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Progetto scientifico a cura di Terapia antitrombotica nelle sindromi coronariche acute MODULO 3 SCA-NSTEMI Stefano De Servi Direttore Dipartimento Cardiovascolare A.O. Ospedale Civile di Legnano Come modulare la terapia antitrombotica nei pazienti “fragili” (anziani, anemia, insufficienza renale)

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Progetto scientifico a cura di

Terapia antitrombotica nelle sindromi coronariche acute

MODULO 3SCA-NSTEMI

Stefano De ServiDirettore Dipartimento Cardiovascolare

A.O. Ospedale Civile di Legnano

Come modulare la terapia

antitrombotica nei pazienti

“fragili” (anziani, anemia,

insufficienza renale)

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La ricerca di sostanze di potenza crescente sia verso multipli recettori piastrinici che verso punti diversi della cascata della coagulazione per il trattamento antitrombotico basato sull’evidenza fisiopatologica dei pazienti con sindrome coronarica acuta (SCA) è sfociata, purtroppo, nello sviluppo di farmaci gravati anche da un significativo aumento del rischio emorragico, soprattutto se usati in combinazione e per lungo tempo come raccomandato, specie nei pazienti con SCA trattati con angioplastica coronarica percutanea (PCI). Nonostante manchino dati certi sulla reale incidenza dei sanguinamenti in corso di SCA, è emerso chiaramente da numerosi studi clinici controllati e da registri il significato prognostico sfavorevole anche a lungo termine di tali complicanze (1,2).

Considerata l’ampia eterogeneità clinica della popolazione ricoverata con SCA, cui corrispondono anche gradi va-riabili di rischio ischemico ed emorragico, le Linee Guida attuali raccomandano in classe I livello di evidenza B, di personalizzare la terapia con questi nuovi, più potenti e costosi trattamenti farmacologici, i quali in molti trials hanno dimostrato la massima efficacia anti-ischemica proprio nei pazienti a rischio più alto nei quali vale la pena di correre anche quello di un maggiore tasso di sanguinamenti (3). Tuttavia, anche con l’ausilio dei sistemi più collaudati di stratificazione del rischio, il processo decisionale, talvolta, può risultare complesso per la sovrapposizione nello stesso soggetto di alcune variabili di rischio sia ischemico che emorragico per cui, ad esempio, un paziente di età >75 anni ha un elevato rischio di ricorrenza d’eventi ischemici a seguito del quale necessita di una terapia antitrombotica intensiva, ma allo stesso tempo ha anche un elevato rischio emorragico per cui la stessa terapia non può essere applicata senza qualche correzione (4-6).

Stato di fragilità. DefinizioneFragilità è un termine abbastanza vago che vuole indicare una condizione clinica generale che caratterizza il declino temporale di alcuni adulti-anziani che vanno incontro ad un particolare stato di vulnerabilità a causa o dei cambia-menti biologici correlati all’invecchiamento oppure di malattie croniche degenerative che comportano anche un danno funzionale (7,8). Lo stato di fragilità (Frailty Syndrome) viene diagnosticato e può essere quantificato sulla base di un punteggio che si ottiene applicando uno dei vari modelli teorici molto complessi elaborati sulla base di studi prospettici di popolazione residente in comunità, ospedaliera o geriatrica ambulatoriale (9,10).

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In sintesi questi modelli utilizzano decine di parametri che si riferiscono alle condizioni fisico-funzionali (presenza di comorbidità, facile esauribilità, perdita d’appetito e di peso immotivata, cenestesi precaria, etc) e allo stato cogniti-vo-relazionale del paziente a ciascuno dei quali viene assegnato un punteggio. Il risultato finale di questo processo porta all’indice di fragilità il cui valore è considerato un parametro di previsione dell’assorbimento di risorse umane ed economiche per la gestione clinica di questi pazienti. Tuttavia, il valore pratico e clinico di questi punteggi è molto discusso. Una recente revisione di 5 dei più utilizzati sistemi di valutazione dello stato di fragilità è giunta alla conclusione che, a causa dell’elevato numero di falsi positivi, questi criteri di punteggio sono di scarso valore sia per lo screening che per la diagnosi, mentre possono essere meglio utilizzati per identificare i veri negativi (11).

