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Francesco Bocchetti Gianni Zotta prefazione di Enrico Camanni Sudtirolo Il cammino degli eredi

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Francesco BocchettiGianni Zotta prefazione di Enrico Camanni

SudtiroloIl cammino degli eredi

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Testi di Francesco Bocchetti

Fotografie di Gianni Zotta

Prefazione di Enrico Camanni

Schede architettoniche a cura di Anna Grandi

Progetto grafico di Andrea Mubi Brighenti

Le immagini in bianco e nero alle pagine 96, 98, 126 e 181 sono riprodotte con autorizzazione

di: Provincia Autonoma di Bolzano-Alto Adige, Rip.14, Ufficio Audiovisivi. Fotografo Flavio

Faganello.

Si ringraziano:

Diego Andreatta, Silvia Angeli, Raffaella Bianchi, Annamaria Brigadoi, Tarcisio Grandi, don Oswald

Kuenzler, Arnold Lösch, Johann Mair, Giovanni Zoppoli, tutti i residenti e le persone incontrate

durante il nostro viaggio nei masi per la collaborazione offerta nella realizzazione di questo

volume.

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Sommario

Prefazione 7

Introduzione 13

Primo incontro – Maso Egg 31

Il Bauer – Maso Vorra 41

A scuola – Maso Grub 49

Il meleto – Maso Lint 59

Una sigaretta – Maso Löcher 65

La nuova casa – Maso Greit 73

Di padre in figlio – Maso Stallwies 81

Nella nebbia – Maso Mitterhofer 87

L’incendio – Maso Troter 95

Soli – Maso Kasperer 103

Epoche – Maso Finail 109

Il Santo – Maso Raffein 117

Dalla finestra – Maso Laseider 123

Croci – Maso Holzer 131

Trecento pecore – Maso Viertler 139

Fuori programma – Casa Perger 147

I bambini – Maso Wiesfleck 157

Il pane– Maso Zernbrigl 165

La falciatrice – Maso Kaarmann 173

La regina del maso – Maso Hochstranser 179

Processioni – Maso Paulheiss 187

In Europa – Maso Kofler zwischen Wänden 197

Epilogo 205

Appendice – Architettura dei masi 211

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Ormai ovunque, anche nei luoghi più insospettati, la montagna del terzo

millennio mescola il vecchio e il nuovo. Le valli sono un impasto di tradizio-

ne e modernità, un mondo fragile e complesso che si trova davanti a scelte

difficili e decisive, ma soprattutto lontane dai modi classici di pensare le Alpi,

i montanari, le terre alte. Paradossalmente la sopravvivenza della tradizione

dipenderà dalla sua capacità di evolvere e dalla disponibilità a macchiarsi

con culture diverse, difendendo i valori irrinunciabili e accantonando gli al-

tri, discutendo e imparando le due lingue del pianeta: quella locale e quella

del mondo globale e globalizzato. Pena la museificazione o l’estinzione.

La cultura alpina ha bisogno della cultura della città (ampiezza di vi-

sione, capacità di programmazione), così come i cittadini hanno bisogno

delle montagne per ritrovare cieli liberi e tempi liberati. Il mondo è uno

solo, ormai, declinato nelle concentrazioni abitative delle metropoli, nei di-

stretti industriali, nelle campagne agricole, nei rarefatti avamposti dell’arco

alpino.

Se guardiamo all’altro capo delle Alpi, in Valle d’Aosta, scopriamo che

Prefazionedi Enrico Camanni

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uno dei caposaldi della cultura e dell’economia locale, riflesso nello stereoti-

po della vache, del malgaro e della fontina, è stato silenziosamente sradicato

dalla progressiva indisponibilità dei giovani a fare il lavoro del pastore, no-

nostante i sussidi e le agevolazioni. In dieci anni i pastori magrebini hanno

sostituito i valdostani, senza clamori e con ottimi risultati. Una rivoluzione

antropologica che, in altri tempi, avrebbe richiesto l’uso dei forconi e della

polvere da sparo.

Se invece guardiamo ai masi del Sudtirolo utilizzando l’accurata ricer-

ca di Francesco Bocchetti e Gianni Zotta, verifichiamo che un altro baluar-

do della civiltà e della mitologia alpina è in fase di rapida, anche se subli-

minale, trasformazione. Non è tanto lo stillicidio di giovani e meno giovani

alpigiani verso i centri di valle, il rifiuto dei figli primogeniti maschi di farsi

carico dell’eredità, il fastidio delle donne nel presidiare l’alta montagna, il

passaggio dall’economia dell’autoconsumo all’economia del reddito, quanto

– sottolinea Bocchetti – l’introduzione di una variabile eversiva: la variabile

della scelta.

Come ha scritto Hartmann Gallmetzer, “i giovani sanno che giù, nel

fondovalle, li attende una vita “migliore” (nell’accezione oggi prevalente nel-

la società), se proprio la vogliono. Basta scegliere… Per dirlo platealmente,

hanno un futuro, anche se forse non è quello che, nel loro intimo, si erano

immaginati, perché è un futuro che ha dei costi”.

C’è una bella distanza dalle parole di Aldo Gorfer, che nell’accorata

inchiesta sui masi di trentacinque anni fa annotava:

“I masi di montagna sono un mondo a sé. Ognuno è simile a un velie-

ro in viaggio nel mare. Un incredibile lungometraggio storico, una reliquia

che ci scotta nelle mani. Inoltre, il sogno perduto che la malinconia e la

noia della nostra civiltà vanamente rincorre… E così il burrone che separa

questo misconosciuto terzo mondo dal nostro smog quotidiano minaccia di

rimanere senza ponte”.

Oggi il ponte è gettato, anche se per il turista ospite dell’agriturismo il

maso resta un’architettura bella come allora, e se ci sono il telefono e la te-

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levisione è meglio, perché agevolano la vacanza senza togliere il silenzio,

l’aria buona, i muggiti delle mucche, l’odore della stalla. E invece la tele-

visione e internet hanno cambiato tutto, perché, appunto, hanno spiegato

ai giovani “eredi” che la solitudine non è l’unico modo di vivere il proprio

tempo ma ce ne sono degli altri, che andarsene è possibile ma è una scelta

difficile, perché vuol dire lasciare un mondo conosciuto, sicuro, assestato,

onorato, per affrontare l’incertezza.

Naturalmente il futuro non prevede solo viaggi dall’alpe verso la

città. Le Alpi e i masi che verranno possono contemplare anche viaggi e

incertezze in senso contrario, di migranti che scelgono la montagna per

necessità, oppure di gente satura di città che decide di salire alla ricerca di

quegli stessi valori (o disvalori) che generavano la fuga dei valligiani.

Dipende dallo sguardo. Così come i viaggi dei pionieri e degli in-

novatori, i valori possono avere due direzioni. Normalmente i montanari

guardano alla montagna come a un’eredità del passato, talvolta amata e

talvolta subita, ma dopo aver sperimentato i limiti dell’urbanizzazione si

può cambiare prospettiva, leggendo nel mondo di ieri i segni del doma-

ni.

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Durante l’inverno 1971-1972 il giornalista Aldo Gorfer e il fotografo Flavio

Faganello intrapresero un viaggio per visitare alcuni tra i masi più sperduti

e disagiati dell’Alto Adige. Frutto di questo viaggio fu un libro-inchiesta che

fece scalpore. Il libro, intitolato Gli eredi della solitudine. Inchiesta sui masi del Sud

Tirolo, mise a nudo la realtà dei contadini di montagna e delle loro condizioni

di vita ancora legate a ritmi e comportamenti antichi, immutati da secoli.

Il libro svelò l’esistenza, sconosciuta o volutamente ignorata dalla mag-

gior parte dei lettori, di un mondo parallelo posto a poca distanza dai centri

abitati ma in cui ancora vigevano usi e stili di vita medievali. I testi lirici e

spietati di Gorfer imponevano all’attenzione del lettore la durezza della vita

quotidiana nei masi chiusi e in particolare in quelli più poveri e più remoti.

L’analisi di Aldo Gorfer mirabilmente corredata dalle fotografie di Fla-

vio Faganello non lasciava allora molto spazio all’ottimismo. Solo l’eroismo,

l’abnegazione e il senso della propria dignità impedivano agli abitanti dei

masi di cedere alla disperazione, eppure anche la tenacia più ostinata era

messa in difficoltà dal persistente immobilismo e dalla convinzione diffusa

Introduzione

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che non si potesse far nulla per cambiare la situazione.

Trent’anni dopo il primo lavoro, lo stesso Faganello aveva fatto un nuovo giro a visitare i

masi di un tempo, stavolta accompagnato dai funzionari del Bauernbund, per constatare i pro-

gressi fatti nel tempo nei “suoi” masi. La documentazione fotografica metteva in luce una si-

tuazione ormai stabilizzata in cui l’integrazione e la ricchezza avevano raggiunto anche i lembi

più estremi della provincia e in cui i masi di montagna avevano semmai perso buona parte della

loro antica identità per diventare simili al fondovalle. La modernità con le sue comodità e le sue

piaghe aveva ormai avuto il sopravvento su ogni cosa.

Gli eredi della solitudine è diventato un classico letto e studiato dagli etnografi, dai politici,

dai sociologi, dagli architetti, dai tecnici e rappresenta un lavoro imprescindibile per chi voglia

comprendere la storia e lo spirito sudtirolese.

Nel tardo autunno del 2006 in un incontro informale nacque la proposta, da parte

dell’allora Vicepresidente dell’Autostrada del Brennero, Tarcisio Grandi, di ripercorrere le vec-

chie strade dei masi, ma con un nuovo approccio, non condizionato dall’immagine preconcetta

di un Sudtirolo lontano e diverso. Occhi trentini che potessero raccontare i volti e le storie dei

loro cugini nobili del Nord, ma cresciuti fuori dalla logica stantia della contrapposizione e della

diversità. Occhi nuovi per un Sudtirolo – e un Trentino – nuovi.

Abbiamo quindi provato a ripetere l’esperienza di Gorfer e Faganello a trentacinque anni

di distanza. Siamo partiti di slancio viaggiando in terzetto: gli autori e Tarcisio Grandi, che ha

messo a disposizione il suo tempo, la macchina, i panini, idee ed esperienza in abbondanza e,

fattore essenziale, la sua fiducia incondizionata nell’esito finale. Abbiamo fatto ogni cosa con

la massima semplicità, senza pensare troppo a difficoltà e ostacoli. Una volta alla settimana,

durante tutto l’inverno, si caricava la macchina con ogni cosa necessaria: il pranzo al sacco, le

macchine fotografiche, le mappe e i libri. Siamo partiti di buon mattino come ai vecchi tempi.

Ogni volta abbiamo visitato due o tre masi, orientandoci con il testo degli Eredi e con le carte

Kompass.

Questa volta, però, non abbiamo voluto essere accompagnati. Abbiamo sì chiesto una

lettera di presentazione al presidente della Provincia di Bolzano, Luis Durnwalder, ma non tan-

to perché la ritenessimo necessaria ai fini dell’inchiesta, quanto perché ci sembrava naturale in

qualche modo farci riconoscere. Poi però non l’abbiamo mai usata, l’abbiamo soltanto sempre

portata segretamente con noi come potente talismano invisibile.

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Non abbiamo faticato a raggiungere i masi: le strade salgono

ovunque. Né abbiamo faticato a stabilire un contatto con le per-

sone, un po’ perché tutti ormai studiamo le lingue straniere – chi

l’italiano e chi il tedesco – un po’ perché l’ostilità si è progressi-

vamente stemperata grazie alla conoscenza reciproca. Per scelta

siamo sempre arrivati senza preavviso e senza accompagnatori,

perché gli incontri avvenissero in modo spontaneo, non prepara-

to, imprevedibile. Davanti a ogni maso abbiamo bussato, ci siamo

presentati e abbiamo chiesto di raccontare e di mostrare le vecchie

e le nuove case. Con il blocco degli appunti e il registratore si cer-

cava di intavolare un dialogo, in tedesco, in italiano qualche volta,

il più delle volte in una specie di lingua franca in cui le due lingue

finivano per mescolarsi. Si metteva la macchina al sole e Tarcisio

con il binocolo scrutava i pendii oppure tendeva l’orecchio per

cogliere frammenti di conversazione. Dopo le visite e nei trasfe-

rimenti c’era il momento dell’analisi, ognuno raccontava le sue

impressioni di fotografo, di ascoltatore, di osservatore. Ogni tanto

la nostra compagnia si è allargata con ospiti che ci hanno accom-

pagnato nelle nostre ascese e discese, tra loro anche Anna, che,

colpita dalla bellezza e dalla suggestione dei luoghi, ha voluto dare

il suo contributo visibile alla riuscita di questo lavoro, e Annama-

ria che anche se non ha lasciato nulla di scritto ha partecipato alle

missioni aggiungendo il suo buonumore al nostro piccolo gruppo.

Abbiamo visitato luoghi bellissimi e difficili, incontrato per-

sone interessanti e profonde. In troppe occasioni è mancato il tem-

po per approfondire la conoscenza e i discorsi, ma anche questo

fa parte della nuova realtà dei masi e dei ritmi di vita del ventu-

nesimo secolo. La modernità non è solo questione di asfalti e di

corrente elettrica, nei nuovi masi anche gli orologi hanno ripreso

a correre.

L’intenzione di questo volume non è proporre una replica

o un seguito di un lavoro già fatto, né quella di fare un ulteriore

aggiornamento delle vecchie immagini e dei vecchi pensieri. Que-

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sto volume nasce come progetto nuovo, che raccoglie una sfida

lanciata dallo stesso Gorfer nel momento in cui, spingendosi lungo

i sentieri più tortuosi, ricercava una via d’uscita per i suoi Eredi.

Senza trovarla.

Una via che fosse in grado di coniugare l’onore, il rispet-

to per se stessi, la dignità di popolo ed al tempo stesso restituisse

alle persone il proprio futuro liberandole da quelle prigioni senza

sbarre che erano diventate le loro stesse case. Il legame con la

terra, sancito con la forza della legge dall’istituto del maso chiuso,

non doveva diventare una gabbia da cui era impossibile uscire per

mancanza di mezzi e prospettive.

Il Cammino degli eredi è il racconto di quanto visto e sentito du-

rante la visita a 21 masi di alta montagna sparsi in tutti gli angoli

del Sudtirolo. Le impressioni sono raccolte in 21 capitoli, uno per

ogni maso. Tutti questi, tranne uno, furono presi ad oggetto, tren-

tacinque anni fa, dall’inchiesta di Aldo Gorfer e Flavio Faganello.

Sono tutti luoghi di montagna tra i più impervi ed affascinanti

della Provincia di Bolzano e, con un’eccezione, sono ancora sotto-

posti al regime del cosiddetto “maso chiuso” o Erbhof.

L’ErbhofL’Erbhof, che letteralmente significa “maso ereditario” e viene tra-

dotto in italiano con la brutta espressione di “maso chiuso”, è un

istituto giuridico tipico di alcune aree alpine di lingua e cultura

tedesca. In Sudtirolo ha trovato un terreno molto fertile per la sua

diffusione e, al di là della sua codificazione legale formale nelle

diverse epoche, è un fenomeno fortemente radicato nella cultura e

nelle consuetudini locali.

L’origine di questo particolare istituto viene fatta risalire al

tempo dell’Imperatore Massimiliano I che per primo ne forma-

lizzò l’esistenza con successivi interventi nel 1502, 1526 e 1532,

ma è più che probabile che l’Erbhof fosse già diffuso negli usi della

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gente tirolese. In seguito ha goduto di varie formulazioni giuridiche evolvendosi nel tempo fino

a giungere alla forma attuale, disciplinata dalla Legge Provinciale numero 17 del 2001, che ha

sostituito una precedente norma del 1954.

L’Erbhof consiste in un’azienda agricola completa di terreni, edifici, animali ed attrezzi,

scorte vive e morte ed attività accessorie. Tra gli edifici è necessariamente compresa l’abita-

zione del conduttore che risiede stabilmente all’interno della proprietà con la sua famiglia. Le

dimensioni dell’azienda devono consentire il mantenimento del conduttore e dei suoi familiari

ma allo stesso tempo non possono superare di molto questa soglia, differenziando così l’Erbhof

dall’azienda agroindustriale e dal latifondo.

Caratteristica peculiare dell’Erbhof è il fatto di essere inalienabile da parte del conduttore.

Il Bauer, ovvero il conduttore-contadino, pur esercitando il pieno diritto di possesso della casa,

dei terreni e dell’azienda non ne è proprietario, perlomeno non nel senso completo sancito dal

diritto latino. In particolare il Bauer non può disporre dell’azienda e delle sue parti: non può

vendere i terreni né frazionarli ma è obbligato a mantenere integralmente la proprietà ed a tra-

smetterla intera ad un unico erede designato detto Anerbe.

Nei tempi antichi l’Anerbe coincideva quasi sempre con il figlio primogenito, naturalmente

maschio, per cui era fondamentale per la sopravvivenza del maso stesso che ci fosse un erede

maschio all’interno di ogni famiglia. L’erede veniva cercato con insistenza e anche adottato se

necessario. La nuova legge provinciale permette anche alle donne di ereditare il maso e stabili-

sce criteri per il risarcimento degli altri coeredi.

Il sistema basato sull’Erbhof aveva indubbi vantaggi per quanto riguarda il presidio del

territorio, il controllo demografico, il mantenimento delle unità colturali e quindi uno sfrut-

tamento razionale dei terreni agricoli. I costi umani di questo istituto erano però altissimi e il

Agricoltura Industria Servizi

1971 26,8 % 29,9 % 43,3 %

2006 9,9 % 26,4 % 63,7 %

Occupazione in provincia di Bolzano

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meccanismo ereditario finiva per cristallizzare l’intero sistema sociale con pochissime possibilità

di modificare la propria sorte, creando di fatto un feudalesimo in scala ridotta.

I figli cadetti, non prediletti, ricevevano un risarcimento poco più che simbolico e pote-

vano scegliere se andarsene dal maso oppure rimanervi con il solo diritto al mantenimento. In

questo caso perdevano praticamente ogni libertà personale salvo quella di essere alloggiati, ve-

stiti e nutriti. Lavoravano per il fratello maggiore senza retribuzione e rinunciavano di fatto alla

possibilità di avere in futuro una propria casa o una propria famiglia, vivendo in condizione di

servi nella propria casa. Chi lasciava il maso d’altra parte poteva intraprendere un mestiere ma

spesso finiva per offrirsi come bracciante agricolo e divenire così servo nelle terre altrui.

Oggi le cose sono cambiate e l’erede non designato possiede dei diritti maggiori in ordine

ai risarcimenti. Al tempo stesso la società, più variegata e mobile, consente di percorrere vie

molto più differenziate verso la propria realizzazione personale. Sempre più spesso la prospet-

tiva si va capovolgendo e, specialmente nei masi più disagiati, diventa difficile trovare eredi che

siano disposti ad accollarsi l’onere di condurre l’azienda.

Tuttavia ad oggi sono oltre 12.000 le proprietà che, iscritte all’apposita sezione del libro

Abitanti Centri Nuclei Case sparse

Bolzano

1971303.60673,3%

25.6986,2%

84.73720,5%

2001369.63979,8%

22.9715,0%

70.38915,2%

Italia

197147.106.387

87,0%2.197.695

4,1%4.832.465

8,9%

200151.487.845

91,0%1.716.114

3,0%3.390.062

6,0%

Popolazione in provincia di Bolzano per tipologia di centro abitato

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fondiario, sono vincolate alle regolamentazioni proprie dell’Erbhof, e la ten-

denza mostra una lieve ma costante crescita numerica.

I contadini di montagnaNon tutti i masi sono uguali. Molti, posti nel fondovalle o in posizione col-

linare favorevole, consentono la viticoltura e la frutticoltura, altri si trovano

nei pressi dei paesi e delle vie di comunicazione. L’agricoltura di alcune

zone del Sudtirolo è ricca e consente da sempre, grazie anche alle superfici

relativamente ampie dei masi, una vita dignitosa se non agiata. Una regione

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montuosa, però, presenta enormi disparità al suo interno. In passato fattori

come il bisogno di libertà e di sicurezza, i terreni non bonificati del fondoval-

le, le minori disparità delle tecnologie e delle infrastrutture, spinsero molte

persone a trasferire la propria residenza sui fianchi delle vallate, a quote

sempre più elevate.

I masi di montagna possiedono ampie estensioni di terreno ma si tratta

in massima parte di terreni poco produttivi, tenuti a pascolo o bosco. Gli

arativi, limitatissimi, producevano fino a non molti anni fa, in condizioni

di estrema difficoltà, solo il minimo indispensabile per la sopravvivenza. Il

maso di montagna è distante dal fondovalle e non era provvisto di strade di

collegamento. Per raggiungere i villaggi erano necessarie ore di cammino su

sentieri ripidi e difficili. Fino alla costruzione della strada, perciò, gli scambi

con il fondovalle erano limitati e il maso doveva produrre al suo interno qua-

si tutto il fabbisogno dei suoi abitanti. Quasi ogni cosa veniva realizzata nel

maso: il cibo, i vestiti, gli attrezzi. Solo alcuni beni come il sale, lo zucchero

e il caffè, venivano “importati”.

Il resto del mondo era lontano da questa gente, lontano in tutti i sen-

si. Per arrivare ai masi più sperduti servivano ore di cammino, non c’era

strada, non c’era telefono, non c’era elettricità. La gente di valle trattava i

montanari da inferiori, gente senza arte né parte. Li legava alla montagna

l’impossibilità di scegliere altrimenti, ma anche un attaccamento viscerale

e senza compromessi alla terra su cui loro e i loro antenati avevano tanto

lavorato e sofferto.

Il mondo dei masi di montagna era fatto di isolamento, di silenzi, di

buio e di solitudine, di persone in lotta per la propria vita quotidiana, contro

la fame, le valanghe, i cattivi raccolti, una popolazione costretta nei lacci

dell’endogamia, schiava di un lavoro faticosissimo che aveva per obbiettivo

la sopravvivenza e nulla più.

“Non c’è spazio nella nuova Europa per una riserva alpina nel cui

ambito la popolazione sudtirolese dovrebbe vegetare mantenendo un ritmo

di vita decisamente anacronistico” (Alto Adige 12 dicembre 1971). Il giudizio

sul ruolo dei masi di montagna nel futuro del Sudtirolo non avrebbe potuto

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essere più netto, così come il percorso di sviluppo della provincia che la politica locale voleva

portar avanti: piuttosto che l’industria e l’immigrazione italiana, meglio l’emigrazione dei tiro-

lesi. L’Alto Adige, giornale di lingua italiana, accusava il mondo politico altoatesino, la borghesia

commerciale e i grossi proprietari terrieri, di trascurare lo sviluppo industriale della provincia.

“I masi di montagna possono tutt’al più garantire ai loro proprietari il pane senza companati-

co”, si diceva, perciò occorre investire nel turismo, nella formazione professionale, nell’industria

e nel terziario. Grazie al pacchetto di recente approvato, osservava allora il giornalista dell’Alto

Adige, i Sudtirolesi si trovavano ad un punto di svolta. Avevano ottenuto la garanzia della loro

sopravvivenza e la libertà di amministrarsi. La sopravvivenza del gruppo etnico, però, non po-

teva essere solo il frutto di diritti scritti sulla carta, ma doveva anche essere supportata da una

struttura sociale ed economica solida e moderna.

Da allora l’economia della provincia di Bolzano è molto cambiata. L’agricoltura è un

settore ancora importante, anche dal punto di vista occupazionale, ma il suo peso si è ridotto in

modo considerevole. Il numero di addetti nell’agricoltura è comunque superiore a quello delle

regioni vicine, anche perché il territorio montano richiede un maggiore impiego di manodope-

ra, essendo più difficoltoso l’utilizzo di macchinari. L’industria non è decollata, confermando la

carenza di vocazione manifatturiera della provincia. La vera esplosione si è verificata nei servizi.

Questi comprendono il turismo, che è diventato il principale settore trainante dell’economia, e

la pubblica amministrazione, i cui addetti si sono moltiplicati dopo il trasferimento delle com-

petenze dalla Regione alla Provincia, avvenuto proprio con lo Statuto del 1972.

Il 1971 e il 1972 sono stati anni cruciali per il destino dell’Alto Adige, con la sofferta

approvazione del “pacchetto” e la realizzazione del secondo Statuto di Autonomia, che trasfe-

riva molte competenze dalla Regione alla Provincia e di fatto da Trento a Bolzano. Da allora la

provincia di Bolzano ha effettuato ingenti investimenti nelle realtà marginali, anche a costo di

sacrificare altri settori, con l’obbiettivo di mantenere lo stampo di regione montana caratteriz-

zata dall’agricoltura e dall’insediamento sparso. Sono stati costruiti chilometri di strade, tesi fili

elettrici e telefonici, scavate condotte per l’acqua, migliorate le condizioni di vita e di lavoro nei

masi.

I risultati di questo grande lavoro sono positivi, anche se c’è stata una significativa ridu-

zione del numero di persone che vivono nei masi di montagna, dovuta tanto all’emigrazione

che alla riduzione della natalità. Il maso di montagna, pur essendo migliorate sensibilmente le

condizioni di vita e le opportunità di realizzazione, rimane poco attraente come luogo di dimo-

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ra permanente.

Nei trent’anni tra i censimenti del 1971 e del 2001, il numero dei re-

sidenti nei centri abitati è cresciuto di 66.000 unità in provincia di Bolzano,

mentre quello dei nuclei e delle case sparse è diminuito di oltre 15.000 unità.

