TEMA 1: La preghiera cristiana: “Voi, dunque, pregate così” · questo comando così dolce!...

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CATADULT 2001-2001 / 1 Il metodo che si utilizza cerca di evitare 2 rischi: Evitare uno stile tipo predica, espositivo che lascia l’adulto passivo e non incide sulle sue precomprensioni religiose Evitare la sola animazione che non fornisce contenuti e significati nuovi impedendo agli adulti di progredire nella loro fede Quindi si vuole tentare un equilibrio tra contenuto e metodo. Trasformare i contenuti in processi di apprendimento integrando il vissuto con la parola di Dio. MODO DI LAVORO DEGLI ’INCONTRI MOMENTO INIZIALE (10’) MESSAGGIO CENTRALE FINALITA’ DELL’INCONTRO PER ENTRARE IN ARGOMENTO (20’) DINAMICA APPROFONDIMENTO DEL TEMA (30’) TORNIAMO ALLA NOSTRA VITA (20’) INTERIORIZZAZIONE DEL TEMA TRATTATO ATTEGGIAMENTI DA FAR NOSTRI CONCLUSIONE +++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++ 1° INCONTRO PREGHIERA INIZIALE “DIALOGO MUTO” sulla parola”preghiera” APPROFONDIMENTO DEL TEMA TORNIAMO ALLA NOSTRA VITA Racconta una fiaba che, in una bella mattina di maggio, un ragno approdò sulla cima di un albero, scendendo da un filo che, lucido come seta, ondulava nell’aria... Passò l’estate e in un altro dolce mattino di settembre il ragno, che aveva ormai la più bella e redditizia tela di tutto il bosco, si svegliò di cattivo umore e... ispezionando la sua tela notò un filo strano che, apparentemente non si notava da nessuna parte, sembrava finisse nelle nuvole... e, con un colpo secco della mandibola lo tagliò. Tutta la tela cedette e si trasformò in un umido cencio che avviluppava il ragno. Troppo tardi il poverino si ricordò che, in un sereno giorno di maggio, era sceso giù dal quel filo e quanto gli era stato utile, proprio quel filo, per tessere e allargare la sua tela... - «Qual è ‘la morale della favola’?». . - «Abbiamo talvolta sperimentato la verità di questa immagine?» TEMA 1: La preghiera cristiana: “Voi, dunque, pregate così” “Signore insegnaci a pregare” (Lc 11,1) “Voi, dunque, pregate così !” (Mt 6,9)

Transcript of TEMA 1: La preghiera cristiana: “Voi, dunque, pregate così” · questo comando così dolce!...

CATADULT 2001-2001 / 1Il metodo che si utilizza cerca di evitare 2 rischi:

• Evitare uno stile tipo predica, espositivo che lascia l’adulto passivo e non incide sulle sue precomprensioni religiose

• Evitare la sola animazione che non fornisce contenuti e significati nuovi impedendo agli adulti di progredire nella loro fede

Quindi si vuole tentare un equilibrio tra contenuto e metodo.Trasformare i contenuti in processi di apprendimento integrando il vissuto con la parola di Dio.

MODO DI LAVORO DEGLI ’INCONTRI

MOMENTO INIZIALE (10’)• MESSAGGIO CENTRALE• FINALITA’ DELL’INCONTRO

PER ENTRARE IN ARGOMENTO (20’)• DINAMICA

APPROFONDIMENTO DEL TEMA (30’)TORNIAMO ALLA NOSTRA VITA (20’)

• INTERIORIZZAZIONE DEL TEMA TRATTATO• ATTEGGIAMENTI DA FAR NOSTRI

CONCLUSIONE

+++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++

1° INCONTRO• PREGHIERA INIZIALE•• “DIALOGO MUTO” sulla parola”preghiera”• APPROFONDIMENTO DEL TEMA• TORNIAMO ALLA NOSTRA VITA

Racconta una fiaba che, in una bella mattina di maggio, un ragno approdò sulla cima di un albero, scendendo da un filo che, lucido come seta, ondulava nell’aria... Passò l’estate e in un altro dolce mattino di settembre il ragno, che aveva ormai la più bella e redditizia tela di tutto il bosco, si svegliò di cattivo umore e... ispezionando la sua tela notò un filo strano che, apparentemente non si notava da nessuna parte, sembrava finisse nelle nuvole... e, con un colpo secco della mandibola lo tagliò. Tutta la tela cedette e si trasformò in un umido cencio che avviluppava il ragno. Troppo tardi il poverino si ricordò che, in un sereno giorno di maggio, era sceso giù dal quel filo e quanto gli era stato utile, proprio quel filo, per tessere e allargare la sua tela...

- «Qual è ‘la morale della favola’?». .- «Abbiamo talvolta sperimentato la verità di questa immagine?»

TEMA 1: La preghiera cristiana: “Voi, dunque, pregate così”

“Signore insegnaci a pregare” (Lc 11,1)“Voi, dunque, pregate così !” (Mt 6,9)

CATADULTI 2001-2002:TEMA 2 “PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI”

Messaggio centraleInsegnando a dire “Padre nostro che sei nei cieli”. Gesù rende partecipe ogni uomo della sua relazione filiale con il Padre.Finalità

• Scoprire che possiamo rivolgerci a Dio con la fiducia e la familiarità di figli• Scoprire che la presenza di Dio Padre ci dona di vivere da fratelli tra noi e con tutti gli

uominiiAtteggiamenti

• Aprirci alla fiducia e alla gratitudine scoprendo la presenza paterna di Dio nella nostra vita

• Imparare a riconoscere i segni della paternità di Dio nella creazione, nella storia e nella quotidianità

• Accogliere il “silenzio di Dio” come segno di una presenza che promuove la nostra libertà e responsabilità

PER ENTRARE IN ARGOMENTO

E Dio creò il padre

“Quando il buon Dio decise di creare il padre, cominciò con una struttura piuttosto alta e robusta. Allora un angelo che era li vicino gli chiese: “Ma che razza di padre è questo? Se i bambini li farai alti come un soldo di cacio, perché hai fatto il padre così grande? Non potrà giocare con le biglie senza mettersi in ginocchio, rimboccare le coperte al suo bambino senza chinarsi e nemmeno baciarlo senza quasi piegarsi in due!”. Dio sorrise e rispose: “E’ vero, ma se lo faccio piccolo come un bambino, i bambini non avranno nessuno su cui alzare lo sguardo”. Quando poi fece le mani del padre, Dio le modellò abbastanza grandi e muscolose. L’angelo scosse la testa e disse: “Ma... mani così grandi non possono aprire e chiudere spille da balia, abbottonare e sbottonare bottoncini e nemmeno legare treccine o togliere una scheggia da un dito”. Dio sorriso e disse: “Lo so, ma sono abbastanza grandi per contenere tutto quello che c’è nelle tasche di un bambino e abbastanza piccole per poter stringere nel palmo il suo visetto”. Dio stava creando i due più grossi piedi che si fossero mai visti, quando l’angelo sbottò: “Non è giusto. Credi davvero che queste due barcacce riuscirebbero a saltar fuori dal letto la mattina presto quando il bebè piange? 0 a passare fra un nugolo di bambini che giocano, senza schiacciarne per lo meno due?”. Dio sorrise e rispose: “Sta tranquillo, andranno benissimo. Vedrai serviranno a tenere in bilico un bambino che vuol giocare a cavalluccio o a scacciare i topi nella casa di campagna oppure a sfoggiare scarpe che non andrebbero bene a nessun altro”. Dio lavorò tutta la notte, dando al padre poche parole, ma una voce ferma e autorevole; occhi che vedevano tutto, eppure rimanevano calmi e tolleranti. Infine, dopo essere rimasto un po’ soprappensiero, aggiunse un ultimo tocco: le lacrime. Poi si volse all’angelo e domandò: “E adesso sei convinto che un padre possa amare quanto una madre?”».

(Emma Bombeck in C’è qualcuno lassù, LDC, Torino 1993, 38-39)

• Che immagine di “padre” emerge dal racconto ?• L’esperienza che noi facciamo di Dio Padre si rispecchia nei tratti della

paternità espressi in questo racconto ? • Quali altri emergono dal nostro vissuto ?

APPROFONDIMENTO DEL TEMA

PER TORNARE ALLA VITA Dio, quanto sei buono, Tu che ci permetti di chiamarti “Padre nostro” Chi sono io, perché il mio Creatore, il mio Re, il mio Padrone, supremo mi permetta di chiamarlo “Padre mio”? E non soltanto me lo permetta, ma me lo comandi? Mio Dio, quanto sei buono! Come devo ricordarmi, in tutti i momenti della mia vita, di

questo comando così dolce! Quale riconoscenza, quale gioia, quale amore, ma soprattutto quale fiducia deve ispirarmi. Poiché Tu sei mio Padre, o mio Dio, quando devo sperare sempre in Te! Ma anche, poiché Tu sei così buono verso di me, quanto deve essere buono verso gli altri! Poiché vuoi essere Padre mio e di tutti gli uomini, come devo avere per ogni uomo, qualunque egli sia, per quanto cattivo egli sia, i sentimenti di un tenero fratello! Perciò confusione, riconoscenza, fiducia e speranza inalterabile, amore filiale verso Dio e fraterno verso gli uomini. Padre nostro, Padre nostro, insegnami ad avere incessantemente questo nome sulle labbra insieme a Gesù, in Lui e grazie a Lui, poiché poterlo dire è la mia più grande felicità. Padre nostro, Padre nostro, possa io vivere e morire dicendo: “Padre nostro!’, e, con la mia riconoscenza, il mio amore, la mia obbedienza, essere davvero il tuo figlio fedele, un figlio che piaccia al tuo Cuore. Amen».

Charles de Foucauld

• Individuiamo nel testo le intuizioni che esprimono i contenuti scoperti nell’approfondimento

Tentiamo di condividere i momenti della nostra vita in cui abbiamo esperimentato la relazione con Dio Padre in questo modo

APPROFONDIMENTO DEL TEMA

Questa preghiera inizia con una parola, «Padre», che appartiene al patrimonio esperienziale di tutti.

Ciascuno di noi è figlio di qualcuno, ha fatto l’esperienza, più o meno riuscita, della paternità/maternità rivolta a sé.

Molti di noi diventano a loro volta papà e mamme. Dicendo «Padre» noi rievochiamo la nostra esperienza di paternità/maternità passiva e attiva e coloriamo la nostra invocazione a Dio di questo vissuto.

Ma la paternità di Dio, è riducibile alla nostra esperienza umana di figli o di padri e madri? Inoltre, questo Padre a cui ci rivolgiamo è Dio e la parola «Dio» risuona in noi come una rappresentazione dalle connotazioni non controllabili.

C’è così il rischio che dalla bocca esca la parola «Padre» e che la mente sia dominata dall’immagine «Dio», vaga, magica, minacciosa, estranea ...

Per superare i rischi dell’usura, di un’esperienza preziosa ma limitata, di una rappresentazione precristiana o non cristiana di Dio, non c’è che una via d’uscita: occorre leggere la parola «Padre» nell’esperienza di Gesù, lasciarci educare dal suo rapporto con il Padre

Fuori dall’esperienza di Gesù, la parola «Padre» rivolta a Dio resta un’immagine dai contorni sfocati e non sempre univoci. Solo nella rivelazione di Gesù noi comprendiamo cosa significa che Dio è Padre e che noi siamo suoi figli.

“PADRE”Quando invochiamo Dio come «Padre», cosa diciamo di fatto? Questa parola è ricca di significato e di umanità. Si conservano tracce di preghiere molto antiche, nelle quali l’uomo, quasi naturalmente, si rivolge a Dio proiettando in lui la propria esperienzaIl termine «padre» da cosa è connotato? Di cosa è portatrice questa immagine? In ambiente pagano la parola «padre» non è solamente un’immagine, ma è connotata anche fisicamente: gli dèi generano altri dèi, i re, i faraoni e le stirpi umane. Gli dei mettono al mondo gli uomini e ne sono anche i protettori. E’ questo il motivo per cui nel popolo di Israele si comincia a chiamare Dio «Padre» solo tardivamente e con qualche precauzione, per evitare la confusione con i miti dei popoli vicini. L’esperienza che comincia a far affiorare sulle labbra del popolo di Israele il nome di «Padre» è quella dell’Esodo: Israele, facendo memoria di questo evento liberatore, si riconosce come popolo nato e portato alla libertà da JHWH. Israele azzarda

il nome di «Padre» riferito a Dio soltanto all’interno di questa esperienza di liberazione. I profeti caricano questa immagine di accenti nuovi. In Osea e in Geremia il Dio che ha liberato Israele e ne ha seguito con cura la storia diventa il Dio materno e paterno che esprime tutta la sua tenerezza: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato: ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1.4).

L’esperienza di Gesù Quando diciamo «Padre nostro» ricuperiamo certamente il senso di creatura dell’uomo religioso di tutti i tempi e il senso storico e affettivo dato dai profeti, ma partecipiamo soprattutto dell’esperienza unica di Gesù come Figlio di Dio. I contemporanei di Gesù invocavano Dio come Padre quando erano nel bisogno e per chiedere la sua misericordia. Gesù, però, usa un termine del tutto particolare, talmente unico e per certi versi sconcertante che gli evangelisti sentono la necessità di riportarlo nel dialetto aramaico con cui Gesù lo pronunciava: Abbà.

Si tratta di una parola familiare, con la quale i bambini si rivolgevano al loro papà, al loro babbo. Dicevano i rabbini: «Quando un bambino inizia ad assaporare il frumento (cioè quando è svezzato), impara a dire abbà e immà (papà e mamma)». Gesù, chiamando Dio «babbo», esprime la coscienza del rapporto unico, fatto di reciprocità e di tenerezza, che lo lega con il Padre.

E’ significativo che tutte le preghiere di Gesù riportate dai Vangeli inizino con il termine Abbà. Un testo tra tutti ci fa entrare nella profondità di questo

rapporto unico tra Gesù e il suo Abbà: «Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare». Gesù spiega qui la reciprocità che c’è tra lui e il Padre, l’amore che li lega. C’è da notare che Gesù percepisce la presenza del Padre secondo una precisa dimensione “colui che mi dona tutto” («Tutto mi è stato donato»).

Ciò che caratterizza il rapporto non è primariamente l’autorità, né il mettere al mondo, ma il donare tutto, cioè il donarsi tutto al Figlio. Di conseguenza, proprio perché dona, conosce. Si tratta qui di quella conoscenza profonda che nasce dall’amore. A sua volta Gesù, poiché riceve tutto dal Padre e si riceve dal Padre, conosce il Padre. Attraverso questo gioco di parole è detta la profonda relazione paterna e filiale tra il Padre e Gesù, l’intimità unica che li unisce. Si intuisce l’esperienza che facevano i bambini nelle famiglie ebraiche. Il papà insegnava al bambino le cose più importanti, gli donava tutti i segreti della vita, contenuti nella Torah. Gesù sembra pensare il suo rapporto con il Padre in questi termini di intimità e profonda disponibilità a ricevere tutto.

Osiamo dire: «Abbà. Ciò che è sorprendente e commovente, è che tale relazione tra il Padre e Gesù non è chiusa, ma aperta. Dicendoci. «Quando pregate, dite: Padre, dite anche voi “Papà” a Dio», Gesù ci introduce in questa relazione unica e personalissima, ci fa partecipare della sua stessa esperienza. Come è possibile tutto questo?Paolo ci dice che, a liberare in noi questa invocazione di Dio come

«Papà», è la testimonianza dello Spirito inviato nei nostri cuori. «… voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”» (Rm 8,15).

Quando la presenza amorosa della mamma diventa così intensa da imprimersi nell’interiorità del bambino, attraverso gesti di attenzione e tenerezza, è allora che il bambino, improvvisamente, può gridare: «Mamma!». Analogamente, poiché l’amore di Dio rivelato nell’umanità di Gesù, è stato riversato nei nostri cuori, è nascosto nell’interiorità della nostra vita, noi possiamo gridare a Dio «Abbà!».

Ciò che in questo modo Gesù ci apre e ci rende disponibile non è solo un modo di pregare, ma di essere e di vivere. Siamo figli di Dio! Giovanni lo esclama con stupore: «Vedete che grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo tealmente!» (1 Gv 3, 1). Ci sono molti modi di sentirsi figli, nei confronti di Dio. • Si può considerarlo Padre solo perché ci ha dato la vita,

perché ci ha messo al mondo. • Si può percepire la sua autorità, e anche, come risvolto, la

sua protezione.• Gesù ci fa comprendere che ci è aperta la stessa relazione

che lui ha con il Padre: un rapporto non solo di creatura e di dipendenza, ma di amore e di reciprocità.

• Dio è Padre non tanto perché ci sta alle spalle, avendoci dato la vita e quindi avendo autorità su di noi, ma soprattutto perché ci sta davanti, ci precede perché possiamo compiutamente esprimere la nostra umanità.

Non solo dipendiamo da lui, perché nessuno di noi si è affacciato alla vita per decisione propria, ma siamo in relazione di figli con lui perché gratuitamente accolti, liberamente amati e posti in una situazione di libertà e responsabilità.

« ... nostro ...» Mentre Luca, nella sua versione del Padre nostro, si limita all’invocazione «Padre», Matteo, nella forma che noi abbiamo ripreso nella liturgia, ci insegna a dire «nostro». Questo semplice aggettivo sottolinea un aspetto essenziale che connota la nostra relazione con Dio: siamo figli e quindi fratelli.

Questo noi è la Chiesa, in cui siamo tutti membra gli uni degli altri. La preghiera del Padre nostro è una preghiera corale: è essenzialmente la preghiera della comunità. Riconoscendo Dio come Papà, noi riconosciamo anche il legame nuovo che si instaura tra i discepoli di Cristo e tra tutti gli uomini. La paternità di Dio genera fraternità e si manifesta nella comunità. C’è però un rischio legato all’aggettivo «nostro»: quello di intenderlo in senso possessivo ed esclusivo, connotando un gruppo che pretenderebbe di avere l’esclusiva di Dio, distinguendosi da quelli che sono fuori. In verità l’aggettivo «nostro» non ha valore possessivo e identificante (appartiene a noi e non agli altri), ma sottolinea la particolare relazione personale che è possibile instaurare con lui e che è di tutti. Grazie a Gesù e al dono del suo Spirito, questo Padre non solo ci unisce in fraternità, ma apre a tutti una relazione intima e libera per cui possiamo e dobbiamo dire che egli è nostro

. ... che sei nei cieli, Il Padre nostro - come faceva notare Simone Weil, filosofa ebrea - contiene un innegabile paradosso: in quanto Padre egli è vicinanza; con le parole «che sei nei cieli» egli appare nello stesso tempo sublimità inavvicinabile. Il cielo, nel linguaggio biblico, indica l’abitazione di Dio, mentre

la terra è l’abitazione degli uomini. Invocare Dio come «Padre che sei nei cieli» è riconoscere la sua trascendenza, la sua libertà e la sua alterità. L’aggiunta è un correttivo importante, per impedire ogni manipolazione o riduzione di Dio ai nostri bisogni. Essa non indica la lontananza di Dio, ma la garanzia che egli non sia confuso con nessuno dei padri terreni e non sia ridotto alla nostra esperienza umana di paternità. Egli è Padre secondo una qualità del tutto diversa, unica: è il Padre senza limiti, di tutti e per tutti. Egli, poi, non va mai invocato per essere ridotto ai nostri bisogni. A lui possiamo rivolgerci con fiducia e tenerezza, come dei bambini, ma non possiamo mai manipolarlo. E’ padre ed è nei cieli perché la relazione che stabilisce con noi è un rapporto di libertà. Né possiamo piegarlo a noi, né egli ci piega a lui. In questa prospettiva possiamo comprendere i suoi silenzi, le suo apparenti assenze. La sua presenza sotto la forma dell’assenza, come potrebbe essere definita la sua modalità di starei accanto, garantisce la nostra libertà, la promuove. Dio è Padre proprio perché non si sostituisce a noi, sottraendoci alla responsabilità di essere uomini, ma perché ci promuove precedendoci sempre. In questo modo possiamo anche capire come mai proprio il cielo è assunto come metafora di questo stile relazionale, che salvaguarda vicinanza, trascendenza e libertà: perché l’azzurro profondo è contemporaneamente fuori dalla nostra portata e presente ovunque, tutto avvolge, tutto penetra con la sua luce. Queste tre profonde realtà aprono dunque la preghiera cristiana: «Padre», «nostro», «che sei nei cieli». Solo pronunciandolo insieme, con la bocca e nel cuore della vita, possiamo comprendere allo stesso tempo la nostra realtà di figli, il dono della fraternità ecclesiale e universale, la libertà con cui possiamo affrontare la nostra esistenza umana.

Queste tre parole vanno poste non solo prima della preghiera complessiva, ma davanti a ogni invocazione. Ogni volta che noi ci troveremo di fronte al Padre di Gesù, non bisognerà mai dimenticarlo: è il nome del Padre, il suo Regno e la sua volontà che noi desidereremo che si compia; è a questo Padre che noi chiederemo il pane e il perdono; è a questo Padre che noi ci rivolgeremo per chiedergli di non permettere che soccombiamo nella tentazione e sotto la minaccia del male.

SIGNIFICATO PER LA NOSTRA VITA Invocare Dio come Padre è un modo nuovo di pregare, ma è più in profondità una nuova possibilità di vita, un modo nuovo di stare al mondo. Cosa significa, dunque, per la nostra vita quotidiana dire «Padre»? Molti significati sono già affiorati dall’analisi di questa invocazione. Proviamo a raccoglierne alcuni. • Iniziamo a pregare e viviamo affermando l’identità del Dio

di Gesù Cristo. Il nostro Dio non ha connotazioni vaghe o minacciose.

Tantomeno egli si disinteressa di noi. E’ Padre. Il cielo e la terra sono abitati da una presenza che non ha bisogno di essere dominata. Siamo chiamati, nella preghiera e nella vita, a lasciarci inondare da questo stupore. La nostra vita non è lasciata al caso o al destino: siamo nelle mani del Padre. Fiducia e gratitudine emergono dalla prima invocazione, per la scoperta che la sua presenza sostiene ogni esistenza. Non siamo mai orfani, smarriti, abbandonati alle forze e ai condizionamenti di questo mondo. Abbiamo una risorsa, un’origine fuori dallo spazio e dal tempo. L’angoscia che abita talvolta il nostro profondo può trasformarsi in fiducia• Pregare il Padre nostro è abituarci a riconoscre le tracce di

Dio Padre nella nostra vita quotidiana• Pregare il Padre nostro è è anche riconoscere che Egli è

nei cieli e he è diverso da noi “I miei pensieri…..” Ha altri pensieri non nel senso che si disinteressi di noi, ma nel senso

che sono più profondi e veri dei nostri. Quindi è rinunciare ad impossessarsi di lui , ma disporsi a lui.

• Pregare il Padre nostro è anche abituarci a vivere positivamente i suoi «silenzi» che toccano la vita di ciascuno, spesso in modo doloroso, qualche volta per un tempo prolungato. Questa sensazione dell’assenza di Dio, che va otre l’esperienza dei singoli e che diventa in certe situazioni esperienza storica di interi popoli, non è il disinteresse di Dio per l’uomo, ma una presenza silenziosa che purifica la nostra relazione con lui. Come un papà e una mamma sanno che la maturazione del proprio bambino richiede una forma di presenza che allo stesso tempo lo accompagni e non sostituisca a lui, sottraendogli tutte le difficoltà

• Alla base della fraternità ecclesiale ed universale sta l’esperienza della paternità di Dio. La fraternità ecclesiale è basata sul fatto di essere figli. Chi fa l’esperienza del Padre sa coniugare armoniosamente un’appartenenza precisa con l’apertura del cuore a tutto ciò che è umano, ad ogni altra cultura, fede e religione. Qualunque altro è figlio del Padre (“nostro”)

CATADULTI 2001-2002:TEMA 3 “SIA SANTIFICATO IL TUO NOME”

Messaggio centraleCon questa invocazione Gesù invita i suoi discepoli a chiedere che Dio manifesti in

pienezza la sua santità rendendo gli uomini partecipi del suo amore e a testimoniare il nome santo di Dio nella loro vitaFinalità

• Passare da una concezione di santità di Dio che lo allontana a una concezione di santità che lo rende presente nei segni della sua paternità

• Pregare riconoscendo Dio come padre sempre, anche quando la vita sembra essere ostile

PER ENTRARE IN ARGOMENTO

Il gruppo tenta di rispondere a queste domande:• Quando diciamo il Padre nostro, cosa intendiamo dire con l’invocazione:”Sia

santificato il tuo nome” ?• “Santo, santo, santo è il Signore Dio dell’universo, i cieli e la terra sono pieni

della tua gloria”. Quando lo proclamiamo nella Messa a cosa pensiamo• Le parole “santo” e “sacro” coincidono ?

APPROFONDIMENTO DEL TEMA

PER TORNARE ALLA VITA

Commentiamo questo testo ed esprimiamo gli aspetti che maggiormente ci hanno colpito tentando di rispondere a questa domanda: Cosa può significare per noi, nella nostra vita quotidiana “santificare” il nome di Dio ?

Spesso vedete dei fili elettrici, piccoli e grossi, nuovi e vecchi, dei cavi costosi e a buon mercato; da soli sono inutili e, finché non passa la corrente, non si ha la luce. Il filo siete voi, sono io. La corrente è Dio. Noi abbiamo la possibilità di permettere alla corrente di passare attraverso noi e di utilizzarci per produrre la luce nel mondo, oppure possiamo rifiutare di essere usati e consentire così alle tenebre di diffondersi. La mia preghiera è con ciascuno di voi e prego che ciascuno di voi voglia essere santo e così diffondere l’amore di Dio ovunque vada. Che la sua luce di verità sia nella vita di ogni persona, in modo che Dio possa continuare ad amare il mondo attraverso voi e me. Impegnatevi con tutto il cuore ad essere una luce spendente».

MADRE TERESA DI CALCUTTA

APPROFONDIMENTO DEL TEMA

Le prime tre richieste del Padre nostro hanno una struttura simile che permette di cogliere la realtà sulla quale si incentra la richiesta.Ciascuna invocazione inizia con un verbo:

sia santificato,venga,

sia fatta.Il fatto che ci sia un verbo all’inizio dell’invocazione sta a indicare che ciò su cui punta la richiesta del credente è un avvenimento.

E’ Dio che è chiamato a santificare il suo nome, che fa venire il suo regno, che deve far sì che la sua volontà accada.

La preghiera permette al credente di esprimere e di radicarsi in quella logica di vita che sta proclamando. In tal modo, come Dio manifesta la sua santità, l’avvento del suo regno e la sua volontà nell’operare nei confronti degli uomini e del mondo, andando al di là dell’amore verso se stesso, altrettanto avviene per il credente. E’ questa logica dell’agire di Dio che deve diventare lo stile e la misura di ogni azione e rapporto col prossimo. Le tre invocazioni del Padre nostro, nella loro singolare sequenza, esprimono una immediata novità.

Mentre la preghiera dei giudei si rivolgeva a Dio in terza persona: «sia santificato il suo nome ... », Gesù, con formule molto più sintetiche, si rivolge a Dio col tu: «sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà», permettendoci di cogliere immediatamente il rapporto interpersonale che egli vive col Padre.

Sono invocazioni che esprimono, con linguaggio biblico e semitico, la decisione di Dio di manifestarsi e di incontrare l’uomo sulle strade del mondo e della storia. Ciascuna delle tre invocazioni ha però anche un significato che va scandagliato in profondità.

L’ invocazione «Sia santificato il tuo nome» Nel modo comune di pensare, la santità è vista come vertice di un faticoso cammino di ascesi. In questi termini la santità resta sempre e solo un ideale mai pienamente raggiunto, che al massimo si riserva a qualche persona particolarmente impegnata od orientata a scelte di vita particolari.

In tale contesto, l’unico accesso possibile sarebbe l’imitazione come sforzo di uscire continuamente da se stessi.

Talora, inoltre, la santità sembra contrapporsi alla realtà quotidiana, come qualcosa di straordinario; e il santificare sembrerebbe stabilire l’idea di distanziare persone e cose alle quali vengono attribuite forze particolari.

Una concezione di «santità», quindi un che esprime un Dio che sarebbe l’opposto di noi, segnati dal limite e dal peccato.

Significativa di un radicale cambiamento di prospettiva è la preghiera del Padre nostro, la quale presenta una iniziale componente di lode sotto l’aspetto di richiesta, sia pure espressa in quel modo tipico che è la forma passiva: «Sia santificato il tuo nome».

Tale forma verbale esprime la tendenza tipicamente ebraica, di astenersi dal pronunciare il nome di Dio. Se nell’Antico Testamento la santità, come inaccessibilità, si esprimeva in un nome misterioso e non comprensibile, ora, con Gesù, Dio fa conoscere il suo nome, e introduce in questo modo l’uomo in una esperienza vitale della identità di Dio, cioè in ciò che gli è propriamente specifico, la paternità.

All’interno della nostra cultura il nome è il mezzo con cui indichiamo una persona e la distinguiamo dalle altre, e a tale funzione indicativa esso viene molto spesso ridotto. Nel linguaggio biblico, invece, esso rappresenta la realtà stessa dell’individuo, la sua essenza, la sua identità e talora anche la missione di una persona: tanto che quando nella Bibbia vediamo che viene cambiato il nome di qualcuno, perché cambia la missione di quella persona (a titolo esemplificativo) Gen 17,5: «Non ti chiamerai più Abram, ma Abraham»; 17,15: «Non la chiamerai più Sarai, ma Sara»; 32,28-30: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele»; Rt 1,20: «Non mi chiamate Noemi, ma Mara»-, Gv 1,42: «Simone, ti chiamerai Cefa»

Nella mentalità semitica conoscere il nome di qualcuno era conoscere, e in qualche modo anche possedere, la sua persona, sicché Dio non rivela mai il suo nome, perché non può mai essere totalmente compreso né posseduto dall’uomo.

Per questo quando Mosè domanda: «Chi devo dire agli israeliti che mi ha mandato?», Dio dice il suo nome indicando una presenza: «lo sono Colui che sono» (Es 3,13-14).

Si tratta dell’atteggiamento di Dio, della sua identità, mai del suo possesso. E’ un nome che definisce l’azione liberatrice di Dio (Es 6,6: «Di’ agli israeliti: lo sono il Signore! Vi sottrarrò ai gravami degli egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù ... »), che non va confuso con altri nomi (Os 2,18-19: « ... mi chiamerai: Marito mio, e non mi chiamerai più: Mio padrone. Le toglierò dalla bocca i nomi dei Baal, che non saranno più ricordati»),

Il nome di Dio è l’essenza stessa di Dio, il suo essere rivolto a

noi. La preghiera chiede che questo nome - che è Dio stesso nel suo rivolgersi a noi - sia santificato, che Dio stesso cioè manifesti la sua identità come santa. Così, pronunciare il nome di Dio non significa semplicemente utilizzare una parola che lo indica, ma addentrarsi nella sua santità, nel suo stesso essere Quando poi parliamo di santità di Dio, questa espressione, che ricorre diverse volte nei testi dell’Antico Testamento, viene a connotare simultaneamente due realtà: Dio è totalmente altro dall’uomo e, proprio perché tale, agisce anche in maniera radicalmente diversa.

a) Dio è quindi riconosciuto come Santo, in quanto trascende l’uomo, è radicalmente Altro, che non ha confronto e non è mai riconducibile a schemi e desideri umani (Is 55,8: «i miei pensieri non sono i vostri ... »).Dio è trascendente, supera infinitamente tutta la realtà umana e tutta la realtà del mondo. L’uomo deve essere cosciente di questa santità di Dio, che è l’ineffabile, l’indicibile, colui che non può essere mai totalmente afferrato e totalmente compreso dall’uomo, né circoscritto dalle sue immagini e dalle sue parole C’è sempre il pericolo che l’uomo riduca Dio a sua immagine, che si costruisca idoli che sostituiscono l’infinito di Dio: questo è profanare la santità di Dio. La storia è piena di questi tentativi di immaginare Dio fatto a propria immagine e quindi manipolabile, di sostituire Dio con qualcosa che noi adoriamo come realtà assoluta

b) Nel contempo Dio è Santo perché agisce anche in maniera radicalmente diversa dall’uomo, in quanto la sua fedeltà, la sua misericordia, il suo perdono, vanno al di là di ogni prospettiva o pensare umano

Così nell’Antico Testamento santificare il nome di Dio è innanzitutto riconoscere che Dio stesso «santifica il suo nome», manifestando pienamente il suo agire misericordioso e benevolo nell’ascolto del «grido» del suo popolo e nell’incontro con le sue sofferenze; tale agire divino diventa soccorso, liberazione dalla pressione di nemici, azione potente per la vita Di conseguenza, il suo agire diventa stimolo affinché l’uomo si apra a un cammino nuovo e si disponga a vivere e ad agire come il Padre agisce: «Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo» (Lv 19,2); e ancora. «lo sono il Santo che vi vuole far santi» (Lv 20,8).

L’uomo che proclama la santità di Dio manifesta così la consapevolezza dell’infinita distanza che lo separa dal suo Creatore, ma contemporaneamente annuncia anche la sua gioia nello scoprirsi ricercato con amore e gratuità da questo Dio, che gli chiede di aprirsi a sua volta agli altri con gli stessi atteggiamenti di misericordia, tenerezza e bontà da cui egli è già stato beneficato

Nello stesso tempo l’Antico Testamento sottolinea la responsabilità del popolo nel santificare il nome del suo Dio.,

Nasce di qui l’impegno di Israele a essere fedele all’alleanza con Dio attraverso la testimonianza della fedeltà, della bontà, della misericordia e della giustizia

Il popolo di Dio deve riflettere nella propria vita e nella struttura sociale quegli atteggiamenti che lo rivelano come il popolo peculiare di Dio, perché capace di lasciar trasparire nelle proprie leggi qualcosa della grandezza, misericordia, libertà e bontà di Dio. Quando il popolo viene meno ai suoi impegni di alleanza e non vive

più le esigenze di santità allora Dio lo rimprovera dicendo:«Hai profanato il mio nome».

Il popolo santifica il nome di Dio quando si rende trasparente al suo amore, attraverso un amore disinteressato senza alcuna discriminazione, manifestando in tal modo nel proprio vissuto il vero volto di Dio. Così l’invocazione «Sia santificato il tuo nome» esprime il desiderio più vero e urgente: che Dio sia riconosciuto come Dio e si renda manifesto. In Gesù la santificazione del nome di Dio traspare in tutta la sua forza, in lui Dio si mostra per quello che è: Signore. Nella sua esistenza l’amore di Dio, la verità stessa di Dio, traspare in tutto il suo splendore L’uomo deve essere cosciente di questa santità di Dio, di colui che non può essere mai totalmente afferrato e totalmente compreso dall’uomo, né circoscritto dalle sue immagini e dalle suo parole. Nello stesso tempo Gesù porta i discepoli a riconoscere che il senso, il compimento della vita, le possibilità nuove per l’umanità non nascono da loro, ma dalla grazia, dal dono e dall’iniziativa di Dio.

Realtà queste che noi dobbiamo invocare come dono e potenza di Dio. E mentre riconosciamo che tali desideri possono realizzarsi soltanto per un dono di Dio, Gesù stesso orienta anche a comprendere che tale dono non può restare senza risposta da parte dell’uomo.

SIGNIFICATO PER LA NOSTRA VITA

• La santificazione del nome è opera di Dio. La preghiera è un atteggiamento che fa spazio all’azione di Dio, una disponibilità: non è un riconoscimento generico di Dio, né tanto meno una lode fatta di culto e di parole, ma è il permettere a Dio di svelare, nella storia di salvezza e nella comunità, il suo volto. La preghiera è sostenuta dallo stupore e dall’adesione piena per il progetto di Dio che si rivela nella storia, e manifesta un rapporto di serena e libera comunione, come quella che ha un figlio con il proprio padre: una comunione e una fiducia che non possono essere incrinate neppure dalla prova. • Santificare il nome di Dio è assumere lo stile e la qualità

della vita di Gesù, delle sue scelte; riflettere la libertà e il coraggio delle sue parole.

E’ maturare una ricerca fedele e costante di ciò che Dio manifesta di se stesso nei volti delle persone e negli avvenimenti della storia quotidiana. E’ imparare a vivere con Gesù uno stile di vita in cui lasciar intravedere la sorgente dalla quale scaturiscono il suo amore tenace e la sua libertà cristallina, la sua speranza sconfinata e la sua comunione singolare con Dio. • Dobbiamo avere la coscienza di poter solo balbettare

qualcosa del mistero di Dio, non la pretesa di poterlo definire, di preventivare, di presupporre troppo facilmente qual è la sua santa volontà: anche questa potrebbe essere una forma mascherata di idolatria. «Santificare il nome del Padre» non è una generica esortazione, ma il richiamo a una scelta coraggiosa maturata in un contesto di fiducia e apertura a Dio.

• Invocando il Padre affinché santifichi il suo nome, gli

chiediamo che cambi i nostri cuori, rendendoci non solo capaci di riconoscerlo in noi e nella storia umana, ma anche capaci di essere trasparenti testimoni della santità del suo nome.

• Profaniamo il nome di Dio o quando nella nostra vita non lasciamo più trasparire

la sua santità, misericordia e pazienzao quando le strutture economiche e giuridiche e i

rapporti tra i popoli spingono a dubitare della bontà di Dio e fanno sembrare Dio assente ed estraneo

o quando nelle nostre scelte non lasciano trasparire le esigenze di Dio manifestate negli atteggiamenti di Gesù.

CATADULTI 2001-2002:TEMA 4 “VENGA IL TUO REGNO”

PER ENTRARE IN ARGOMENTO

«C’era una volta, tanti secoli fa, una città famosa. Sorgeva in una prospera vallata e, siccome i suoi abitanti erano decisi e laboriosi, in poco tempo crebbe enormemente. Era insomma una città felice nella quale tutti vivevano in pace. Ma un brutto giorno, i suoi abitanti decisero di eleggere un re. Suonato le trombe, gli araldi h riunirono tutti davanti al Municipio. Non mancava nessuno. Lo squillo di una tromba impose il silenzio su tutta l’assemblea. Si fece avanti allora un tipo basso e grasso, vestito superbamente. Era l’uomo più ricco della città. Alzò la mano carica di anelli scintillanti e proclamò: “Cittadini! Noi siamo già immensamente ricchi. Non ci manca il denaro. Il nostro re deve essere un uomo nobile, un conte, un marchese, un principe, perché tutti lo rispettino per il suo alto lignaggio”. ‘No! Vattene! Fatelo tacere! Buuu!”. I meno ricchi della città cominciarono una gazzarra indescrivibile. ‘Vogliamo come re un uomo ricco e generoso che ponga rimedio ai nostri problemi!”. Nello stesso tempo, i soldati issarono sulle loro spalle un gigante muscoloso e gridarono: “Questo sarà il nostro re! Il più forte!”. Nella confusione generale, nessuno capiva più niente. Da tutte le parti scoppiavano grida, minacce, applausi, armi che s’incrociavano. Suonò di nuovo la tromba. Un anziano, sereno e prudente, sali sul gradino più alto e disse: “Amici, non commettiamo la pazzia di batterci per un re che non esiste ancora. Chiamiamo un innocente e sia lui ad eleggere un re tra di noi. Presero un bambino e lo condussero davanti a tutti. L’anziano gli chiese: “Chi vuoi che sia il re di questa città così grande?”. Il bambinetto li guardò tutti, si succhiò il pollice e poi rispose: “I re sono brutti. lo non voglio un re. Voglio che sia una regina: la mia mamma”».

Il gruppo tenta di rispondere a queste domande:• Che idea di re e di regalità ci trasmette il bambino del racconto ?• Questo bambino in che cosa ci aiuta a interpretare correttamente il senso della

regalità di Dio nella nostra vita ?•

APPROFONDIMENTO DEL TEMA

PER TORNARE ALLA VITA

L’obiezione più forte che si possa muovere al cristianesimo è quella che, a partire dal secondo secolo, i giudei hanno rivolto ai cristiani: come potete dire che è venuto il messia e che si è manifestato il regno di Dio se, in realtà, nel mondo nulla è cambiato? Avevano detto i profeti: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello.... il bambino metterà la mano nel covo dei serpenti velenosi, non ci saranno più azioni inique né saccheggi” (Is 11,6-9). “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo” (Is 2,4). “Vi darò un cuore nuovo... La terra diventerà come il giardino dell’Eden” (Ez 36,26.35). E noi cosa vediamo invece? Gli uomini continuano ad odiarsi e a fare guerre, i poveri sono ancora oppressi, esistono ovunque malattie, disgrazie, lutti e pianti. Non è accaduto ancora nulla di quanto i profeti avevano detto. L’obiezione è molto seria.

• Quali sono, al di là di tutte le apparenze, i segni della presenza e dell’azione di Dio (del suo regno) dentro la nostra realtà quotidiana, di cui i testi dei profeti erano una promessa?

APPROFONDIMENTO DEL TEMA• L’espressione “regno”evoca alla nostra sensibilità situazioni d’altri

tempi e condizioni sotto il segno del dominio. • Eppure la sua collocazione tra le prime domande del Padre nostro

ci fa capire l’importanza notevole della richiesta riguardante il regno.

• Che cosa chiede il cristiano a Dio pregando «Venga il tuo regno»?

• Vale la pena esaminare anche questa invocazione, per intenderla correttamente e poterla pregare con più consapevolezza

LA FORMULAZIONE DELLA RICHIESTA• Anche questa seconda invocazione del Padre nostro è simile nella

struttura alla precedente.• Inizia infatti con un verbo («venga»), portando quindi la richiesta

su un avvenimento.• La domanda è rivolta a Dio, il Padre, perché ciò di cui si chiede

la venuta dipende esclusivamente da lui. Chiede cioè che faccia venire il suo regno, che faccia accadere il regno che è di Dio, il regnare di Dio, la sua signoria.

• Il credente che si pone in preghiera chiede pertanto che accada qualcosa di singolare e unico: l’evento decisivo che cambierà il volto dell’umanità e di tutta la realtà.

• Chiede che questo evento trasformatore ultimo, che creerà cieli nuovi e terra nuova e costruirà una nuova umanità, sia Dio stesso a realizzarlo.

• La preghiera insegnata da Gesù diventa così in primo luogo una sollecitazione a guardare in avanti fino al momento finale della storia.

• Il credente in preghiera non si accontenta di speranze di piccolo cabotaggio, ma è chiamato a estendere lo sguardo alla grande speranza, ad allargare l’orizzonte del suo cuore a ciò che sarà decisivo per la trasformazione di tutta l’umanità e di tutta la realtà.

• In secondo luogo la preghiera cristiana rivela che questa grande speranza, che alimenta il cuore del credente come ha alimentato il cuore di Gesù, non può essere semplicemente lasciata alle deboli e limitate forze dell’uomo, ma può fiduciosamente fare affidamento sulla potenza stessa di Dio.

• Si tratta di una realtà che richiederà certamente impegno e collaborazione, ma che chiama in causa soprattutto la potenza di Dio, a cui il credente si affida.

SIGNIFICATO DELL’ INVOCAZIONE

• Occorre precisare, per quanto possibile, il contenuto di questa invocazione (il regno di Dio), per poter comprendere il senso della domanda (che esso avvenga)

Il «regno di Dio» • Non si può intendere adeguatamente la portata della richiesta, se

non si collega il tema del regno di Dio alla vita e alla predicazione di Gesù.

• Secondo Marco, la proclamazione del regno di Dio introduce e sintetizza la missione pubblica di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1, 1 5).

• Tutto il suo annuncio e tutta la sua opera ruotano attorno alla causa di Dio che viene a regnare

• Gesù non ha mai spiegato il significato di questa espressione: sarebbe stato probabilmente superfluo per la gente del suo tempo.

• In effetti l’idea di regno di Dio affonda le suo radici nella tradizione dell’Antico Testamento, nel quale si incontrano frequentemente espressioni come: «JHWH regna», «il regno di Dio», «il Signore è il re».

• La comprensione di Dio come sovrano regale sorge espressamente nell’epoca in cui il popolo nomade si stabilisce nella terra promessa.

• Qui esso rappresenta simbolicamente il suo Dio come re: JHWH regna sull’intero universo, su tutte le nazioni, ma in modo particolare su Israele, popolo che si è scelto come dominio particolare, come suo regno («Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa»: Es 19,6).

• Questa appartenenza del popolo al suo Dio non è automatica, ma esige la corrispondente osservanza dell’alleanza ricevuta in dono. «Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli» (Es 19,5-6).

• Questo senso molto forte della sovranità di Dio sul popolo spiega l’iniziale opposizione all’instaurazione della monarchia in Israele

• Ai tempi di Gesù l’attesa del regno si era concretizzata anche come politica, cioè il Messia avrebbe restaurato il regno di Davide.

GESU’ DI NAZARET VIVE PER LA CAUSA DEL REGNO DI DIO

La storia di Gesù è tutta polarizzata attorno ad un punto focale . Esso viene espresso con una formulazione propria del tempo e dell’ambiente con queste parole . IL REGNO DI DIO. Fino a qualche tempo fa questo punto non era

particolarmente preso in considerazione. Gesù infatti inaugura la sua attività in ordine alla sua missione non parlando di se stesso o di Dio, ma proclamando come BUONA NOTIZIA l’imminenza del Regno di Dio “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è alle porte. Convertitevi e credete alla buona notizia”

Dalla forma di esprimersi di Gesù si coglie che questo proclama ha tutte le caratteristiche di ciò che oggi chiamiamo UNA CAUSA, cioè di uno scopo che attira a se tutta la vita di un uomo, di ciò per cui vale la pena spendere tutte le proprie energie.

Non sappiamo con precisione quando in Gesù esplose tale polarizzazione . Indubbiamente l’humus della fede del suo popolo è stato un fattore decisivo. Una cosa è certa.: ERA UN UOMO APPASSIONATO PER UNA CAUSA. Alcune sue parabole permettono di intravederlo.(tesoro nascosto). Indubbiamente prima ancora di tratteggiare la figura di coloro che accolgono con entusiasmo la sua proposta , descrive LUI STESSO

Tutto il Vangelo ci mostra un uomo che ha consegnato tutto al servizio di questa causa.