Nonostante queste luci e ombre su questa sindrome, è stata osservata una correlazione positiva indipen-dente tra la condizione clinica definita di fragilità e l’incidenza di eventi (ischemici ed emorragici) nel breve e lungo termine e la sua aggiunta ai tradizionali fattori di rischio cardiovascolare ha migliorato in modo significativo la stratificazione del rischio dei pazienti anziani stabili e instabili alla dimissione dopo terapia medica o dopo PCI (12,13). (Slide 1)

Come modulare la terapia nel paziente fragilePaziente anziano. In tutti i sistemi di stratificazione del rischio l’età di per sé, per la forte associazione epidemiologi-ca tra essa e lo sviluppo di malattie cardiovascolari, e per l’alta probabilità di avere una o più comorbidità, concorre pesantemente ad aumentare il punteggio finale sia del rischio ischemico che emorragico (4-6). I pazienti anziani, pur rappresentando più di un terzo dei ricoveri per SCA-NSTE (14), sono ulteriormente penalizzati perché l’età avanzata è stata valutata come una variabile predittiva indipendente della mancata esecuzione dell’an-giografia coronarica che si correla a un aumento di mortalità cardiovascolare intra-ospedaliera e per tutte le cause ad 1 anno (15). (Slide 2) . Pur in assenza di evidenze specifiche, per le fasce d’età più avanzate ( in quanto sinora tali pazienti rappresentano un

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sottogruppo minoritario nella maggior parte dei trial clinici di valutazione dei trattamenti farmacologici e/o invasivi delle SCA) le attuali Linee Guida raccomandano la scelta di una strategia di rivascolarizzazione percutanea precoce senza distinzione d’età (3).

Lo studio italiano ELDERLY-ACS recentemente pubblicato, pur non essendo abbastanza potente per valutare gli effetti del trattamento sulla mortalità, ha tuttavia arruolato pazienti d’importante rilievo clinico con età media di 82 anni, di cui la metà di sesso femminile, dimostrando per la prima volta che un approccio invasivo sistematico in una popolazione di questo tipo riduce di un significativo 56% il tasso dell’end point primario aggregato (morte per tutte le cause, reinfarto, stroke, ripetute ospedalizzazioni per cause cardiovascolari o sanguinamenti) ad 1 anno se i livelli di troponina sono elevati all’ingresso, soprattutto grazie alla drastica riduzione del tasso d’eventi ischemici ricor-renti (16). Probabilmente a seguito delle stringenti raccomandazioni contenute nel protocollo per la terapia antitrom-botica di accompagnamento e all’esecuzione delle procedure di rivascolarizzazione prevalentemente per via radiale (70%), il tasso di complicanze emorragiche è stato di gran lunga inferiore a quello riportato in letteratura (16). (Slide 3)

Sul versante farmacologico, tra i nuovi farmaci sinora approvati, il trattamento antiaggregante con prasugrel alle dosi raccomandate, da solo o associato a PCI, è gravato da un significativo aumento dello 0.6% del tasso assoluto delle emorragie maggiori e di quelle fatali nei pazienti con età ≥75 anni, oltre che in quelli con pregresso stroke e con peso ≤60 Kg, mentre tale aumento non si osserva nei pazienti diabetici verosimilmente a causa della maggiore reattività piastrinica basale (17,18).

In attesa di studi controllati disegnati specificatamente per la popolazione anziana, il suggerimento derivante dalle conclusioni dello studio FEATHER, che ha confrontato la reattività piastrinica tra i pazienti di peso <60 Kg e quelli con peso maggiore, di ridurre la dose di mantenimento del prasugrel a 5 mg non è trasferibile sic et simpliciter a quelli di età ≥75 anni in quanto è stato documentato che anche con la dose di prasugrel di 10 mg essi mostrano ancora un’alta reattività piastrinica (19,20).

