T268 LA MIA SEXY ESTATE GRACE

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La mia sexy estate greca Senza controllo

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La mia sexy estate greca

Senza controllo

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Titoli originali delle edizioni in lingua inglese: My Sexy Greek Summer

Zero Control Harlequin Blaze

© 2009 Marie Donovan © 2009 Laurie Vanzura

Traduzione di Elisabetta Elefante Traduzione di Elisabetta Frattini

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto

di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con

Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

persone della vita reale è puramente casuale.

Harmony è un marchio registrato di proprietà Harlequin Mondadori S.p.A. All Rights Reserved.

© 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

Prima edizione Harmony Temptation giugno 2010

Questo volume è stato impresso nel maggio 2010

presso la Rotolito Lombarda - Milano

HARMONY TEMPTATION ISSN 1591 - 6707

Periodico mensile n. 268 del 17/6/2010 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi

Registrazione Tribunale di Milano n. 128 del 7/3/2001 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale

Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione

Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti

contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171

Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano

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MARIE DONOVAN

La mia sexy estate greca

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Capitolo 1

«Che meraviglia! E pensare che eri così contraria all'idea di venire in Grecia!» Cara diede di gomito all'amica che, come lei, era appoggiata al parapetto del traghetto. La voce di Emma aveva fatto girare alcuni passeggeri, che evidentemente capivano la loro lingua e la stavano guardando in cagnesco. «Afrodisys è un posto stupendo» concordò ad alta voce. E gli sguardi torvi di un attimo prima si ammansirono, spo-standosi sulla costa dell'isola che si avvicinava. Cara abbassò la voce, prima di rivolgersi di nuovo all'amica. «Vuoi smetterla con questa storia che non volevo venire?» «Perché, vorresti negarlo? Non mi pare che l'idea di questo viaggio ti entusiasmasse più di tanto» le fece notare Emma, scostandosi dal viso una lunga ciocca di capelli biondi. Cara aveva raccolto i suoi in una treccia. Di un rosso tizia-no, naturalmente ricci e indomabili, esposti ai venti dell'Egeo si sarebbero ridotti a un'intricata massa di nodi stopposi. «Tu invece non vedi l'ora di arrivare.» «Ma ti sei guardata intorno?» Emma fece un ampio gesto con un braccio. «La Grecia! La culla dei più grandi matematici della terra. Euclide, Pitagora, Archimede... A proposito, lo sa-

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pevi che Archimede è morto durante l'assedio di Siracusa? Sul-la sua lapide fece incidere la sua formula matematica preferi-ta.» «Bell'epitaffio» commentò Cara, mostrandosi colpita. E fis-sò assorta il panorama, mentre cercava di scrollarsi di dosso quel senso di oppressione che andava crescendo in lei a mano a mano che la terra si avvicinava. Emma continuava a parlare dei matematici greci: cosa com-prensibilissima, visto che aveva vinto un dottorato di ricerca in matematica presso l'università del Michigan ad Ann Arbor, dove entrambe abitavano nello stesso condominio. Nessuno avrebbe mai immaginato che dietro quell'aria da effervescente cheerleader si nascondesse il cervello di un computer di ultima generazione. Mentre l'amica, soggiogata dalla vista, si concedeva un lun-go sospiro, Cara si concentrò sulla voce di due passeggeri che sedevano sul pontile, alle loro spalle. Non ebbe difficoltà a se-guire il rapido alternarsi di consonanti e vocali che si tradusse-ro in parole: parlavano di un certo ministro rimasto coinvolto in uno scandalo. Due signore, più in là, conversavano di bam-bini e di vestiti. I tre giovanotti alla loro destra invece facevano commenti sulle ragazze che passavano sul ponte. Cara soffocò un risolino quando i tre, riferendosi a lei e a Emma, tirarono a indovinare sulla loro misura di reggiseno. Avrebbe potuto girarsi e strizzare loro l'occhio per metterli in imbarazzo, ma così facendo rischiava che i tre, incoraggiati, si mettessero alle loro costole e le seguissero per tutta l'isola. Sapeva per esperienza che i greci ci provavano spesso con le turiste. Ma lei non era una preda facile. Aveva già commesso l'errore una volta. E non intendeva ripeterlo. Pur avendo girato la Grecia in lungo e in largo, Cara non era mai stata ad Afrodisys, un isolotto minore delle Cicladi. A