Però c’è un altro dato importante : questo Gesù di Nazaret non è un solitario, ma RIUNI’ DELLA GENTE ATTORNO A SE. La sua convocazione è UN INVITO A PARTECIPARE ALLA SUA CAUSA, a condividerla Gesù chiama questa gente da svariate situazioni personali, proponendo loro l’unica cosa che sta a cuore a Lui stesso. Marco racconta .”Salì sul monte, chiamò a se quelli che egli volle ed essi andarono da Lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc.3.13-.15) Si possono rilevare come due movimenti . uno CENTRIPETO, che porta i convocati verso Gesù, e uno CENTRIFUGO, che li spinge verso la causa . Certamente è il movimento centrifugo il più importante , dal momento che costituisce la preoccupazione principale di Gesù. Egli non vuole uomini e donne intorno a se per se o per portali a Dio, ma per la causa del RegnoLa polarizzazione è tanto forte che ogni altra cosa deve passare in secondo piano : “lascia che i morti seppelliscano i loro morti, tu va e annuncia il Regno di Dio.

3- IL REGNO DI DIO E’ IN CIO’ CHE GESU’ FA E DICE

Cosa significa questa formula “Regno di Dio” ?Non è facile rispondere a questa domanda. Qualcuno fa del Regno una realtà puramente spirituale e interiore e chi invece lo pensa teocraticamente , allo stile della cristianità medioevale.

Certamente non è comprensibile partendo da un concetto di regno umano e proiettandolo sull’ambiente del divino, come se la nostra esperienza umana ci potesse far capire ciò che è questo regno di Dio. Non è nemmeno possibile prendere in considerazione l’esperienza dell’AT dove si chiamava Jahwè Re Alla fine per capire bisogna vedere ciò che lui fece e disse.

Colpisce l’intensa attività di Gesù, fu travolgente e instancabile: * svolge una notevole attività di esorcista, cioè di scacciatore di demoni, con la quale libera da quelle forze occulte che non permettono di essere se stessi e di mantenere dei giusti rapporti con gli altri.

* realizza guarigioni corporali mediante le quali restituisce ai malati la integrità del corpo e la possibilità di reinserirsi nella società

* perdona i peccati liberando dal peso di un fallito rapporto con Dio

* va alla ricerca di una comunione anche conviviale con più piccoli, emarginati e addirittura disprezzati dalla società del suo tempo (publicani, prostitute, donne e bambini)

Queste azioni non hanno lo scopo di dimostrare la sua divinità , ma sono SIMBOLI ANTICIPATORI DEL REGNO. Si può allora dire che dove, grazie all’azione di Gesù, qualcuno viene liberato dagli spiriti, dal peccato e dalle malattie, lì IL DIO DI GESU’ COMINCIA A REGNARE. E che questo Dio regnerà pienamente quando dal mondo saranno scacciate tutte quelle cose negative , allora il mondo sarà veramente il suo Regno. Oltre a fare Gesù PARLA e tutte le sue parole sono indirizzate a illuminare l’unica sua grande Parola, la parola del Regno, espressa programmaticamente all’inizio della sua missione

IL REGNO DI DIO COME PIENEZZA DI VITA DEGLI UOMINI

Dalle parole e azioni di Gesù emerge che per lui il regno di Dio equivale alla pienezza di vita degli uomini. E’ questa pienezza di vita che costituisce la sua passione e la ragion d’essere della sua esistenza:”Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Si può allora affermare che il Regno di Dio, per Lui, equivale alla pienezza di VITA specialmente dei più “moribondi”, cioè di quelli che sia la natura sia soprattutto gli stessi uomini nella loro cattiveria , lasciano mezzi morti in mille forme lungo le strade.

Proclamando il Regno di Dio Gesù non lo circoscrive ai soli aspetti cosiddetti spirituali, ma lo apre anche agli aspetti materiali e non lo limita solo agli aspetti individuali , ma lo estende ai rapporti interpersonali e sociali. Benché parli di una realizzazione futura con le sue parole e azioni lo ANTICIPA GIA’ PARZIALMENTE AL PRESENTE.

Nella formula Regno di Dio si incontrano e si saldano armonicamente Dio e l’uomo. Gesù propone LA CAUSA DELLA VITA PIENA DEGLI UOMINI COME CAUSA DI DIO STESSO.

E’ emblematico quello che ci dice Luca di Gesù nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,16-19). Con questo si dimostra che Gesù , REALIZZANDO IL SUO SERVIZIO APPASSIONATO ALLA PIENEZZA DI VITA DEGLI UOMINI, REALIZZA ANCHE IL SUO SERVIZIO A DIO. Perché Dio non è interessato a regnare per dominare, ma per vivificare, non ha il centro delle sue preoccupazioni in Sè stesso , ma nell’uomo. E’ un Dio antropocentrico

LA CONVERSIONE COME UNICA STRADA PER IL REGNO DI DIO

La formula con la quale Gesù inizia la sua attività :”Il Regno di Dio è alle porte : CONVERTITEVI E CREDETE ALLA BUONA NOTIZIA” potremmo chiamarlo il metodo da percorrere per arrivare alla pienezza di VITA proposta cioè fare possibile la irruzione del Regno di Dio.

“CONVERSIONE”, MOLTO MEGLIO CHE PENITENZA che a volte è intesa nel senso puramente negativo di mortificazione ed addirittura di macerazione, deve venir riempita di contenuto alla luce di quanto Gesù stesso fece e disse.

La conversione suppone : UNA REALISTICA PERCEZIONE DELLA CONDIZIONE CONCRETA IN CUI SI SVOLGE L’ESISTENZA UMANA.

FORZE E IMPULSI DI MORTE annidano nel cuore dell’uomo, soprattutto l’egoismo che lo spinge a erigere sè stesso come centro assoluto della realtà prescindendo dagli altri o addirittura sfruttandoli a proprio vantaggio.

Tali forze si proiettano sui diversi aspetti dell’esistenza, non escluso quello strutturale e provocano Morte.

Creano cioè tutte quelle forme di esistenza come la violenza, i soprusi, lo sfruttamento, la emarginazione, la fame, le guerre, ecc.

La conversione per l’avvento del Regno comporta un RIBALTAMENTO RADICALE di questa situazione. Affichè Dio possa regnare, TUTTO CIO’ CHE NEL MONDO SI OPPONE ALLA REALIZZAZIONE DELLA CAUSA DELLA VITA DEGLI UOMINI DEVE VENIR CAMBIATO.Si tratta di un cambio di mentalità , si tratta di entrare nella logica di Dio. I rapporti che producono la morte hanno anche dimensioni sociali e riguardano le strutture che si riproducono e continuano a creare morte.

Conversione allora significa ELIMINAZIONE DELLE FORZE DI MORTE che annidano nel cuore dell’uomo e SOSTITUIRLE CON FORZE DI VITA e con forme di presenza della Vita, cioè di rapporti e di strutture che generano VITA.. E’ questa la condizione perché venga il Regno di Dio., di un Dio che è “Dio dei viventi, non dei morti”.

Vedendo le cose così ci si rende conto che che la conversione non è prima di tutto un’esigenza di tipo moralistico o ascetico, orientata cioè alla ricerca della propria perfezione personale, ma è tutta orientata a

far realtà la grande causa del Regno di Dio, la quale supera di gran lunga la ricerca della propria realizzazione personale, benché non la escluda.

Nemmeno è prevalentemente una conversione “da”, quanto piuttosto una conversione “per”.

Cioè , non mette tanto l’accento su ciò che si deve lasciare, quanto su ciò cui si è invitati ad andare. Essa scaturisce dalla gioia di aver “scoperto il tesoro del campo” (Mt 13,44)

Se la si vede in questo senso pieno, la conversione non è altro che IL PASSAGGIO DALL’EGOISMO singolo e di gruppo , ALL’AMORE.

Un amore però inteso in senso evangelico. Non quindi come puro sentimento o come semplice comunione interpersonale, ma piuttosto - senza escludere ciò che c’è di positivo negli aspetti precedenti - come azione vivificante in mezzo al mondo.

Il suo invito è una opportunità offerta al libero impegno nella realizzazione della causa della VITA

Come Gesù intendeva il Regno• Lontano dall’idea di un messianismo politico, condiviso da alcuni

discepoli (Mt 20,21), ma ritenuto da Gesù una tentazione (Mt 4,8-9), egli indicava la vicinanza del regno di Dio nelle opere che lui compiva, nella vita liberata dalla malattia, da ogni forma di male e di oppressione (Le 7,18-23; Mt 11,2-6).

• Indicava i segni del regno di Dio nell’accoglienza e nella riconciliazione che concedeva ai peccatori in nome di Dio e quindi in una nuova fraternità che stava per nascere (Le 15,1-2-, Me 2,15).

• Mostrava nei suoi gesti e nelle sue parole il progressivo allargarsi dei confini di questo regno, fino ad abbattere tutte le barriere tra gli uomini (Mt 8,5-13; 15,21-28).

• Narrava della vicinanza di questo regno di Dio nelle suo parabole, in cui rivelava un volto di Dio nuovo, inatteso.

• In queste ultime la vicenda del regno di Dio è paragonata a quella del seme, che dà frutto nonostante le difficoltà (Me 4,3-9), che cresce da solo (Me 4,26-29) e raggiunge una grandezza insospettata

(Me 4,30-32), motivando la fìducia del contadino e lasciando solo a Dio il giudizio sull’appartenenza a esso (Mt 13,24-30.36-43).

• Il venire del regno ha i tratti della misericordia e della gioia per il ritrovamento di ciò che era perduto (Le 15,4-32), e assume il carattere di appello, di chiamata urgente e festosa (Le 14,16-24; Mt 13,44-46; 20,1-16), senza cancellare la dimensione di responsabilità e di giudizio, che esigono vigilanza (Le 12,39-40; Mt 25,1-30).

• Come nell’Antico Testamento, anche nel linguaggio di Gesù l’espressione «regno di Dio» evoca due aspetti: il dominio regale di Dio e il regno da lui instaurato.

• Il primo aspetto riguarda la sovranità di Dio. Egli viene a regnare, instaura cioè il suo progetto di vita e di salvezza per l’umanità e lo fa inizialmente nella parola, nei gesti, nella vita di Gesù e poi nella sua morte e risurrezione.

• Il fatto che Dio venga a regnare significa che egli ha deciso di impegnarsi personalmente e definitivamente in favore dell’uomo per instaurare la vita, la salvezza, la libertà.

• Questa sovranità regale di Dio non può venir realizzata dalle forze dell’uomo e nemmeno si completa totalmente in questo mondo

• Il secondo aspetto implica la trasformazione dell’umanità.• In Gesù la vita è liberata dalla sofferenza, dall’oppressione, gli

uomini sono hanno accesso ad un nuovo rapporto con Dio• Quando Dio regna il mondo è rinnovato• In questo modo il regno di Dio si differenzia fortemente da quel

farsi presente del Dio giudice, evocato con vigore nella predicazione del Battista, che esige conversione e purifìcazione in vista del giudizio imminente dell’ira divina

• Il regno è invece un dono paterno della bontà di Dio, che offre in anticipo il perdono, rigenerando l’umanità sofferente (Le 6,20-21; 10,23-24; Me 10,14; 2,17)

Il desiderio che il regno «venga» • Invocando «Venga il tuo regno>>, il credente chiede a Dio che egli

instauri definitivamente e in pienezza questo suo disegno di vita e di salvezza per l’uomo e, perciò, che prenda l’iniziativa rendendosi presente in tutti gli uomini.

• La domanda si rivolge al Padre perché egli sia vicino totalmente, pienamente, definitivamente all’umanità e, facendosi vicino, doni a ogni uomo la possibilità di cambiare il cuore, di mostrare un’umanità

nuova, trasfigurata, un cielo e una terra nuovi.• E’ una richiesta a Dio affinché egli instauri pienamente questa

condizione nuova.

CATADULTI 2001-2002:TEMA 5 “SIA FATTA LA TUA VOLONTA’ COME IN CIELO COSI’ IN

TERRA”ovvero

LA DISPONIBILITA’ ALLA VOLONTA’ DI DIO

PER ENTRARE IN ARGOMENTOAnalisi di tre casi CASO N° 1Sandra ha 22 anni e lavora come segretaria in una piccola azienda. Per il momento non ha il ragazzo, ma non lo sente come un problema. Su invito del parroco, ha frequentato una serie di incontri per i giovani, il cui tema è la vocazione. Particolarmente colpita da una meditazione sulla verginità per il Regno, ne parla con un sacerdote, che da qualche tempo ha scelto come guida spirituale. Questi la invita a pregare per chiedere la luce dello Spirito Santo: «Vedi, il Signore ha su ognuno di noi un disegno eterno. Soltanto se noi, mettendoci in ascolto, sappiamo scoprilo e seguirlo con fedeltà saremo felici. La strada che lui ha pensato per te, è quella in cui tu puoi trovare la tua massima realizzazione. Se è quella della vita religiosa, non esitare a seguirla. Pregalo sovente, perché ti sveli la sua volontà, e ripeti ogni giorno con fede l’invocazione del Padre nostro: “Sia fatta la tua volontà”, e quella di Maria: “Si compia in me la tua volontà”». Dopo l’incontro con questo prete, Sandra si confida con un’amica. «Sai, le parole di quel prete, da una parte mi hanno rasserenata, dall’altra mi hanno lasciata perplessa. CASO N° 2«Mi chiamo Giorgio, ho 36 anni, un figlio di dieci anni e una moglie che amo. Le scrivo dal letto di questo ospedale specializzato, in Svizzera, dove sono stato portato per l’ultimo inutile tentativo: quello di ricuperare i movimenti del corpo. In una banale uscita con la mia moto, una domenica pomeriggio, sono stato investito da una macchina che ha invaso la mia corsia. Andavo piano, cercavo di godermi l’aria fresca di aprile. Sono stato sbalzato dalla moto e ho battuto contro un albero sul bordo della strada. Risultato: frattura di due vertebre. E’ cominciato il mio calvario, fisico e morale. Ora sono qui da tredici mesi a chiedermi il perché. Il padre che passa tra i letti dell’ospedale, alle mie domande ha risposto “Dio prova quelli che ama”. E mi ha invitato a ripetere: “Sia fatta la tua volontà”. Questa frase non ha fatto che aumentare la mia rabbia,, anzi la mia ribellione e la mia disperazione. Perché proprio me? Perché Dio se è vero che è buono, mi ha buttato addosso questo castigo che non meritavo ?Mi pare di essere un buon marito e un buon padre per mio figlio. D’accordo, ho le mie debolezze, ma ho sempre cercato di essere un uomo onesto. E’ questa la volontà di Dio? Non so perché le scrivo, tutto è così confuso. Forse solo per dire a qualcuno la mia amarezza».

Il gruppo legge i casi e risponde a queste domande:• Che idea di volontà di Dio lasciano emergere i protagonisti del caso ?• Cosa intendiamo noi con l’espressione “fare la volontà di Dio” ?•

APPROFONDIMENTO DEL TEMA

APPROFONDIMENTO DEL TEMA

Gli equivoci sulla volontà di Dio • L’espressione «volontà di Dio» fa parte del patrimonio cristiano più

genuino, ed è stata e continua a essere al centro dell’esperienza spirituale di molti uomini e donne che in essa trovano ispirazione per una vita da figli di Dio.

• Nello stesso tempo è anche espressione carica di equivoci e, per certi aspetti, rimessa in discussione dalla cultura attuale.

• Diventa quindi importante prendere atto delle scorie che rischiano di inquinare questa invocazione del Padre nostro, e attingere dall’esperienza stessa di Gesù il suo significato più corretto.

• Quando, secondo una mentalità diffusa, si chiama in campo la volontà di Dio, si fa sovente riferimento a tre rappresentazioni.

- Si chiama in causa la volontà di Dio di fronte ad avvenimenti sfavorevoli, difficili o tragici, come invito alla pazienza e alla rassegnazione. C’è, in tale concezione, qualcosa che la avvicina a un disegno misterioso che sfugge e di fronte al quale non resta che rassegnarsi e sottomettersi. La radice di tale concetto è il senso di impotenza di fronte agli avvenimenti che ci superano. Dietro tale visione fatalistica si profila l’immagine di un Dio che agisce arbitrariamente e che tiene nascosto all’uomo il suo volere. Questa rappresentazione di volontà di Dio crea numerose difficoltà. Ci si chiede spontaneamente, ad esempio, come sia possibile che la volontà di Dio si accordi con le guerre, con le calamità naturali (ad esempio un terremoto), con la morte improvvisa di un bambino... - Un altro contesto in cui si fa riferimento alla volontà di Dio è quello relativo a un piano già fissato e stabilito una volta per tutte da lui. All’uomo non resterebbe altro compito che scoprirlo e seguirlo fedelmente. L’espressione popolare «Non si muove foglia che Dio non voglia», lascia intendere questa visione di «volontà di Dio». Dietro di essa si profila l’immagine di un Dio che decide le cose unilateralmente, domandando all’uomo assoluta obbedienza, sanzionando con castighi le eventuali disobbedienze. L’insostenibilità di una tale rappresentazione è evidente: che spazio c’è per la nostra libertà se la fede è questa? La vita non può essere vissuta con gusto, se il nostro compito si riduce all’esercizio difficile di sapere cosa egli ha deciso, con la costante angoscia di non avere mai la garanzia di averlo interpretato correttamente.

- Una terza concezione, molto diffusa, vede nella volontà di Dio l’insieme delle norme e dei comandamenti indicati da Dio. Seguire la sua volontà significa allora osservare le sue leggi, fare la propria volontà equivale a trasgredire i comandamenti. Senza escludere che la volontà di Dio si riferisca alle esigenze radicali della vita cristiana, ridurne il significato a un’interpretazione moralistica rende difficile essere cristiani. Molte persone, in particolare giovani, lasciano la fede e la Chiesa perché identificano l’essere cristiano con una serie di limitazioni al proprio bisogno di vita e quindi preferiscono vivere a modo loro, piuttosto che sottomettersi a delle norme di cui non capiscono il significato. Se per essere cristiani bisogna rinunciare a essere uomini, e uomini del proprio

tempo, meglio liberarsi di questa questione.

Che cos’è la volontà di Dio? L’espressione è di sapore giudaico e quindi per noi di non immediata comprensione, come le due precedenti. Per comprenderla, prima di tutto non bisogna dimenticare che essa è retta dall’appellativo «Padre»: Padre, sia fatta la tua volontàQuesto fatto connota subito in maniera differente il senso di «volontà». Ben diverso sarebbe se Gesù ci avesse insegnato a dire: «Dio onnipotente, sia fatta la tua volontà». Ora, molti credenti recitano meccanicamente la prima espressione, ma sono abitati profondamente dalla seconda.

«Sia fatta la tua volontà» Secondo la tradizione biblica, la volontà di Dio non si riduce ai comandamenti, perché se così fosse sarebbe un impegno che dobbiamo portare avanti noi e questa domanda sarebbe semplicemente una richiesta di aiuto perché riusciamo noi a fare la sua volontà. Come le precedenti, questa domanda ha due risvolti, uno che riguarda Dio e il suo agire, l’altro che riguarda noi e la nostra capacità di metterci in sintonia

a) La domanda è prima di tutto teologica: indica ciò che Dio stesso ha deciso di fare a favore dell’uomo, il suo disegno, la sua decisione di salvezza a favore di tutti. Il verbo stesso, («sia fatta») indica che l’azione di compiere la volontà è di Dio: Padre, compi la tua volontà. Una serie di testi biblici conferma questo primo significato: «Questa è la volontà di Colui che mi ha mandato, Che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato» (Mt 6,39); «Il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno di questi piccoli» (Mt 18,14); «Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini si salvino e che arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4).

In questo senso la volontà di Dio è il suo disegno di rinnovare la realtà del mondo deturpato dal male e dalle decisioni sbagliate dell’uomo. Comprendiamo allora che la «volontà» di Dio non è un disegno misterioso, qualcosa di cui l’uomo non sa nulla e rispetto al quale non resta che rassegnarsi. La volontà e il disegno di Dio si sono già manifestati nell’umanità di

Gesù Cristo e ne abbiamo potuto vedere i segni: le guarigioni dei malati, il perdono dei peccatori, il ricupero della vista ai ciechi, la restituzione alla vedova di Nain del figlio morto... E’ questo ciò che Dio vuole: egli vuole per noi ciò che ha cominciato a manifestare, anche se in maniera germinale, nell’umanità del suo Figlio Gesù. Pregare con questa invocazione è quindi chiedere al Padre che mandi a segno il suo disegno di salvezza, è esprimere il desiderio che porti lui a compimento quello che ha iniziato nell’umanità del suo Figlio.

b) D’altra parte, il disegno salvifico di Dio può andare a compimento solo se la libertà umana si rende disponibile a lasciare accadere in sé questa volontà di Dio. Chiedere al Padre che attui il suo volere di salvezza è quindi anche subito disporsi a lasciarlo attuare in se stessi. E’ il secondo risvolto di questa invocazione, che diventa anche preghiera perché impariamo a essere disponibili a Dio. C’è per tutti il rischio di una preghiera che non si traduca in disponibilità e impegno. E’ preghiera vera quella in cui l’ascolto matura nella disponibilità del fare. Questo «fare» significa anzitutto riconoscere che Gesù è l’interprete definitivo della volontà del Padre. Convertirsi a lui e ascoltare la sua parola significa fare la volontà del Padre e fare parte della sua famiglia.

«Come in cielo, così in terra» Nel suo duplice risvolto, l’invocazione «Sia fatta la tua volontà» diventa quindi un grido rivolto al Padre, l’espressione del desiderio di un figlio perché Dio porti a compimento nel mondo la sua volontà salvifica e, nello stesso tempo, un’affermazione di disponibilità a mettere la propria vita a servizio dell’agire divino. In questo orizzonte prende significato l’aggiunta «Come in cielo, così in terra». E’ un’affermazione che parte dalla consapevolezza di Gesù e di chi prega con lui che la volontà di Dio non è ancora fatta, non è ancora pienamente realizzata. La «terra», cioè il mondo e il modo dell’uomo di stare a questo mondo, non sono ancora divenuti pienamente ciò che Dio desidera nel suo cuore. Il riferimento al «cielo» allude al traguardo verso cui la risurrezione del Signore Gesù spinge l’umanità, traguardo già compiuto in lui e in coloro che ci hanno preceduto nella fede. Pregare con questa invocazione significa dunque associarsi al desiderio di Dio Padre che ciò che già avviene «in cielo» si compia progressivamente e senza ritardi «in terra».

La «volontà di Dio» nell’esperienza umana di Gesù Quando ci chiediamo cosa significa «fare la volontà di Dio», abbiamo un’indicazione precisa, guardando a Gesù e a come egli si è disposto a lasciare che Dio Padre operasse in lui la sua volontà. I Vangeli riportano più volte le sue parole: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato a compiere la sua opera» (Gv 4,34); «Non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato» (Gv 5,30), «Sono disceso dal cielo non per compiere la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38);Per Gesù, essere totalmente disponibile alla volontà del Padre, non ha voluto dire aderire a qualcosa di misterioso o già stabilito. Ha voluto dire avere intuito il sogno di Dio sull’uomo e averlo fatto suo, mettendo la propria libertà di uomo a disposizione di questo sogno. Anche per lui, quindi, è stato faticoso capire, passo dopo passo, come dare corpo al disegno di Dio. Lì c’era lo spazio per la sua creatività, la sua fantasia nel fare il bene, ma anche la difficoltà a discernere quale era il passo giusto, il modo giusto, la scelta giusta. Fino al momento più difficile e inatteso, quando Gesù si è reso conto, nel Getsemani, che l’impegnarsi per il disegno di suo Padre lo conduceva alla morte. Proprio in questo frangente Gesù riafferma la totale disponibilità, non priva di paura e angoscia, a mettere la sua libertà a disposizione dell’amore, fino in fondo: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42). Questo estremo affidamento non aveva il sapore della rassegnazione passiva: «Dio, io non capisco la tua volontà, ma accetto con rassegnazione di essere condotto alla morte». Significa una disponibilità attiva, anche se faticosa. Potremmo tentare di esprimere la consapevolezza interiore di Gesù con queste parole: «Padre, la fedeltà al tuo disegno di amore per gli uomini, per il quale ho deciso di impegnarmi con te, ha scatenato ciò che né io né tu volevamo: il rifiuto e l’odio. Per portarlo a compimento, capisco che non c’è altro modo che quello di amarli fino in fondo, a costo di lasciarmi sopprimere da loro. Solo questa fedeltà estrema, che è amore estremo, li potrà convincere del tuo e del mio amore e li potrà strappare dalla spirale di odio e di aggressività nella quale si trovano. lo ti grido tutto il mio dolore, la mia paura di morire e ti chiedo, se ancora c’è qualche possibilità, di risparmiarmi la morte, di intervenire a mio favore. Ma se il tuo amore devo manifestarsi in questa forma, allora io ti riconfermo la mia estrema disponibilità, ma

nello stesso tempo riaffermo la mia totale fiducia in te che sei Padre, e che non mi abbandonerai nella morte».

Significati per la nostra vita • L’invocazione «Sia fatta la tua volontà» è espressa nella forma di un

desiderio. E’ un Figlio che fa proprio il desiderio del Padre suo, che fa coincidere le suo aspirazioni con quelle di Dio. Pregare il Padre nostro, e in particolare questa invocazione, significa riconoscere che solo Dio è buono e che tutto quello che egli vuole è il bene per noi. Prima di essere un impegno, la preghiera del Padre nostro è allora un atto di riconoscenza e di riconoscimento, perché abbiamo un Padre che non lascia mancare nulla ai suoi fìgli.

Nello stesso tempo, l’esperienza quotidiana ci mostra che la sua «volontà» non si è ancora attuata definitivamente nelle persone, nella storia. La nostra invocazione è allora un grido lanciato a lui perché mandi a segno definitivamente quello che ha operato in Gesù. • Pregando «Sia fatta la tua volontà» non preghiamo solo per noi,

ma diamo voce a tutti gli uomini, anche a quelli che non hanno voce. Accettiamo allora che lo Spirito lavori in noi e continui l’opera di conversione iniziata nel battesimo, conformando la nostra esistenza a quella di Gesù.

• Questa preghiera ci invita alla pazienza senza perdere la speranza. Noi constatiamo che invece di collaborare a compiere nella nostra vita e nel mondo la volontà di Dio, contribuiamo piuttosto a creare condizioni che non sono conformi al disegno di Dio. La nostra storia umana è carica di situazioni che sono lontane da quello che Dio vuole e che ha già iniziato ad attuare. Questa esperienza del disagio diventa una preghiera di fiducia, di affidamentoPregando il Padre nostro noi ci lasciamo anche illuminare dall’esperienza di Gesù al Getsemani, quando la vita ci pone di fronte a situazioni difficili. Di fronte alla sofferenza ingiusta e assurda, ci chiediamo spesso come la volontà di Dio possa accordarsi con il male e la morte. E’ il momento dell’oscurità, in cui è difficile comprendere le strade attraverso le quali Dio realizza il suo regno. L’evidenza del dolore, della sofferenza e della morte rendono difficile e talvolta impossibile intravedere lo sbocco della vita, della risurrezione. Anche noi, in tali momenti, dobbiamo dire. «Sia fatta la tua volontà»,

non come rassegnazione passiva a qualcosa che sarebbe stato definito, ma come affidamento a Colui che è Padre e che, nel dolore soffre con noi e per noi.L’atteggiamento che impariamo a maturare, pregando così, è la capacità di portare il peso di un’esistenza e di una storia che non vedono ancora il loro sbocco, mantenendo la fiducia e l’abbandono in Colui che ha in mano l’esistenza di ognuno e che un giorno cambierà le nostre tenebre nella sua luce.

+CATADULTI 2001-2002:TEMA 6 “DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO”

ovveroLA RICHIESTA DEL PANE NECESSARIO

1. PER ENTRARE IN ARGOMENTO“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”

• Nel contesto della vita di oggi, quale senso può avere una tale preghiera rivolta a Dio ?

• Ognuno, dopo un momento di riflessione personale, completa questa scritta:

PANE QUOTIDIANO E’ :…………………………………………..…………………………………………..…………………………………………..…………………………………………..

2. APPROFONDIMENTO DEL TEMA

3. PER TORNARE ALLA VITA“Se ciascuno si tenesse solo ciò che gli serve per le normali necessità e lasciasse il superfluo agli indigenti, ricchezza e povertà scomparirebbero ... All’affamato spetta il pane che si spreca nella tua casa. Allo scalzo spettano le scarpe che ammuffiscono sotto il tuo letto. Al nudo spettano le vesti che sono nel tuo baule. Al misero spetta il denaro che si svaluta nelle tue casseforti” S. Basilio Magno (secolo IV)

• Hanno ancora valore queste affermazioni di san Basilio nel nostro contesto attuale? Perché?

• Cosa significa oggi vivere questa invocazione del Padre nostro ?

APPROFONDIMENTO DEL TEMA

• Con questa invocazione inizia la seconda parte del Padre nostro.

• Si diversifica visibilmente rispetto alla parte precedente: se prima nelle invocazioni prevaleva l’aggettivo tuo (il tuo nome, il tuo regno, la tua volontà), ora prevale il noi, il nostro, se prima il nostro cuore e i nostri desideri erano chiamati ad allargarsi a misura di quelli di Dio, ora l’attenzione si posa sulla vita concreta dell’uomo, sui suoi bisogni fondamentali.

• Le ultime tre domande orientano quindi lo sguardo non più al cielo, ma alla terra.

• Tuttavia questa seconda parte non deve essere disgiunta dalla prima; anzi, c’è tra loro un’intima connessione

• Le domande per il pane, per il perdono, per avere la forza di fronte alle prove che possono mettere in pericolo la fede ed essere liberati dalla potenza del male, ricevono il loro valore più profondo a partire dalla prioritaria aspirazione alla santificazione del nome di Dio Padre, alla venuta del suo regno, al compiersi della sua volontà.

• Chi è così disponibile a fare spazio alla presenza della paternità di Dio, impara ad accostare le realtà necessarie alla vita umana cogliendole nella loro giusta prospettiva.

• Infatti c’è un modo di dedicarsi a queste realtà che potrebbe impedire l’unica e totale adesione a Dio e, in fin dei conti, la piena realizzazione della vita filiale e fraterna.

• Se il bisogno del nutrimento, che è fondamentale per la vita umana, diventa ansia per i beni, accaparramento e accumulo di ricchezze, al punto da diventare servizio a mammona e non a Dio, allora oscuriamo per noi il senso della paternità di Dio; se fra le cose fondamentali non poniamo il desiderio della fraternità, nell’accoglienza

del dono della riconciliazione, allora nascondiamo a noi stessi il volto paterno di Dio; se nel momento in cui siamo sottomessi alla prova della tentazione ci lasciamo andare e viene meno la fede, allora ci sottraiamo allo sguardo paterno di Dio.

• La seconda parte della preghiera, dunque, evidenzia come si devono mettere a fuoco i bisogni fonda mentali dell’esistenza umana, perché non impediscano la nostra adesione al Padre, ma anzi diventino terreno sul quale si edifica e si esprime la nostra vita di figli di Dio.

• La domanda sul pane si inquadra in questo contesto, ma deve essere ben compresa nel suo significato.

• La nostra condizione di vita potrebbe renderla oggetto di fraintendimento: cosa significa chiedere il pane quotidiano per coloro che sulla loro mensa hanno garantito quotidianamente già ben più del pane necessario?

• Si può correre il rischio di svilire la forza della domanda, intendendola subito in un senso troppo spirituale e allegorico.

• Oppure potremmo intenderla come una preghiera fatta per coloro che non hanno da mangiare; ma allora la nostra sensibilità ci fa reagire: non tocca forse a noi darci da fare perché ciò avvenga, invece di chiedere che lo faccia Dio?

• E poi: che cos’è in fondo questo pane di cui abbiamo veramente bisogno?

• Occorre rimetterci alla scuola della Parola per apprendere la ricca esperienza di vita che è racchiusa in questa invocazione e che può scaturire per noi dalla preghiera quotidianamente ripetuta con fede

La formulazione della domanda • Tutte le domande della seconda parte sono pronunciate

quasi come un grido: «Il nostro pane necessario dacci oggi e rimetti a noi i nostri debiti e non far sì che il

momento della prova ci veda soccombenti!». • Sono richieste gridate da una situazione di bisogno e di

pericolo in cui l’esistenza umana si trova. • La richiesta del pane, però, si differenzia da tutte le

altre per una particolarità della formulazione letteraria: mentre le altre richieste iniziano con il verbo, mettendo in risalto l’evento, la prima richiesta della seconda parte non comincia con il verbo, ma con la parola «pane» e finisce con la parola «oggi», quasi a colpire subito la nostra immaginazione con la realtà del pane e quasi a presentare subito di fronte a Dio il nostro bisogno concreto. “Il pane nostro, quello necessario, dona a noi oggi” : anche visivamente questa richiesta mette in primo piano la realtà del pane per l’oggi, un pane che da solo riesco a esprimere tutto ciò che è necessario al sostentamento della vita umana.

Il significato dell’invocazione“Il pane ...” • Colpisce che la prima invocazione rivolta al Padre per

la nostra vita metta in primo piano un realtà concreta: il pane

• Nella visione biblica, l’esistenza umana non si può pensare in termini troppo spiritualizzati o disincarnati, riducendola alla sfera psichica o intellettuale; la vita umana ha una dimensione corporale, e quindi è essenzialmente legata anche alle realtà terrene.

• Non è corretto quindi cercare subito un senso troppo spirituale o allegorico, ma occorre partire dal senso letterale del pane: una realtà terrena, un elemento materiale, senza il quale la vita umana non può esistere né svilupparsi.

• Proprio per questo, la richiesta del pane indica le condizioni essenziali della vita dell’uomo, ma anche

ciò che ci accomuna nella nostra umanità, ciò che dice insieme la nostra povertà e il nostro desiderio di accogliere il dono della vita.

• Nell’Antico Testamento il pane era visto come un dono di Dio, segno della sua benedizione e perciò era promesso abbondante per il banchetto finale, per il giorno della salvezza

“..nostro..” Questo pane è qualificato come «nostro». Ciò racchiude diversi aspetti. E’ nostro perché è necessario per noi, essenziale al nostro vivere.E’ nostro perché è quello che noi siamo chiamati a procurarci con la fatica, con il lavoro, con tutta una serie di necessarie preoccupazioni; è frutto della terra e del lavoro delle nostre mani. Ma è nostro anche perché non è solo mio: non è una realtà che riguarda esclusivamente e quasi egoisticamente soltanto la mia vita, ma è un bisogno condiviso. Anche se si prega da soli, la richiesta a Dio coinvolge la comunità dei discepoli e tutti coloro che sono accomunati da questo bisogno: in fondo, può allargarsi a comprendere tutti coloro di cui Dio è Padre. Ancor più, quindi, l’immagine del «pane nostro» implica una serie di legami, un modo di essere comunità, improntato alla condivisione fraterna. “…quello necessario…” L’espressione «quotidiano», a cui siamo abituati, traduce il termine greco che, in realtà, è di difficile interpretazione: nella Bibbia ricorre solo in questo passo ed è difficile da ritrovare anche nella letteratura greca.

Il significato che probabilmente si avvicina di più alla situazione concreta della preghiera può essere indicato con l’espressione «il pane per il giorno che viene», intendendo non il domani, ma il giorno in cui siamo.Forse la traduzione migliore in italiano potrebbe essere “il nostro pane, quello necessario”

“..dona a noi…”Si richiama ora l’azione invocata dal Padre. La forza con cui si chiede a Dio di «dare il pane», da un lato manifesta la grande fiducia in Dio dell’orante rispetto all’urgenza del problema, dall’altro esprime che riconosciamo come dono suo il nostro sostentamento, pur procurato dalla fatica e dal lavoro umano. In questo modo, Gesù rende partecipi i suoi discepoli della sua stessa fiducia incrollabile nel Padre, il quale «sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt 6,8), e li invita ad accogliere il pane con gratitudine, non come un possesso per soddisfare un bisogno individuale, ma come un dono ricevuto, che ci apre alla gratitudine e alla condivisione. La richiesta di dare «a noi» questo pane accentua ancora il senso comunitario della preghiera, che porta a farsi carico di tutti. In fondo, è nell’intenzione di Dio che a ciascuno sia dato il suo pane

“oggi” Questo «oggi» esprime la concretezza della necessità: ne abbiamo bisogno oggi e lo chiediamo come dono per l’oggi. Esprime anche la sobrietà e la misura della preoccupazione, che non diventa affanno per il nutrimento né ricerca di accumulo per il futuro: «non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6,34). Sembra di risentire sullo sfondo l’episodio della manna

che Dio donava al suo popolo nel deserto: ciascuno doveva raccoglierne ogni mattina il necessario per il giorno; se qualcuno disobbediva e la conservava per il giorno dopo, la manna imputridiva (Es. 16,16-21)Dietro questa invocazione possiamo trovare l’esperienza di Gesù e dei suoi discepoli, a cui egli ha insegnato questa preghiera.La richiesta che Dio doni pane per l’oggi, senza ansia del domani, delinea una situazione di vita del tutto particolare: la situazione tipica dei discepoli di Gesù, che hanno abbandonato la famiglia, il lavoro, si sono posti al seguito di Gesù e con lui vivono quotidianamente, in una comunità che da Gesù stesso è qualificata come preoccupata solo del regno di Dio: «Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mange-remo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia (Mt 6,31.33).Nell’unica preoccupazione di annunciare e di veder fiorire nel mondo la novità del regno, senza un lavoro che dia garanzia per il domani, i discepoli affidano a Dio, a un suo dono puntualmente richiesto ogni giorno, le condizioni necessarie per la loro esistenza materiale, con una preghiera che li rende fiduciosi e lieti di accogliere giorno per giorno dalle sue mani il pane necessario.Si tratta di una situazione particolare, giustificata proprio dalla presenza della persona di Gesù, dal suo annuncio del regno, dalla sua chiamata che chiede di lasciare tutto e di seguirlo. Però questa preghiera vale anche per situazioni diverse. La preghiera del Padre nostro, quindi, si mostra capace di interpretare anche la situazione di questi cristiani, richiamandoli alla sobrietà e alla gratuità con cui accogliere da Dio ciò che consente loro di vivere e di manifestare la sua paternità in una vita da figli. Il primato attribuito al regno di Dio è compatibile con diverse condizioni di vita, ma in tutto introduce quell’atteggiamento

di affidamento a Dio che rende liberi dall’affanno per le cose e che impegna a rendere veramente nostro il pane che Dio ci dona. La preghiera del Padre nostro, con l’invocazione per il pane necessario, accompagna anche la vita delle nostre comunità cristiane, dei discepoli di oggi, ed è sempre capace di esprimere tutto il suo valore anche per le nostre condizioni di vita, siano esse quelle del mendicante o piuttosto quelle della «società del benessereIl valore di questa invocazione per il pane necessario con- serva tutta la sua forza, nella misura in cui rimane anche per noi l’orizzonte fondamentale della preghiera: quello di chi cerca anzitutto il regno di Dio, di chi desidera che venga santificato il nome di Dio e che si compia sulla terra ciò che Dio vuole per l’uomo. In questo orizzonte di fede si chiede al Padre, per noi e per tutti, ciò che è necessario per vivere una vita nella sua piena dignità. Questa invocazione, poi, ci apre a vedere le cose nella loro realtà profonda, come dono da accogliere e di cui fruire nella gratitudine e nella condivisione, riconoscendo in Dio Padre la fonte di ogni dono e la radice di ogni fraternità. Ci porta a guardare al domani con la fiducia nella paternità di Dio, non con l’ansia e la schiacciante preoccupazione che ci rendo meno liberi e meno gioiosi (1Tm 6,6-10). Ci pone anche nell’atteggiamento adeguato per affrontare tutti quei momenti in cui sperimentiamo la precarietà della vita, delle relazioni umane; per quelle situazioni in cui siamo chiamati non a «pretendere», ma a ricevere le cose nella loro qualità di dono gratuito, segno di una relazione che esprime amore e non semplice prestazione. Possiamo quindi vedere nel «nostro pane, quello necessario» il segno dell’amicizia di Dio, giacché lo prendiamo dalle sue mani, ma anche il segno dell’amicizia comune, della fraternità, della vita condivisa nei suoi bisogni e nelle sue possibilità.

Allora diventa vero e autentico anche il gesto della condivisione, il farsi carico della fame di tutti, perché a tutti giunga il pane necessario: quello materiale, certo, ma con la qualità di dono gratuito che lo rende capace non solo di rispondere a un bisogno fisico, ma di rendere disponibile una relazione di amore fraterno, in cui già fiorisce la novità del regno, quella novità di cui Cristo ci ha resi partecipi. Anche così è santificato il nome di Dio, viene il suo regno, si compie la sua volontà.

Significati per la nostra vita• Il primato di Dio e l’esigenza del pane. Chi prega il Padre nostro incontra la richiesta del pane dopo aver rivolto l’attenzione a Dio con le prime tre invocazioni. Questa pedagogia della preghiera ci aiuta ad assegnare il giusto posto e a dare il giusto valore alla nostra richiesta, che pure non deve essere dimenticata o trascurata. La ricerca del pane sta dopo, o meglio, sta dentro il primato riconosciuto a Dio ed esprime la fiducia con cui si affronta la vita.Non avrebbe senso un’attenzione esclusivamente orientata al regno di Dio, ma disinteressata rispetto ai bisogni concreti e alle condizioni in cui l’uomo vive: questo disinteresse smentirebbe l’annuncio del regno. D’altra parte, la semplice distribuzione delle risorse non garantisce da sola la qualità più propriamente umana della vita. Ecco quindi l’importanza di includere l’invocazione del pane per l’oggi dentro il riconoscimento del primato di Dio e del suo regno, in modo che anche nell’esigenza del pane si affacci l’esperienza più profonda della dignità umana. C’è un modo di preoccuparsi del pane che esprime questa attenzione globale all’uomo. C’è invece un modo di preoccuparsi del pane quotidiano che ci rende schiavi delle cose, attenti solo al nostro bisogno e a

ciò che lo soddisfa immediatamente. Il credente prega dicendo «dacci oggi il nostro pane quotidiano», perché anche nel pane vuole fare l’esperienza della paternità di Dio. Allora tutta la sua vita, anche nella sfera dei bisogni essenziali, diventa vita da «figli del Padre» e ritrova tutta la sua dignità e la sua qualità umana • Fiducia nel chiedere e gratuità nel ricevere. Un aspetto importante di questa invocazione è l’atteggiamento di fiducia che essa presuppone ed esprime. Cristo stesso è stato modello di questa fiducia, con la quale ha potuto dedicarsi totalmente alla causa del regno. Anche in noi, dunque, questa fiducia può liberare energie per permetterei di dedicarci con serenità a coltivare l’esperienza della paternità di Dio fra gli uomini. A volte, per chi vive in una condizione di benessere, questa fiducia può sembrare superflua: si è rassicurati dalle cose che già si possiedono e che garantiscono il futuro. Ma sono veramente le cose o le disponibilità economiche che garantiscono il nostro vivere nella gioia e nella pace dei figli di Dio? In realtà, tutti sperimentiamo un margine di insicurezza e di imprevedibilità nella nostra vita, anche là dove il benessere e la salute ci illudono che la vita possa essere automaticamente felice. Non siamo padroni assoluti di noi stessi né degli altri. La preghiera preghiera non è uno dei tanti mezzi per procurarsi il pane; rimane per ciascuno il compito di procurarlo con il proprio lavoro; c’è anche un diritto al pane necessario, che deve essere rispettato. La preghiera insiste non tanto sui mezzi con cui trovare il pane, quanto sul modo di riceverlo, sulla semplicità e sulla gioia di ricevere con il pane ciò che ci consente di fare l’esperienza della paternità di Dio e di sentirei insieme figli

e fratelli.• La sobrietà e la condivisione. Questa invocazione, così come è formulata, ci invita a chiedere ciò che è necessario per vivere: non di meno, ma neanche di più. E’ un richiamo forte alla sobrietà dello stile di vita del cristiano. Ci sono tante cose che non sono essenziali, che sono superflue; eppure ci assorbono tempo, energie, desideri; ci distolgono dal coltivare ciò che è veramente essenziale, diminuiscono la nostra disponibilità agli altri. Chiedere a Dio di darci il pane necessario oggi, vuol dire dichiarare la nostra disponibilità a vivere di ciò che è essenziale. Questo diventa tanto più urgente quanto più ci rendiamo conto che il pane richiesto è il pane nostro, il pane dei figli, di coloro di cui Dio è Padre. Il pane che nutre solo noi e lascia nell’indigenza porzioni dell’umanità non è il «pane nostro», quello che Dio ci dona. E’ più povero di umanità il pane mangiato in solitudine, min abbondanza, ma senza la condivisione con chi ne è privo. Non è santificato il nome di Dio, non risplende la novità del regno, non si compie la volontà del Padre in un mondo in cui coloro che vivono nell’abbondanza (anche i cristiani) vogliono ignorare o tener lontano il problema di coloro che, a causa della mancanza del pane, vivono in condizioni di povertà, sottosviluppo, morte. Chi prega ogni giorno, con autenticità, per chiedere a Dio il pane nostro, non può non sentirsi portato da Dio a ricercare, a livello personale, sociale, politico, quella sobrietà che diventa condivisione del pane e, più profondamente, condivisione di umanità. Anche spezzando e donando a tutti il pane necessario facciamo l’esperienza dell’unico Padre, ci scopriamo tutti figli e fratelli.

• Il pane eucaristico e il pane quotidiano. Quel Gesù che ci insegna a pregare chiedendo il pane, è lo stesso che si dona realmente a noi nel pane eucaristico. Il Padre nostro viene recitato anche da noi nel contesto dell’eucaristia, prima di partecipare a quel banchetto che è «segno di riconciliazione e vincolo di unione fraterna». Tutto il valore e i significati che vediamo dentro la richiesta del pane trovano il loro compimento nel donarsi di Cristo, pane consacrato per essere da tutti mangiato. E’ in Cristo che facciamo l’esperienza della paternità di Dio, della gratuità del suo amore, della fraternità che nasceE’ questo stesso dono che ci porta sulla strada della comunione e della carità fraterna, a chiedere e a condividere il pane quotidiano con tutti. Questo atteggiamento, allora, non è solo frutto della nostra buona volontà, ma è piuttosto una grazia: la grazia di essere uniti a Cristo, di essere partecipi del suo amore Allora nella preghiera che chiede il pane quotidiano, per noi e per tutti, diventerà trasparente l’immagine vera di Dio, sollecito verso tutti i suoi figli, e nella nostra disponibilità a vivere in modo sobrio e a fare in modo che il pane sia realmente per tutti, si mostrerà il vero volto della comunità dei figli di Dio.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle Treponti – BsCATADULT 2001-2002

TEMA 8: “E NON CI INDURRE IN TENTAZIONE, MA LIBERACI DAL MALE”

ovveroLA FEDELTA’ NELLA TENTAZIONE

PER ENTRARE IN ARGOMENTO• Cosa intendiamo dire a Dio quando preghiamo dicendo: “E non ci indurre

in tentazione, ma liberaci dal male ?”• Quale interpretazione diamo all’espressione “Non ci indurre in tentazione

?”• A volte, sotto il peso delle situazioni o con il passare del tempo,

l’adesione di fede viene meno o si sbiadisce. Confrontando le nostre esperienze personali cerchiamo i motivi delle “crisi di fede” con cui ci siamo confrontati.