Su quest’ultimo aspetto, informazioni più recenti e dettagliate ci arrivano dai risultati del sottostudio sulla funzione piastrinica del TRILOGY-ACS, in cui i pazienti con SCA-NSTE senza un programma di PCI e ad alto rischio emorragico (età ≥75 anni; peso <60 Kg) sono stati trattati con prasugrel 5 mg come dose di mantenimento (21). L’effetto antipiastrinico di questa dose ridotta del farmaco, benché più attenuato rispetto alla dose più alta, è sta-

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to significativamente maggiore rispetto al clopidogrel 75 mg sino alle determinazioni eseguite a 18 mesi di follow-up. Il ticagrelor, ultimo arrivato della classe di farmaci inibitori del recettore piastrinico P2Y12 per l’ADP, nel confronto randomizzato con il clopidogrel ha ridotto in modo significativo la mortalità totale (4.5% vs 5.9%, p < 0.001), quella cardiovascolare (4% vs 5.1%, p = 0.001), l’infarto miocardico non fatale (5.8% vs 6.9%, p = 0.005) e la trombosi certa intrastent (1.3% vs 1.9%, p = 0.009) (22). Tale significatività è stata peraltro osservata in tutti i sottogruppi predefiniti dello studio quali i pazienti con e senza sopraslivellamento del tratto ST, con insufficienza renale, diabete, trattati o non trattati con PCI o BPAC. Dal punto di vista della sicurezza, il ticagrelor rappresenta una prima parziale inversione di tendenza nell’incidenza di sanguinamenti che è risultata sempre più alta rispetto al clopidogrel, ma non significativamente diversa rispetto al prasugrel. In particolare, nel sottogruppo pre-specificato di pazienti anziani (età ≥75 anni) il ticagrelor non ha mostrato un aumento significativo del rischio delle emorragie maggiori comunque definite o secondo protocollo dello studio o secondo i criteri TIMI (23). (Slide 5)

La riduzione del tasso di sanguinamento è particolarmente evidente nella popolazione di età ≥75 anni con l’uso della bivalirudina (24).

Questi pazienti con SCA-NSTE sottoposti a PCI nel trial ACUITY trattati con bivalirudina da sola avevano un decorso clinico similare a 30 giorni e a 1 anno, ma un significativo più basso tasso di sanguinamenti rispetto a quelli di pari età trattati con UFH + GPI. Il numero di pazienti da trattare (NNT) con bivalirudina per evitare una emorragia maggiore era il più basso rispetto ai controlli in questa fascia d’età (16 vs 23). (Slide 4)

Paziente con insufficienza renale cronica (CKD). Anche la ridotta funzione renale ha la doppia valenza di variabile predittiva di maggiore tasso d’eventi ischemici ed emorragici nei pazienti con SCA sia nel decorso intra-ospedaliero che dopo la dimissione (5,6). (Slide 9)

Gli effetti del ticagrelor in confronto al clopidogrel in termini d’efficacia e sicurezza in rapporto al valore della clearan-ce della creatinina (CrCl) stimata all’ingresso sono stati indagati in un altro sottostudio del trial PLATO (25).

Anche nel sottogruppo di pazienti con CrCl <60 ml/m’ come nel trial principale, il ticagrelor alla dose raccomandata riduceva in modo significativo il tasso dell’end point primario composito (17,3% vs 22%; HR 0.76 95%CI 0.65-0.90), mentre non vi erano significative differenze tra i 2 farmaci nell’incidenza di emorragie definite sia secondo il proto-collo che secondo la classificazione TIMI. (Slide 10)

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Il paziente anemico. È stata da tempo documentata la correlazione inversa tra i livelli basali di emoglobina (Hb) mortalità e il rischio di sanguinamento; (Slide 6) i tassi più bassi di tali complicanze sono stati osservati nei pazienti con Hb intorno a 15 g/dL e quelli progressivamente più alti con valori inferiori o superiori, sia nella popolazione generale (specie anziani e donne) sia in un’ampia gamma di patologie specifiche quali la cardiopatia ischemica, l’insufficienza renale, il diabete e vari tipi di chirurgia compresa quella cardiaca (26, 27). (Slide 7)

