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DIRITTI SINDACALI Il diritto sindacale ha quale punto di riferimento principale la figura del lavoratore dal punto di vista collettivo; oggetto di studio della materia sono principalmente tre argomenti: le organizzazioni sindacali , lo sciopero e il contratto collettivo di lavoro . Il diritto del lavoro vede gettate le proprie basi durante la rivoluzione industriale, quando nasce un nuovo tipo di rapporto lavorativo che ha portato, poi, alla moderna figura del lavoratore: un insieme di persone (i lavoratori) mette a disposizione di altri (imprenditori o capitalisti) le proprie prestazioni ed energie lavorative. È nel periodo anzidetto che nasce la necessità di un diritto che mediasse tra chi deteneva i mezzi di produzione e chi non ne aveva la possibilità e si manteneva lavorando per il primo. Difatti, sebbene ce ne fosse la consapevolezza, mancava in toto una disciplina al riguardo, e ne derivò il più delle volte abusi da parte dei potenti e sfruttamenti massicci delle masse proletarie che non erano in alcun modo tutelate, neanche contro gli infortuni e le morti bianche. L’unica possibilità che avevano i lavoratori era dettata dalla logica: ossia accordarsi fra loro per evitare lo sfruttamento, recuperando quella forza che non possedevano individualmente. Così nascono le prime organizzazioni sindacali rudimentali. Queste organizzazioni non avevano una propria disciplina interna ed erano viste da politici e capitalisti con notevole sfavore, soprattutto per gli strumenti di protesta che cominciavano ad adottare: gli scioperi erano i più diffusi e contrastati. Le prime forme di sciopero non erano organizzate e decise come le attuali. Più importante, erano considerate come un inadempimento contrattuale all’obbligazione assunta dal lavoratore, che era solo e semplicemente quella di lavorare. Ciò nonostante erano comunque efficaci, perché il datore di lavoro non poteva fare alcun tipo di ritorsione: il risarcimento era impossibile giacché gli scioperanti erano comunemente nulla tenenti, mentre il non intervenire, avrebbe semplicemente prolungato lo sciopero recando danno alla propria attività. 1

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DIRITTI SINDACALI

Il diritto sindacale ha quale punto di riferimento principale la figura del lavoratore dal punto di vista collettivo; oggetto di studio della materia sono principalmente tre argomenti: le organizzazioni sindacali, lo sciopero e il contratto collettivo di lavoro.

Il diritto del lavoro vede gettate le proprie basi durante la rivoluzione industriale, quando nasce un nuovo tipo di rapporto lavorativo che ha portato, poi, alla moderna figura del lavoratore: un insieme di persone (i lavoratori) mette a disposizione di altri (imprenditori o capitalisti) le proprie prestazioni ed energie lavorative.

È nel periodo anzidetto che nasce la necessità di un diritto che mediasse tra chi deteneva i mezzi di produzione e chi non ne aveva la possibilità e si manteneva lavorando per il primo. Difatti, sebbene ce ne fosse la consapevolezza, mancava in toto una disciplina al riguardo, e ne derivò il più delle volte abusi da parte dei potenti e sfruttamenti massicci delle masse proletarie che non erano in alcun modo tutelate, neanche contro gli infortuni e le morti bianche.

L’unica possibilità che avevano i lavoratori era dettata dalla logica: ossia accordarsi fra loro per evitare lo sfruttamento, recuperando quella forza che non possedevano individualmente. Così nascono le prime organizzazioni sindacali rudimentali.

Queste organizzazioni non avevano una propria disciplina interna ed erano viste da politici e capitalisti con notevole sfavore, soprattutto per gli strumenti di protesta che cominciavano ad adottare: gli scioperi erano i più diffusi e contrastati.

Le prime forme di sciopero non erano organizzate e decise come le attuali. Più importante, erano considerate come un inadempimento contrattuale all’obbligazione assunta dal lavoratore, che era solo e semplicemente quella di lavorare. Ciò nonostante erano comunque efficaci, perché il datore di lavoro non poteva fare alcun tipo di ritorsione: il risarcimento era impossibile giacché gli scioperanti erano comunemente nulla tenenti, mentre il non intervenire, avrebbe semplicemente prolungato lo sciopero recando danno alla propria attività.

Per porre fine al problema si giunse alla stesura di un contratto collettivo di lavoro, vale a dire un accordo sottoscritto dal sindacato e dall’imprenditore, che fissava il trattamento da applicare ai singoli rapporti di lavoro. Tuttavia, inizialmente, la tutela collettiva non era forte come oggi, giacché lo scioperante doveva comunque competere con la concorrenza di chi non aveva scioperato o di chi era stato assunto in seguito dal datore a condizioni contrattuali che potevano essere decise dalle due parti indipendentemente.

Il primo e più importante riconoscimento dei diritti sindacali si ha, però, con l'entrata in vigore della Costituzione del 1948. Disciplinano la materia gli articoli 39 e 40. Mentre il secondo riconosce il diritto di sciopero, il primo getta le basi essenziali e fondamentali dell’attuale diritto sindacale e quindi di tutto il diritto del lavoro, perché introduce il principio fondamentale di libertà sindacale: “l’organizzazione sindacale è libera”, recita il primo comma dell’art. 39 e da questa norma deriva anche il pluralismo sindacale. La libertà sindacale e la possibilità di costituire più sindacati sono a fondamento di ogni sistema democratico.

In materia di libertà sindacale è la legge 20 maggio 1970 n. 300, chiamata Statuto dei Lavoratori, che assume la posizione dominante.

Art. 39 della Costituzione: la libertà sindacale

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Tale articolo rappresenta il punto cardine della disciplina del diritto sindacale, è la norma centrale per quanto attiene il fenomeno associativo.

L’art. 39 Cost., al co. 1, sancisce un principio fondamentale: la libertà, e quindi la pluralità, sindacale come fondamento delle relazioni industriali. Tale disposizione è immediatamente precettiva, vale a dire che opera nei rapporti intersoggettivi tra privati, senza che si renda necessaria una legge ordinaria di attuazione.

Rispetto alla libertà di associazione (art. 18 Cost.), la libertà di cui all’art. 39 assume una sua specificità, non nel senso che l’organizzazione sindacale costituisca un’articolazione o un’integrazione della libertà di associazione, ma piuttosto nel senso che il “fine sindacale” è tipizzato come lecito, e che pertanto la libertà sindacale è, sotto quest’aspetto, assoluta.

È libertà di “organizzazione”, e non di mera “associazione”sindacale: il termine “organizzazione” identifica una nozione di raggruppamento sindacale più ampia. Nella storia sindacale italiana della Repubblica, vi sono, infatti, organismi di rappresentanza dei lavoratori che hanno certamente natura sindacale, ma non struttura associativa (si pensi, ad esempio, all’esperienza fondamentale dei Consigli di Fabbrica o Consigli dei Delegati).

Secondo l’opinione più diffusa, oggetto della garanzia costituzionale è l’attività finalizzata all’organizzazione sindacale, essendo non sola libertà da eventuali interferenze, ma soprattutto libertà di agire. La libertà sindacale è un diritto individuale (chiunque ha diritto a coalizzarsi con altri per tutelare i propri interessi e partecipare all’attività dell’organizzazione alla quale aderisce), la cui modalità di esercizio è essenzialmente di tipo collettivo (l’organizzazione sindacale deve essere posta nella condizione di svolgere l’attività di autotutela dei lavoratori di cui intende assicurare la rappresentanza).

La norma prevede poi la registrazione del sindacato (che acquista così personalità giuridica), e l’attribuzione della capacità di stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes (quindi non soltanto validi per gli aderenti del sindacato) in capo alle rappresentanze sindacali dei sindacati registrati (commi 2, 3 e 4). Condizione per la registrazione è l’ordinamento interno su base democratica del sindacato.

Questa seconda parte dell’art. 39 è rimasta inattuata, non essendo mai stata approvata una legge in materia.