In complesso il peso demografico della popolazione residente al di fuori dei

centri abitati è calato di oltre un quinto, passando dal 27,1% al 20,2%.

Questa tendenza è in parte dovuta all’emigrazione, in parta alla man-

cata immigrazione, e in parte al riallineamento della natalità rurale rispetto

a quella dei centri urbani. Sta di fatto, comunque, che l’Alto Adige, pur

mantenendo una spiccata diversità rispetto al resto del paese per quanto

riguarda la distribuzione della popolazione sul territorio, si sta muovendo

verso una progressiva concentrazione degli abitanti nei centri maggiori.

Nei venti masi visitati da Gorfer e Faganello trentacinque anni fa abita-

vano 144 persone, oggi sono solamente 65. Un maso è andato distrutto, due

sono abbandonati e uno è abitato solo nella stagione estiva. Paradossalmen-

te, tre dei quattro masi non più abitati permanentemente erano tra quelli

che trentacinque anni fa si trovavano nella situazione migliore per quanto

riguarda la strada e l’elettricità. Pur trattandosi di un campione molto picco-

lo si evidenzia come la strada e i servizi in genere non siano che strumenti di

interventi molto più articolati e che di per sé non sono sufficienti a garantire

la sopravvivenza e lo sviluppo dei masi di montagna.

Una realtà economica multidimensionaleIl maso moderno è una realtà economica multidimensionale. L’agricoltura

non è più l’unica fonte di reddito della famiglia e in molti casi non è più

nemmeno la fonte di reddito principale. La vocazione multidimensionale in

realtà era insita da sempre nella natura del maso di montagna che era forza-

tamente condannato all’autarchia. Per questo motivo quasi sempre il Bauer

era, oltre che contadino, anche boscaiolo, artigiano, veterinario, muratore e

carpentiere. Insomma nel maso era necessario saper fare di tutto.

Anche il ruolo femminile della Bäuerin era necessariamente a tutto ton-

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do. La donna del maso era una presenza forte e autonoma rispetto al marito,

con compiti distinti rispetto a quelli dell’uomo. I ruoli dei sessi erano definiti

in base alla distinzione di genere ma anche alla necessità di cooperare alla

gestione della famiglia ed alla conduzione dell’azienda, con una chiara sud-

divisione di compiti e una certa specializzazione del lavoro. Madre e moglie,

quindi, ma anche contadina, cuoca, sarta, allevatrice, medico.

Nella generale durezza delle condizioni di vita, la presenza femminile

nei masi di montagna era fortemente condizionata dal contesto familiare.

Situazioni di disagio familiare erano praticamente impossibili da riconosce-

re e gestire a causa dell’isolamento anche sociale in cui si svolgeva la vita

quotidiana del maso di montagna.

La rottura dell’isolamento ha esaltato la vocazione multidimensionale

dell’economia perché, se da un lato non è più necessario produrre sul posto

tutto il necessario alla vita quotidiana, si sono aperte nuove opportunità di

realizzare reddito.

Da questo punto di vista un importante cambiamento nell’economia

del maso è il passaggio dall’economia dell’autoconsumo a un’economia del

reddito. I servizi come la strada, il telefono, la televisione, la luce elettrica

hanno aumentato le opportunità ma anche i bisogni. I prodotti che devono

essere importati, e tra questi ci sono l’elettricità, le telefonate e la benzina,

devono essere pagati in denaro. Aumentando il numero e il valore dei pro-

dotti importati è aumentato anche il fabbisogno di denaro.

Il maso moderno ha molte più esigenze: la luce elettrica, la bolletta

telefonica, il televisore e gli elettrodomestici, l’automobile e la benzina. Tut-

te esigenze nuove ma anche opportunità nuove. Il lavoro è stato indirizzato

perciò ad attività che non sono più rivolte alla produzione di beni per il con-

sumo diretto ma soprattutto a beni per il mercato.

L’agricoltura si è specializzata in un solo tipo di bestiame allevato, pe-

core, capre o bovini e in un solo tipo di prodotto; latte, carne, lana. La pro-

duzione viene venduta per intero a consorzi o aziende commerciali che,

a valle, lavorano il prodotto e lo distribuiscono. Il lavoro agricolo è molto

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spesso integrato da altre attività, magari l’impiego in qualità di operai nelle stesse imprese che

lavorano i prodotti della terra, oppure attraverso attività artigianali come dipendenti ma anche

come imprenditori in proprio. Le donne sono spesso impiegate nel settore dei servizi e con-

tribuiscono come un tempo alla creazione del reddito familiare. Anche il lavoro stagionale sia

maschile che femminile è un importante integratore del reddito.

In diversi casi il maso stesso è stato riconvertito in azienda turistica con possibilità di affit-

tare camere, oppure con la realizzazione di ristoranti che utilizzano in parte le materie prime

prodotte sul posto. Nei masi visitati abbiamo trovato tutte queste fattispecie: ristoranti, affittaca-

mere, artigiani, operai, lavoratori stagionali, impiegati…

La multidimensionalità economica del maso e la presenza di molte fonti di reddito diver-

se permette di mantenere un tenore di vita dignitoso in linea con le necessità e con il livello di

servizi offerto dalla moderna economia.

Il Cammino degli Eredi offre un piccolo squarcio di questa realtà, complessa e ricchissima di

varianti, attraverso il racconto di alcuni luoghi remoti e dell’incontro con le persone che vivono

in questi luoghi.

Negli ultimi decenni i masi di montagna hanno vissuto grandi trasformazioni, sono state

realizzate infrastrutture, è cambiato il modo di vivere nel maso, è cambiata l’economia e la

società, ed è cambiato infine il modo di relazionarsi con il resto del mondo. Le trasformazioni

realizzate nei masi di montagna sono state enormi ma la realtà è continuamente in mutamento,

il cammino degli eredi non è ancora finito.

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Primo incontroMaso Egg

6-17. 2. 2007

Egg e il suo vicino Vorra sono masi famosi. Non lo sapevo la prima volta

che ci siamo saliti, me ne sono reso conto dopo, scoprendoli ritratti in molte

pubblicazioni. Negli anni maso Egg si è modernizzato, modificato, arricchi-

to. Tra tutti i luoghi che abbiamo visitato non è l’unico ad aver intrapreso

questo percorso, anzi, sotto questo punto di vista la metamorfosi non è stata

poi così evidente. D’altra parte la strada ha spezzato definitivamente l’isola-

mento soltanto una decina di anni fa. Ciò che rende diverso da tutti gli altri

questo pugno di edifici aggrappati ad una lama di roccia sta proprio nel fatto

che tra tutti i masi che abbiamo visitato è quello che meglio si presta a rap-

presentare la tenacia dei contadini di montagna. Le case sembrano tenersi al

pendio con la cocciutaggine di chi non vuole mollare la presa, costi quel che

costi, come un cavaliere che si aggrappa alla criniera di una bestia bizzarra

e ombrosa.

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Le sgroppate della montagna hanno provocato ferite laceranti, colpi che fanno male, come

quelli che hanno portato via, lungo il vecchio sentiero, i figli, i mariti, le sorelle e le madri di chi

aveva fatto di Egg e del vicino maso Vorra, la propria casa. Le croci di ferro e le parole scritte

accanto alla fotografia ingiallita sono la sintesi di questa tenacia e anche lo specchio della rasse-

gnazione di chi sa di doversi confrontare con qualcosa di più grande e più potente. Di fronte al

dolore lacerante della morte inattesa non è ammessa la ribellione né la fuga, solo sono permessi

il ricordo e il timore di Dio, un Dio immenso ed eterno proprio come la montagna che succhia

la vita dai suoi abitanti per trasportarli in una dimensione più grande. Così troviamo scritto sul-

la croce incassata nel muro della nuova strada che ricorda uno dei molti incidenti capitati lungo

il vecchio e insicuro percorso:

Schnell ruft der Tod den Vater ab

und senkt den Leichnam still ins Grab.

Die Trennung war so rasch und schwer

ach Vater, du bist nirgends mehr.

Gattin, Kinder, hört mein letztes Wort;

vergesst mich nie, auf Wiedersehen dort!

Stets fürchtet Gott in Leid und Freud,

denn vereint Er uns in Ewigkeit.

La morte chiama rapida il padre

e affonda nella tomba il suo corpo immobile.

La separazione è stata così brusca e dura,

O padre, tu non ci sarai mai più!

Sposa, bambini, ascoltate la mia parola;

non mi dimenticate mai, ci rivedremo là!

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Piuttosto temete Dio nel dolore e nella gioia

perché Lui ci riunisce nell’Eternità.

Ci sono due modi di osservare l’Egg. Da lontano si ha una visione

d’insieme: in questa ben poco è cambiato negli ultimi decenni, e forse anche

negli ultimi secoli. La strada non è che una scalfitura impercettibile nella

roccia dura, i restauri delle case sono troppo minuti per poter essere apprez-

zati ad occhio nudo. L’effetto di vertigine e sconcerto che dà lo sperone di

maso Egg è immutato e immutabile: il vento soffia come un tempo e solleva

di continuo nuvole di neve e pulviscolo che appaiono e scompaiono giocan-

do con i raggi del sole.

Avvicinandosi lungo la strada sterrata ma ben battuta e protetta da

opere imponenti contro le valanghe, si coglie un aspetto diverso. Da vicino

il particolare domina, mentre diventa impossibile una qualsivoglia visione

d’insieme. Degli edifici si vede solo un lato per volta, non c’è spazio per al-

lontanarsi e cogliere la loro dimensione e la posizione degli uni rispetto agli

altri. Le pendenze sono talmente proibitive che, fatti pochi passi verso l’alto,

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si possono vedere solo i tetti. Dal basso le case guadagna-

no metri su metri fino a sembrare altissime, tra l’una e

l’altra ci sono sentieri, scalette, disbrighi che costringono

a concentrarsi sul particolare. Ritroveremo questa dupli-

cità in molti altri luoghi. Il maso che da lontano sembra

piccolo, in rapporto alla mole della montagna, che può

essere compreso in un batter d’occhi, che non è che un

puntino in mezzo a tanta natura, da vicino, però, si ingi-

gantisce ed è impossibile comprenderlo nella sua interez-

za, ed è il mondo giù in basso a sembrare tanto piccolo.

La strada è ancora sterrata nell’ultimo tratto, ma ha

portato con sé la modernità. I residenti si muovono con il

fuoristrada, vanno a Sankt Martin con la moto a quattro

ruote. In pochi minuti di strada raggiungono la funivia

per Laces, quando una volta ci voleva un’ora, e di sentie-

ro difficile e pericoloso. Con la macchina si può arrivare

anche a valle, fino a Castelbello, senza dover per forza

usare la funivia, costruita alla fine degli anni ’50, primo

lungimirante collegamento tra Sankt Martin e Laces.

Allora l’innovazione avrebbe potuto permettere alla mo-

dernità di giungere fino ai masi, oggi permette alla gente

di continuare a vivere lassù risparmiando il tempo e il de-

naro del viaggio quotidiano a Laces o Castelbello lungo i

13 chilometri della carrozzabile. La usano i bambini per

andare a scuola, gli allevatori per mandare a valle il latte,

le massaie per fare la spesa, ed anche i turisti che vogliono

procurarsi l’emozione di un panorama spettacolare e il

piacere di una comoda passeggiata in quota.

Nemmeno l’ultimo viaggio si fa più a piedi, il car-

ro funebre sale e porta i montanari a valle dove vengo-

no inumati nell’anonimo cimitero parrocchiale. A Sankt

Martin sono rimasti solo la chiesa e il bar, questo più per

i turisti che altro. Il cimitero, invece, non c’è mai stato,

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d’altronde come potrebbe? La terra è talmente in pen-

denza che non sarebbe possibile ricavare uno spazio per

delle fosse come si deve. La piccola scuola è chiusa da due

anni e l’edificio, restaurato di fresco, resta inutilizzato. Fa

tenerezza il minuscolo fazzoletto del campo da calcetto

realizzato vicino alla scuola, le porte sono talmente vi-

cine tra loro che i portieri potrebbero quasi stringersi la

mano.

Oltre alla strada sono arrivati anche il telefono e la

corrente elettrica. Il Bauer Paul è l’anziano del maso Egg,

ha 75 anni, e la sua vita non è questa. Questa è la vita dei

giovani, lui non ci si trova. Non che le comodità moderne

gli dispiacciano: – La strada, il telefono, la corrente, sono

belle cose. Ma costano soldi. E per fare i soldi bisogna

lavorare, e qui lavoro non ce n’è. –

I figli lavorano in valle, come tanti altri fanno i pen-

dolari, la rottura dell’isolamento ha causato la perdita

dell’autosufficienza. Per guadagnare i soldi che servono

bisogna trovare un lavoro fuori dal maso, perché con le

pecore si potrebbe forse sopravvivere ma di sicuro non

pagare le bollette. Con intraprendenza la famiglia ha

dato il via ad una Jausenstation, un punto di ristoro per i

passanti, con una splendida terrazza panoramica su cui

d’estate si servono merende e bibite ai turisti. Non pro-

prio un ristorante, né un bar, ma qualcosa che si avvicina

all’antica usanza dell’ospitalità alpina.

Il turista è sempre citato con rispetto, anche da chi

non si occupa direttamente di turismo. C’è come una

punta di orgoglio nell’affermare che al maso viene anche

“gente da fuori”. Nessuno dice mai quanta, ma è impor-

tante far sapere che è tanta e che viene da tutte le parti,

che sarebbe a dire tanto dall’Italia che dall’area germani-

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ca. D’altra parte rispetto ad un tempo la gente che sale è davvero numerosa,

e sono soprattutto gli stranieri ad affrontare la salita sia essa a piedi che in

funivia o in auto. Raramente sale la gente del posto. Nelle gerarchie mentali

dei locali, come sempre, sono i montanari che scendono e mai i valligiani

che salgono. Gli incontri non si fanno nei masi; per incontrarsi, per contrat-

tare, per lavorare e fare famiglia bisogna scendere in paese. Chi sale, sale per

la montagna e non per i montanari. Tra l’hier e l’unten la dicotomia, inevita-

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bile, persiste.

Maso Egg. Comune di Laces, 1677 metri sul livello del mare

Il maso, posto nel circondario di Sankt Martin am Kofel, sopra al paese di Laces,

si compone di diversi edifici, tutti abitati e recentemente ristrutturati. Fino alla fine degli

anni ’90 il maso non era accessibile alle automobili. Maso Egg e il vicino maso Vorra,

sono stati tra gli ultimi ad essere allacciati alla luce elettrica e al telefono. Attualmente si

raggiunge da Sankt Martin con circa due chilometri di strada parzialmente asfaltata.

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6-17. 2. 2007

A poche centinaia di metri da Egg si trova Maso Vorra, un altro grumo di

case aggrappate alla montagna, come congelate in quel punto un attimo

prima di scivolare verso valle. Gli edifici sembrano gettati lì senza alcuna

logica coerente, come se fossero sospesi in un provvisorio infinito che mai

potrà trasformarsi in qualcosa di stabile. Un incendio molti anni fa ha di-

strutto l’insediamento originario e le baracche costruite frettolosamente per

ospitare i superstiti si sono trasformate via via in un nuovo villaggio, senza

progetti e senza regole.

Non ci sono che prati scarni e boschi spelacchiati su questa costa ino-

spitale e ripida, e una vista sulla Venosta che sembra quella di una bocca

spalancata e vorace pronta a richiudersi e ad inghiottire masi, pecore, pasto-

ri e tutto quanto il resto.

Il Bauer Maso Vorra

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Chi giungesse qui senza essersi documentato in anticipo potrebbe pen-

sare che in questo angolo remoto nulla sia cambiato negli ultimi decenni, e

forse neanche negli ultimi secoli. Ci sono ancora, e ancora sono utilizzati, i

vecchi stabili in legno, costruiti senza alcuna progettualità apparente, condi-

zionati nella forma, nella posizione e nei materiali dalla povertà e dai capric-

ci della montagna. Tutti stretti gli uni agli altri per non sprecare nemmeno

un metro di quello spazio così prezioso.

A Vorra vivevano un tempo tre famiglie. Ne sono rimaste due. Una si è

estinta per mancanza di eredi e il maso è stato venduto. Per un po’ è diven-

tato residenza turistica estiva di un bavarese amante della montagna, ora è

nuovamente sul mercato, ma gli acquirenti scarseggiano. – Costa troppo –

dice la signora Hildegard che vive nella casa vicina. D’altra parte, oltre alla

casa, si dovrebbero acquistare anche gli ettari di terreno, bosco e prato che

completano il maso.

Le altre due famiglie sono ancora lì, ai padri sono succeduti i figli, ai

figli i nipoti, da tante generazioni che nessuno più lo ricorda. Grazie all’isti-

tuto dell’Erbhof, il cosiddetto “maso chiuso”, la proprietà è rimasta intatta e

l’estensione del maso non si è ridotta a causa delle spartizioni ereditarie. Ne-

anche le compravendite potevano intaccare il maso perché questo rimaneva

indivisibile e indisponibile per il suo possessore che non poteva alienarne

delle porzioni e che lo doveva trasmettere intatto alla generazione succes-

siva. In questo modo si preservava l’unità fondiaria anche a costo di gravi

sacrifici sociali. La Legge Provinciale numero 17 del 2001 disciplina in chia-

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ve moderna questo istituto antichissimo, cercando di dirimere le complicate

questioni ereditarie, che oggi non possono essere più risolte come nel medio-

evo. Allora tutta l’eredità spettava al figlio prediletto, di solito il primogenito,

che assumeva il titolo di Bauer (contadino); gli altri potevano scegliere se

emigrare oppure restare al maso come servi del fratello, con il solo diritto ad

essere ospitati, vestiti e nutriti. Lavoratori senza compenso e senza speranza

di una vita propria, di un matrimonio, di una casa. L’Erbhof è ancora oggi

indivisibile tra gli eredi, ma un complesso meccanismo di compensazioni va

incontro alle esigenze del moderno diritto delle persone e cerca di sciogliere

le situazioni che facilmente sorgono e ancor più facilmente si ingarbugliano

a causa delle parentele incrociate.

Si diceva che Vorra appare come un maso che da secoli ha mantenuto

inalterata la propria identità, dove si incontrano tutti i luoghi comuni che,

nell’immaginario collettivo, identificano il Sudtirolo. Solo che quassù non

hanno l’aspetto patinato delle cartoline promozionali: gli steccati di legno

sono anneriti dal tempo e non odorano di resina, i ciottoli del sentiero sono

sconnessi e coperti di ghiaccio, fango e letame; il Bildstock è logoro e consun-

to per gli anni e le intemperie.

Una signora si affaccia alla porta accompagnata dai due cani, il cui

compito non è solo quello di tener lontani i malintenzionati, ma anche quel-

lo di accogliere come si deve i visitatori. Una volta comprese le intenzioni

amichevoli, eccoli infatti entrambi a scondinzolare e reclamare carezze ed

attenzioni.

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tente non l’ha presa e neanche Luis ce l’ha. è una cosa per i giovani, ormai

per loro è troppo tardi. Per fortuna però la nuova strada è stata fatta, è più

sicura del vecchio sentiero a precipizio e allora qualche volta si può perfino

scendere a Laces, anche senza dover aspettare un passaggio in macchina.

Pur non espansiva, la signora è cordiale e parla di tutto: della vita al maso,

degli animali, dei figli, della televisione, quella in lingua tedesca soprattutto,

l’italiano si pratica poco e a scuola si impara il minimo indispensabile. Solo

la politica non la interessa, ha poco a che fare con la vita a Vorra.

L’attività principale è l’allevamento ovino, nella stalla ci sono una ven-

tina di pecore ed altrettante capre. Durante l’estate pascolano, mentre d’in-

La Bäuerin Hildegard è una preziosa fonte di informazioni e si trattiene

volentieri a chiacchierare mentre Gianni gironzola curiosando con la mac-

china fotografica. è arrivata al maso circa trent’anni fa, quando si è sposata

con Luis, il Bauer, e viene da un maso dei dintorni. Non ha mai lasciato il

maso a lungo, perché gli animali non lo permettono e perché, fino al 1998,

non c’era la strada. Anche il telefono e la luce elettrica sono delle novità

relative da queste parti, ma alle comodità si fa presto ad abituarsi. La pa-

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verno non si muovono quasi mai dalla stalla e sono alimentate con fieno

comperato a valle. Il maso non ne produce abbastanza per mantenere un

numero adeguato di capi.

La vita quotidiana è molto regolare; si va a dormire presto la sera,

dopo la cena e un po’ di televisione perché la mattina la sveglia è alle cinque.

Ci si alza e, mentre il Luis scende subito in stalla ad accudire gli animali, lei

prepara la colazione. Verso le otto finalmente si mangia. Il resto della gior-

nata, in inverno, è occupato dai lavori domestici: ci si dà da fare per tenere

in ordine la casa e sistemare gli attrezzi, fino all’ora di pranzo. Il pranzo è

un pasto veloce, poco elaborato, come nella tradizione germanica, l’ora è

piuttosto tarda, tra l’una e le due, perché prima bisogna fare un altro giro in

stalla. Il pomeriggio spesso arriva la nuora con le nipotine che trascorrono

qualche ora con i nonni.

Il Bauer Luis sembra uscito da un vecchio album di fotografie: grem-

biule blu, cappello, baffi, viso arrossato dall’aria fredda e occhi azzurri e

sfuggenti. Parla poco, ma la sua non è scortesia o scontrosità, il suo è un

silenzio timido e riservato dietro cui si cela una grande gentilezza. Come se

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ritenesse in qualche modo irrispettoso comportarsi da padrone, quale è, del suo piccolo regno

montanaro, e preferisse mostrarsi ai visitatori per intero, nella sua modestia impacciata e gene-

rosa. Accudisce le capre con la dedizione di un padre, rispettando l’antica divisione dei compiti

della società di un tempo, sessista solo in apparenza. La Bäuerin, signora della casa e maestra

della prole, il Bauer signore della stalla, custode e pastore degli animali. Così scopro che anche i

due cani sono – Uno per le pecore e uno per i bambini. –

– Chi lavora di più? – domando riferendomi ai cani, ma non senza una punta di malizia

indagatrice.

– Mah… adesso le pecore sono sempre in stalla – è la risposta evasiva ma significativa della

Hildegard.

Piuttosto inopportunamente siamo capitati proprio all’ora di pranzo. Dalla cucina esce

una pentola di minestra. Per nulla infastiditi dalla nostra presenza gli abitanti del maso si sie-

dono a tavola e ci chiedono, con una certa apprensione, se abbiamo già mangiato, facendoci

intendere che la loro tavola è grande abbastanza per accomodare degli ospiti. Rispondiamo

affermativamente, per non turbare oltre la quiete di questa isola di vita semplice.

Uscendo lungo il sentiero troviamo un vicino che scarica la spesa dalla macchina. Nel

bagagliaio distinguo gli emblemi dell’autosufficienza contadina: patate, latte e cipolle. Tiene le

pecore, ma fa anche il piastrellista a valle: sarebbe impossibile mantenere la famiglia solo con

l’allevamento. Anche a Vorra è iniziato il nuovo millennio.

Maso Vorra. Comune di Laces, 1689 metri sul livello del mare

Nucleo di case non ancora ristrutturate ma risalenti ad epoca relativamente recente. Un incendio ha distrut-

to completamente il maso durante il XIX secolo. è posto su terreni pendenti e inospitali non lontano da Sankt

Martin am Kofel. è raggiungibile con una strada carrozzabile solo dal 1998. L’ultimo chilometro della strada

non è ancora asfaltato.

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13. 2. 2007

Che cosa ci fa ai 1475 metri del Grubhof un uomo sulla quarantina, ab-

bronzato e dal sorriso avvolgente, con borsa di pelle e giacca scamosciata?

è completamente fuori posto sulle pendici scoscese e innevate di fresco di

questo bel maso appollaiato sopra Naturno, così come sarebbe fuori posto

un Bauer con i baffoni e il caratteristico Schurz blu a passeggio sul lungomare

di via Caracciolo a Napoli. è proprio questo contrasto stridente che lo fa

apparire simpatico e suscita immediatamente una certa curiosità. Non fosse

che il lavoro – il suo – chiama, una chiacchierata lì sul posto sarebbe cosa

fatta, ma non si può e ci limitiamo ad un rapido scambio di convenevoli e di

numeri telefonici. Per la chiacchierata bisognerà incontrarsi più tardi nella

più consona cornice di Piazza Walter a Bolzano.

In attesa di approfondire il tema, visitiamo il maso. Il Grubhof è se-

gnato da un recente restauro ma è ancora perfettamente riconoscibile nelle

A scuolaMaso Grub

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strutture originarie, con la scala di pietra sul Talseite che porta alla cucina del

primo piano. Al piano terra, dove una volta stavano le cantine, è stato rica-

vato un piccolo ristorante-agritur, ai piani superiori si lavora per sistemare

delle camere da affittare. La piccola impresa domestica è gestita dalla dina-

mica Bauerin, mentre il marito lavora a valle e si occupa della stalla, ordina-

tissima e pulita, che alloggia almeno una decina di capi bovini. Il complesso

ha l’aspetto di un minuscolo villaggio, con una strada lastricata, una fontana

e un bel piazzale con le rimesse per le auto.

Sarebbe solo un bell’esempio di maso ristrutturato e di impresa dina-

mica, se non fosse per quella particolarità della scuola che lo rende unico. A

Grub c’è, infatti, la più piccola scuola elementare dell’Alto Adige, una delle

ultime scuole di montagna ancora in funzione. La scuola ha solo cinque

allieve, che ci sorprendono con il loro cicaleccio mentre escono per la ricre-

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azione. Estraggono la merenda dai sacchetti, si scambiano qualche timida

pallata di neve, ma senza esagerare: la maestra vigila e in così poche è im-

possibile rifugiarsi nell’anonimato.