PER TORNARE ALLA VITAUn masso da vegliareUn dio o un demonio - si diceva - l’aveva collocato apposta lassù, sopra il villaggio, per mettere gli uomini alla prova. E gli uomini la prova l’avevano accettata. Ogni sera, a turno, uno di loro s’inerpicava sulla montagna con una lanterna per sorvegliare che il masso non si muovesse; piovesse o tirasse vento, ci fosse la luna o la neve, un uomo vigilava sul sonno di tutti pronto a destarli con una tromba dal suono potente. Per ognuno di quegli uomini la veglia al masso ora una fatica; ma anche una fierezza. Il giorno dopo, ridiscesi a valle, pareva loro che l’intero villaggi gli sorridesse. Ma il tempo passò e portò altre soddisfazioni e altre fierezze. Così che poco per volta parve stupido quel che prima era parso importante. Se per secoli e secoli quel masso era rimasto appiccicato alla montagna, perché avrebbe dovuto staccarsi proprio ora? Si pagasse un guardiano, caso mai, anzi, ci pensasse il governatore della provincia! Così, dopo molte discussioni, si decise di sospendere la veglia al masso: non c’era più gusto a farla. Raramente c’è gusto a fare le cose che si devono. A meno che uno il gusto lo trovi in se stesso. E quegli uomini erano attratti da troppi piaceri esterni per trovarne di interiori. Quel masso è ancora lassù. Nessuno più gli si è inerpicato accanto. E nessuno ha notato che si è mosso di dieci buone spanne verso valle.

• Vegliare sulla nostra fede - vigilare sul masso. C’è qualche rapporto ?

PER APPROFONDIRE IL TEMACOMMENTO

• Che cosa ci sarà di così terribile nella tentazione da dover pregare Dio di non entrare?

• E perché mai Dio dovrebbe indurci in tentazione?

La richiesta di non essere condotti nella tentazione è l’unica del Padre nostro a essere formulata in negativo.

Luca: «non ci indurre in tentazione»Matteo ha l’aggiunta « ... ma liberaci dal male»

L’ultima richiesta si pone qui in parallelo con la precedente, riprendendo in forma positiva («liberaci .. ») quanto formulato al negativo nella prima («non ci indurre ... »).

Il parallelismo delle espressioni illumina reciprocamente le due azioni (il non indurre e il liberare) e i rispettivi oggetti (la tentazione e il male). L’invocazione crea comunque una certa difficoltà e suscita problemi interpretativi perché sembra far pensare a un Dio che «induce» nella tentazione.

E’ tuttavia chiaro nell’insieme del discorso biblico che Dio non può tentare al male e che non è lui che ci induce nella tentazione.

Cosa significa allora questa espressione?

La traduzione più corretta sarebbe: «Fa’ che noi non entriamo nella tentazione». Infatti nella mentalità semitica «entrare nella tentazione» non significa semplicemente «essere esposto alla tentazione», ma è già un «soccombere» a essa, un aderire alla logica della tentazione. Questa domanda perciò non è un’invocazione a Dio perché la prova (tentazione) ci sia risparmiata, ma una supplica a

Dio perché noi possiamo superare la prova e non restarne schiacciati.

Pur espressa con un verbo differente, la richiesta corrisponde all’invito di Gesù ai discepoli nel Getsemani: «Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione» (Mt 26,41). La richiesta verte sulla possibilità di non disorientarsi e accasciarsi, cedendo e abbandonando la sequela del Signore

Va aggiunta una precisazione sul significato di «tentazione», che aiuta a comprendere la richiesta di non esservi introdotti Solitamente di fronte all’espressione «tentazione» si pensa a un’attrazione verso una cosa cattiva, a un appetito illecito. In realtà il termine biblico, meglio tradotto con «prova» è piuttosto l’azione attraverso la quale viene verificata e messa al vaglio la fede e la vita fedele a Dio. Ci sono molti esempi nell’Antico Testamento in cui la prova si presenta proprio in questi termini. Classico è quello di Abramo la cui fede è vagliata attraverso la richiesta del sacrificio del figlio (Gen 22).

Nei libri sapienziali si dice che i giusti sono messi alla prova come l’oro nel crogiolo per vedere se sono degni di Dio (Sap 3,6, cf. Sir 2,1).

In altri passi questa prova è presentata come opera del grande tentatore, satana, l’autore di ogni tentazione, che nel Nuovo Testamento è presentato come il tentatore per eccellenza, di fronte al quale il credente deve opporre la propria vigilanza e resistenza. C’è quindi una concezione di prova come l’esperienza dentro la quale è messa a nudo la fede e la fedeltà a Dio del credente o del popolo. In questo senso essa sembra essere un aspetto insito alla natura stessa della fede, una condizione permanente della vita, che in particolari circostanze emerge in tutta la sua drammaticità.

La fede è continuamente posta di fronte a situazioni che la obbligano a confermarsi, a consolidarsi, a rafforzare la fedeltà, ma talvolta ha a che fare con vicende dentro le quali corre il reale rischio di venire meno. Qui non si tratta più della normale prova della fede, ma di quella prova che mette in crisi la fede stessa e minaccia la fedeltà. Chiediamo, cioè, che il momento della prova non diventi il momento della nostra caduta, del venire meno della nostra fede e fedeltà a Dio. Questo carattere quotidiano, ma anche pericoloso della prova può essere ulteriormente approfondito precisando a quale tipo di prova possiamo essere esposti:

a) La prova del quotidiano. •Se stiamo ad alcuni testi dell’Antico Testamento e in

particolare al libro di Giobbe, la prova è un elemento costante della vita: gli affanni della vita, le sofferenze, le delusioni e gli insuccessi, possono essere i momenti in cui il credente è messo alla prova, il momento in cui la sua fiducia in Dio può emergere come una fede che si rinvigorisce

• I Vangeli sinottici parlano anche di altre prove, che

sono inerenti alla vita quotidiana. Nella parabola del seminatore, Luca parla del pericolo per il credente di essere sopraffatto dall’ansia degli affari e dall’avidità della ricchezza: dovendo servirsi delle cose di questo mondo per la propria esistenza, rischia di creare in sé una brama smodata di esse, venendo così meno della fede.

•Viene poi delineata, nella parabola del banchetto, la

possibilità che le stesse occupazioni ordinarie della vita, quelle più normali, possano costituire, se assolutizzate, un reale intoppo alla fedeltà a Dio.

•Quando arriva l’invito per il banchetto, il fatto di

dover prendere moglie, di avere dei buoi da provare, di avere delle incombenze legate alla normale vita della famiglia e al lavoro... è sufficiente per disattendere l’invito pressante di Dio. L’oscuramento dell’invito di Dio, dovuto agli impegni ordinari, diventa qui il momento della prova, in cui la fedeltà a Dio rischia di soccombere, anche se in modo non eclatante, per il fatto che non viene rispettata la priorità di Dio

•Un altro aspetto di questa prova quotidiana viene

messo in evidenza sempre nel commento alla parabola del seminatore, dove si dice che alcuni hanno accolto con gioia la Parola, ma nel tempo della prova vengono meno, si sfaldano (Lc 8,13). Si tratta di una tentazione ancora più subdola e meno avvertita delle precedenti. Può accadere che, passando il tempo, il grigiore quotidiano, la stanchezza, il senso del limite, la fatica, ci facciano perdere la gioia e la radicalità della nostra fede.

Sembra quasi che la fede vada a sfaldarsi sotto i colpi impercettibili della quotidianità, sotto l’erosione lenta dello scorrere continuo della nostra vita.

Molti sono i cristiani caduti in questa prova del tempo vissuto senza sufficiente vigilanza e impegno, dove l’inerzia feriale e la dispersione tra mille cose hanno fatto venire meno il rapporto profondo di fiducia e di fedeltà a Dio. Si finisce per sorprendersi a non credere quasi senza accorgersene... Sono queste le tentazioni più ordinarie alle quali è sottoposta la vita del credente, tentazioni nelle quali la fedeltà a Dio può venire meno o spegnersi lentamente, quasi inavvertitamente.

Chiedendo nella preghiera: «Non ci indurre in tentazione», risvegliamo l’attenzione a non disperdere

nella frammentazione del quotidiano il senso del primato del Padre e della fedeltà al Vangelo. b) La prova finale. Ma l’invocazione del Padre nostro potrebbe essere orientata più che a queste prove quotidiane, a una prova decisiva, legata a un tempo determinato: la prova degli ultimi giorni. I Vangeli lasciano capire che i credenti nei tempi della fine saranno sottoposti a una prova decisiva della fede, che comporterà il pericolo dell’apostasia.

Il detto: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Le 18,8) si riferisce proprio a questa prova finale e al rischio a essa connesso. La prospettiva della morte potrebbe essere allora il luogo in cui la fede definitivamente si afferma, ma anche il momento in cui la fede è sottoposta al pericolo più grave.

Questa prova finale è da tenere sempre presente, anche quando non sembra toccarci immediatamente.

Tuttavia, il Padre nostro resta una preghiera del tempo presente, che è già tempo di tentazione.

Risulta pertanto più convincente, per comprendere a questa domanda del Padre nostro, radicarla nella stessa esperienza di Gesù.

c) La prova di Gesù e del discepolo. Qui si incontra un terzo tipo di prova, che non viene dall’esterno, dalle difficoltà, ma che è insita nella fede stessa, perché fa parte della natura stessa della fede, legata al modo di presentarsi di Dio.

Gesù è esposto a questo tipo di prova in due momenti nel deserto e nella passione. Il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto lo vede posto di fronte alla possibilità di realizzare in modi diversi la missione ricevuta dal Padre.

Egli dove scegliere tra il vivere un messianismo fatto di autoaffermazione, di autoesaltazione, di potere e di successo, e una missione vissuta invece secondo la parola di Dio.

Dio è colui che realizza la salvezza non attraverso modalità spettacolari, ma attraverso vie impensate; non manifestando la sua potenza, ma attraverso la fedeltà che porta Gesù a farsi servo di tutti. Ecco la tentazione: Dio si manifesta dentro prospettive che non sono quelle che l’uomo si aspetta.

Noi saremmo portati a pensare a un Dio che realizzi il suo regno in tutta la sua potenza e in tutto il suo splendore, con gli strumenti degni di un re, non attraverso la strada difficile della solidarietà e del servizio all’uomo. Nella passione la tentazione ritorna sotto una forma

analoga: qui sembrerebbe logico pensare che la salvezza consista per Gesù anzitutto nella capacità di salvare se stesso e poi di dimostrare che egli ha il potere di salvare: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!» Invece Dio e la sua azione si manifestano in modo inatteso. Dio salva in Gesù attraverso il percorso impensato, estremamente difficile e scandaloso, di una solidarietà con noi fino alla morte, una morte subita nell’immagine del peccatore abbandonato da Dio.- «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»

Qui sta il grande pericolo cui la nostra fede è esposta: trovarci, nell’incontro con Dio, di fronte a un Dio che non ragiona come noi, che non sceglie le strade secondo noi più congenite alla sua potenza.

Dio procede per strade che non sono secondo la logica umana, secondo le nostre previsioni.

E questa sorpresa può talora diventare sconcertante, al punto da mettere in questione il volto paterno di Dio, che sembra venire smentito dai fatti

Le due grandi tentazioni, nel deserto e sulla croce, hanno una radice in comune: il modo paradossale con cui il regno di Dio si fa presente nella storia.

Questa prova, che l’avvicinarsi di Dio porta con sé, accompagna tutta la missione di Gesù, continuamente esposto alle critiche degli avversari.

• Il regno di Dio che viene è tutto qui? • La potenza del regno è tutta in questo sparuto manipolo

di pescatori, di peccatori, di gente dubbia che si raccoglie attorno a Gesù?

• Perché Dio non fa venire il suo regno con potenza e

splendore?

• Perché la venuta di Gesù non ha fatto cessare la morte, l’ingiustizia e il peccato?

• Perché Dio accetta questa logica che non sconvolge la

realtà, ma assume la fatica e la lentezza della storia umana?

• Perché accetta il rischio di una libertà umana che può

non comprendere e rivoltarsi ?

E noi potremmo aggiungere la sfiduciata constatazione che dopo duemila anni il mondo non è ancora cambiato!... Sono queste le prove più radicali del credente, nelle quali Dio si profila in modo diverso da quello immaginato e atteso.

Sono questi i momenti in cui o l’adesione si fa più profonda o la fede viene meno.

E’ questa la prova interna al percorso della fede. Con l’invocazione «Non ci indurre in tentazione» chiediamo a Dio che questa sua imprevedibilità, questo suo agire

che non corrisponde sempre alle nostre immagini, non diventi il momento nel quale la nostra fede viene meno La richiesta «Fa’ che non soccombiamo nella tentazione» comprende tutte queste dimensioni: le prove quotidiane, la prova finale e, soprattutto, la prova interna all’esperienza stessa della fede. E se il Padre non può sottrarci alla prova senza tradire il suo vero volto, egli può certamente aiutarci a non soccombere in essa.

«... ma liberaci dal male» La seconda richiesta parallela è quella della liberazione dal male o dal maligno. Non si domanda qui la liberazione dalle disgrazie terrene, ma dalla potenza, comunque intesa, del male morale.

Chi prega questa invocazione sente tutto il peso che il male esercita nella propria esistenza e nella vita dell’umanità. Forse noi non abbiamo la coscienza profonda di quanto questo male non sia solo quello dei singoli, ma anche quello sociale, strutturato in tante forme psichiche, sociali, economiche.

Questa potenza del male incombe sulla nostra vita e mette in pericolo la nostra esistenza di credenti.

Chiediamo di essere liberati da questo male che ci minaccia e che sempre, in forme talora nascoste, è capace di afferrarci e condizionarci.

Chiediamo che Dio ci strappi da questa minacciosa presenza, più forte di quanto pensiamo, costituita dal complesso del male e dalla figura del maligno. La preghiera del Padre nostro, con quest’ultima invocazione, sembra chiudersi tragicamente. L’orante sente tutto il peso del male che schiaccia l’esistenza umana. E se si pensa a tutto il male che schiaccia l’umanità, questa invocazione sembra assumere i tratti dell’angoscia. Ma bisogna tenere presente che questa finale si congiunge con l’inizio della preghiera «<Abbà, Padre», caratterizzando così la situazione di una comunità di fratelli in pericolo come la condizione di chi è posto sotto la protezione del Padre. Il Padre nostro è una preghiera «circolare», che, giunta al termine, vuole ricominciare dall’inizio.

Colui, al quale si chiede di essere liberati da questa potenza malefica, è il Padre. Colui, al quale è stata rivolta la supplica di non soccombere alle prove, è l’Abbà invocato all’inizio, l’Abbà che non sta a guardare, ma che ha preso un’iniziativa definitiva di amore verso di noi in Gesù Cristo e nella proclamazione del regno fatta da lui. Mentre quindi la preghiera sembra chiudersi su queste

richieste quasi angosciate, riemerge tutta la fiducia presente e proveniente dall’iniziale invocazione «Abbà», «Padre nostro».

Se siamo fedeli in tale atteggiamento filiale verso il Padre, egli non ci farà venire meno la sua forza perché non cadiamo nella prova, non ci farà venire meno la sua presenza che ha già vinto il mondo e il maligno.

Atteggiamenti

Pregando con l’ultima invocazione del padre nostro ci educhiamo a:

• non perdere la fiducia in Dio Padre di fronte alle sofferenze, alle delusioni, agli insuccessi;

• non lasciare che le occupazioni ordinario della vita offuschino l’assolutezza di Dio;

• vivere il tempo con vigilanza e impegno; • vivere con responsabilità, scoprendo e accogliendo

l’azione di Dio nel nostro agire liberamente;• restare disponibili a Dio quando si manifesta in

modo diverso da quello che noi ci aspettiamo.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle Treponti – BsCATECHESI ADULTI 2001-2002

NATALE 2001

CELEBRAZIONE DI CONSEGNA DEL “PADRE NOSTRO”

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle Treponti – BsCATECHESI ADULTI 2001-2002

NATALE 2001

CONSEGNA DEL “PADRE NOSTRO”

Padre nostro che sei nei cieli.Sia santificato il tuo nome.Venga il tuo Regno.Sia fatta la tua volontà,come in cielo così in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano.Rimetti a noi i nostri debiticome noi li rimettiamo ai nostri debitori.Non ci indurre in tentazione,ma liberaci dal male.AMEN

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCatechesi adulti 2002

Apocalisse di Giovanni

1° incontro introduttorio

Apocalisse, dal greco apocalypsis e significa rivelazione, svelamento di qualche cosa che è nascosto e viene reso chiaro, manifesto.

Il linguaggio dell’Apocalisse è molto complicato e difficile, tanto che per decifrarlo dovremmo possedere innumerevoli nozioni di simbolismi antichi.

Non abbiamo infatti sufficienti conoscenze per poter dare un esatto significato a tutte le immagini che compaiono nel testo.

Pensate che, ad esempio, un versetto apocalittico di Zaccaria ha ben 42 interpretazioni diverse.

Nell’Apocalisse il linguaggio è simbolico, allegorico; il bene e il male sono sempre in contrasto fra loro.

La letteratura apocalittica sembra il regno della fantasia con strane e mostruose bestie e con sconvolgimenti della natura.

E’ bene sottolineare il pericolo di dare un’interpretazione letterale ai testi apocalittici, come per esempio l’interpretazione millenaristica (“mille e non più mille!”).

La letteratura apocalittica ha un contesto ben preciso: nasce sempre in momenti drammatici della storia d’Israele e della Chiesa; momenti di oppressione e di perdita della libertà, di contrasto tra il bene e il male.

Ricordiamo la persecuzione di Antioco IV che voleva imporre una cultura unica in Israele e distruggere la cultura ebraica oppure la persecuzione sistematica dei cristiani da parte dell’imperatore romano. Sono momenti drammatici nei quali si manifesta il contrasto tra il bene (Iahwe, Dio) e il male (identificato in Antico IV e nell’imperatore romano).

Però in questo contrasto appare sempre essenziale un punto: la certezza della vittoria di Dio.

Quanto sia potente il male non ci interessa perché Jahwe comunque vincerà; il male sarà sempre sconfitto da Dio.

E’ un Dio che non combatte e non vince da solo, ma agisce in funzione

del suo popolo.

Il vincitore assieme a Dio sarà sempre il suo popolo.

Ecco una bella caratteristica della letteratura apocalittica: Dio e il popolo sono uniti sempre.

Un grande sviluppo dell’apocalittica, che prima era solo accennata. avviene intorno al 50 a.C., epoca delle persecuzioni, con alcuni libri ispirati ed altri non ispirati.

Al centro di questo genere letterario c’è l’escatologia, dal greco “escatà”, discorso sulle cose ultime, sull’aldilà.

L’apocalittica suscita attesa del momento supremo, di quando Dio verrà a ristabilire ciò che è giusto e buono e a distruggere ciò che è malvagio. E in quel momento ci sarà il trionfo di Dio e del suo popolo.

L’apocalittica diventa un modo di interpretare la storia attuale perché io so che Dio trionfa e perché so che facendo parte del popolo di Dio sono chiamato a contribuire al suo trionfo.

In questo senso vivo in prima persona il contrasto tra il bene e il male.

Quali sono i retroterra del libro dell’Apocalisse? Sono i brani apocalittici dell’Antico Testamento. Infatti in vari autori troviamo brani apocalittici come, per esempio, in:

a) Daniele, libro scritto intorno al 150 a.C.;b) Ezechiele, risalente al periodo dell’esilio babilonese {580 - 560 a.C..); c) Zaccaria {520 a.C. ca.), in particolare nei capitoli 9-14;d) Isaia {740-700 a.C.), 34-35; 63-1,6; 24-27; e) Gioele {400 a.C:), nei capitoli 3 e 4.

Comprendiamo facilmente che la letteratura apocalittica ha origine nei profeti.Due elementi ritorneranno durante la lettura di questi brani:1 ) l’ annuncio di un giudizio;

2) un avvenire di pace.

Sia il giudizio sia l’avvenire avranno tre protagonisti:1) Dio;2) il nemico; 3) il popolo.Dio entra in gioco sempre più personalmente, fino a restare l’unico a combattere il male sulla terra.

Il nemico potrà essere simbolico come Edom, oppure un animale mitico (leviatan), oppure nomi inventati {come in Ez. 38 e 39 Gog e Magog, che sono due figure mitiche dell’apocalittica). Ovviamente il nemico viene sempre sconfitto.C’è, poi, il popolo che viene coinvolto e non è, quindi, semplice spettatore della lotta tra il bene e il male.

Il nemico agisce perché il popolo ha bisogno di purificazione e una volta purificato verrà collocato nella Gerusalemme.

E’ bene ripetere che l’apocalittica è un genere letterario che ha la sua origine nella profezia e che porta alla speranza.

I primi apocalittici sono stati, come abbiamo visto, i profeti.

Allora, se è vero che i profeti sono stati mandati da Dio per tenere vivo nel popolo l’ideale messianico, l’apocalittica rende ancora più efficace il loro messaggio.

E i testi apocalittici sono libri di speranza che ci aiutano a leggere il presente alla luce del futuro.

Nella Bibbia c’è un intreccio fra passato, presente e futuro, intreccio profondo che ritroviamo anche, ad esempio, nella Messa che - come la Pasqua ebraica - è memoriale.

L’apocalittica lascia scoperto il passato per proiettarsi nel futuro.

Il presente è disperazione, ma non ci si deve preoccupare perché arriverà il momento in cui Dio vincerà e con Lui il suo popolo.

Questo messaggio di speranza ha origine dal momento fondamentale della storia d’Israele: l’esilio.

Bellissimo nella teologia ebraica è il tema della sofferenza di Dio, cioè di un Dio talmente identificato con il suo popolo da non essere un Dio lontano, ma un Dio che soffre attraverso la sofferenza di un popolo. Se notiamo bene siamo ad un passo dall’incarnazione e dalla morte in croce.

Con il ritorno deludente dall’esilio occorrevano dei profeti che parlassero di tempi migliori.

Matura l’idea che la salvezza non sia terrena e la speranza dei profeti si proietta sempre di più verso l’escatologia.L’apocalittica è il profetismo proiettato alla fine dei tempi, al ritorno all’era primordiale, all’Eden.

Con Daniele, ultimo profeta, l’apocalittica prenderà il posto del profetismo. Per quest’ultimo il male deriva dall’uso stolto della libertà, mentre per l’apocalittica esso è frutto delle potenze demoniache.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCatechesi adulti 2002

Apocalisse di GiovanniII^ incontro

Inquadramento storico dell’Apocalisse.

La lettura e l’interpretazione dell’Apocalisse richiedono un inquadramento storico che serve a conoscere in quale ambiente culturale e politico quel libro venne scritto.

Per comprendere bene la situazione in cui si è sviluppata la Chiesa nel primo secolo dopo Cristo occorre risalire all’origine e alle cause dell’evoluzione dei costumi e della cultura nell’area del Mediterraneo orientale in cui si è svolta la storia d’Israele dal III secolo a.C. fino alla conquista romana. E’ perciò necessario parlare dell’ellenismo.

Ellenismo.L’ellenismo è stato definito come la civiltà e la storia in genere del bacino del Mediterraneo medio e orientale ed ha inizio a partire dal 333 a.C., anno della partenza di Alessandro Magno il Macedone per la conquista dell’oriente, e termina convenzionalmente nel 31 a.C

L’ellenismo si formò, quindi, nel contatto fra la civiltà greca classica ormai matura e forse decadente e le civiltà orientali (iranico-babilonese, ebraica, egiziana). Il confronto fra le civiltà orientali e quella greca ebbe come conseguenza logica l’assorbimento delle posizioni di ciascuna.

Tale confronto fu condizionato profondamente dalla situazione politica e sociale che la conquista di Alessandro Magno aveva determinato.

Dopo un primo tentativo di unione fra greci e barbari, voluto da Alessandro Magno, i diadochi (suoi successori nei vari regni ellenistici) favorirono sempre i greci e la fondazione di città o di colonie greche.

La lingua greca (Koiné), anche dopo la conquista romana, divenne la lingua franca cioè di uso comune (koiné significa “comune”) e la più diffusa del bacino del Mediterraneo orientale, in sostituzione dell’aramaico, del fenicio e dell’egiziano.

Sopravvissero alcune culture, come l’ebraica e l’egiziana, ma fortemente influenzate da quella greca.

In Gerusalemme si verificarono varie opposizioni all’egemonia ellenistica ed anche atteggiamenti contrastanti.

Con l’ellenismo, tollerante sul piano religioso, si sviluppò la credenza dell’immortalità dell’anima, già presente nella religione egizia (almeno per i giusti).

Gli orientali furono colpiti dalla diversa concezione dell’uomo portata dai greci.

L’uomo per questi era libero, mentre per gli orientali era servo del re e, a maggior ragione, di Dio.

I valori presso i greci (vedi Socrate e Platone) non erano soltanto rispettati in funzione della salvezza, ma costituivano i fondamenti della società.

I greci portarono una vitalità eccezionale e fondarono in Palestina nuove città (es. Filadelfia e Tolemaide), tutte con il teatro e la palestra.

Portarono anche una nuova concezione del rapporto tra

uomo e stato, inteso questo non più come comunità di sangue, ma come comunità di partecipazione ai diritti e ai doveri comuni sullo stesso territorio.

Si diffuse il fenomeno della diaspora degli ebrei, che costituirono numerose e consistenti comunità in tutto il bacino del Mediterraneo orientale ed anche in Libia e a Roma.

Di primaria importanza furono le comunità di Alessandria. e Leontopoli in Egitto e di Antochia in Siria.

Si noti che già prima della conquista greca comunità ebraiche erano sorte in Babilonia.Gli ebrei della diaspora parlavano greco ed accoglievano numerosi proseliti.

I soldati giudei che avevano prestato servizio presso qualche re ellenistico al ritorno in patria portavano la lingua greca, nuove abitudini e una visione del mondo molto diversa.

Molte persone delle classi più elevate cominciarono ad assumere a partire dal II sec. a.C. nomi greci e ad assorbire una nuova mentalità.

Il pensiero greco e i relativi costumi influenzarono molto il giudaismo.

Si posero in discussione varie usanze e regole (come la circoncisione) e si modificò la mentalità di alcuni strati della popolazione.

Il giudaismo che era entrato in crisi subito dopo il ritorno dall’esilio in Babilonia si divise in correnti e in sette (come i sadducei, i farisei e gli esseni).

La prima crisi si verificò appunto nel IV sec. a.C. con lo

scisma samaritano e con la costituzione di un altro Tempio sul monte Garizim.

Sopravvisse alla fine, dopo la distruzione del Tempio, solo il fariseismo che confluì poi nel cristianesimo e nel rabbinismo.

Scomparve con il 70 d.C. (distruzione del Tempio) la casta sacerdotale dei sadducei.

Note storiche

Dopo la dominazione persiana, succeduta a quella babilonese, la Palestina fu conquistata da Alessandro Magno e alla morte di questi (323 a.C.) entrò nell’orbita dei regni postalessandrini (dei diadochi). In un primo periodo appartenne ai re Tolomei (Egitto), poi nel 200 a.C. circa, dopo la battaglia di Cesarea di Filippo, passò alle dipendenze dei re Seleucidi (Siria) e vi rimase fino al 141 a.C. Dal 141 al 63 a.C. vi fu un periodo di relativa indipendenza.Il dominio romano sulla Palestina venne favorito anche dalle lotte interne e si realizzò gradualmente dopo la prima conquista da parte di Pompeo che nel 63 a.C. occupò Gerusalemme ed entrò nel Tempio.

I vari re vassalli che governavano allora la Palestina, suddivisa in più parti, erano nominati addirittura dai Romani, che rafforzarono prima della nascita di Cristo il loro potere in quei territori anche per difenderli dai tentativi di conquista dei Parti.Ottaviano, divenuto imperatore a vita con il titolo di Augusto, costruì a Gerusalemme la torre Antonia e il palazzo della città alta.

La Siria (comprendente anche la Palestina) divenne

provincia imperiale e nel 29/30 a.C. Erode iniziò la ricostruzione del Tempio.

La nascita di Cristo avvenne in un periodo in cui l’influenza dell’ellenismo aveva ormai raggiunto il massimo sviluppo, anche grazie alla conquista della Grecia da parte dei Romani che, a loro volta, assimilarono molti elementi della civiltà, della cultura e della religione dei greci.

L’apocallittica in Daniele

In Israele durante la dominazione siriana (Seleucidi) la politica di ellenizzazione dei giudei fu particolarmente forte e raggiunse l’apice con Antioco IV che operò una vera e propria persecuzione attorno agli anni dal 167 al 164 a.C. fino al punto di tentare d’impedire la circoncisione degli ebrei in Gerusalemme. Proprio in quell’epoca risulta scritto “Il libro di Daniele” nel quale è contenuta una predicazione apocalittica come messaggio di conforto e di speranza per i giudei osservanti perseguitati.

L’apocalittica (da “apocalypsis” = rivelazione, svelamento) era una letteratura che sotto forma di sogni, visioni e profezie intendeva svelare i misteri divini e soprattutto il futuro, in una nuova interpretazione della storia.

L’apocalittica in Daniele era segno dei grandi momenti di crisi politica e ideologica ed ebbe il carattere di rifiuto del presente e di raffigurazione di un migliore avvenire.

Il libro di Daniele era destinato, perciò, a sostenere e a consolare gli ebrei perseguitati e rappresentava la reazione alla riforma culturale e politica imposta dai dominatori Seleucidi. Costituisce il parallelo dell’Apocalisse di Giovanni, scritta all’epoca di un’altra grande persecuzione.

Nella parte profetica del libro di Daniele sono riportate quattro visioni in cui si racconta la storia d’Israele e appare una profezia che riguarda il messianismo, previsto

per il tempo successivo alla disfatta di Antioco IV e alla sua morte (anno 163 a.C.).

Con questo messianismo si sarebbe dovuto avere il trionfo della giustizia e della santità, culminato nella risurrezione di molti (i giudei già morti), con un’esistenza di vita eterna per i buoni oppure di perenne infamia per i malvagi e i crudeli (Dan.7,13-14; 12,2).Il nuovo regno previsto da Daniele si sarebbe esteso a tutti i popoli e sarebbe stato conferito ad un misterioso personaggio “uno, simile ad un figlio d’uomo”.

L’attesa del Messia negli ambienti apocalittici aveva portato alla convinzione che in soccorso d’Israele potesse venire non tanto un re terreno quanto un inviato da Dio, un altro salvatore preesistente e nascosto presso Dio.

Il libro di Daniele è il più antico documento incontestato sulla risurrezione dei morti contenuto nella Bibbia ebraica.

Cenni di storia della Chiesa nel I sec. dopo Cristo.

Con la predicazione e le opere di Gesù Cristo ha inizio di fatto la storia della Chiesa, fondata su Pietro, mentre convenzionalmente questa storia comincia nell’anno 30 con la discesa dello Spirito Santo e con la predicazione degli apostoli.

La prima chiesa è costituita in Gerusalemme dai 12 apostoli, dai loro discepoli e dai primi giudei convertiti, tutti di stirpe ebraica e praticanti la fede d’Israele.

Gli apostoli (chiamati in un primo tempo “i dodici”) con aggregato Paolo annunciano e spiegano la resurrezione di Gesù basandosi su:1) la testimonianza (hanno visto Cristo risorto);2) le opere di potenza (numerosi erano i prodigi e di segni compiuti dagli Apostoli (Atti 2,43);

3) il compimento delle profezie, che riguardano particolarmente i giudei, i quali devono riconoscere che con Cristo si è realizzata l’attesa di un avvenimento escatologico annunciato dai profeti.

La prima comunità di giudeo-cristiani si inserisce nel contesto generale del giudaismo dell’epoca.

Si manifesta subito l’ostilità dei grandi sacerdoti e dei sadducei.

I sacerdoti, ormai creature del potere romano (nel 30 era Anna e grande sacerdote in carica Caifa) erano gelosi dell’influenza dei cristiani sul popolo e timorosi di perdere il loro potere personale (Atti 5,17) mentre i Sadducei costituivano un partito nello stesso tempo politico e religioso, fedele all’ideale sacerdotale imperniato sul Tempio, ostili alle innovazioni in campo religioso (Atti 4,2).

L’ostilità si manifesta in successive fasi:1) primo episodio: l’arresto di Pietro e Giovanni sorpresi a predicare nel Tempio e portati davanti al Sinedrio e poi rilasciati (Atti 4,3-23);2) arresto di un gruppo di apostoli (At. 5,17-24) e loro rilascio grazie all’intervento del fariseo Gamaliele ( i farisei non condannano a priori il movimento di Gesù perché ammettono il messianismo, al quale sono invece ostili i sadducei per ragioni dottrinali);3) persecuzioni contro gli ellenisti e Stefano (36 d.C.) e martirio di Stefano;4) arresto di Giacomo, fratello di Giovanni e di Pietro (Pasqua 41 ), e suo martirio nel 43 (At.12,2) su iniziativa di Erode Agrippa re di Giuda;5) cacciata di Paolo dalla sinagoga e da Tessalonica; 6) arresto di Paolo a Gerusalemme (58 d.C.);7) lapidazione di Giacomo, fratello del Signore (nel 62 d.C:).

I farisei partecipano alla persecuzione di Stefano e degli ellenisti cristiani perché rimproverano loro il distacco dalla questione dell’indipendenza giudaica, dal Tempio che ne era il simbolo e dalla struttura legale d’Israele (At. 6,13-14).

I primi cristiani furono giudei convertiti, uniti ai dodici in Gerusalemme, e successivamente giudei del territorio circostante e di varie città dell’Asia Minore e del Mediterraneo orientale.

Fedeli al culto del Tempio, quelli di Gerusalemme avevano come capo Giacomo, fratello del Signore.

Dopo la dispersione degli ellenisti, allontanati dalla città successivamente al martirio di Stefano, il gruppo di Giacomo restò egemone della Chiesa di Gerusalemme fino all’ anno della distruzione del Tempio e della città (70d.C.). I primi cristiani, quindi, continuarono a partecipare alla vita religiosa del loro popolo, costituendo un gruppo particolare in seno alla totalità d’Israele.

Formavano, però, una comunità a parte e vennero designati dagli Atti con il nome di “ecclesìa” che in greco significa “assemblea ufficiale” e si consideravano il nuovo popolo di Dio.

Il termine “ecclesìa”, che inizialmente aveva indicato la Chiesa di Gerusalemme, si estese poi alle diverse chiese locali, per assumere successivamente il significato di Chiesa universale.

Paolo era un ebreo ellenista nato all’estero {Tarso) verso l’anno 5 d.C. e circonciso con il nome giudaico di Saulo e con quello greco romano di Paolo, come era norma per i giudei fuori della Palestina.

Era, per eredità dal padre, anche cittadino romano e

questa qualifica fu la causa del suo viaggio a Roma. Paolo si affiancò ai dodici ed operò nell’Asia minore e in Grecia (famosi sono i suoi viaggi) per finire a Roma dove fu martirizzato sotto Nerone, durante la prima persecuzione. La sua opera portò una svolta decisiva nella vita della giovane comunità cristiana.

Comparve con lui una nuova concezione del Messia d’Israele come Messia del mondo intero, degli ebrei e dei pagani.

Venne chiamato “l’apostolo delle genti” perché rivolse la sua opera principalmente all’evangelizzazione dei pagani.

Già all’epoca dell’inizio della missione di Paolo il primo cristianesimo si suddivideva in gruppi ben caratterizzati:

A) I giudei convertiti (suddivisi in due gruppi):1) giudeo-cristiani di lingua aramaica, provenienti dalla Palestina, giudei come i dodici apostoli e fedeli al Tempio e alla Legge;2) giudeo-cristiani di lingua greca, provenienti dalla diaspora (ellenisti) come Stefano e i sette in Gerusalemme critici nei confronti del Tempio e della. Legge;

B) Pagani convertiti: cristiani provenienti dal paganesimo, convertiti senza avere prima aderito al giudaismo, non sottoposti alla circoncisione e affrancati dalla Legge, di lingua greco-latina.

Questi divennero ben presto la stragrande maggioranza dei cristiani, man mano che procedeva 1’evangelizzazione.

Il primo centro cristiano dopo Gerusalemme fu Antiochia

(in Siria), luogo di popolazione cosmopolita e di cultura greca, grande polo di espansione del cristianesimo nei primi 15 anni.

Apparteneva evidentemente al mondo ellenistico e vi si rifugiarono i giudei ellenisti, cacciati da Gerusalemme dopo il martirio di Stefano che vi fondarono la Chiesa locale.

Anche la comunità cristiana di Damasco venne fondata da questi ellenisti.Proprio ad Antiochia, che fu la prima sede di una comunità di cristiani provenienti dal paganesimo (quindi non giudei), venne dato per la prima volta il nome di “cristiani” ai seguaci della nuova religione (At. 11,26).

Il ministero di Paolo ebbe inizio nell’Asia Minore nel 45 d.C. e si estese poi alla Grecia.

Proprio a seguito dei contrasti fra cristiani provenienti dal paganesimo e giudeo-cristiani, Paolo cominciò ad elaborare la teoria del rifiuto dei giudei e della conversione dei pagani (At. 13,46-47).

Pietro evangelizzò il litorale mediterraneo e poi Roma, dove risulta presente già nel 44 d.C. sotto 1’imperatore Claudio e dove subirà poi il martirio al tempo della persecuzione di Nerone.

Attorno al 49 d.C. si verificarono due fatti importanti per la cristianità: 1) il Concilio di Gerusalemme2) l’incidente di Antiochia

•Nel Concilio di Gerusalemme venne regolata definitivamente la questione della circoncisione dei Gentili (pagani), i quali ne finirono esentati.

Si resero più evidenti i contrasti fra cristiani provenienti dal paganesimo e fra quelli provenienti dal giudaismo, questi ultimi legati alla Legge, alle tradizioni e al culto d’Israele .

Il Concilio fu importante per le relazioni tra cristianesimo e giudaismo, ma anche per lo. sviluppo della comunità cristiana di Gerusalemme.

Pietro e Giovanni vi rappresentavano i “dodici” e Giacomo la comunità giudeo-cristiana. di Gerusalemme; erano presenti anche Paolo e Barnaba.

•Ad Antiochia il contrasto fra le posizioni dei giudeo-cristiani, in parte condivise da Pietro, e quelle di Paolo si fa più evidente.

•Paolo, che all’episodio fa cenno nell’epistola ai Galati (Gal. 2), chiude da questo momento definitivamente con il giudeo-cristianesimo e si dedica soltanto alla chiesa nell’ambiente greco-romano, cioè lavora alla conversione dei pagani.

Continua intanto la frattura tra il cristianesimo e la comunità giudaica, che troverà il suo compimento nella scomunica ebraica.

III^ incontro La scomunica-ebraicaDopo la catastrofe del 70 d.C. (distruzione del Tempio e di Gerusalemme e sterminio dei suoi abitanti) il fariseismo aveva stabilito la sua sede vicino a Giaffa e mirava ad una riforma religiosa e all’esclusione delle varie sette dissidenti ed eretiche che si erano costituite negli ultimi tempi.

Nel Concilio tenuto tra il 90 e il 100 fu pronunciata la famosa scomunica degli eretici e dei cristiani, che furono aggiunta alla preghiera delle benedizioni, recitate tre volte al giorno, (...”I nazrim periscano all’istante”...).

Quest’atto comportò la definitiva esclusione dei giudeo-cristiani dalla sinagoga.

Dopo questa scomunica le comunità giudeo-cristiane ben presto si estinsero e la Chiesa assunse sempre più un carattere greco-latino, anche a causa della sua notevole espansione in tutti i territori dell’Impero romano.

Clemente, vescovo di Roma (dopo Pietro, Lino e Cleto), assunse la direzione della Chiesa nell’88 e verso il 100 scrisse un’epistola ai Corinzi in cui parla della Chiesa di Roma, presentandosi come l’erede della tradizione di Pietro e di Paolo.

Atteggiamento dei cristiani verso l’imperoAll’inizio i cristiani non manifestarono alcuna opposizione alle leggi di Roma e si comportarono come sudditi rispettosi (Paolo stesso invitava i cristiani a sottomettersi al potere romano). Però, dopo l’inizio delle persecuzioni e specialmente dopo Nerone, l’impero fu considerato un nemico, tanto da

essere simboleggiato nell’Apocalisse come una bestia che sale dal mare.

Roma vi è indicata addirittura come Babilonia.

Ostilità verso i cristiani e loro persecuzione da parte dei romani

Il cristianesimo fu considerato dai Romani come una religione rivoluzionaria, che non aveva carattere nazionale e che condannava come false tutte le altre religioni tranne l’ebrea.

I cristiani furono osteggiati anche dai giudei e accusati ingiustamente d’ostilità verso il genere umano, di adorare una testa d’asino, di compiere riti segreti con immolazione di bambini (di cui erano mangiate le carni) e, addirittura, di pratiche incestuose.

Il primo gesto d’ostilità accadde con l’allontanamento dei giudei (compresi i cristiani) da Roma al tempo dell’imperatore Claudio (49 d.C.) a causa di contrasti fra le due comunità.

Avvenne, poi, la persecuzione sotto Nerone (dal 64 al 66) a causa dell’accusa ai cristiani (già circondati di ostilità) di avere provocato l’incendio di Roma.

In quel periodo va collocata la morte per martirio di Pietro e di Paolo.

In Palestina l’imperatore Vespasiano, dopo la distruzione di Gerusalemme, fece ricercare ed uccidere tutti i parenti di Gesù poiché discendenti della casa di Davide.

La 2° persecuzione, molto violenta, avvenne sotto l’imperatore Domiziano (91 - 96) e colpì i cristiani anche tra gli intellettuali a Roma.

Di questa persecuzione in Asia Minore abbiamo una prova nell’Apocalisse, il cui genere letterario è anche espressione di un messaggio di speranza rivolto ai fedeli nella prova.

L’ultima e 3° persecuzione del I° secolo dopo Cristo, subito dopo quella di Domiziano, si ebbe con Traiano (98 circa), durante la quale fu martirizzato Simeone, secondo vescovo di Gerusalemme, appartenente alla casa di Davide.

Tavola cronologica• 333 a.C. Alessandro Magno conquista la Siria. Fine

dell’epoca persiana e inizio dell’epoca ellenistica.• 323 a.C. Morte di Alessandro Magno a Babilonia.• 319-287 a.C. I Diadochi si dividono l’impero fondato

da Alessandro Magno•fino al 200 a.C. La Giudea è sottomessa ai Tolomei

(Egitto) • dal 200 al 142 a.C. La Giudea sottomessa ai Seleucidi

(Siria). • dal 141 al 63 Indipendenza della Giudea con vari

re. Gerusalemme ellenizzata. Periodo di guerre di conquista degli altri territori della Palestina e di lotte di successione.

• 169 a.C. Antioco IV di Siria saccheggia il Tempio di Gerusalemme..

• 167-164 a.C. La gran persecuzione di Antioco IV. Sacrifici a Giove nel Tempio di Gerusalemme.

• 164 a.C. Libro di Daniele. Fine di Antioco IV.• 163 a.C. Antioco V restituisce ai Giudei la libertà

religiosa.• 63 a.C, Pompeo conquista Gerusalemme e la Giudea

perde l’indipendenza.• 37 a.C.-4 a.C. Erode, alleato dei Romani, regna sulla

Palestina.• 31 a.C. Ottaviano sconfigge Antonio nella battaglia

di Azio. Fine dell’epoca ellenistica.• 29-30 a.C. Erode inizia la ricostruzione del Tempio.• 29 a.C.-14 d.C Augusto imperatore dei Romani.• 7-6 a.C. ca. Nascita di Gesù di Nazaret.•Tiberio imperatore dei Romani.• 30 Venerdì precedente la Pasqua: morte di Gesù.

Pentecoste - Effusione dello Spirito Santo sulla Chiesa. La prima comunità.

• 33 Elezione dei sette diaconi ellenisti a Gerusalemme (tra cui Stefano).

• 36 Martirio di Stefano. Cacciata degli ellenisti da Gerusalemme. Conversione di Paolo.

• 37 ca. Fondazione della Chiesa di Antiochia. • 41-54 Claudio imperatore.• 43 Martirio di Giacomo, fratello di Giovanni. • 49 Espulsione dei Giudei da Roma. Concilio di

Gerusalemme.• 50 ca. E’ messo per iscritto in aramaico il Vangelo

orale di Matteo. • 51 Lettere di Paolo ai Tessalonicesi.• 5l-68 Nerone imperatore.• 62 II Sommo Sacerdote Anan fa lapidare Giacomo

fratello del Signore. • 64 ca. Vangelo di Marco. Martirio di Pietro a Roma.• 64 - 67 Ia persecuzione romana.• verso il 70 Vangelo greco di Matteo. Vangelo di Luca

e Atti degli Apostoli.• 66 - 70 Rivolta dei Giudei e guerra giudaica che

si conclude con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Gli abitanti sono uccisi o venduti come schiavi.

• 67 Martirio di Paolo a Roma.• 68 Suicidio di Nerone.• 69 - 79 Vespasiano imperatore.

• 79 - 81 Tito imperatore.• 81 - 96 Domiziano imperatore. • 91 - 96 IIa persecuzione romana. • 96 - 98 Nerva imperatore.• 95 circa Edizione definitiva dell’Apocalisse.• 98 - 100 Vangelo di Giovanni. Morte di Giovanni. • 98 - IIIa persecuzione. Traiano imperatore.• tra il 90 e il 100 Scomunica Ebraica.• verso il 100 Epistola di Clemente, vescovo di Roma,

ai Corinzi.

GIOVANNI BATTISTA

Prima di affrontare i brani apocalittici del Nuovo Testamento è opportuno parlare di Giovanni Battista, che fa da “ponte” tra l’Antico e il Nuovo.

E’ importante evidenziare che i profeti hanno come contenuto del loro messaggio l’aspetto più propriamente sociale della realtà.

Infatti, essi dicono: Convertitevi! State rubando agli orfani; state distruggendo le case delle vedove; vi arricchite ingiustamente; non offrite i sacrifici dovuti. Su tutto questo il Signore vi giudicherà.

I profeti erano profondamente inseriti nella società del tempo e giudicano gli avvenimenti con gli occhi di Dio.