Statuto dei lavoratori (Legge n. 300 del 20 maggio 1970)

Il Titolo I (artt. da 1 a 13) detta diverse norme in tema di libertà e dignità del lavoratore. Si tratta di disposizioni che tracciano la posizione garantita al lavoratore nello svolgimento del rapporto di lavoro e dunque nell’attività d’istruttoria dei ricorsi avverso i provvedimenti delle Direzioni Provinciali del Lavoro concernenti l’installazione - per le finalità consentite - di impianti automatici di controllo da cui derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e nella predisposizione delle relative decisioni (art. 4); nell’attività di istruttoria dei ricorsi avverso i provvedimenti delle Direzioni Provinciali del Lavoro concernenti l’effettuazione - nei casi consentiti - delle visite personali di controllo sui lavoratori e nella predisposizione delle relative decisioni (art. 6).

Il Titolo II (artt. da 14 a 18) è dedicato più specificamente alla libertà sindacale a livello individuale. In tale quadro si riconosce al singolo la piena possibilità di attivarsi sindacalmente, ferma l’obbligazione di lavoro (art. 14), mentre è fatto divieto ai datori di lavoro di intervenire nella

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vicenda sindacale dei lavoratori, creando dei sindacati di comodo (art. 17). È fatto, altresì, divieto di trattamenti economici collettivi discriminatori (art. 16).

Il Titolo III (artt. da 19 a 27) “Dell’attività sindacale”, invece, pone una regolamentazione non in difesa dell’associazionismo sindacale, ma a sostegno dell’attività sindacale. La legislazione di sostegno, in particolare, mira a promuovere l’attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, per permettere che la presenza sindacale si sviluppi maggiormente e per consentire che le rappresentanze riescano effettivamente a svolgere un’attività in tutela dei lavoratori, attraverso strumenti offerti loro dal legislatore.

Nel Titolo IV si trova invece, una norma importantissima, l’art. 28 che prevede una particolare forma di tutela della libertà sindacale che va sotto il nome di repressione della condotta antisindacale e che è stata estesa anche nel settore del pubblico impiego. L’art. 28 stabilisce che, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il giudice deve istruire e provvedere nel termine (ordinatorio) di 2 giorni, dopo aver sentito le parti ed assunto sommarie informazioni. Il giudice, che abbia ritenuta l’antisindacabilità della condotta, deve - con decreto motivato e immediatamente esecutivo - ordinarne la cessazione e disporre la rimozione degli effetti già verificatisi.

I DIRITTI SINDACALI NEL LAVORO PUBBLICO

In materia di pubblico impiego assume massima rilevanza il D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 121: Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche coordinato con le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 150 del 27 ottobre 2009, di attuazione della L. n. 15 del 4 marzo 2009, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni.

Applicabilità del titolo III dello Statuto dei lavoratori al pubblico impiego, con particolare riguardo all’art. 19 dello steso statuto. Cenni storici

La L. 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori), nel titolo III, riconosce alle organizzazioni dei lavoratori che sono in possesso di determinati requisiti di rappresentatività, un insieme di prerogative ulteriori a quelle concesse indistintamente a tutti i sindacati nell’esercizio dell’attività e libertà sindacale.

Dette disposizioni, come peraltro l’intero testo della legge, non hanno avuto applicazione immediata nel pubblico impiego. Questa limitazione della libertà sindacale ai pubblici dipendenti si basava sul disposto dell’art. 37 della L. n. 300 del 1970, con il quale si escludeva l’applicazione delle norme contenute nella stessa legge al settore pubblico.

L’estensione ai dipendenti pubblici si è avuta per gli effetti dell’art. 23 della L. 29 marzo 1983, n. 93 (legge quadro sul pubblico impiego), il quale ne disponeva l’applicazione immediata di alcune norme. Per le materie inerenti le norme residue si è fatto ricorso alla seguente soluzione: per talune se ne rimandava la disciplina ad atti normativi da emanarsi a seguito di accordi sindacali, tal altre, invece, sono state riscritte nella stessa legge.

L’estensione integrale dello statuto dei lavoratori, nel settore del pubblico impiego, è avvenuta solo in seguito con l’introduzione dell’art. 55, co. 2, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, che ne ha previsto l’applicazione alle pubbliche amministrazioni indipendentemente dal numero dei dipendenti, con le limitazioni disposte all’art. 2, co. 2: “fatte salve le diverse disposizioni dello stesso decreto”. (Attualmente l’art. 51, co. 2, del D.Lgs. 165/2001, dispone che “La L. 20 maggio

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1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti).

Ciò che alimentò contrasti di orientamenti, stava però, nel fatto che il D.Lgs. n. 29 del 1993, da un lato aveva disposto l’estensione della L. n. 300 del 1970, ma dall’altro non aveva però espressamente abrogato l’art. 25 “della legge quadro” che continuava a rimanere in vigore.

Problema questo che sul piano pratico ha avuto scarsa rilevanza in quanto, la norma in questione, secondo le previsioni dell’art. 72, aveva effetti solo transitori fino alla stipulazione dei contratti collettivi.

Pertanto, con la stipulazione dei primi contratti collettivi di comparto, nei quali, è stata espressamente disapplicata la predetta norma, lo statuto dei lavoratori, tra cui l’art. 19 dello stesso, trova finalmente la piena applicazione anche nel settore pubblico.

La norma in esame sottoposta al referendum abrogativo dell’11 giugno 1995 ha subìto una modifica nella sua struttura con rilevanti conseguenze. Il dato di fatto è che l’art. 19, a seguito della parziale abrogazione, lascia in vita un unico criterio selettivo ai fini della costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali per l’attribuzione delle prerogative sindacali: la sottoscrizione di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva.

Il problema che prevalentemente si poneva innanzi, in presenza dell’art. 19 con la sua rinnovata veste, era di natura interpretativa, nei momenti in cui veniva utilizzato per selezionare i sindacati rappresentativi, ai fini dell’attribuzione dei diritti sindacali e per la legittimazione alla contrattazione decentrata.

Le incertezze riguardavano, in particolare, le espressioni di seguito indicate: “associazioni sindacali”, “firmatarie”, “contratto collettivo” e la decorrenza degli effetti. Una sola cosa era pacifica, e cioè, che ai soggetti firmatari di contratti collettivi, da allora in avanti, era attribuito titolo per la costituzione di RSA. Il risultato pratico dell’applicazione dell’art. 19 al pubblico impiego è stato la corsa alle sottoscrizioni dei contatti.

Il legislatore, con il D.Lgs 396/1997 ha posto fine alla breve applicazione dell’art. 19 al settore pubblico come indice di selezione dei soggetti cui attribuire i diritti sindacali nei luoghi di lavoro. All’art. 6, co. 2 ha introdotto, come strumento selettivo, la previa rappresentatività ex art. 47-bis per l’ammissione alle trattative negoziali e per l’attribuzione delle specifiche prerogative.

In termini di paragone con il settore privato, l’elemento di differenziazione stava – ed è rimasto – nel fatto che, ai fini della possibilità di costituire RSA, nel privato la sottoscrizione al contratto collettivo è necessaria, mentre nel pubblico è solo eventuale, poiché la rappresentatività è già stata accertata prima, e rimane indifferente se poi il contratto è firmato o meno.

Riassumendo, riguardo al tema dell’applicazione dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori nel pubblico impiego, ciò ha avuto luogo nel breve periodo del vuoto legislativo, e cioè, quando si era sprovvisti di altri criteri selettivi, introdotti i quali, ne è venuta meno la sua efficacia.

Tanto perché, tale strumento di scelta dei sindacati autorizzati a costituire RSA, nel settore pubblico, non è condivisibile fondamentalmente per 3 motivi. Il primo, per la possibile “minaccia” nei confronti dei sindacati rappresentativi di far perdere la propria RSA per il semplice motivo di non aver aderito al contratto collettivo. Il secondo, perché l’applicazione dell’art. 19, in aggiunta agli altri criteri, avrebbe ristretto notevolmente i soggetti legittimati alla costituzione della RSA. Il

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terzo, il più importante, per la mancanza, nel pubblico impiego, di quella condizione giustificatoria di tale applicazione nel settore privato: “ una contrattazione collettiva meramente affidata ai rapporti di forza tra le parti”. Inoltre, a voler ammettere l’accertamento della rappresentatività, solo e unicamente sulla base della sottoscrizione del contratto collettivo, come nel lavoro privato, sarebbe riparlare di rappresentatività presunta e pertanto eludere la sua verifica.