La maestra Marion è giovane e gentile. Sale ogni giorno da Merano:

anche se la scuola avrebbe in dotazione un appartamento per i maestri,

preferisce pendolare ogni giorno perché non se la sentirebbe di stare lassù

anche la sera, lei abituata alla vita cittadina. In compenso passa tutte le

mattine da sola in compagnia delle bambine, praticamente deve fare tutto,

non ci sono classi, non ci sono colleghi, ad eccezione dei maestri di religione

e di italiano, non ci sono bidelli né presidi. Cioè ci sono, ma a Naturno. La

piccola scuola, ricavata in quella che un tempo era una stalla, è un gioiellino

con una minuscola anticamera, dove le bimbe cambiano le scarpe per le cia-

battine di lana, e due stanze: un deposito pieno di materiali didattici, i libri,

il computer, e un sacco di cose meravigliose in cui sono tentato di tuffarmi in

preda ad un rigurgito di infanzia e un’aula con cinque piccoli banchi, cinque

disegni appesi alla parete, cinque sedie. Sembra di essere precipitati in una

fiaba.

Ritrovo il maestro Giovanni davanti a un caffè nel salotto buono di

Bolzano; uno scampolo di primavera anticipata ci permette di gustarlo sui

tavolini all’aperto mentre cerco di farmi raccontare il “suo” Alto Adige.

L’occasione di sentire il parere è ghiotta. Il maestro Giovanni è il primo

“straniero” che incontriamo nelle nostre visite ai masi del Sudtirolo e sarà

anche l’unico. Giovanni è uno dei tanti vagabondi della scuola: napoletano,

in Alto Adige da qualche anno, dal prossimo dovrebbe tornare al Sud. A

qualcuno il peregrinare da una cattedra all’altra spostandosi di centinaia

di chilometri pesa come croce, una specie di purgatorio di inizio carriera,

ma, a quanto pare, la sua è una vera missione, visto che mi racconta le sue

esperienze nelle scuole più difficili della Campania, nei campi nomadi, e ora

nelle classi delle ultime scuole di montagna in Venosta e in val Senales. Uno

specialista dell’insegnamento estremo.

Potrebbe essere uno dei tanti italiani di Bolzano, come loro sradicato

dal suo contesto, come loro arrabbiato, spaesato e frustrato dallo strapotere

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della minoranza fattasi maggioranza. Potrebbe, ma invece, della questione

tirolese e delle beghe etniche ne sa meno di me. Non per disinteresse, anzi

questo pazzo Alto Adige – mai che usi la parola Sudtirolo, neanche per sba-

glio – gli suscita una curiosità profonda, ma distaccata. Da etnografo più che

da residente.

E infatti il maestro Giovanni non è un residente, è uno dei tanti, tantis-

simi, immigrati mordi e fuggi che dall’Italia salgono in provincia di Bolzano

per lavorare. Si fermano il tempo necessario per mettere da parte qualche

soldo, per scalare qualche posizione in graduatoria, per tappare il buco della

disoccupazione, per poi scappare via non appena si libera un posto di lavoro

più vicino a casa. Sono passati i tempi in cui gli Italiani venivano a conqui-

stare con il martello e con la penna le terre redente con il sangue e la spada.

Oggi vengono a riempire i buchi che la comunità italiana locale non riesce a

colmare, nella scuola, nella pubblica amministrazione, anche nelle imprese

private. Questi nuovi immigrati non conoscono la storia del conflitto etnico

e non lo percepiscono come proprio, non conoscono il tedesco, non inten-

dono impararlo, sono prevalentemente urbani ma non si integrano con le

comunità storiche. Restano qualche anno e poi se ne vanno via. Spesso non

raggiungono nemmeno i requisiti necessari per ottenere il diritto di voto,

sempre che trasferiscano la residenza.

– All’inizio – racconta, senza mai perdere il sorriso accattivante –

non è stato facile riuscire a farsi accettare, anche nel contesto scolastico. Le

famiglie si aspettano un approccio autoritario da parte dell’insegnante e,

quando manca, rimangono spiazzate. Non parlando tedesco poi non è facile

intrattenere rapporti con i genitori dei bambini, e questi hanno la tendenza

a non esporsi con i maestri, ma si rivolgono direttamente ai superiori in caso

di incomprensioni, lagnanze o semplicemente per esprimere opinioni e tro-

vare consiglio. – Un modo come un altro per raccontare la cultura, quasi il

culto, dell’autorità superiore, il referente ultimo, e in qualche modo signore

nel proprio campo di competenza. Il maestro in classe, il Bauer in stalla, il

prete in chiesa, il preside nella scuola, il Sindaco nel comune. Ognuno al suo

posto.

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– La scuola in Alto Adige – continua – è un piccolo paradiso per quello

che riguarda le attrezzature, i colleghi, l’ambiente di lavoro, specialmente su

a Grub, con pochi bambini e ogni genere di materiali didattici a disposizio-

ne in un ambiente che può essere solo definito idilliaco. Ed all’inizio un po’

ovunque sembra di essere capitati nel mondo delle favole; solo con l’andare

avanti ci si accorge che il paese incantato non esiste. I bambini sono auto-

nomi e creativi, ma con il passare degli anni si fanno più difficili, aggressivi,

chiusi. A volte è difficile far comprendere e accogliere la diversità, anche i

ragazzi, come gli adulti, si sentono minacciati da ciò che è diverso, e non

mancano fenomeni di disagio nelle famiglie, di depressione, sensazioni di

inadeguatezza causate da una crescita economica tanto rapida che l’evo-

luzione culturale fatica a tenere il passo. Nei masi il salto generazionale tra

i genitori che mancavano di beni materiali e i figli che affrontano l’età del

virtuale diventa incolmabile. –

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Per il resto non sa dire. Non è che abbia capito molto dell’Alto Adige e spesso approfit-

ta per trasformare le sue risposte in domande. Racconta che quando era arrivato pensava di

utilizzare un approccio morbido all’apprendimento della lingua italiana: – Niente compiti, ma

ogni giorno, per un’ora parlate in italiano a casa, guardate un film in italiano, magari facendovi

aiutare dai vostri genitori. Non ha funzionato. –

Beata incoscienza! Non lo sanno nemmeno loro l’italiano – penso tra me – e se lo sa-

pessero forse preferirebbero insegnare ai figli l’inglese, il francese o il cinese! La trappola etnica

permette di tollerare l’insegnamento dell’italiano come seconda lingua, ma chiedere “loro” di

cooperare sarebbe davvero troppo. Ma forse stavolta sono io ad essere un po’ prevenuto… e

magari è proprio l’incoscienza di questi nuovi arrivati, che ignorano la proporzionale, a cui non

importa nulla del Degasperi-Gruber e del Los von Trient, che trovano alieno il concetto di partito

di raccolta e la disputa interetnica, che possono cambiare – nel bene o nel male? – l’inossidabile

bipartizione sudtirolese.

Maso Grub. Comune di Naturno, 1475 metri sul livello del mare

L’edificio che ospita l’attuale abitazione è stato realizzato nel 1747 ed al momento della visita era in fase di

conclusione una radicale opera di restauro. Il maso inteso come istituzione aziendale esiste invece da molto prima,

presumibilmente dal XV secolo.

Il complesso è composto, oltre che dall’abitazione, da un edificio che ospita la stalla ed il fienile, da una

rimessa per automezzi di recente costruzione e dallo stabile che ospita la scuola. Alla scuola è anche annesso un

piccolo appartamento per ospitare i maestri.

Il maso è raggiungibile da Naturno con una strada asfaltata di circa otto chilometri.

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13. 2. 2007

Guardando la valle dall’alto, dai terrazzi stretti e pericolanti di Grub, Ginzl,

Schnatz ed Egger, si scorge il bosco rigoglioso del versante meridionale della

Venosta con i masi Labeben, Lind, Hörplatz, Gaulbach e Ploner. Non c’è

paragone tra le pareti impervie e rocciose del Sonnenberg, tanto imprati-

cabili che, si dice, furono colonizzate non da uomini ma da giganti e il Na-

turnser Wald, il bosco di Naturno, in cui il succedersi degli abeti e dei larici

è interrotto solo dalle macchie più chiare delle coltivazioni poste a corona

degli edifici.

Non c’è la vertigine delle altezze spericolate del Sonnenberg, ma la vita

del Bauer è ugualmente dura, gli inverni altrettanto lunghi e difficili, anzi, più

lo sguardo discende verso il fondovalle, più l’ombra si fa fredda e persistente

e più aumenta la sgradevole sensazione dell’umidità e del buio invernale.

Guardando in basso mentre le nuvole si diradano e la luce fa scintillare la

Il meleto Maso Lint

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neve che ha appena smesso di scendere, non si prova invidia per la posizio-

ne di quegli infelici laggiù, privati della gioia del sole per settimane, magari

anche per mesi.

è facile individuare il Lindhof dall’alto di maso Grub: si trova poco

sopra al castello di Dornsberg, anche detto Tarantsberg dal nome dei si-

gnori di Tarant che lo eressero all’inizio del XIII secolo, a breve distanza

dall’abitato di Naturno. Si distinguono chiaramente Feuerhaus e Futterhaus,

poste l’una con la facciata verso la valle e l’ingresso a monte, e l’altra in

senso trasversale, parallela alle curve di livello. Dietro al tetto della casa si

intuisce un edificio più basso e più pic-

colo che forse un tempo ospitava il mu-

lino. Sotto agli edifici spicca una vasta

macchia bruna, tagliata a serpentina da

una strada. Con l’aiuto del binocolo si

individuano degli alberi, probabilmen-

te dei meli.

La strada larga e ben asfaltata

che da Naturno sale a Lindhof lascia

immaginare un luogo diverso da quel-

li visti finora: urbano, contemporaneo,

inserito ormai da decenni nelle dina-

miche del mercato, della modernità del

fondovalle. D’altra parte qui 35 anni fa

c’erano già la luce elettrica, la strada,

l’automobile, il telefono, come in una

qualsiasi abitazione di città. Nulla la-

scerebbe supporre un destino diverso

da un imborghesimento di questo an-

golo di Tirolo, un destino forse meno

eroico ma decisamente più confortevo-

le di quello dei contadini di montagna

che hanno dovuto a lungo penare per

riscattarsi dalla miseria e dalla fame,

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un’immersione nel progresso tecnologico e nella cultura urbana triste ma

necessaria.

Nulla di quanto si poteva prevedere si è poi realizzato. Rimane solo la

tristezza di un luogo che è stato lasciato come da chi parte per un viaggio: le

stanze riordinate, le tende tirate e la porta chiusa a chiave. L’odore di stantio

e lo spettro della rovina lasciano intuire che il viaggio deve essere durato più

del previsto.

All’assenza del sole si aggiunge l’assenza delle persone, al gelo fisico e

penetrante che arriva alle ossa l’angoscia cupa dell’abbandono e della deca-

denza. Tutto è rimasto come se fosse stato usato regolarmente fino a pochi

attimi prima del nostro arrivo, ma intorno si sentono il freddo e il vuoto.

La casa, la rimessa e la stalla sono vicine tra loro e si fa fatica a spostarsi

in macchina e a fare manovra nel poco spazio attorno al maso. La stalla è

aperta, ordinata, buia e deserta. Il vento sposta la polvere del fieno che cade

dal fienile attraverso le fessure nelle assi. Le scorte di foraggio sono ben am-

mucchiate al loro posto, ma sono vecchie e con il tempo si sono sbriciolate

fino a diventare pulviscolo completamente inservibile.

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Svoltando l’angolo dell’abitazione bianca del Bauer si apre alla vista quello che da lontano

sembrava un rigoglioso frutteto e che nemmeno il costoso binocolo ci aveva potuto rivelare.

Centinaia di meli scheletriti, ormai senza foglie ma carichi di frutti giallissimi e intatti, come

una macabra luminaria in questo luogo di ombra. Visti così d’improvviso ricordano i mostri

delle saghe antiche e i racconti dei fantasmi che infestano il vicino castello, come nella storia

del Ritter Hans Fieger von Friedberg. Questo inquietante cavaliere, che da queste parti chia-

mavano der Fieger, fu per un breve periodo signore del maniero, intorno al 1700. Il tristo figuro

amava la bella vita e detestava i Bauer al punto da imporre loro ogni possibile vessazione in vita

e da perseguitarli anche dopo la sua morte con spaventose apparizioni e malefici di ogni gene-

re. Guardando il frutteto lo si potrebbe immaginare mentre cavalca tronfio e soddisfatto della

rovina del suo vicino di casa.

L’abbandono e il silenzio lasciano solo tristezza e paura. La tristezza di vedere il frutto del

lavoro e delle fatiche di altri uomini lasciato alla mercè del vento e dell’ombra; la paura che, al

termine della vita, tutto il lavoro e la fatica rimangano inutilizzati e dimenticati, come mele che

nessuno raccoglie. Se questo accada per nostra colpa o per il disinteresse, l’incapacità, la pigri-

zia, la discordia o l’impossibilità materiale di chi ci sopravvive, forse non è importante saperlo.

Maso Lint. Comune di Naturno, 850 metri sul livello del mare

L’abitazione del Bauer è datata 1927, ma l’istituzione del maso è molto più antica e risale probabilmente

al XV secolo. La precedente abitazione è stata declassata a stalla per il bestiame. Il complesso si compone anche

di un mulino in muratura che ora ospita una rimessa e di altri edifici accessori di piccole dimensioni: la fontana,

il pollaio, l’apiario. Il frutteto che circonda il maso è dotato di irrigazione a pioggia.

Per giungere al maso si percorrono circa 4 chilometri da Naturno. La strada asfaltata non giunge fino alla

porta del maso, occorre ancora affrontare un breve tratto di poche centinaia di metri di sterrato stretto e in forte

pendenza attraverso la proprietà privata. La strada è stata completata nel 1973. Il maso è stato abbandonato di

recente.

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Una sigaretta Maso Löcher

17. 2. 2007

La Val Martello è la convalle principale della media Venosta e si dirama

in destra orografica dal grande conoide che ospita Laces e Morter fino a

raggiungere i ghiacciai del Cevedale. La forma dell’insediamento, caratte-

rizzata, più che da veri e propri centri abitati, da una maggiore o minore

densità degli edifici, è tipica di molte valli laterali la cui colonizzazione per-

manente è avvenuta solo nella tarda età medievale. Per molti secoli le aree

più impervie, fuori dalle vie di comunicazione principali, furono frequentate

saltuariamente e solo l’accresciuta pressione demografica ha reso necessaria

la realizzazione di insediamenti stabili a partire da quelli temporanei già in

essere.

Ganda di Martello è uno di questi addensamenti, oggi divenuto più vi-

stoso per via di una pur controllata espansione edilizia turistica. Il Parco Na-

zionale dello Stelvio include entro i propri confini buona parte della valle e

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attira discreti flussi turistici dall’Italia e dall’Europa centrale e settentrionale.

Da Ganda si dirama la strada, costruita nel 1993, che consente di raggiun-

gere Loecher, Greit e Stallwies, i masi posti a più alta quota tra quelli che

abbiamo visitato. In particolare Stallwies, con i suoi 1933 metri di altitudine,

è una delle più alte sedi umane permanentemente abitate di tutte le Alpi.

La strada è lunga e stretta, ma ben sistemata, e il panorama sulle mon-

tagne coperte di neve e sui ghiacciai di Gioveretto e Fontana Bianca allarga

il cuore. Il maso Löcher, nascosto oltre una valletta, per cui ci si deve staccare

brevemente dalla strada principale, mostra tutto il peso degli anni ma, allo

stesso tempo, si vede come sia costantemente tenuto ordinato ed efficiente.

Un vecchietto arzillo che ci tiene a mostrarsi al meglio delle sue possibilità.

La strada termina in un piazzale asfaltato, protetto da un alto mura-

glione. Sotto una tettoia è parcheggiata un’Ape Piaggio. Avvicinandoci alla

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casa non incontriamo nessuno, mentre il Kranz ci accoglie con il consueto

abbaiare. Secondo Aldo Gorfer, il cane di maso Grub, Kranz per l’appunto,

era un “cane ammodo”; così, confidando che quando abbiamo a che fare

con i “cani da maso” si tratti sempre di “cani ammodo”, abbiamo deciso,

Anna ed io, di battezzare confidenzialmente Kranz tutti i cani di nome igno-

to. Pare che la cosa abbia un fondo di verità visto che l’ostilità mostrataci al

primo approccio si trasforma quasi subito in armistizio. Purché si mantenga

lo status quo – noi da una parte dello steccato, e il Kranz dall’altra – pare che

la cosa possa andare bene.

Il padrone però non si vede. Solo con un’arrampicata lungo il prato

ripidissimo che sovrasta il maso, beninteso senza mai superare lo steccato,

riusciamo a stabilire finalmente un non facile contatto. Bisogna sbracciarsi

un bel po’ per farsi notare e poi scendere veloci, ma non troppo, per non

ruzzolare a valle portandosi dietro zaino, taccuino e registratore, per poter

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agguantare questo Bauer sfuggente.

Le difficoltà del primo incontro non lasciano supporre nulla di buono,

invece, una volta rotto il ghiaccio ci troviamo di fronte a un anziano sorri-

dente e cordiale, che non si tira certo indietro davanti a noi giovanotti curiosi

ma, anzi, dispensa a piene mani la sua saggezza montanara. Luis abita da

solo nel maso, non si è mai sposato perché “per una che sale scendono in

cento, nessuna allora voleva vivere nei masi”.

– Oggi è diverso? – domando

– Un po’ sì, perché c’è la strada e tutte le comodità, ma ancora non è

facile trovare chi voglia vivere qui. La gente viene per fare escursioni e pas-

seggiate, viene per fare le ferie, per stare tranquilla. Ma poi devono andare

via per lavorare. Qui il lavoro è difficile, ci sono gli animali, non ci sono ferie

con gli animali. –

Mi domando cosa faccia tutto il tempo qui da solo ma Josef mi previe-

ne. – Tempo libero non ce n’è, bisogna sempre lavorare, lavorare sempre…

ci sono gli animali, c’è la casa, la legna da tagliare, c’è da fare da mangiare.

Sono solo ed allora devo arrangiarmi per tutto. –

Racconta di essere una piccola celebrità, non siamo i primi ad inter-

vistarlo. Sono già stati da lui i giornalisti della televisione austriaca e quelli

della televisione locale di lingua tedesca oltre, naturalmente, ad Aldo Gorfer

e Flavio Faganello, tanti anni fa. Sulla televisione, però, ha le idee ben chia-

re: non porta niente di buono, specialmente per i giovani. La radio basta

per avere le notizie e per un po’ di compagnia, ma la televisione ti porta via

tempo e ti toglie il gusto di vivere le cose. La televisione, quella che si attacca

alla luce, non ce l’ha proprio, anche se, racconta ridacchiando, gli arrivano

un sacco di lettere pubblicitarie per la tv a pagamento. A lui che non ha

nemmeno l’apparecchio!

– Ecco la vera televisione! – e apre le mani e il sorriso ad abbracciare

le montagne dirimpetto – Cosa si può vedere di meglio? Ditemelo voi! I

giovani hanno perso il gusto per la vera bellezza… – Davanti alla cortina

maestosa delle rocce e delle nevi non si può dargli torto.

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Tanta bellezza chiama in gioco il Parco Nazionale dello Stelvio, che

include quasi per intero la Val Martello. A sentire i pareri degli abitanti di

questo e degli altri masi, il rapporto con il Parco è di disincantato distacco.

Quando fu fondato, nel 1935, il Parco non fu apprezzato né compreso dagli

abitanti, non si può parlare di dissenso, visto che i tempi non erano propizi

a certe manifestazioni di opinione, ma l’idea fu che si trattasse dell’ennesima

prevaricazione degli italiani che pretendevano di comandare in casa d’altri.

Anche per Luis il Parco è difficile da capire: ci sono divieti e, mentre al-

cuni vengono solo per divertirsi, altri ci devono vivere ogni giorno. La caccia

è praticamente impossibile, una volta ci andava, ma ora si limita a guardare

i cervi e i caprioli che pascolano nel prato davanti a casa: – Vengono spesso,

a gruppi cinque, dieci, anche di più a volte. –

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Luis ama chiacchierare e raccontare del suo maso e della sua vita. Intervalla frasi in dia-

letto con frasi in italiano. Ha fatto il militare, a Merano e Vipiteno. Tante espressioni in italiano

le ha imparate lì, dai suoi commilitoni, e poi non le ha più dimenticate. Sul futuro è più dub-

bioso: spera sempre che qualcuno si prenda cura del maso quando non ci sarà più, ma non sa

se e come questo possa accadere. Tutti i parenti più prossimi hanno già un lavoro e abitano

lontano.

Sempre parlando attraversiamo il cortile e visitiamo la stalla. Il soffitto è basso e le persone

alte rischiano delle sonore capocciate, ci sono poche pecore. Luis vive della pensione e le pecore

servono più che altro come piccola integrazione, non sono più un lavoro vero e proprio.

Dopo aver a lungo chiacchierato ci salutiamo. Nel salire in casa Luis si volta e chiama il

cane. Si chiama Kranz. Per davvero.

Maso Löcher. Comune di Martello, 1780 metri sul livello del mare

Il maso è realizzato lungo un pendio molto ripido. Consiste in una casa di abitazione e una stalla più una

rimessa. Sotto una tettoia è posta una fontana, lungo la strada di accesso si trova anche un mulino in abbandono.

La data di costruzione ed edificazione del maso non è nota.

Maso Löcher è raggiungibile con la strada asfaltata da Ganda di Martello da cui dista circa undici chilo-

metri. In passato il maso era collegato al fondovalle con una teleferica.

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La nuova casa Maso Greit

17. 2. 2007

Un inatteso pianoro abbraccia i masi di Greit. Non troppi anni fa, quando

la terra piana era la merce rara con cui riscattare il proprio diritto ad esiste-

re senza dover chiedere niente a nessuno, questi campi erano intensamente

coltivati. Quassù si raggiunge il limite massimo della coltura dei cereali, il

confine oltre il quale diventa impossibile sostenere una presenza umana au-

tonoma e permanente. Questo limite oggigiorno ha un valore puramente

teorico: ad arrivarci in una mattina d’inverno, pure se è una bella giornata,

pare incredibile che qualcuno abbia potuto solo immaginare di seminare

grano su questi spalti d’alta quota.

Oggi non ci sono più campi coltivati e i prati occupano tutti gli spazi

che non sono stati riempiti dalle costruzioni negli ultimi decenni. L’edificio

compatto che fino al 1979 ospitava due famiglie è rimasto nel mezzo, ina-

bitato. Ai lati sono sorte le nuove residenze: moderne, confortevoli, dotate

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di piazzale, rimessa, dipendenza per gli eventuali ospiti. Ospiti

per lo più paganti, turisti che salgono dalle pianure e dalle città

dell’Austria, della Germania e dell’Italia.

Anche il resto del terreno non è rimasto immune dall’in-

vadenza delle costruzioni: tettoie, depositi, cataste di tronchi e

di assi da stagionare; eppure tutto appare così armonicamente

disposto e intrecciato con l’ambiente circostante da far pensare

che il paesaggio di questo lembo di terra ai margini del vivibile,

sia immutato da sempre. Il cambiamento è evidente solo per

chi conosce l’antefatto, non per chi giunge per la prima volta su

questo spicchio di prato sospeso sul precipizio.

La signora Rosa ci apre la porta, lunghi capelli grigi e felpa

colorata. Ha l’aria di essere stata interrotta sul più bello dei la-

vori di casa ma, per nulla irritata, ci accoglie col sorriso. Accon-

sente volentieri a mostrarci la vecchia casa, non siamo i primi

che le rivolgono questa richiesta; l’ha lasciata quasi trent’anni fa

e da allora non è cambiato niente nelle antiche stanze. Non che

prima ci fossero state occasioni di cambiamento, solo il succe-

dersi delle generazioni. Lei stessa ha vissuto nel maso da quando

si è sposata, venendo dal vicino maso Stallwies. Lì ha concepito

e partorito i suoi quattro figli, tre femmine e un maschio, lì ha

pianto la scomparsa prematura e inattesa del marito Albert.

Si era soli una volta al Greithof, non c’era il telefono, e in

caso di necessità era necessario scendere a Ganda a piedi per

chiamare aiuto; il medico aveva la macchina, ma la strada si

fermava prima di giungere al maso così, in ogni caso, ci voleva

un bel po’ prima di ricevere la necessaria assistenza. Rosa parla

spesso della casa nuova e del giorno del trasferimento, dev’esse-

re stato un momento epocale, la chiusura di un’era e l’inizio di

una nuova vita. In lei, che del passato è stata protagonista, resta

sicuramente una grande nostalgia. Sulla porta della Stube c’è

ancora il segno dell’ultima benedizione della casa, CMB 1979.

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Ancora oggi, ogni anno, quando la famiglia si riunisce nel perio-

do natalizio, la tradizione della benedizione rivive nella nuova

casa. Si passa di stanza in stanza e nella stalla recitando pre-

ghiere e spargendo incenso. Sopra la porta vengono iscritte con

il gesso la data e le lettere CMB – Christus Mansionem Benedicat.

Ogni famiglia ha il suo stile sia nella preghiera che nella scrit-

tura della formula, arricchita di croci, trattini, asterischi e altri

simboli sacri e profani. A volte si può trovare anche la versione

adulterata con la K al posto della C, KMB. La coincidenza con

l’Epifania ha suggerito una relazione con la venuta dei magi:

Kaspar, Melchior e Balthasar. è una specie di sigillo che indica

il passaggio dei cercatori di Dio nella propria casa.

