci-pazione. Questo ultimo concetto che ho riportato inte-gralmente da un lavoro di Carla Garbato è quello che cideve guidare tutte le volte che decidiamo di intrapren-dere un intervento di educazione alimentare che altronon può essere se non un intervento di educazione algusto. La cucina tradizionale è lo strumento che ci con-sente di metterlo in atto.

Conclusioni

Fino a non molto tempo fa il diabete veniva considera-to solamente come “disease of sugar” e l’obesità e lasindrome metabolica non avevano dignità clinica;questo errato modo di pensare ha portato a un tipo diapproccio parziale e qualche volta controproducente.L’inveterata abitudine a prendersi cura più della malat-tia che del malato crea un ostacolo culturale e gestio-nale difficilmente superabile. Una visione olistica del

problema è necessaria se si vuole tramutare in vantag-gi pratici quanto presente in letteratura. In quest’otticail ruolo del nutrizionista è essenziale o meglio è essen-ziale una cultura che veda la Medical Nutrition Therapycome componente principale del management dellamalattia e dell’intervento di educazione terapeutica.All’interno della MNT la cucina tradizionale o meglioprescrizioni dietetiche culturalmente specifiche sonoessenziali e dipendenti dalla capacità del terapeuta diaccettare modificazioni e innovazioni (fig. 5) che cometali possono sembrare, almeno inizialmente, destabiliz-zanti (58). Nel corso dei processi di cambiamento oaccettazione di evidenze scientifiche vi è la necessità dicreare un clima in grado di alimentare e sostenere ilnostro apprendimento e in fondo la nostra capacità arischiare (59-62). Claes Jensen ha descritto alcuni annior sono il processo di cambiamento utilizzando lametafora delle quattro stanze, ognuna delle quali rap-presenta una particolare fase. La stanza della negazio-ne sarebbe tanto attraente perché evita al singolo uncarico eccessivo di responsabilità e di lavoro aggiunti-vo; infine evita anche di impegnare risorse in progetti icui risultati non sono prevedibili. Una MNT corretta èdipendente dalle capacità del medico di entrare nellastanza della confusione e programmare un nuovomodo di rapportarsi con il paziente. È importante nondimenticare, per ottenere risultati, due cose: la primaè, come Brillat-Savarin ci ha insegnato, che il piaceredella tavola è di tutte le età, di tutte le condizioni, ditutti i Paesi e di tutti i giorni; può associarsi a tutti glialtri piaceri e rimane per ultimo a consolarci della loroperdita (63). La seconda cosa da tenere a mente è che“la lettura della cucina è un favoloso viaggio nellacoscienza che le società hanno di se stesse, nella visio-ne che esse hanno della loro identità” (54).

Fig. 5. Il processo di cambiamen-to secondo Phillips (modificato).

Novità

Negazione

Soddisfazione Crescita e rinnovamentoRiflessione

ConfusioneAccettazione del rischio

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Corrispondenza a: Dott. Giuseppe Fatati, ResponsabileUnità di Diabetologia, Diabetologia e Nutrizione Clinica,Azienda Ospedale S. Maria, Via Tristano di Ioannuccio 2,05100 Terni

Pervenuto in Redazione il 17/7/2005 - Accettato per la pubbli-cazione il 6/9/2005

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