Nel privato, invero, il sindacato che riesce a farsi riconoscere dal datore di lavoro come controparte, specie nei casi di ostilità di quest’ultimo, imponendosi anche con l’utilizzo dei vari strumenti messi a disposizione dall’ordinamento (scioperi, manifestazioni, ecc.) e a sottoscrivere il contratto collettivo, lascia pensare di essere un sindacato rappresentativo, anche se di ciò non si può avere assoluta certezza, ma piuttosto lo si può presumere.

Nel settore pubblico, invece, non potrebbe essere trasposto il meccanismo utilizzato per il settore privato, sopra descritto, per le accennate peculiari caratteristiche, cui si aggiunga l’obbligo di contrarre della pubblica amministrazione. La rappresentatività, dunque, dev’essere accertata ex ante alla sottoscrizione del contratto collettivo, non come conseguenza di un’attività, ma come presupposto per svolgere una attività, quella contrattuale, e deve basarsi su criteri certi.

I diritti di cui agli artt. 20-27 dello statuto dei lavoratori

Anche “nelle pubbliche amministrazioni la libertà e l’attività sindacale, sono tutelate nelle forme previste dalle disposizioni della L. 20 maggio 1970, n. 300”.

A questo dettato dell’art. 6, 1o co., del D.Lgs. 4 novembre 1997, n. 396 (ora art. 42 del D.Lgs. 165/2001), che estende l’applicazione del titolo III dello statuto dei lavoratori, anche al pubblico impiego, vanno però aggiunte alcune precisazioni.

Con lo stesso D.Lgs. n. 396 del 1997 e poi dal D.Lgs. 80/1998, la disciplina della materia riguardante le prerogative sindacali, è stata completamente demandata alla contrattazione collettiva.

Il relativo contratto collettivo quadro, ora in vigore, con successive modificazioni ed integrazioni, sulle modalità di utilizzo delle prerogative sindacali è stato sottoscritto in data 7 agosto 1998.

L’ambito di applicazione di tale contratto quadro comprende i dipendenti e i dirigenti, il cui rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni sia disciplinato dalla contrattazione collettiva ai sensi del D.Lgs. 29/1993, come modificato ed integrato dal D.Lgs. 396/1997 e dal D.Lgs. 80/1998 (trasfuso ora nel D.Lgs. 165/2001).

Alla luce della suddetta norma, l’applicazione delle prerogative sindacali previste dal titolo III della L. 300/1970, sono da considerarsi residuali, in base all’art. 1, co. 3, CCNL-Quadro del 7 agosto 1998 (come modificato ed integrato dal CCNQ integrativo e correttivo del CCNQ del 27.1.1999, dal CCNQ del 28.8.2000, dal CCNQ del 3.8.2004, CCNQ del 3.10.2005) nel quale si prescrive che ove i contratti collettivi “non dispongono una specifica disciplina nelle materie relative alla libertà e dignità del lavoratore alle libertà ed attività sindacale”.

Sono da esaminare i singoli diritti previsti negli artt. 20-27 della L. n. 300 del 1970, e tra essi, costatare quanti sono applicati sic et simpliciter anche al settore pubblico e quant’alteri, sono, invece, “ritoccati” dai contratti collettivi.

a) Assemblea

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La norma dà la facoltà ai lavoratori di riunirsi e affrontare un dialogo sulle varie questioni inerenti la loro attività lavorativa, permettendo così di partecipare alle scelte sindacali.

In pratica, con il diritto di riunione si favorisce la trattazione collegiale di problematiche d’interesse collettivo. Il fatto che l’esercizio di tale diritto è garantito nei posti di lavoro, senza alcuna riduzione economica, in caso di partecipazione – per un minimo di 10 ore eventualmente aumentabili dalla contrattazione collettiva – agevola notevolmente la partecipazione dei singoli dipendenti che altrimenti sarebbero disincentivati dal partecipare all’assemblea.

La materia è stata riveduta con l’art. 2 del CCNL-Quadro del 7 agosto 1998, nel quale si prevede la possibilità di altre deroghe migliorative a seguito di eventuali norme più favorevoli previste nei contratti collettivi di comparto o di area.

Il testo dell’art. 2 contiene maggiori puntualizzazioni rispetto l’art. 20 della L. 300/1970.

È espressamente previsto un termine temporale di comunicazione dell’assemblea all’ufficio gestione, che consiste in almeno 3 giorni prima dello svolgimento, nella forma scritta, con l’indicazione circa la convocazione, la sede, l’orario, l’ordine del giorno e l’eventuale partecipazione di dirigenti sindacali esterni. La norma supera, dunque, il principio della libertà di forma sancito nell’art. 20 dello Statuto dei lavoratori, nel quale non è prescritto nulla riguardo ai modi di comunicazione.

L’amministrazione, dal suo canto, ricevuta la comunicazione, può spostare la riunione dei lavoratori, comunicandolo alle rappresentanze sindacali nella stessa forma, cioè per iscritto, nel termine di 48 ore prima dallo svolgimento, ma limitatamente per “condizioni eccezionali e motivate” (3° co.).

La titolarità del diritto di assemblea spetta a tutti i lavoratori, pertanto tutti possono parteciparvi.

Ciò non vuol dire che tutti i dipendenti abbandonano la loro attività lavorativa per riunirsi in assemblea, poiché è previsto che, nel rispetto dei contratti collettivi di comparto “deve essere garantita la continuità delle prestazioni indispensabili nelle unità operative interessate”(6° co.).

L’espresso requisito della “indispensabilità” delle prestazioni lavorative, come elemento compressivo del diritto di riunirsi in assemblea, esclude che l’ambito di applicazione di tale limite possa essere esteso anche ad altre situazioni, tra cui anche a quelle che pur siano turbative del normale svolgimento dell’attività della pubblica amministrazione. In altre parole, l’Amministrazione non può impedire lo svolgimento dell’assemblea sul presupposto dell’esigenza di buon andamento dell’attività amministrativa.

Riassumendo, dunque, vi possono essere delle limitazioni o delle esclusioni al diritto di assemblea.

Le limitazioni, introdotte nel 6o co. dell’art. 2, sono dovute alla sussistenza di prestazioni lavorative indispensabili.

L’esclusione, invece, prevista nel 3o co., è ammessa solo per condizioni eccezionali da identificare con situazioni di straordinarietà.

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Non dovrebbero rientrare nella norma gli eventi di assoluta necessità, per es. minaccia dell’ordine pubblico o calamità naturali, i quali estinguerebbero il diritto all’assemblea al di là della stessa comunicazione.

Altro aspetto, puntualmente definito nel CCNL-Quadro, riguarda la previsione della competenza dell’unità operativa circa la rilevazione dei partecipanti e delle ore consumate dei dipendenti, che, come accennato, l’art. 20 dello statuto dei lavoratori fissa in un minimo di 10 ore. L’eventuale superamento di questo limite comporta l’obbligo del recupero delle ore utilizzate per partecipare all’assemblea ovvero, in caso d’impossibilità ad effettuare il recupero o comunque se esso non viene effettuato, la conseguenza sarà la proporzionale decurtazione dallo stipendio.

La norma non fa riferimento alla possibilità di potersi riunire in assemblea fuori dell’orario di lavoro, utilizzando i locali dell’unità operativa, ma, non essendoci disposizione contraria, è da ammettere questa facoltà, come previsto esplicitamente dall’art. 20 della L. 300/1970.