L’apocalittica, invece, non ha un contenuto sociale, ma consolatorio.

Allora, Giovanni Battista è un profeta vero e proprio oppure il suo messaggio ha già dei contenuti apocalittici?

Quando egli dice: convertitevi; voi soldati

accontentatevi della paga pattuita; voi pubblicani non fate la “cresta” sulle tasse, si esprime come un profeta sociale che, però, assume dei connotati apocalittici quando afferma: “Già la scure è posta alla radice...” Oppure: “Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma Colui che viene dopo di me è più potente di me... egli vi battezzerà in Spirito ~ Santo e fuoco.” (Mt. 3,10-11).

Giovanni Battista con la sua predicazione annuncia che sono vicini i tempi ultimi e che il suo battesimo ha una funzione preparatoria

Il Battista, anche grazie a Gesù era paragonato ad Elia, scomparso dalla terra perché portato in cielo su un carro di fuoco.

Ai tempi di Gesù si era diffusa l’idea che il profeta Elia, discendendo dal cielo, avrebbe preparato il terreno al Messia. Ecco, il Battista è un precursore che occupa il posto di Elia, atteso per gli ultimi tempi secondo la tradizione popolare, e che introduce contenuti apocalittici nei Vangeli.

Consideriamo ora alcuni brani apocalittici del Nuovo Testamento:

1) Lc 17,22-37. “Il giorno del Figlio dell’uomo”.Già il titolo ci richiama la figura strana, misteriosa del “Figlio dell’uomo” presente nel libro del profeta Daniele.

Al di là delle immagini bibliche del diluvio e della distruzione di Sodoma (in cui pare che il giudizio di Dio proclami nel modo più chiaro e più forte lo sterminio dei peccatori) notiamo che qui si vuole rilevare:• la repentinità dell’evento

• la presenza di falsi profeti.

Una delle caratteristiche di Gesù sarà di prendere le distanze da coloro che volevano conoscere esattamente il luogo e il tempo di quell’evento.

Notiamo che nel nostro brano è scritto “l’uomo sarà preso e l’altro lasciato”. Il termine “preso” rappresenta coloro che saranno salvati, mentre il termine “lasciato” simboleggia quanti si perderanno. E ciò significa certamente che nel giorno del “Figlio dell’uomo” ci sarà un giudizio.

2) Luca 22,28-30.E’ uno dei discorsi pronunciati nell’Ultima Cena nel situazione della prima Messa celebrata da Gesù che dice ai suoi apostoli: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove... e siederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele.”

Perché questo numero? Perché dodici apostoli?

Perché dodici è un numero escatologico, apocalittico, che ci porta agli ultimi tempi perché al tempo di Gesù le dodici tribù d’Israele non esistevano più.

Il numero 12 è citato per indicare la ricostruzione del “nuovo” Israele che è principio dell’Israele “finale”.

Ai tempi degli evangelisti i primi cristiani credevano in un imminente ritorno di Gesù , ossia ritenevano che il giorno del giudizio fosse vicinissimo, tanto da pensare di non morire prima di aver visto il ritorno di Cristo.

E’ facile immaginare la grandissima tensione esistente. Ma quando l’evento atteso non occorse, subentrò una gran delusione con conseguente disimpegno e lassismo.

Gli evangelisti e Paolo intervennero energicamente, invitando i cristiani alla testimonianza e alla preparazione sulla terra del regno del Salvatore.

Gesù è un apocalittico? Il centro e il contenuto fondamentale della sua predicazione sono apocalittici. “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” sono le sue prime parole

Infatti il regno di Dio si sta realizzando con la presenza di Gesù che ha già inaugurato i tempi ultimi e che offre al discepolo una serie di comportamenti (codice morale) non per prepararsi “a” (al Paradiso), ma per vivere intensamente sulla terra.

Per es. nel “discorso della montagna” è affermato “Beati i poveri in spirito perchè di essi è il regno dei cieli”.

3) Lc. 10,23-24.Ecco, il regno si è già in parte realizzato.“Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi affermo che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono”.

Adesso si sta realizzando il regno di Dio che ha una dimensione anche futura (“venga il tuo regno” recitiamo nel “Padre nostro”). Siamo nelle dinamica cristiana che qualcuno ha sintetizzato nell’espressione “già e non ancora”.

In questa prospettiva leggiamo in

4) Mc. 4,26-32 due belle parabole sul regno, nelle quali

si parla di questa realtà che c’è già in parte.Troviamo due paragoni che ci fanno intravedere il regno del Signore con quel semino che c’è già , ma che tende a diventare sempre più grande.

La pienezza del regno si realizzerà soltanto quando avverrà la mietitura. Noi siamo chiamati nella fase tra il seme e la mietitura a costruire il regno di Dio giorno per giorno.

Quanto abbiamo letto rappresenta solo una piccola anticipazione delle parabole evangeliche che parlano del regno di Dio e che hanno, quindi, un contenuto escatologico.

5) Mt. 22,1-14.Si noteranno sempre due aspetti leggendo le parabole citate: • individuale - il giudizio per te;• comunitario - il giudizio per tutta l’umanità.

Qualcuno vede in questo la differenza tra il giudizio personale al momento stesso della morte e il giudizio finale in cui tutta l’umanità nella resurrezione riceverà il suo posto definitivo.

Nelle lettere di S. Paolo sono evidenti alcuni elementi apocalittici dovuti soprattutto ai problemi sorti nelle varie Chiese.

Con la folgorazione sulla via di Damasco inizia per Paolo un’era nuova della vita, una preparazione a quei tempi ultimi che Gesù aveva annunciato, è il suo stesso modo di vivere che lo porta a capire il significato fondamentale dell’Apocalisse, o quanto meno dello stile apocalittico, che riguarda gli ultimi tempi (escatologici).

I Tessalonicesi 4, 13-18.

Sicuramente questa lettera scritta intorno al 50 d.C. costituisce il testo più antico del N.T.Nella comunità era vivo il problema concreto di sapere quale sarebbe stata la sorte dei cristiani già morti al momento della venuta del Signore, ritenuta imminente.

S. Paolo risponde agli interrogativi affermando che né i vivi né i morti avranno particolari vantaggi al momento finale, perché “prima risorgeranno i morti in Cristo: quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro...” perché Cristo è morto e Risorto.

Per la giovane comunità cristiana, il rischio del disimpegno era forte; infatti, se il Signore verrà dopo la mia morte che senso ha impegnarsi?

Questo brano apocalittico, che ci trasporta alla venuta del Signore è un invito a non scoraggiarsi, a progredire perché il bene operato sarà comunque tenuto in considerazione.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCatechesi adulti 2002

Apocalisse di GiovanniIV^ incontro

Lettura del Prologo: cap. 1, 1-3. Inizio drammatico e solenne.Nel libro stupendo dell’Apocalisse noi troviamo alcuni elementi caratteristici dell’ apocalittica, come il riferimento a fatti concreti, che però devono essere interpretati alla luce di Dio e che vengono narrati attraverso un simbolismo molto complicato, ma anche raffinato.

L’autore definisce la sua opera come una profezia e si qualifica come un profeta.

Ricordiamo in proposito che l’apocalittica prende il posto del profetismo e che qui siamo di fronte ad un testo apocalittico con caratteri profetici.

Sembra di tornare indietro nei secoli per la presenza di tante esortazioni, di tanti inviti alla conversione.

Rilettura del v.3. “Beato che legge...”. L’espressione significa che si tratta di un testo destinato alla lettura nell’assemblea liturgica (oggi diremmo durante la Messa), di grande ricchezza, sottolineata dal rapporto esistente fra lettore e uditori.

Quindi é un libro apocalittico, profetico e liturgico.

C’è già il significato della lettura della parola di Dio durante la Messa: “Beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte...”

Struttura 1 - Prologo 1,1-32 - Epilogo 22, 6-21

Il testo contenuto fra il prologo e l’epilogo si suddivide in due parti:

a - 1,4 - 3,22 .Contiene le famose sette lettere, che sono messaggi inviati alle Chiese dell’Asia che corrisponde all’attuale Asia Minore).b - 4,1 - 22,5

Si suddivide in 5 sezione:1) capitoli 4 e 5 - Presentazione dei personaggi che

successivamente entreranno in azione: Dio, corte celeste, Agnello. Libro dei sigilli.

2) 6,1 - 7,17 - Inizia l’ azione e viene presentata l’ apertura dei 7 sigilli. Si tratta di una prima esposizione, più profonda dell’introduzione, degli elementi che verranno poi sviluppati.

3) 8,1 - 11,14 - Qui abbiamo la successione delle sette trombe.Si entra maggiormente nel vivo dell’ azione e comincia il confronto tra il bene il male che nel corso della storia avrà alterne vicende. Viene approfondita in particolare la figura dei protagonisti negativi.

4) 11,15 - 16,16 - Sono proposti tre grandi segni: il drago, la donna e i sette angeli con le coppe. Assistiamo ad un crescendo della lotta tra il bene e il male fino al suo momento culminante, il grande giorno in cui uno degli elementi vincerà.

5) 16,17 - 22,5 - Ecco la conclusione della vicenda con la condanna definitiva e irreversibile del male e 1’esaltazione del bene. E’ il trionfo di Dio e del suo popolo che confluisce nella grande immagine della Gerusalemme celeste.

AutoreL’autore si definisce “servo Giovanni” e mai “apostolo Giovanni”, anche se fin dall’antichità l’Apocalisse era attribuita allo stesso autore del Vangelo.

Nell’Apocalisse sono contenute alcune notizie sul suo autore.

Prima di tutto 1’Autore afferma di essere un “servo” (cap. 1,1). E’ un’espressione che troviamo in altri testi riferita anche a Pietro, Giacomo e a Paolo (che si definisce più volte “servo di Gesù e nell’A.T. ad Abramo, Mosé e Davide. Notiamo allora un ideale collegamento fra Antico e Nuovo Testamento: sono tutti servi di Dio.

Il nostro autore però, contrariamente a quanto fanno Pietro e Paolo, non rivendica il titolo di “apostolo”.

Infatti Pietro e Paolo di definiscono entrambi “servo di Gesù Cristo e apostolo per volontà di Dio”, mentre Giovanni si considera solo “servo” (termine anche tecnico per designare un appartenente alla comunità cristiana).

Al v.9 del cap.l Giovanni dice di essere “...vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù.”

Sappiamo cosi con certezza che Giovanni è un fratello cristiano. Per la precisione la parola “compagno’’ andrebbe tradotta “associato”, termine raro che compare solo tre volte nel N.T. e che designa una persona che partecipa con altre alla salvezza (e quindi si ritiene un salvato) perché è stato fedele nella tribolazione, nel regno e nella costanza. Questi tre termini (tribolazione, regno e costanza) erano molto in voga alla fine del I secolo e designavano il complesso dell’essere cristiano.

In altre parole il cristiano era tribolato, perseguitato, ma regnava con Gesù e con Lui viveva nella costanza, ossia nella testimonianza che veniva resa ai pagani. (Ricordiamo in proposito un brano di una lettera, di S. Paolo in cui si dice che Gesù diede la sua bella testimonianza davanti a Pilato). Tribolazione, regno e costanza erano indicativi di un cristiano serio, tanto serio da trovarsi per la sua testimonianza in un luogo di pena come l’isola di Patmos che era una colonia penale.

EpilogoColleghiamo l’introduzione con il cap. 22,18-19 e notiamo un ritorno all’idea di profezia. L’autore dell’Apocalisse è sicuramente un cristiano impegnato ad alto livello nella comunità, talmente innamorato di Cristo da vivere la sua pena proprio in quanto

seguace di Gesù Cristo.

Epoca della composizioneL’Apocalisse è indirizzata alle sette Chiese dell’Asia, perseguitate e impegnate a definire il proprio rapporto con il giudaismo e con già al loro interno il male dell’eresia. Si tratta quindi di Chiese e di comunità già sviluppate (non siamo certamente negli anni più vicini a Cristo).

In particolare, la presenza dell’eresia sta a significare che il pensiero teologico è già cresciuto e che sono presenti diverse interpretazioni di Cristo.

Sicuramente siamo in un tempo di tribolazione, ma non di disperazione. Infatti la parola “costanza” ricorre nell’Apocalisse sette volte ed implica una “fedeltà nonostante tutto”.

La Chiesa non è distrutta perché, nonostante la tribolazione, i cristiani restano fedeli a Cristo e questo apre i cuori alla speranza.

Fra gli elementi presenti nell’Apocalisse ricordiamo gli inni liturgici, molto elaborati e di altissima teologia, e le grandi tensioni interne alle comunità cristiane.

Dopo la scomunica dei cristiani da parte degli ebrei molti si chiedono se abbia ancora valore 1’Antico Testamento.

Prevale l’intuizione che non si possono rinnegare le radici comuni.Un altro motivo di tensione nelle varie comunità è costituito dal difficile rapporto con 1’autorità imperiale di Roma.

Tutti questi elementi ci aiutano a definire 1’epoca di composizione del libro: tra il 90 e il 100 d.C.

Roma è considerata la bestia con le sette teste, che ha origine dai sette colli. Possiamo dire con certezza che siamo nell’epoca della tremenda persecuzione di Domiziano (morto nel 96 d.C.),

che ha inizio nel 95.

Si tratta di una persecuzione più dura di duella di Nerone che si era accanito contro i cristiani, soprattutto perché accusati di essere responsabili dell’incendio di Roma.

Domiziano inizia la persecuzione dei cristiani dalla cerchia dei suoi parenti. Tutto ciò significa che il cristianesimo aveva raggiunto i ceti più alti della società.

L’imperatore perseguita un cugino cristiano che in quell’anno era console e in tale veste doveva presiedere al culto pubblico, trovandosi così ad operare una scelta fra Cristo e Domiziano che pretendeva di essere chiamato “dominus et deus” (signore e dio). Non era possibile che un cristiano venerasse come dio un tiranno.

Gli storici sostengono che Domiziano avesse capito per primo che il cristianesimo minava alle radici la base del potere imperiale.

Solo gli ebrei erano esentati, dietro pagamento di una tassa di 10 dracme, dall’obbligo di sacrificare all’imperatore.

Pare anche che Vespasiano avesse esteso ai cristiani tale possibilità, sicuramente per poterli individuare meglio.

La persecuzione di Domiziano costituisce una vera e propria svolta con intimidazioni sempre più gravi.

L’accusa che il diritto romano formula verso i cristiani è di “impietas” (empietà, ateismo) in quanto non riconoscono le divinità di Roma. Tale accusa comporta la pena di morte.

La prima vittima della persecuzione fu, appunto, il cugino dell’imperatore condannato a morte, mentre la cugina venne esiliata su un’isoletta.

Poiché gli studiosi collocano tale persecuzione nel 95, la data

dell’Apocalisse può essere credibilmente situata tra il 95 e il 96, anni in cui hanno avuto inizio le persecuzioni codificate dal diritto romano.

L’Apocalisse è un discorso profetico e, come tale, non può avere una trattazione sistematica.

Dobbiamo trarre, di volta in volta, le verità che l’autore ci propone.

Quali sono le tematiche più importanti che costituiscono la struttura teologica portante del nostro libro?

1° elemento teologico portante: Dio.Nell’Apocalisse Dio è presentato con i termini dell’Antico Testamento, come ad esempio “santo”, “giusto”, “onnipotente”.

Ovviamente si aggiunge poi la connotazione cristiana, tanto che nell’Apocalisse e nel N.T. Dio è detto “Padre di Cristo”.

(Notiamo, per inciso, che proprio partendo dal nostro libro si può leggere tutta la Bibbia a ritroso.) Negli ultimi anni del I secolo d.C. la teologia stava elaborando concetti che per noi oggi sono scontati. Proprio in quel periodo iniziarono i contrasti tra i cristiani per il sorgere delle prime eresie, come l’eresia gnostica, una delle più gravi dell’epoca, secondo la quale Jahwe, il Dio dell’A.T., malvagio e vendicativo, non sarebbe stato il vero Dio, ma un “eone”, una creatura eccelsa e malvagia la quale, per ingannare gli uomini, si spacciava per Dio.

Sorse così la necessità di un’altra realtà, questa volta buona, Gesù, che rivelasse il vero Dio santo e misericordioso.

Dio viene definito “Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” in Ap.1,8, con evidente richiamo alla risposta data a Mosè nell’Esodo: “Io sono colui che sono!” (Es.3,14). Jahwe è colui che è.

La rielaborazione cristiana del concetto di Dio ci dà il senso dell’eterno. Infatti Egli mette in moto e conduce lo sviluppo della salvezza e non è come il “motore immobile” di Aristotele che dà inizio al mondo e poi lo abbandona.

Il processo di salvezza ha lo scopo di superare poco per volta il male. Secondo l’Apocalisse, infatti, Dio opera comunque e gradualmente smantella il male.

Alla fine ci sarà il “giorno di Jahwe”, secondo i profeti. Dio rinnoverà tutto e con il suo popolo vivrà in una intimità profonda.

2° elemento teologico portante: Cristo.Cristo per il nostro autore è “l’Agnello”, “il testimone fedele”, è “l’Amen” (= così è), “il Verbo di Dio”, “il Figlio di Dio”, “la stella luminosa del mattino”.

Il tema centrale è così sintetizzato: Cristo morto, risorto e vivente guida la Chiesa.

L’Apocalisse ci dice che le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa che è guidata da Cristo vivente e risorto. Cristo guida la sua Chiesa con una duplice funzione:

a) giudica la Chiesa con la sua parola e la purifica;

b) l’aiuta a sconfiggere tutte le forze ostili che la insidiano dall’interno e dall’esterno.

Attraverso la Chiesa, attraverso la comunità da Lui guidata, Cristo prolunga la sua presenza personale che è vittoriosa in tutto. Ecco perché l’Apocalisse è un libro di speranza.

3° elemento teologico portante: la Chiesa.Nell’Apocalisse è già presente una bella visione della Chiesa universale (che comprende tutte le comunità sparse nel mondo allora conosciuto, cioè le Chiese locali).

L’ecclesiologia del nostro libro è richiamata dal Concilio Vaticano

II: la Chiesa universale è costituita dalle Chiese locali che sono appunto l’immagine, in piccolo, di quella universale.

Si tratta di comunità che crescono tra le molte difficoltà che si presentano al tempo della stesura dell’Apocalisse e che hanno una meta sicura: la Gerusalemme celeste, cioè il momento in cui la Chiesa sarà perfetta. Allora sarà la sposa totalmente integra di Cristo. Fino a quel momento la Chiesa avrà la duplice componente di santa e peccatrice.

Altri elementi importanti ma non diffusi come gli altri nel nostro testo sono:

1) lo Spirito Santo. L’Apocalisse, infatti, è il libro del N.T. che meglio riesce a raggiungere l’idea trinitaria già presente nel Vangelo di Giovanni. Leggiamo in proposito i vv.4^ e 5^ del cap.1. Si tratta di un saluto perfetto nel quale è presente una formula trinitaria perfetta, dove lo Spirito Santo è rappresentato dai sette Spiriti, Spirito settiforme;

2) gli angeli che danno una manifestazione concreta e complessa di Dio. Diversi angeli collaborano con lui per realizzare il piano di salvezza mentre altri vi si oppongono;

3) l’escatologia (= discorso sulle cose ultime). Apparentemente nell’Apocalisse compaiono due elementi contraddittori:

a) una realtà eterna che va al di là del tempo, immobile. L’autore fa delle allusioni e dei riferimenti non concreti a determinate situazioni, tanto che tutto sembra collocato su uno sfondo irreale ma eterno;

b) descrizioni e riferimenti a fatti concreti e cronologicamente individuabili.

E’ facile conciliare questi due elementi perché l’Apocalisse ci dice che determinati avvenimenti accadono oggi (95 d.C.) ma accadranno anche in futuro (per es. le persecuzioni).

Un fatto reale come la persecuzione di Domiziano si trasfigura e diventa simbolo di tutta la storia della Chiesa, che sarà costellata di avvenimenti simili (persecuzioni ed eresie nelle varie parti del mondo in epoche successive). Il fatto diventa tipico e sarà ripetuto per millenni. E’ un’annotazione importante: il tempo scorre verso una meta, verso l’eternità. Quindi l’Apocalisse ha una bellissima teologia della storia, di una storia guidata da Dio, che è la storia di ciascuno, della Chiesa, dell’umanità: storia della salvezza in cui contempliamo l’amore di Dio. Il Signore guida la storia misteriosamente, secondo un piano che prevede comunque la salvezza.

Il cammino della Chiesa nella storia delle salvezza è tra il “già” e il “non-ancora”, in uno stato di purificazione interiore, sottomessa al giudizio di Cristo e dello Spirito.

La comunità ecclesiale così purificata sarà in grado di fare una riflessione sapienzale sul mondo e su di sé per cogliere le realtà autentiche nascoste sotto le apparenze.

Per esempio, il Cap.17,1-7.La donna qui citata altri non è che Roma divinizzata. Proviamo a pensare a un tempio con la statua della dea Roma (esattamente come quella descritta nel brano) che la gente di allora era abituata a vedere. Non per nulla le città dell’Asia Minore erano state le prime ad accogliere il culto dell’imperatore e della dea Roma, che dovevano essere i culti unificati di tutto l’impero. Questi versetti dicono ai fedeli che la statua che vedono in realtà rappresenta una prostituta, non una dea. Dio porta a una realtà autentica ciò che era stato mascherato. E una delle funzioni della 2^ parte del libro è proprio quella di aiutare i lettori a cogliere la realtà vera. Inoltre il nostro lavoro è un esempio di lettura sapienziale della storia (degli avvenimenti,

delle persone e delle situazioni). Il Signore ha rivelato i segreti a Giovanni che ne rende partecipe la comunità.

I simboli dell’Apocalisse.1) Simboli biblici, numerosi.Vengono ripresi concetti già presenti nell’A.T. come ad es. il cielo, simbolo della trascendenza divina, il corno, simbolo della potenza, la vendemmia, simbolo del giudizio divino.2) Simboli cosmici.Soli di diverso colore, luna color sangue, disastri. Vogliono comunicarci che il Signore è l’unico padrone del creato e che con la sua onnipotenza, se vuole, può incidere a suo piacimento nella storia del mondo.3) Simboli teriomorfi.Gli animali ai quali si riferisce (per es. l’agnello, il leone, le cavallette) servono all’autore per dire che nella storia ci sono realtà non pienamente spiegabili.4) Simboli aritmetici.Sono molto complessi e partono da un presupposto orientale, secondo il quale ogni realtà è misurabile e quantificabile compiutamente. Il simbolo più comune è il numero 7 che indica la totalità, la perfezione. Lo stesso vale per i suoi multipli. La metà di 7 o le frazioni di 7 sono indice di imperfezione, di non pienezza.5) Simboli cromatici.Alcuni colori hanno equivalenze precise. Ad esempio “bianco” è il colore della trascendenza, “verde” il colore della saggezza e del comando.

Nell’Apocalisse troviamo almeno 500 riferimenti diretti e allusivi dell’Antico Testamento. Lo steso procedimento di citazioni indirette è presente nel Vangelo di Gv. il quale solo nell’ultimo capitolo riporta l’unica citazione diretta. L’autore interpreta e rielabora alcuni riferimenti per farci arrivare alla “interpretazione tipica”. In alcuni casi l’interpretazione della citazione è fornita dalla Bibbia stessa. Un brano viene ripreso nei libri successivi in un determinato contesto che gli dà un certo significato. Ricordiamo a questo proposito il salmo 90 (91) che

viene citato da Satana nell’episodio della tentazione del Vangelo di Mt. (4,5-6). Qui Satana dà un’interpretazione messianica al salmo proprio nei versi in cui si parla del Messia. Potremmo dire che Apocalisse costituisce una rilettura cristiana dell’A.T..

Considerazioni generali.Nell’Apocalisse sono presenti due elementi che si completano a vicenda:1) il mistero, cioè il piano di salvezza di Dio, che si manifesta in modo cifrato, simbolico;2) la sapienza, la virtù che ci permette di cogliere il significato dei simboli, che ci consente di arrivare all’autenticità del piano di salvezza.Concludendo possiamo definire l’Apocalisse un libro rivoluzionario perché sovverte gli ordinamenti dall’alto, sottoponendoli (non solo quello romano, ma tutti quelli che seguiranno nel corso della storia) al giudizio di Dio. E’ Dio che giudica la validità di una forma di governo. Si scopre così che ogni potere umano è caduco.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCatechesi adulti 2002

Apocalisse di Giovanni

V^ incontro

“NON TEMERE ! IO SONO IL VIVENTE” ( Ap. 1, 9 – 20 )

Il Signore Risorto si presenta alla chiesa aprendole il cammino della storia

OBIETTIVI:

• Scoprire che il Signore è la risorsa su cui possiamo sempre contare nel

cammino nella soria

• Celebrare il “giorno del Signore” come memoria di una presenza costante di

Cristo tra di noi

ATTEGGIAMENTI

• Le nostre relazioni possono diventare il segno del come Dio entra in

comunicazione con noi

• Vivere la domenica come momento comunitario che ci aiuta a recuperare il

senso del nostro cammino cristiano

• Essere consapevoli che la presenza del Signore ci rende capaci di annunciare

il Vangelo

LETTURA DEL TESTO

• Cosa ti suscita la lettura di questo testo ?

• Che domande nascono in te ?

• Le immagini presenti nel brano cosa vogliono sottolineare ?

• Immaginate che questo testo sia la trama di un film di cui dovete scegliere il

titolo. Che titolo dareste ? In quanti tempi lo dividereste ?

Nell’Apocalisse tutto è rivelazione di Gesù che si serve di un uomo, Giovanni, per trasmettere le “cose” ai suoi servi, cioè a coloro che credono in Lui e che beneficeranno di tale rivelazione.

Potremmo dire, sintetizzando, che:1. il protagonista è Gesù;2. il mediatore è Giovanni;3. i destinatari sono i servi.

E’ così succintamente spiegato anche il ruolo della Chiesa che ancora oggi funge da mediatrice, come Giovanni, fra Cristo e i suoi servi.

Chi sono i “servi”, i destinatari dell’Apocalisse? I destinatari sono “colui che legge” e “coloro che ascoltano la parola” (v. 3) e sono introdotti dalla prima delle sette beatitudini contenute nel testo.

“Beato chi legge e beati coloro che ascoltano”.(v. 3).

Questa prima beatitudine ci richiama il contesto liturgico della Messa: c’è chi proclama e chi ascolta e si fa istruire dalla parola di Dio.

E proprio grazie a questa beatitudine comprendiamo che le “cose” scritte nell’Apocalisse sono per il bene di chi legge e di chi ascolta.

Ne consegue che non si tratta di un libro catastrofico, ma di uno scritto di speranza, di felicità suprema, che si inserisce nell’annuncio della buona notizia alle Chiese perseguitate.

L’Apocalisse vuol far luce sul mistero di Cristo e della Chiesa e sulla storia umana e l’illuminazione progressiva ci porterà alla felicità.

Il contenuto del nostro libro è costituito da “le cose che devono presto accadere” (v. 1), cioè dalla storia umana illuminata da Dio che ci rivela, dal suo punto di vista, tutto ciò che deve accadere.

Nei versetti del prologo sono evidenti delle indicazioni di carattere temporale, cronologico. La prima è costituita dall’espressione: “le cose che devono presto accadere” (v. 1).

“Presto” andrebbe qui tradotto “all’improvviso”, “di sorpresa” e, quindi, avremo “le cose che devono accadere all’improvviso”.

La seconda indicazione, la più importante, è data dall’espressione: “Perché il tempo è vicino” (v. 3) in cui è contenuta una parola-chiave usata non solo nell’Apocalisse, ma in tutto il Nuovo Testamento: “cairòs” che significa il “tempo decisivo”, “il momento cruciale” in cui si deve fare una scelta.

Solitamente nel N.T. indica il momento in cui si deve scegliere Cristo o gli altri.

Qui “cairòs” significa anche l’oggi, il passato, ma anche il futuro, tutti i tempi in cui si deve prendere una decisione.

Gerusalemme ha sbagliato, non ha saputo riconoscere il momento propizio in cui era stata visitata.

Per noi discepoli di oggi è sempre “cairòs” perché in ogni momento dobbiamo operare la scelta o con Cristo o contro Cristo.

Il prologo, quindi, ci ha indicato alcuni elementi importanti: Gesù Cristo, le “cose” che devono accadere, Giovanni (il mediatore), ma soprattutto ci ha introdotto all’Apocalisse, un libro di speranza che porta alla beatitudine.

Teniamo anche presente un avvertimento: “cairòs”, il tempo della decisione, è vicino.

L’indirizzo ci dice che l’Apocalisse era destinata alla lettura nell’assemblea liturgica e che suscitava l’entusiasmo negli ascoltatori.

“...grazia a voi e pace...Giovanni con “grazia” e “pace” coniuga due culture diversissime fra loro: la greca (“grazia”) e l’ebraica (“pace”, “shalom”).

L’autore dell’Apocalisse con tale saluto ci sta dicendo che Gesù Cristo ha costituito un solo popolo. Ed è una formula che ci indica la pienezza della salvezza; concetto che sottintendeva sempre “shalom”, parola con un chiaro significato religioso e con la quale si augura la salvezza.

Il Signore si definisce con un’espressione che non compare in nessuna altra parte della Bibbia: “Io sono l’Alfa e l’Omega”, cioè la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. Ciò significa che Dio è principio e fine di tutto e anche “...Colui che è, che era e che viene...”, ossia l’Essere in perpetua azione. Il Signore aggiunge poi un attributo che compete solo a Dio Padre “l’Onnipotente”, (in greco “pantocrator” cioè “colui che può tutto”). “Onnipotente” è l’appellativo più tipico di Dio che veramente è Colui che può tutto.

“Visione preparatoria” Viene qui descritta la prima visione dell’Apocalisse, dalla quale emerge un personaggio misterioso, importante, “simile a Figlio di uomo”, sfolgorante nei suoi abiti che denotano una particolare dignità.

vv. 9-10“Io, Giovanni, vostro fratello...”. Abbiamo già visto chi è questo Giovanni e soffermandoci sul v.9 notiamo che, come tutti i profeti, egli dà alla sua visione un contesto geografico (l’isola di Patmos), autobiografico (“Io, Giovanni”) e anche temporale (“...nel giorno del Signore”). Per capire meglio la contestualizzazione di una visione leggiamo Isaia 1,1

Il contesto dei profeti antichi è dato sempre da coloro che detenevano il potere politico, cioè dai re. Vediamo che l’epoca in cui Isaia profetizza è piuttosto prolungata nel tempo. A proposito dei re citati da Isaia leggiamo

2 Re 18, 1-8in cui si parla del re Ezechia, figlio di Acaz che “fece ciò che è retto agli occhi del Signore” e

2 Re 16, 1-4ove si narra del re Acaz il quale invece, “non fece ciò che è retto agli occhi del Signore suo Dio” e “...fece perfino passare per il fuoco suo figlio...” compiendo un sacrificio umano.

Perché questi esempi? Per dirvi che quando un cristiano legge la Bibbia e vuole fare una “lectio divina” deve cercare di collegare un brano all’altro.

Vedete come da una visione inaugurale di un profeta sia possibile arrivare alla lettura di altri bani e, alla fine di un anno, avere al nostro attivo la riflessione su molti testi biblici.

L’autore usa l’espressione “rapito in estasi nel giorno del Signore...”, cioè di domenica.

Ciò significa che Giovanni vuole determinare non solo un

giorno certo della settimana, ma un giorno estremamente simbolico, il giorno della resurrezione, del trionfo della vita sulla morte.

Non per niente la domenica è definita “il giorno primo” e “il giorno ottavo”. E’ il primo giorno, il segno della novità di vita ma anche il giorno ottavo, nel senso escatologico del compimento dei tempi (la venuta di Gesù).

Ecco perché la domenica è fondamentale per noi cristiani e anche i vescovi italiani ribadiscono in un recente documento che è “il giorno del Signore” e che non va considerato soltanto come un momento di riposo.

Il centro della festa deve essere l’Eucaristia che ci riporta al giorno primo, quello della Risurrezione, ma anche al giorno finale che ha iniziato i tempi ultimi.

E’ triste constatare la scarsa presenza alla Messa domenicale. Viene da chiedersi che senso abbia oggi per le famiglie il giorno del Signore.

“Rapito in estasi” andrebbe tradotto dal greco con “Io fui in spirito”. Significa che si tratta di una visione vera e propria.

Di certo nella Bibbia l’uso di questa terminologia indica che ci troviamo di fronte a un intervento divino legato a una rivelazione, a una missione.

Leggiamo, ad esempio, quanto scritto inAtti 11, 1-11 e in particolare soffermiamoci sulv. 5 in cui si racconta di Pietro che giustifica la sua condotta dopo il battesimo dei primi pagani (non circoncisi).

Anche qui sono narrate un’estasi e una visione come nel cap. 1,10 dell’Apocalisse. E proprio in tale visione viene

detto a Pietro che tutto ciò che è purificato da Dio non può essere considerato immondo.

In termini cristiani significa che ciò che Gesù Cristo ha salvato con il suo sacrificio non può esser escluso dalla salvezza.

Ne deriva la missione affidata a Pietro: andare a battezzare chiunque, anche i non circoncisi.

Nell’Apocalisse ci troviamo di fronte a un uomo chiamato Giovanni, che ha una visione, al quale viene affidata una missione proprio mentre si trova n un momento di tribolazione, quando è unito in modo particolare alla passione di Cristo perché perseguitato.

Allora significa che Gesù è con lui non solo nella tribolazione ma anche nella vittoria. Giovanni è con Cristo sofferente per essere poi con Cristo glorioso.

Sempre nel v.10 troviamo le tematiche tipiche della gloria: “...una voce potente, come di tromba...”.

v. 11 - Le sette Chiese -Il numero sette ha un valore reale ma è anche il simbolo della pienezza. Significa che questa visione è sì per le sette Chiese elencate ma è anche per la Chiesa nella sua totalità. Senza la Chiesa particolare non esiste la Chiesa universale e viceversa. La diocesi è la Chiesa nella sua perfezione in un territorio delimitato.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCatechesi adulti 2002

Apocalisse di GiovanniVI^ incontro

“CHI HA ORECCHI, ASCOLTI CIO’ CHE LO SPIRITO DICE ALLE CHIESE”

Riassunto precedente incontroLa prima parte della prima visione dell’Apocalisse ci induce a pensare al Cristo glorioso in un contesto di Tempio, di Chiesa e di preghiera (vedi “i candelabri”). Gesù Cristo, simile a “Figlio di uomo”, ha ottenuto la vittoria sul male e con la sua Risurrezione sono iniziati sia la fine dei tempi che il tempo del giudizio.

Gesù è re glorioso (vedere la “parabola del regno” nel Vangelo) di un regno vero, misterioso, incompiuto, ma in espansione. Si tratta di un regno quasi fisico, di un estendersi del regno dei cieli nel mondo.

Il re glorioso indossa un abito particolare, l’abito del Sommo Sacerdote. Questo “Figlio dell’uomo”, re glorioso e sommo sacerdote, assume le sembianze del vegliardo nel libro di Daniele. Ma mentre nel brano del profeta sono presenti due personaggi, nell’Apocalisse compare un solo personaggio, Gesù glorioso identificato con Dio. E’ il Signore stesso, il re glorioso, il sommo sacerdote. Siamo di fronte a una teofania.

Cristo ha potere sulla Chiesa. Pensiamo alla sette stelle nella mano destra che rappresenta la potenza di Dio. Gesù ha in mano le sette Chiese (anche in questo caso il numero è simbolico).

Infine un accenno a una bellissima espressione “...dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio...”. Allora per comprendere bene questa parte del v.16 leggiamoLettera agli Ebrei vv. 12-13Ecco che il “Figlio di uomo” dalla cui bocca esce la parola divina (spada a doppio taglio) è riscoperto anche come profeta. Per conferma leggiamoIsaia 49, 1-2 “Secondo canto del servo del Signore”.

Nell’Apocalisse Cristo Signore è Dio nella sua triplice funzione di re, sacerdote e profeta. Siamo di fronte a una grande liturgia battesimale.Giovanni a Patmos sta contemplando il suo essere un re, un sacerdote, un profeta perché è stato incorporato a Cristo. La prima parte della visione ci presenta dunque il Cristo glorioso, lo stesso Cristo che in modo rivoluzionario e sconvolgente diventa pane, cioè l’Eucarestia.

Davanti all’apparizione Giovanni si spaventa. Concludiamo richiamando un brano evangelico particolarmente interessanteLc. 5, 1-11

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCatechesi adulti 2002

Apocalisse di GiovanniVII^ incontro

“TU SEI DEGNO DI PRENDERE IL LIBRO E DI APRIRNE I SIGILLI”

Lettura: Ap.4,11; 5,9 – 12

I capitoli 4 e 5 sono molto ricchi di simboli e uniti tra loro, tanto che l’uno si deve interpretare alla luce dell’altro, e costituiscono l’apertura, il preludio di tutta la parte centrale del libro.

Notiamo innanzi tutto che all’inizio della visione c’è una porta aperta nel cielo: stiamo arrivando a un livello più profondo di rivelazione.

E’ interessante considerare che circolavano a quell’epoca diversi apocalissi apocrife, non ispirate, per le quali, di fronte ad una visione più approfondita, era sempre necessaria per il veggente una lunga serie di prove.

Nell’Apocalisse di Giovanni, invece, i cieli sono già aperti (“....una porta era aperta nel cielo.” v. 1) e, quindi, il veggente non ha dovuto schiudere a poco a poco, con i suoi sforzi, la porta.

Nei messaggi alle sette Chiese si insiste sull’importanza fondamentale delle opere in quanto coloro che non operano non potranno godere di una conoscenza perfetta di Dio.

E’ sottolineata l’azione della Grazia. Il cristianesimo, anzi il cattolicesimo, è una religione di grande equilibrio: esiste la Grazia, esistono le opere. Noi andremo in Paradiso perché Cristo è morto in croce (la Grazia) e perché pratichiamo opere che sono in sintonia con quella morte in croce.

Ancora un’annotazione introduttiva: Colui che parla in questo capitolo è la stessa “voce” che avevamo sentito parlare nelle lettere. Di conseguenza anche nel cap.4 il centro è cristologico.

v. 1“....ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito.”.Il significato di questa espressione sarà svelato alla fine dei capitoli che stiamo considerando.

v. 2“Ed ecco, c’era un trono nel cielo...”.Il trono citato nella lettera alla Chiesa di Pergamo era la sede del proconsole rappresentante di Roma, e quindi della “bestia” (Ap. 2,13).

Questo trono, invece, è diverso perché non è eretto sulla terra ma nel cielo. Ecco la differenza fra i troni terrestri e il trono di Dio.

E, per descrivere questo trono, Giovanni fa riferimento all’Antico Testamento e precisamente ai capitoli 25, 26, 27 e 28 dell’Esodo (nei quali si descrive l’arredamento del Santuario, del Tempio itinerante) e a 1 Re, 6.

Lettura di 1 Re 6,1-13, che riguarda la descrizione del Tempio di Salomone, la cui successiva distruzione ad opera dei Babilonesi mise veramente in crisi l’ebraismo perché Dio aveva promesso di abitare in mezzo agli Israeliti. In 1 Re 6,13 leggiamo: “Io abiterò in mezzo agli Israeliti; non abbandonerò il mio popolo Israele”.

A questo proposito ricordiamo che, secondo i Salmi, il Signore abitava nel Tempio.

Dopo la distruzione del secondo Tempio da parte dei Romani, l’ebraismo non fu più la religione del Tempio (del sacrificio e della parola) ma della Sinagoga e quindi solamente della Scrittura e della Torah.

Prosegue la lettura e la spiegazione di 1 Re 6,14-22

A proposito dello sfarzo e dei rivestimenti d’oro del Tempio ricordiamo che S.Francesco obbligava i suoi frati alla povertà personale ma, nello stesso tempo, a recare con sè durante i viaggi missionari una pisside d’oro per collocarvi l’Ostia consacrata qualora avessero trovato il SS. Sacramento non dignitosamente conservato.

Come per la dimora del Signore, il Tempio di Gerusalemme, così per l’Ostia consacrata, la povertà non era ammessa. Si trattava di una grande intuizione del Santo perché si era allora agli inizi dell’adorazione eucaristica e non esistevano norme liturgiche precise.

Lettura di 1 Re 6, 23-30.

Nel cap.4 dell’Apocalisse siamo di fronte a un luogo liturgico, al tempio del cielo che prende il posto del Santuario itinerante e del Tempio di Gerusalemme.

v. 3“Colui che stava seduto era simile nell’aspetto a diaspro e cornalina.”Il diaspro è un quarzo a macchie che si scolpisce per decorazioni, mentre la cornalina è una pietra preziosa di colore rosso chiaro o rosso scuro. Sono due termini che rendono l’idea della lucentezza e della grandiosità di Dio.

v. 4“...ventiquattro vegliardi...”. Ventiquattro è multiplo di dodici, numero simbolico, che per l’ebraismo rappresenta le dodici tribù d’Israele e, per il cristianesimo, i dodici apostoli. Sono soltanto delle ipotesi che lasciano francamente perplessi.

A proposito di questo numero simbolico scopriamo nell’Antico Testamento e precisamente in 1 Cronache 1,25 che Davide istituì ventiquattro classi di sacerdoti cantori (cioè adibiti al canto liturgico): oggi potremmo definirli “salmisti”. Se invece ci riferiamo al giudaismo di quell’epoca, vediamo che i libri della Bibbia ritenuti ispirati erano ventiquattro (in quanto i libri profetici minori in molte tradizioni erano raggruppati in un libro solo). Allora il

numero in questione potrebbe rappresentare l’Antico Testamento che rende omaggio al trono di Dio e, come si vedrà in seguito, a Colui che porta a compimento l’Antica Alleanza.

“Vegliardi”. Potremmo tradurre meglio con “anziani”, la cui funzione appare importantissima sia nell’Antico che nel Nuoco Testamento. Ad esempio, dagli “Atti degli Apostoli” risulta che le comunità cristiane prima di assumere importanti decisioni consultassero anche gli anziani. E’ appena il caso di ricordare che “prete” deriva dal greco “presbüs” cioè “anziano”.I vegliardi che stanno intorno al trono “...avvolti in candide vesti con corone d’oro sul capo...” hanno tre funzioni:1) sacerdotale, cioè di adorare e, come vedremo dopo, di presentare le preghiere e le offerte dei fedeli al Signore. Notiamo che il sacerdote celebrante la Messa all’offertorio offre a Dio anche le intenzioni, le pene, le gioie dei fedeli;2) regale, perché i vegliardi portano la corona d’oro sul capo;3) di governo, perché anch’essi sono assisi sui troni.Abbiamo quindi ventiquattro personaggi importanti, sacerdoti e re, che governano assieme a Dio.

v. 5Le sette lampade rappresentano la grandezza dello Spirito.

v. 6“...quattro esseri viventi...”. Quattro è numero simbolico. Quattro sono i punti cardinali, i venti, gli elementi del mondo. E’ un numero che indica l’universalità e, quindi, questi quattro esseri viventi hanno un’azione di portata universale.

“...pieni d’occhi...”. Sono esseri viventi un po’ strani; gli occhi indicano la multiforme sapienza di Dio, la Sua onniscienza e la Sua provvidenza. Riferimenti biblici di questi strani personaggi, che hanno la funzione di sottolineare il mistero divino, si trovano in Ez. 1 e in Is. 6.

v. 7I simboli dei nostri esseri viventi rappresentano anche i quattro evangelisti secondo un’interpretazione simbolica data per primo da S.Ireneo e, in seguito, da tutti i Padri della Chiesa.. Quattro è il numero dei Vangeli e indica l’universalità della parola ma nello stesso tempo l’universalità delle persone alle quali si rivolge la parola di Dio.

v. 8“Santo, santo, santo...”.; “Tu sei degno, o Signore e Dio nostro...” (v. 11); “Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono...”(v. 3); “Sette lampade accese ardevano davanti al trono...” (v. 5).Siamo in un contesto liturgico sia come luogo che come situazione; siamo in una liturgia celeste nella quale notiamo un ritmo ternario (“Santo, santo, santo...” v. 8 e “..la gloria, l’onore e la potenza...”” v. 11) che sottolinea la perfezione di Dio. Ci troviamo di fronte a qualche cosa di sublime: all’adorazione di Dio.

v. 10

In questo versetto è contenuta la dichiarazione della superiorità del Signore rispetto all’uomo. Infatti “...i ventiquattro vegliardi si prostravano davanti a Colui che siede sul trono e adoravano Colui che vive nei secoli dei secoli e gettavano le loro corone davanti al trono...”.

I vegliardi, togliendosi la corona, affermano la supremazia di Dio che è il vero re, mentre loro sono re soltanto per partecipazione.

I ventiquattro si comportano perciò ben diversamente dalla bestia e da tutti i re terreni, che mai getterebbero spontaneamente la corona davanti al trono divino.

v. 11“....perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono.”.Dio è provvidente. Dio crea le cose e le fa sussistere.

Capitolo 5- lettura.

vv. 1-5.In questa seconda parte della visione si ritrovano i personaggi del cap.4 ma è evidentissimo un elemento nuovo: un libro a forma di rotolo. E subito un angelo proclama: “Chi è degno di aprire il libro e di sciogliere i sigilli?”.

Soffermiamoci sul termine “libro” che nel nostro capitolo - in greco - è ripetuto sette volte (nel testo italiano compare per otto volte perché nel v.7 è stata aggiunta questa parola per rendere meglio comprensibile la traduzione).

In sintesi potremmo dire che il libro: 1 - partecipa dell’autorità di Dio il quale lo regge nella mano destra, che è il simbolo dell’autorità. E’ opportuno ricordare che la destra è anche la mano che colpisce e, nei salmi, la mano che regge la spada;2 - è completamente sigillato con sette sigilli (numero che indica la totalità);3- è scritto sui due lati : “...sul lato interno e su quello esterno...” (v. 1).

Leggiamo a questo riguardo Ezechiele cap.2 che si conclude con “...teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto all’interno e all’esterno e vi erano scritti lamenti, pianti e guai.”.

Se teniamo sullo sfondo questo brano, possiamo affermare che il libro di cui parla l’Apocalisse è costituito soprattutto da lamenti, pianti e guai.

Riprendiamo il cap. 2 di Ezechiele che ci induce a pensare a un “libro”, scritto all’interno e all’esterno, contenente lamenti, pianti e guai.