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guardarla dal mare, sembrava uscita da una leggenda greca: irte colline dove ancora i pastori portavano a pascolare le peco-re, casette squadrate di un bianco accecante sparse qua e là, e chilometri di sabbia sottile, lambita da un mare turchese. Emma seguì la direzione del suo sguardo. «Hai visto che spiaggia?» «Secondo la leggenda, qui è approdata la dea Afrodite. Per-ciò all'isola venne dato il suo nome.» «Un'isola che porta il nome della dea dell'amore.» Gli occhi di Emma scintillavano di anticipazione. «Sono proprio curiosa di scoprire come sono gli uomini del posto.» Cara non condivideva quella curiosità. Anche perché non era venuta in Grecia per fare la turista. «Oh, scusa!» mormorò Emma girandosi verso l'amica. «Par-lo di bei maschioni come se fossimo qui in vacanza, mentre tu sei in pensiero per la tua amica Atina... Cosa ti ha detto esat-tamente sua nuora, quando ti ha chiamato?» «Che è stata dimessa dall'ospedale, ma che ha ancora qual-che problema perché, dopo l'intervento al femore, ha avuto una embolia polmonare. Non si è ripresa del tutto, e temono che possa formarsi un altro embolo. Il problema è che Atina si ri-fiuta di tornare in ospedale.» Emma le batté su una mano. «Forse ha solo bisogno di star-sene a casa. Si rimetterà presto, vedrai.» Riportò lo sguardo sull'isola. «C'è qualcosa... di magico, in questo posto. Non sa-prei come definirlo.» Cara fissò Afrodisys con distacco. Per lei quell'isola era solo la casa dell'unica persona al mondo che era stata in grado di convincerla a tornare in Grecia. «Allora? È arrivata?» Atina Kefalas si alzò in piedi reggen-dosi sulla stampella che il dottore le aveva ordinato categori-

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camente di usare. Una stampella, lei! A settantadue anni non era ancora vecchia decrepita. Sua madre era morta dopo aver spento novantacinque candeline, meno di un anno prima. Si lisciò la lunga gonna nera e trotterellò in cucina, dove Deme-tria stava chiudendo il telefono. Sua nuora contò fino a cinque, chiamando a raccolta la pa-zienza necessaria per affrontare la testardaggine di quel terre-moto in gonnella. «Karoleena è arrivata o no?» insistette Atina. «Sì, mamma. Poco fa le hanno consegnato la chiave dell'ap-partamento. Lei e la sua amica stanno disfacendo i bagagli. Ha detto che verranno nel pomeriggio. Ma ricordati che ora vuole essere chiamata Cara.» «Sì, giusto.» Atina rubò un'oliva in salamoia dal vassoio di terracotta sul ripiano della cucina. «E quando arriva, deve pen-sare che io stia ancora male.» Demetria aggrottò la fronte. «Avrai bisogno della stampella per qualche giorno, ma per il resto godi di ottima salute.» Atina si accigliò. «Devo avere un'aria pallida e malaticcia. Dammi un po' di farina.» «Per farne cosa?» «Per sembrare più pallida, è chiaro. Se Cara capisce che sto bene, si fermerà solo per qualche giorno. Invece deve assolu-tamente restare ad Afrodisys.» Demetria le portò la farina senza perdere tempo a chiedere altre spiegazioni. Quando ebbe finito di incipriarsi le guance colorite, Atina le rivolse un sorriso. «Sei proprio una brava figlia, Demetria.» La donna sospirò. «Quando il diavolo ti accarezza, vuole l'a-nima. O sbaglio?» «Be', ecco, dovresti darmi un po' di ombretto grigio. E ma-gari aiutarmi a farmi delle belle borse sotto gli occhi...»