Il potere di convocare l’assemblea spetta ai soggetti indicati nell’art. 10 dello stesso accordo, e sono:

1. i componenti delle RSU;2. i dirigenti delle RSA;3. i dirigenti dei terminali di tipo associativo che, dopo la elezione delle RSU, siano rimasti

operativi nei luoghi di lavoro nonché quelle delle medesime associazioni, aventi titolo a partecipare alla contrattazione collettiva integrativa;

4. i dirigenti componenti di organismi direttivi di sindacati rappresentativi non collocati in distacco o in aspettativa.

Tale limitazione, ai soggetti suindicati, è giustificabile per impedire che vi sia un abuso di tale facoltà, da essere poco produttiva, e per gli interessi del datore di lavoro che per le esigenze degli stessi lavoratori.

È illegittima e antisindacale, invece, la convocazione di assemblee da parte del datore di lavoro, giacché con tale comportamento l’esclusione dei soggetti sindacali, quali validi interlocutori, e l’impostazione unilaterale della problematica, mette in luce un potenziale scopo di frattura tra i lavoratori. Al datore di lavoro non è ammessa neppure la possibilità di partecipare all’assemblea, salvo che non sia stato espressamente invitato dagli stessi lavoratori.

b) Referendum

L’art. 21 dispone che il datore di lavoro ha l’obbligo di consentire, all’interno dell’azienda ma fuori dell’orario di lavoro, lo svolgimento di referendum tra i lavoratori.

L’iniziativa dev’essere congiunta di tutte le organizzazioni sindacali, su materie inerenti all’attività sindacale. Il presupposto dell’indizione necessariamente unitaria del referendum trova il fondamento, oltre che nell’ambizione del legislatore dell’unità sindacale, anche, nell’evitare che il ricorso a tale strumento, da parte di una singola rappresentanza sindacale aziendale, sia effettuato per motivi di sfida o di rivincita.

L’estensione della norma in esame al pubblico impiego, rimessa dalla “legge quadro” (art. 23, co. 2) alla contrattazione collettiva, ha trovato la sua prima attuazione nell’art. 38 del D.P.R. 266/1987 e in seguito nell’art. 17 del D.P.R. 333/1990, i quali ammettevano la possibilità di indire referendum su materie di natura sindacale.

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Ora detti accordi non sono più in vigore e trova applicazione direttamente l’art. 21 dello statuto dei lavoratori.

c) Trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali

L’art. 18 dell’accordo quadro, prevede una disposizione analoga all’art. 22, e cioè che il trasferimento in una sede diversa, dei dirigenti sindacali, quali RSA o RSU, non può essere disposto in mancanza del previsto nulla osta dell’organismo unitario.

La materia è stata prima disciplinata, riguardo al pubblico impiego, dal D.P.R. 266/1987, il quale prevedeva all’art. 40, la garanzia del previo nulla osta al trasferimento applicabile solo ai membri degli organi statutari. L’allargamento degli effetti della norma anche ai dirigenti RSA e delle organizzazioni e confederazioni sindacali è avvenuta con l’art. 19 del DPR 333/1990.

Qualche problema interpretativo si è avuto per il significato del termine “trasferimento”; in pratica, se possa essere considerato tale anche lo spostamento del dipendente nell’ambito della stessa sede di servizio.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, è da intendersi per trasferimento lo spostamento del dirigente sindacale verso un’altra unità produttiva, pertanto la norma non è applicabile ai semplici spostamenti interni.

A tale interpretazione va aggiunta una specificazione in base ad un principio previsto da un altro orientamento giurisprudenziale, secondo il quale, lo spostamento dal reparto cui è addetto ad un altro reparto della stessa unità operativa, benché non configurabile come vero e proprio trasferimento, è da far rientrare nella portata della norma nei casi in cui concretamente comporta pregiudizio.

Importante esplicitazione è dettata nel co. 6 del CCNL-Quadro, secondo il quale i dirigenti sindacali nell’esercizio delle loro funzioni, non sono soggetti alla prevista subordinazione gerarchica che invece s’impone loro come dipendenti.

La guarentigia prevista dall’art. 22 non sarebbe invocabile, per parte della giurisprudenza, in caso di trasferimenti collettivi, presso una sede diversa.

d) Diritto di affissione

È la più antica delle prerogative prevista per i sindacati nelle pubbliche amministrazioni, anteriore anche alla L. 300/1970. Prevista per la prima volta dalla L. 18 marzo 1968, n. 249, la quale all’art. 49 introduceva, nelle amministrazioni pubbliche, la riserva a favore di tutte le organizzazioni sindacali dell’utilizzo gratuito di spazi per la comunicazione di argomenti di carattere sindacale.

Il diritto di affissione era demandato dalla L. 93/1983 alla contrattazione collettiva, e fu poi previsto dall’art. 35 del D.P.R. 266/1987 e dall’art. 13 del D.P.R. 333/1990.

L’art. 3 dell’accordo quadro del 7 agosto 1998, ha riprodotto quasi alla lettera il disposto dell’art. 25 dello statuto dei lavoratori, con l’aggiunta della possibilità di utilizzare sistemi informatici per le comunicazioni.

Il diritto di affissione comporta l’obbligo all’Amministrazione di mettere a disposizione appositi spazi, in genere delle bacheche, per permettere l’affissione di documenti.

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La scelta in concreto di tali spazi, secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, impone che essi siano individuati, all’interno del luogo di lavoro, in vista della massima accessibilità a tutti i dipendenti.

L’oggetto delle comunicazioni deve riguardare materie d’interesse sindacale e del lavoro. Tal espressione è stata ritenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza nel senso più ampio, tanto da poter comprendere qualsiasi argomento d’interesse sindacale “se il sindacato lo assume come tale e che, di conseguenza, il datore di lavoro non può esercitare alcun controllo in merito”.

e) Contributi sindacali

In merito, l’iscrizione al sindacato importa l’obbligo di versare ad esso una quota attraverso quella che viene definita “delega” che giuridicamente rappresenta un atto di disposizione del reddito del lavoratore.

L’art. 26 dello Statuto dei lavoratori è stato oggetto di consultazione referendaria nel giugno del 1995, congiuntamente all’art. 19 della stessa legge e all’art. 47 del D.Lgs. 29/1993.

La conseguenza di tale consultazione, che formalmente ha comportato una sua parziale abrogazione, è stata pressoché inesistente. Infatti, nella predetta norma, si prevedeva l’obbligo del datore di lavoro di compiere il versamento concernente l’iscrizione sindacale, e tale obbligo, è stato reintrodotto attraverso la fonte contrattuale lasciando sostanzialmente invariato il risultato.

L’art. 26, della L. 300/1970, riformato dall’esito referendario, è applicabile al pubblico impiego. I princìpi ivi contenuti erano stati inizialmente estesi al settore pubblico con l’art. 23 della L. 23 marzo 1983, n. 93, poi abrogato dall’art. 74 del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29.

Al momento, l’art. 26 dello statuto dei lavoratori trova applicazione anche al settore pubblico in forza della previsione del D.Lgs. 29/1993 (trasfuso ora nel D.Lgs. 165/2001) e del CCNL-Quadro.

f) Locali

Questa materia è stata rivista dal CCNL-Quadro sulla falsariga dell’art. 27 dello statuto dei lavoratori. Si aggiunge qui che il locale posto a disposizione permanentemente, per le attività dei soggetti sindacali, nei casi di amministrazioni superiori a 200 dipendenti, dev’essere a titolo gratuito. Tale tenore letterale sgombra il campo da possibili richieste di canoni locativi, o quant’altro, nell’assegnazione di un determinato locale, in particolar modo se è situato esternamente alla sede dell’amministrazione.

La titolarità del diritto ai locali spetta alle rappresentanze sindacali aziendali e, ora, alle rappresentanze sindacali unitarie, e, tale diritto è strumentalmente connesso allo svolgimento delle funzioni sindacali.