Pur essendo l’impatto dell’Hb basale sul rischio emorragico considerato debole rispetto a quello di altri predit- tori (età, CrCl), tuttavia la forte correlazione indipendente tra emorragie, incluso il loro trattamento con trasfusio- ni (Slide 8) , e mortalità obbliga comunque ad attuare ogni misura per la prevenzione di tali complicanze preferendo l’uso di farmaci e di procedure a basso rischio emorragico. Per quanto riguarda i primi, il trattamento antitrombinico di scelta da associare alla doppia terapia antiaggregante in fase acuta per i pazienti ad elevato rischio emorragico con SCA-NSTE, in assenza di un programma di rivascolarizzazione percutanea, è considerato il fondaparinux, che ha dimostrato la capacità di ridurre significativamente gli eventi emorragici rispetto all’enoxaparina (3). Tuttavia, questo farmaco è controindicato sia nell’angioplastica in generale che in quella primaria nelle quali invece la bivalirudina, un inibitore diretto della trombina con caratteristiche peculiari rispetto all’eparina non frazionata (UFH), ha dimostrato risultati decisamente migliori rispetto alla UFH da sola o in associazione a un inibitore del recettore IIb/IIIa in termini di sopravvivenza, sia a breve che a lungo termine. Il denominatore comune che emerge in tutti gli studi è che rispetto a questa associazione la bivalirudina da sola, a parità di tassi di end point primario di efficacia raggiunti, determina una significativa riduzione dell’incidenza di emorragie totali che in parecchi database ha mostrato anche una significativa correlazione diretta con la mortalità per tutte le cause e quella cardiovascolare. Infine, un’ulteriore strategia che potrebbe rivelarsi utile nel trattamento dei pazienti più fragili con SCA-NSTE riguarda la scelta della via d’accesso per la rivascolarizzazione coronarica in fase acuta. Una grande quantità di dati da registri, studi randomizzati e meta-analisi indicano in modo univoco che l’uso sistematico della rivascolarizzazione per via transradiale anche in tali pazienti significativamente diminuisce le emorragie maggiori che si traduce in un altrettanto significativo vantaggio sulla mortalità, allo stesso modo con cui è stata spiegata la correlazione positiva tra riduzione delle emorragie e mortalità associata all’uso della bivalirudina (32-34). L’importanza prognostica della riduzione degli eventi emorragici an-che attraverso la via scelta per la rivascolarizzazione è stata ribadita anche in una recente analisi basata sui database di 3 studi randomizzati di confronto tra UFH+GPI e bivalirudina in pazienti con SCA dove è stato dimostrato che la mortalità ad 1 anno aumenta di 4 e 2 volte rispettivamente in caso di emorragia remota o a livello della sede d’accesso (34).

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Conclusioni

I nuovi e più potenti farmaci antitrombotici, parallelamente alla maggiore efficacia nel trattamento e nella prevenzione degli eventi ischemici, portano con sé anche una maggiore incidenza di complicanze emorra-giche. Considerato il documentato impatto prognostico negativo di quest’ultime, la selezione a priori dei pazienti a più alto rischio di sanguinamento consente di personalizzare la terapia antitrombotica per limitarne i danni. I pazienti anziani, che spesso cumulano altre condizioni quali l’insufficienza renale e/o l’anemia che concorrono ad aumentare il rischio emorragico, sono per antonomasia quelli più fragili per i quali è necessa-rio scegliere farmaci e strategie terapeutiche che li espongano a una minore probabilità di sanguinamento e di conseguenza a una migliore sopravvivenza. Sulla base delle attuali evidenze disponibili il contenimento di tale complicanza si ottiene al meglio farmacologicamente con il ticagrelor e la bivalirudina, mentre l’accesso radiale per la rivascolarizzazione coronarica percutanea riduce non solo il tasso di sanguinamenti locali ma migliora la sopravvivenza nei pazienti con STEMI. Studi futuri appositamente disegnati ci diranno se l’uso combinato delle due strategie potrebbe avere un effetto di sommazione sulla prognosi con la contempora-nea riduzione delle emorragie sistemiche e di quelle a livello della sede di accesso.

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