Sulla natura di questo libro sono state fatte due ipotesi:

1) il “libro a forma di rotolo” raffigurato nell’Apocalisse rappresenterebbe l’Antico

Testamento che solo Cristo può rivelare in pienezza dandone, così, l’interpretazione autentica. Senza Gesù Cristo l’Antico testamento resterebbe un libro sigillato;

2) questo libro rappresenterebbe il piano di Dio, il progetto di Dio che è sigillato e che solo Gesù Cristo può rivelare.

Sia che si accetti la prima o la seconda ipotesi il centro è Cristo. L’Antico Testamento costituisce una preparazione alla venuta di Gesù il quale, nello stesso tempo, ci aiuta a rileggere quel testo retrospettivamente, in modo da comprenderlo in pienezza.

Parliamo sempre, sia ben chiaro, di Gesù risorto. La risurrezione è di capitale importanza perché senza di essa Gesù Cristo non sarebbe altro che un fallito della storia. Infatti la risurrezione permette agli apostoli e ai discepoli di rivedere la vicenda terrena di Gesù con occhi diversi: quell’uomo bravo, buono, coerente, morto in croce, è veramente Figlio di Dio.

v. 5 - lettura“...ha vinto il leone della tribù di Giuda...”.Notiamo una voce verbale al passato. Si tratta di un verbo che nell’Apocalisse è costantemente associato alla vittoria dei credenti.

In questo versetto, comunque, “ha vinto” si riferisce alla vittoria di Cristo. Rileggiamo in proposito le bellissime parole di Gv 16,33: “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!”. Anche qui si sta parlando al passato.

Possiamo dire che la stessa incarnazione di Gesù, la sua presenza terrena, prima ancora della morte in croce, siano manifestazioni della vittoria divina sul mondo.

E’ proprio una vittoria di Dio che non è rimasto nel suo cielo ma ha dimostrato di sapersi accollare il mondo. (E questo ci rincuora tantissimo). Dalla sua vittoria sul mondo Gesù Cristo riceve il potere di aprire i sigilli.

“il leone della tribù di Giuda” e “il germoglio di Davide”I titoli attribuiti da uno dei vegliardi a colui che aprirà il libro e scioglierà i sette sigilli ci rimandano a Davide e, quindi, a una dimensione del Messia (la famiglia davidica, il discendente di Davide, ecc.). Per quanto concerne “il leone della tribù di Giuda” il riferimento è a Genesi 49,9 e al brano messianico per eccellenza 2 Samuele 7.

vv. 6-10 - letturaInizia ora in onore dell’Agnello una grande liturgia in tre tempi:1) vv. 6-102) vv. 11-12

3) vv. 13-144)

Ritroveremo il termine “agnello” ben 28 volte nell’Apocalisse. Ecco il simbolismo numerico: 28 è il prodotto di 7 x 4, due cifre che dicono pienezza e totalità.

Cerchiamo di chiarire il significato di “Agnello”.Nel testo greco della Bibbia si usano due parole per definire l’Agnello, secondo le diverse sfumature che assume questo termine:

1) Esodo 12, 1-14 e 29 (sempre cap.12). LetturaL’Angelo sterminatore è passato ma il sangue posto sugli stipiti ha preservato gli Israeliti. Il sacrificio dell’agnello è un sacrificio sostitutivo: gli ebrei, cioè, hanno ammazzato l’agnello invece di sacrificare i propri primogeniti.

Ripensiamo agli episodi biblici di Abramo e di Isacco e quell’ariete (un agnello cresciuto) che il grande patriarca trova impigliato fra i cespugli. L’agnello si immola per salvare la vita ai primogeniti degli Israeliti. Il sangue dell’agnello permette la salvezza: ecco il paragone con Gesù.

2) Isaia 53. “Quarto canto del servo del Signore” e il famoso “servo sofferente”. Lettura. Soffermiamoci sul v. 7.Il sacrificio dell’agnello si incarna qui in una persona, il misterioso Messia, il “servo di Jahwe” che salverà tutti con la sua sofferenza. Sono evidenti anche in questo caso due riscontri in quanto l’agnello ci richiama: a) qualcuno che dà la vita per gli altri, b) qualcuno che viene ucciso per permettere agli altri di vivere.Ecco il retroterra biblico di questa figura.

Torniamo all’Apocalisse.Giovanni Battista, che per primo chiamò Gesù “Agnello di Dio”, nella sua predicazione non pensa certo a un Messia mite e buono, ma a un Messia giudice. Infatti in Mt 3 leggiamo: “Già la scure è stata posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (v. 10) e “Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile (v. 12).Di fronte a una realtà ben diversa da quella auspicata, il Battista entra in crisi e mentre si trova in carcere manda i suoi discepoli a chiedere a Gesù se Egli sia veramente Cristo. In Mt. 11 è contenuta la stupenda risposta del Messia: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano...” (v. 4).

Gesù non usa il ventilabro ma siede addirittura a mensa con i peccatori. Viene allora spontaneo pensare che Giovanni Battista esclamando “Ecco l’agnello di Dio..” (Gv. 1,29) non avesse proprio presente l’idea di un Messia mite e umile, ma, piuttosto l’agnello che è contemporaneamente anche ariete. Ne deriva che il giudizio è una componente essenziale di questo agnello mite che, però, giudica.

Si devono tenere ben presenti tutte queste diverse sfumature per capire chi sia l’agnello di cui parla l’Apocalisse: un Cristo mite e umile che si è immolato ma, allo stesso tempo, un Cristo giudice e, diciamolo pure, un po’ guerriero (vedi le “sette corna” del v. 6).

Gesù non è perciò quella figura remissiva alla quale siamo abituati a pensare quando, anche nelle nostre Chiese, proclamiamo: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che toglie il peccato del mondo”.

E nel v. 6 è scritto: “Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un agnello, come immolato”. Si tratta di un Agnello che ha subito la croce, l’immolazione; ma che adesso è ritto in mezzo al trono: Cristo morto e risorto, glorioso, giudice della storia.

Le “sette corna” di cui è dotato l’agnello sono un simbolo di potenza guerresca ma anche il segno dell’efficienza messianica.

I “sette occhi” simboleggiano i sette spiriti mandati su tutta la terra. L’Agnello possiede, perciò, la pienezza dello Spirito.Se gli occhi sono segno della Provvidenza di Dio che tutto vede e a tutto provvede, allora a questo agnello è stato demandato anche tale potere. Potremmo senz’altro definire l’Agnello come il “provvidente”, Colui che pensa a guidare la storia e la vita di ciascuno di noi.

v. 8 -lettura“...coppe d’oro colme di profumi che sono le preghiere dei santi”.

Quando ci scoraggiamo, perché abbiamo la sensazione che le nostre preghiere non portino ad alcun effetto, rileggiamo questo brano dell’Apocalisse per riacquistare la certezza che le nostre suppliche, comunque portate davanti al Signore, valgono.

Diceva una suora di clausura nel Monastero della Visitazione che uno degli scogli più difficili da superare nella vocazione consiste nel pregare in continuazione senza mai conoscere l’effetto delle proprie preghiere. Sono claustrali che pregano tutto il giorno secondo le intenzioni dettate dalla Superiora che, sola, conosce, attraverso la lettura dei giornali, quanto accade nel mondo.

vv. 9-10. Lettura“Cantavano un canto nuovo”...” (v. 9)Il canto nuovo esalta il ruolo di Gesù nella salvezza: la passione di Cristo e la sua resurrezione hanno una dimensione di redenzione per tutti gli uomini vissuti in ogni tempo. Notiamo in questo due versetti il ritorno del numero quattro (tribù, lingua, popolo e nazione) per sottolineare proprio simbolicamente l’universalità dell’opera redentrice di Gesù Cristo.

“...un regno di sacerdoti...”(v. 10)Cristo è venuto a dare inizio al regno di Dio, che è anche un regno concreto, con una dimensione visibile, umana; regno d’amore, inteso come dominio di Dio sul cuore degli uomini e, di conseguenza, sull’umanità intera.

Giovanni non si riferisce qui ai sacerdoti ministeriali, ma ai sacerdoti comuni, cioè i battezzati. Viene da domandarsi se siamo consapevoli di esser sacerdoti, ossia di avere la possibilità di compiere azioni sacre.

Ogni azione nostra diventa sacra. Stiamo allora attenti a non desacralizzare i nostri comportamenti facendo il male. Comportiamoci correttamente e i nostri sacrifici spirituali saranno a Dio graditi.

Sottolineiamo ora nell’espressione “siamo un regno di sacerdoti” la dimensione della regalità. Siamo tutti re e regine secondo lo stile di Cristo, che è lo stile del servizio. Siamo re e sacerdoti che si mettono al servizio di Dio servendo l’umanità.

Ben a ragione possiamo affermare di essere tutti dei “pontefici”,cioè delle persone che costituiscono un ponte tra Dio e l’umanità, e di avere dignità regale e sacerdotale in quanto associati alla morte e alla resurrezione di Gesù attraverso il Battesimo.

vv. 11-12- letturaOra cambiano i protagonisti ed entrano in scena gli angeli adoranti.Notiamo che gli attributi dell’Agnello sono sette, numero simbolico che indica pienezza del potere; potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione. Questo Agnello, a cui nulla manca, è il detentore del potere ed è stato reso perfetto dalla morte patita.Siamo di fronte a una dossologia, a una solenne liturgia.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCatechesi adulti 2002

Apocalisse di GiovanniVIII^ incontroTU SOLO SEI SANTO (15,3-4)LA COMUNITA’ TESTIMONIA L’AZIONE LIBERATRICE DI DIO

«Ho 56 anni, sono sposata da 32, e ho due figli: Andrea di 31 anni ed Alessandra di 28 anni. Il perno, il senso della mia vita è stato ed è Dio. Ci sono persone che sono state fondamentali per il mio ‘essere’: penso ai miei nonni, alla loro fede piena senza riserve (un fiducioso abbandono nella Provvidenza!). Poi mia madre che, rimasta vedova quando avevo tre anni, mi ha insegnato a parlare al mio papà perché era vivo in cielo e ci avrebbe aiutate, essendo lui vicino a Gesù. La fanciullezza e poi l’adolescenza... (sempre casa, scuola e chiesa, ma non si chiedeva di più... non si sentiva la mancanza di “altre cose”). Poi l’incontro con il mio futuro marito. Al di là della simpatia, dell’attrazione, credo che ci siamo avvicinati prima di tutto perché condividevamo fede e ideali. Difficoltà ne abbiamo incontrate sia nel matrimonio (rapporto di coppia, convivenza con mia madre ... ) che nell’educazione dei figli (tutti e due purtroppo si sono allontanati dalla pratica religiosa). Ripenso ai veri eventi dolorosi: incidenti stradali dei figli, la morte di persone care, della mia mamma. Sempre ho sentito la presenza del Signore; da sola non avrei avuto la forza di affrontare il dolore, di andare avanti, di ricominciare... di pazientare. Vivo abbastanza alla giornata, affidandomi a Dio. Sono quasi sempre serena (a volte mi sembra di essere un po’ incosciente) e sinceramente ripenso poco al mio passato: ho imparato che nostalgie e rimpianti non servono, bisogna guardare avanti e camminare con il Signore». Lucia

• Cosa vi colpisce di questa testimonianza ?• Ciascuno ripensi alla propria storia e recuperi un motivo per cui si sente

di dover rendere grazie a Dio per la sua azione.

Letturavv. 1-4 -“...un altro segno grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli...” (i primi due segni apparsi erano la donna e il drago). La parola “segno” indica il momento finale della lotta.

In questi primi versetti notiamo diversi elementi interessanti. Ritorna il numero sette (gli angeli e i flagelli) nel v. 1, e al v. 2 troviamo un’immagine che anticipa la vittoria: “...coloro che avevano vinto la bestia...stavano ritti sul mare di cristallo.”

Costoro partecipano già alla sorte dell’Agnello risorto e glorioso.

Deuteronomio 32, “Canto di Mosè dopo la liberazione dal nemico”.Mentre il “Canto di Mosè” in Es. 15 canta la liberazione dagli egiziani, qui si narrano le meraviglie compiute da Jahwe durante l’esodo, cioè durante il tragitto compiuto nel deserto.Dio non si è limitato a liberare il popolo dalla schiavitù ma ha continuato a seguirlo amorevolmente con la sua Provvidenza.Entrambi i cantici sono da tenere sullo sfondo per poter comprendere il cap. 15 dell’Apocalisse

Il breve cap. 15 ci dice che l’Agnello, cioè Gesù, è il vero Mosè e che la Pasqua dell’Agnello è il vero Esodo.

Nel brano della trasfigurazione Luca (9,28-36) racconta che Gesù parlava con Mosè ed Elia della sua “dipartita” verso Gerusalemme.

Ricordiamo anche che in Gv 6,32 Gesù afferma: “...non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero...” e prosegue dicendo: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno...” (v. 51).

Questo significa che Gesù realizza pienamente le promesse dall’Antico Testamento. Direbbero i Padri della Chiesa: ciò che lì era in figura, adesso è realizzato, diventa realtà.

La manna che aveva nutrito il popolo d’Israele era semplicemente un segno che andava compreso ben milleduecento-millequattrocento anni dopo.

Era il segno del pane vero disceso dal cielo che “...è la mia carne per la vita del mondo.” (Gv 6,51). In Giovanni torna spesso il paragone fra il Nuovo Testamento e l’Antico, soprattutto con personaggi cardine come Mosè, Abramo e Giacobbe.

Teniamo presente, allora, che l’Agnello, Gesù, porta a compimento quanto l’Antico Testamento aveva presentato in modo figurato.

Ci accorgeremo che il protagonista della vicenda è Dio con una conseguenza che la nostra sensibilità fatica ad accettare: vengono da Lui anche i flagelli che conosceremo leggendo i prossimi versetti.

SPIEGAZIONE

Tre termini sottolineano ciò che nella storia attesta la presenza di Dio:le operele viei giudizi

Ciascuno dei tre termini riceve una qualifica specifica: le pere sono “grandi e mirabili”, le vie sono “giuste e vere”, i giudizi “giusti”.Tali qualifiche sono inviti a riconoscere lo “stile” con il quale Dio si manifesta dentro la storia dell’umanità; sono i gesti di salvezza che Dio ha compiuto attraverso Gesù Cristo.

Grandi e mirabili sono le tue opereDio si rivela nei fatti, dice chi è agendo.L’agire di Dio non è insignificante: suscita meraviglia e sorpresa, è gratuito e, nello stesso tempo, segna un punto di non ritorno.

Nell’agire di Gesù Cristo, l’Agnello, nelle sue parole e nei suoi gesti, Dio ha raggiunto il vertice della sua presenza e segna definitivamente la storia. In questo suo operare egli emerge come il Signore onnipotente, come colui che dà consistenza, che dà senso e porta a compimento la storia.

Giuste e vere le tue vie. Le opere di Dio tracciano nuovi percorsi per impostare la vita, aprono progetti ai quali Dio rimane fedele e che sono veramente pertinenti alla vita e alla dignità dell’uomo.

Queste vie sono sicure come è sicura la promessa di Dio.E’ proprio di Dio disporre di una via anche sul mare, là dove all’uomo sembra di incontrare l’esaurimento delle possibilità di vita. In ciò egli si manifesta come «re delle nazioni», come colui che sa difendere da tutto ciò che minaccia la vita, che sa radunare dalla dispersione. Dio è re nel senso che domina, con la sua onnipotenza, tutte le forze del male. La sua guida garantisce solidità e giustizia.

Giusti i tuoi giudizi.Le opere di Dio e i tracciati di cammino di vita che esse consentono ci dicono

un mondo in cui la forza della presenza di Dio sta operando. Egli non è impassibile, neutrale.

La sua azione e presenza svelano l’effettiva consistenza di ogni operare umano, portano allo scoperto ciò che è pretesa fuori luogo, falsificazione che distrugge.

Nel suo giudizio la lettura della storia prende lucidità e orientamento verso la realizzazione di un mondo degno dell’uomo, che non è un sogno ma una certezza.

Le nazioni devono imparare a leggere nella storia il messaggio di Dio, a cogliere la storia come orientata verso la salvezza.

Questa certezza deve essere condivisa da tutti gli uomini.

Il movimento dei popoli

Suscitato dalle opere, dalle vie e dai giudizi di Dio inizia il movimento di popoli che trovano nel Signore il loro approdo.

Tutto ciò suscita lo stupore dell’adorazione, una gratitudine per come Dio cioè venuto incontro. In questo egli si manifesta, cioè dice il suo nome.

Questo movimento di popoli esprime la risposta alla novità di Cristo e li rende in grado di fare proprio il messaggio del canto nuovo, il cantico dell’Agnello.

Il nome di Dio

Vengono sottolineati 2 atteggiamenti che scaturiscono dalla libertà che Dio dona agli uomini: il timore e il rendere gloria.

Tu solo sei santoDio non ha eguali. Non ha fatto della sua unicità un privilegio, un motivo di distanza da noi; al contrario, la sua unicità, la sua santità, si è manifestata come capacità di condivisione della nostra umanità.

Non ha abolito la storia, non ha preteso di dominarla dall’alto.

Vi è entrato nel modo della Pasqua (come Agnello) e ci ha aperto una via di libertà.

L’unicità di Dio, della sua santità, non è pertanto l’unicità di un solitario da contemplare, ma l’unicità di chi sa esprimersi in una modalità relazionale unica, quella che l’Agnello ha realizzato una volta per tutte, quella in cui egli si offre in tutta la sua disponibilità, nella totale assenza di qualsiasi forma di imposizione.

Questa è la permanente meraviglia suscitata dall’agire di Dio.

La comunità cristiana, dunque, celebra la grazia del Signore che la riunisce da tutti i popoli, la fa vivere e la guida verso il compimento.

La memoria positiva e feconda della Chiesa che essa celebra è la relazione che le viene offerta dall’unico Santo, che si distende nelle opere, nelle vie e nei giudizi di Dio.

SIGNIFICATI PER LA NOSTRA VITA• Il cantico si propone come chiave di lettura, come suggerimento

di percorso per ritrovare il filo dell’azione di Dio nella storia, per recuperare le ragioni del proprio cammino.

• La gratuità di Dio è partenza della storia della comunità dei credenti e deve rivelare l’uno e l’altro aspetto, muovendosi nella stessa direzione del Cristo.

L’agire disponibile e gratuito di Dio è proteso a rendere partecipi tutti gli uomini della sua salvezza• Il testo è un forte messaggio di consolazione. Una consolazione fondata sulla certezza che la vittoria del Cristo crocifisso e risorto è una vittoria già avvenuta, definitiva, anche se non se ne vedono ancora tutte le conseguenze

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCatechesi adulti 2002

Apocalisse di GiovanniIX^ incontro

ESSI SARANNO IL SUP POPOLO ED EGLI SARA’ IL LORO DIOLettura dell’intero cap. 21 e 22.

Ap 22, 6-216 Poi mi disse: “Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo

angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. 7 Ecco, io verrò presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro”. 8 Sono io, Giovanni, che ho visto e udito queste cose. Udite e vedute che le ebbi, mi prostrai in adorazione ai piedi

dell’angelo che me le aveva mostrate. 9 Ma egli mi disse: “Guardati dal farlo! Io sono un servo di Dio come te e i tuoi fratelli, i profeti, e come coloro che

custodiscono le parole di questo libro. È Dio che devi adorare”. 10 Poi aggiunse: “Non mettere sotto sigillo le parole profetiche di questo libro, perché il tempo è vicino. 11 Il perverso continui pure a essere perverso, l’impuro continui ad essere impuro e il giusto continui a praticare la

giustizia e il santo si santifichi ancora. 12 Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, ‘per rendere a ciascuno secondo le sue opere’. 13 Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. 14 Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. 15 Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna! 16 Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice della

stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino”. 17 Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente

l’acqua della vita. 18 Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere

addosso i flagelli descritti in questo libro; 19 e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in

questo libro. 20 Colui che attesta queste cose dice: “Sì, verrò presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù. 21 La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen

Siamo di fronte a tre quadri, distinti fra loro, la cui descrizione va letta in modo consecutivo: I quadro 21, 1-8 II quadro 21, 9-27III quadro 22, 1-5

Il primo quadro ci presenta la nuova Gerusalemme, tutta oro e pietre preziose, ben diversa dalla città di Babilonia, la prostituta, rivestita di ornamenti ma madre di tutte le prostituzioni. “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo...”Questo versetto 3 ci richiama il prologo di Giovanni:

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi...”(v. 14)Ricordiamo ancora una volta che la traduzione esatta dei verbi “abitare” e “dimorare” è “porre la tenda”. Di conseguenza, diremo:“Ecco la tenda di Dio con gli uomini!Egli porrà la tenda tra di loro...” (Apoc. 21,3) e “...e pose la sua tenda in mezzo a noi...” (Gv 1,14)

La tenda racchiude in sé almeno due immagini: quella del cammino (è un Dio che cammina con il suo popolo) e quella del pastore nomade (Dio pasce il suo gregge camminando con le sue pecore).Ecco la tenda di Dio in mezzo a noi!

Notiamo che fin dall’inizio il primo quadro sviluppa il tema della novità: la Gerusalemme nuova è inserita in un contesto nuovo. “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra...” (21,1).

Soffermiamoci un attimo sul v. 5: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose...” in cui “faccio” è la traduzione di un termine tecnico della creazione (il verbo greco poieo) che significa, appunto, “creo”.

Il Signore sta facendo una nuova creazione, che non è futura perché il verbo viene espresso al tempo presente.

Quindi, la nuova creazione è già in atto; Dio non attenderà la fine dei tempi per donarci la gioia, per toglierci il lutto, la morte, il lamento e l’affanno.

Il Signore già oggi crea cose nuove, che porterà evidentemente a compimento nella loro pienezza alla fine dei tempi, quando lo incontreremo.

Credo sia fondamentale riflettere su questi concetti perché siamo di fronte a una situazione non solo di consolazione, ma d’impegno. Adesso Io, Dio, e tu, uomo, facciamo qualche cosa di nuovo.

La prospettiva cambia diametralmente: i semi del regno (il granello di senape, ad es.) sono già piantati e stanno crescendo.

E’ bello sentirsi parte di questa novità perché con il battesimo noi siamo entrati nella nuova creazione, primizia della comunione piena con Dio alla fine dei tempi.

Il nostro Signore è il Dio dell’Alleanza che non rinnega mai il suo popolo e il patto che ha stabilito con lui.

In Apocalisse 21 si possono distinguere due momenti: il primo con una visione di speranza, di apertura (“A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita” - v. 6) e un secondo momento di condanna (“Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali e i fattucchieri, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo.” v. 8).

Appare chiaro il richiamo profetico alla possibilità di entrare nella categoria dei codardi, di quanti - cioè - non hanno avuto il coraggio di testimoniare.

In proposito sappiamo che successivamente agli anni 90 d.C. sorse nella Chiesa il grande problema dei “lapsi”, cioè di coloro che nella persecuzione non erano stati coerenti, avevano abiurato e sacrificato agli idoli e che poi, con il ritorno alla normalità, avevano chiesto di essere riammessi nella comunità ecclesiale.

Coloro che erano stati perseguitati si opposero, però, a questa riammissione pretendendo che fosse subordinata ad un nuovo battesimo, perché ritenevano che rinnegando Cristo i “lapsi” avessero addirittura cancellato il loro battesimo.

Sulla questione avvenne un grande dibattito nella Chiesa, con il rischio di scismi, fino a quando non prevalse l’opinione di Cornelio, vescovo di Roma, e di Cipriano, vescovo di Cartagine, secondo la quale il battesimo non poteva in ogni caso essere cancellato, nemmeno dal peccato più grave.

Quindi i “lapsi” sarebbero dovuti essere riammessi nella comunità ecclesiale, magari attraverso un percorso penitenziale, ma senza essere ribattezzati.

Concludiamo le considerazioni sul primo quadro dicendo che Cristo oggi si incontra nella Chiesa, nuova Gerusalemme e centro della nuova creazione. Di conseguenza dobbiamo adoperarci per migliorare la nostra comunità ecclesiale in modo che “...i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gl’immorali, i fattucchieri, gli idolatri...” (21,8) e i mentitori diminuiscano e aumentino, invece, gli iscritti nel libro della vita.

La Chiesa è fondamentale per poter vivere fino in fondo l’esperienza di Cristo.

Il secondo quadro ci raffigura la nuova Gerusalemme, la città santa, ben differente da Babilonia, ricca di esteriorità e destinata a perire. Gerusalemme, ricca ma per essenza, dotata di ricchezze interiori, non rappresenta una città vera e propria, ma la comunità ideale in generale.

Nel v. 16 è descritta a forma di cubo con ogni faccia, ogni fronte, uguale all’altra.La città santa non è travestita (come Babilonia) in quanto racchiude in sé il Signore,tanto da non aver bisogno del tempio perché il contatto con Dio è immediato.

La nuova Gerusalemme finalmente si rivela come la sposa dell’Agnello.Siamo di fronte a una nuova creazione. Non ci saranno più le maledizioni (Genesi 3) perché ormai cancellate dal sangue dell’Agnello.

Consideriamo anche che le nostre sofferenze, i nostri sacrifici sono salvifici perché ricolmati di significato dal sangue dell’Agnello.

La passione e la morte di Cristo ci insegnano pur qualcosa.

Questo significa far parte della nuova città santa nella quale confluiscono tutte le genti

La nuova città fondata sugli apostoli (v. 14) è perfettamente simmetrica; è una costruzione spirituale.

Potremmo tenere come sottofondo a questo brano dell’Apocalisse il cap. 4 del Vangelo di Giovanni (“Gesù dai Samaritani”): “...i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità...” (v. 23).

Non ci sarà più bisogno del tempio di Gerusalemme né di quello del monte Garizim: basterà mettersi nell’ottica di Dio adorandolo “in spirito e verità”. (v. 24).

Il terzo quadro: la nuova Gerusalemme, giardino di vita. Siamo anche qui nel clima dell’Eden.

L’ultimo episodio della Bibbia (Apocalisse 22, 1-5) richiama l’inizio della stessa Bibbia (Genesi) con la creazione e la caduta dell’uomo.

Ora si parla della nuova creazione (e non più della caduta) e della gioia di essere perennemente con il Signore. Ecco la grande speranza che infonde la Bibbia!

In Genesi si parla dell’albero della vita che viene sottratto subito all’uomo, mentre in Apocalisse 22 troviamo “...un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni” (v. 2). Qui la vita viene distribuita in pienezza.

Nuovamente rieccheggia il cap. 4 di Giovanni nel quale si parla del pozzo di Giacobbe e dell’acqua viva (che va letta simbolicamente).

Siamo davvero alla comunione piena con Dio e alla luce piena, al giorno senza fine (Ap.22,5): “Non vi sarà più notte...”.

Dobbiamo allora cominciare a gustare tutto questo ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, nella quale incontriamo il Signore.

Dopo la comunione noi siamo come delle arche sante che portano Gesù per il mondo, siamo come dei “Cristofori”.

Stiamo vivendo una primavera della Chiesa: oggi lo Spirito soffia e ci provoca con le sfide del nostro tempo. L’incontro con le altre religioni, ad esempio, è impegnativo ma ci deve entusiasmare.

Concludiamo dicendo che il nostro capitolo è aperto alla speranza, ma contiene anche un invito alla conversione.

Speranza e conversione vanno di pari passo e guai se non fosse così: la speranza diventerebbe fatalismo e la pigrizia prenderebbe il sopravvento (e con essa il nostro egoismo).

Un’ultima considerazione sui mentitori (21,8 e 27) che non sono soltanto coloro che dicono il falso, ma anche quelli che vivono nella falsità continua, che adorano i falsi dei, che vivono una vita di menzogna inseguendo ciò che è falso.

Conclusione e considerazioni finali

Ho raccolto in cinque tematiche le considerazioni conclusive sull’Apocalisse.I - La concezione di Dio Nel nostro libro ci troviamo di fronte, prima di tutto, a un Dio trinitario: il Padre, l’Agnello immolato che siede sul trono, lo Spirito che parla alle Chiese. Un Dio “che era, che è e che viene”, ma che a un certo punto diventa “Colui che era e che è”. Si tratta di un Dio che compie la sua missione nella storia e che affianca a sé i suoi santi per combattere contro il male. Il Signore non è uno spettatore ma un attore che dà il suo contributo e conduce la storia. Non per nulla una delle definizioni più belle dell’Apocalisse (da noi applicata anche a Gesù) recita: “Io sono l’Alfa e l’Omega” (v. 13), ossia il primo e l’ultimo, il principio e la fine: il Vivente.

Questa è una bellissima concezione di Dio che poi scopriamo come il “Fedele” e il “Verace” (19,11). Non può che essere così il Signore della storia, che è l’unico da adorare.

II - La Chiesa che cammina nella storia è un’altra grande protagonista dell’Apocalisse. Come ogni comunità paga alla storia il prezzo di essere umana. E’ inevitabile.Dobbiamo abituarci ai tempi lunghi della Chiesa, che è comunque fedele al suo Signore da duemila anni, sia pure con tutti gli errori tipici degli uomini, e custode del patrimonio della fede. E questo è importante.

Il sangue dei martiri ha irrorato la Chiesa e l’ha aiutata a crescere. Quindi, anche oggi il sangue dei martiri appare indispensabile; occorre qualcuno che si sacrifichi per l’ideale.

La Chiesa è la sposa sempre bisognosa di purificazione (ma comunque scelta dal Signore) che diventa l’autentica via di salvezza. In ogni caso è sposa fedele, nonostante le infedeltà dei singoli.

E’ l’unica istituzione che conta duemila anni di storia nel segno della continuità e di conseguenza può permettersi di scusarsi per il male causato agli altri. Non avviene così, ad esempio, per i crimini dei vari regimi in quanto manca la continuità rispetto ai passati regimi.

III - Il potere temporale che nell’Apocalisse gode di cattiva fama.Il potere romano - in questo caso - e il potere temporale in generale non sono malvisti soltanto in quanto persecutori, ma anche in quanto idolatri. Portano infatti gli uomini

alla menzogna e li coinvolgono nell’inganno. Credo, allora, che si debba smascherare l’inganno insito in ogni potere, che diventa adoratore di se stesso e della propria potenza e che fa della menzogna il suo fondamentale stato di vita.Notiamo, per inciso, che anche la Chiesa durante la sua storia ha subito le tentazioni del potere sia nelle sue gerarchie che nei suoi membri comuni.

IV - Il giudizio, tema che fa da sottofondo ai molti passi del nostro libro.Poiché Dio guida una comunità che vive nella storia, ecco che arriva il momento supremo del giudizio. Ma stiamo attenti a non prendere in considerazione soltanto il giudizio finale. Il giudizio è anche sul bene e sul male di oggi.

Usiamo allora un termine più sfumato, che possiamo applicare a noi stessi: il discernimento, che significa capire ciò che è bene e ciò che è male per avere una condanna intransigente per il male, ma un occhio di misericordia per il peccatore.A volte la chiesa deve diventare impopolare per difendere alcuni principi fondamentali. La comunità cristiana deve aggiornarsi sul modo migliore di comunicare per poter proclamare al mondo la verità.

V - La comunione profonda che esiste nell’Apocalisse tra l’Agnello e il cristiano. L’Agnello versa il sangue nel quale il cristiano deve lavare la propria veste diventando un’unica cosa con Lui. L’Agnello coinvolge i santi nella preghiera e nel combattimento contro il dragone; è seduto sul trono e giudica insieme ai santi che lo circondano. Il cristiano è chiamato ad essere in piena comunione con l’Agnello, il quale a sua volta coinvolge con tutte le sue forze il cristiano in questa unione perfetta.Possiamo ricordare in proposito un brano del Vangelo di Giovanni (21,15 e segg.) in cui Pietro, così debole, è perseguitato dalla grazia al punto che Gesù stesso gli affida le sue “pecorelle”. Questo ci dà un’idea della comunione profonda con Cristo che ognuno di noi deve cercare corrispondendo alla grazia.

Il testo di un dialogo liturgico

Angelo interprete: E mi disse: «questi sono discorsi degni di fede, sono veri: il Signore, Dio dello Spirito che anima i profeti, inviò il suo messaggero per far vedere ai suoi servitori ciò che si deve realizzare in fretta». Cristo: «Ed ecco: vengo presto! Beato chi conserva i di- scorsi della profezia di questo libro!». Giovanni: Sono io, Giovanni, ero quello che ascoltava e vedeva tutto questo. Dopo che l’ebbi visto e ascoltato, mi prostrai ai piedi dell’angelo che mi stava mostrando queste cose. Angelo. Ma egli mi disse: «Guardati dal farlo! lo sono un servitore insieme a te, insieme ai tuoi fratelli profeti, insieme a coloro che manterranno le parole di questo libro: adora Dio!». E soggiunse: «Non mettere sotto chiave i discorsi della profezia di questo libro: il tempo preme! L’ingiusto continuerà a commettere ingiustizie e chi è immondo lo diventerà di più, ma il giusto continuerà a praticare la giustizia e chi è santo si santificherà di più!». Cristo: «Ecco: vengo presto e la mia ricompensa è con me: darò a ciascuno secondo le sue opere. Sono

io l’a e la zeta, il primo e l’ultimo, l’inizio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno potere sull’albero della vita ed entreranno attraverso le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli impudichi, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!Sono io, Gesù, che inviai il mio angelo a testimoniare a voi queste cose a proposito delle chiese. lo sono la radice e la discendenza di David, la stella luminosa, quella del mattinoAssemblea: E lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni». E chiunque ascolta, dica: «Vieni!». Giovanni: E chi ha sete venga e chi vuole prenda l’acqua della vita come dono. Testimonio io a chiunque ascolta i discorsi della profezia di questo libro: se qualcuno vi mette qualcosa in più, Dio metterà su di lui i flagelli descritti in questo libro. E se qualcuno toglie qualcosa dal libro di questa profezia, Dio toglierà la sua parte dall’albero della vita e dalla città santa che sono descritti in questo libro. Cristo: Dice colui che testimonia queste cose: «Sì, vengo presto! ». Assemblea: «Amen: vieni, Signore Gesù!». Giovanni-lettore: La grazia del Signore Gesù sia con tutti!

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCatechesi adulti 2001

CELEBRAZIONE RIASSUNTIVA

IL VOLTO PATERNO DI DIOovvero

DIO SI FA PROSSIMO DI OGNI UOMO

Canto iniziale (?)Introduzione alla preghiera (pag 161/162 e 167)

1° parte: DIO HA FIDUCA DELL’UOMO ( PAG. 162 E 163 )2° parte: DIO GRATUITAMENTE ACCOGLIE E PERDONA ( pag. 163 – 164 –165)3° parte: DIO RESTITUISCE ALL’UOMO LA SUA DIGNITA’ DI FIGLIO ( pag.165-1664° parte:IL BISOGNO DELL’UOMO (pag 168 – 169)5° parte: L’INDIFFERENZA VERSO LA NECESSITA’ DEI FRATELLI (pag 170-171)6° parte: LA SOLIDARIETA’ COMPASSIONEVOLE (pag.171-172-173)PADRE NOSTROCanto finale (?)

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCATECHESI ADULTI 2001/1

METODOLOGIA DEGLI INCONTRI

• Introduzioneo Saluto inizialeo Preghiera allo Spiritoo Spiegazione del tema, degli obiettivi e del metodo di

lavoroo Lettura della Parola di Dio

• Fase di proiezione Prima reazione istintiva al testo biblico• Fase di analisi Approfondimento, commento biblico.• Fase di riappropriazione o attualizzazione Interiorizzazione attualizzazione della parola ascoltata • Preghiera finale

LA SEMINA: Successo ed insuccesso del Regno di Dio (Mc 4,3-9)

Uscì il seminatore a seminare. [4]Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e vennero gli uccelli e la divorarono. [5]Un’altra cadde fra i sassi, dove non c’era molta terra, e subito spuntò perché non c’era un terreno profondo; [6]ma quando si levò il sole, restò bruciata e, non avendo radice, si seccò. [7]Un’altra cadde tra le spine; le spine crebbero, la soffocarono e non diede frutto. [8]E un’altra cadde sulla terra buona, diede frutto che venne su e crebbe, e rese ora il trenta, ora il sessanta e ora il cento per uno». [9]E diceva: «Chi ha orecchi per intendere intenda!».

• Fase di proiezione: Formazione di 3 gruppi e lavoro di gruppo (20’) GRUPPO: Rileggete la parabola. Indicate con una frase o due come ne spieghereste il significato ad un bambino.

• Analisi del testo

• Appropriazione: • Confronto tra la prima riflessione e le nuove acquisizioni• Cosa mi dice per la mia esperienza• Verifica dei propri atteggiamenti

CATADULT 2001 -1

PERCHE’ COMINCIAMO CON LE PARABOLE ?Gesù inizia il suo ministero annunciando l’imminenza del regno di Dio. Lo fa attraverso una proclamazione diretta accompagnata da gesti di perdono e

guarigioni che attestano la vicinanza di Dio a chi si dispone ad accoglierlo nella sua persona.

I Vangeli sono concordi nell’affermare l’iniziale successo del ministero di Gesù; la folla sembra dare credito al suo annuncio e lo accoglie con entusiasmo.

Ma a questo primo consenso subentra presto un crescendo di diffidenza, dubbio, delusione rispetto al tipo di attese coltivate delle persone che lo attorniano.

Di fronte a questo nuovo contesto Gesù non rinuncia alla propria missione, ma non può nemmeno ignorare le difficoltà che gli sono poste dai suoi interlocutori, così che egli cambia la modalità di dialogo con la folla e passa dal linguaggio proclamativo, in cui il regno di Dio è annunciato apertamente, al linguaggio parabolico con il quale ripropone la stessa proclamazione, ma tenendo presenti le obiezioni che gli vengono dai suoi interlocutori.

Gesù inizia a parlare in parabole per tentare di spiegare in modo nuovo, attraverso immagini e racconti coinvolgenti, il suo messaggio, così da far superare le resistenze che incontra negli uditori. La parabola, infatti, porta l’uditore non più all’impatto diretto con la realtà annunciata -, questo sembra ora scatenare più reazioni che consensi - ma lo conduce a ripercorrere l’esperienza lì evocata attraverso le immagini e i racconti. Chi ascolta, non sentendosi investito direttamente dal messaggio di Gesù, si lascia coinvolgere.

PER COMPRENDERE LE PARABOLE

Le parabole non possono essere ridotte all’enunciazione di concetti messi a disposizione di un lettore esterno al racconto.

Il messaggio delle parabole è accessibile solamente a chi si lascia prendere nel racconto.

Sono un itinerario che va percorso nella sua interezza lasciandosi coinvolgere dalle immagini che lungo il percorso appaiono, senza tuttavia perdere di vista la meta a cui si è progressivamente condotti.

Quando si ascolta una parabola non si è chiamati a «imparare una lezione», ma piuttosto a rendersi disponibili ad entrare nel cammino tracciato, a lasciarsi coinvolgere, a prendere parte al dramma narrato.

Solo chi si sente interpretato dal racconto e dai suoi protagonisti può dire di aver compreso la parabola.

Per capire il testo è perciò necessario compiere un percorso di 4 tappe attraverso le quali ci avvicineremo progressivamente al messaggio che la parabola contiene.

1- Anzitutto è importante familiarizzare con gli elementi portanti della parabola costituiti dalle immagini usate. Ci domanderemo quale realtà ha osservato Gesù per poi riferirla nel racconto e renderla significativa di una realtà più grande quale il regno di Dio. Questo procedimento permette di andare al di là di un messaggio generico e ancora astratto che ridurrebbe il racconto ad una enunciazione teorica, mentre lascia emergere tutte le sfumature e la ricchezza del linguaggio narrativo.

2- Compresa l’immagine, è importante cogliere come questa diventa racconto, cioè come il narratore ne fa uso per portare gli uditori a confrontarsi con il suo punto di vista. Le parabole sono racconti particolarmente vivaci in cui vengono a confronto due punti di vista: quello di Gesù e quello dei suoi uditori. E’ perciò importante prestare attenzione alla struttura del racconto perché questa aiuta a evidenziare come le diverse posizioni si confrontano e a porre l’accento sugli elementi portanti della parabola; questo permette di individuare il «vertice» della parabola, cioè quel punto che solitamente lascia trasparire il messaggio di Gesù.

3- Colta la dinamica del racconto, si può individuare con più precisione il messaggio che esso racchiude. Questo permette di passare dal tema della parabola all’esperienza vissuta da Gesù.

4- Si riconoscono infine i significati che la parabola oggi apre per la nostra vita di credenti. E’ necessario sollecitare il testo fino a far parlare i significati che in esso sono racchiusi.

COMMENTO (Mc 4,3 –9)

• Obiezione spontanea: seminatore disattento e distratto

• Deduzione: gli insuccessi della semina sono il risultato dell’incapacità e della superficialità del seminatore

• Evitiamo questo equivoco: ai tempi di Gesù la semina avveniva prima della aratura, quindi una perdita era prevista.

• Gli stessi terreni quando non erano sfruttati divenivano luoghi di passaggio, quindi stradicciole di terra battuta

• Il terreno della Palestina è molto sassoso

• Crescono ai margini rovi che solo dopo l’aratura erano eliminati

• Questo ci fa capire che era normale una perdita di semi per i motivi sopra citati

• Gesù conosce molto bene l’ambiente che lo circonda e trasforma la sua esperienza in parabola mostrando che il rapporto tra Dio e l’uomo è una realtà dinamica

• Il vero soggetto della parabola è il contadino.

• Noi siamo tentati di fissare la nostra attenzione sui vari tipi di terreno e sulla disponibilità ad accogliere il seme.

• Invece la struttura della parabola riguarda il seminatore e il dramma di che si appresta a un gesto di cui non conosce ancora i risultati

• Nell’atto della semina si distinguono 4 momenti, che vanno dal meno al più. La prima parte non riesce nemmeno a spuntare perché gli uccelli…, la seconda riesce a germinare, ma il sole la brucia, la terza un poco cresce fino allo stelo, ma le spine la soffocano, infine una parte da frutto.

• Sembrano 4 momenti, ma di fatto si tratta di 2: il momento del successo e quello dell’insuccesso

• Gesù vuole mettere a confronto 2 mentalità: quella degli ascoltatori e la sua

• CIO’ CHE FA PROBLEMA E’ IL RICONOSCRE L’ESISTENZA DI UN INSUCCESSO

• CIO’ CHE IMPEDISCE ALLA SEMENTE DI CRESCERE NON SONO CAUSE STRAORDINARIE, MA CAUSE MOLTO ORDINARIE

• QUESTA PARABOLA SERVE A GESU’ PER DESCRIVERE L’AZIONE DI DIO CHE VIENE INCONTRO ALL’UOMO PER FAR CRESCERE LA SUA VITA

• IL REGNO DI DIO PUO’ INCONTRARE SUCCESSI ED INSUCCESSI. IL VERO PROBLEMA E’ L’INSUCCESSO PERCHE’ COSTRINGE AD INTERROGARSI SUI MOTIVI CHE L’HANNO PROVOCATO.

• Inizialmente sembra che la predicazione di Gesù abbia successo e consenso, poi segue una fase di opposizione.

• Gesù sperimenta che l’annuncio gioioso di un Dio che viene incontro all’uomo trova anche ostilità

• Gesù narra questa parabola in questo momento di crisi: perché gli uomini non sono accoglienti verso un Dio che viene incontro all’uomo?

• Gesù risponde con questa parabola mostrando che quando il Regno di Dio entra nella storia complessa degli uomini deve fare i conti con i limiti e le resistenze. Quindi chi esce a seminare deve sapere degli insuccessi inevitabili anche se è sicuro che ci sarà anche un successo.

• L’azione di Dio non trasforma magicamente: il Regno di Dio diventa umano progressivamente attraverso una storia fatta di luci e di ombre, di successi ed insuccessi

• Di fronte all’insuccesso Gesù non reagisce colpevolizzando la realtà o se stesso, ma accetta che la storia abbia le sue sconfitte

• Chi non accetta il suo messaggio non è colpevole in senso morale, ma ha una idea sbagliato; pensa un Dio che interviene in modo grandioso e non un Dio che si manifesta con Gesù che apparentemente è un uomo come gli altri.

• Gesù non colpevolizza la realtà, accetta che alcuni non capiscano, ma non rinuncia al suo messaggio ed alla sua identità.

• Il Regno di Dio viene e darà frutto nonostante l’annuncio possa avere degli insuccessi.

ILLUMINIAMO LA NOSTRA VITA• Gesù osserva la realtà e sa cogliere significati che lo aiutano a

capire la gente, la sua vita, i suoi problemi, il suo rapporto con Dio: Sa vedere la vita che cresce e il mistero di Dio che porta a maturazione la vita

• Noi possiamo reagire in 2 modi all’insuccesso e alla lentezza nel comprenderci:• Colpevolizzare chi non capisce e diventare rigidi con le persone• Colpevolizzare noi stessi e diventare insicuri: ”sto sbagliando

tutto”

• Gesù non fa così, egli prende atto che inserirsi nella storia è, al di là della buona o cattiva volontà degli uomini, calarsi in un tessuto di incertezze ed oscurità. Gesù accetta serenamente questa lentezza e le difficoltà

• IL MESSAGGIO E’ CHIARO: DI FRONTE AI NOSTRI INSUCCESSI,QUANDO CI ACORGIAMO CHE, NONOSTANTE QUELLO CHE SEMINIAMO SIA BUONO, NON PORTA IL FRUTTO DESIDERATO COMINCIAMO A DARE LETTURE AGGRESSIVE E NEGATIVE DELLA REALTA’ E DELLE PERSONE O ENTRIAMO IN CRISI.

• Gesù prende atto dei limiti della natura umana e della storia, non mette in crisi la sua missione né accusa gli altri, sa che l’azione di suo Padre darà frutto ed accetta di percorrere la strada lenta dell’umanità.

• DOBBIAMO IMPARARE CHE NELLA VITA DI OGNI GIORNO, NONOSTANTE IL NOSTRO IMPEGNO, NON TUTTO VA A SEGNO, NON SI DEVE FAR ALTRO CHE ESSERE CREATIVI, PAZIENTI, USARE ALTRI LINGUAGGI ED ALTRI MEZZI DI COMUNICARE E DI AMARE, TROVARE FORME DI FARCI CAPIRE

• Siamo invitati ad aumentare la nostra fiducia in Dio e credere che la semina del suo Regno darà sicuramente frutti.