Il legislatore pone una distinzione tra l’unità produttiva in cui siano presenti almeno 200 dipendenti e quella con un numero inferiore. Nella prima ipotesi, nasce l’obbligo in capo al datore di lavoro di porre a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali un idoneo locale, in modo permanente. Nella seconda ipotesi l’obbligo di mettere a loro disposizioni un locale, per l’esercizio delle loro funzioni, nasce solo previa richiesta. In pratica, vi è una differenza nel momento genetico dell’obbligo del datore: nel primo caso l’obbligo nasce già al momento della costituzione della RSA - o RSU - nel secondo caso nasce in un momento successivo, ossia se ne viene fatta richiesta.

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E’ chiaro che l’utilizzo di tali locali può essere esercitato durante l’orario di lavoro con l’utilizzo di permessi sindacali, non necessari, invece, se i locali sono utilizzati fuori dell’orario di lavoro. Anche se, in quest’ultima ipotesi, non è pacifica la questione circa l’accessibilità in tale ambito temporale nel luogo di lavoro.

I permessi, le aspettative e i distacchi sindacali

Il sindacato è costituito da lavoratori, i quali si associano per il raggiungimento di uno scopo comune, che consiste, di regola, nell’assistenza e nella tutela degli appartenenti alla categoria. Per assolvere a pieno titolo le sue funzioni, quelle del sindacato, è necessario che i detti lavoratori - in gergo, “sindacalisti”, ma nel linguaggio del legislatore o contrattuale vengono designati con il temine di “dirigenti sindacali” - possano assentarsi dal servizio cui sono stati assunti per esercitare appieno il loro mandato. Per questo l’ordinamento ha introdotto degli istituti, quali i distacchi, le aspettative ed i permessi, che permettono di interrompere la prestazione lavorativa per motivi sindacali.

Tali istituti rilevano sotto il profilo dei diritti sindacali proprio per il fatto di essere a vantaggio del sindacato, il quale beneficia dell’attività attuata del lavoratore.

L’utilizzo di tali diritti è ammesso non a tutte le associazioni di lavoratori, ma solo a quelle che soddisfano specifici criteri, in base alla loro rappresentatività.

La rappresentatività in questo contesto, oltre ad essere applicata come strumento selettivo dei sindacati aventi diritto, svolge inoltre un ruolo di comparazione tra i diversi soggetti aventi titolo, per la distribuzione in modo proporzionale di tali diritti in base al quantum.

Nel pubblico impiego, con l’art. 54 del D.Lgs. 29/1993, nell’attuale versione, riformulata dal D.Lgs. 165/2001, la regolamentazione della materia è demandata alla contrattazione collettiva, con l’obbligo di garantire dal 1o agosto 1996 “in ogni caso l’applicazione della L 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni” (co. 2).

Il CCNL-Quadro sui modi di utilizzo dei distacchi, permessi e aspettative sindacali sottoscritto il 7 agosto 1998 nello stesso giorno in cui è stato sottoscritto l’accordo quadro per la costituzione delle RSU, è stato oggetto in questi anni di modifiche e variazione che non hanno inciso nella sostanza.

Strutturalmente si divide in 3 parti. La prima, oltre a definirne il campo di applicazione, è dedicata all’attività sindacale; la seconda è quella che disciplina l’utilizzo dei distacchi, permessi e aspettative, mentre la terza comprende le norme finali e transitorie.

Nel suo complesso, il CCNL-Quadro racchiude una disciplina migliorativa rispetto allo statuto dei lavoratori, facendo uscire definitivamente il settore pubblico dalla spirale di specialità in cui si trovava nella suddetta materia.

Riguardo ai distacchi, il diritto di usufruirne spetta ai lavoratori che fanno parte degli organismi direttivi statutari delle proprie confederazioni ed organizzazioni sindacali, ai quali compete il trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva di comparto o di area.

Resta inteso che sono i sindacati rappresentativi, gli esclusivi intestatari dei distacchi.

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Il numero complessivo dei distacchi previsto dall’accordo è diviso, in prima applicazione, a regime, nell’ambito del comparto e area, riservando il 90% alle organizzazioni rappresentative, e il 10% alle confederazioni alle quali le organizzazioni rappresentative sono affiliate (art. 6, co. 2, CCNL-Quadro). In quest’ultima percentuale, l’accordo prevede, comunque, la garanzia di un distacco per ognuna di esse e un distacco per i sindacati delle minoranze linguistiche della Provincie di Trento e Bolzano e delle regioni Valle D’Aosta e Friuli Venezia-Giulia, da utilizzare con forme di rappresentanza comune.

La rappresentatività, dunque, oltre a fungere da muro divisorio, ponendo da un lato, gli organismi rappresentativi aventi diritto, e dall’altro, i sindacati non rappresentativi, che non hanno titolo alcuno in materia di distacchi sindacali, costituisce inoltre, in base al proprio peso, un criterio di attribuzione proporzionale di tali diritti. Questa è una differenza fondamentale con la L. 300/1970, che invece non dà incidenza al diverso grado di rappresentatività ai fini di una differente attribuzione di tali diritti.

A proposito dei permessi, essi spettano non solamente ai sindacati rappresentativi ma anche agli organismi rappresentativi unitari del personale.

Il contingente complessivo, convenzionalmente previsto, è di 81 minuti per dipendente o dirigente sindacale.

Anche i permessi sono ripartiti passando attraverso le maglie della rappresentatività, con il meccanismo proporzionale.

L’accordo sancisce che dal 1o gennaio 1999 la rappresentatività, per effetto delle elezioni delle RSU, sia calcolata, oltre che sul numero delle deleghe, anche sulla base dei risultati elettorali, e ne prevede una ripartizione dei permessi tra le RSU e i sindacati rappresentativi (30 minuti per le prime, aumentabili dai contratti collettivi di comparto e area, fino a 60, e 51 per i secondi, diminuibili in senso inverso all’aumento per le RSU).

Detti permessi sono uno strumento che dà facoltà ai dirigenti sindacali di svolgere la propria attività esonerando gli stessi dell’obbligo della prestazione lavorativa. I motivi, per i quali devono essere fruiti, espressamente previsti dall’art. 12, dell’accordo quadro, sono: la partecipazione alle trattative e la partecipazione a convegni o congressi di natura sindacale.

Ci si domanda se tal elencazione dell’accordo sia o no da considerare tassativa.

Invero, il 1o co. dell’art. 10, nell’indicare i soggetti legittimati a fruire dei permessi, statuisce il fine del loro utilizzo: “per l’espletamento del loro mandato”. Con questa generica espressione si possono far rientrare molteplici attività di natura sindacale, e la partecipazione a trattative, convegni o congressi, ex art. 12, è accomunata dalla stessa finalità – l’espletamento del mandato sindacale – pertanto, l’elencazione è da ritenere assolutamente esemplificativa.

I soggetti titolari dei permessi secondo l’art. 10 sono:

1. i singoli componenti delle RSU;2. i dirigenti sindacali delle RSA;3. i dirigenti dei terminali di tipo associativo (rimasti post–elezioni delle RSU);4. i dirigenti componenti degli organismi direttivi, che non godono di distacchi o

aspettative.

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Per i dirigenti che ricoprono cariche negli organismi direttivi statutari è utilizzabile un ulteriore istituto: l’aspettativa. Tale diritto comporta, come i distacchi e i permessi retribuiti, l’esonero dall’obbligo di prestare servizio nell’Amministrazione, ma, a differenza di essi, è concessa senza diritto allo stipendio, per tutta la durata del mandato.

Per il godimento dell’aspettativa è necessaria la previa richiesta delle organizzazioni sindacali rappresentative alle amministrazioni di appartenenza del dipendente interessato.

I diritti d’informazione e partecipazione

L’attività sindacale, nelle problematiche inerenti l’organizzazione del lavoro e la gestione del personale, non si esaurisce alla sola attività contrattuale, ma attraverso modalità ulteriori, quali gli strumenti dell’informazione e della partecipazione.