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Demetria alzò gli occhi al cielo, ma uscì per andare a pren-dere la sua trousse dei cosmetici. E Atina rimase a fissare fuori dalla finestra che si affacciava proprio sulla spiaggia lambita da piccole onde. Quelle da cui era uscita la dea dell'amore. C'era così poco amore nel mondo, di quei tempi! Ma non era un caso che sua madre le avesse da-to il nome della dea della saggezza. E Atina adesso sapeva di poter fare qualcosa per aiutare Karoleena, quella povera ragaz-za così sfortunata. E così infelice! Atina, o più probabilmente Demetria, doveva aver girato pa-recchio per trovare un appartamento così bello. Ampio e ben arieggiato, aveva muri di un bianco immacolato e pavimenti di marmo screziato. Ovunque, mobili di noce massiccio. Dopo aver disfatto i bagagli, Cara attraversò l'ampio salone, ammirò l'invitante divano di pelle arancione e si fermò davanti all'arazzo di lana intrecciata appeso alla parete. Doveva averlo fatto Atina, rifletté, aveva un particolare dono in quell'arte: vi erano ritratte delle sagome nere su uno sfondo rosso. Riconob-be Artemide, la dea della caccia, intenta a rincorrere un uomo che l'aveva offesa. E gli aveva conficcato una freccia nel didie-tro. Rise, per la prima volta da quando era atterrata ad Atene, proprio mentre Emma usciva dalla sua stanza, al settimo cielo. «Oh, finalmente stai entrando nello spirito giusto... Ma hai vi-sto che posto incantevole? Vista sul mare, la brezza che ti entra nella stanza... e c'è persino una veranda!» Corse ad aprire la portafinestra. «Che fiori incredibili! E quel mare!» Cara la seguì sulla veranda: era abbastanza ampia per un ta-volo e due sedie. Sui due angoli, rigogliose bugainvillee crea-vano una fontana di splendidi fiori fucsia che ricadeva oltre la balconata. Ma c'erano anche gerani rosa e rossi: addolcivano

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l'aria salmastra con il loro delicato profumo, e creavano un ma-gnifico contrasto con il blu intenso dell'Egeo. «Prendo la macchina fotografica» decise Emma, andando in camera sua. Tornò dopo pochi secondi. «Mettiti in posa e sor-ridi, avanti.» Cara ordinò a se stessa di rilassarsi. Si trovava in un posto bellissimo, di fronte al mare. Circondata da fiori stupendi. Re-spirava aria meravigliosamente pura. Sorrise, ed Emma scattò. Fece tutta una serie di fotografie, riprendendo la vista da ogni angolazione. Quando la macchina fotografica venne spenta, Cara bighel-lonò in cucina e aprì il frigorifero. Lo trovò colmo di ogni ben di Dio. Prese due bottigliette di acqua minerale e ne portò una a Emma. «Salute!» esclamò l'amica, facendo tintinnare la bottiglia con quella di Cara. «O dovrei dire opa!, e scaraventare la bot-tiglia contro il muro?» «Non credo che la domestica approverebbe. Ma possiamo sempre trovare un ristorante dove lanciano i piatti e ballano come Anthony Quinn in Zorba il Greco.» «L'idea non è malvagia.» Lo sguardo di Cara tornò a essere attratto dal mare. Era ine-vitabile. «Oh, guarda, una vela!» «Era così che ti guadagnavi da vivere prima di trasferirti in Michigan, giusto?» Emma sospirò. «Bella vita, quella dello skipper.» «In effetti, mi ha permesso di viaggiare molto. California, Messico, Caraibi. Una volta sono stata anche a Corfù...» Si in-terruppe e si affrettò a cambiare argomento. «Se non ricordo male, un cugino di Atina ha una barca a vela. Potremmo chie-dergli di portarci a fare un giro.» «Sarebbe un'idea fantastica. A proposito di Atina, immagino

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che starà già aspettando.» Emma controllò l'orologio. «Guarda che quello puoi anche togliertelo» le suggerì Cara. «In Grecia il tempo scorre diversamente rispetto all'America. Comunque Atina ci aspetta, e ci conviene sbrigarci, perché se tardiamo, le offriamo un pretesto per invitarci a cena.» Emma ripose la bottiglietta ormai vuota. «Io sono pronta. Vogliamo andare?» Un minuto più tardi le due amiche chiudevano il cancelletto di ferro in fondo alla stretta scaletta di pietra che si affacciava direttamente sulla strada. «La casa di Atina dovrebbe essere nei paraggi. Se ci perdiamo, possiamo chiedere a qualcuno. Qui si conoscono tutti.» Emma la ascoltava appena: era troppo presa da quanto la circondava. Ogni tanto si fermava ad ammirare le porte e le persiane tinteggiate di turchese, il rosso sgargiante dei fiori. Appena uscirono dalla stradina, ritrovandosi in pieno sole, Cara si calò sul viso il cappello di paglia a falda larga e inforcò gli occhiali. «Non ti abbronzerai mai se ti imbacucchi in quel modo» os-servò Emma. «Tu invece ti prenderai una bella ustione di terzo grado se non ti proteggi. Il sole di qui non è lo stesso del Michigan.» Emma le scoccò un'occhiata preoccupata. «Secondo te, si capisce che siamo turiste?» «Perché, vedi qualche rossa che parla greco, in giro?» Cara sorrise all'amica. Il colore fiammeggiante dei suoi capelli e la sua carnagione diafana la tradivano. Saltava sicuramente agli occhi, a confronto della pelle olivastra delle splendide ragazze brune dagli occhi scuri che incrociavano di tanto in tanto. «Nemmeno bionde, se è per questo» osservò Emma guar-dandosi intorno. Avevano raggiunto quello che doveva essere il centro del paese: oltrepassarono alcune taverne e diversi bar,