La Stube, oltre la porta, è un vero e proprio monumento

al tempo che fu, un piccolo museo familiare. Da una piccola fi-

nestra si ammira il paesaggio grandioso che abbraccia la corona

delle cime tra l’Orecchia di Lepre e la Cima Venezia, inneva-

te e scintillanti. La stanza sembra ancora più piccola davanti a

tanta enormità. è difficile immaginarla al centro delle attività

quotidiane di otto persone, eppure la Stube è proprio il luogo

di vita delle famiglie contadine di montagna. è spesso l’unico

ambiente riscaldato e privo di fumo del maso: la cucina aveva

infatti quasi sempre il focolare aperto e il fumo circolava libera-

mente per l’ambiente prima di infilarsi nel camino, spesso posto

nell’angolo opposto della stanza. Nella cucina, nera di fuliggine,

venivano lasciati affumicare i pezzi di carne, appesi al soffitto

perché fossero fuori dalla portata dei roditori.

Nel vecchio Greit le cose stavano proprio così. I pasti non

si consumavano in cucina, ma nella Stube; un passavivande tra i

due locali evitava di dover uscire nel corridoio che, senza porta,

era esposto al gelo invernale. Come i pasti, anche le preghiere, i

lavori di confezione degli abiti, della panificazione, i compiti dei

ragazzi, il riposo e l’accoglienza degli ospiti avvenivano nella

Stube.

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Rosa racconta di aver provato ad affittare la casa per una festa di San

Silvestro, ma – Abbiamo dovuto preoccuparci di scaldare noi, perché la gen-

te non è più abituata al fuoco. E lo stesso abbiamo rischiato grosso, perché

hanno dimenticato degli stracci ad asciugare troppo vicini alla stufa, senza

capire quanto può essere pericoloso. Da allora non la diamo più in affitto,

per non rischiare. –

Mentre usciamo all’aperto, Franz Josef, il più giovane dei quattro figli

di Rosa, arriva in macchina per la pausa pranzo. Lavora in paese come car-

pentiere, ha intenzione di sistemare la vecchia casa, un po’ per volta – Ma

senza cambiare nulla, solo manutenzione – per questo ha accumulato assi e

travi nei prati circostanti. Tutti i giorni sale a casa per il pranzo e per dormi-

re. Non deve essere stato facile per lui raccogliere ancora ragazzo l’eredità

di un padre perduto in modo prematuro e inatteso, non ancora adolescente

ritrovarsi Bauer e uomo di casa con la mamma, la nonna e tre sorelle. Ora

le ragazze sono sistemate, cioè sposate: una in valle, un’altra in Venosta e la

terza nella vicina Svizzera. Manca solo lui, che ha la fidanzata, ma solo ab

und zu.

Vivere in un posto così isolato potrebbe essere un peso per un uomo

non ancora quarantenne, ma lui afferma di non sentire alcuna differenza

tra lui e gli abitanti del paese: stessi ritrovi, stessi divertimenti, stesso lavoro,

stesse opportunità. – Solo a volerlo, si può fare tutto: andare in discoteca, al

cinema, fare sport. Basta avere la macchina e poi spostarsi. Anche da Ganda

bisogna spostarsi per queste cose. –

Mentre la mamma ci teneva a sostenere che la vita del maso alla fin

fine non è troppo cambiata nel tempo e che l’antica autonomia sotto molti

aspetti rimane, Franz sottolinea che non c’è più un vero e proprio divario tra

il fondovalle e il maso. Ognuno è poi libero di fare ciò che vuole, secondo

le proprie inclinazioni e desideri. Lui, per esempio, è appassionato di com-

puter e ama fare sport: sci, arrampicata, escursioni in montagna. Scende

in paese ogni giorno per lavorare e lì incontra paesani e turisti, si ferma a

chiacchierare nei caffè della valle, conosce gente, stringe amicizie.

– Tutto si può fare, purché lo si voglia, purchè interessi farlo – dice.

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Maso Greit. Comune di Martello, 1858 metri sul livello del mare

Un tempo era costituito da un’unica residenza che ospitava due famiglie con le rispettive stalle. Dal 1979

il maso non è più abitato e gli abitanti si sono trasferiti in due nuove costruzioni moderne poste a poca distanza

dal maso originario. Il vecchio edificio è comunque tuttora utilizzato e mantenuto efficiente.

Si trova a poca distanza da maso Greit, a circa dodici chilometri da Ganda di Martello cui è collegato con

una strada asfaltata.

– Anche la caccia? – stuzzico pensando ai limiti imposti dal parco. –

– La caccia qui non è possibile, per i limiti imposti dal parco – risponde – ma io comunque

non ci andrei lo stesso. Una volta la caccia era importante per tutti, per mangiare. Oggi non è

più un’entrata, ma è un costo. è uno sport per chi ha soldi. Anche qui c’è qualcuno che paga

per andare a caccia, magari all’estero.

Tutto si può, purché si voglia. Anche a Greit.

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17. 2. 2007

Allo Stallwies vive Eduard, il fratello della signora Rosa di Greit. Insieme

formano una specie di joint venture d’alta quota: lei alloggia i turisti, lui li sfa-

ma. L’antico Hof è divenuto ristorante. Il vecchio Bauer è titolare del maso

dal 1970. Assieme ai figli, ha messo in piedi un’attività ben strutturata. Cia-

scuno ha i suoi compiti: il figlio maggiore si occupa principalmente della

campagna, il minore del ristorante, il padre unisce e coordina le due anime

del maso.

Gli ospiti vengono accolti in una bella sala da pranzo in cui troneggia

la stufa in muratura con il castelletto; la cucina si basa sui prodotti del maso.

All’esterno c’è un prato ampio e pianeggiante, un piccolo parco giochi, il re-

cinto con gli animali della fattoria da ammirare. Per i giorni di pioggia tanti

giochi ammucchiati sul soppalco della stufa per ammazzare il pomeriggio in

Di padre in figlio Maso Stallwies

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attesa che smetta.

Accanto ai trofei, appeso

alla parete, c’è un cartiglio in-

corniciato che racconta la sto-

ria del maso. Il nome Stallwies,

stando al documento esposto,

risale al 1332 e da allora il

maso è stato trasmesso intat-

to da un proprietario all’altro

per via ereditaria. Dal 1688

tutti i proprietari hanno il me-

desimo cognome: Stricker. Il

foglio, di cui sono disponibili

anche delle fotocopie tradotte

in italiano, è come una paten-

te di nobiltà di questo maso,

posto a 1933 metri sul livello

del mare, il più alto tra quelli

che abbiamo visitato. Il foglio

riporta anche l’esatta consi-

stenza del maso che compren-

de due edifici – abitazione e

stalla con fienile – e una quota pari ad un quarto di un mulino per la macina

dei cereali. Il mulino c’è ancora nel lariceto rado che precede il maso, ma

non è più utilizzato.

Secondo l’antico testo, i terreni del maso includevano complessiva-

mente 129 Klafter di orto, 6038 di prato, 766 di seminativi e 1000 di terreni

improduttivi. Il Klafter è un’antica misura di capacità. Come spesso capita

nelle società contadine, vi è una corrispondenza tra le misure di capacità

e quelle di superficie, per cui un Klafter oltre ad essere una certa misura –

per esempio – di grano, corrisponde anche alla superficie necessaria per

produrre quella stessa quantità di grano. Poiché la produttività dei terreni

cambia a seconda di un’infinità di fattori, tra cui l’altitudine, l’esposizione,

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la qualità del terreno e il tipo di coltura, non esiste un’unica misura di su-

perficie corrispondente al Klafter. Ogni area del Sudtirolo ha un suo proprio

sistema di misure, che possono variare anche di molto. Nel nostro caso un

Klafter corrisponde a circa 1,9 metri quadri, cosicché si può calcolare la su-

perficie complessiva della particella catastale, che arriva a poco più di 1,5

ettari, di cui solo un decimo adatti ai seminativi, in pratica solo lo spazio

antistante la casa. Oggi con meno di tre ettari non si può nemmeno parlare

di azienda agricola.

Oltre alle magre rese, agli inverni gelidi, alle estati brevi e intense, al

tanto lavoro per un risultato che al massimo era la garanzia di sopravvivere,

c’erano anche le tasse da versare: 350 fiorini e 55 corone alla chiesa e 7 coro-

ne allo stato. Difficilmente i contadini di montagna disponevano di somme

in denaro ed allora le tasse erano convertite in natura sotto forma di pani

di burro, cataste di legna e Klafter di segale, orzo o avena. Il Klafter con cui si

pagava, però, non era lo stesso con cui si era pagati, bensì l’Herrenklafter, il

“Klafter dei signori”, più capiente di quello della povera gente.

Chi volesse mettersi in contatto con gli abitanti di questo maso remo-

tissimo oppure prenotare una cena o dare uno sguardo agli splendidi pa-

norami sul lago di Gioveretto e i ghiacchiai del Cevedale potrebbe farlo da

qualsiasi punto nel mondo, collegandosi a www.stallwies.com. Questo spicchio

di val Martello pullula di appassionati di informatica, ma non è questo il

punto. Lo Stallwies, grazie alla sua pagina web è diventato un maso esem-

plare, un’emblema della parabola dei masi un tempo isolati e oggi collegati

al mondo. Ma avere un recapito nella Grande Rete, avere un contatto, im-

plica necessariamente essere moderni, inseriti, connessi? Di certo significa

che lì abita qualcuno che ha maggiore dimestichezza rispetto ad altri con

una delle massime espressioni dell’età virtuale.

Tutto il maso è un miscuglio di antico e nuovo: c’è la pergamena che

cita l’antico mulino in disarmo, costruito nel bosco rado vicino al grande

prato in posizione adatta per sfruttare l’energia dell’acqua incanalata in un

waal ligneo, e c’è anche il suo modello in scala funzionante nel giardino vici-

no all’antica cantina oggi ristorante, in posizione adatta per essere ammirato

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dai visitatori assetati di curiosità. Sulle pareti esterne della Futterhaus ci sono esposte le corna

delle capre macellate nei decenni passati, mentre attorno al maso pascolano, con le loro grandi

corna riquadre, delle vacche scozzesi di razza Highlander.

– Le tenete per la carne? – domando, rivangando qualche vaga conoscenza sulle razze

bovine.

– Noo! Sono lì per i bambini… per i turisti! – mi risponde Peter, il più giovane dei figli di

Eduard.

Il vecchio Bauer Eduard, trent’anni fa temeva che il maso non sarebbe riuscito a soprav-

vivere, confidava nella costruzione della strada, forse sperava per i suoi figli un futuro in mon-

tagna, e magari al massimo sarebbe forse riuscito a sognare visitatori e ristoranti. Non avrebbe

mai immaginato di trovarsi ad allevare delle bestie solo per farle vedere ai turisti. Il trionfo

dell’immateriale. Ciò che conta in questa mucca rossiccia e pelosissima del terzo millennio non

sono la carne, il latte, la capacità di lavorare, ma piuttosto è l’immagine della mucca, la possi-

bilità di vedere, avvicinare, ammirare e fantasticare su questo esotico animale. Ecco il postmo-

derno, altro che pagina web…

Maso Stallwies. Comune di Martello, 1933 metri sul livello del mare

Il maso, che ha davanti un grande prato pianeggiante, si trova in magnifica posizione, ai limiti di un bosco

di larici e abeti. Il maso è stato ristrutturato di recente e si compone di due edifici, uno adibito a stalla e uno con

l’abitazione ed il ristorante. Gli edifici attuali sono stati realizzati tra il 1855 ed il 1865, ma le origini del maso

risalgono al medioevo. La presenza è documentata dal 1332.

Si trova a monte di maso Löcher, a circa un chilometro di distanza.

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22. 2. 2007

Il 20 febbraio 1810 Andreas Hofer, eroe simbolo del popolo tirolese, veniva

giustiziato dalle truppe napoleoniche in quel di Mantova. Un episodio sto-

rico, quello dell’insorgenza tirolese, frutto dell’opposizione delle classi popo-

lari all’imposizione manu militari del nuovo ordine politico francese: di quel

Liberté, Égalité, Fraternité che oggi è additato come fondamento del moderno

pensiero politico europeo.

Oggi, per ricordare l’esecuzione di Mantova, in diversi paesi sono espo-

ste bandiere alle finestre e sui campanili. Se ne vedono diverse anche lungo

la strada della Pusteria. Il bar in cui ci fermiamo per la colazione, ospita la

riproduzione del quadro di Franz Defregger Das letzte Aufgebot, rappresenta-

zione idealizzata dell’ultima resistenza dei contadini tirolesi contro le truppe

francesi. La gente nel bar, però, è tutta concentrata sulle imprese degli eroi

locali moderni, e fa il tifo per gli sciatori impegnati nello slalom della Coppa

Nella nebbia Maso Mitterhofer

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del Mondo. Anche le due ragazze adolescenti con gli sci in spalla che interroghiamo lungo la

strada sembrano poco informate, tanto sulla ragione delle bandiere, quanto sulla direzione che

dobbiamo prendere. Come a tutte le ragazze della loro età, il passato interessa poco, meglio il

presente: uscire, chiacchierare, un salto al bar del paese, con il quadro che resta sullo sfondo.

Mentre fanno il tifo, si scambiano piccole confidenze e pettegolezzi innocui, sognano il futuro.

è domenica e ne approfittiamo per fare una breve visita alla chiesa del paese, sperando

di poter incontrare la gente dei masi che scende in paese per la messa domenicale. Purtroppo

Fundres non è immune dalla carenza e dall’invecchiamento dei sacerdoti: c’è un unico parroco

in tutta la valle e l’unica messa è già stata celebrata, troppo presto perché potessimo raggiun-

gere il paese in tempo. Nella chiesa non c’è ormai più nessuno. Nel cimitero che circonda la

parrocchiale un giovane papà spinge la carrozzina con una bambina di non ancora un anno.

Ci facciamo avanti per chiedere informazioni sulla nostra destinazione e scopriamo di avere

avvicinato casualmente un parente degli abitanti del maso Mitterhofer.

Al maso Mitterhofer vivono la cugina, la zia e la prozia. Ci accordiamo col giovane Erich

per una visita, farà un colpo di telefono su al maso, per assicurarsi che ci sia qualcuno e che ci

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venga aperta la porta. Per la prima volta non giungeremo inaspettati.

Approfittiamo dell’incontro per farci guidare tra le croci di ferro battuto. Erich ci indica

gli uomini del Mitterhofer: lo zio Severin, morto nel 2003 e, dall’altro lato del camposanto, il

vecchio Knecht Bruno. I servi agricoli e domestici, Knechte, erano una volta una presenza comune

nei masi, spesso aiutavano il Bauer. Ora di servi agricoli come lui non ce ne sono più; forse an-

cora qualcuno vive, ma ormai dovrebbe essere abbastanza anziano da potersi godere un po’ di

sudatissimo riposo. Se ce ne fossero non sarebbero più servi, ma lavoratori dipendenti, tutelati

dal sindacato, con casse di malattia, contributi per la pensione e soprattutto uno stipendio. Una

volta la paga era fatta di vitto, alloggio, vestiario e un paio di scarpe all’anno, e magari qualche

piccola gratifica in natura. Soldi niente, gli stessi Bergbauern ne vedevano raramente. I servi sta-

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vano agli ultimi posti della scala sociale.

Il maso ci appare dopo una lunga salita in un ambiente cupo e freddo,

la nebbia si fa più o meno densa giocando a nascondere e svelare il paesag-

gio, fino a quando, alzando la testa fino quasi a capovolgerla, vediamo sopra

di noi le sagome confuse di due edifici. Il terreno verso la facciata è ripidissi-

mo e il maso è costruito come su palafitte che sporgono sul vuoto. Alle spalle

e ai lati della costruzione però il pendio si fa più dolce. Il freddo è pungente

e cade neve a intermittenza.

A Mitterhofer ci apre Berta, giovane donna non ancora trentenne.

Vive lì con la mamma e la nonna anziana. Da quando sono rimaste sole

tengono duro e governano la stalla e il maso con l’aiuto dei parenti. Nove

vacche attendono ogni giorno di essere nutrite, curate e munte. Un cane

piuttosto bellicoso sta chiuso nella cucina e noi veniamo fatti accomodare

nella stube.

Berta parla poco, anche per una tosse fastidiosa che la assilla. La

mamma saprebbe raccontare meglio ogni cosa, perché lei è troppo giovane

e non ricorda le cose di una volta, ma non c’è: è andata all’ospedale a tro-

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vare la nonna. Lei non pensa che vivere in un maso oggi sia tanto diverso

che vivere in un altro posto. Come molti giovani della sua generazione ha

ascoltato i racconti dei genitori, della loro vita ai margini estremi della mon-

tagna, della povertà, della fatica. Ha sentito raccontare il lento riscatto, la

rivoluzione della strada, della corrente e del telefono, il ritorno nel mondo.

Il suo termine di paragone non è l’altrove ma il passato. Oggi al maso si vive

bene e comunque meglio di una volta, non importa come si vive negli altri

posti.

Non manca nulla, e se serve qualcosa si può scendere in paese in pochi

minuti di macchina e comprarlo. La domenica si scende per la messa, nel

tempo libero si può andare a correre oppure in estate a raccogliere fragole e

mirtilli per fare marmellate e conserve. Non per necessità ma per il gusto di

farle. Anche lavorare a maglia è diventato un passatempo, volendo i vestiti si

potrebbero comprare, ma perché se si possono fare in casa come e quando

si vuole?

Giunto il momento di salutarci, Berta ci accompagna fino sul balcone

e ci mostra il ballatoio che porta all’ingresso, consumato per il continuo

passaggio, le assi del corridoio e della porta con i solchi scavati dal peso di

migliaia di passi. Il corridoio è freddo e nebbioso, dalla bocca di alimenta-

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zione della stufa esce un filo di fumo acre che riempie lo spazio senza scaldarlo. Le pareti sono

nere di fuliggine e in fondo al Labe stanno appesi ad affumicare dei pezzi di carne di maiale.

Il passato entra nel vissuto del maso attraverso gli oggetti e le testimonianze di chi l’ha vissuto

come accade per le tre generazioni che vivono sotto lo stesso tetto a Mitterhofer. Per i giovani

dei masi i racconti dei vecchi contadini di montagna sono diventati il mito su cui basare la loro

vita quotidiana.

Maso Mitterhofer. Comune di Vandoies, 1525 metri sul livello del mare

Il maso è di origini antichissime ed è documentata la sua esistenza già nel XIV secolo. L’abitazione è se-

parata dalla stalla-fienile ed ha l’accesso dal balcone-ballatoio. Nei pressi di Mitterhofer si trova un altro maso

anch’esso abitato.

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25. 2. 2007

Vedendo sopra il tornante le rovine annerite di maso Troter non si può fare a

meno di pensare all’incendio del villaggio di Eschberg, alle strade e ai viottoli

coperti di sterpaglie spinose, ai resti delle case carbonizzate e marcescenti, ai

muri maestri coperti di muschio del paese d’alta quota teatro della vicenda

di Elias Alder, protagonista del romanzo e del film Le voci del mondo.

Una sera afosa di agosto, l’erba secca, il vento caldo, il profumo del

fieno e della paglia; mentre cala il sole cantano le cicale e tutti pensano che,

una volta tanto, anche in questa valle si potrà dormire con le finestre aperte.

Basta una scintilla per scatenare le fiamme. Il fieno è un innesco eccezionale,

le travi e le assi di legno secco di abete e di larice prendono fuoco facilmente

e da un piccolo fuoco il rogo si allarga e inghiotte l’intera casa. Anche per

questo, ovunque sia possibile, ogni edificio è a rispettosa distanza dagli altri.

Non c’è pericolo che le fiamme si trasmettano, non c’è pericolo di contami-

L’incendio Maso Troter

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nazioni, ognuno può fare la sua vita e la sua morte in un orgoglioso e dorato

isolamento. Anche al giorno d’oggi, con le autobotti e le pompe, fermare

l’incendio di un maso è una vera impresa. Con i mezzi di una volta non

c’era altra speranza che salvare la vita delle persone e degli animali.

Oggi gli incendi non fanno più tanta paura, le case sono più sicure, ci

sono meno fiamme libere,

i pompieri volontari han-

no i mezzi adatti, le strade

raggiungono ogni maso e

gli idranti garantiscono la

disponibilità di acqua. Se

le cose dovessero proprio

andare male le assicurazio-

ni risarciscono buona parte

dei danni e il contraccolpo

economico viene attutito.

Restano però la paura e il

senso di perdita degli affet-

ti e delle proprie cose.

Peter è un uomo sul-

la quarantina, alto e con la

barba da montanaro. Porta

un paio di jeans consuma-

ti e una camicia di flanella

con le maniche rimbocca-

te. Parla poco e quando lo

fa mescola il dialetto e un

italiano stentato e dall’in-

confondibile accento tiro-

lese. Non si direbbe un uomo incline a sentimentalismi. Da parecchi anni

vive poco sopra al maso Troter. Lo vede ogni mattina dalle finestre, o meglio

ne vede i ruderi anneriti.

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Peter, che è nato e vissuto per diversi anni a maso Troter, non parla

volentieri dell’incendio: – è passato tanto tempo. Sarà stato una decina di

anni fa… un corto circuito. Il maso era affittato ad un gruppo di Austriaci,

ma per fortuna non erano in casa quando è successo. No, nessuno si è fatto

male. –

Con un po’ di fantasia

si può provare ad immagi-

nare la scena: il fumo, la

sorpresa, l’allarme, un pri-

mo tentativo di spegnere le

fiamme con l’aiuto dei vici-

ni, che poi tanto vicini non

sono. E poi l’arrivo delle au-

tobotti dei pompieri volon-

tari, saranno saliti anche da

Mules e da Campo di Trens,

forse pure da Vipiteno. Non

c’è stato nulla da fare e ciò

che è andato perduto è mol-

to più di quanto si è riusciti

a salvare.

Durante la salita lun-

go i tornanti della strada tra

Mules e Ritzteil abbiamo

faticato a riconoscere maso

Troter. Sapevamo di dover

cercare un rudere, ma i masi

abbandonati in questo tratto

di valle sono parecchi. Non

sono pochi ad essersene andati.

Il maso è quasi irriconoscibile. Tutto il piano superiore è andato di-

strutto, così come i balconi, le legnaie, gli sporti in legno. Solo grazie alla di-

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sposizione delle finestre al pian terreno siamo riusciti a capire che era il posto

giusto. La casa e l’insediamento della valle presentano le caratteristiche tar-

de della colonizzazione baiuvara: casa e stalla si trovano sotto il medesimo

tetto, il legno è il materiale prevalente delle costruzioni. L’edificio è costruito

parallelamente alle curve di livello e il colmo del tetto segna la separazione

tra gli ambienti dedicati agli animali da quelli riservati alle persone. Nella

metà casa posta a monte si trovano i resti di quelle che furono la stalla, il fie-

nile, la cantina e

la legnaia.

Verso valle,

separata da un

corridoio che per-

corre tutto l’edifi-

cio lungo il colmo

del tetto, ci sono la

Stube e l’adiacente

Stubekammer, una

stanza, anch’essa

foderata in legno

a cui si accede so-

lamente dalla Stu-

be stessa. La Stube-

kammer è una stan-

za da letto, la ca-

mera più calda e

confortevole della

casa, riservata di

solito alle persone

più anziane o al

Bauer ed alla sua

consorte. Sempre

a valle ci sono la cucina e un bagno, segno che il maso Troter è stato utiliz-

zato anche in tempi recenti: fino a non molti anni fa i servizi igienici erano

semplici casotti di legno sufficienti appena per il gabinetto, spesso esterni

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alla casa; il tutto funzionava a caduta, senza l’acqua corrente. Il rudere è re-

cintato, ma intorno non c’è anima viva: la tentazione di dare un’occhiata da

vicino è troppo forte. Più che dalla devastazione, che ha lasciato buona par-

te degli ambienti senza copertura, si rimane colpiti dagli oggetti di uso quo-

tidiano. Addentrandosi tra le mura sbrecciate e frugando in ogni angolo si

è combattuti tra curiosità profanatrice e rispetto sacrale per queste rovine e

per i loro abi-

tanti.

Da una

vasca da ba-

gno, dall’ar-

madietto an-

cora con le

suppel le t t i l i

dentro, dai

pensili della

cucina e dagli

oggetti di ogni

giorno sparsi

sul pavimen-

to, seppelliti

dai detriti ca-

duti dai soffit-

ti sfondati, si

riesce a sbir-

ciare nella vita

degli antichi

abitanti. è

emozionante

passeggiare in

questa casa, in

nessun altro luogo ci è stato concesso di violare così impunemente l’intimità

domestica. Scopriamo gli angoli ritratti nelle vecchie foto. Sono spogli ma

riconoscibili: ci sono le stesse mensole, la stessa panca dove il giovane Peter

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faceva i compiti, la stessa stufa e lo stesso angolo dove la nonna si rintanava a scaldarsi. Entria-

mo nella camera da letto, foderata in legno; le finestre sono chiuse da inferriate, per fortuna al

momento del disastro non c’era nessuno, sarebbe stato impossibile scappare. La vista è emo-

zionante, ma lo è ancora di più la sensazione dei sassi che scricchiolano sotto i piedi, la carezza

dei muri ruvidi sulle mani, l’odore acre di bruciato, di stantìo e di pioggia che si mescolano tra

loro.