L’art. 47, co. 7, del D.Lgs. n. 29/1993, (ora art. 42 D.Lgs. 165/2001) prevede le rappresentanze unitarie del personale titolari in via esclusiva del diritto d’informazione e partecipazione, i cui modi di esercizio, sono rimandati agli accordi che ne regolano le elezioni, il funzionamento e le modalità di trasferimento ai loro componenti delle garanzie spettanti alle RSA. Mentre l’art. 48 intitolato “Nuove forme di partecipazione all’organizzazione del lavoro”, rinvia alla contrattazione collettiva la definizione di nuove forme di partecipazione.

A seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 80/1998, con cui è stato abrogato l’art. 10 del D.Lgs. 29/1993, che prevedeva un limite ratione materiae circa il diritto d’informazione esercitabile solo relativamente alla qualità dell’ambiente di lavoro e alle misure inerenti la gestione dei rapporti di lavoro, la materia è stata demandata alla contrattazione collettiva. Pertanto, nell’attuale assetto normativo, con il contratto si può, almeno in teoria, prevedere l’informazione per qualsiasi materia, così come illimitate forme di partecipazione.

Con questa soluzione, il legislatore si è esposto al rischio che la contrattazione collettiva possa “abusare” di tale strumento. Approfittando della genericità del termine “partecipazione”, per esempio, si potrebbero instaurare forme di cogestione, che in passato sono state ampiamente criticate per aver ingenerato comportamenti di favore o clientelari.

L’esercizio dei diritti d’informazione e partecipazione spetta in via esclusiva alle RSU, mentre i relativi modi con i quali tali organismi possono esercitarli sono stabiliti dai contrattai collettivi.

Diritto di accesso

Il diritto di accesso non è previsto dallo statuto, ma deriva dalla legge sulla trasparenza (art. 22 ss. L. 241/90) e dal regolamento applicativo (art. 9 D.P.R. 352/92).

Le RSU, ma anche il sindacato, qualunque sindacato, hanno diritto all’accesso ad atti e documenti dell’azienda o amministrazione di riferimento, in quanto associazione portatrice di interessi diffusi. Per esercitarlo occorre dimostrare l’interesse a conoscere quell’atto. In genere l’accesso è per atti che riguardano il rapporto di lavoro, che è l’oggetto dell’interesse del sindacato.

Il diritto di accesso è diverso dal diritto d’informazione previsto dal CCNL tra le relazioni sindacali nei vari Comparti.

CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

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Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

Il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) è il contratto stipulato a livello nazionale con cui le organizzazioni rappresentative dei lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro (o un singolo datore) predeterminano congiuntamente la disciplina dei rapporti individuali di lavoro (c.d. parte normativa) ed alcuni aspetti dei loro rapporti reciproci (c.d. parte obbligatoria).

Nel settore del pubblico impiego è stipulato tra le rappresentanze sindacali dei lavoratori e l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), che rappresenta per legge l’Amministrazione Pubblica nella contrattazione collettiva.

Le finalità essenziali del contratto collettivo sono quindi:

- determinare il contenuto essenziale dei contratti individuali di lavoro in un certo settore (commercio, industria metalmeccanica, industria chimica, ecc.), sia sotto l’aspetto economico (retribuzione, trattamenti di anzianità) che sotto quello normativo (disciplina dell’orario, qualifiche e mansioni, stabilità del rapporto, ecc.).

- disciplinare i rapporti (c.d. relazioni industriali) tra i soggetti collettivi.

La contrattazione collettiva si svolge a diversi livelli e si hanno: quello interconfederale (cui partecipa spesso anche lo Stato, in funzione di mediatore nelle trattative tra le confederazioni dei lavoratori e quelle dei datori), quello di categoria, quello locale e aziendale. I contratti che hanno oggi maggiore rilevanza pratica sono i contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL), conclusi a livello di categoria.

La funzione del CCNL di dettare dei minimi economici e normativi validi per tutti i lavoratori di un certo settore è garantita, in quasi tutti gli ordinamenti che prevedono l'istituto, da specifiche procedure volte ad estendere le norme collettive a tutti i soggetti (datori e prestatori) operanti in un dato settore.

Una disciplina di questo tipo, però, non è mai stata introdotta nel sistema giuridico italiano, sebbene l’art. 39 Cost. prevedesse che i sindacati, previo espletamento di una procedura di registrazione, potessero “rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. La norma costituzionale restò tuttavia priva di attuazione per la resistenza delle stesse organizzazioni sindacali, le quali temevano, nel clima politico del primo dopoguerra, che la procedura di registrazione prevista dall’art. 39 consentisse allo Stato un eccessivo controllo sulla loro attività.

Di conseguenza, l’unico CCNL che le parti collettive sono oggi in grado di concludere altro non è che un contratto atipico (art. 1322 c.c.) disciplinato dalle norme sui contratti in generale (art. 1321 c.c.). Le norme collettive trovano pertanto applicazione, quantomeno in linea di stretto diritto, nei confronti dei soli iscritti alle associazioni sindacali (dei lavoratori e datoriali) che hanno stipulato il contratto. In questo senso si parla spesso di contratto collettivo “di diritto comune”. L’assenza di una disciplina specifica ha causato non pochi inconvenienti, della cui soluzione si è fatta storicamente carico in massima parte la giurisprudenza. Ad esempio, grazie all’applicazione di alcuni articoli del codice civile (artt. 2077 e 2113), sono rese invalide talune clausole contrattuali individuali difformi dal contratto collettivo. Inoltre la prassi giudiziaria estende tali contratti, in caso di controversia, anche ai soggetti non obbligati, sulla base dell’art. 36 Cost. che prevede un diritto del lavoratore ad una “retribuzione proporzionata”, individuando nei contratti in questione la base per determinare il minimo contrattuale dovuto.

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L’efficacia erga omnes, verso una serie indeterminata di soggetti e l’inderogabilità equiparano di fatto il contratto collettivo a una legge ordinaria. Diversamente da queste, il contratto collettivo non persegue in linea di principio l’interesse pubblico e il bene comune, ma interessi privati. È, infatti, emanazione di soggetti di diritto privato, quali i sindacati e le associazioni datoriali, non soggetti a detto obbligo, ed anzi autorizzati dal principio della libertà sindacale e dalla libera iniziativa privata, entrambi ad operare nella direzione opposta; né la contrattazione collettiva, pur rappresentando 2 parti sociali rilevanti (o fra le più importanti per il numero di cittadini riferibili alla categoria, o iscritti e direttamente rappresentati), è rappresentativa dell’intera società civile; o che in base a questa rappresentatività sociale, o un’analogia con la mano invisibile e il ruolo del mercato libero, la concertazione fra parti che hanno, di diritto e di fatto, obiettivi personali e particolari, finisca col perseguire il bene comune, o sia la via migliore per questo scopo. Quale atto di autonomia privata collettiva, il contratto collettivo può, nella forma massima della sua efficacia, avere forza di legge tra le parti.

Il contratto collettivo aziendale assume efficacia se è sottoscritto da un’organizzazione sindacale ammessa alla rappresentanza, in particolare se questa ha ricevuto a maggioranza un preventivo mandato di rappresentanza da parte dell’Assemblea di tutti i lavoratori (aperta anche ai non iscritti al sindacato), e/o una successiva ratifica dell’accordo da parte di assemblee totalitarie.

I contratti aziendali sono una mera scrittura privata senza alcun valore vincolante tra le parti: se in altre parole, una parte contraente non osserva quanto sottoscritto, né il giudice del lavoro né altro soggetto pubblico è tenuto all’applicazione dell’accordo, delle eventuali sanzioni previste per gli inadempienti e ad ordinare la sua esecuzione forzata.

Viceversa, i contratti collettivi di lavoro nazionali e territoriali (almeno a livello di provincia) hanno valore di legge tra le parti (e rispettivi iscritti), e al contempo quelli individuali di lavoro fra datore e dipendente hanno maggiore efficacia vincolante di quelli aziendali, se sottoscritti davanti alle Commissioni di Certificazione provinciali di cui alla Legge Biagi, perché con la certificazione acquisiscono forza di legge tra le parti e di atto amministrativo opponibile a soggetti terzi. I contratti collettivi aziendali non sono ammessi alla certificazione di cui alla Legge Biagi.