• Il contadino sarebbe uno stupido se , pur sapendo che parte della sua fatica va perduta smettesse di seminare, ma egli lo fa perché è consapevole che nonostante le perdite un successo ci sarà

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCATECHESI ADULTI 2001/2

IL FARISEO E IL PUBBLICANOL’immagine di Dio e il rapporto con l’uomo

Messaggio centraleGesù racconta la sua esperienza di Dio Padre che non pone condizioni a chi si

presenta a lui con autenticità

Finalità dell’incontro• Riconoscere Dio come mistero da accogliere senza la presunzione di disporre di

lui• Non sentirsi detentore della verità e non giudicare le persone

Atteggiamenti• Essere veri di fronte a Dio perché egli possa accogliere ognuno così com’è• Riconoscere i propri limiti• Mantenere la fiducia in Dio e negli altri come capacità di rimettersi sempre in

cammino• Rifiutare atteggiamenti di discriminazione e intolleranza• Rivedere il nostro atteggiamento nei riguardi dei “lontani”

Lettura della Parola di DioLuca 18, 9-14

[9]Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: [10]«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. [11]Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. [12]Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. [13]Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. [14]Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».

Preghiera iniziale

Tu sei il Signore altissimo, misericordioso, longanime, e pieno di pietà, e che si rammarica per le malvagità degli uomini. Ora piego il ginocchio del mio cuore, invocando la tua benevolenza; ho peccato, Signore, ho peccato, e conosco io stesso i miei errori. Ti supplico implorando mostra in me la tua bontà: perché, benché io sia indegno, mi salverai nella tua grande misericordia. E ti loderò sempre, ogni giorno della mia vita. Perché te esalta tutta la potenza dei cieli, e tua è la gloria nei secoli. Amen.

Lavoro di gruppo iniziale

• Perché il fariseo, secondo voi torna a casa non giustificato e il pubblicano si ? E’ solo problema di superbia ?

• E’ ancora possibile ritrovare i due atteggiamenti del fariseo e del pubblicano all’interno della nostra comunità ? Sotto quale forma ?

Momento di verifica dei nostri atteggiamenti

Contrapponendo l’atteggiamento del fariseo e quello del pubblicano, la parabola non intende condannare la pratica del fariseo. Come riuscire ad essere allo stesso tempo fedeli alle scelte di fede e agli impegni che essa chiede e rimanere nell’atteggiamento gratuito e non presuntuoso del pubblicano ?

Preghiera di ConclusioneIl fariseo ha partecipato al nostro incontro e ritorna al tempio a pregare.Provate ad aiutarlo a pregare correttamente.

IL FARISEO E IL PUBLICANOL’immagine di Dio e il rapporto con l’uomo

Commento

• La preghiera è l’esperienza che meglio ci permette di riconoscere l’immagine di Dio che domina la vita di una persona

• Nella parabola del fariseo e del pubblicano Gesù ci presenta due uomini nel momento della preghiera e lascia trasparire attraverso il racconto l’immagine di Dio che emerge dalla sua vita.

• La parabola è carica di messaggio teologico poiché mette a tema una visione di Dio sulla quale Gesù sembra non intendersi con i suoi interlocutori.

• Non è corretto perciò ridurla ad un insegnamento sull’umiltà intesa in termini moralistici, anche se l’interpretazione che di essa dà lo stesso evangelista sembra orientarci in questa direzione.

• Per non incorrere in tale errore è necessaria una breve premessa su come va compreso il messaggio delle parabole.

• Per familiarizzare con il racconto di Gesù è importante anzitutto prendere le distanze dalla precomprensione dei personaggi qui presentati che è sedimentata in noi; infatti quando noi sentiamo la parola «fariseo» già la carichiamo di valenza negativa iniziamo col prendere distanza dagli stereotipi sui personaggi: fariseo ipocrita e pubblicano peccatore umile.

• Ripensare le figure come venivano comprese dai contemporanei di Gesù

FARISEI: persone pie che osservavano scrupolosamente le leggi, anche le minime anche a costo di notevoli sacrifici; per questo si ritiene un “separato” dagli altri che considera peccatori. Egli mira a rappresentare l’ideale dell’uomo religioso e presentarsi come modello da imitare.

PUBBLICANI: categoria invisa al popolo, esattori delle tasse, collaboratori con il potere straniero, impuri per i contatti con gli stranieri, ladri perché potevano a discrezione aumentare le tasse. Non richiamava dunque nessuna simpatia.

• Contrasto netto tra i due personaggi, soprattutto in un momento di preghiera

• La forte caratterizzazione dei personaggi, e soprattutto la distanza tra i due dal punto di vista della condizione religiosa, accentuata dal presentarli in un contesto di preghiera, viene sfruttata per dare maggiore vivacità alla dinamica del racconto, tutta giocata sui forti contrasti tra i personaggi e sul rovesciamento delle posizioni.

• Presentati all’inizio mentre salgono assieme al Tempio per compiere lo stesso atto di culto, li ritroviamo alla fine su percorsi differenti: uno discende a casa sua giustificato, l’altro no!

• Il contrasto tra l’inizio e la fine del racconto e il capovolgimento del modo abituale di pensare alle figure del fariseo e del pubblicano, provocano immediatamente il lettore a ripercorrere tutto lo sviluppo del racconto per ricercare gli indizi che diano spiegazione di questo mutamento.

• Si è così trasportati dalla dinamica della narrazione a prendere posizione rispetto ai diversi personaggi; l’uditore, «catturato» dalla parabola, si trova ad essere egli stesso da essa giudicato.

• La nostra precomprensione della figura del fariseo, come prototipo dell’uomo ipocrita e del pubblicano, come esempio dell’uomo umile, rischia di attenuare di molto il contrasto presente nel testo; non così doveva apparire ai contemporanei di Gesù, per i quali era scandaloso pensare a un pubblicano giustificato e a un fariseo non giustificato di fronte a Dio.

• La spiegazione abituale deve perciò lasciare il posto ad una ricerca più approfondita. Se si segue con attenzione la narrazione è possibile intravedere la motivazione più profonda del capovolgimento finale di prospettiva

• Percorriamo dunque il cammino indicato. La parità di condizione iniziale - «due uomini salirono al Tempio a pregare» (v. 10) - lascia subito il posto al racconto per contrasti.

• I due, inizialmente indicati con il termine generico «uomini» sono subito caratterizzati per la loro differente condizione sociale - «fariseo» e «pubblicano» -, per la diversità degli atteggiamenti e del contenuto della loro preghiera.

• Il fariseo è presentato «ritto» mentre «pregava tra sé». La posizione eretta non va intesa come espressione di orgogliosa autosufficienza; essa indica la posizione abituale dell’ebreo durante la preghiera: sta diritto davanti a Dio come suo interlocutore.

• L’insieme della preghiera sembra non suffragare l’interpretazione di un atteggiamento orgoglioso. Il fariseo, infatti, si rivolge a Dio con parole di ringraziamento e con l’espressione grata di chi riconosce come dono di Dio il fatto di vivere una vita non traviata

• Possiamo trovare una eco di questa preghiera negli stessi salmi e in testi di preghiere giudaiche risalenti al tempo di Gesù; una di esse così recita: «Ti ringrazio, Signore e Dio mio, perché mi hai dato la mia parte tra coloro che siedono nella casa dell’insegnamento, dove si studia la Legge di Dio, e non tra coloro che siedono fannulloni e oziosi agli angoli delle strade ...

• Dunque questo fariseo prega con le parole abituali e, in ciò, la sua preghiera risulta autentica da non intendere come espressione di orgoglioso autocompiacimento, poiché esprimono l’abituale ricerca di correttezza morale propria del pio ebreo osservante della legge.

• Si può immaginare che per gli uditori di Gesù le parole del fariseo risuonassero come esempio classico della preghiera del pio israelita. Il motivo della non giustificazione del fariseo sembra dunque non dipendere da un atteggiamento particolarmente orgoglioso.

• Il pubblicano viene presentato sulla scena mediante l’espressione «invece» che lascia subito intendere come la sua figura prenda forma per contrasto rispetto a quella precedentemente presentata.

• Egli «sta lontano» esprimendo anche attraverso la sua posizione fisica la lontananza dal fariseo e la consapevolezza di essere lontano dalla condizione idonea per presentarsi davanti a Dio.

• Di seguito vengono descritti altri due gesti di quest’uomo. Egli «non osava neppure alzare gli occhi al cielo». L’espressione «alzare gli occhi al cielo» indica l’atteggiamento di chi cerca di entrare in dialogo con Dio; i Vangeli si servono sovente di questa immagine quando presentano Gesù mentre si rivolge al Padre suo.

• L’atteggiamento del pubblicano sembra perciò lasciar trasparire la sua consapevolezza dell’incapacità di pregare e di entrare in relazione con Dio a motivo della condizione morale di peccatore.

• Infatti, secondo la mentalità comune dei contemporanei di Gesù era impossibile per un peccatore pubblico il rapporto con Dio nella preghiera.

• Il secondo gesto: «si batteva il petto» esprime l’atto simbolico di chi vuole indicare la condizione disastrosa della propria vita, la denuncia di una condizione ormai irrimediabilmente compromessa rispetto alla possibilità di salvezza

• Questa descrizione dell’atteggiamento e dei gesti del pubblicano non deve aver meravigliato gli uditori di Gesù i quali immaginavano proprio così la condizione di un pubblico peccatore.

• Ai loro occhi era pressoché impossibile per un pubblicano chiedere perdono a Dio; essi conoscevano certamente la misericordia di Dio, ma secondo la loro mentalità il perdono era possibile solamente per coloro che erano disponibili a una penitenza visibile ed efficace.

• Per un pubblicano ciò significava cambiare professione e restituire quanto aveva rubato nell’ordine del centoventi per cento, condizione irrealizzabile poiché non sapeva nemmeno quanto e a chi aveva rubato.

• Gli uditori di Gesù non si ritenevano certamente impeccabili e nemmeno i farisei pensavano ciò di se stessi, tuttavia questi cercavano di pareggiare la bilancia delle proprie colpe con le buone azioni in cui si impegnavano, pensando cosi di poter avere il perdono di Dio.

• Nella preghiera del pubblicano non troviamo alcun accenno alla volontà di riparare agli errori commessi. La sua preghiera appare piuttosto come un grido che sale da una coscienza disperata, ma che lascia trasparire ancora un sussulto di speranza nella misericordiosa accoglienza da parte di Dio.

• L’unica àncora di salvezza che traspare da questa preghiera è la totale e incondizionata gratuità della misericordia di Dio.

• Vista la presentazione dei personaggi nella contrapposizione che li caratterizza resta da spiegare il motivo della loro differente condizione finale per cui «questi (il pubblicano) discese a casa sua giustificato (da Dio), quello (il fariseo) invece no».

• Che cosa ha determinato questa sentenza di Gesù che sconvolge le attese degli uditori?

• Un’espressione presente nella preghiera del fariseo è rivelatrice di ciò che Gesù ha inteso.

• Il fariseo dicendo «non sono come costui (il pubblicano) comprende la sua posizione davanti a Dio per raffronto con quella del pubblicano: presume di conoscere il criterio secondo cui Dio giudica gli uomini.

• A partire da ciò si può comprendere la frase finale di Gesù che pone in evidenza il suo punto di vista, contrapposto a quello espresso dal comune sentire dei suoi contemporanei.

• Il pubblicano è giustificato perché non presuppone di conoscere Dio, ma affida a lui le sorti dell’incontro: solamente la bontà incondizionata, gratuita di Dio potrà ristabilire la sua condizione

• Se ben compresa, l’affermazione di Gesù non lascia spazio ad una indulgenza bonaria che trascura la gravità della condizione del pubblicano; egli è realmente un peccatore ed è giustificato non perché assume un atteggiamento di umiltà.

• Se la sentenza di Gesù venisse intesa così, dovremmo pensare che l’accoglienza di Dio è ancora condizionata da una previa prestazione da parte dell’uomo, proprio come pensavano gli uditori di Gesù.

• Invece, ciò che questi lascia intendere con la sua sentenza è che di fronte a Dio ogni uomo si presenta peccatore e che l’unica possibilità di portare a frutto l’incontro con lui è data dal fatto che Dio non pone previe condizioni.

• L’unica richiesta che viene fatta all’uomo è di riconoscere che la dinamica dell’incontro è questa.

• Il fariseo, perciò, torna non giustificato perché non sa riconoscere questa dinamica.

• La sua non giustificazione non va intesa come punizione per il suo orgoglio; ancora una volta se si comprendesse così la parabola si resterebbe legati all’immagine di un Dio che sottostà ai nostri criteri di retribuzione.

• Fin tanto che il fariseo - e con lui gli uditori di Gesù - non riconosce in Dio colui che incondizionatamente accoglie ogni uomo, non ha la possibilità di entrare nella giusta relazione con lui: la sua stessa preghiera sbaglia direzione.

• Qual è il messaggio che Gesù lascia trasparire da questa parabola ?

• Nella parabola entrano in conflitto due punti di vista: quello degli uditori, che traspare dalla figura del fariseo, e quello di Gesù, che viene espresso nel capovolgimento finale presentato dalla parabola.

• La sentenza smaschera la presunzione del fariseo che pensa di sapere come Dio giudica: Dio ripaga le buone opere e punisce i peccatori!

• Il fariseo esclude così che Dio possa andare oltre la misura di misericordia che egli ha prestabilito: come può Dio accogliere l’uomo senza chiedergli nulla?

• La sua colpa non è pertanto di ordine morale, non va ricondotta ad orgogliosa autosufficienza, ma è piuttosto di ordine teologico: sono in gioco differenti visioni di Dio.

• Il Dio che traspare dalla preghiera del farisco - per altro corrispondente al comune pensare dei contemporanei di Gesù - è colui che, sebbene misericordioso, riconosce tuttavia una graduatoria tra gli uomini in base alla loro condotta meritoria.

• Ben diverso è il Padre di Gesù che si manifesta nella sua totale gratuità e perdona incondizionatamente.

• Tutta la vita di Gesù è spesa per far incontrare gli uomini con questo volto del Padre; per questo egli non prende le distanze dai peccatori, ma si avvicina loro, mangia con loro, li chiama a far parte dei «suoi».

• Attraverso la sua concreta vicinanza egli manifesta loro la vicinanza di Dio Padre che apre sempre la vita di ogni uomo alla possibilità di nuovi percorsi

Significato per la nostra vita

• L’immagine di Dio che Gesù presenta domanda perciò di abbandonare la presunzione di costringere Dio nei nostri criteri e schemi.

• Ogni volta che egli nel suo mistero si presenta all’uomo, fa sentire sempre come insufficiente la comprensione che si ha di lui; perciò l’unica possibilità di incontrarlo è quella di rinunciare a possederlo per attenderlo con speranza.

• Il cristiano è colui che accetta di vivere in questa dimensione di attesa, speranza, ricerca, in cui Dio può continuamente donarsi con la sua novità.

• Il volto del Padre che Gesù annuncia ci porta così a rieducare la nostra immagine di Dio verificando il nostro modo di guardare agli altri.

• Gli atteggiamenti cristiani che coltiviamo sono, infatti, corrispondenti all’immagine di Dio che portiamo nella coscienza.

• Perciò noi possiamo riconoscere l’immagine di Dio a cui facciamo riferimento anche guardando alla qualità delle relazioni con il nostro prossimo.

• La parabola è a tale riguardo emblematica. Il fariseo coltiva un’immagine di Dio che lo porta a relazionarsi al pubblicano in termini di contrapposizione: egli non è come «questo pubblicano».

• Il pensiero di un Dio che classifica gli uomini lo porta a guardare agli altri con occhio giudicante: ha bisogno di un termine di paragone per sentirsi giusto «a differenza degli altri uomini».

• Mettersi di fronte al volto di Dio Padre che accoglie incondizionatamente, significa per noi avere la possibilità di guardarci in faccia con sincerità, così come fa il pubblicano.

• Ciò non significa affatto sorvolare e non prendere in seria considerazione i propri peccati, tutt’altro: chi si sente accolto proprio perché è già giustificato da Dio non ha bisogno di giustificare le proprie colpe ma le può riconoscere.

• Invece chi si sente giudicato tenterà in ogni modo di trovare la via per giustificare la propria posizione; allora, anziché guardare alla bontà di Dio, sarà portato a fare i confronti con il prossimo cercando sempre colui che sembra stare in una posizione peggiore della sua.

• Poiché Dio ci viene incontro per quello che siamo e non per come

vorremmo essere, ci dà la possibilità di riconoscere con verità i nostri limiti e i nostri errori e così ci mette nella condizione indispensabile per superarli.

• Chi sa guardare così alla propria vita sa che ogni fratello è nella stessa posizione di fronte a Dio; è perciò liberato dal bisogno di classificare gli altri e di contrapporsi ad essi.

• Quando cominciamo ad essere veri con noi stessi di fronte a Dio sentiamo che dentro di noi prende spazio l’atteggiamento di fiduciosa accoglienza.

• Possiamo ora comprendere anche l’attualizzazione che ci offre Luca nel contesto della sua comunità cristiana .

• La denuncia di Luca nei confronti di coloro che «presumono di essere giusti e disprezzano gli altri», la possiamo comprendere non solo come condanna di un cattivo atteggiamento morale, ma anche come espressione di una più profonda distorsione.

• Questo atteggiamento nasce, infatti, da una de- viante comprensione dell’immagine di Dio.

• Evitando così di ridurre la comprensione della parabola ad un’esortazione moralistica all’umiltà, ne comprendiamo tutta la pregnanza teologica.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle Treponti

CATECHESI ADULTI 2001/3

Il padre misericordiosoLo svelarsi dell’amore incondizionato di Dio

Messaggio centraleGesù racconta la sua esperienza di Dio Padre che aiuta ogni persona a riscoprire e

vivere la dignità di figlio di Dio e di fratello

Finalità dell’incontro• Riscoprire il volto paterno di Dio per vivere un’autentica relazione filiale nella

libertà ed uscire da atteggiamenti religiosi di tipo servile ( dimensione filiale)• Vivere relazioni fraterne nella libertà, non manipolare i rapporti nel tentativo di

assorbire gli altri nelle proprie idee e bisogni ( dimensione fraterna )

AtteggiamentiGesù ci invita a• Accettare che nella nostra situazione di colpa Dio ami e accolga ognuno come

figlio• Valorizzare ogni persona per ciò che è e non per ciò che ci si aspetta da lei• Rispettare la libertà di ognuno come garanzia di relazioni autentiche• Vivere ed affaire il perdono come eco dell’atteggiamento che Dio ha nei confronti

di tutti

Lettura della Parola di Dio (Luca 15, 11-32 )«Un uomo aveva due figli. [12]Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. [13]Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. [14]Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. [15]Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. [16]Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. [17]Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! [18]Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; [19]non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. [20]Partì e si incamminò verso suo padre.Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. [21]Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. [22] Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. [23]Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, [24]perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.[25]Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; [26]chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. [27]Il servo gli rispose: E’ tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. [28]Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. [29]Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. [30]Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. [31]Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; [32]ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

Lavoro inizialeGiovanni, 18 anni compiuti da poco frequenta il quarto anno presso l’ ITIS. Da qualche tempo bazzica con gente strana, ha smesso di giocare al pallone nella squadra locale, rientra tardi la sera e un bel giorno se ne va da casa rubando anche i pochi ori della mamma e della sorella maggiore. Qualche tempo dopo improvvisamente una domenica all’ora di pranzo ritorna a casa. A tavola si ritrovano insieme il papà operaio, la mamma casalinga e la sorella Paola, che lavora come cassiera in un supermercato di giorno e studia la sera per ottenere un diplomaMettere in bocca ai personaggi una frase sbagliata e una giusta, tenendo conto della parabola ascoltata

FRASE SBAGLIATA FRASE GIUSTAGiovanni

papà

mamma

Paola

COMMENTO

• Chi sono i destinatari di questa parabola ?

• «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicano e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”».

• La situazione che provoca il racconto di Gesù è quindi un’esperienza da lui vissuta: si accorge che le persone di cattiva reputazione, contrariamente a quanto poteva aspettarsi, sono disponibili ad accoglierlo e rivelano un’apertura insospettata; invece il suo messaggio e i suoi gesti suscitano la reazione negativa degli scribi e dei farisei, che come lui sono fedeli alla parola di Dio e alla Legge.

• Gesù risponde alle critiche avanzategli dai capi d’Israele presentando due paragoni e una parabola: la pecora perduta e ritrovata, la dramma perduta e ritrovata, e il racconto del padre e dei due fìgli

• Analizzando attentamente i tre racconti, ci accorgiamo che essi, pur recando lo stesso messaggio, presentano un andamento progressivo.

• Il tema comune è quello della gioia che deriva dal ritrovare ciò che era stato perduto, gioia che si concretizza nell’invito a far festa insieme, la progressione riguarda sia l’oggetto del rinvenimento, prima animali e cose (la pecora, la dramma) e poi le persone (il figlio), sia l’espressione mediante la quale si indica l’avvenuto ritrovamento: da «perduto/ritrovato» si passa a dire «morto/ritornato-in-vita», sottolineando così che qui si parla di relazioni umane, prima interrotte e ora riprese, e che è in gioco la persona stessa nella sua capacità

di relazione, nel suo bisogno di vita più profondo.

• Questa parabola è soprattutto rivolta ai farisei e agli scribi, anche se contiene un messaggio chiaro anche per i pubblicano e i peccatori.

• Possiamo quindi immaginare che in ascolto di Gesù vi sia un pubblico misto, al quale egli sembra proporre un atteggiamento nei riguardi dei peccatori che contraddice ciò che un buon giudeo dovrebbe fare.

• Gesù fa riferimento ad una esperienza che si potrebbe verificare all’interno di un nucleo familiare: un figlio se ne va di casa, forse attratto dal fascino illusorio delle grandi città orientali, dove è possibile spendere, divertirsi, condurre una vita lussuosa.

• Siamo di fronte a una delle pagine forse anche letterariamente più belle dei brani evangelici.

• E’ importante ripercorrere il racconto seguendo le traiettorie che esso presenta: quella del padre, quella del figlio minore e quella del figlio maggiore.

• Le traiettorie si intersecano, dando vita a un messaggio che si sviluppa con un suo inizio, un suo sviluppo e un suo compimento.

• E’ abbastanza facile notare come la parabola sia divisibile in due parti, riguardanti le due figure del figlio minore e del figlio maggiore: i due momenti sono collegati da un «ritornello»: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

• Inoltre, dalla struttura stessa del racconto ci si accorge della inadeguatezza della denominazione che tradizionalmente si è data alla parabola, detta «del figlio prodigo»: essa non è la parabola di un solo figlio, ma di tutti e due i figli, e inoltre il vero protagonista della parabola è il padre. E’ attorno a lui, infatti, che si snodano i due percorsi diversi del figlio minore e del figlio maggiore.

• Il racconto inizia con un’annotazione: «Un uomo aveva due figli»; si tratta di una condizione che viene lasciata nell’indeterminatezza, dato che viene detto «un uomo» e non «un padre». Nulla traspare della relazione tra questo uomo e i due figli: essa è semplicemente connotata da un’espressione di possesso («aveva»), quasi ad indicare un semplice legame giuridico

• Ci si attende, dunque che il racconto sveli che tipo di padre è questo e che tipo di paternità vuole esercitare, come d’altronde che tipo di figli sono questi e che relazione vivono con il loro padre.

• E’ da tale situazione indeterminata, ma significativa, che inizia il percorso del figlio minore.

• Il v. 12 presenta la richiesta del figlio di avere la sua parte, e la risposta del padre che divide i beni tra i due figli. Analizzando gli statuti giuridici del tempo, riscontriamo che il padre, ancora vivente, poteva dividere i suoi beni tra i figli secondo la proporzione di due terzi al maggiore e di un terzo al minore: i beni però rimanevano non alienabili finché viveva il padre, il quale ne conservava inoltre l’usufrutto.

• In questo contesto, appare ancora più grave la posizione del figlio che, non solo se ne va di casa, ma anche aliena i beni assegnatigli, trasgredendo così la norma giuridica. Risulta inoltre chiaro qual è il suo progetto: egli vuole sì l’indipendenza economica, ma soprattutto l’indipendenza di relazione con il padre.

• La reazione del padre si rivela molto strana: egli subisce silenziosamente questa «sconfitta», dividendo i beni e lasciando partire il figlio.

• Il seguito del racconto mostra il degrado progressivo del giovane. Egli conduce una vita immorale, che indoviniamo dall’espressione «vivendo da dissoluto», e perde la sua sicurezza economica.

• La situazione esterna di carestia lo porta a precipitare sempre

più in basso, fino a ridurlo a lavorare insieme ad un pagano, contraendo così, secondo la mentalità giudaica del tempo, una impurità che gli impedisce di partecipare alla comunità religiosa.

• Inoltre, andando a pascolare i porci, considerati animali impuri, e abbassandosi fino al punto di comportarsi come loro, cioè desiderando di mangiare le carrube, quest’uomo indica la situazione di tragico degrado da lui raggiunto, sia economico, che morale e religioso, che culturale e fisico.

• A questo punto il racconto subisce un’inversione di tendenza, segnalata da quel «rientrato in so stesso »: viene indicato così un movimento interiore, che si traduce poi in movimento esteriore.

• Qualcuno interpreta questo «rientrato in se stesso» come conversione, ma tale lettura psicologica non sembra rispettare il testo.

• Cosa fa rientrare in se stesso il figlio? Il pentimento per quello che ha fatto, il rimorso per il suo atteggiamento verso il padre?

• Ascoltiamo il suo ragionamento. «Quanti mercenari in casa di mio padre hanno pani in abbondanza, e io qui muoio di fame ... »: questo «ritorno in sé» non è dunque che un calcolo dettato dal bisogno.

• Anche le parole che seguono non sono un atto di pentimento: «Mi alzerò e andrò da mio padre ... »: il calcolo mentale qui è il seguente: «Non posso più essere accettato come figlio. Se mi presento come un servo, potrò essere assunto e mangiare qualcosa».

• Non sembra prendere in considerazione la possibilità, anche remota, di essere ripreso come figlio: l’unica sua prospettiva è quella di un rapporto servo-padrone.

• A questo punto, ritorna improvvisa la figura del padre.

L’annotazione: «lo vide quando era ancora lontano» sta a significare che, con la sua speranza, era sempre presente anche nell’assenza del figlio.

• La sua reazione è risultata sicuramente sconcertante per gli uditori ebrei: «Si commosse», anzi, secondo la traduzione letterale dal greco: «fu preso nelle viscere»: questo è un verbo che si riferisce in genere a una madre, non a un padre.

• L’evangelista Luca attribuisce a questo padre i sentimenti di una madre, e si collega così alla tradizione biblica, dove Dio ha sovente atteggiamenti materni verso Israele.

• Non si tratta allora di una commozione di tipo psicologico, ma piuttosto di una commozione di tipo «teologico», cioè un’allusione discreta all’atteggiamento stesso di Dio verso il suo popolo.

• Anche la corsa che il padre fa incontro al figlio deve essere parsa molto strana agli ascoltatori: per un ebreo il correre è un gesto poco dignitoso, soprattutto per una persona di una certa età, perché «un uomo si conosce nella dignità del suo procederei, come dice il libro dei Proverbi.

• Tutti questi particolari non fanno che sottolineare l’atteggiamento inconsueto di quest’uomo, che non esita a ignorare tutte le convenienze sociali, proprio come all’inizio aveva trascurato ogni buon senso.

• Successivamente il padre si butta al collo del figlio e lo bacia, e questi sono gesti che nell’Antico Testamento indicano il perdono e la riconciliazione.

• Egli poi comanda ai servi di portargli la veste, i sandali e l’anello, oggetti che rappresentano simboli importanti per determinare la relazione che il padre ripropone al figlio ritrovato.

• In oriente, infatti, la veste migliore si concede alla persona

più importante della casa, e l’anello, oltre a essere segno di dignità, era lo strumento con cui si sigillavano i contratti: significa quindi che il padre reintegra il figlio nel pieno possedimento dei suoi beni.

• I calzari inoltre erano il segno degli uomini liberi, perché non venivano portati dagli schiavi: offrendoli al figlio, il padre lo restituisce alla piena libertà di un rapporto filiale.

• La festa finale, con il «ritornello» ripetuto dal padre, mostra ancora più compiutamente il tipo di relazione che egli voleva ristabilire: i termini «morte e vita» lasciano intuire che la sua gioia deriva da una relazione che si era spezzata prima e ora è reintegrata in un contesto di libertà.

• E’ solo a questo punto, come risposta all’atteggiamento imprevisto del padre, che può scattare un cambiamento nel figlio minore: se egli cambi veramente però non è detto.

• Osserviamo ora il percorso del figlio maggiore. Anzitutto vediamo che le situazioni iniziali dei due fratelli appaiono ora capovolto: il minore, prima lontano, ora è in casa con il padre; mentre il maggiore, che era rimasto fedele, resta «fuori casa», ad esprimere anche con l’atteggiamento fisico la sua ira e il suo dissenso.

• Il padre ripercorre anche con lui, con la stessa pazienza di prima, il cammino che aveva fatto con il figlio minore, uscendogli incontro ed esortandolo a entrare.

• La risposta del figlio maggiore («Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando ... ») ci rivela quello che nessuno sapeva finora, e cioè che egli pensava alla sua relazione col padre come a quella di un servo nei riguardi del padrone, cioè come a un rapporto di contratto, contratto che considera come non rispettato, “non mi hai mai dato un capretto ... “

• Non considera quell’uomo come suo padre, e i beni del padre come suoi, e tutto ciò emerge solo ora, nel momento in cui il padre ha manifestato nei confronti del figlio minore il tipo di

paternità che vuole esercitare.

• Infatti la risposta del padre disvela ora pienamente la relazione che vuole instaurare con entrambi i figli: «Figlio, tu sei sempre con me ... », e definisce così un rapporto di amore inserito nella libertà, che comporta la comunione totale dei beni.- «tutte le cose mie sono anche tue».

• Il racconto si conclude con un pressante invito al fratello maggiore ad entrare in una relazione nuova («questo tuo fratello ... »), filiale e fraterna, a cui egli è invitato ma senza violenza.

• La parabola non rivela la reazione del figlio minore e quella del figlio maggiore. Del figlio minore si può arguire che ha accettato la festa («e cominciarono a far festa»): del figlio maggiore, invece, non si sa nulla.

• La parabola resta incompiuta e, in un certo senso, lascia insoddisfatti.

• Tale indeterminatezza è voluta, trattandosi di un appello all’ascoltatore perché si apra all’accoglienza e decida quale atteggiamento seguire.

Qual è il messaggio di Gesù ?

• Gesù sa che i farisei considerano i peccatori pubblici senza più dignità umana, degradati a tutti i livelli, quasi delle bestie; sa anche che gli stessi peccatori si sentono in questa condizione alienata, irrimediabilmente impuri e lontani da Dio.

• A lui sta cuore far intravedere ai suoi ascoltatori il modo con cui Dio si rapporta alle persone: ogni uomo, anche se peccatore, rimane per Dio sempre un figlio, proprio come succede nella parabola.

• Come protagonisti Gesù mette in scena i suoi stessi ascoltatori,

cioè i farisei e gli scribi, e, in secondo piano, i peccatori e i pubblicani

• Ai farisei e agli scribi Gesù rivolge il suo richiamo prima di tutto invitandoli a rivedere l’immagine del loro rapporto con Dio, e in definitiva la loro visione di se stessi e degli altri.

• Gesù presenta loro una immagine singolare di Dio: o è un Dio che ama nella libertà, e che accetta di essere

amato solo in un rapporto liberoo è un Dio che rimane presente anche nell’assenza più

ostinata dell’uomo, e proprio questa sua continua presenza e accoglienza costituisce la reale possibilità che l’uomo si decida ad andargli incontro

o la fedeltà di Dio fa sì che il desiderio dell’uomo non sia mai estinto, e che le persone possano sempre cambiare

o è un Dio che non perdona «a denti stretti», ponendo delle condizioni, ma per pura gratuità: l’appello di Gesù al farisei è quindi quello di aprirsi a un rapporto di figli, uscendo da quello servile e contrattuale che li contraddistingue.

• Accettare questa relazione filiale comporta anche entrare in un rapporto fraterno con le persone, senza sottoporle a un giudizio morale che le stigmatizzi, ma accostandosi a loro con lo sguardo di Dio, che dona sempre la possibilità di un futuro

• Infine, la conversione a cui Gesù invita i farisei non è di tipo morale, ma comporta una nuova visione di Dio e degli altri, e in ultima analisi uno sguardo nuovo su di sé: essi devono comprendere che «valgono» non per quello che fanno, ma per il fatto che sono amati da Dio.

• Anche al pubblicano Gesù non domanda immediatamente una conversione morale, ma prima di tutto di riconoscere nel suo atteggiamento il modo di agire di Dio stesso.

• Li invita a comprendere la gratuità con la quale il regno di Dio si attua in loro, e quindi a far festa.

• Proprio questa coscienza di essere gratuitamente restituiti alla propria umanità genuina è la molla che li può portare a decidersi per una vita moralmente corretta, non più come servi, ma per riconoscenza, cioè come figli.

• Gesù prende coscienza che alla base della conversione non sta lo sforzo morale dell’uomo, ma il dono di Dio, e che, paradossalmente, una religiosità sicura in se stessa può diventare l’ostacolo più forte ad accogliere la novità del regno di Dio.

• «Egli invita i suoi uditori a capire che Dio non ci ama in base a ciò che facciamo per lui, ma per ciò che siamo per lui, cioè suoi figli.

• Aprirsi a questo Dio e convertirsi a lui vuol dire accettare questa logica e lasciarsi amare come egli ama, in modo incondizionato e gratuito: questo, mentre libera e salva la nostra vita, cambia anche il nostro modo di amare gli altri.

I significati per la nostra vita Va sottolineato innanzitutto che un’interpretazione moralistica di questo testo («non bisogna fare come il figlio minore, e neppure come il figlio maggiore, ma come il padre») che porta l’accento sul nostro fare, toglie alla parabola il suo significato profondo, la impoverisce e la rende in fin dei conti scontata, oltre che inattuabile.

1. L’andare incontro alle persone con fiducia significa ridonare la speranza nella possibilità di una vita nuova: è questa esperienza concreta che ci permette di verificare, che Dio non può essere che colui che ama senza condizioni, perdona gratuitamente, restituisce all’uomo la dignità di figlio e la pienezza della fiducia e della speranza.

2. L’idea di un Dio che ci ama è lo stimolo ad aprirci al contatto anche con le realtà più povere e meno cariche di speranza:

se siamo convinti che Dio ama così, noi riusciamo ad andare incontro con fiducia alla gente che ha sbagliato, che è umiliata, che ha perso la coscienza di sé e il gusto della vita. Quando noi rischiamo l’incontro con queste realtà, spesso aumenta in noi la certezza che Dio non può essere che come il padre presentato dalla parabola, e ci ritroviamo a riconoscere che la coscienza di Dio è già in noi e libera il nostro poter accostare gli altri.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCATECHESI ADULTI 2001/4

GLI OPERAI DELLA VIGNAovvero L’inattesa gratuità di Dio

Messaggio centraleGesù racconta la sua esperienza di Dio Padre che libera dalla mentalità del profitto e

invita a vivere rapporti reciproci di gratuità.La parabola ci invita a uscire dalla logica di mercato e ad assumere nei diversi settori

della propria vita lo stile di gratuità proprio di Dio.

Finalità dell’incontro• Accogliere il dono dello Spirito come massima gratuità di Dio che dona

pienamente se stesso• Riconoscere e vivere la gratuità nell’esperienza quotidiana

AtteggiamentiGesù ci invita a vivere la gratuità come• l’atteggiamento che Dio ha costantemente nei nostri confronti• lo stile di relazione con gli altri che permette di sperimentare possibilità di

cambiamento• la condizione per conservare la speranza anche nei momenti difficili

Lettura della Parola di Dio ( Mt 20, 1-16 ) «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a

giornata lavoratori per la sua vigna. [2]Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. [3]Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati [4]e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. [5]Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. [6]Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? [7]Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. [8]Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dá loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. [9]Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro.

[10]Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno. [11]Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: [12]Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. [13]Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? [14]Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. [15]Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? [16]Così gli ultimi saranno primi, e i primi

Lavoro iniziale

Quali sono le principali obiezioni che la gente fa quando ascolta questa parabola ?

Lavoro conclusivo

«Mi viene in mente il meraviglioso mazzo di rose rosse che io ho ricevuto un giorno speciale d’inverno. Ricordo di aver provato gioia e spavento allo stesso tempo, infatti non sapevamo come pagare il prossimo affitto e la bolletta della luce. Ma la gioia per questo segno d’amore ha semplicemente portato via il terrore e la preoccupazione. Se un simile mazzo di fiori arrivasse oggi da noi - per mia figlia da parte del suo ragazzo, per esempio, che è senza lavoro e non ha un reddito regolare - che cosa direi?... Una volta abbiamo fatto il tentativo di rinunciare in modo rigoroso a tutto questo. “Non vogliamo regali di Natale - abbiamo scritto, - piuttosto scegliete l’ente assistenziale che volete e fate un’offerta!”. Nonostante la nostra buona coscienza, c’era una sorta di tristezza e di vuoto nel periodo prima di Natale e ci sono davvero mancate la tensione e l’allegria, la sorpresa e i pensieri affettuosi al momento di aprire i pacchetti la notte di Natale, dopo la messa. Ora non dimentichiamo certo il dividere e il partecipare, ma non rinunciamo più ai segni visibili dell’amore e dell’amicizia. Una poesia latino-americana dice: “Mio Dio, fa’ che il pane che noi dividiamo non abbia solo il marchio del sudore, ma anche il sapore caldo della tenerezza” (Annelise LISSNER, Storia di un amore senza parole).

Dopo aver ascoltato questa testimonianza proviamo a ripensare e a raccontarci le esperienze di gratuità che viviamo ( nella coppia, in famiglia, sul lavoro…) e che sono già in sintonia con la parabola

COMMENTO

• Come dobbiamo pensare la giustizia di Dio?

• La parabola degli operai chiamati a diverse ore a lavorare nella vigna manifesta il punto di vista di Gesù su tale questione.

• Il senso di sorpresa che anche in noi suscita l’ascolto di questo racconto ci pone di fronte al contrasto che si manifesta tra il sentire comune e la comprensione che Gesù ha della giustizia di Dio

L’immagine

• La scena che Gesù prende come riferimento per il suo racconto va compresa nel contesto dell’ambiente orientale del tempo.

• Era consuetudine che il padrone di una vigna, soprattutto durante la vendemmia, cercasse operai per il lavoro giornaliero. Egli si recava perciò nella piazza del villaggio, dove solitamente gli uomini si intrattenevano a conversare in attesa di essere chiamati al lavoro e, stabilito il numero di operai di cui aveva bisogno, li assumeva concordando con loro la paga giornaliera.

• Il racconto parla di chiamate ad ore diverse discostandosi così dalle consuetudini, dato che l’appello solitamente avveniva una sola volta per ogni giornata cioè al mattino.

• Tuttavia possiamo pensare a situazioni straordinarie, quali la previsione di un imminente temporale, che giustificano la necessità di chiamare nella stessa giornata nuovi operai per affrettare la vendemmia: perciò il nostro racconto, pur inconsueto, non appare tuttavia irreale.

• La giornata lavorativa veniva suddivisa in dodici ore dall’alba al tramonto: all’incirca dalle sei del mattino alle sei della sera.( 12 ore: terza ora = 9; sesta ora = 12; nona ora = 15 )

• Per rendere più comprensibile il racconto va ricordato, infine, che la paga pattuita da chi è assunto alla prima ora - un denaro per una giornata lavorativa - è quella corrente: si tratta di una cifra sufficiente per il sostentamento giornaliero di una famiglia.

• Anche il pagamento alla sera entra nella prassi lavorativa del tempo; attendere fino al giorno dopo sarebbe considerata una ingiustizia e ricorda una precisa norma della legge mosaica: «Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo; il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo» (Lv 19,13).

Il racconto

• Osserviamo ora come Gesù racconta la vicenda.• Il brano può essere suddiviso in due parti: il momento della

chiamata e il momento del rendiconto; entrambe sono facilmente individuabili per l’annotazione temporale che le introduce: «uscì all’alba» (v. 11) e «calata la sera» (v. 8).

• La prima parte è caratterizzata dalle diverse chiamate e dalla contrattazione.

• La chiamata ad ore diverso della giornata è insolita ma sembra che non sia motivata da cause contingenti, esterne, ma va attribuito esclusivamente alla sua volontà.

• Ciò è importante per capire il racconto: se il padrone avesse avuto bisogno di operai per un particolare imprevisto, questo giustificherebbe il fatto che alla fine egli dia a tutti lo stesso salario: ha estremo bisogno di manodopera perciò è disposto a pagare anche più del dovuto!

• La dinamica del racconto ci fa capire, inoltre, che l’accento cade sulla prima e sull’ultima chiamata (all’undicesima ora): solo i primi e gli ultimi, infatti, saranno presi in considerazione nella seconda parte dove si parla del rendiconto.

• Le chiamate intermedie (alla terza, sesta e nona ora) hanno la funzione di dare vivacità al racconto: chi ascolta, infatti, è portato lentamente a riconoscere con sorpresa che questo padrone chiama operai anche all’ultima ora.

• Per ciò che riguarda la contrattazione, va notato che essa è espressa in termini chiari solo nel primo caso - «un denaro per una giornata» - mentre poi se ne parla in termini sempre più allusivi , «quello che è giusto» per gli operai della terza ora, per quelli della sesta e nona si dice solamente «fece lo stesso», mentre non si fa alcun accenno alla contrattazione per la chiamata degli operai dell’undicesima ora.

• Questo sfumare sulla contrattazione è chiaramente funzionale al racconto. Infatti coloro che ascoltano la parabola sono indotti, dal loro punto di vista, a pensare che il contratto cambi in base alla prestazione lavorativa, ma questo non è detto nel racconto, perciò al momento del rendiconto si rivelerà l’equivoco con la conseguente reazione degli uditori di Gesù.

• La seconda parte della parabola presenta il rendiconto serale. Va notato come il padrone chieda al suo amministratore di iniziare dagli ultimi.

• Questo non dev’essere interpretato secondo la logica altre volte espressa dal Vangelo, per cui «i primi saranno ultimi», l’inversione dell’ordine rispetto a quello della chiamata è anche qui un elemento funzionale alla dinamica del racconto.

• Si parte dagli ultimi per dar modo ai primi di assistere alla scena, di fare il confronto tra la diversità di prestazioni e l’uniformità del compenso e così esprimere la loro reazione di disappunto.

• Agli operai giunti alla fine, che quindi hanno lavorato solamente un’ora, sorprendentemente viene dato un denaro come a quelli che hanno lavorato fin dal mattino e in condizioni certamente più disagevoli, dal momento che lavorare in una vigna alle cinque della sera è ben divergo che lavorarvi sotto la calura meridiana.

• La reazione di disappunto sfocia in un dialogo tra il padrone e gli operai del primo gruppo.

• Nel dialogo vengono a confronto due punti di vista differenti. Non è difficile intuire che qui siamo al vertice della parabola, dove il racconto interpreta la realtà in cui Gesù confronta la sua visione della giustizia di Dio con quella dei suoi interlocutori.

• Attraverso il racconto Gesù ha portato i suoi uditori a prendere posizione, lasciando intendere come il loro punto di vista coincida con quello degli operai della prima ora.

• Questi ritengono di aver subito un’ingiustizia perché il trattamento riservato agli ultimi non corrisponde al loro criterio di giustizia e perciò protestano contro il padrone

• La risposta del padrone lascia allora trasparire il punto di vista di Gesù.

• Questa viene articolata attraverso due argomentazioni.

• La prima mette in chiaro che non si può parlare di torto subito poiché non c’è stata alcuna sottrazione della paga dovuta: «Non ti tratto ingiustamente. Non avevi pattuito un denaro con me? Prendi il tuo e vattene».

• La seconda porta a riconoscere la misura dell’agire del padrone non nella corrispondenza alle prestazioni degli operai, ma nella libertà di disporre di sé nei loro confronti: «Non mi è possibile fare quello che voglio con il mio?».

• L’affermazione non va intesa come l’espressione arbitraria di chi non vuole rendere conto di ciò che fa: non significa «faccio ciò che mi pare e piace». Non ci troviamo di fronte alla reazione di un padrone capriccioso e dispotico; con questa domanda retorica il padrone intende piuttosto evidenziare la liberalità che guida il suo agire: la ricchezza della sua condizione gli permette di dare in modo sovrabbondante, senza calcolo.

Il messaggio di Gesù

• Attraverso la parabola si intravede l’esperienza vissuta da Gesù sempre caratterizzata da un’accoglienza incondizionata di ogni uomo.

• Il Vangelo ci testimonia come la sua disponibilità nei confronti delle persone non sia mai vincolata alle prestazioni che queste gli rendono: è sempre segnata dalla gratuità.

• Con questo atteggiamento Gesù intende esprimere la sua comprensione di Dio: è il Padre che accoglie gratuitamente e senza riserve ogni uomo.

• Diversa è la mentalità dei farisci che vedono nel comportamento di Gesù lo sconvolgimento di un ordine di giustizia ben preciso, secondo il quale Dio, seppure sempre benevolo con gli uomini, non può non considerare le differenti prestazioni di questi.

• Di fronte a questo contrasto Gesù racconta la parabola perché anche in essa sembra presente lo sconvolgimento di un ordine di giustizia.

• Chi segue il racconto, è tuttavia portato a riconoscere che ciò che si pensa come sconvolgimento dell’ordine della giustizia altro non è che il manifestarsi della bontà del padrone (figura di Dio): questa non la si può disapprovare.

• Gli uditori perciò sono portati a riconoscere che lo stesso atteggiamento di Gesù non è contrario alla giustizia, anzi, è espressione della bontà del Padre e perciò vera manifestazione della giustizia divina.

• Questa sola, partendo dalla gratuità di Dio, dà all’uomo ciò di cui ha bisogno, lo mette cioè nella condizione di vivere a sua volta relazioni di gratuità.

• Gesù invita a lasciare lo sguardo invidioso e duro di fronte al realizzarsi della benevolenza di Dio che si manifesta in lui.

• Il regno di Dio si attua come inattesa gratuità.L’incapacità di accoglierla e la volontà di contrastarla

mettono a nudo una mentalità religiosa di stampo moralistico, legalistico, che confina la giustizia negli angusti limiti della retribuzione calcolata in base alle prestazioni offerte.

• Questa mentalità si manifesta anzitutto come ricerca affannosa di dover piacere a Dio attraverso il nostro sforzo di osservanza della Legge.

• Il credente che vive secondo questi parametri cerca di accaparrarsi il favore di Dio attraverso le proprie azioni morali o religiose, riducendo la giustizia di Dio al semplice riconoscimento dei meriti conseguiti.

• La giustizia di Dio che Gesù manifesta è, invece, la capacità di amare per primo in modo gratuito.