Poco dopo la nostra visita al maso, mentre ci aggiravamo curiosi e circospetti attorno alla

scuola elementare abbandonata anch’essa, abbiamo incontrato Peter. Non ha voluto raccontare

di più, ma forse è meglio che certe storie non siano del tutto svelate.

– Andate su all’osteria, c’è l’Herbert. A lui interessano queste cose e gli piace parlare,

però dovete mettervi comodi e non avere fretta, una volta che ha iniziato non si riesce più a

fermarlo… –

Non desideriamo altro.

Maso Troter. Comune di Campo di Trens, 1375 metri sul livello del mare

Il maso è posto su un tornante della strada della Val di Mules, laterale della val d’Isarco. Già negli anni

Settanta il maso non era più abitato in modo permanente e gli abitanti si erano trasferiti poco più a monte. Il

maso, costituito da un unico edificio è in stato di abbandono, dopo l’incendio che lo ha praticamente distrutto alla

fine degli anni Novanta.

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25. 2. 2007

L’oste chiacchierone purtroppo non c’è. La moglie, di contro, è tutt’altro che

loquace e ci informa che il marito si trova all’ospedale da diversi giorni. Stra-

no che i vicini, a poche decine di metri di distanza non ne sapessero nulla. A

volte l’isolamento non è solo una questione di chilometri.

Stavolta siamo soli, niente fotografo al seguito; approfittando del brut-

to tempo se ne è andato a cercare nuovi scatti suggestivi. Ormai sto facendo

l’abitudine alla sua passione per le giornate umide e grigie ma credo che non

riuscirò mai a condividerla. Il freddo dell’esterno è solo parzialmente atte-

nuato dal tepore della Stube trasformata in locale per le consumazioni. Il

bancone vero e proprio sta di fronte, dall’altra parte del corridoio, in quella

che un tempo doveva essere stata la cucina.

Ci sono altri due clienti al tavolo: una coppia attempata, con un quar-

Soli Maso Kasperer

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to di vino e due bicchieri. Chiacchierano a bassa voce. In questo ambiente così piccolo è im-

possibile non fare conoscenza, dopo qualche battuta la barriera linguistica e quella del sospetto

si sciolgono come neve al sole e iniziamo a chiacchierare. Due coppie: una anziana e l’altra

giovane, una tirolese e l’altra trentina, una beve vino e l’altra beve tè, una in vacanza l’altra al

lavoro, ma tutte due ugualmente estranee alla valle in un giorno in cui gli estranei dovrebbero

starsene al largo. Fa freddo, c’è nebbia, piove e di tanto in tanto cade un po’ di nevischio.

La padrona di casa si tiene in disparte e non interviene nella conversazione dei suoi quat-

tro clienti, commenta brevemente e in dialetto stretto, non abbandona la diffidenza verso l’ano-

mala compagnia di cittadini che si è andata formando nel suo locale. Forse teme la loro aria

smaliziata e cittadina, forse è solo preoccupata per il marito.

Maria e Paul, di Vipiteno, sono in gita domenicale: un

giro in macchina, una merenda, un bicchiere di vino. I no-

stri interlocutori sono espertissimi di ogni angolo remoto del-

la provincia. Quando snoccioliamo la litania dei masi già

visitati nel nostro circuito annuiscono e rincarano la dose: –

Siete già stati in Val Sarentino? Avete visto la Val di Vizze?

Conoscono bene anche gli angoli più remoti della loro provin-

cia, evocano nomi impossibili da trascrivere se non facendoseli

ripetere più volte e lentamente. Raccontano di pareti verticali,

di morti chiusi nelle cantine per tutto l’inverno e di bambini

traumatizzati dalla prima discesa in valle. Solitudine e isola-

mento sono per loro ancora oggi sinonimo di vita nel maso.

Ci raccontano di quei masi in cui se qualcuno moriva in

inverno bisognava aspettare primavera per fare il funerale: –

Sai, – certe storie iniziano tutte così – conosco un maso nella

valle tale, dove una volta, neanche tanti anni fa, è morto il non-

no. Era inverno e c’era tanta neve che non si poteva andare sul

sentiero e non si riusciva neanche a portarlo al cimitero. Allora

lo hanno infilato in una cassa improvvisata e lo hanno messo

in cantina, assieme agli speck. C’era talmente tanta neve che

si poteva uscire dalle finestre senza saltare. – Qui segue una

pausa di riflessione in cui si ha il tempo di immaginare queste

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case isolate con la neve che sfiora i lembi inferiori del tetto, circondate da montagne arcigne e

poi il nonno, rigido come uno stoccafisso, posato su una tavola in cantina o adagiato sulla paglia

della soffitta, surgelato… Comunque, dicevo – prosegue il narratore – il morto lo hanno messo

in una cassa e lo hanno lasciato lì fino alla primavera quando il sentiero è tornato praticabile.

Immaginatevi quelli che stavano lì, a vedere il nonno steso morto in cantina ogni volta che si

andava a prendere un salame o delle patate! Sicuro che i bambini non scendevano tanto volen-

tieri… certo col freddo che faceva si conservava bene… – e avanti così, esorcizzando la morte e

la solitudine, trasformate in racconto semiserio.

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Queste storie sentite e risentite durante il nostro viaggio sono, se non vere, perlomeno

verosimili. Vero era senz’altro l’isolamento che in posti come questi poteva durare per giorni,

anche parecchi. Allora tutte le attività per cui era necessario scendere in paese dovevano es-

sere rimandate, incluse le sepolture, ma se i morti possono aspettare, i vivi no. L’autonomia e

l’autosufficienza non erano questione di scelta o di volontà, ma semplicemente una necessità

inevitabile. La vita del maso tirolese è stata per decenni una vita difficile ma senza scelte. Con

la strada e con le altre innovazioni moderne, la scelta è entrata nel maso.

A tutti quelli che incontro chiedo se hanno mai pensato di lasciare il maso. Tanti am-

mettono di sì, ma di aver deciso di restare. Alcuni mostrano il diploma che certifica il possesso

dell’Erbhof da parte della famiglia da secoli, con orgoglio: sono quelli che hanno scelto di resta-

re. Altri sorridono e fanno spallucce: – Andare dove? Sono sempre stato qui… – rispondono.

Sono quelli che non si sono accorti di poter scegliere altrimenti, per tanti di loro la strada è ar-

rivata troppo tardi. Poi ci sono i giovani che fanno i pendolari, che vivono a valle ma salgono al

maso per lavorare la terra, per vedere i genitori, per ricordare l’infanzia: sono quelli che hanno

scelto di andare. C’è perfino qualcuno, pochissimi in verità, che ha scelto di salire, quasi sem-

pre per amore. Ma ci sono anche persone, impossibile dire quante, sospese tra due mondi. In

loro si avverte disagio nel rispondere, il disagio di dover gestire una facoltà non richiesta, come

una nuova Opzione. Già una volta ai Sudirolesi è stato chiesto se andare o restare, allora era il

frutto di uno scellerato patto tra dittatori, oggi è una conseguenza inevitabile della modernità

che incalza anche chi non fa nulla per cercarla. I Bergbauern non pensavano di potersene anda-

re, non pensavano che potesse esserci un’alternativa, e ora si trovano sospesi e indecisi come se

qualcuno avesse dato loro degli strumenti senza insegnare ad usarli.

Domando del futuro. Silenzio. Domando del lavoro, delle prospettive, dello sviluppo,

della modernità, delle scelte. Risponde solo l’ondeggiare regolare della pendola che nel silenzio

diventa padrona della stanza.

Maso Kasperer. Comune di Campo di Trens, 1420 metri sul livello del mare

Si trova nei pressi della scuola elementare della Val di Mules, chiusa. L’edificio fa parte di un gruppo di

masi che occupa il versante sinistro del torrente Mules.

Si raggiunge da Campo di Trens dopo circa sette chilometri di strada asfaltata.

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28. 2. 2007

Duecento milioni di anni fa la porzione di globo terrestre in cui oggi si trova

l’Alto Adige ospitava il cosiddetto Oceano Ligure-Piemontese. Questo brac-

cio di mare, che poco o nulla ha a che fare con le attuali Liguria e Piemonte,

si era formato nello strappo provocato dalla rotazione dell’Africa, qualcosa

come duecento milioni di anni fa. Questo strappo, posto tra le masse con-

tinentali dell’Africa, dell’Europa e dell’America del Nord si riempì comple-

tamente d’acqua e rimase tale per milioni di anni, fino a quando il comple-

tamento della rotazione dell’Africa comportò la sua chiusura e il crearsi di

nuove aree profonde, tra cui il mar Tirreno.

Il mare, schiacciato tra Africa ed Europa che si andavano avvicinando,

finì per chiudersi e prosciugarsi. Le due placche meridionale e settentrionale

lo stritolarono inesorabilmente nella loro morsa facendo “schizzare” ver-

so l’alto i suoi fondali, mentre la placca Europea si inabissava sotto quella

Epoche Maso Finail

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Africana. Il punto, o meglio la linea, in cui l’Europa si inabissa sotto l’Africa

passa proprio di qui, in Alto Adige. Tutto questo per dire che non è certo

dalla definizione di questo o quel trattato che le Alpi sono diventate confine

e cerniera tra due mondi, la vocazione di unione e al tempo stesso di separa-

zione della catena alpina è cosa tanto grande ed antica che l’uomo non può

che prenderne atto.

La linea di confine tra le placche non passa sullo spartiacque, ma un

po’ più a Sud, proprio da queste parti, ed è la cosiddetta Linea Insubrica.

La differenza tra i due versanti sta nel tipo delle rocce, igniche, metamorfi-

che, sedimentarie… in mezzo ai resti del mare che fu (le attuali Dolomiti,

con le loro conchiglie fossili) affiorano ora le une ora le altre. L’aspetto della

carta geologica è a macchia di leopardo, ma nel ventre profondo della terra,

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la divisione è netta e marcata, non ha nulla a che vedere con la direzione

dell’acqua, né con le vicende degli uomini e conserva il ricordo di storie più

antiche della nostra immaginazione.

Il lavoro di rifinitura per giungere alle attuali forme delle valli lo hanno

fatto il ghiaccio, l’acqua e il vento che hanno scavato le valli modellandone

i fianchi e scolpito le cime delle montagne, regalandoci infine la magnifi-

cenza del paesaggio alpino. Gli abitanti di queste valli amano le forme delle

loro montagne e ne hanno nostalgia quando se ne separano. Il paesaggio

della montagna è sempre diverso, da qualunque punto lo si guardi, non ha

l’universalità del piatto orizzonte marino. Ogni casa ha la sua vista e ogni

vista è diversa da tutte le altre, il profilo dei monti è un imprinting che si fissa

nel cuore dei montanari e che rende più difficile lasciare le proprie case. In

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questo modo si giustifica la tenacia della gente di Finail, due masi con rispettive stalle, appesi sul

precipizio, “come corvi che spiccano il volo”. Sotto gli occhi c’è il lavoro di generazioni: disbo-

scamenti, dissodamenti, deviazioni e sbarramenti delle acque. In questa valle angusta e poco

ospitale si sono tracciati sentieri e strade, edificate case e fienili.

Quando giungiamo a Finail, dopo un bel girovagare a vuoto, troviamo solo un cucciolo

giocherellone di border collie. Mentre scendiamo dalla macchina ci salta attorno scodinzolando

e invitandoci a lanciare lungo la strada dei pezzi di ghiaccio con cui ingaggia scatenate gare di

velocità. Il cane è presente quasi ovunque nei masi, cani di taglia media e grande, utili per gli

animali e fedeli compagni delle persone. Le razze sono diverse ma, a quanto pare, il cane pasto-

re nero e bianco va per la maggiore di questi tempi.

Il Bauer, richiamato dal movimento, si affaccia alla porta e ci liquida frettolosamente, mo-

glie e figlio sono scesi a valle per il funerale del nipote. Comprensibile che non abbia gran voglia

di chiacchierare. Il ragazzo ha avuto un incidente, giù nella valle. Era giovane, era a posto. è ba-

stato un attimo e la strada gli è stata fatale, aveva solo 23 anni. Succede troppo spesso sulle stra-

de dell’Alto Adige. Più di una persona alla settimana perde la vita negli incidenti stradali, i feriti

sono decine, quasi sempre si tratta di giovani. Da qualche giorno stanno spuntando ovunque

lungo le statali della provincia dei lugubri cartelli che dovrebbero sensibilizzare gli automobilisti

alla prudenza. Mostrano una ragazza che abbraccia la sagoma bianca di una persona. Sulla

sagoma solo una croce e due date. L’impatto emotivo è forte, difficile valutare se la campagna

possa anche essere efficace nella prevenzione.

Il Bauer rientra subito in casa. Noi ci fermiamo un momento a guardare il panorama

splendido, il lago nella valle, le case e i fienili sospesi sopra al precipizio. Il cane continua a sal-

tellarci attorno chiedendo di giocare, che gli venga lanciato un bastone o un pezzo di ghiaccio

in modo che possa rincorrerlo e riportarlo indietro. Mentre Gianni scatta le foto mi lascio tra-

scinare dal cucciolo in una serie di corse lungo la strada stretta che costeggia il maso e il fienile,

quindi risaliamo in macchina e torniamo verso casa.

Mancano veri e propri slarghi anche in prossimità del maso e voltare il mezzo è piuttosto

difficile. Mentre scendiamo incrociamo una macchina che sale. Dobbiamo retrocedere di un bel

pezzo prima di trovare un disbrigo e solo con un paio di manovre riusciamo a districarci. Sono

moglie e figlio di ritorno dalla funzione. Nonostante la strada nuova, nessun altro sale fino a qui

a quest’ora in inverno.

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Maso Finail. Comune di Senales, 1953 metri sul livello del mare

Si tratta di due masi affiancati, ciascuno con la propria stalla-fienile affiancata al maso

stesso. I masi di Finail sono posti in posizione panoramica a monte del lago artificiale di Ver-

nago con splendida vista sulla media val Senales e sull’abitato di Vernago e sulla media valle.

La struttura degli edifici è interamente lignea ad eccezione di un basamento in pietra,

secondo lo stile costruttivo tradizionale dell’area. Si raggiunge dal fondovalle lungo una breve

strada asfaltata.

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28. 2. 2007

Dopo aver gironzolato un po’ a vuoto su e giù per la Val Senales, giungiamo

al maso Raffein ormai al tramonto. L’aria fredda arrossa le guance e penetra

sotto alle giacche a vento e ai maglioni. Siamo a 1880 metri di altitudine e,

benché non ci sia traccia di neve, l’aria fredda dice che la primavera è anco-

ra lontana.

L’edificio è interamente costruito in legno. Le tavole scure della fac-

ciata sono testimoni degli anni passati dall’ultimo restauro ma, nonostante

il colore tendente al nero e la luce crepuscolare del tardo pomeriggio, una

luce accesa sopra la porta crea un piacevole contrasto e invita a salire sul

ballatoio e a bussare alla ricerca di un po’ di calore.

La lampadina solitaria, protetta da un semplice disco di metallo smal-

tato, illumina timidamente l’ingresso facendo risaltare la tabella con il nome

del maso, un ferro di cavallo di buon augurio e una piccola statua lignea di

Il Santo Maso Raffein

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San Giovanni Nepomuceno. Questi era consigliere del re di Boemia nonché confessore e confi-

dente della regina. Il re, curioso e sospettoso, avrebbe voluto che Giovanni lo tenesse informato

sulle scappatelle della regina, ma il santo sacerdote rifiutò di rivelare quanto aveva appreso in

confessione. Davanti al silenzio del suo consigliere, il re perse le staffe e lo fece gettare nelle ac-

que gelide della Moldava, il 16 maggio del 1393. Con curioso contrappasso il martire è divenu-

to protettore di tutti gli edifici e in particolare dei ponti dalle alluvioni e dalla furia delle acque.

La venerazione per Giovanni Nepomuceno è tuttora molto sentita in tutta la regione e la

sua statua si incontra spesso in prossimità dei ponti. Anche un buon numero di dimore tirolesi

è affidato alla protezione del santo boemo attraverso statue e dipinti murali. Giovanni Nepo-

muceno è secondo solo all’onnipresente San Floriano, che protegge dagli incendi, in questa

speciale forma di devozione. Lo si vede spesso anche nei masi di montagna, a volte anche dove

appare quantomeno improbabile il rischio di un’alluvione. La ragione sta nella seconda carat-

teristica del Santo, che venne ucciso proprio per non aver potuto e voluto parlare: il silenzio. Le

cinque stelle che spesso coronano il capo del Santo ricordano le cinque lettere che compongono

il motto latino Tacui. Tacere e onorare Dio sono strumenti per raggiungere la salvezza nei cieli.

In questo modo il Santo si lega indissolubilmente alla montagna e ai suoi silenzi.

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Alla porta è giunta una signora

cordiale, con i capelli corti e candidi,

una parente dei proprietari. Gli al-

tri abitanti del maso sono raccolti al

primo piano, dove hanno sistemato

un appartamento nuovo, mentre a

piano terra la Stube è diventata una

deliziosa sala da pranzo. Dalle scale

arrivano rumori di voci come se ci

fossero ospiti in casa.

La vecchia cucina, di fronte,

sulla sinistra rispetto al Labe, è stata

trasformata in un piccolo ristorante-

agritur dove si cucinano e si servo-

no piatti preparati per lo più con i

prodotti della stalla: ci sono mucche,

capre, pecore, cavalli e maiali, polli

e galline, oche e tacchini ed anche le

api. Naturalmente c’è anche il cane,

ma non ha niente a che fare con il

ristorante.

L’aspetto della sala da pranzo

è molto curato, legno ovunque e to-

vaglie bianche e rosse. Perfino l’im-

pianto elettrico è stato ricostruito

secondo lo stile di una volta con gli

interruttori in ceramica e i fili ricoperti di seta tesi in evidenza tra gli isolatori.

Non c’è però l’atmosfera un po’ kitsch che hanno le stanze riadattate a ristorante in cui

la tipicità degli arredi è tanto perfetta quanto asettica e stereotipata. Conserva invece l’aspet-

to della Stube originale che è fatta per accogliere gli ospiti ma anche per la vita familiare. Alle

pareti sono appesi i quadri con le foto dei parenti, i disegni dei bambini e, nell’angolo, l’im-

mancabile crocefisso volge lo sguardo carico di indulgente sofferenza verso i tavoli vuoti. Non

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stupirebbe di trovarci la nonna intenta a sferruzzare e i bambini che occupano uno dei tavoli

per fare i compiti. Mentre ci racconta la vita del Raffein, la signora ci fa accomodare e ci serve

tre bei bicchieri colmi di latte. Lasciamo scivolare in bocca il sapore dolce e corposo del latte

fresco e non pastorizzato.

La strada c’è ormai da dieci anni, ma è asfaltata solo da due. è importante per il ristoran-

te perché così possono arrivare i turisti anche per la cena. C’è un bel sentiero che raggiunge il

maso e d’estate sono in tanti a passare di qui.

In inverno, invece, i visitatori sono pochi, i campi da sci (pur presenti in Val Senales) sono

lontani, i turisti non vengono. La strada in inverno serve soprattutto agli abitanti del maso, per

scendere ogni giorno, con ogni tempo. Per i bambini che vanno a scuola, per la spesa, per il

lavoro.

Svuotato il bicchiere, a malincuore, usciamo di nuovo nella sera gelida. I profili nerissimi

del Salurn e del Mastaun fanno da confine al cielo crepuscolare. Alla luce fioca della lampadina

si aggiungono le luci delle prime stelle.

Maso Raffein. Comune di Senales, 1880 metri sul livello del mare

Il maso è una costruzione interamente lignea, fronteggiato da una stalla con fienile di piccole dimensioni.

Raggiungibile solo da poco, dopo lunghi anni di isolamento, attraverso una strada asfaltata che sale dal paese di

Vernago. Collegato all’attività dell’azienda agricola si trova un ristorante.

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28. 2. 2007

La strada asfaltata si esaurisce solo pochi metri dopo la porta di ingresso del

Laseider. Ce lo aveva anticipato con estremo dettaglio il casellante all’uscita

dell’autostrada di Bressanone Nord. Incurante degli altri automobilisti in

fila, pronti per incolonnarsi nuovamente su per la trafficatissima statale della

Pusteria, aveva speso più di qualche parola per illustrarci il percorso per rag-

giungere la sua valle d’origine, informandosi sulla nostra precisa destinazio-

ne e sullo scopo della visita, non trascurando nemmeno di fornirci qualche

anticipazione sulle persone che avremo incontrato e le relative parentele.

Nonostante le strade e le automobili abbiano ampliato il raggio degli spo-

stamenti della gente, l’Alto Adige rimane ancora una provincia-paese in cui

non sono infrequenti incontri come questo, che altrove potrebbero apparire

sorprendenti.

Dalla finestraMaso Laseider

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Il nuovo ingresso del maso Laseider è posto sul lato posteriore ed è preceduto da una

piccola veranda in legno su cui vengono lasciate, in base ad una sana consuetudine, le scarpe

utilizzate all’esterno. In questo modo si preservano anche le assi dei pavimenti dai graffi e dalla

consunzione. L’ingresso è nuovo, la cucina è nuova, tutto il piano superiore è stato rinnovato con

stile moderno e confortevole, ma senza stravolgere i canoni abitativi del maso tradizionale.

Dopo la realizzazione della strada, il piano superiore è divenuto la residenza principale

della famiglia: tre generazioni sotto lo stesso tetto, ma in spazi più ampi e razionali rispetto ad

una volta. La migliore accessibilità e la possibilità di scaldare e isolare al meglio le stanze hanno

esteso notevolmente gli spazi domestici utilizzabili tutto l’anno; allo stesso tempo le famiglie

sono meno numerose di un tempo e per i locali della casa ci sono più possibilità di utilizzo.

Il beneficio è significativo se si guarda alla funzionalità ma non sempre l’estetica e la no-

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biltà degli edifici ne guadagnano. In questo caso si è finito per sacrificare

l’antico accesso principale e i bei dipinti posti sul Talseite restano invisibili per

i visitatori che giungono al maso in automobile. La Vergine con il Bambino,

San Floriano e un insolito San Sebastiano sono così relegati sul retro dopo

che per secoli hanno dominato orgogliosamente la facciata imponendosi

dall’alto a tutti coloro che si recavano al Laseider, facendo da punto di rife-

rimento e mostrando a tutti la ricchezza, la nobiltà e la devozione del maso

e dei suoi abitanti.

Nella cucina la padrona di casa è alle prese con una torta di mele, gli

ingredienti sono pronti sul tavolo coperto da un asse per impastare. I profu-

mi e il tepore dell’ambiente creano un piacevole contrasto con la neve gelata

che batte lievemente contro il vetro della finestra.

L’attività principale del maso è l’agricoltura, ma solo il Bauer vi si dedi-

ca a tempo pieno. I figli, assenti durante la nostra visita, fanno i pendolari e

lavorano a Bressanone. Nella stalla ci sono solo mucche da carne. Una volta,

quando si lavorava soprattutto per il proprio consumo, il latte era un alimen-

to fondamentale e perciò tutti tenevano bestie da latte, ma oggi non è più

così: il latte andrebbe portato al caseificio che è troppo lontano e scomodo

per poterci andare tutti i giorni. Si potrebbe anche fare, ma non conviene

per via dei costi e del tempo necessario. Molto meglio allevare bestiame da

carne, che richiede meno lavoro e fornisce comunque un buon ritorno eco-

nomico.

Non è la prima volta che sentiamo fare discorsi simili da contadini del-

la generazione che ha vissuto e completato la transizione dalla sussistenza al

mercato. Abituati a gestire in proprio un’azienda, i Bauer del Sudtirolo han-

no rapidamente assimilato la mentalità imprenditoriale e, anche grazie alle

opportunità di formazione e di crescita offerte loro dalla Provincia Autono-

ma, si sono rapidamente evoluti assimilando concetti come specializzazione

produttiva, qualità, controllo, redditività. Insomma, per quanto riguarda lo

spirito di impresa, le Erbhöfe di montagna assomigliano sempre di più alle

Betriebe del fondovalle.

Al piano inferiore c’è l’antica abitazione con la Stube, piena di piccoli

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accorgimenti per rendere più confortevole la vita di un tempo: il supporto

mobile per la lanterna, il gancio su cui stendere gli abiti bagnati, le fes-

sure per bloccare il telaio da tessitore. C’è anche un pertugio nel soffitto

per comunicare con le soprastanti camere da letto, per parlare senza dover

scendere di sotto e anche per far salire durante la notte un po’ di calore al

piano di sopra. Un locale strutturato per soddisfare le esigenze di una fami-

glia contadina, organizzato secondo lo schema che ricorre di frequente nelle

case tirolesi. La Stube si trova sull’angolo della casa, con due lati aperti verso

l’esterno. Sull’angolo che dà verso l’interno della casa si trova la grande stufa

in muratura, circondata da una panca e ingabbiata in un castello ligneo con

soppalco. La stufa è a contatto con la sola parete del Labe in modo da poter

essere alimentata dall’esterno della Stube, evitando così all’interno la sporci-

zia, il fumo e le pericolose esalazioni. Dagli altri tre lati è staccata dai muri

così da offrire maggiore superficie radiante e da creare una piccola nicchia.

La distanza dalla parete più vicina è talmente minima che lo spazio è appe-

na sufficiente da poterci entrare e rintanarsi a godere il calore dell’angolo

più protetto della casa.

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All’opposto della stufa, lungo la diagonale, sta il tavolo. Appeso nell’angolo sopra il tavolo

c’è il crocefisso: è l’Herrgotteswinkel, l’angolo del Signore Dio, che da lì può abbracciare tutta la

stanza, come a rendere visibile la presenza dello sguardo divino nella vita di tutti i giorni. Tal-

volta si può anche trovare la colomba dello Spirito Santo scolpita ed appesa, sempre sopra il

tavolo, oppure intagliata nelle tavole del soffitto. Altre volte, invece, l’occhio divino inscritto nel

triangolo protegge e osserva la vita della famiglia.