La giurisprudenza realizzò l’estensione dell’applicabilità seguendo varie strade:

la principale operazione giurisprudenziale, come già accennato, fece leva sull’art. 36 Cost., norma che riconosce il diritto ad una retribuzione “sufficiente” ad assicurare “un’esistenza libera e dignitosa” a tutti i lavoratori e alle loro famiglie. I giudici affermarono l’immediata applicabilità del precetto costituzionale anche nei rapporti tra privati, e interpretarono il concetto di “retribuzione sufficiente” facendo riferimento ai minimi tariffari previsti dai CCNL, applicando di fatto tali disposizioni contrattuali anche ai rapporti di lavoro intercorrenti tra soggetti non iscritti alle organizzazioni sindacali. Tale orientamento giurisprudenziale, a tutt’oggi sostanzialmente immutato, precluse ai datori di lavoro non iscritti di retribuire i dipendenti in misura minore rispetto a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva;

i giudici affermarono in seguito che il datore di lavoro iscritto ad un’associazione stipulante ha sempre l’obbligo di applicare il CCNL nei confronti di tutti i suoi dipendenti, quindi anche a quelli non iscritti al sindacato (Cass., 13.08.1997, n. 7566). Per di più, fu introdotta una presunzione relativa di adesione del datore di lavoro all’associazione stipulante, superabile solo eccependo la non iscrizione entro la prima udienza (Cass., 26.02.1992, n. 2410);

la giurisprudenza ritenne, infine, che il contratto collettivo dovesse essere applicato nella sua interezza e a tutti i dipendenti ogni qual volta il datore vi avesse aderito, esplicitamente (ad

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es. rinviando alla disciplina del CCNL nella lettera di assunzione) o implicitamente (ad es. applicando istituti e norme significative del contratto collettivo).

Tra i tentativi legislativi di estendere l’ambito di efficacia dei CCNL di diritto comune, sicuramente quello più rilevante è dato dall’art. 36 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/70), che impone all’appaltatore di opere pubbliche di applicare ai propri dipendenti condizioni non inferiori a quelle previste dalla contrattazione collettiva. Il medesimo obbligo è imposto dalla L. 389/89 all’imprenditore che voglia fruire della c.d. fiscalizzazione degli oneri sociali.

Quanto alla stipula formale, il contratto collettivo di lavoro è usualmente concluso dalle associazioni sindacali di categoria che rappresentano i datori e i lavoratori operanti in un certo settore. A livello aziendale, il contratto può essere stipulato anche dal singolo datore di lavoro, che è legittimato a condurre le trattative con le organizzazioni sindacali aziendali ovvero con un gruppo, anche spontaneo e non sindacalizzato, di lavoratori.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che anche per il CCNL, come per la generalità dei contratti, vale il principio della libertà di forma (Cass., S.U., 22.03.1995, n. 3318). Di norma, i contratti collettivi sono tuttavia conclusi per iscritto per comprensibili ragioni di chiarezza.

La durata del contratto è fissata dalle parti stipulanti. Il contratto collettivo nazionale di categoria ha in genere una durata di 4 anni per la parte normativa e di 2 anni per quella attinente alla retribuzione. Alla scadenza del termine, conformemente ai princìpi generali, il CCNL cessa di produrre effetti e non è più vincolante. La Corte di Cass. ha, infatti, recentemente chiarito che l’art. 2074 c.c. non si applica ai contratti collettivi di diritto comune (Cass., 17.01.2004, n. 668). Anche dopo la scadenza del contratto, in ogni caso, conservano la loro efficacia le clausole attinenti alla retribuzione, atteso il rilievo costituzionale della prestazione contrattualmente dovuta al lavoratore.

La procedura di rinnovo del contratto è avviata 3 mesi prima della scadenza dello stesso, con la presentazione delle c.d. “piattaforme rivendicative”. Negli ultimi 3 mesi di vigenza del contratto e nel mese successivo le parti collettive hanno l’obbligo di non intraprendere iniziative di lotta sindacale. Se il contratto scade senza che le parti collettive trovino un accordo per il rinnovo, ai lavoratori è dovuta la c.d. indennità di vacanza contrattuale, cioè un importo addizionale che ha la funzione di preservare la retribuzione (quantomeno in parte) dagli effetti dell’inflazione.

La legge italiana non obbliga le parti sociali a sedersi intorno a un tavolo e a giungere a un nuovo accordo entro tempi prestabiliti dopo la scadenza del CCNL: la concertazione non è riconosciuta nell’ordinamento giuridico come una fonte “obbligata” del diritto del lavoro, che ha competenza esclusiva su certi temi.

In sede di rinnovo, se vi sono evidenti difficoltà delle parti sociali a pervenire ad un accordo, il Ministro del Lavoro può decidere di passare ai cosiddetti “lodi governativi”, in cui le condizioni del nuovo contratto sono dettate dalla pubblica autorità, che vincola le parti sociali a sottoscriverlo, ovvero le impone per decreto.

Con decreto del Governo o del Presidente della Repubblica possono essere riprese parti del CCNL, che ricevono forza di legge erga omnes, per tutti i lavoratori appartenenti a una categoria.

Quanto all’individuazione del contratto applicabile, un orientamento giurisprudenziale consolidato considera in primo luogo, la concreta volontà delle parti, espressa esplicitamente nel contratto individuale ovvero desumibile dall’applicazione continuata e non contestata di un certo CCNL. Si fa invece riferimento alla categoria economica in cui opera l’azienda, quando la

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retribuzione contrattuale risulti inadeguata, ai sensi dell’art. 36 Cost., rispetto all’attività lavorativa prestata dal dipendente.

Rapporti tra CCNL e altre fonti

Il rapporto di lavoro è disciplinato da una molteplicità di fonti: legge, contratti collettivi e contratto individuale. Quando una fonte è gerarchicamente sovraordinata rispetto ad un’altra, la regola generale è nel senso che la fonte inferiore (il contratto individuale rispetto al CCNL, il CCNL rispetto alla legge) possa derogare a quella superiore solo in senso più favorevole ai lavoratori (c.d. derogabilità in melius) e mai in senso ad essi sfavorevole (inderogabilità in peius).

Il CCNL non ha mai efficacia abrogativa nei confronti delle leggi ordinarie, salvo il caso di recepimento delle disposizioni del contratto in un atto avente forza di legge.

Se tra le fonti non sussiste un rapporto di gerarchia (es. rapporto tra contratti collettivi, anche di diverso livello), il contrasto si risolve secondo il criterio della successione temporale, giacché un contratto collettivo successivo può sicuramente derogare, anche in senso peggiorativo, rispetto alla disciplina collettiva previgente. La giurisprudenza ha più volte rilevato che non esiste un diritto alla stabilità nel tempo di una disciplina prevista dal contratto collettivo, per cui il successivo CCNL può liberamente incidere anche su situazioni in via di consolidamento, con il solo limite dei diritti quesiti.

Schematicamente, i rapporti tra le fonti del rapporto si regolano come segue:

Rapporto tra CCNL e legge: il rapporto è gerarchico, per cui il CCNL può derogare solo in senso migliorativo per i prestatori. Vi sono tuttavia casi, espressamente previsti ex lege, in cui la stessa legge autorizza la contrattazione collettiva ad introdurre deroghe peggiorative rispetto alla disciplina legale (ad es. la L. 223/91, che consente alla contrattazione collettiva, nei casi di gravi crisi aziendali, di superare il divieto di demansionamento previsto dall’art. 2103 c.c. come alternativa ai licenziamenti collettivi).

Rapporto tra CCNL dello stesso livello: il rapporto è paritario, quindi il contratto successivo può modificare quello precedente anche in senso peggiorativo, con il solo limite dei diritti quesiti (cioè definitivamente acquisiti al patrimonio dei lavoratori). Di norma è modificata solo la parte oggetto delle piattaforme rivendicative, lasciando per il resto inalterato il testo previgente.