• E’ la gratuità che libera l’uomo dall’assillo di doversi guadagnare la benevolenza di Dio e lo mette a sua volta nelle condizioni di agire in modo autenticamente libero

• Chi ritiene che la giustizia di Dio si debba conquistare con le proprie prestazioni è facilmente indotto a pensare che gli uomini conseguano di fronte a Dio guadagni differenti e perciò vadano classificati secondo livelli diversi di retribuzione.

• E’ una mentalità che induce a vivere rapporti di contrapposizione e di concorrenza nei confronti del prossimo.

• Tutto ciò viene qualificato negativamente attraverso l’interrogativo della parabola «il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?».

• La domanda mette in chiaro la radice della cattiveria.

• Questa non nasce dal sentirsi defraudati, dal momento che a nessuno viene fatto torto togliendogli ciò che gli spetta; se così fosse la protesta sarebbe comprensibile e non potrebbe essere tacciata di cattiveria.

• Ciò che appare «cattivo» è, invece, l’ «occhio» di coloro che fanno confronti con i propri simili e così, anziché gioire per la bontà del padrone, protestano per la sua liberalità.

• L’occhio è cattivo perché è orientato al confronto con il fratello e così fa nascere l’invidia; se fosse orientato verso il padrone sarebbe reso buono dalla bontà di questi.

• Il messaggio di Gesù è estremamente semplice ma realmente sconvolgente, al punto da risultare duro per la mentalità

corrente, così come irritante appare la parabola ad una prima lettura.

• L’agire di Dio non ha altra misura che la sua bontà, perciò si dona a tutti nella totalità.

• Questa scoperta provoca gioia in chi ha l’occhio buono, perché chi è buono, si rallegra che altri lo diventino; genera invece invidia e durezza in chi ha l’occhio cattivo e non sa riconoscere la gratuità dell’agire di Dio.

I significati per la nostra vita

• La parabola è anzitutto un invito a prendere coscienza.di quale comprensione della giustizia di Dio domini la nostra vita.

• Questa la possiamo riconoscere prestando attenzione alla modalità con cui guardiamo ai nostri fratelli: se prevale un tipo di rapporto concorrenziale è probabile che questo sia originato da un’immagine distorta della giustizia di Dio.

• Potremmo così ripensare al messaggio di Gesù per la nostra vita offerto in questa parabola, attraverso i seguenti interrogativi:

Come è possibile uscire dal rischio di una interpretazione moralistica della giustizia di Dio che genera rapporti di concorrenza con gli altri uomini ?

- Quali le esperienze in cui possiamo riconoscere l’agire gratuito di Dio nei nostri confronti?Quali sono le esperienze di gratuità che ci fanno sperimentare la capacità di agire nella nostra vita con lo stesso stile di Gesù modellato sull’agire di Dio Padre?

Per trovare risposta al primo interrogativo è necessario fare riferimento alla vita di Gesù che immette nel contesto delle relazioni un principio nuovo: quelli della gratuità.

Oltre l’esperienza storica di Gesù questa gratuità di Dio è a noi accessibile nel dono dello Spirito che anima la vita di ogni credente: è lui la personale gratuità di Dio.

Nel dono dello Spirito diventiamo capaci di vivere della stessa gratuità che ci è donata da Dio. Se guardiamo con attenzione la nostra esperienza umana potremmo riconoscere che la nostra stessa vita cresce dove incontra relazioni improntato alla gratuità.

Sperimentiamo questa qualità delle relazioni umane•nel perdono che sappiamo dare o che riceviamo senza che sia condizionato

a risposte di riconoscenza;

•nella capacità di accettare che le cose non vadano sempre secondo i nostri piani;

•nel vivere i momenti di sconfitta senza perdere la fiducia in noi e negli altri;

•nell’accettare la fatica e la routine quotidiana rimanendo fedeli ai nostri impegni anche quando non abbiamo immediate gratificazioni;

•nel perseverare nella preghiera anche quando ci appare segnata dall’aridità interiore;

•nell’accettare senza arrabbiarci il progressivo declino della nostra vita, preparandoci così al massimo atto di gratuità che è l’accoglienza del nostro morire, affidando la vita al compimento che solo il Padre può garantirci.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCATECHESI ADULTI 2001/5

LA SEMENTE E LA ZIZZANIAovvero La pazienza di Dio e il tempo della conversione

Messaggio centraleGesù racconta la sua esperienza di Dio Padre che vuole offrire a tutti, nel rispetto

dei diversi tempi di maturazione, la possibilità di crescere, cambiare, accogliere il suo dono di salvezza

La parabola ci invita a rivedere gli atteggiamenti rigidi nei riguardi delle situazioni giudicate negative

Finalità dell’incontro• Sperimentare la presenza di un Dio che ama la vita e che ne accompagna la

maturazione con pazienza• Esercitare la pazienza attiva di Dio nei confronti di sé e degli altri

AtteggiamentiGesù ci invita a vivere la pazienza attiva di Dio come• capacità di accettare che dentro la storia convivano il bene e il male• disponibilità a vivere il tempo come continua offerta di opportunità di salvezza• disponibilità a portare su se stessi e sugli altri uno sguardo di speranza e di

possibilità nuove

Lettura della Parola di Dio ( Mt 13, 24-30 )

[24]Un’altra parabola espose loro così: «Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. [25]Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. [26]Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. [27]Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? [28]Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? [29]No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. [30]Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio»

Lavoro iniziale

«Dopo un cammino di preparazione alla cresima, il gruppo dei catechisti, radunato dal parroco, discute animatamente sul caso di due ragazzi, Andrea e Giovanna. La loro partecipazione agli incontri di catechismo è stata molto discontinua. Il papà di Giovanna, che non si è mai fatto vedere in otto anni, ora si presenta ed esige che sua figlia faccia la cresima come tutti gli altri. La mamma di Andrea, che vive separata dal marito da diversi anni, chiede la stessa cosa. “Questi ragazzi non sono preparati - dice senza esitazioni una catechista - e quindi non vanno ammessi. lo lo avevo detto ad Andrea che se fosse mancato ancora troppe volte non avrebbe fatto la cresima”. “E’ vero - dice il curato -, ma bisogna anche tenere conto della situazione familiare che hanno questi poveri ragazzi. L’anno prossimo sarà la stessa cosa, se non li ammettiamo “Un sacramento è un sacramento - taglia corto la catechista Leopolda - e la cresima deve essere una scelta personale di fede”. La discussione si protrae

con pareri diversi e il parroco esita a prendere una decisione».

Alla luce della parabola, che soluzione daremmo a que-sto caso, così frequente? Ci vengono in mente situazioni analoghe?

Lavoro conclusivo

COMMENTO

• Talvolta siamo tentati di chiederci : Non sarebbe meglio se Dio cominciasse a fare piazza pulita, a mandare via coloro che non sono degni del suo Regno ?

• Sentiamo il bisogno di distinguerci dai “cattivi” • Ci rendiamo conto che siamo in una comunità povera sia umanamente

che religiosamente• L’annuncio di Gesù, invece è continuamente attento a rivela-

re un Dio che si fa vicino ad ogni uomo, che tollera anche le povertà umane.

• Il Dio di Gesù è il Dio della pazienza, che vuole offrire a tutti le occasioni vitali per poter cambiare, crescere, maturare la propria vita.

L’immagine

• Gesù aveva già usato l’immagine della semina per parlare del regno di Dio, cioè di quel buon annuncio che egli era

venuto a portare ad ogni uomo. • In questo racconto però c’è un particolare nuovo: alla

semina del contadino se ne sovrappone un’altra. • E’ interessante richiamare alcune nozioni riguardanti le

condizioni della seminagione nella Palestina di Gesù, in particolare sulla possibilità che un campo seminato fosse infestato da erbacce che mettessero in pericolo il raccolto.

• La zizzania, di cui il racconto parla, probabilmente è il loglio, erba molto simile al frumento, dal quale si distingue solo al momento della crescita della spiga: ciò evidentemente aumenta il pericolo che essa comprometta la maturazione del grano buono.

• Era quindi naturale che i contadini intervenissero a strapparla non appena diventava riconoscibile: interessante è soprattutto il fatto che essi provvedevano in fretta, e anche più volte prima della maturazione del grano, a sarchiare il terreno per strappare il loglio per- ché questo non impedisse la crescita adeguata del grano o si propagasse sull’intero campo.

• La parabola presenta quindi un’anomalia rispetto alla prassi diffusa: il padrone del campo infatti non accetta che i suoi contadini strappino la zizzania, anzi, ordina loro di lasciar crescere grano e loglio insieme fino al momento della mietitura.

Il racconto • Il racconto presenta due semine contrapposte. quella del

padrone, che sparge la buona semente; e quella notturna del nemico, che, mentre tutti dormono, semina la zizzania

• Al momento della maturazione del grano, i servi distinguono la zizzania, e pongono così una prima do- manda al padrone: «Non hai seminato un buon seme?

• Da dove dunque viene la zizzania?», e questi chiarisce che la presenza dell’erbaccia è dovuta alla responsabilità di un nemico.

• I servi a questo punto fanno la loro proposta: «Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?», facendo capire che per loro la zizzania non può stare insieme al buon grano, e che quindi occorre intervenire per sradicarla.

• A questa proposta il padrone risponde con un ordine del

tutto anomalo: «No, affinché raccogliendo la zizzania non sradichiate assieme ad essa anche il grano. Lasciateli ambedue crescere insieme fino alla mietitura».

• Sono queste due prospettive contrapposte, quella dei servi e quella del padrone, che ci rivelano il cuore del messaggio di Gesù.

Il messaggio di Gesù

• La parabola rievocava agli uditori palestinesi l’immagine biblica della mietitura, che, nell’Antico Testamento come pure nella letteratura antica giudaica, richiamava il momento dei giudizio fìnale di Dio sul mondo.

• A partire da questa immagine, il problema che si poneva era il seguente: occorre sradicare subito il male dal mondo?

• La risposta del padrone fornisce una prima indicazione: non bisogna tentare di eliminare il male dalla terra prima che giunga il momento del giudizio, perché l’uomo non è in grado di valutare fino in fondo le situazioni e il cuore delle persone, e non sa distinguere compiutamente dove sta il bene e dove il male: il pericolo di una cernita radicale potrebbe essere quello di rovinare anche il bene esistente.

• Voler anticipare dentro la storia una separazione tra bene e male è arrogarsi una prerogativa che spetta solo a Dio.

• Vi è un secondo motivo per cui occorre essere pazienti. • Dio ha stabilito un tempo per il giudizio, che l’uomo

non può anticipare ma di cui può sfruttare l’attesa.• Il tempo che manca alla “mietitura” è lasciato

disponibile all’uomo da Dio perché egli possa mutare il male in bene.

• Il contesto storico in cui Gesù opera è segnato dalla presenza di vari movimenti religiosi, come gli zeloti e gli esseni, che avevano, con sfumature diverse, uno stesso denominatore comune: la volontà di creare una comunità pura.

• Gli zeloti, nazionalisti accaniti che avrebbero voluto

cacciare i Romani e che intendevano il ristabilimento del Regno di Dio come ricostituzione dello stato indipendente di Israele, avrebbero voluto fare subito una cernita violenta distruggendo gli invasori e riaffermando il Regno di Dio sulla terra attraverso la liberazione nazionale

• Così pure gli Esseni, considerandosi la comunità dei puri ritenevano esclusi dalla salvezza tutti coloro che non facevano parte della loro setta e loro rimanevano rigidamente separati

• L’ideologia farisaica, pur partendo da altre prospettive, lascia emergere una stessa concezione : i farisei tendono a costituire una comunità di puri sentendosi gli unici che conoscono e osservano dettagliatamente la legge di Mosè e le sue prescrizioni.

• Questa comunità di osservanti doveva essere ben distinta e separata da coloro che non conoscevano o trasgredivano la legge, considerati a vario titolo peccatori

• Gesù, quindi si trova immerso in tensioni di tipo settario che tendono a distinguere immediatamente i puri dagli impuri, gli osservanti dai trasgressori, i “buoni” dai “cattivi”

• In questo contesto egli annuncia un messaggio che rompe radicalmente con questa visione, dicendo il regno di Dio è in atto nella storia degli uomini attraverso la sua persona e che apre la porta ai peccatori offrendo la riconciliazione e la salvezza.

• Il momento della “cernita” ci sarà quando il regno di Dio verrà in pienezza alla fine della storia: ma quello attuale è il tempo della pazienza attiva di Dio in cui egli offre a tutti gli uomini, anche ai peccatori, continue occasioni perché essi trasformino e rinnovino la loro vita

• Gesù mette in evidenza che questa pazienza di Dio non è passiva, non lascia che le cose vadano per conto loro: è invece una PAZIENZA ATTIVA, in ricerca dell’uomo, a cui offre continuamente delle provocazioni perché si converta.

I significati per la nostra vita

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCATECHESI ADULTI 2001/6

IL SERVO SPIETATOovvero Il dono e l’impegno della riconciliazione

Messaggio centraleGesù racconta la sua esperienza di Dio Padre che invita ciascuno a portare a frutto il

perdono da lui gratuitamente ricevuto donandolo agli altri con la stessa gratuitàLa parabola contiene l’invito per ogni credente e per la comunità cristiana a fare del

perdono una delle esperienze fondamentali per sperimentare l’amore di Dio e per manifestare il suo volto agli altri

Finalità dell’incontro• Aiutare a comprendere che la misericordia di Dio è misurata sulla sua grandezza

d’animo e non sui nostri meriti • Aiutare ad esercitare il perdono ricevuto da Dio così da offrire continuamente

agli altri nuove possibilità di vita

AtteggiamentiGesù ci invita coloro che lo ascoltano a vivere il perdono come• offerta di Dio che precede ogni nostra scelta e comportamento• riflesso del perdono accolto da Dio e condizione di veri rapporti fraterni• capacità di restituire all’altro fiducia e speranza e non semplice cancellazione di

un torto subito

Lettura della Parola di Dio ( Mt 18, 21-35 ) Pietro gli si avvicinò e chiese: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio

fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio. io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello».

Lavoro inizialePer cercare di andare oltre una lettura innocua della parabola e di scavare nella nostra esperienza di perdono concesso o non concesso.Il Vangelo non riporta alcuna reazione di Pietro alla parabola di Gesù che invita a perdonare 70 volte 7 cioè sempre. Immaginiamo di essere tra gli ascoltatori di Gesù e raccontiamogli le nostre “parabole di vita”: cioè dei fatti (vissuti o conosciuti) per fargli capire che l’applicazione del suo insegnamento è tutt’altro che facile.

Lavoro finaleSi tratta del testo della preghiera di Rosaria Costa alla messa per il marito Vito Schifani, che faceva parte della scorta del giudice Giovanni Falcone. In corsivo sono indicate le aggiunte che Rosaria fece leggendo la preghiera, composta dal cugino prete. E’ interessante notare le aggiunte di Rosaria, che mostrano un perdono in un certo senso «incompiuto» e quindi ancora più vero e commovente. Rosaria perdona e si ribella, ma vuole arrivare in fondo alla sua preghiera, anche se il cugino prete la invita a interromperla.

«lo, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani mio, battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. A nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato, chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia. Adesso, rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro, e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però... Se avete il coraggio di cambiare... di cambiare, loro non vogliono cambiare, loro, loro non cambiano, non cambiano... Se avete il coraggio di cambiare radicalmente i vostri progetti, i progetti mortali che avete... Tornate a essere cristiani: per questo preghiamo nel nome del Signore, che ha detto sulla croce. Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Pertanto vi chiediamo per la vostra città di Palermo che avete reso... che dolore, che dolore... l’avete resa una città di sangue... Vi chiediamo signori per la città di Palermo che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia e la speranza e l’amore per tutti... non c’è amore qui, non c’è amore qui, non c’è amore per niente!» (da L. ACCATTOLI, Cerco fatti di Vangelo, SEI, Torino 1996).

COMMENTO

Il contesto immediato della parabola è la domanda di Pietro: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me?».

A tale richiesta Gesù risponde con un forte appello a cambiare mentalità e a riscoprire la realtà della salvezza che la presenza del regno di Dio viene a offrire nella sua persona.

Dentro questa ottica di salvezza, infatti, non domina il diritto, ma la misericordia: quella misericordia che Dio ci ha donato in modo impensabile e incommensurabile, e che noi siamo ora chiamati a esercitare nei confronti degli altri.

L’immagine

Le immagini di cui Gesù si è servito richiamano l’ambiente dei grandi imperi del medio oriente che circondavano Israele.

Gesù probabilmente non li ha mai conosciuti direttamente, ma deve va aver sentito narrare storie ed episodi della vita dei potenti re di queste popolazioni: gli ebrei, infatti, avevano avuto modo di provare il loro potere assoluto durante le passate dominazioni degli assiri, dei babilonesi, degli egiziani.

Gesù recupera l’eco di questi ricordi storici, tramandato da racconti e leggendo, e ne fa la base della sua parabola.

Nella reggia di uno di questi sovrani si sta svolgendo il rendiconto delle somme che i «servi», o meglio i funzionari regali, devono al loro re: si tratta probabilmente delle tasse che essi dovevano riscuotere nelle regioni a loro affidate

Succede però che uno di questi funzionari non può consegnare i tributi richiestigli, e si viene così a trovare in una situazione di debito verso il suo re.

Possiamo immaginare l’impressione spaventosa che doveva provocare negli israeliti tale racconto, che illustrava un metodo di governo così crudele e al quale loro non erano abituati.

Il racconto

La parabola è strutturata sul parallelismo dei due incontri, prima tra il re e l’alto funzionario, e poi tra questo funzionario e un suo collega.

Vengono così mostrati i punti comuni delle due vicende, ma anche e soprattutto le differenze nell’atteggiamento tenuto dai tre protagonisti, differenze che determinano la soluzione finale del racconto. • L’incontro del re con l’alto funzionario.

L’espressione «gli fu condotto» lascia intravedere che la situazione

di partenza del funzionario regale è quella dello stato di arresto per il debito da lui contratto verso il sovrano.

Il debito è quantificato in diecimila talenti, pari a cento milioni di denari: la specificazione è utile al contesto, perché gli ascoltatori sanno bene che un denaro era la somma necessaria a una intera famiglia per vivere una giornata.

Siamo quindi di fronte a un debito enorme, quasi inverosimile: diecimila era la somma più alta calcolabile al tempo, e il talento era la misura monetaria massima, quindi la somma è eccessiva, impossibile da risarcire.

Per recuperare almeno in piccola parte quanto gli era dovuto, il re ordina la vendita non solo dei beni del funzionario, ma anche dell’arredo di casa e, soprattutto, della moglie e dei figli.

Quest’ultimo particolare colpisce sicuramente gli ascoltatori, dato che secondo il diritto ebraico una donna non poteva essere venduta, e un uomo poteva esserlo solo quando aveva commesso un furto e non aveva più nulla con cui restituire il maltolto.

Colpisce inoltre il fatto che questo provvedimento non avrebbe comunque coperto il debito, dato che dalla vendita di uno schiavo si poteva ricavare al massimo dai cinquecento ai duemila denari: è evidente che l’ordine del re non mira tanto al recupero della somma che gli era dovuta, quanto a ribadire la veemenza della sua ira e il suo potere nel rapporto con gli altri funzionari, in modo da dissuaderli da tentativi di imbroglio. Di fronte a questa tragica situazione la reazione del funzionario condannato è quella di prostrarsi ai piedi del sovrano, umiliandosi e supplicandolo nel tentativo di commuoverlo: gli rivolge una richiesta di grazia, e l’accompagna con la promessa: «Abbi pazienza con me e ti restituirò tutto», che assomiglia più a un grido d’angoscia e di disperazione che a una reale intenzione e possibilità di saldare il debito. Il funzionario, nella sua situazione di uomo ormai finito, si gioca il tutto per tutto.

Inaspettatamente, il re reagisce commuovendosi, e non solamente libera il servo ma anche gli condona il debito (vedi la medesima espressione nella preghiera del Padre nostro: «rimetti a noi i nostri debiti»).

Il re quindi risponde alla richiesta del funzionario in modo addirittura esorbitante, non solo porta pazienza, come lo aveva supplicato il servo, ma con la remissione del debito passa dalla logica del diritto, che gli garantiva di poter pretendere il dovuto, a quella della misericordia.

Viene così evidenziato il contrasto tra la crudeltà manifestata in principio e la bontà presente, che supera di gran lunga le stesse aspettative del funzionario debitore e su questo contrasto si conclude la prima parte della parabola.

• L’incontro del funzionario con il suo collega. In seguito l’alto funzionario incontra un suo servo, forse un piccolo dipendente, che gli deve la cifra irrisoria di cento denari.

La reazione del funzionario è certamente imprevista: «afferratolo, quasi lo soffocava», e gli chiede il risarcimento totale e immediato del suo debito.

Il piccolo funzionario presenta la sua supplica, esattamente parallela a quella che l’altro aveva porto al re, tanto che il testo utilizza addirittura le stesse parole: «sii paziente e ti pagherò».

Ma la differenza è che qui la promessa potrebbe essere mantenuta, perché la cifra dovuta non è molto alta: basterebbe che il creditore avesse veramente solo un po’ di pazienza.

Eppure, l’incontro si chiude con un atto di crudeltà da parte di quest’ultimo: «lo gettò in prigione finché non avesse pagato».

Qui non è possibile procedere alla vendita del debitore come schiavo, perché il suo debito è inferiore al possibile ricavato: il diritto in questi casi prevedeva infatti la carcerazione, per spingere i parenti al risarcimento o per obbligare il debitore a vendere i suoi beni.

L’alto funzionario quindi agisce nei confronti del collega strettamente in base alle norme del diritto vigente, ed è evidente il contrasto fra il suo atteggiamento duramente legalista e la misericordia che lui invece aveva sperimentata.

• Il giudizio del re. Il re, venuto a sapere l’accaduto, si adira: «Chiamatolo gli disse: Servo malvagio ... », e sottolinea con energia il motivo del suo rimprovero: «tutto quel debito io ti ho rimesso».

La constatazione di quanto gli era avvenuto avrebbe dovuto spingere l’alto funzionario a un atteggiamento consonante nei confronti del suo sottoposto: «non dovevi anche tu avere misericordia del tuo conservo come io ho avuto misericordia di te?».

Il fatto che ciò non si sia verificato è la ragione della successiva condanna da parte del sovrano: «Adiratosi il padrone lo consegnò ai torturatori finché non avesse pagato tutto il debito», lasciando così intuire la definitività di questa pena, perché il debito dell’alto funzionario è impossibile da risarcire.

Il messaggio di Gesù

Quando Gesù racconta questa parabola, ha davanti a sé il mondo del giudaismo farisaico, in cui domina la logica del diritto anche nei rapporti con Dio: la fedeltà alla Legge permette di ottenere la salvezza, mentre la non fedeltà la esclude.

Gesù, invece, annuncia la misericordia di Dio, che viene in soccorso della vita umana e la rinnova quando è nella colpa: egli chiede che questa logica venga assunta anche dai credenti, diventando la mentalità con la quale ragionare in tutte le situazioni della vita, e non solo in qualche caso particolare.

Infatti, la misericordia che Dio manifesta in Gesù nei suoi segni, deve criterio di giudizio sia nella relazione con Dio sia nel rapporto con gli altri.

Non è perciò una semplice raccomandazione che Gesù impartisce,

bensì lo stimolo a prendere consapevolezza del dono che Dio offre e che precede ogni nostra risposta

Chi è perdonato è così a sua volta in grado di perdonare: ricordiamo l’esperienza vissuta dalla peccatrice in casa di Simone, dove il perdono ricevuto diventa possibilità e capacità di perdonare gli altri.

Gesù unisce costantemente questi due aspetti: il perdono ricevuto ci rende capaci di perdonare gli altri; il perdono concesso ci permette di sperimentare la misericordia smisurata e incondizionata di Dio.

In effetti, possiamo effettivamente conoscere il perdono di Dio solo quando ci disponiamo a perdonare i nostri fratelli.

Sgnificati per la nostra vita 1 Il perdono va vissuto come condizione di rapporti fraterni.

La parabola si conclude con un comando che non concede facili scappatoie: «Dovevi perdonare anche tu». La misericordia che Dio concede incondizionatamente diventa la «legge» del nuovo mondo che egli vuole instaurare: per chi la sperimenta essa non è un optional, e nemmeno una ricompensa, bensì «dovere», norma che non ammette eccezioni (settanta volte sette», che significa sempre).

Non attuare questo perdono significa autoescludersi dal regno di Dio.

In questo senso va interpretato il «castigo» finale, che non è la vendetta di un Dio che non accetta che si disobbedisca ai suoi ordini, bensì è l’esclusione volontaria dall’amore di Dio.

Chi non si dispone con amore verso i propri fratelli fino al perdono senza limiti, infatti, si rende impermeabile alla misericordia che Dio gli offre sempre, gratuitamente e

incondizionatamente.

Anche l’esperienza ci insegna che chi non ama gli altri diventa incapace di amare se stesso e di lasciarsi amare, di cogliere i gesti e i segni d’amore che le persone e la vita gli offrono.

Noi consideriamo spesso il perdono come un comportamento speciale, eccezionale, legato alla nostra volontà nel caso particolare: per un cristiano esso è invece il comportamento abituale che contraddistingue le sue scelte e i suoi comportamenti.

2. Il perdono è capacità di restituire all’altro fiducia e speranza, e non la semplice cancellazione di un torto subìto.

Il perdono donatoci da Dio, e che noi siamo chiamati ad offrire, non è concesso a stento bensì gioiosamente.

Non può diventare un semplice «dimenticare» un torto o un’offesa, con difficoltà e ritrosia.

Il perdono di Gesù consiste nell’aprire un futuro nuovo a chi gli sta di fronte, una possibilità nuova di riscatto e di dignità, nella fiducia che la sua vita possa essere diversa

Il perdono cristiano non è «azzerare i debiti», ma «aprire all’altro un conto in banca». Questo è il perdono da riservare ai nostri fratelli, che sono in debito con noi per una piccola somma, ridicola rispetto a quanto dobbiamo noi stessi a Dio: è un perdono che ridona all’altro la fiducia e la speranza di poter essere ciò che non è ancora

Gesù è capace di creare e di ricreare, rendendoci capaci di relazioni nuove.

3. Il perdono è un processo di vita che comprende tutti gli ambiti dell’esistenza.

La misericordia di Dio è chiamata ad attuarsi e a trasparire in tutti gli ambiti umani di vita, diventando lo stile delle nostre relazioni interpersonali.

E’ un «dovere» che qualifica la vita, perché permette di sperimentare sempre nuove aperture e possibilità di cammino. Ricordiamo alcuni di questi ambiti: - il primo è quello familiare: anche le esperienze più belle

possono appassire sotto l’usura del tempo, portandoci a dimenticare l’importanza di esercitare il perdono anche in famiglia, con il proprio coniuge, con i figli, i fratelli, i genitori, in modo da restituire fiducia e speranza;

- il secondo è quello delle persone con cui ci relazioniamo a vario titolo: parenti, amici, persone con cui lavoriamo; in genere le abbiamo già fissate dentro schemi che noi stessi ci siamo costruiti;

- infine è necessario introdurre la logica del perdono cristiano

anche dentro i rapporti ecclesiali, sociali e politici. Di fronte a questa vastità di situazioni possiamo provare un senso di impotenza e incapacità a farvi fronte: spesso le circostanze ci superano e non dipendono direttamente da noi, e inoltre sperimentiamo come a volte i nostri sentimenti non siano controllabili, e come il rancore possa essere più forte della nostra volontà. Eppure, questa parabola è lì, con il suo imperativo e il suo invito ad assumere la logica del regno di Dio: ci ricorda che se noi non siamo capaci di reale perdono è forse perché non siamo stati in grado di accogliere la misericordia infinita di Dio, e che se non siamo capaci di riceverlo è perché non lo esercitiamo verso gli altri

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCATECHESI ADULTI 2001/7

IL BUON SAMARITANOovvero L’imperativo del farsi prossimo

Messaggio centraleGesù racconta la sua esperienza di Dio Padre che si fa prossimo dell’uomoLa parabola è una forte provocazione per ognuno e per l’intera comunità cristiana a

convertirsi ad atteggiamenti di vera solidarietà

Finalità dell’incontro• Riconoscere nei gesti e nelle parole della vita di Gesù il farsi vicino d Dio all’uomo.• Vivere la solidarietà nei confronti di ogni uomo bisognoso come espressione

matura dell’amore

AtteggiamentiGesù ci invita a vivere la solidarietà come• capacità di vedere” nella realtà le situazioni di bisogno che ci interpellano• “compassione” , cioè coraggio di lasciarsi coinvolgere dalle sofferenze degli altri.• “prendersi cura”, cioè disponibilità a operare concretamente per il superamento

delle situazioni di bisogno

Lettura della Parola di Dio ( Lc 10, 25-37 )

COMMENTO

• Cosa può richiedere Dio a me?

• Fino a che punto l’esigenza della sua Legge può impegnarmi?

• La domanda attraversa la vita di chi cerca di comprendere le aspettative di Dio

• Al tempo di Gesù i dottori della Legge erano particolarmente presi dalla ricerca di

una risposta da dare a questi interrogativi. Le discussioni che intrattenevano tra loro intorno all’interpretazione della Legge erano orientate in questa direzione.

• Per dare risposta è necessario anzitutto fare luce su quale sia l’esigenza di Dio: qual è il suo comandamento; poi è necessario chiarire quali ambiti di vita esso impegna: l’interrogativo intorno a chi sia il prossimo risponde a questa istanza.

• Nel dibattito è chiamato in causa anche Gesù: un dottore della Legge lo interpella per chiedere che anche lui prenda posizione.

• E’ questa l’occasione che da origine al racconto della parabola del samaritano; in essa Gesù manifesta le esigenze di Dio nei confronti del credente e offre così la sua chiara interpretazione delle esigenze della

Legge.

• La parabola va dunque compresa nel contesto più ampio che include tutto il dialogo tra Gesù e il dottore della Legge (Lc 10,25-37).

• Partiamo dalla parabola evidenziando l’immagine per poi allargare la considerazione oltre la parabola all’intero dialogo tra Gesù e il dottore della

Legge.

L’immagine La parabola fotografa una scena di vita non inconsueta al tempo di Gesù.

Gerusalemme è il centro religioso di Israele, vi si trova il Tempio e perciò è

meta di frequenti pellegrinaggi.

Ad essa si giunge salendo da Gerico, città situata nella depressione del Mar Morto, mille metri più sotto rispetto a Gerusalemme.

Il tragitto che separa le due città è una impervia zona desertica, luogo particolarmente adatto alle imboscate dei briganti, sempre presenti lungo i

tragitti frequentati da pellegrini.

A Gerico poi vivono i sacerdoti che prestano servizio al Tempio di Gerusalemme, è perciò usuale che la strada che congiunge le due città sia

frequentata, oltre che da pellegrini, anche da chi presta servizio al Tempio.

I personaggi e il contesto della parabola sono dunque facilmente individuabili dagli uditori di Gesù.

Per rendere comprensibile la parabola è poi necessario conoscere il rapporto che intercorreva tra gli uditori di Gesù e i personaggi che entrano in scena.

Al generico «uomo» che incappa nei briganti vengono fatti passare accanto successivamente un sacerdote, un levita (anch’esso ministro addetto al culto

nel Tempio) e un samaritano.

Ora i sacerdoti appartengono al ceto «elevato» della popolazione perciò non passano inosservati; così la parabola evidenzia l’atteggiamento di questi che passa oltre, non curante del malcapitato; va tuttavia rilevato come, al tempo di Gesù, questa categoria non godesse di buona reputazione presso la popolazione, perciò non dobbiamo pensare che gli uditori di Gesù si siano particolarmente scandalizzati nel sentire raccontare di un sacerdote che assume questo atteggiamento: viene descritto esattamente come se lo

immaginano.

Ciò che costituisce la sorpresa del racconto è il ruolo fatto assumere al samaritano.

Questi infatti appartiene a una categoria verso la quale gli uditori di Gesù nutrono una viscerale avversione.

Tra giudei e samaritani, infatti, si coltivava da tempo un sentimento di reciproco disprezzo.

I samaritani erano considerati una popolazione eretica e mista, perciò non più appartenente alla stirpe ebraica; da parte dei giudei il disprezzo era giunto ad un punto tale che nelle sinagoghe si maledicevano pubblicamente i samaritani e

si pregava Dio affìnché fossero esclusi dalla vita eterna.

A loro volta i giudei erano avversi ai samaritani e non erano rari gli atti di rappresaglia contro di essi. E’ perciò facile immaginare la sorpresa degli

uditori di Gesù nel sentire che al samaritano viene attribuito il ruolo positivo nella parabola

Il racconto

Per comprendere la dinamica del racconto è importante col- locarlo nella struttura del dialogo tra Gesù e il dottore della Legge.

E’ facilmente individuabile un parallelismo tra la prima e la seconda parte del dialogo (vv. 25-28 e vv. 26-37) in cui ritroviamo gli stessi passaggi. ( vedi

foglietto a parte)

La struttura della narrazione ci pone a contatto ancora una volta con la sapiente pedagogia di Gesù.

Vediamo, infatti, che egli non dà mai risposte immediate alle domande del suo interlocutore, ma lo conduce progressivamente a scoprire da se stesso la risposta

alle questioni poste.

La funzione della controdomanda è proprio quella di rimandare l’interlocutore alla propria esperienza perché, dall’analisi attenta, egli possa ricavarne l’insegnamento

che cerca.

In entrambe le parti del dialogo troviamo la risposta alle domande posta sulla bocca del dottore della Legge.

La parola finale di Gesù non è propriamente una risposta, ma un imperativo che ha la funzione di portare l’interlocutore a mettere a frutto quanto acquisito nel

dialogo stesso.

Colui che ha portato a buon esito la ricerca è ora invitato a tradurla in un preciso stile di vita.

L’orientamento tematico del dialogo è bene espresso dalla ripresa dei termini «fare» e «vita/vivere» che troviamo nel primo interrogativo posto dal dottore

della Legge e nel doppio imperativo finale di Gesù.

Il parallelismo tra le due parti del dialogo lascia trasparire anche una significativa progressione nella risposta agli interrogativi su «che cosa fare» che si ha tra la prima e la seconda parte, dove troviamo inserita la parabola della quale ci

stiamo occupando.

Dapprima, infatti, il «fare» riguarda l’osservanza di ciò che già sta scritto nella Legge dell’Antico Testamento, poi, attraverso l’esempio del samaritano che ha il sapore e il movimento della vita, emerge il «fare» specificamente evangelico in

tutta la sua novità.

Il modo in cui l’evangelista Luca ha riportato questo dialogo lascia intendere come la sua funzione sia principalmente quella di introdurre e far risaltare la

parabola del samaritano sulla quale si concentra l’attenzione del lettore.

La parabola trova la sua collocazione nella seconda «controdomanda» di Gesù al dottore della Legge

. Essa costituisce il percorso al quale l’interlocutore di Gesù è rinviato per trovare la risposta all’interrogativo appena avanzato sulla questione di chi sia il prossimo.

Anche la parabola presenta un andamento lineare, secondo una serie di parallelismo che ne facilitano la comprensione.

Dopo la presentazione del fatto (v. 30) si raccontano le differenti reazioni dei personaggi; il sacerdote prima (v. 31), poi il levita

(v. 32) e infine il samaritano (vv. 33-35).

Di tutti e tre si dice «scendeva/passava per quella strada e vide» poi si sottolineano le differenti reazioni: «passò oltre» e «si avvicinò».

L’attenzione alla figura del samaritano è poi sottolineata dalla ricchezza con cui vengono descritti i suoi atteggiamenti rispetto alla narrazione sbrigativa degli

atteggiamenti dei primi due personaggi.

La narrazione di Gesù pone al centro «un uomo» designato in modo generico senza che se ne precisi la collocazione sociale: la relazione che gli altri

personaggi instaureranno con lui non è dunque motivata da altro che non sia la semplice considerazione del trovarsi di fronte ad un essere umano bisognoso

di aiuto: la sua condizione è tale che se non interviene qualcosa dall’esterno è

destinato a perire.

Tutti gli altri personaggi sono invece indicati con la loro caratterizzazione socio-religiosa: “briganti”, “sacerdote”,”levita”, “samaritano”.

Il movimento esteriore dei primi tre è di allontanamento da quell’uomo bisognoso, indice di una disgiunzione interiore ancora più profonda: la mancanza di attenzione sottrae a quell’uomo l’aiuto indispensabile per mantenersi in vita.

Oltre i briganti, figure chiaramente negative, anche il sacerdote e il levita appaiono in tutta la loro negatività quando sono messi a confronto con l’agire del samaritano.

Questi, infatti, esteriormente opera un movimento di avvicinamento che si vede corrispondente all’atteggiamento interiore indicato con la precisa sottolineatura di tutti i sentimenti che accompagnano l’opera di soccorso prestata al malcapitato: «ne provò compassione».

Questo «essere mosso nelle viscere della misericordia» non riflette solamente un dato psicologico; il verbo usato da Luca è quello altre volte impiegato per indicare l’atteggiamento di Gesù stesso verso le persone che incontra nella sua missione (ad esempio in Lc 7,13 nei confronti della vedova di Nain a cui è appena morto il figlioletto), o ancora l’atteggiamento di Dio padre verso ogni uomo che considera suo figlio (in Lc 15,20 così si presenta il padre verso il figlio minore che ritorna a casa).

L’atteggiamento del samaritano ha dunque un valore molto alto. A questo movimento interiore fa poi seguito la precisa descrizione delle azioni esterne che ad esso corrispondono: «si prese cura di lui».

E’ interessante notare come la stessa espressione ritorna nella consegna che il samaritano lascia all’albergatore, quasi ad indicare un’opera che va lasciata in eredità, e quindi continuata: l’opera del samaritano coinvolge altri! Così l’agire del samaritano verso il malcapitato prende una direzione, inversa rispetto a ciò che avevano operato i briganti.

I beni, che nella scena iniziale erano stati motivo dell’assalto e perciò di rovina per «quell’uomo», sono ora il mezzo attraverso cui il samaritano si avvicina al bisognoso per ridargli possibilità di vita. Dunque nell’opera del samaritano l’atteggiamento interiore, le azioni esterne, i beni a disposizione... tutto viene indirizzato ad avvicinarsi all’ «uomo» a cui passa accanto

Il messaggio di Gesù • La parabola dei samaritano è solitamente definita un

«racconto esemplare».• La sua interpretazione, infatti, a differenza di altre

parabole, non domanda di passare dal piano simbolico- figurato a quello religioso, ma semplicemente di estendere l’esempio qui raccontato a quei diversi casi della vita che presentano contesti simili.

• Non si tratta di trasporre il significato della parabo-la su di un altro piano, come avviene ad esempio per la parabola del seminatore.

• Là è necessario passare dal piano dell’immagine al significato religioso, infatti, non si vuole dare un insegnamento sulla semina ma, attraverso l’immagine, si vuole parlare del regno di Dio; qui, invece, si tratta di estendere il significato dell’esempio raccontato a tutti i casi della vita analoghi.

• Ma qual è il significato che va compreso e vissuto?• Lo cogliamo cercando di esplicitare il messaggio della

parabola, avvicinandoci al punto di vista di Gesù e all’esperienza da lui vissuta.

• Gesù è chiamato in causa per rispondere a una questione particolarmente seria: chi va considerato prossimo.

• Tra i dottori della Legge la discussione sul tema era particolarmente accesa e le opinioni variavano tra posizioni più rigoriste che ritenevano prossimo solo chi etnicamente faceva parte del popolo d’Israele, e posizioni meno rigide, che comprendevano tra il prossimo anche lo straniero abitante nel territorio d’Israele.

• La questione si lega alla prima domanda del dottore della Legge circa «che cosa fare per avere la vita eterna».

• E’ interessante notare come la questione, così come è posta dal dottore della Legge, sembra restare sul piano di

principio: egli domanda un criterio preciso che gli serva per regolarsi nelle varie situazioni di vita.

• E’ disposto anche ad accettare una indicazione molto esigente, purché sia precisa e gli permetta di stabilire che cosa è tenuto a fare e fino a che punto.

• La risposta a cui Gesù progressivamente conduce è orientata a produrre nel suo interlocutore un radicale cambiamento di prospettiva.

• Gesù non offre un criterio teorico, ma indirizza all’esperienza vissuta perché, guardando ad essa, appaia ciò che è giusto e ciò che non lo è.

• Gesù fa compiere due spostamenti alla domanda del dottore della Legge: prima dalla teoria alla pratica (chi è il prossimo non lo o si può dire se non per riferimento alla concreta esperienza, non è materia di disputa tra esperti della legge) e poi dall’esterno all’interno (la questione vera non è chi è il mio prossimo, ma chi si è fatto prossimo).

• La domanda su che cosa Dio richiede da me non trova risposta se essa è orientata a scoprire la misura del dovuto, rispetto alla quale perseguire il proposito di «sentirsi a posto».

• Gesù presenta il volto di un Dio che non è esoso con l’uomo.• Perciò l’uomo può abbandonare la pretesa impossibile di

volersi sentire a posto perché ha fatto tutto ciò che è prescritto, quanto è dovuto e non gli si può chiedere di più.

• La questione viene rovesciata poiché non si tratta di sentirsi a posto, ma di vivere coltivando continuamente l’attenzione al bisogno dell’altro.

• Di fronte al Padre che Gesù manifesta non ha più senso domandarsi se io sono a posto perché ho fatto tutto ciò che lui mi prescrive; piuttosto si è portati a condividere con lui la cura delle condizioni del prossimo perché anch’esso possa trovare accoglienza e sentire che non è escluso dall’attenzione di Dio e quindi dalla mia.

• Questo è il messaggio di Gesù che rompe ogni legalismo a partire dalla comprensione di Dio come colui che, senza limitazione alcuna, coltiva un’attenzione costante per ogni uomo.

• Il dottore della Legge che sta ad ascoltare Gesù probabilmente condivide la posizione del sacerdote e del

levita: sebbene dolorosa la loro scelta è legittima, poiché fermarsi a soccorrere il malcapitato avrebbe significato per loro contaminarsi e non poter più svolgere la loro funzione cultuale: una comprensione legalistica della Legge permetteva loro di sentirsi a posto.

• Gesù presenta il racconto per manifestare la sua opinione, che è diametralmente opposta.

• La sua non è semplicemente una polemica con una classe religiosa ma con una mentalità più diffusa che, in nome di una osservanza letterale e legalistica della Legge, si esime dal prestare attenzione allo spirito della Legge stessa.

• La questione del fare trova risposta solamente in chi abbandona la pretesa di avere un manuale di prescrizioni che stabiliscano il dovuto e si lascia coinvolgere dalla vita.

• L’esperienza vissuta da Gesù è tutta orientata in questa direzione: la sua concreta accoglienza del peccatore e di ogni uomo che si presenta a lui nel bisogno manifesta l’orienta- mento di una vita che non persegue l’obiettivo di procurare per se una condizione di purità, di irreprensibilità ma intende piuttosto incontrare la benevolenza di Dio nell’attenzione al prossimo.

• Gesù per primo è colui che non si domanda «chi è il mio prossimo», ma comprende piuttosto se stesso come colui che si fa prossimo all’uomo!

Significati per la nostra vita • La parabola del samaritano, in quanto racconto

esemplare, lascia facilmente intuire quali sono i significati che essa apre per la nostra esperienza di credenti.

• Va tuttavia fatta attenzione per non ridurli in termini puramente moralistici, facendo della parabola una semplice esortazione ad avere più buon cuore nei confronti dei bisognosi.

• Senza negare ciò, è necessario evidenziare i significati della parabola a partire dal livello più profondo che è quello religioso.

- Anzitutto è chiamato in causa il rapporto con Dio che guida i rapporti con il prossimo, questione che sottostà alla domanda circa: «che cosa Dio può volere da me».

Siamo chiamati ad abbandonare una comprensione dell’esigenza di Dio in termini di prestazioni da rendere per sentirsi a posto. Il nostro agire non è volto a pagare un debito con Dio; la pretesa sarebbe per altro irrealizzabile!Ciò che Dio vuole da noi è che, anzitutto, accogliamo il suo stile, il suo farsi prossimo ad ogni uomo senza condizione alcuna; chi percepisce su di sé questa benevolenza di Dio trova la risorsa per vivere la stessa benevolenza nei confronti dei fratelli che incontra nelle diverse situazioni di vita. Solo chi si percepisce oggetto dell’attenzione di Dio sa vivere l’incondizionata attenzione al prossimo. Questa, liberata dalla preoccupazione del «dovuto», non sarà più legata a un criterio quantitativo - a chi e in quale misura prestare attenzione? - ma scaturirà dall’inesauribilità della benevolenza che Dio ha posto in noi.

- L’agire del credente perciò non sarà misurato con criteri astratti, ma troverà la sua verità sempre nell’implicarsi concreto nelle diverse situazioni di vita. Ciò esclude la possibilità di ritagliare «spazi neutri» nell’agire del credente, momenti e ambiti in cui, non essendoci precise indicazioni della Legge, ci si potrebbe sentire esonerati dall’attenzione verso il prossimo - Chi,comprende ciò vede come tutta la vita si mette in movimento. Possiamo ora indicare nella carità la vera sintesi della Legge - da non intendersi però ancora in termini legalistici -, una carità che è bene delineata dall’opera del samaritano. Essa comprende l’attenzione espressa nel saper vedere, la capacità di partecipazione interiore espressa nel profondo sentimento di compassione, la manifestazione esteriore di questo sentimento che è l’opera concreta del prendersi cura che coinvolge anche i beni materiali di cui ha disponibilità. Una carità, dunque, che non è puro sentimento, né sola opera materiale, ma è l’espressione del coinvolgimento totale di sé nel farsi prossimo. Il volto del Padre, di cui Gesù fa esperienza e che ci manifesta nei suoi atteggiamenti e gesti concreti di

accoglienza e compassione verso ogni uomo, diventa ora il volto che il credente è chiamato a testimoniare con la sua opera di vicinanza all’uomo: un avvicinarsi che è condizione indispensabile perché l’uomo resti in vita. La questione del fare e del prossimo trova risposta non nei termini di una nuova prescrizione che la ridurrebbe ancora una volta a pura teoria, ma nell’essere rinviati all’esperienza effettiva in cui ciascuno è chiamato a implicarsi riconoscendo di volta in volta l’appello che viene dal bisogno del fratello incontrato. La misura del fare non può mai essere predeterminata a priori Tuttavia questa inesauribilità non va vista come un peso insopportabile, poiché non ci è mai richiesto più di ciò che, a partire dalle nostre risorse, possiamo dare: l’unica esigenza è quella di sentire che in ogni situazione umana di bisogno abbiamo la capacità e la gioia di farci prossimi.