Il resto della stanza è lasciato libero per il movimento, per il lavoro, per il riposo. Ogni

tanto c’è un lettino che è utilizzato come divano durante il giorno e come letto per gli anziani e

gli ammalati durante la notte. Non ci sono armadi perché le cose, diversamente dalle persone,

non hanno bisogno di stare al caldo. Tutta la stanza è foderata di legno con tavole lisce oppure

intagliate e decorate con motivi diversi, veri e propri capolavori di arte popolare.

Infine ci sono le finestre, che sono gli occhi e il polmone della casa. Nei masi posti sui

fianchi alti della valle, la finestra è lo sguardo verso l’esterno, il modo di spezzare l’isolamento

perché guardare dalla finestra della Stube permette di abbracciare un mondo che è tanto più

vasto quanto più distante, isolata e solitaria è la posizione del maso. E non sarà certo un caso

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che proprio qui, nell’ultima casa alla fine della strada, in corridoio siano ap-

pese fotografie con paesaggi e volti tipicamente andini: di montanari poveri

e abbandonati del nostro tempo, montanari per i quali possono spendersi

oggi quelli non più poveri e non più abbandonati delle montagne sudtiro-

lesi. Come Sabine, figlia del Laseider e cooperatrice in Bolivia, che proprio

guardando dalla finestra della sua Stube deve aver imparato ad abbracciare

il mondo.

Maso Laseider. Comune di Luson, 1500 metri sul livello del mare

L’edificio si trova su un pendio ripido, al termine della strada asfaltata con vista

sull’alta valle di Luson. L’edificio, recentemente ristrutturato è interamente in muratura e

mostra sul lato a valle delle pregevoli pitture murali. La stube in legno di cirmolo è datata

1853.

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14. 3. 2007

In una scintillante mattina di primavera prendiamo la via del Mitterberg. Il

sole, straordinariamente caldo per una giornata di marzo, fa brillare la neve

sulle Alpi Aurine e le fa risplendere di una bellezza abbagliante.

Da una ventina d’anni una strada asfaltata sostituisce il sentiero che

risaliva l’Hopfgartenbach mettendo in comunicazione la costa punteggiata

di masi con il Rio dei Molini. In questa regione la colonizzazione non supera

i 1700 metri di altitudine, ma il paesaggio e il clima sono gli stessi dei luoghi

più elevati che abbiamo toccato finora.

Il maso Holzer è un piccolo agglomerato di edifici con un primo grup-

po, più antico, posto sulla strada e un altro, di recente costruzione, nel bo-

sco poco più in alto. Nel nucleo inferiore ci sono un’abitazione, il fienile

CrociMaso Holzer

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con la stalla, la rimessa degli attrezzi, il mulino. Le nuove

costruzioni comprendono un’altra casa di abitazione e un

secondo edificio con alloggi da affittare. Sbirciando dal ve-

tro del piano terra si intravedono nuovissimi macchinari

per lavorare il legno, assi piallate e pezzi di mobili pronti

per essere assemblati. Un’attività artigianale è fatto insolito

in un maso a queste quote ma è il frutto della crescente

specializzazione produttiva che ha rimpiazzato l’autarchia

tipica dei masi di montagna.

Il complesso inferiore è senza dubbio il più interessan-

te. La casa è quasi interamente in muratura; sulla parete a

valle fa bella mostra di sé una pittura murale di San Floria-

no intento a spegnere il fuoco con il suo secchio pieno d’ac-

qua. Tutto attorno è un moltiplicarsi di splendide strutture

lignee, da cui probabilmente la scelta di affidare il maso al

Santo protettore dagli incendi. Il fienile è una costruzione

imponente appoggiata su un basamento di pietre a secco,

la rimessa è interamente tappezzata da legna accatastata

con ordine certosino e il mulino, in disuso, lascia cadere

dalla gronda, anch’essa di legno scavato, gocce d’acqua

che colano dalla neve marcia accumulata sugli spioventi.

Attorno al maso Holzer fioriscono da ogni lato cro-

cefissi di legno dall’aspetto tipicamente tirolese. Sono tutti

uguali nella fattura e circondano la casa da ogni lato come

dei guardiani disposti a sentinella tutto attorno al maso.

Ognuno mostra un cartello con una preghiera di poche

righe in rima, i cartelli sono concatenati tra loro a formare

un’unica sequenza.

Per primo si incontra il Bildstock allo sbocco del sen-

tiero. è il luogo dove il viandante si ferma per tirare il fiato

e per riconoscere con umiltà la propria pochezza di fronte

alla grandiosità del Creato ed affidarsi al Creatore:

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Hier unter Deinem Kreuz

Will ich in Demut stehen

damit Dein Reize

Dir willig nachzugehen.

Qui sotto la Croce

Voglio sostare in umiltà

Perché il tuo stimolo

Mi faccia seguire docilmente Te.

Poco più sopra l’immagine del Cristo sofferente, esposto

alle intemperie che hanno annerito e scheggiato la statua

appesa alla croce fino a farla sembrare un rottame arruggi-

nito e contorto, è l’emblema del dolore ma anche del dono

di sé. Nella sua povertà e debolezza l’uomo della monta-

gna si domanda in che modo essere degni di questo dono:

Voll der Wunden, voll der Schmerzen

Stirbst am Kreuze, Du für mich;

Groß ist Deine Lieb’, o Jesus

Und was tat denn ich für Dich?

Pieno di ferite, pieno di dolori

tu muori per me sulla croce;

grande è il tuo amore, o Gesù

e cosa faccio io per Te?

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In prossimità della strada una croce è stata strappata dal luogo originario. Il

tempo e l’acqua hanno fatto marcire il legno con cui era conficcata nel ter-

reno, ma l’instabile Bildstock non è stato abbandonato e nemmeno sostituito:

l’hanno raddrizzato di nuovo e con il filo di ferro lo hanno legato ad un palo

del telefono.

Du uns ermahne,

treu zu sein bis in den Tod.

Heiliges Kreuz, sei unsere Fahne

die uns führt durch Kampf und Not.

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Esortaci

ad esserTi fedeli fino alla morte.

Santa Croce, sii la nostra bandiera

che ci guida nella battaglia e nel pericolo.

L’ultimo messaggio attende il passante proprio sulla porta di

casa: un messaggio di speranza in un futuro migliore, ma anche

l’invocazione alla protezione dai mali quotidiani, dal buio, dal

fulmine, dai temporali, dal cattivo tempo, che tanti danni provo-

ca alle campagne e contro cui il contadino non può far nulla:

Sein Reich ist nicht von heute

vergeht über Nacht.

Vergänglich sind die Zeiten

doch einig Seine Macht!

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Von Blitz und Ungewitter

Verschone uns o Treu!

Il Suo Regno non è di adesso,

è al di là della notte.

I tempi sono fugaci

ma la sua potenza è una sola!

Dal fulmine e dal cattivo tempo

proteggici o Dio fedele!

Tale era la religiosità contadina di una volta: scandita dai tempi della giornata e dalla preghiera,

spesso mescolata con la superstizione ma devota, umile e sottomessa. Fede semplice e incrollabi-

le che per secoli ha caratterizzato la montagna tirolese senza che il dubbio la incrinasse, nemme-

no quando la Riforma ha sconvolto le coscienze e la fede in buona parte del mondo germanico

o quando la Rivoluzione Francese ha sparso in tutta l’Europa gli ideali laici dell’Illuminismo.

La nuova sfida lanciata dalla modernità sta mettendo in crisi questo sistema e le croci, che un

tempo proteggevano la campagna e le persone, devono essere a loro volta protette dall’incuria,

dalla stupidità dei vandali e dall’ingordigia senza scrupoli dei collezionisti di città.

Maso Holzer. Comune di Selva dei Molini, 1549 metri sul livello del mare

Si trova a mezza costa nella valle dei Molini, collegato al fondovalle con una strada asfaltata. Accanto

agli edifici originari oltre al consueto binomio abitazione più stalla-fienile, è presente un complesso di edifici di

supporto – legnaia, rimessa, mulino – che danno al maso una certa consistenza. Nei pressi sono stati realizzati

due nuovi edifici moderni che ospitano alloggi e un laboratorio artigianale.

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14. 3. 2007

Ai due masi di Viertler non c’è più nessuno. Il maso superiore è inutilizzato,

i proprietari vengono ogni tanto solo per controllare che sia tutto a posto e

per quel minimo di manutenzione che consente di evitare la rovina. Quello

inferiore ospita una stalla ma non è più abitato.

Le pecore e le vacche appartengono a Josef, che vive poco più in basso,

sempre sulla costa settentrionale della Valle dei Molini. Ogni giorno sale per

prendersi cura degli animali e del prato. Josef è davanti alla porta della stal-

la, sotto una tettoia che ospita una trentina di pecore, per lui le pecore sono

l’occupazione principale ma anche una passione. Lavora anche in fabbrica,

ma considera questa attività come un secondo lavoro, necessario per inte-

grare il reddito, infatti non appena può sale a Viertler a governare la stalla.

I belati fanno da sottofondo sonoro alla nostra conversazione e se da un

Trecento pecoreMaso Viertler

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lato ostacolano le mie capacità di compren-

sione dell’ostico accento Aurino sono anche

il pretesto per animare la conversazione. In-

curiosito da questi animali, sommergo il po-

vero pastore con una raffica di domande da

assoluto profano: – Quante pecore ci sono

nel gregge? Di che razza? Stanno sempre

all’aperto? Sono da lana? Da latte? Da car-

ne? Che fine fa la lana? C’è ancora qualcuno

che la lavora in casa? Che cure richiedono?

Come distinguo una buona pecora da una

così così? Quanto costa una pecora? Quan-

ta lana fa? Quando si fa la tosatura? Come

funziona? E avanti a raffica…

Josef pazientemente risponde, accet-

tando di interrompere momentaneamente

il suo lavoro. Le sue sono quasi tutte razza

Tiroler Bergschaf, pecore di montagna tirolesi.

è un animale che si adatta particolarmente

alle condizioni di vita in montagna perché

riesce a spostarsi anche sui pendii più ripidi.

La postura è il pregio principale di questa

razza che si caratterizza nell’aspetto per le

orecchie pendule, il “profilo nobile” e l’as-

senza di corna anche nel maschio.

La tosatura si fa due volte l’anno, in

primavera e al ritorno dall’alpeggio; una

buona pecora produce dai cinque ai set-

te chili di lana, che poi va lavata e trattata.

Il prodotto viene poi conferito ai lanifici di

Brunico, che lo lavorano per realizzare so-

prattutto i panni di loden, tornati di moda

dopo un lungo periodo di declino. Una volta

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il popolo si vestiva con i materiali che poteva

produrre e confezionare in casa: lino, pelle e

naturalmente lana. Il loden era il tipico tes-

suto prodotto in proprio ed era il più diffuso

materiale per gli indumenti invernali, gra-

zie alle sue buone caratteristiche di calore e

impermeabilità. L’area di Brunico fu tra le

prime ad industrializzare la produzione del

loden e con la produzione industriale si dif-

fuse anche la tipica colorazione verde scura,

ottenuta grazie all’impiego degli estratti di

una pianta – la Genista Tintoria Linnei.

Toccato dalla mia curiosità, mi consi-

glia di andare a visitare la Mostra Biennale

della Tiroler Bergschafe, quest’anno si terrà il

14 aprile a San Giacomo in Valle Aurina.

Lì potrò ammirare gli esemplari migliori e

parlare con allevatori ed esperti.

Trecento pecore, agnelli, montoni,

tutti bianchi, morbidissimi, rumorosi. I be-

lati degli agnelli e le risposte delle madri si

mescolano con il suono dei campanelli e il

chiacchiericcio di una piccola folla di alleva-

tori e di curiosi. Bambini vestiti da pastorelli

si rincorrono tra le file degli animali legati a

delle ringhiere di legno, un carretto traina-

to da una capra assicura il rifornimento di

bevande rinfrescanti. è una bella giornata

di sole e nel prato dell’esposizione non c’è

un filo d’ombra. Una signora in costume

aurino vende il catalogo con i dati di tutti

gli animali esposti: il nome, la stalla di pro-

venienza, la data di nascita e le valutazioni

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ottenute da ogni esemplare alle manife-

stazioni precedenti. Sono rappresentate

130 imprese di sei diverse associazioni di

allevatori, i migliori esemplari di tutta la

Pusteria sono radunati per questo con-

corso. Attacco discorso con il signor Hans

Jörg mentre passeggia in cerca di qualche

possibile innesto per la sua stalla model-

lo.

– Se volessi comprare una pecora

quanto potrebbe costare? – domando, te-

nendo il catalogo in mano e simulando

un atteggiamento competente.

– Qui le pecore sono solo in mostra

– racconta Hans Jörg – Ufficialmente non

si compra e non si vende ma nulla vieta

di buttare là qualche mezza parola e di

imbastire il discorso per poi accaparrar-

si i pezzi più interessanti. Le pecore della

Valle Aurina sono le migliori. –

E se a dirlo è Hans Jörg, che viene

dalla Val Passiria, non c’è rischio che si

tratti solo di una espressione campanili-

stica.

– Cosa dovrei guardare per scegliere

un bell’esemplare? – aggiungo, visto che

il mio interlocutore risponde volentieri.

– Innanzitutto le orecchie. –

– Le orecchie?! – mi meraviglia

un po’ questa storia – Cosa c’entrano le

orecchie?

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– Le orecchie c’entrano perché i giudici fanno un segno con il penna-

rello sulle pecore che hanno già visto: rosso per le migliori, verde per quelle

di seconda scelta, blu per la terza.

– Ora capisco. Ma i giudici come fanno a distinguere una pecora di

prima scelta?

– Ci sono cinque classi di punteggio: Typ, ovvero l’aspetto generale, la

prima impressione; Rahmen cioè le dimensioni, che devono essere entro certe

proporzioni; Vorrum ovvero l’espressione, la vivacità e il movimento che deve

essere sciolto e docile allo stesso tempo; Fundament ovvero la postura, le gam-

be devono essere dritte e parallele, ben piantate a terra e infine Wolle, la lana

che deve essere tanta ma soprattutto morbida. Per ogni categoria viene dato

un punteggio da uno a nove, ma già sette è un ottimo punteggio.

– Un bell’esemplare può costare da 500 a 2000 Euro, dipende dall’età,

quelle più giovani costano di più perché hanno davanti più anni per produr-

re e anche per partorire. Ci vogliono 2-3 generazioni di incroci per avere

delle buone pecore da concorso, è importante avere più possibilità di ottene-

re buoni agnelli. Considera che la lana si vende a circa un Euro al chilo… ci

vogliono molte pecore per poter vivere solo di quelle. –

La gara prosegue quasi sommessamente: uno per volta gli esemplari da

esposizione vengono slegati dalle ringhiere di legno lungo cui sono allineati e

vengono portati nel mezzo di un cerchio, osservati, palpeggiati, esaminati. Si

mostrano senza scomporsi, con ovina indifferenza, e poi ritornano assieme

agli altri. Al termine della sfilata e prima della premiazione ci sono i discorsi

delle autorità, il sindaco, il presidente dell’associazione allevatori, l’assessore

provinciale all’agricoltura. Chiude il parroco con la benedizione:

– Dio creò tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo e li

condusse davanti all’uomo perché desse loro il nome… Dio Onnipotente,

hai messo le tue creature nelle mani dell’uomo; invochiamo su di loro la

protezione di San Wendelin e del Beato Klaus von der Flue, di Sant’Anto-

nio Abate, San Marco, San Giorgio, San Leonardo, San Francesco di Assisi,

Santa Notburga… –

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Una bella trafila di Santi viene scomodata a protezione degli animali. Un tempo i pericoli

erano tanti e dall’allevamento dipendeva una buona fetta della sopravvivenza dei contadini di

montagna. Anche oggi è ben evidente l’amore verso gli animali e l’orgoglio per il loro lavoro

degli allevatori presenti. Si vede nella scelta degli abiti indossati per l’occasione, nei cappelli

affollati di spille e decorazioni, nelle espressioni commosse e soddisfatte sul volto dei vincitori. I

migliori allevatori ricevono in premio una campanella e una coccarda da appendere sulla porta

della stalla, le migliori pecore una manciata di sale e lo sguardo compiaciuto del pastore, felice

di fregiarsi del titolo di allevatore modello per i prossimi due anni e pieno di gioia per la bellezza

dei suoi animali.

Maso Viertler. Comune di Selva dei Molini, 1623 metri sul livello del mare

Il maso si trova al termine della medesima strada che collega Maso Holzer alla valle dei Molini. Si trova

in stato di parziale abbandono, solo la stalla ed i terreni sono ancora utilizzati mentre l’abitazione è chiusa da

tempo. Fuori del maso è interessante il forno per panificazione costruito in muratura lontano dalla casa.

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23. 3. 2007

A San Nicolò in Val d’Ultimo le case sono disposte lontano le une dalle altre,

con una siepe che divide tra loro gli orti e le pertinenze. Le case sono dispo-

ste a scacchiera lungo il pendio per non intralciare le une alle altre la vista

del sole. La chiesa col campanile a punta è al centro di tutto, ma il paese non

è il luogo dove risiede la maggior parte degli abitanti, piuttosto è la località

dove si trovano i servizi: il negozio, il medico, il municipio, il bar.

Prima di affrontare la salita verso i masi sullo Steinberg decidiamo di

fare tappa al bar per un caffè. Nel locale una decina di avventori, tutti uo-

mini, è occupata a chiacchierare, bere, leggere il giornale. Il nostro ingresso

nel locale coglie tutti di sorpresa: il chiacchiericcio si interrompe, carte e bic-

chieri rimangono sospesi e si diffonde una fastidiosa sensazione di intimità

violata. Si direbbe che i residenti non siano abituati a vedere estranei nel loro

Fuori programmaCasa Perger

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bar e l’atmosfera è carica di reciproco imbarazzo.

Un anziano con lo Schürze blu si siede accanto a noi: salutiamo e chiediamo informazioni

sulla strada da seguire. Mostro la mia copia degli Eredi e le foto di Faganello. Lui riconosce i

compaesani ritratti e le passa al tavolo vicino. C’è chi ritrova parenti, conoscenti, il suo maso ed

anche se stesso sul libro. La tensione si allenta, in un attimo la curiosità è soddisfatta, il gioco ri-

prende più rumoroso di prima e anche noi, non più estranei, troviamo una collocazione in que-

sto microcosmo paesano. In pochi minuti facciamo conoscenza coi fratelli del maso Wiesfleck.

Ci danno le indicazioni sulla strada da percorrere. Sembrano semplicissime: sempre dritto fino

al bivio e poi a sinistra. Ripartiamo ristorati e soddisfatti.

Le indicazioni per raggiungere la nostra meta sono semplicissime solo per chi sa già la

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strada, difatti noi finiamo per perderci un paio di volte di troppo. La strada per

Sankt Moritz esisteva già negli anni ’60 e da allora le diramazioni che raggiungo-

no i masi del Grubberg si sono moltiplicate al punto che ora è difficile orientarsi.

La nebbia e la neve che cade fitta non facilitano le cose per cui, giunti al termine

dell’asfalto, non resta che chiedere nuovamente informazioni.

Alla finestra di una casa tutta di legno, il viso di una bambina bionda fa capo-

lino tra i ricami di ghiaccio sul vetro. Dopo averci visto scappa in casa a chiamare

qualcuno. Busso alla porta. Non faccio nemmeno in tempo a spiegare il problema

che mi ritrovo seduto al tavolo della Stube con un bicchiere di succo fatto in casa e

tutta la famiglia impegnata a consultare la carta escursionistica.

Sul Grubberg e sul Breiteben tra un maso e l’altro ci sono poche centinaia di

metri, spesso da una casa se ne possono vedere altre quattro o cinque, specialmente

dove le pendenze si fanno meno aspre e si aprono conche erbose segnate dai Waale

e dalle Zäune, i canali irrigui e i recinti di legno. Gli incontri con il vicinato sono fre-

quenti e, nonostante spesso i vicini di casa siano anche parenti, si ha la sensazione

di appartenere ad una comunità oltre che ad una famiglia.

La giovane famiglia Ausserer si fa letteralmente in quattro per darci una mano,

ma anche per raccontarci della sua esperienza di maso. Il padrone di casa non fa il

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contadino: la terra è gestita dal fratello, mentre lui lavora come falegname e

carpentiere. Peter è un uomo di poche parole e molti fatti. Ha costruito da

solo la sua casa e l’ha arredata costruendosi i mobili e inventando soluzio-

ni che, pur affondando le radici nella tradizione, farebbero diventare verdi

dall’invidia i celebri costruttori svedesi di librerie componibili. La valle è

sempre stata molto povera e le risorse per ristrutturare i vecchi masi e per

costruirne di nuovi hanno iniziato ad affluire quando già si era affermata

una forte identità territoriale e una grande sensibilità verso la tipicità dell’ar-

chitettura e del paesaggio. In Val d’Ultimo è difficile vedere costruzioni fuori

luogo per stile e caratteristiche.

Veronika, che ci ha visto arrivare dalla finestra, si è già abituata alla

nostra presenza, gioca con una grande palla di gomma saltando avanti e

indietro per il corridoio di casa, mentre la piccola Elisabeth si nasconde in

braccio alla mamma. C’è una piacevole aria domestica: la stufa è accesa e

le pentole borbottano sotto lo sguardo vigile di Peter. Gudrun, la mamma,

insegna religione alle scuole elementari e mi piacerebbe domandarle delle

tradizioni, religiose e non, e di come vengano vissute e tramandate al giorno

d’oggi. Lei risponde di non essere la persona più indicata. Infatti non è della

Val d’Ultimo; è originaria della Venosta, terra di mele e di vino, un ambiente

ben diverso da quello del maso. è salita fino al limite ultimo della montagna

per amore e con amore accudisce la casa, il marito e le bambine. I primi

fili d’argento compaiono tra i suoi capelli ma l’entusiasmo è quello di una

ragazzina.

Ci incontriamo di nuovo, sempre nella Stube qualche settimana più tar-

di. La stagione è cambiata, i prati sono verdi punteggiati di fiori gialli, l’aria

è tiepida, nella stanza il profumo del legno si mescola con quello dell’aria

primaverile. Hanno invitato un amico di famiglia, Arnold Lösch, che per

tanti anni è stato maestro a San Nicolò e San Maurizio.

Il pomeriggio scivola via chiacchierando di antiche tradizioni e nuove

abitudini, tra un bicchiere di Holundersaft, succo a base di fiori di sambuco,

e una fetta di speck tagliato spesso. Scopro così la ricchezza del patrimonio

culturale della valle e di come ogni cosa sia cambiata nel tempo, evolvendosi

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nella direzione di una maggiore laicità e razionalità, senza però interrom-

pere del tutto il legame tra la popolazione e le tradizioni che ne definiscono

l’identità.

Quello di allora era un piccolo mondo in cui il sagrestano suonava

la campana contro la grandine per poi fare il giro dei masi a reclamare il

compenso per il suo servizio, in cui partecipare alle funzioni era un dovere e

farlo da protagonisti, portando a spalla la statua o il gonfalone, era un onore,

in cui le erbe benedette venivano tenute come amuleto a protezione contro il

maltempo e le malattie del bestiame. C’era perfino una versione tradizionale

della festa di Halloween; non erano i bambini, però, a fare il giro dei masi

chiedendo soldi e caramelle, ma i poveri, che chiedevano cibo e denaro di

casa in casa indossando una maschera per non farsi riconoscere.

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Molte tradizioni hanno perso il loro carattere originale, le assicura-

zioni e i veterinari hanno sostituito i santi, le preghiere e le campane nella

protezione dei campi e delle bestie. La tradizione però è ancora rispettata e

quando arriva il momento nessuno fa mancare un mazzetto di fieno bene-

detto in casa e non c’è temporale in cui le nubi nere e minacciose non siano

accolte dallo scampanìo di tutte le chiese della valle.

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Casa Perger. Comune di Ultimo, 1550 metri sul livello del mare

Casa Perger, a differenza di tutte le altre località descritte nel libro, non è un maso in

senso proprio, non è un Erbhof e quindi è un po’ un intruso in questo lavoro. Ci siamo ca-

pitati per caso dopo aver sbagliato strada. La casa è stata costruita di recente e il legno con

cui è stata realizzata mantiene ancora la colorazione chiara delle case nuove. Le tecniche di

costruzione, però, sono le stesse degli edifici tradizionali e indicano una grande sensibilità

culturale e una spiccata attenzione per i particolari.

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23. 3. 2007

Von Kindern und Krapfen hat man nie zu viel. Krapfen isst man, und Kinder geben

Leut ab Und Leut kann man brauchen zu der vielen Arbeit, bei den Bergbauern droben

[...] Nur zu viel Lohn dürfen die Arbeitsleute nicht fordern, das erträgt kein Bauerngutl.

Mit eignen Kindern tut man sich da eben leichter.

Di bambini e di krapfen non se ne hanno mai troppi. I krapfen si mangiano e i

bambini li si fa lavorare: di braccia lassù tra montanari ne servono sempre per il carico di

lavoro [...] Ma i lavoratori non possono pretendere una paga troppo alta; nessun maso la

può sostenere. Con i propri bambini le cose sono più facili.