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che avevano sistemato una manciata di tavolini sullo stretto marciapiede. «Pensavo che ci sarebbe stata più gente, in giro. Avevi detto che le Cicladi sono affollate, in estate.» Osservando i clienti seduti ai tavolini, Cara vide le teleca-mere e le macchine fotografiche appese alle borse. «La gente del posto a quest'ora schiaccia volentieri un pisolino. Quelli che vedi sono perlopiù turisti.» «E se stasera andassimo in discoteca? Tanto per movimenta-re un po' la giornata.» «Buona idea» rispose Cara. Ma senza troppo entusiasmo. «Cos'è, non ti va?» Fino a qualche tempo prima l'idea di andare in discoteca l'a-vrebbe entusiasmata. Adesso, invece... «Sì, certo. Stavo solo pensando che non abbiamo ancora superato il fuso orario.» «Sì, mammina. Anzi, aspetta: come si dice in greco?» «Ne, meetéra.» Emma provò a ripeterlo, ma la sua pronun-cia fece rabbrividire Cara. «Mi sa che dovremo fare un po' di pratica.» «Tu insegnami un paio di frasi. E poi stasera faccio pratica con un bel maschione greco.» «Che sarà ben felice di accontentarti.» Cara svoltò a un an-golo, cercando di orientarsi. «Sì, siamo arrivate.» Un'ansia im-provvisa le strinse lo stomaco in una morsa dolorosa. Trovarsi di fronte a una persona malata le faceva sempre quell'effetto. Ma doveva farsi forza: Atina era una cara amica. Emma dovette avvertire il suo malessere, perché la esortò: «Fai un bel respiro e vedrai che passa». Attese qualche istante, poi alzò una mano e bussò. «Chissà perché queste porte sono tutte dipinte di azzurro.» «Per tenere lontano il malocchio» rispose Cara automatica-mente. «È una leggenda che ha origini antiche...» Continuò a parlare, distratta, anche quando Demetria spalancò l'uscio.

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«Karoleena, finalmente!» La donna l'attirò in un caloroso abbraccio, baciandola su entrambe le guance. «Fatti vedere... Questi capelli rossi ti donano, sai?» «Emma, questa è Demetria, la nuora di Atina...» «E ti trovo in splendida forma!» Demetria le osservò con occhio clinico i fianchi e i seni. «Noto con piacere che hai ri-cominciato a mangiare...» Meglio non soffermarsi su certi argomenti! «Demetria, ti presento Emma, l'amica che è stata così gentile da accompa-gnarmi ad Afrodisys.» Demetria riservò alla giovane lo stesso trattamento: la ab-bracciò e le scoccò due sonori baci sulle guance. «Un'altra bel-la ragazza. Peccato che Spiros sia partito. Non sa cosa si è per-so!» «Demetria...» Una voce tremolante giunse dalla stanza in fondo al corridoio. Cara cercò di dominare il proprio nervosismo, riconoscen-dola. E l'espressione di Demetria si spense. «Sì, mamma. Stiamo arrivando.» Abbassò la voce. «Non sta nella pelle...» Precedet-te le due giovani in soggiorno, dove Atina giaceva sul divano, avvolta in una copertina di lana. Cara sgranò gli occhi, allarmata dal suo pallore. «Oh, Atina, come ti senti?» Le prese una mano. E si sorprese della vigorosa stretta con cui l'anziana donna la ricambiò. «Ora che sei arrivata, meglio.» Cara guardò Demetria, sperando che glielo confermasse. E la donna si strinse nelle spalle, l'aria contrita. «È un miracolo che sia di nuovo in piedi.» Atina si lamentò, e Cara fu pronta a rivolgerle tutta la sua attenzione. «Sono così contenta di vederti! E quest'isola è an-cora più bella di come l'hai sempre descritta.»