Rapporto tra CCNL e contratto individuale: il rapporto è gerarchico, per cui il contratto individuale può derogare a quello collettivo solo in senso migliorativo per il lavoratore.

Contrattazione collettiva successiva al D.Lgs. 150/2009 (legge Brunetta)

Riguardo alla contrattazione collettiva, nazionale ed integrativa, il D.Lgs. 150/2009 dà vita a un processo di convergenza non solo normativo, ma anche sostanziale, con il settore privato. La valutazione delle performance individuali e collettive e la trasparenza degli atti, delle valutazioni e dei risultati sostituiscono la concorrenza di mercato quali efficaci stimoli esterni al miglioramento continuo di processi e servizi offerti dalle pubbliche amministrazioni.

La tecnica giuridica prescelta per riformare la normativa sulla contrattazione è quella della novellazione del D.Lgs. n. 165 del 30 marzo 2001, che costituisce il riferimento normativo fondamentale sulla contrattazione collettiva di categoria e integrativa del lavoro pubblico.

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Sempre ai fini di un rafforzamento della convergenza sostanziale con il settore privato, le norme rispondono alla necessità di costituire il dirigente come rappresentante del datore di lavoro pubblico (identificato in modo ampio nei cittadini-utenti e nei contribuenti), e quindi alla necessità di ribadire i poteri del dirigente in quanto responsabile della gestione delle risorse umane e della qualità e quantità del prodotto delle pubbliche amministrazioni, indicando chiaramente, in risposta allo specifico principio di delega contenuto nella L. n. 15 del 4 marzo 2009, quali materie rientrano nell’ambito della contrattazione e quali no.

A tale finalità, del resto, risponde il principio dell’inderogabilità della legge da parte della contrattazione, a meno di specifica indicazione della legge stessa, posto dal legislatore in apertura della L. 15/2009 a tutela della normativa e dell’autonomia e responsabilità dirigenziale nei confronti dell’invadenza di una contrattazione eccedente i limiti della legge nella pratica degli anni recenti.Le nuove disposizioni creano un legame forte tra contrattazione decentrata, valutazione e premialità: in particolare, viene rafforzato, in coerenza con il settore privato, il condizionamento della contrattazione decentrata, e quindi della retribuzione accessoria, all’effettivo conseguimento di risultati programmati e di risparmi di gestione.

La previsione di uno stretto collegamento tra retribuzione premiale, obiettivi contrattati e risultati effettivamente conseguiti, peraltro, trae alimento dal processo di riorganizzazione degli atti di programmazione degli obiettivi, che trova esplicitazione e trasparenza al pubblico nel Piano triennale della performance che ogni amministrazione è tenuta a redigere e pubblicare online. In accordo con il principio di delega sulla riduzione del numero dei comparti e delle aree di contrattazione, ferma restando la competenza della contrattazione collettiva per l’individuazione della relativa composizione, il decreto fissa a 2 il numero dei comparti di contrattazione.

Con la riforma della contrattazione collettiva si è prevista una regolamentazione con legge dell’organizzazione degli uffici. Tra l’altro la contrattazione dovrà sottostare a un rigido rispetto dei vincoli di bilancio: dovranno esserci meno contratti di lavoro (adesso una tornata contrattuale ne prevede più di 30) e il sistema contrattuale pubblico dovrà essere allineato a quello privato. È prevista anche una riforma dell’Aran (Agenzia per la Rappresentanza negoziale) che dovrà essere più autonoma, prevedendo un nuovo sistema d’incompatibilità dei componenti dell’organo direttivo, ad esempio con cariche di rappresentanza sindacale.

L’ARAN viene così rafforzata prevedendo che il Presidente sia nominato con decreto del Presidente della Repubblica, previo parere favorevole delle competenti Commissioni parlamentari. Il Presidente rappresenta l’Agenzia, coordina il Comitato d’indirizzo e controllo ed è scelto fra esperti, anche estranei alla pubblica amministrazione, nel rispetto di stringenti disposizioni riguardanti le incompatibilità.

Il Presidente viene coadiuvato da un collegio di indirizzo e controllo, che ha il compito di coordinare la strategia negoziale e di assicurarne l’omogeneità, assumendo la responsabilità per la contrattazione collettiva e verificando che le trattative si svolgano in coerenza con le direttive contenute negli atti di indirizzo. Il Collegio è costituito da 4 membri scelti tra esperti di riconosciuta competenza.

In definitiva, a seguito della riforma Brunetta, ecco di seguito ed in sintesi spiegato quanto resta alla contrattazione.

La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro e alle relazioni sindacali e disciplina, in coerenza col settore privato, la struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli e la durata dei contratti nazionali e integrativi, che viene

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stabilita in modo che vi sia coincidenza tra disciplina giuridica ed economica. Sempre alla contrattazione collettiva è rimessa la definizione dei trattamenti economici accessori collegati: alla performance individuale, organizzativa e all’effettivo svolgimento di attività particolarmente disagiate o dannose o pericolose per la salute.

In accordo con il principio di delega sulla riduzione del numero dei comparti e delle aree di contrattazione, ferma restando la competenza della contrattazione collettiva per l’individuazione della relativa composizione, il decreto n. 150, fissa a 2 il numero dei comparti di contrattazione, cui corrispondono 2 separate aree per la dirigenza.

Per migliorare, poi, l’efficienza e l’efficacia delle procedure della contrattazione collettiva, è stata data facoltà alle amministrazioni, al fine di favorire la conclusione tempestiva degli accordi e di tutelare il profilo retributivo dei dipendenti in caso di mancato accordo, di erogare, in via provvisoria, ai dipendenti le somme stanziate dalla legge Finanziaria per i rinnovi contrattuali (per le sole voci stipendiali). Come, pure, in alternativa a questa, la copertura economica del periodo di vacanza contrattuale secondo misure e modi stabiliti dalla contrattazione nazionale e, comunque, nei limiti previsti dalla legge finanziaria in sede di definizione delle risorse contrattuali.

È stato disposto, poi, che ogni accordo decentrato sia accompagnato da una relazione tecnica e da una relazione illustrativa, entrambe rese accessibili tanto agli organi di controllo quanto al pubblico. L’ultima, in particolare, deve essere redatta in modo tale da consentire al pubblico di valutare quanto la contrattazione decentrata sia effettivamente improntata al principio di premiare la produttività e l’efficienza nell’offerta di servizi pubblici. È previsto, poi, per alcune amministrazioni pubbliche che gli oneri derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale siano posti a carico dei rispettivi bilanci. Qualora, invece, sorgano controversie sull’interpretazione dei contratti collettivi, le parti che li hanno sottoscritti s’incontrano per definire consensualmente il significato del punto in discussione.

La contrattazione integrativa viene sottoposta a vincoli di spesa cogenti, definiti dalla contrattazione nazionale sulla base degli obiettivi e delle compatibilità di finanza pubblica. Per le amministrazioni delle autonomie locali, sono previsti vincoli di approvazione preventiva meno stringenti che per le amministrazioni centrali, ma comunque nel rispetto dei patti di stabilità e dei limiti fissati dai bilanci pluriennali. Le amministrazioni locali, peraltro, possono eventualmente aggiungere risorse proprie a quelle definite dalla contrattazione nazionale a favore della contrattazione integrativa, sempre nel rispetto dei limiti indicati. Potenziato, poi, il sistema dei controlli sulla spesa, che richiede alle amministrazioni centrali di inviare annualmente, e pubblicare sul proprio sito, informazioni certificate sul costo degli accordi integrativi al ministero dell’Economia, e da questo alla Corte dei conti. Previsto, anche, che qualora non si raggiunga l’accordo per la stipulazione di un contratto collettivo integrativo, l’amministrazione interessata possa provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva sottoscrizione. Chiarito, anche, che i soggetti e le procedure della contrattazione collettiva integrativa sono disciplinati dai contratti collettivi nazionali, fermo restando quanto previsto per gli organismi di rappresentanza unitaria del personale.

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