Così apre un testo tedesco degli anni ’40 sullo stile di vita dei contadini tiro-

I bambiniMaso Wiesfleck

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lesi. Il titolo è un inno alla gioia di vivere in montagna Lächendes Tirol, ma fin

da subito si capisce che in verità c’è ben poco da ridere. Da mangiare non

ce ne è mai troppo e di bambini nemmeno, perché c’è da lavorare e, sicco-

me i bambini lavorano gratis, sono la manodopera ideale. Pensare che sono

passati solo sessant’anni: da mangiare ce ne è fin troppo e i bambini sono

sempre meno numerosi. Di buono c’è che sicuramente i bambini nei masi

non sono più i surrogati a basso costo dei servi agricoli; forse non lo sono mai

stati, ma ora meno che mai.

I bambini dei masi sono creature amate, coccolate, vezzeggiate e pro-

tette come i loro colleghi di città. In più possono godersi una libertà di mo-

vimento, di gioco, di esperienze infinitamente maggiore rispetto ai loro coe-

tanei di fondovalle. I limiti stanno semmai nella possibilità di incontrare altri

bambini oltre ai propri fratelli: la macchina accorcia le distanze tra la casa e

il lavoro, tra la casa e il negozio, ma solo per chi guida. In montagna i bam-

bini si muovono con la stessa difficoltà di un tempo, con lo svantaggio che,

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in famiglie sempre meno numerose, sono sempre più sparsi e non possono

contare sui fratelli maggiori per essere accompagnati lungo strade e sentieri.

Per andare a scuola c’è l’autobus che passa fino davanti alla porta di casa,

ma per trovare qualcuno con cui giocare?

Incontrare nei masi delle famiglie giovani è piuttosto raro, e i bambini

sono due o tre al massimo: tanti rispetto alle famiglie minime della città,

pochi se si pensa ai tempi in cui sei, otto creature affollavano la Stube nelle

sere d’inverno, e ogni giorno affrontavano in gruppo la lunga discesa verso

la scuola e la seguente risalita al maso.

I masi della Val d’Ultimo sono stati in questo senso una piacevole sor-

presa: prima le due bambine della famiglia Ausserer, poi altri tre bambini al

Wiesfleck e altri tre al non lontano Zernbrigl. Vivaci e sorridenti, impedisco-

no che la Stube, con le sue antiche fodere in legno, si trasformi in una stanza-

museo, riempiendola di una confusione allegra di giocattoli, pennarelli e

coloratissimi fumetti.

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Ullrich, Rosa e i loro tre bambini Sabrina, Patrick e Dominick abi-

tano il maso Wiesfleck. Al nostro arrivo ci fanno immediatamente entrare

nella Stube. Il trio dei bambini ha apparecchiato il tavolo per una partita di

Monopoli, con blocchetti di soldi finti, case, alberghi e ipoteche colorate. La

curiosità per gli ospiti sconosciuti è probabilmente più allettante rispetto alle

speculazioni immobiliari, così per un po’ i tre si disinteressano alle migliaia

di Euro virtuali in attesa di passare di mano in mano durante la partita di

Monopoli. Sabrina previene le mie scuse per aver interrotto il gioco: la parti-

ta è appena iniziata ed è troppo presto perché qualcuno possa averne a male

per aver perduto l’occasione di accumulare una fortuna a spese dei fratelli.

I ragazzi sono contenti di farsi fotografare mentre si esibiscono in spe-

ricolate evoluzioni sul castello della stufa. Davanti ad una porta fa bella mo-

stra sulle assi del pavimento una batteria di automezzi pronta e schierata per

qualsiasi intervento di emergenza.

Oltre che di giochi e di bambini la Stube è affollata di trofei di caccia,

rigorosamente ordinati per data e luogo di cattura. La zona è sicuramente

ricca di selvaggina, anche noi abbiamo avvistato un gruppetto di sei o sette

caprioli al pascolo, e la cosa sembra interessare non poco il padrone di casa

che ci chiede di specificare i dettagli del nostro avvistamento.

Da oltre due secoli la caccia ha perso in Tirolo la sua prerogativa di

sport dei nobili per diventare parte delle attività e della cultura popolare.

Oggi non si tratta più tanto di procurare un’integrazione all’alimentazione

ed al reddito familiare, ma piuttosto di una passione personale. Ulrich è

sicuramente mosso da questa passione e la caccia per lui non si esaurisce

nell’abbattere la preda, ma coinvolge il suo tempo libero prima e dopo il

colpo fatale: ne sono testimoni i trofei appesi alle pareti, gli oggetti lavorati,

i quadri con scene di caccia realizzati da un pittore di San Nicolò. La Stube

è una selva di corna di capriolo appese al muro ed a ciascun trofeo è legata

una storia. Non sono tutte prede dell’attuale Bauer, alcune appartengono al

padre Luis, altre al nonno Josef. La caccia è una passione che si tramanda.

Anche i giovani Patrick e Dominick diventeranno cacciatori un giorno e,

chissà, magari anche Sabrina. Il ritratto di Ulrich con un cervo maestoso

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sta appeso nel centro della parete, proprio accanto al quadro del matrimonio. Sorridente ed

elegante nell’abito scuro nell’uno, orgoglioso e soddisfatto in tenuta da montagna nell’altro.

Maso Wiesfleck. Comune di Ultimo, 1620 metri sul livello del mare

L’edificio principale del maso è stato realizzato nel 1913, anche in questo caso l’istituzione del maso è

certamente più antica. Lo stabile è quasi interamente realizzato in legno secondo l’uso della val d’Ultimo. Accanto

all’abitazione si trova la stalla, anch’essa in legno. Per giungere a Wiesfleck si percorre da San Nicolò una strada

asfaltata di 5 chilometri attraverso un’area densa di masi. Altri masi abitati sorgono non lontano da Wiesfleck.

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14. 4. 2007

Prima di prendere la via dei monti, durante la nostra tappa a San Nicolò,

abbiamo approfittato per fare un po’ di spesa al panificio. Le onnipresenti e

spettacolari Bäckerei hanno sostituito i forni domestici e, da quando le comu-

nicazioni sono diventate più agevoli, nessuno più utilizza i vecchi forni per

fare il pane che lentamente cadono in rovina. Il pane fresco comprato ogni

mattina in paese è una delle tante conquiste del montanaro moderno.

Quando era necessario essere autosufficienti in tutto, i masi erano sem-

pre dotati di un loro forno e, spesso, anche di un mulino per la macina dei

cereali. Il forno poteva essere tanto parte dell’abitazione, una semicupola

sporgente lungo il fianco dell’edificio, oppure costruito come un piccolo edi-

ficio indipendente a qualche decina di metri dalla casa; nei masi costruiti

Il paneMaso Zernbrigl

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quasi interamente in legno la seconda soluzione era preferita per ovvie ra-

gioni di sicurezza.

Il mulino del maso sfruttava la forza dell’acqua dei torrenti di mon-

tagna, opportunamente dosata e incanalata in strutture di legno (Waale). I

mulini di fondovalle erano imprese autonome, in cui si pagava un tanto al

mugnaio per macinare i propri cereali ma in alta quota i mulini erano spesso

proprietà in di uno o più masi. La gestione comune del mulino tra più masi

era un fatto frequente, perché non era facile trovare luoghi adatti per costru-

ire mulini e comunque il loro utilizzo era limitato a pochi giorni all’anno.

Per prima cosa sono stati lasciati i campi. A certe altitudini non convie-

ne coltivare cereali che richiedono molto lavoro e producono magri risultati:

meglio tenere solo prati e comprare il grano a valle. Poi anche i mulini hanno

subìto la stessa sorte: meglio comprare direttamente la farina già macinata

nei mulini industriali per fare meno fatica e ottenere un prodotto migliore.

Ora molti vecchi mulini sono in stato di abbandono, destinati alla rovina o

alla trasformazione in depositi e rimesse. Per ultimi sono stati messi a riposo

anche i forni: quando la disponibilità di soldi e la facilità dei trasporti ha fat-

to sì che tutti potessero permettersi di comprare il pane già pronto e fresco

ogni settimana, il pane casalingo ha perso gran parte della sua attrattiva.

Nonostante la nostalgia di alcuni, il pane fatto in casa nei masi era di

bassa qualità e il sapore mediocre, tanto che per migliorarlo venivano ag-

giunti all’impasto semi di finocchio, anice, coriandolo o cumino. Le materie

prime erano genuine ma povere, la macinazione approssimativa, la cottura

era molto delicata e veniva effettuata in forni difficili da regolare per tempo

e temperatura. La conservazione del pane, infine, era un grosso problema:

la panificazione era un lavoro complesso che teneva occupata l’intera fami-

glia per una giornata, e non poteva essere fatta di frequente. Il pane veniva

prodotto due-tre volte l’anno e poi lasciato ad essiccare su delle griglie (Brot-

rahmen) su cui i pani piatti e rotondeggianti venivano allineati come dischi

su uno scaffale, relativamente al riparo dall’umidità, dai roditori e dagli in-

setti. Inutile dire che il pane rinsecchiva in fretta e diventava talmente duro

che per romperlo bisognava usare un apposito strumento, il Brotgromml, un

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tagliere speciale con il coltello incorporato fatto in modo che nemmeno le briciole andassero

perdute.

Oggi la tradizione del pane tirolese sopravvive nei forni artigianali che sono vere e proprie

stanze delle meraviglie in cui il pane di segale, fresco o secco (Schuttelbrot), fa compagnia a tante

altre qualità di pane tradizionale ed esotiche e ai dolci terribilmente invitanti.

La signora Huberta racconta molte cose sul pane. Lei, che vive al maso Zernbrigl di sopra,

fa ancora il pane in casa, per la sua famiglia: il marito e tre bambini, Silvia, Cindy e il piccolo

Philip. Il pane di Huberta non è lo stesso di venti trenta anni fa. Benché l’abitudine a fare il pane

in casa possa apparire come una sopravvivenza dell’antica autonomia domestica del maso,

questo è tutta un’altra cosa. Il pane viene preparato tutti i giorni e, soprattutto, è impastato, lie-

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vitato e cotto utilizzando una moderna macchina elettrica che si compra nei

negozi di elettrodomestici e fa quasi tutto da sé: basta mettere gli ingredienti

nelle dosi indicate, impostare il tempo di cottura ed avviare il procedimento,

al mattino dopo si trova il pane fragrante e ancor caldo. Il pane di Zernbrigl

non ha nulla a che fare con le croste dure di pane di segale, né con la fame

e la povertà, piuttosto con il piacere di avere il pane fresco a colazione, visto

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che il forno più vicino è comunque troppo lontano.

Il maso inferiore è disabitato. I proprietari salgono ogni tanto, d’estate soprattutto. Mi

guardo attorno e vedendo solo nebbia ed alberi scuri domando se non ci si senta soli a stare in

un posto del genere tutto il giorno, tutti i giorni.

Huberta fa spallucce. è abituata e non si sente sola. Ci sono i bambini e poi ci si scam-

biano visite con i vicini, che sono anche parenti. I bambini, quando il tempo è bello, vanno e

vengono da un maso all’altro. In tanti masi gli uomini stanno via tutto il giorno per il lavoro.

Sono in pochi che vivono solo con la stalla, tanti addirittura tengono solo una o due mucche per

il consumo personale, ma poi lavorano come operai forestali, negli impianti da sci oppure nelle

segherie a valle.

Anche di turisti se ne vedono pochi: nella cattiva stagione stanno solo dove ci sono le piste

da sci, mentre in estate salgono lungo i sentieri e capitano anche qui, ma non sono abbastanza

per avviare un’attività. Il sentiero è troppo ripido e troppo poco interessante.

Di trasferirsi in città neanche a parlarne, ma nemmeno a San Nicolò Huberta scendereb-

be volentieri.

– E perché? è bello vivere nel maso. Non manca niente e non ci sono preoccupazioni o

stress. Tutte le persone che vengono dalla città dicono che qui è bello e c’è pace. Però poi non

vivrebbero qui, stanno quindici giorni per le vacanze e poi tornano in città a casa loro. Si vede

che non sono abituati. Io non potrei mai stare in città .–

Il piccolo Philip ha deciso che è ora di riprendersi la sua mamma, così saluto e faccio ri-

torno alla macchina.

Maso Zernbrigl. Comune di Ultimo, 1625 metri sul livello del mare

Zernbrigl è un piccolo nucleo composto di due distinti masi, ciascuno composto di due edifici: il primo edifi-

cio adibito ad abitazione ed il secondo che ospita stalla e fienile. Solo uno dei due masi è abitato permanentemente

ma entrambi vengono regolarmente mantenuti e anche il secondo viene temporaneamente abitato. Si dice che sia

uno dei masi più antichi della valle. Il maso si trova sulla stessa strada di maso Wiesfleck, a poca distanza da

quest’ultimo.

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24. 4. 2007

A fianco del castello di Monguelfo si inerpica la cosiddetta Strada Romana

da cui, con un viottolo sassoso, si raggiunge maso Kaarmann. Il maso è

costruito su un tratto di pendio aperto sulla media Pusteria. Da lì è bello sof-

fermarsi ad ammirare il profilo morbido dei monti, il luccichio della Rienza

e l’andirivieni delle automobili lungo la strada statale. Di tanto in tanto ai

suoni della montagna, i ronzii, i cinguettii, i muggiti, si mescola il fischio del

treno che sale verso San Candido.

L’edificio è ordinato e pulito, ma l’aspetto è nel complesso piuttosto

scialbo. La struttura interamente in muratura, intonacata di recente, lascia

poco spazio alla fantasia e la costruzione, benché funzionale, manca del

fascino di altri masi più antichi. La costruzione è ripartita in due trasver-

La falciatriceMaso Kaarmann

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salmente rispetto al colmo del tetto. Il maso è organizzato in due parti: a

occidente ospita la stalla al piano terra, il fienile e il deposito degli attrezzi al

piano superiore, cui si accede da un ponte in cemento. Nella parte orientale

dell’edificio si trova l’abitazione, occupata solo nei mesi estivi da quando la

famiglia del Bauer si è trasferita a Monguelfo. Non c’è nessuno in casa, ma la

stradina che porta al maso è occupata da un furgone; l’autista ci dice che sta

aspettando qualcuno per consegnare una falciatrice nuova.

Proprio mentre stiamo per andarcene rassegnati, arriva in fretta una

macchina nera da cui scende un giovane in jeans e maglietta, capelli corti

corvini e l’aria sicura di uno che sa cosa sta facendo. Parrebbe un qualsiasi

giovinastro tutto moto e discoteca, invece si dirige con passo rapido verso il

tecnico della falciatrice. Ci facciamo vedere e facciamo segno che aspettere-

mo che abbia finito il suo lavoro per rivolgergli qualche domanda.

L’arrivo della nuova falciatrice assorbe tutta la sua attenzione. Il tec-

nico gli mostra la macchina con distaccata professionalità; gira manovelle,

apre scomparti, smonta e rimonta i diversi pezzi che la compongono. Il ra-

gazzo segue concentrato, senza perdere una parola. La macchina è davvero

un piccolo gioiello della tecnica, pieno di meraviglie nascoste e piccoli segre-

ti: l’accensione, la frenata, le diverse velocità, il manubrio che si può alzare

ed abbassare per poter meglio manovrare in pendenza. Per i dislivelli più

aspri si possono perfino applicare degli speciali ramponi alle ruote, le lame

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sono intercambiabili, le marce si adattano al terreno ed al tipo di taglio. La

spiegazione dura una buona mezz’ora al termine della quale il giovane ac-

quirente pare soddisfatto del nuovo mezzo e sicuro di saperlo utilizzare cor-

rettamente. Quindi, sbrigate le ultime formalità di rito, il rivenditore ritira la

falciatrice vecchia e la carica con una gru sul cassone del furgone.

Il giovane si chiama Philip e ha poco più di vent’anni. Dopo aver ter-

minato gli studi alla scuola provinciale di agricoltura di Laimburg, ha inizia-

to a lavorare nell’azienda di famiglia in cui trovano occupazione i genitori e

il fratello maggiore. Vivono assieme in una casa nella valle e il maso è solo

la sede aziendale e la residenza estiva. La strada permette anche questo, una

specie di pendolarismo al contrario in cui il maso non è sede di vita ma di

lavoro: si vive a valle e si sale ogni mattina e ogni sera per la mungitura e

ogni volta che sia necessario per la cura dei prati e del bestiame.

L’azienda è una piccola impresa familiare di montagna ma non si fa

mancare nulla in fatto di tecnologia. Philip parla volentieri di fiere ed espo-

sizioni tecniche, di macchinari e di aggiornamento costante per restare al

passo coi tempi: la nuova macchina è molto meglio della precedente, a pa-

rità di dimensioni è più leggera, più maneggevole e meno dispendiosa per il

carburante, anche il motore è più rispettoso dell’ambiente, per non parlare

della rumorosità. Mantenersi aggiornati è piuttosto costoso, una falciatrice

dall’aspetto semplice come quella vista oggi può costare come un’utilitaria;

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un trattore con gli accessori molto di più. Ma è normale in agricoltura investire molti soldi, an-

che se non sempre rendono in proporzione.

– E la provincia dà una mano? – domando.

– La provincia aiuta finanziando fino al 30% degli investimenti per i macchinari. è impor-

tante perché vanno rinnovati spesso, la vecchia falciatrice aveva circa dieci anni, ma con l’uso

intenso che se ne fa era ora di cambiarla. –

Durante un colloquio fatto in Val Venosta, ho avuto modo di incontrare il dottor Meier,

che per decenni si è occupato di agricoltura di montagna e sviluppo nel territorio dei masi d’alta

quota. Mi parlava con pacato ottimismo delle giovani generazioni di contadini, preparati, vo-

lonterosi, orgogliosi, ma devo dire che allora accolsi le sue frasi sulla nuova generazione di Ber-

gbauern tirolesi con un po’ di scetticismo. Eppure davanti a Philip pare che sia possibile pensare

ad una nuova leva di contadini di montagna in grado di prendere il testimone dalla generazione

precedente e di portare avanti la tradizione in modo innovativo ed efficiente.

Maso Kaarmann. Comune di Monguelfo, 1464 metri sul livello del mare

Maso Kaarmann si trova poco oltre il castello di Monguelfo, al principio della strada detta romana che

taglia a mezza costa la montagna tra Monguelfo e San Candido. L’edificio, quasi interamente in muratura, è

stato recentemente ristrutturato e presenta le caratteristiche tipiche dell’Einhof diviso perpendicolarmente al colmo

del tetto tra stalla e abitazione. L’impresa agricola e la stalla sono attive ma l’abitazione non è utilizzata per-

manentemente.

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2. 5. 2007

Maso Hochstranser si trova dove finisce l’asfalto, a 1462 metri sul livello

del mare, in una bella posizione panoramica da cui si abbraccia la valle nel

tratto da Stanghe a Ridanna. La casa è stata completamente rinnovata, in-

tonacata e dotata di tutti i comfort. Da quasi vent’anni il maso è gestito da

Simon, uno dei figli di Stefan e Frieda, che gestivano il maso trentacinque

anni fa. Simon è nato al maso, come i suoi sei fratelli che ora si sono trasferiti

chi nella valle, chi a Vipiteno, chi più lontano.

Il piano terra è interamente occupato dalla stalla. Nonostante il com-

pleto rinnovamento dell’edificio e delle attrezzature, non sembra di vedere

cambiamenti radicali: c’è la stessa penombra, il fango, una vecchia carriola

e degli stracci appoggiati su una sedia coperta di schizzi di letame. Simon è

La regina del masoMaso Hochstranser

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sposato con una donna originaria di un maso vicino e ha due bambini che

vanno a scuola. La sua speranza è che almeno uno voglia fare il contadino e

continuare a gestire il maso, ma è troppo presto per capire se sarà così.

Se una volta la sopravvivenza del maso era garantita soprattutto dal

bosco, oggi è la stalla a dare sostentamento ai suoi abitanti. La quotazione

del legname si è proporzionalmente ridotta rispetto a quella del latte e oggi

nemmeno gli oltre 30 ettari del bosco di pertinenza del maso basterebbero a

fornire un reddito sufficiente. Nella stalla sono accudite dodici vacche di raz-

za bruna alpina, sono buone produttrici di latte e hanno una struttura fisica

adatta alla montagna: robusta, resistente ma anche agile per camminare su

terreni ripidi e sconnessi. Sono ben allineate su due file davanti a delle stan-

ghe di metallo, ognuna ha la propria fontanella per bere, le code sono legate

per evitare che si sporchino troppo, le corna sono tagliate per evitare rischi

al mungitore. Sono bestie docili, ma non si può mai sapere.

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D’estate si pratica l’alpeggio: circa la metà delle bestie presenti in stalla

salgono alle malghe dove pascolano libere per tutta l’estate. Le bestie che

salgono in alpeggio di solito sono le manze, le vitelle e in genere quelle meno

produttive per quanto riguarda il latte. Il pascolo in malga rinforza il fisico

degli animali contro le malattie e riduce il lavoro del contadino nella stagio-

ne del raccolto ma ha effetti negativi sulla produttività. Il latte di malga vie-

ne prodotto in quantità inferiore ed è anche meno ricco di grassi e proteine

rispetto a quello di stalla. Secondo gli standard della moderna produzione

agroindustriale questo equivale ad una minore qualità e, quindi, ad un mi-

nore valore di mercato per il prodotto, perciò vale la pena di tenere a valle

le bestie più produttive e di mandare all’alpe le altre, in modo da alleggerire

il lavoro della cura e della mungitura durante la stagione dello sfalcio ma

senza perdere più di tanto in prodotto.

Il latte, che oggi è prima di tutto una fonte di reddito, una volta era

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piuttosto l’alimento principale della gente dei

masi, più del grano e della carne. La produzio-

ne era più sicura e più costante rispetto a quella

dei cereali, sempre che si organizzasse la stalla

in modo efficiente, e se ne poteva avere di fresco

ogni giorno. Le eventuali eccedenze potevano es-

sere facilmente conservate come Schmalz – burro

fuso raffreddato – e come formaggio. Il latte era

la bevanda per eccellenza a colazione, a pranzo,

a cena e in tutti i momenti della giornata. Era

anche utilizzato per cucinare e per preparare il

Mus, pasto a base di latte, acqua e farina che per

secoli è stato l’alimento principale delle genti ger-

maniche. Si stima che ciascuno degli abitanti dei

masi di montagna bevesse più di due litri di latte

al giorno.

Oggi il latte viene portato a valle con il pick-

up fino al punto di raccolta, assieme ai bambini

che vanno a scuola, poi confluisce al caseificio so-

ciale di Vipiteno assieme a quello degli altri masi

del circondario e lì viene trasformato in yogurt e

formaggi per gli scaffali dei supermercati.

Solo per pochi le vacche e il latte sono la

principale fonte di reddito, ma non c’è da stupirsi

se la vacca bruna è considerata da molti la vera

regina del maso.

La conferma la riceviamo visitando la cap-

pella costruita nel prato sotto al maso, su un pic-

colo sbalzo da cui si domina la valle sottostante.

Per entrare si deve attraversare un tratto di prato

e spingere una porta un po’ sconnessa. Alle pare-

ti della breve navata, occupata da piccoli banchi

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di legno, sono appesi quadri, ex voto e oggetti di

devozione di diverse epoche: San Sebastiano, San

Floriano, San Leonardo e altri meno riconoscibili.

Assieme ai santi sono appesi anche piccoli simu-

lacri di forma bovina: sono attaccati a dei chiodi

e sono segni di devozione, richieste di protezione,

ringraziamenti, simboliche offerte ai santi tutelari

del bestiame.

Ritroviamo un simile tripudio di angeli,

santi e altre figure sacre anche nella parrocchiale

di Mareta. Certo qui ogni particolare è curato in

modo tale che possa essere ben evidente che non

si tratta di una cappella di campagna: i vicini di

casa, i signori di Castel Wolfsthurn, hanno contri-

buito non poco ad abbellirla e a farne un degno

contorno per la loro superba residenza. L’archi-

tettura e l’interno della chiesa sono di imposta-

zione barocca, ma l’istituzione parrocchiale è più

antica, tra le più antiche dell’Alto Adige.

Sulla porta della chiesa una curiosa serra-

tura in ferro abilmente lavorato rappresenta un

soldato con tanto di alabarda. Il ferro e i minerali

per secoli hanno fatto la fortuna e la sfortuna del-

la valle. Hanno portato strade, servizi, lavoro, ric-

chezza, ma anche fatica, dolore, crisi. Per secoli le

miniere di Monteneve sono state tra le più ricche

e redditizie delle Alpi e hanno portato lavoro e

benessere. Dagli anni ’60 le miniere sono chiuse e

le gallerie sono diventate un museo, ma rimango-

no le tracce dell’antico splendore: perfino gli stec-

cati da queste parti non sono costruiti con legacci

e cavicchi di legno ma con dei bei chiodi di ferro

che fanno mostra di sé ad ogni giuntura.

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A fianco del portale dalla parrocchiale c’è una bacheca con gli avvisi: colpisce la lista delle

processioni in programma per la stagione primaverile ed estiva. Da aprile a settembre sono in-

dicate ben dodici date, una ogni due settimane: 1 aprile Palme, 25 aprile San Marco, 29 aprile

Prima Comunione, 9 maggio Chiesetta di Stanghe, 18 maggio Santa Maddalena. Ci sono pro-

cessioni ad ogni ora: alla mattina presto, alle 6.15 del 1 maggio, c’è la Madonna di Trens, alle

dieci del mattino il Corpus Domini (10 giugno), alla sera alle 21 San Giovanni Nepomuceno (20

maggio e 9 settembre). Sull’avviso è indicato il recapito del parroco: Oswald Kuenzer. Credo

proprio che valga la pena di incontrarlo.