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L'anziana donna annuì. «Sono nata qui, e sapevo che qui sa-rei tornata per trascorrere la vecchiaia, ma soprattutto per apri-re un museo sull'arte della tessitura. Un'arte antica, che risale ai tempi di Penelope.» «Il tempo di riprenderti e riuscirai a realizzare il tuo sogno, ne sono certa.» Atina sospirò. «Avevo già trovato il terreno giusto ed ero in trattative per acquistarlo, quando al mercato sono scivolata su un'oliva e mi sono spezzata il femore. Una stupida oliva, ti rendi conto?» sbottò, imprecando in greco. Parole che, per fortuna, Emma non poteva capire. Cara aspettò che si sfogasse. Poi si girò verso l'amica. «Em-ma, ti presento Atina.» Seguì una leggera stretta di mano. «Grazie per avermi invi-tato, signora. Ho sempre nutrito una vera e propria venerazione per questa splendida terra che ha dato i natali a tanti straordina-ri talenti matematici.» Atina ascoltò con un orgoglio quasi aristocratico gli elogi che venivano fatti ai suoi illustri antenati. Quindi riprese la pa-rola. «Perché non dai un'occhiata al giardino di mia nuora? Demetria ha dei fiori bellissimi.» Emma accettò di buon grado l'invito e seguì l'altra donna, mentre Cara prendeva posto sul divano vicino ad Atina. La donna continuò la conversazione in greco. «La tua amica conosce la nostra lingua?» «Neanche una parola.» «E cosa sa di noi due?» «Le ho detto che lavoravo come skipper nell'Egeo e che ci siamo conosciute così, durante una vacanza.» «Non sa altro?» «No.» «Allora confermerò questa versione, nel caso.»

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«Efkaristò, Atina.» «Di niente, chriso mou.» La donna le rivolse un sorriso così dolce che Cara non poté fare a meno di chinarsi ad abbracciar-la. Chriso mou. Tesoro mio. Quanto tempo era passato dall'ul-tima volta che qualcuno le aveva rivolto quelle parole? «Sono contenta che stia meglio.» Atina tornò a sospirare. «Sì, ma non sono ancora in condi-zioni di seguire il mio progetto. Per questo ho bisogno di te.» Cara si rizzò sul bordo del divano. «Per costruire un museo? Ma non saprei da dove cominciare!» La donna fece un gesto noncurante. «Sciocchezze. Ormai il grosso del lavoro è fatto. Ci sono solo gli ultimi dettagli da de-finire. E se gli operai non sanno che parli la loro lingua, sarà anche meglio.» «Ma io sono venuta ad Afrodisys perché ti sapevo malata e volevo assicurarmi che ti stessi riprendendo. Non avevo in pro-gramma di fermarmi più di qualche giorno.» «Hai un lavoro in America? Devi rientrare per forza?» Cara si alzò e prese a camminare su e giù per la stanza. «No. Ma sto seguendo dei corsi all'università.» «E ci sono corsi anche in estate?» «Più o meno.» L'espressione dubbiosa di Atina convinse Cara a essere sincera. «Cioè... ora l'università è chiusa. E i cor-si ricominciano a settembre.» «Quindi c'è tutto il tempo. E la tua amica Emma? Che fa, lavora?» «Sì, all'università. Ma ora è impegnata in un progetto di ri-cerca.» E in effetti poteva continuarla anche stando lì, perché si era portata dietro tutto il materiale. «Ma rimanere tutta l'estate in Grecia...» «Ti farà bene» insistette Atina. «Ti darà un po' di colore alle guance e ti toglierà quell'aria afflitta dalla faccia.»

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Cara si costrinse a sorridere, anche se l'idea di trascorrere l'estate in Grecia non l'allettava più di tanto. «Ecco, così va meglio» continuò Atina soddisfatta. «Ora ti spiace chiamarmi Demetria?» Come era prevedibile, Emma si mostrò entusiasta all'idea di fermarsi sull'isola per tutto quel tempo. Aveva solo una preoc-cupazione. «Naturalmente insisto per pagare la mia parte del-l'affitto.» Cara scoccò un'occhiata complice a Demetria. «Il proprieta-rio dell'appartamento è un amico, e ci ha fatto un prezzo di fa-vore.» «E comunque siete mie ospiti» incalzò Atina, che concluse così la discussione. E si rivolse alla nuora. «Demetria, ci pre-pareresti una bella tazza di caffè?»