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCATECHESI ADULTI 2001/8

“NON CIO’ CHE IO VOGLIO, MA CIO’ CHE TU VUOI”ovvero Il calice della passione e la volontà del Padre

Messaggio centraleGesù affronta la sua morte in dialogo con il Padre e domanda ai discepoli di entrare

nella sua prospettiva

Finalità dell’incontro• Accompagnare ad incontrare l’umanità vera di Gesù, che vive con angoscia e

fiducia l’approssimarsi della sua morte• Accompagnare ad imparare ad assumere nella preghiera le proprie paure e a

consolidare in essa la propria fiducia nel Padre

AtteggiamentiGesù ci invita ad assumere i seguenti atteggiamenti:

• Prendere coscienza delle nostre paure e vivere autenticamente le reazioni umane di fronte agli avvenimenti negativi

• Coltivare quotidianamente la fiducia in Dio Padre nelle cui mani sta la vita e la morte• Verificare l’autenticità della preghiera come dialogo in cui si chiarisce la

volontà di Dio e la nostra disponibilità ad assumerla fedelmente

Lettura della Parola di Dio ( M 14, 32-42 )

32]Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». [33]Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. [34]Gesù disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate».

[35]Poi, andato un pò innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. [36]E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu». [37]Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? [38]Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole». [39]Allontanatosi di nuovo, pregava dicendo le medesime parole. [40]Ritornato li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli.

[41]Venne la terza volta e disse loro: «Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. [42]Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».

PARTENDO DAL TESTO E CERCANDO DI COGLIERE IL MESSAGGIO DELL’EVANGELISTA COMPILARE QUESTA GRIGLIA

Aspettidell’umanità

di Gesù

Aspettidell’umanitàdei discepoli

Il volto di Dio Padre

Che emerge dalla preghiera

di Gesù

QUALE FIGURA DI GESU’ EMERGE DAL TESTO ? IN CHE COSA CI SORPRENDE RISPETTO ALLE NOSTRE ABITUALI

PERCEZIONI ?

COMMENTO

• Il testo costituisce un momento decisivo del cammino di Gesù verso la croce.

• Dopo il deciso indirizzarsi di Gesù verso il compi- mento della sua passione, la predizione fatta ai discepoli, le loro reazioni negative, l’esortazione di Gesù a intraprendere il suo stesso cammino e le istruzioni per poterlo percorrere, e dopo l’indicazione del significato della sua morte nel gesto della cena, l’episodio del Getsemani presenta Gesù che affronta la prossimità della propria morte nel dialogo con il Padre, mentre i discepoli appaiono impreparato a cogliere questa prospettiva.

• Gesù si trova di fronte alla morte preannunciata e in questo momento culminante trova i discepoli dormienti, con gli occhi appesantiti, incapaci di parlare.

SPIEGAZIONE

Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi

discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni ...

• Gesù già si è avviato ed entra nel Getsemani (la parola significa «frantoio»). Una volta entrato ordina ai suoi discepoli di sostare mentre egli si ritira a pregare.

• Subito dopo prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. Questi

costituiscono un piccolo gruppo scelto tra i discepoli. Sono coloro che già hanno presenziato ad altri momenti chiave dell’esperienza di Gesù.

• Egli li aveva condotti con sé nella casa di Giairo quando risuscitò la figlia; sono gli stessi tre presenti all’evento della trasfigurazione dove, mentre scendono dal monte, hanno modo di udire un primo velato annuncio della morte del Figlio dell’uomo.

• Sono i discepoli che hanno assistito alla trasfigurazione come anticipazione della risurrezione e i primi che hanno potuto riconoscere il messaggio della croce quale strada verso la risurrezione. Sono anche i destinatari del discorso escatologico, in cui Gesù annuncia la fine dei tempi e gli ultimi eventi

• Sono i discepoli che più da vicino hanno intravisto gli avvenimenti salienti della vita di Gesù. Sembrerebbero così i più preparati a condividere con lui questo tratto di cammino che lo porta verso la passione e la morte nella prospettiva della risurrezione.

• E’ importante evitare i pregiudizi che inducano a pensare a un Gesù che, in quanto Figlio di Dio, viva in modo fittizio il dolore e la morte.

e cominciò a sentire paura e angoscia.

• La reazione di Gesù di fronte a questi tre discepoli è descritta subito in modo drammatico: «Cominciò ad essere nel tremore e ad aver paura».

• L’essere nel tremore è la reazione che abitualmente, nel Vangelo

di Marco, coglie l’uomo quando si trova di fronte al manifestarsi del divino

• In questo caso possiamo pensare che la reazione di Gesù nasca dalla percezione di trovarsi di fronte al volere divino, dalla percezione che la sua fedeltà a Dio lo conduca all’incontro con una morte violenta.

• Questa percezione provoca in Gesù il sentimento del tremore e della paura. Marco ci presenta un Gesù estremamente vero nella sua umanità, capace a un tempo di percepire che cosa gli chiede la fedeltà al suo Dio e insieme l’angoscia, l’orrore di ciò che si profila come la fine tragica dell’esistenza.

• A queste reazioni, il testo aggiunge alcune parole che Gesù rivolge ai discepoli

Disse loro.- «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate».

• Queste parole evocano tante espressioni dei Salmi, che si ritrovano sulla bocca del giusto sofferente.

• In esse Gesù sembra riassumere la voce affranta di tanti giusti dell’Antico Testamento, che nella preghiera presentavano a Dio tutta la paura e l’angoscia di vedersi traditi e aggrediti violentemente, al punto di avvertire la prossimità della morte in una condizione di isolamento e solitudine (cf. Sal 42; 43, 55).

• E’ una reazione reale e umanissima, nella quale Gesù assume la voce di tutti questi giusti e la fa propria. Nel contempo, insieme alla tragicità del grido di chi si trova in questa tremenda situazione, egli fa eco anche a quella fiducia con cui i giusti sofferenti si sono aggrappati alla fede in Dio come unico ancoraggio della loro vita, ultimo difensore e ultimo significato della loro esistenza.

• Queste parole di Gesù sono in grado di farei percepire la tragicità reale del momento che sta vivendo pur nella consapevolezza di poter contare sull’intervento del Padre.

• Unito a questo lamento, le parole ai discepoli contengono un imperativo

che diventerà significativo nello sviluppo successivo del racconto: «Rimanete qui e vegliate».

• Il verbo vegliare era stato utilizzato da Gesù nella parabola dei servi ai quali il padrone aveva affidato la casa e che dovevano vegliare, non conoscendo l’ora del suo ritorno.

• L’imperativo «vegliate», visto in connessione con questa parabola, lascia intravedere tutta la densità del comando dato da Gesù ai discepoli.

• Siamo nell’ora suprema, di fronte agli eventi della morte che, nella prospettiva evangelica, costituiscono gli ultimi eventi, l’ultima e definitiva battaglia contro le forze del male, da cui il Figlio di Dio uscirà vittorioso per dare inizio a un mondo nuovo.

• Si profila quindi la stessa profondità di significato e la stessa densità di realtà che è caratteristica degli ultimi eventi, quelli che precedono l’incontro finale col Signore e l’apparizione dei cieli nuovi e della terra nuova.

• L’imperativo è rivolto ai discepoli, ma risuona nella vita di ciascun credente come invito a non smarrire la comprensione del Signore Gesù sia nel suo momento culminante, sia nella sua ultima venuta, che determinerà la novità del mondo e la pienezza del Regno.

LA PREGHIERA DI GESU’

Poi, andato un po’ innanzi, cadeva a terra e pregava……

• Subito dopo l’imperativo, il testo dice che Gesù si allontanò un po’ e, con l’utilizzo di due verbi all’imperfetto («cadeva per terra e pregava»), suggerisce che egli sta entrando in una situazione prolungata.

• Al tragico cadere per terra di Gesù, quasi sotto il peso di quell’orrore che lo prostra di fronte alla prospettiva della morte, si accompagna un pregare intenso che si protrae a lungo.

• Marco precisa il contenuto della preghiera di Gesù dapprima in

forma indiretta e successivamente in forma diretta, cioè come se uscisse dalle labbra stesse di Gesù.

Pregava perché se è possibile fosse distolta da lui l’ora

• La richiesta è che venga tolta, messa da parte, l’ora. Alla conclusione del brano diventerà chiaro che cosa sia l’ora per Gesù: «Ecco, è venuta l’ora: il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori»

• Si tratta dell’ora della consegna di Gesù alla morte, dell’ora della passione, e Gesù nella sua preghiera chiede che gli sia risparmiata.

In questa reazione di Gesù affiora tutta la sua angoscia, il rigetto, l’orrore di fronte al dramma della morte e, nello stesso tempo, la sua preghiera lascia intravedere, all’interno di questa reazione negativa tendente a ottenere l’esonero dall’ora della passione e della croce, la faticosa preparazione ad accedere a ciò che Dio gli chiede: «se è possibile», se questo è conforme alla volontà di Dio.

• Questo dramma diventa ancora più acuto nella preghiera esplicita che Marco mette sulle labbra di Gesù.

E diceva: «Abbà! Padre mio! Tutto a te è possibile! Togli da me questo calice, ma non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi»

• Marco aveva già presentato un paio di volte Gesù che, durante il suo ministero, si ritira in disparte a pregare; ma mai ci aveva riferito il contenuto della sua preghiera, mai aveva delineato esplicitamente la modalità con la quale Gesù si rivolgeva al suo Dio.

• E’ solo in questo momento tragico della vita di Gesù, nell’imminenza della sua morte violenta, che Marco esplicita qual è il dialogo che si sviluppa tra Gesù e il suo Dio.

• Questi è per lui «Abbà», appellativo desunto dal linguaggio familiare, dalla modalità con cui i bambini chiamavano confidenzialmente il proprio papà.

• Esso ci permette di entrare nella familiarità, nell’immediatezza del rapporto che Gesù viveva con Dio al quale fiduciosamente si rivolgeva.

• Proprio la tenerezza, la fiducia piena che l’espressione «Abbà» condensa, rende ancora più drammatico il momento della preghiera.

• Gesù, pur davanti alla tragicità della propria morte, non smette di invocare Dio come colui che gli è papà, che gli è vicino, che sente presente in un rapporto di confidenza e tenerezza.

• A questo primo elemento segue la seconda espressione: «tutto a te è possibile».

• Non è l’affermazione di una onnipotenza magica, ma piuttosto la professione di fede nella potenza di Dio, nelle cui mani stanno la vita e la morte.

• Pur di fronte alla tragicità di ciò che sta vivendo, Gesù non smette di invocare Dio come «Abbà» e di affermare solennemente la sua fede in questo papà, nella cui mano stanno l’esistenza, la vita, la morte, la storia degli uomini.

• Di seguito, viene la richiesta, formulata con un imperativo pressante rivolto da Gesù a colui che ha chiamato «Abbà»: «togli da me questo calice».

• Il simbolo del calice è già apparso nel racconto dei figli di Zebedeo.

• Là Gesù annunciava la futura passione e la morte violenta e invitava i discepoli a seguirlo sulla stessa strada.

• Qui però la tonalità è diversa, perché la prospettiva della morte non è più così lontana e di fronte ad essa pro- rompe energicamente tutta l’incontenibile reazione umana.

• Davanti alla morte violenta e tragica, che è imminente, la richiesta formulata sembra un rigetto. «Togli da me questo calice», togli da me l’esperienza della sofferenza e della passione, togli da me la drammaticità della morte.

• Ma, proprio nell’avanzare questa richiesta, Gesù sembra retrocedere improvvisamente: «Ma non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi».

• Assieme alla supplica di essere sottratto all’esperienza tragica del soffrire e del patire violento, Gesù mostra la sua sofferta ma reale disponibilità ad essere fedele alla volontà di Dio.

• Gesù all’inizio del Vangelo di Marco aveva delineato la figura del discepolo: «Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli, le mie sorelle? Sono coloro che sono fedeli alla volontà di Dio».

• Ora è questo il momento in cui Gesù, nel modo più profondo, è chiamato a farsi modello della vita del discepolo fedele a ciò che Dio chiede.

LE TRE VENUTE PRESSO I DISCEPOLI

• Dopo la preghiera di Gesù, prende corpo la seconda tematica del brano: Gesù va dai discepoli e li trova addormentati.

• Ci troviamo di fronte al contrasto stridente tra l’imperativo dato («vegliate») e il dormire dei discepoli.

• Lo stesso contrasto emergeva nella parabola del servitore chiamato a vegliare, nella quale Gesù ammoniva: «Badate che il padrone, quando ritorna, non vi trovi addormentati».

• E Gesù trova proprio i suoi discepoli addormentati. Dorme lo stesso Pietro che aveva espresso, un po’ troppo entusiasticamente, la sua incondizionata disponibilità: «Sarò con te pronto a morire». Gesù, rivolgendosi a Pietro, dice:

«Simone dormi? Non hai avuto laforza di restare sveglio con me per un’ora?».

• Siamo nel momento drammatico dell’«ora», nei momenti

culminanti dell’esistenza del Maestro, che diventano gli eventi culminanti del significato della storia umana.

• E’ l’«ora» nel senso degli eventi decisivi e Pietro non sa vegliare neppure un’ora, nel senso cronologico del temine.

• Gesù fa notare questa debolezza dei discepoli che non sanno cogliere la densità del momento che stanno vivendo: non hanno la forza di vegliare sessanta minuti.

• Subito dopo Gesù ripete il suo imperativo e, al comando «vegliate», aggiunge «pregate».

Vegliate e pregate per non entrare nella tentazione.

• Al «vegliare» si aggiunge ora la preghiera, di cui quella di Gesù ha fatto poco prima da modello.

• Restare svegli e pregare come ha pregato Gesù, per non entrare nella tentazione.

• La tentazione è il momento della prova, in cui il discepolo corre il pericolo di abbandonare il suo maestro e venire meno nella fede.

• Questi discepoli non si accorgono che stanno vivendo gli eventi nei quali si decide il destino salvifico della storia.

• Non sono capaci di mantenersi vigilanti nella preghiera per poter vivere con solida fiducia in Dio questi momenti importanti e drammatici.

• «Vegliate e pregate», dunque, per non entrare nel pericolo di venire meno alla sequela di Cristo quando la drammaticità degli eventi costituisce il momento più problematico per la fede. E Gesù aggiunge:

«Lo spirito è pronto, ma la carne è debole».

• Con questa antitesi tra spirito e carne, Gesù delinea la condizione perché i discepoli possano rimanere svegli nella preghiera: è che lo spirito sia pronto.

• Lo spirito pronto può essere soltanto un dono che Dio fa

all’uomo.

• Nel salmo «Miserere» (Sal 51) c’è la richiesta che il Signore doni uno spirito pronto, perché solo lo spirito sostenuto dall’energia di Dio è tale.

• La carne, nella sua fragilità, abbandonata a se stessa, corre il rischio di venire meno nei momenti della prova.

Allontanatosi di nuovo, pregava dicendo le stesse parole. Ritornato li trovò addormentati

• Il testo dice che Gesù, dopo torna a pregare. Egli riprende e ripete la preghiera precedente.

• Per una seconda volta prega e per la seconda volta trova i discepoli addormentati.

• A .questo punto l’evangelista, quasi facendo una parentesi di spiegazione per il lettore, sembra indicare il motivo del sonno dei discepoli:

Erano infatti i loro occhi appesantiti e non sapevano che cosa rispondere.

• Si tratta di una spiegazione piuttosto strana. Il motivo addotto per giustificare il sonno è duplice.

• In primo luogo «i loro occhi sono pesanti». Gli occhi e la

vista nel Vangelo di Marco hanno un significato simbolico. Quando Gesù guarisce i ciechi, compie un gesto che significa l’apertura degli occhi della fede; il vedere umano significa il vedere della fede che penetra il mistero

• I discepoli dormono perché la loro capacità di credere è venuta meno, è appesantita.

• In secondo luogo «non sapevano cosa rispondere».

• Questa stessa frase ricorre nel racconto della trasfigurazione, quando Pietro, non comprendendo il significato profondo dell’evento di cui è stato reso partecipe, propone di fare tre tende, e Marco annota: «Non sapeva infatti che cosa diceva».

• Anche qui ritorna l’incomprensione, che in questo caso però rende i discepoli muti

• Questo è il loro sonno: il non aver mantenuto aperta la vista della fede, l’aver lasciato che i loro occhi siano gravati dall’incredulità, l’essere decaduti verso l’incapacità di comprendere il senso profondo degli eventi che vivono col loro Maestro.

Venne la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta così! ... ».

• Gesù va dai discepoli e li ritrova addormentati. Allora dice ai discepoli, probabilmente in forma interrogativa, «Dormite ancora e riposate».

• Permane questo sonno che è la pesantezza della vista che non riesce

più a cogliere la prospettiva della fede. E, dopo aver fatto questa domanda, tra il rimprovero e l’ironia, Gesù dice una parola che, pur difficile da interpretare, appare densa di significato

• «Basta così» sembra voler dire «siamo giunti tutti alla fine»: Gesù, da parte sua, è giunto a maturare, attraverso quella preghiera drammatica e sofferta, la sua decisione; i discepoli, per parte loro, sono ormai giunti al culmine della loro parabola discendente di incredulità rispetto al mistero di passione che at- tende il Figlio dell’uomo.

• Gesù ha compreso qual è la fedeltà che Dio richiede da lui, mentre

i discepoli falliscono, non riuscendo a vegliare e abbandonando Gesù al suo arresto, che fa risaltare i due temi che il testo sta delineando.

«E’ venuta l’ora in cui il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi. andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».

• E’ in fedeltà a Dio che Gesù viene consegnato alla morte, anche se colui che di fatto lo consegna alla morte è un uomo: «Ecco, colui che mi consegna (che mi tradisce) è vicino».

• Ma proprio nel momento in cui riconosce che è giunta

definitivamente l’ora della sua passione e della sua morte, cui il tradimento dà inizio, Gesù prende in modo risoluto la sua decisione: «Svegliatevi (sorgete) e andiamo!».

• Dopo la preghiera drammatica di Gesù, queste parole costituiscono l’orientamento volontario con cui Gesù esce dalla preghiera.

• L’espressione «andiamo» indica il suo non essere costretto, il suo scegliere liberamente la prospettiva della morte, che pure gli è parsa, nella preghiera, un evento tragico, da respingere.

• La preghiera ha permesso a Gesù di maturare questa decisione: andare volontariamente incontro a quella morte che costituisce per lui l’evento ultimo della sua fedeltà a quel Dio che, anche nel momento tragico, egli ha chiamato «Abbà».

SIGNIFICATI PER LA NOSTRA VITA

• Il dramma di Gesù di fronte alla morte, vissuto nella preghiera al Padre, è un dramma che diventa esemplare per ciascuno di noi.

Questo modo di affrontare la morte nella tensione tra rifiuto e fedeltà a Dio, pur non togliendo tutte le oscurità, permette di intravedere come ciascuno di noi può vivere le proprie esperienze di ombra e, anche se certamente nella drammaticità, il proprio stesso morire.

• Nella serie di contrasti che si delineano in questa breve

preghiera di Gesù, cogliamo una ricchezza di vissuto significativa anche per l’esperienza cristiana.

• Da una parte la capacità di non offuscare mai l’immagine di Dio e il rapporto filiale con lui nemmeno di fronte all’orrore della morte; dall’altra la reale espressione della ripulsa umana di fronte alla morte che sembra il luogo della lontananza dal Dio della vita.

• L’uomo biblico ha sempre avvertito la morte come il luogo che distanzia dal Dio della vita.

• Gesù stesso vive la tragicità di questa prospettiva

• La morte appare come realtà tragica; Gesù non è né un idealista né un fanatico né uno spiritualista che sfugge alla realtà.

• Questa preghiera di Gesù in faccia alla morte delinea anche quello che potremmo vivere noi quando giungerà l’ora in cui già si addenseranno sulla vita le ombre della morte.

• E’ la stessa preghiera che noi saremo chiamati a vivere quando, inevitabilmente, ci troveremo di fronte al nostro morire.

• Questi atteggiamenti di Gesù, sviluppati nella forma dialogica della preghiera rivolta al Padre, sono gli atteggiamenti che ogni uomo credente è chiamato ad assumere fin da ora nelle esperienze difficili della vita.

• Atteggiamenti che dovranno contemperare la spontanea reazione dell’uomo, che rifiuta la tragicità e l’oscurità del morire, e dall’altra parte la fedeltà del credente, che si affida al suo Dio, perché crede che egli è sempre «Abbà» e che la vita e la morte sono ancora in suo potere.

• Se la situazione drammatica porta istintivamente a rivolgersi a Dio, all’unico onnipotente cui si appella la nostra impotenza, la preghiera cristiana non si risolve mai nel piegare la divinità al proprio scopo, nel manipolare Dio a partire dalle proprie esigenze.

• E’ compito del credente ritrovare nella preghiera la consapevolezza della sovranità e della affidabilità del Padre, e assumere con coraggio e in piena libertà la situazione drammatica, che chiede appunto di essere vissuta e non delegata.

• A trasformare la croce in evento di salvezza non è un intervento divino e magico che cancella il negativo ed elude la difficoltà, ma la libertà di Gesù che, facendone il luogo del dono libero della vita, porta la sua croce «da Signore».

• La salvezza non si realizza dopo o nonostante la croce. Solo la tenacia di un amore irrevocabile consente di «svegliarsi-risorgere» e incam-minarsi verso la croce realizzando la volontà del Padre, cioè facendone il momento del dono.

• Il secondo tema, legato alla figura dei discepoli, è altrettanto suggestivo.

• Tre volte Gesù va dai discepoli e tre volte li trova addormentati.

• Prima ancora, per tre volte Gesù aveva preannunciato a questi discepoli il suo destino di morte come destino di fedeltà a Dio e sempre essi avevano rifiutato questa prospettiva e avevano seguìto Gesù con meraviglia e con paura.

• Questi discepoli che non comprendono il mistero della passione e della morte del Figlio dell’uomo e che non colgono la densità dell’ora e degli eventi che vivono, ma dormono, nel loro fallimento ci fanno da specchio.

• Ci avvertono di quanto sia difficile per la carne, per l’uomo cioè abbandonato alla sua fragilità, che pretende di contare solo sulle proprie forze, poter cogliere la prospettiva del morire per risorgere, vale a dire il mistero della morte come il luogo in cui Dio può offrire la pienezza della vita.

• Questa difficoltà dei discepoli ci fa da ammonimento perché non siamo troppo facili a presumere di credere.

Anche qui assistiamo a una teofania in cui Gesù si mostra senza particolare sfoggio di potenza e sale sulla barca di Simone. La reazione di Pietro è simile a quella di Giovanni, descritta in Ap. 1,17. Come a Pietro Gesù aveva detto: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini (Lc. 5,10), così al nostro autore “...disse: Non temere...” Davanti a Dio, da Cristo in poi, non dobbiamo avere timore perché anche un peccatore come Pietro può essere chiamato a diventare “pescatore di uomini”.

Cristo, rivelandosi, attribuisce a se stesso delle caratteristiche che nell’A.T. sono tipiche di Jahwe, come, ad esempio, “Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente” (v. 17), ma poi aggiunge un attributo suo proprio: “Io ero morto ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi” (v. 18). Il Cristo glorioso è passato attraverso la morte in croce per risorgere nella gloria. Gesù è “morto e risorto”.Cristo affida a Giovanni la missione di annunciare ciò che ha visto. E questa missione viene affidata anche a noi, oggi. Quando noi andiamo a Messa, ad esempio, e vediamo con gli occhi della fede realizzarsi il mistero pasquale abbiamo poi il compito di annunciarlo ai nostri fratelli. Parliamo a tutti con semplicità per rendere ragione della nostra speranza, della gioia che è in noi.

Giovanni deve annunciare non solo ciò che ha visto ma anche quanto il Signore gli dice. Gesù Cristo stesso gli suggerisce l’interpretazione delle visioni. ###############

Lettura di Ap. 2,1 – 7

Lavoro di gruppo• Quale messaggio vi sembra emerga da questo testo ?• Quali sono i punti oscuri che ritenete richiedano una spiegazione ?• Il testo è costruito come una lettera. Per cogliere il messaggio, cercate di

individuare gli elementi che lo compongono:

Mittente

Destinatario

Situazione

Messaggio

Saluto

• Immaginate che questa lettera sia scritta dal Signore alla nostra comunità parrocchiale. Provate ad indicare “le opere, la fatica e la costanza” che sono in atto in essa

EFESO: la crisi dell’”agape”La grande avventura dell’Apocalisse: le comunitá cristiane si trovano davanti a un avvenimento decisivo e consolante: Gesú Cristo torna a parlare . Egli domina da Signore tutta la storia, come Colui che é l’Unico e Colui che ci ama. La forma espressiva di questa vitalitá ci é data in un turbine di immagini (= parlare agli

• E’ difficile per ciascuno di noi, non a parole ma nella realtà, accettare questo cammino del Figlio dell’uomo.

• Sarà estremamente difficile vivere la prospettiva del proprio morire e coglierne la densità insieme con la tragicità e viverla sul modello del Figlio dell’uomo in fedeltà a Dio.

• La fatica dei discepoli che finiscono per dormire proprio mentre va affrontato il mistero più grande della morte del Figlio dell’uomo, ci rende coscienti di quanto è difficile per noi capire che il cuore della fede cristiana: il mistero di un Figlio dell’uomo rifiutato, che patisce per mano degli uomini e che è ucciso violentemente.

• Quanto è difficile capire che occorre patire molto per entrare nel regno di Dio e che questa è la strada normativa, perché percorsa da Gesù, che attendo ciascuno di noi!

• Solo chi percepisce questo messaggio e avrà il coraggio di rimanere sveglio nella fede, solo chi avrà la forza e il coraggio di pregare in modo confidente e drammatico ma anche disponibile, come ha pregato Gesù, potrà entrare in questo mistero.

• La contemplazione del Gesù di fronte alla prospettiva della propria morte nel rapporto con Dio, da una parte, e, dall’altra, l’ammonimento proveniente dalla figura dei discepoli che faticano a vegliare, sostengono il cammino della vita cristiana, impedendo il venire meno della fiducia e della fede.

occhi): candelabri, oro, neve, fuoco, stelle, spada. Uno scrittore classico non vedrebbe tutto questo, perché é chiuso nel suo pensiero, dove tutto deve essere chiaro, preciso, definito. Ma tutto questo non per esprimere un concetto artistico, bensí teologico: la visione al servizio di un ascolto per vedere la voce: una visione, quindi, non degli occhi, ma della fede.

EFESO era la città più importante dell’Asia Minore. celebre per Il filosofo Eraclito e per il tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo. Era centro spirituale e culturale di grande importanza. crocevia religioso tra Oriente ed Occidente“All’Angelo della Chiesa di Efeso scrivi....”, sono parole di Cristo.

Il Risorto parla alle sette Chiese. Pensiamo al candelabro ebraico a sette bracci: è un’immagine bellissima della Chiesa. Il candelabro è uno ma è costituito da tutte le sette fiamme riunite, che però rimangono fiamme singole. Ecco le chiese particolari e la Chiesa universale.Le sette lettere in realtà più che allo stile epistolare appartengono allo stile profetico, e in esse si sente la voce di Dio che giudica, che analizza, che mette in evidenza le cose positive e quelle negative.

L’introduzione è solenne: “Così parla Colui...”. Sembra di sentire l’”Oracolo di Jahwe” dell’A.T. Sulle sette Chiese, come era avvenuto da parte dei profeti nei confronti di Israele, sono espressi una critica e un incitamento a proseguire.

Se notiamo bene, la maggior parte dei titoli dati al Signore è già presente nell’Introduzione. Ora nelle lettere i vari attributi divini vengono ripresi (es. “...Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro...”) e sviluppati in un diverso contesto. Anche le immagini (es. “Al vincitore darò da mangiare...”) sono un’anticipazione di quanto scritto negli ultimi capitoli apocalittici ove si parlerà della Gerusalemme celeste.

Perché le lettere sono indirizzate proprio alle Chiese di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardì, Filadelfia, Laodicea?La risposta più ovvia è che in tali città erano presenti comunità cristiane.

Nelle nostre lettere sono contenuti precisi riferimenti religiosi, politici, geografici alle città in questione, che indicano che lo scrivente conosceva molto bene la regione in cui erano situate le comunità destinatarie degli scritti.

I messaggi alle Chiese fanno emergere tre aspetti:1 - le tensioni esistenti all’interno delle comunità cristiane,2 - le tensioni con il giudaismo,3 - la tensione con il potere imperiale, con Roma.

Riprendiamo l’esame della prima lettera o, quanto meno, di alcuni versetti.Efeso, uno dei centri religiosi più importanti dell’antichità, era una metropoli con 250.000 abitanti e con il celebre tempio di Artemide (Diana per i Romani), meta di grandi

Queste due espressioni introducono le parole del Padre nostro; per questo, prima di inoltrarci a meditare la preghiera del Signore, vogliamo soffermarsi a riflettere sul loro significato. La prima espressione presenta la richiesta dei discepoli che manifesta l’esigenza più profonda del credente, un bisogno che viene dall’intimo del suo cuore, ma a cui non sa dare risposta.

•Come si presenta questa domanda? •Quali difficoltà rendono difficile pregare? La seconda espressione apre la risposta di Gesù: il grande dono che fa ai discepoli: consegna loro il segreto della sua vita, le parole che racchiudono l’intimità profonda del Figlio con il Padre, l’Abbà.

•Cos’è la preghiera ? •Qual è lo specifico della preghiera cristiana fra le preghiere possibili

nell’esperienza umana?

A queste domande cercheremo di rispondere, pur nella consapevolezza delle difficoltà che comportano.

Della preghiera, è difficile parlare perché è un’esperienza che va anzitutto fatta; per quanto povera, rimanda sempre alla singolarità di un vissuto e di un incontro personali, che hanno sfumature e caratteristiche uniche per ciascuno.

Riflettere sulla preghiera, dunque, non sostituisce il pregare, ma è un aiuto perché l’esperienza personale del dialogo con Dio diventi sempre più profonda, limpida, intensamente vissuta.

C’è poi una difficoltà inerente proprio alla preghiera cristiana del Padre nostro: nelle sue brevi espressioni si condensa in modo unico tutto il messaggio di Gesù e la singolarità della sua esperienza di rapporto con Dio, suo Padre; pertanto penetrarne tutta la profondità è cammino inesauribile, che impegna l’intera vita cristiana.

LA PREGHIERA:

pellegrinaggi, considerata una delle sette meraviglie del mondo.

Chi è l’Angelo della Chiesa di Efeso?

Secondo alcuni studiosi sarebbe lo spirito tutelare della comunità (idea diffusa nel tardo giudaismo), mentre per altri si tratterebbe del messaggero latore delle lettera (dal significato del termine greco).

Per altri ancora sarebbe il ministro responsabile della comunità, che avrebbe letto poi il messaggio nell’assemblea liturgica.

Secondo l’interpretazione più valida l’Angelo diventa una personificazione della comunità ecclesiale.

Cristo in questa prima lettera è presentato come il dominatore della Chiesa. Egli “cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro” e, quindi, è dinamico, cammina con la sua Chiesa.

Ci accorgiamo di pagine bibliche in sottofondo: “cammina” ricorda innanzitutto l’Esodo, con il popolo che cammina nel deserto mentre la nube lo segue; e, inoltre, Dio che passeggia nel giardino mentre Adamo ed Eva, commesso il peccato, si nascondono perché nudi (Genesi 3, 8-10).

In questa I° lettera pare si possa cogliere la descrizione di un peccato. Nel v. 5 Gesù parla al passato: “Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima”.

Per capire bene il messaggio inviato alla Chiesa di Efeso è importante ripensare al peccato originale.

L’episodio della caduta di Adamo ed Eva ci aiuta a capire il valore del premio finale, l’albero della vita.

Infatti ai due in Genesi vengono proibiti l’albero della conoscenza del bene e del male e l’albero della vita.

Adamo ed Eva mangiano del primo ma viene loro impedito, dall’arrivo di Dio, di nutrirsi dell’albero della vita.

Adesso il vincitore (v. 7) potrà mangiare dell’albero della vita perché Dio e l’uomo si sono perfettamente riconciliati.

La Chiesa di Efeso ha degli aspetti positivi come ad esempio le “opere” che sono ritenute fondamentali nella tradizione giudaica.

Un buon ebreo doveva conoscere la Torah e metterla in pratica: la preghiera e - come era chiamata dagli ebrei - l’elemosina.

BISOGNO E DIFFICOLTA’ DI OGNI GIORNO

Nel nostro tempo sembra crescere l’esigenza di recuperare la vita alla sua dimensione spirituale in un mondo sempre più dominato dalla tecnica, ma è anche fatica perché si tratta di un’esperienza che non matura spontaneamente e domanda cura costante.

La vita che non è riducibile solo a efficienza e lavoro, ma ha una dimensione più profonda e la preghiera è l’espressione più matura della fede: manifesta l’affidarsi a Qualcuno con cui si intesse un rapporto personale.

Quanto più intuiamo che l’esperienza della preghiera è essenziale nel vissuto di fede, tanto più sentiamo che, in particolare oggi, è difficile pregare, allora viviamo in noi la tensione tra il desiderio della preghiera e la fatica del pregare. Varie difficoltà: •La prima difficoltà sembra venire dalla mancanza di spazi adeguati

e tempi opportuni per la preghiera. Il ritmo della vita è diventato frenetico e poco dispone alla riflessione, al silenzio. Oggi viviamo una idolatria del tempo, ma proprio per questo è ancor più necessario pregare. Chi prega dimostra di essere signore del proprio tempo!

Dare spazio alla gratuità è manifestare la signoria su di un tempo che sembra invece tiranneggiarci. •Una seconda difficoltà, propria del contesto odierno, sembra venire

dalla cultura dell’efficienza di cui è impregnato il nostro mondo.

Solo ciò che è immediatamente utile sembra avere valore e meritare la nostra dedizione; ciò che non produce risultati è considerato inutile spreco. La preghiera fatica cosi ad affermarsi perché non appartiene al mondo dell’efficienza e dei risultati, ma a quello della gratuità, di ciò che non è in vista di altro e domanda di essere vissuto per se stesso.

La sola preghiera e la sola elemosina non bastavano.

E, al di là delle interpretazione date agli scritti di S.Paolo, la fede e le opere assieme sono indispensabili anche per noi cristiani.

S. Giacomo afferma che senza le opere non c’è fede.

Noi andremo in Paradiso perché Cristo è morto per noi e perché abbiamo capito il senso di questa morte attraverso la quale si realizza la redenzione. Possiamo intendere la fede e le opere come “la tua fatica e la tua costanza” (v. 2).

Alla luce di altri passi del N.T., soprattutto di S. Paolo, “fatica” significa “sforzo apostolico”, “annuncio del Vangelo”, “fatiche dell’annuncio”.

La Chiesa di Efeso pratica le opere, annuncia il Vangelo ed è costante, cioè ha l’atteggiamento giusto del cristiano quando è perseguitato.

Sono questi aspetti positivi notevoli.

Ma la Chiesa di Efeso deve ritrovare il suo amore (agàpe) di un tempo verso Gesù, cioè deve recuperare quel rapporto di amore intenso e disinteressato che aveva prima con il Signore.

L’agàpe è l’anima di ogni cosa e quando viene meno rimane l’egoismo.

Scopriamo poi che nella comunità cristiana di Efeso erano presenti dei falsi apostoli (v. 2) che, stando ai testi di S. Paolo, erano persone che si ritenevano super-apostoli (oratori che invece a Corinto riscuotevano grande successo), oppure che si spacciavano per apostoli ma non lo erano.

Questa accusa veniva rivolta anche a S. Paolo perché egli non aveva condiviso la vita terrena di Gesù.

Di fatto i falsi apostoli erano persone che mistificavano, che predicavano un falso Vangelo.

Alcuni studiosi li identificano con coloro che nel v. 6 sono definiti “i Nicolaiti”.

Secondo l’Apocalisse costoro si nutrivano delle carni immolate agli idoli.

Noi ne abbiamo notizia dai Padri della Chiesa (in particolare da Ireneo e da Eusebio di Cesarea), i quali li fanno risalire a Nicola - uno dei sette diaconi - che aveva costituito un gruppo considerato eretico perché aveva tendenze libertine e lassiste e l’uso di consumare le carni sacrificate agli idoli.

Per altri studiosi il termine “Nicolaiti”, che deriva comunque da “Nicola”, è simbolico.

“Nicola” significa “vincitore del popolo” ma in senso negativo vuol dire “imbroglione del popolo”.

Quando preghiamo abbiamo la sensazione di perdere tempo, mentre pregare è donarsi tempo per se stessi e per un dialogo con Dio che è essenziale per dare senso alla vita.

• Un’ulteriore difficoltà, frutto della mentalità odierna, che possiamo sperimentare in diverse forme, è la crescita smisurata di concentrazione su noi stessi.

Siamo talmente presi dai nostri problemi o dall’ansia di manifestare le nostre capacità, che trascuriamo sempre più il dialogo vero, il comunicare semplice e gratuito tra persone. L’uomo di oggi quando prega appare così concentrato sul suo groviglio di problemi e tensioni interiori, che la preghiera diventa di nuovo un ripiegarsi su di sé, senza che ci sia la disponibilità all’accoglienza autentica di quanto viene dall’Altro con ciò che ha da dirci e donarci. La preghiera, quindi, è anche lotta con noi stessi, che siamo portati più al protagonismo dell’azione che alla recettività della preghiera.

• Un’altra caratteristica della cultura odierna, che può ostacolare l’esperienza della preghiera, è il sospetto che questa sia un palliativo per tranquillizzare le coscienze, per acquietare le tensioni che viviamo, quindi un momento di disimpegno.

Non bisogna negare che talora la preghiera è soggetta a questo rischio. Va tuttavia detto che, so la si comprende nella sua autenticità, presenta una forte carica rivoluzionaria.

LA PREGHIERA: PARLARE CON DIOAl di là delle fatiche e dei sospetti che abbiamo rilevati, la preghiera va scoperta nel suo significato autentico che corrisponde a una dimensione profonda della vita umana e che è presente in ogni religione quale espressione di un rapporto vissuto con Dio, sebbene sia espressa in forme differenti.

Indichiamo ora alcuni aspetti fondamentali che contraddistinguono la preghiera nel suo significato profondo. • Pregare è anzitutto invocare (vocare-in), chiamare in causa la

presenza di un Tu: il Tu assoluto di Dio, un tu divino; con lui si entra in dialogo, ma, proprio perché assoluto, resta sempre non manipolabile, non catturabile. Pregare è collocarsi alla presenza di questo Tu, è avvertire la sua vicinanza e tuttavia sentire che è altro da noi, diverso e perciò non addomesticabile, non confinabile

A colui che sopporta la persecuzione e che è vittorioso in questa Chiesa, Gesù Cristo promette “l’albero della vita che sta nel paradiso di Dio” (v. 7).

Ciò significa che Cristo - il nuovo Adamo - permette la riconciliazione di coloro che il vecchio Adamo aveva separato: Dio e l’uomo.

E quindi, grazie al nuovo Adamo, l’uomo riacquista la vita che aveva perso con il vecchio Adamo. S. Paolo scriveva: Cristo è il nuovo Adamo che ci ha liberato dal peccato.

nei nostri orizzonti. Questo fa della preghiera una esperienza di gioia e pace, ma anche di riverente timore. • La preghiera è poi invocazione del senso che questa presenza può

dare alla nostra vita; è richiesta di una realizzazione che sentiamo impossibile raggiungere da soli.

In un mondo ancora dominato dall’ingiustizia, dalla mancanza di pace, in cui la nostra vita è ancora soggetta a frustrazioni, a sofferenza e all’incombere della morte, nella preghiera invochiamo un senso che non possediamo ancora pienamente, ma che crediamo e speriamo e così attendiamo con perseveranza come dono che viene da Dio.

• Da ultimo la preghiera è anche invocazione di forza perché sappiamo impegnarci nel trasformare la nostra vita e il mondo secondo il dono di Dio, perché quanto da Dio invochiamo, desideriamo e speriamo, trovi, anche attraverso la nostra disponibilità, la possibilità di fiorire già dentro questo mondo. Non è allora evasione dalla vita, ma piuttosto è riconoscere la prospettiva che favorisce l’impegno massimo di noi stessi.

Pregare perciò è invocare la presenza di Dio, accogliere il senso che egli dà alla nostra storia, disporsi ad impegnare le nostre risorse perché questo si realizzi.

LA PREGHIERA CRISTIANA: CON CRISTO NELLO SPIRITO AL PADRE

Se in tutte le religioni la preghiera è esperienza di dialogo con Dio, il modo con cui è praticata e il contenuto che presenta manifestano la tipicità di ciascuna rispetto alle altre. Avviciniamoci alla preghiera cristiana per riconoscere che cosa le è specifico. Gesù non invita i discepoli semplicemente a pregare, ma li esorta a «pregare così!». Qual è dunque il modo e il contenuto della preghiera cristiana? Il Vangelo di Luca dice che «Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: “Signore insegnaci a pregare”» (Le 11,1).

La preghiera cristiana nasce anzitutto dalla preghiera di Gesù:

la nostra esperienza di preghiera attinge modalità e contenuto da quella di Gesù. I Vangeli lo presentano spesso in preghiera:

• passa notti intere a pregare (Lc 6,12); • pregando si dispone alle scelte importanti della sua vita (Le

9,28-36; 22,42); • nella preghiera esprime il suo stato d’animo profondo (Mt 11,25-

27)...

Gesù prega con la preghiera del suo popolo, anche noi facciamo nostra la preghiera d’Israele, in particolare i Salmi, riconoscendoci partecipi di quella esperienza.

Ma è soprattutto la qualità filiale della preghiera che esprime la novità portata da Gesù; la sua preghiera non è solamente una parte importante del suo vissuto, ma è un avvenimento straordinario che esprime tutta la sua vita.

La qualità unica della preghiera di Gesù è racchiusa nella parola Abbà (Mc 14,36), che lascia trasparire la relazione singolare che egli intrattiene con il Padre. Vivendo in questo atteggiamento egli impara a conoscere la propria identità. L’esperienza cristiana della preghiera dipende fortemente dall’esperienza di Gesù, dal volto di Dio che egli ha rivelato: non un anonimo essere trascendente o semplicemente il creatore del mondo, ma il Padre che si fa vicino e si rende disponibile per noi.

Così gli stessi contenuti della preghiera non sono generici, ma racchiudono i desideri e i bisogni essenziali che ci sono stati svelati da Gesù stessoLa preghiera cristiana è la stessa preghiera di Gesù, della quale egli fa partecipi i suoi discepoli.

Quanto indicato come tratti distintivi della preghiera, nelle differenti sfumature che assume l’invocare, trova qui la sua specificità cristiana.

Se la preghiera è invocare la presenza di Dio, la novità cristiana manifesta che questa presenza è già disponibile da quando il Figlio di Dio si è fatto uomo e da quando, nella morte e risurrezione di Gesù,

l’umanità è definitivamente entrata nella comunione con Dio.

Il dono dello Spirito che viene dal Risorto rende possibile questa nuova relazione tra Dio e ogni uomo. Quando il cristiano prega non cerca una breccia per superare gli angusti limiti di questo mondo e aprire un varco nella speranza di incontrare l’infinito di Dio, egli prega perché Dio gli è venuto incontro, entrando nella sua storia, abitando il suo tempo.

Dovremmo perciò dire che il cristiano più che pregare Dio, prega in Dio, per vivere con lui il proprio tempo. Lo specifico della preghiera cristiana è di essere sempre preghiera trinitaria: è la preghiera del Figlio che lo Spirito suscita in noi perché entriamo in relazione col Padre.

Al di là della nostra consapevolezza esplicita noi preghiamo sempre inseriti in questa comunione trinitaria. Così riconosciamo come la preghiera cristiana non è mai individualista, atto privato; anche quando è espressa nell’intimità della persona, nel «segreto della propria stanza» (Mt 6,6), è sempre vissuta nella comunione universale alla quale il Signore Gesù ci dona di partecipare.

La preghiera come invocazione assume dunque per il cristiano i tratti della contemplazione dell’opera di Dio realizzata in Gesù Cristo, e perciò si fa lode, rendimento di grazie, domanda perché quanto già è realizzato allarghi la sua efficacia nella nostra vita.

Quando preghiamo così sappiamo di non esprimere solo un auspicio, ma di accogliere un dono che già ci è reso disponibile.

La preghiera del Padre nostro diventa allora per noi l’esperienza in cui diventiamo realmente ciò che per dono del Padre. Riconosciamo perciò che insegnandoci a pregare così: «Padre nostro», Gesù non ci insegna tanto una formula, ma veramente ci insegna a pregare

Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Virle TrepontiCATECHESI ADULTI 2001/9

“SEI TU IL CRISTO, IL FIGLIO DI DIO BENEDETTO?” ovvero

Il Cristo condannato e rinnegato

Messaggio centraleGesù Messia rifiutato, porta la salvezza attraverso il dono della sua vita e mette a

nudo la fragilità dei discepoli

Finalità dell’incontro• Accompagnare a confessare che Gesù è il Salvatore di ogni uomo attraverso

l’oscurità della morte e l’infamia della croce• Accompagnare a capire che la possibilità di essere discepoli non dipende dalle

proprie forze, ma dal sentire su di sé lo sguardo fedele di Gesù

AtteggiamentiGesù ci invita ad assumere i seguenti atteggiamenti:• Verificare quale immagine di Dio conserviamo: il Dio potente alla maniera umana o

il Dio che nel silenzio porta su di sé le debolezze di ogni uomo• Coltivare il pentimento per ogni parola e gesto che, nel concreto della vita,

sconfessano la fedeltà a Gesù• Mantenere la fiduciosa speranza che è sempre possibile riprendere il cammino di

sequela di Gesù • Conservare nei riguardi di coloro che sbagliano atteggiamenti di pace e di perdono• Verificare se la comunità cristiana ha il coraggio di annunciare con la parola e le

scelte un Dio crocifisso, che si pone sempre a favore della vita umana

Lettura della Parola di Dio ( Mc 14, 53-72 )

Parrocchia dei Santi Pietro e Paoloin Virle Treponti

Catechesi adulti 2002 – 2003

Gesù Cristo è :1.Buona notizia2.Il volto di Dio3.Risposta4.Compagnia5.Dentro la storia6.Dentro il mondo7.Interiorità8.Dialogo9.Proposta10.Uomo nuovo11.Pietra angolare12.Bellezza13.Condivisione14.Compassione15.Amore16.Senso

TI ANNUNCIO CRISTO CHE HO INCONTRATO

GESU’ CRISTO E’

• Buona notizia• Il volto di Dio• Risposta• Compagnia•Dentro la storia•Dentro il mondo• Interiorità