Maso Paulheiss. Comune di Racines, 1480 metri sul livello del mare

Si trova sopra maso Paulheiss, in posizione isolata al termine della strada asfaltata. Il maso, ristrutturato

di recente, era già stato ricostruito più volte nella sua storia, l’ultima nel 1886 dopo che era stato distrutto da un

fulmine. Nei pressi del maso c’è una cappella che risale al 1881.

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2. 5. 2007

Maso Paulheiss è un edificio antico e un po’ trasandato. Attorno agli edifici

la confusione regna sovrana: sparsi qua e là si mescolano i resti di attrezzi

antichi e moderni, assi di legno tarlato, ferri arrugginiti e pezzi di plastica

strappata. Il vecchio mulino è costruito su palafitte; nello spazio vuoto tra il

pavimento e il terreno si affollano vecchi rastrelli sdentati, pneumatici con-

sunti e taniche vuote. Nonostante tutto, però, il maso conserva la sua nobiltà

altezzosa benché decadente, accanto alle case circostanti, perfette con il loro

intonaco bianco e il praticello ben rasato.

Un ragazzo poco più che adolescente arriva sgasando con il suo moto-

rino e sale a passi veloci verso la casa. Non presta molta attenzione alla no-

stra presenza, scuote la testa e prosegue borbottando. Dopo qualche istante

ProcessioniMaso Paulheiss

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esce la madre, la signora

Anne, che ci viene incontro

e ci invita ad entrare. Il ra-

gazzo deve averla avvisata.

L’entrata del maso è

sul lato sinistro dell’edificio.

Accanto alla porta di en-

trata, si trova una curiosa

costruzione alta poco più

di un metro, con una por-

ta di legno e delle piccole

prese d’aria. Sembrerebbe

un deposito per le bombole

del gas ma l’aspetto è trop-

po antico per una cosa così

moderna. Anne spiega che

una volta era utilizzata per il

maiale. La stalla era in casa,

al piano terra, ma, per mo-

tivi igienici, il maiale veniva

allevato all’esterno. Passa-

va tutta la sua breve vita in

questa gabbia in muratura,

buia e con poche possibili-

tà di movimento, dove più

volte al giorno riceveva da

mangiare attraverso la por-

ta. Veniva macellato in inverno, di solito a dicembre, in modo da avere car-

ne fresca durante le feste. Il resto della carne veniva salato e appeso al soffit-

to della cucina per affumicarlo. La maggior parte delle cucine dei masi sono

state ristrutturate e liberate dal fumo ma capita ancora, in qualche corridoio

fumoso e freddo, di trovare pezzi di carne di maiale appesi ad affumicare.

Anne è sempre vissuta al maso. La timidezza le impedisce di spende-

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re troppe parole ed anche farsi

fotografare la mette in imbaraz-

zo. Lo sguardo è triste e penso-

so, mentre ci porta da bere par-

la lentamente e sottovoce. Alla

spicciolata i familiari arrivano

dal lavoro e dalla scuola e si pre-

parano per il pranzo.

Anne parla molto della

madre e prima di andare ci por-

ge un’immagine con la memo-

ria. Ce la mostra con le lacrime

agli occhi, nonostante sia passa-

to già qualche tempo dalla sua

scomparsa. Ha l’aria di sentirsi

molto sola, e nei suoi occhi lu-

cidi pare di vedere il riflesso di

speranze frustrate e di silenzi

non cercati.

Sulla parete della Stube ci

sono due belle statue di legno

che rappresentano Notburga e

Isidoro ai lati della croce: sono

i santi protettori dei servi rurali.

Di fronte due orologi segnano

il tempo: una pendola antica e

un’improbabile sveglia da pochi soldi in plastica colorata.

Sceso dal maso vado alla ricerca di don Oswald, il parroco di Mareta. Non c’è molto tem-

po per parlare purtroppo, perché deve organizzare una funzione, comunque mi può dedicare

una manciata di minuti per raccontare com’è la sua vita di parroco di una comunità sparsa in

tante frazioni e in tanti masi.

Lo studio di don Oswald odora di legno come una vecchia Stube. Tre pareti su quattro

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sono interamente ricoperte di libri

e cd. Soprattutto libri, non solo a

carattere religioso. Don Oswald

ama raccontare. è nato anche

lui in un maso, in Val Pusteria,

ha fatto il seminario a Bressano-

ne e poi, diventato sacerdote, ha

conosciuto diverse realtà dell’Alto

Adige. Prima Castelrotto, poi Pra-

to allo Stelvio ed infine Mareta.

Da appassionato della storia e dei

costumi locali, don Oswald man-

tiene una ricca biblioteca e ama

descrivere le usanze delle comu-

nità in cui ha fatto esperienza. A

Castelrotto lo ha colpito l’attacca-

mento della gente alle tradizioni,

l’orgoglio nel realizzare addobbi

e nel vestire i costumi tipici in oc-

casione delle celebrazioni; a Prato

invece è forte la memoria di riti

iniziatici precristiani, cui parteci-

pano anche quanti non frequen-

tano solitamente la chiesa. Don

Oswald, essendo interessato di

storia e tradizioni locali, si è impegnato per tenerle vive, anche a costo di

fatiche e delusioni.

A proposito delle processioni dice: – Ogni tanto alcuni parrocchia-

ni mi suggeriscono di ridurre ricorrenze e processioni, tanto la gente che

partecipa è poca, ma io credo che sia importante che le tradizioni siano

mantenute, non importa quanti partecipano. Magari tra qualche anno sen-

tiranno di nuovo il bisogno di pregare e venire in processione e allora sarà

importante non averle perse. –

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Il paese di Mareta è praticamente inesistente: la chiesa, il cimitero, il

negozio, il museo, la scuola, l’albergo, il magazzino dei vigili del fuoco, la

segheria. Se si togliessero tutti gli edifici di servizio resterebbe proprio poco.

La parrocchia è molto estesa e comprende, oltre a Mareta, anche Ra-

cines e Ridanna, poco più di duemila persone sparse su un territorio molto

vasto. I sacerdoti sono chiamati sempre più spesso a gestire più comunità e

più chiese. Se l’estensione della parrocchia aumenta, non aumenta il nume-

ro delle anime che rimane stabile, non tanto per l’emigrazione quanto per la

minore assiduità nel partecipare alle funzioni.

– Secondo un’inchiesta ufficiale di qualche anno fa, circa la metà dei

parrocchiani presenzia alla funzioni. Una volta, quando ci si spostava solo a

piedi, partecipavano tutti. Ora è più facile salire e scendere dal maso, ma è

come se la chiesa fosse diventata più lontana. – racconta un po’ sconsolato

don Oswald.

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Le cause di questa riduzione, a parere di don Oswald, sono diverse.

– Innanzitutto – dice – una volta, specialmente le processioni, erano

un’avventura, una delle rare occasioni di socializzare, di vedere posti nuovi.

Soprattutto i bambini erano entusiasti di partecipare. Si camminava molto,

magari anche di notte, per arrivare in tempo per la messa. In secondo luogo

oggi ci si sente molto più sicuri. Non si vive più l’incertezza per quanto ri-

guarda i propri bisogni materiali ed allora si tende a dare meno importanza

anche alle cose spirituali.–

– Le famiglie sono più disperse, spesso il lavoro porta lontano tutti i

giorni e si preferisce, nei giorni festivi, passare il tempo con moglie e figli.

Così diventa più raro incontrare gli altri parenti, se non nelle feste religiose

come il battesimo, la comunione, la cresima, il matrimonio. Per questo le fe-

ste sono soprattutto occasioni di incontro in cui il più delle volte il significato

religioso passa in secondo piano rispetto a quello sociale. Una volta tutte le

domeniche ci si trovava a tavola con i parenti, oggi capita sempre più di rado

e quindi i pranzi in occasione delle ricorrenze sono momenti particolari a

cui si tiene molto. –

Nelle grandi occasioni, però, tutti ci tengono ad esserci e le consuetudi-

ni sono tenute in gran conto. Le processioni seguono da sempre il medesimo

percorso, impossibile modificarlo senza suscitare malumori, e nella chiesa

ognuno ha il suo posto fisso. Naturalmente uomini a destra, donne a sinistra

e bambini davanti.

– Nelle chiese di nuova costruzione, che sono organizzate diversamen-

te, le famiglie siedono vicine, ma nelle vecchie chiese tutti si sistemano così.

Non è una regola e nessuno dice alla gente di farlo. Lo fanno e basta. – don

Oswald sorride facendo spallucce.

– Alla fine vale la pena di fare tutte quelle processioni? – domando

incuriosito dal fittissimo calendario. Don Oswald risponde senza accennare

al minimo dubbio – Sicuro! – Magari alcuni pensano che non valga la pena

di organizzare una funzione o una processione se c’è poca gente, ma per me

fino a che c’è qualcuno che ne sente il bisogno le cose vanno fatte. –

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Una volta quando la campana chiamava tutti rispondevano all’appello: non farlo signifi-

cava chiamarsi fuori, dalla chiesa, dal paese, da tutto. Oggi, secondo don Oswald, partecipare

alle funzioni è vissuto piuttosto come un fatto personale, ma se non si tengono in vita certe

consuetudini c’è il rischio di perdere delle occasioni importanti per la vita spirituale e una parte

importante dell’identità collettiva.

Maso Paulheiss. Comune di Racines, 1302 metri sul livello del mare

Si trova in un piccolo nucleo con altri edifici di epoca più recente. La costruzione, molto antica, è in buona

parte in legno ed ha nei pressi un granaio sopraelevato. Era già raggiungibile con la strada carrozzabile da Mareta

nel 1971.

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Maso Kofler si trova sopra ad Acereto, all’imbocco della valle di Riva, al

margine ultimo del territorio della Repubblica, il lembo più distante dagli

occhi e dal cuore dello Stato Italiano. Si dice che Kofler “tra le pareti” fosse

il maso più inaccessibile di tutto il Sudtirolo, additato come un luogo leggen-

dario che stimolava l’immaginazione e il gusto per l’estremo.

Il panorama attorno al maso è davvero spettacolare. Le pareti che gli

danno il nome sono dritte e brulle, di fronte lo sguardo si scontra con i

ghiaioni del Windscharspitze, la cima del vento, con la cresta spigolosa del

Rauchkofl, la punta del fumo, con la fessura della Gelttal, la valle del gelo.

I nomi parlano di un luogo difficile, rude e inospitale. Alle spalle ancora

ghiaioni, dirupi e cime. Un accumulo di massi grigi coperti di licheni scende

fino a lambire sul retro i muri di casa. Lo steccato, costruito con legni con-

ficcati nel terreno e legati con i rami flessibili, separa un modesto praticello

dall’abisso.

In EuropaMaso Kofler zwischen Wänden

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La teleferica ancorata al tetto della stalla si lancia verso valle e sparisce come inghiottita

nel nulla. Fino a pochi anni fa proprio la teleferica era il collegamento più rapido verso il resto

del mondo, il mezzo per comunicare e per scambiare con la valle il modesto surplus di produ-

zione con il minimo indispensabile per tirare avanti. Per recarsi ad Acereto le persone avevano

a disposizione solo sentieri difficili, lunghi e pericolosi: la strada che collega Kofler con Acereto,

sì e no un paio di chilometri di sterrato a tratti piuttosto ripido, è stata realizzata solo qualche

anno fa. Nel frattempo, in attesa che la strada venisse progettata e realizzata, Kofler è diventato

un simbolo dell’impossibile, della vita ai limiti nei masi senza luce, senza strada, senza telefono,

senza speranze. Oggi rappresenta piuttosto un emblema dell’impossibile divenuto possibile,

della resurrezione dei contadini di montagna. Gli studenti e gli studiosi delle università vengono

in visita a Kofler per vedere con occhi e toccare con mano l’architettura, l’ambiente, la società,

l’economia, lo stile di vita del nuovo Sudtirolo, per osservare la realizzazione sul terreno delle

teorie socioeconomiche sullo sviluppo, sulla sostenibilità, sul locale e sul globale, per soppesare

costi e ricavi, analizzare cause ed effetti, elaborare teorie e ricercare nuove fonti di ispirazione

per i loro studi.

Lungo la strada polverosa un paio di ragazzine vanno avanti e indietro con un motorino.

Non è un mezzo di trasporto, è semplicemente un gioco per andare da qua a là. Si divertono e

ridono. Spostarsi e muoversi per loro è naturale: chissà se si rendono conto di cosa significava

quel primo chilometro e mezzo dieci-quindici anni fa, quando loro muovevano i primi passetti

incerti sulle tavole della Stube. La strada bianca su cui ora scorrazzano sollevando nuvole di

polvere con il cinquantino nuovo rappresentava metà del percorso per arrivare a Bolzano, e un

quarto di quello per arrivare a Roma, Monaco, Londra… A pensarci bene il maso più remoto

del Sudtirolo era separato dal resto del pianeta soltanto da poche centinaia di metri.

Se, forse, le ragazze non se ne rendono conto, lo hanno sicuramente capito i turisti che

giungono da tutta Europa. Una volta solo rari cacciatori di emozioni venivano qui a ritagliarsi

la loro fettina di avventura e soltanto d’estate, quando le condizioni di accesso erano appena più

accettabili. Oggi il luogo è accessibile a tutti e in ogni stagione turisti da tutta Europa accorrono

per godersi lo spettacolo delle montagne e ammirare le case addossate alla roccia. I più fortunati

riescono ad affittare una camera per una vacanza speciale, gli altri si accontentano di un aperi-

tivo sulla terrazza di questo ristorante al termine dell’universo.

La signora Kristina gestisce con la sorella l’attività di ristorante, bar e affittacamere che

è stata aperta nel maso. Accanto al vecchio edificio che ospitava tanto l’abitazione che la stalla

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ne è stato eretto uno nuovo: il legno ancora chiaro e profumato, la terrazza

solarium e una simmetria troppo ostentata tradiscono la novità dell’edificio,

ma la drammaticità del paesaggio è rimasta inalterata e le rocce che in-

combono sul retro gettano un’ombra di inquietudine su tutto il complesso.

L’attività va a gonfie vele: le camere sono occupate per tutta la stagione, e

praticamente anche per quella successiva, il ristorante è sempre pieno al

fine settimana e anche in questa giornata qualsiasi, nel tardo pomeriggio,

scopriamo di non essere soli.

La coppia di tedeschi che per combinazione abbiamo già incontrato a

Mareta, viene ogni anno dalla Germania e ogni volta torna qui per gustare

il panorama e godersi la piacevole sensazione di essere all’estero e sentirsi

contemporaneamente a casa propria. Ma non sono solo loro a popolare

questa terrazza nei giorni di sole: ci sono anche gli italiani, nel fine settima-

na arriveranno austriaci e svizzeri, d’estate anche turisti dal Nord e dall’Est

Europa.

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Kristina va e viene portando vassoi con passo leggero e sorriso sulle labbra. Serve ai tavoli

piatti di Kaiserschmarren e grappa di Vogelbergbaum, sorbo dell’uccellatore, piccole bacche rosse

comuni tra gli arbusti del luogo. Di tanto in tanto si ferma per scambiare qualche parola. Rac-

conta della vecchia casa e della nuova: per costruirla è stato necessario abbattere la vecchia

cappella, era necessario sfruttare al meglio il poco spazio disponibile. Alle pareti erano appese

immagini sacre, ex voto e ricordi di famiglia che sono stati raccolti e conservati gelosamente

in attesa di poter ricostruire nuovamente la cappella un po’ più in là. All’interno sono appesi

ricordi e cimeli di famiglia. Da generazioni gli uomini della famiglia fanno parte della locale

compagnia di Schützen; anche le donne, quelle di Kofler tra le altre, partecipano in qualità di

vivandiere (Marketenderinnen). Ai tempi dell’Impero le compagnie di Schützen erano il baluardo

militare del Tirolo. Fedelissimi all’Imperatore avevano acquisito, per antico privilegio, il diritto

di non essere mai impiegati fuori dai confini della regione in virtù della loro funzione esclusi-

vamente difensiva. Il privilegio è improvvisamente stato revocato di fronte alle esigenze della

guerra moderna, che ha costretto i Tirolesi a servire nelle due guerre mondiali lontano da casa

e non solo per difendere la propria Patria.

Oggi sulla terrazza del Kofler si incontrano in amicizia i nuovi cittadini del vecchio conti-

nente. è lontana anni luce l’età delle privazioni e delle contrapposizioni. Su un pennone vicino

alla stalla sventola un drappo rosso e bianco che ricorda a tutti, ospiti e padroni, l’anima Tiro-

lese di questo angolo di Europa.

Maso Kofler zwischen Wänden. Comune di Campo Tures, 1528 metri sul livello del

mare

Il maso, posto nella valle di Riva, a monte dell’abitato di Acereto, non è dotato di strada asfaltata. Si

raggiunge dopo un tratto piuttosto lungo di sterrato realizzato meno di dieci anni fa. Il vecchio edificio è stato

declassato a stalla, mentre poco distante è stata costruita una nuova abitazione che ospita anche un ristorante e

delle camere in affitto.

Nonostante la realizzazione del nuovo edificio sia stata esplicitamente pensata in funzione dell’attività

turistica – caratteristica in questo senso la presenza di una terrazza solarium – la costruzione si inserisce ar-

monicamente nell’antico complesso. La cappella, edificata nel 1759, è stata demolita per fare spazio alla nuova

abitazione.

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In fin dei conti non ci voleva tanto per restituire il mondo agli abitanti del-

la montagna. Solo qualche chilometro di strada, qualche chilometro di filo

elettrico e telefonico, qualche chilometro di tubature per l’acqua e per la

fognatura. Non ci voleva tanto. In fondo vivere a maso Greit non è tanto

diverso da vivere a Ganda di Martello, sono solo cinque chilometri in più sui

quindici per arrivare a Silandro, sui cinquanta per Bolzano, sui cinquecento

per Vienna, Monaco e Roma, cinque chilometri sui cinquemila per arrivare

a New York. Per decenni quei cinque chilometri sono stati un ostacolo insor-

montabile, in grado di escludere dal resto del mondo migliaia di persone che

abitavano nei masi su in alto. Per decenni percorrere quei cinque chilometri

equivaleva a fare un viaggio nel tempo, un salto di secoli: si poteva tornare a

quando non c’erano la luce elettrica, il treno, l’automobile, il telefono, il fri-

gorifero, il televisore. Quando tutti gli altri prendevano confidenza con tutte

queste meraviglie, gli abitanti dei masi sono stati relegati in un passato senza

uscita. Si è scavato un solco temporale e culturale sempre più profondo tra la

valle e il monte, che ha diviso uomini e donne che vivevano fianco a fianco.

Cosa sono in fondo cinque chilometri?

La strada ha spezzato l’isolamento fisico; l’elettricità, il telefono, in-

ternet, oggi arrivano ovunque. Con il crollo delle ultime barriere tante cose

sono cambiate nei masi di montagna, ma non si tratta solo di fare una vita

magari meno romantica ma più sicura e più comoda. Con la fine dell’iso-

lamento sono venute a mancare delle cose che un tempo erano tenute in

massimo conto. Innanzitutto è sparita l’illusione dell’indipendenza, dell’au-

tonomia, del poter e dover vivere senza avere bisogno di nessuno. Nessun

maso è più autonomo; per vivere come si vive a valle si deve scendere a valle,

Epilogo

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si deve fare la spesa, si devono comprare delle cose.

– Il telefono e l’elettricità sono belle cose – dicono i vecchi – ma costa-

no soldi, e per fare i soldi si deve lavorare, e il lavoro si trova solo giù. Daun-

ten. – Tutti o quasi hanno il doppio lavoro, quasi nessuno vive più del maso

e basta, il maso non è più un ecosistema chiuso ma è solo una parte di un

mondo ben più complicato.

Un secondo aspetto, spesso traumatico, della nuova vita dei masi è

quello della scelta. Una volta non c’era, come non c’era la luce elettrica. La

vita era quello che era, e basta, niente domande, niente perché, solo lavoro

per la sopravvivenza e poco altro. Oggi la scelta è salita al maso, non ci sono

più vie a senso unico, ci sono delle alternative. Si può andare e si può restare,

si può studiare, trovare un mestiere, fare qualcosa di diverso dal contadino.

Si può andare via e poi tornare, si può vivere in paese e lavorare al maso, si

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può vivere al maso e lavorare in paese. Non tutti sono in grado di gestire la scelta. Non tutti sono

pronti a spiegare ai propri figli la libertà che essi stessi non hanno mai conosciuto.

Sono cambiate molte cose e molte ancora cambieranno quando i ragazzi cresciuti nei

nuovi masi, che non hanno sperimentato sulla loro pelle l’epopea del vecchio maso, diventeran-

no grandi. è importante che questo passaggio possa essere vissuto al meglio, per fare del nuovo

maso un luogo degli affetti dove tutti si sentano ospiti e dove i padroni non chiudano mai le por-

te perché sanno di avere bisogno degli altri, di non poter vivere da soli. In cui nessuno si illude

di essere autosufficiente e per questo sa confrontarsi serenamente con l’altro.

La lunga strada del maso ha portato a sconfiggere il bisogno, la sua conquista è stata la

libertà di dipendere dagli altri, di potersi fidare degli altri, di poter essere ciò che si vuole essere

senza essere costretti ad essere tutto.

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Appendice Architettura dei masia cura di Anna Grandi

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Tipologia secondo le funzioni e l’orientamento

Paarhof : Edifici appaiati

Einhof : Edificio unico con divisione longitudinale

Zwinghof : Edificio unico con divisione trasversale

Haufenhof : Insieme di edifici adibiti a funzioni differenziate

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Nel tipo costruttivo ad edifici appaiati l’abitazione (Feuerhaus) e la stalla-fienile (Futterhaus) si tro-

vano a poca distanza l’una dall’altra. La posizione rispettiva degli edifici segue di norma l’anda-

mento del terreno e le costruzioni sono orientate in parallelo. L’accesso avviene dal lato a monte

(Bergseite) oppure dal fianco. Spesso la stalla viene ricavata in un vecchio edificio di abitazione

declassato.

Il tipo costruttivo con edificio unico diviso longitudinalmente (Einhof), in modo perpendicolare

al colmo del tetto, è caratteristico della Pusteria, ma si trova anche in altre località. Stalla e

fienile si trovano nel medesimo edificio. Nell’immagine si distinguono le finestre della stalla, a

sinistra, più ampie e meno numerose di quelle dell’abitazione, a destra.

Zwinghof è il tipo costruttivo con suddivisione trasversale, parallela all’orientamento dell’abita-

zione. Stalla e abitazione convivono sotto lo stesso tetto. Ai piani superiori, in legno, si trovano

fienile e camere da letto, mentre al piano terra si trova la stalla con la cucina, anch’esse affian-

cate.

Nel caso dell’Haufenhof si verifica una moltiplicazione di edifici con svariate funzioni edificati

intorno a uno o due edifici centrali che ospitano abitazione e stalla. Il proliferare di rimesse,

magazzini, forno, mulino, cappella e altre costruzioni con funzioni differenziate tende a dare al

maso un aspetto simile a un piccolo villaggio.

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Tipologia secondo la planimetria

Edifici appaiati I Edifici appaiati II

CS

S DC

S

D

L

L

Edificio unico

CS D

LL

A

L

A Stalla

C Cucina

D Dispensa

L Camera da letto

S Stube

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La planimetria dei masi di montagna può essere molto differenziata ed è frutto di un’evoluzione

plurisecolare. Si sono prodotti molti tipi locali e altrettante soluzioni uniche e originali tipiche

del singolo maso. La varietà morfologica dei terreni e le diverse esigenze economiche e familiari

hanno contribuito non poco a rendere praticamente ogni maso unico e irripetibile.

Alcuni caratteri più frequenti però si ritrovano in molte costruzioni e accomunano l’architettura

tradizionale dei masi rendendola riconoscibile: le stanze in cui si trascorre più tempo durante il

giorno sono disposte verso sud (Sonnenseite), in modo da godere maggiormente dell’insolazione.

Spesso questo lato coincide con il lato di valle (Talseite) in quanto i masi di montagna, sempre per

ragioni legate all’insolazione, si trovano più spesso sui fianchi settentrionali delle valli.

L’ingresso avviene in un corridoio (Labe) su cui si aprono le porte e da cui parte anche la scala

per il piano superiore. Nel corridoio si trova la bocca di alimentazione della stufa (Ofen). In que-

sto modo la stufa o, molto raramente, più stufe, riscaldano l’interno della stanza senza produrre

fumo. Nel corridoio, invece, il fumo è lasciato libero di circolare e le pareti sono annerite dalla

fuliggine.

La Stube è un locale multifunzionale dove si svolge gran parte della vita all’interno del maso.

Alla Stube è talvolta affiancata una stanza da letto detta Stubekammer che, essendo indirettamente

riscaldata, veniva utilizzata per alloggiare le persone anziane o malate.

La cucina, con focolare aperto, si trova vicino alla Stube, di fronte o a fianco. Può essere collegata

alla Stube con un passavivande che consente di passare i pasti caldi da una stanza all’altra senza

uscire nel corridoio freddo. Alla cucina è quasi sempre collegata una dispensa (Speisekammer).

Le stanze da letto si trovano al piano superiore e non sono riscaldate. Le finestre delle stanze

da letto sono piccole per garantire migliore isolamento. Possono esserci dei fori sul pavimento

che collegano ai piani inferiori e che vengono aperti la notte per trasmettere calore verso i piani

superiori.

Naturalmente queste caratteristiche appartengono alle costruzioni tradizionali non ristruttura-

te. I masi che sono stati adattati alla vita moderna hanno perso molti degli elementi tradizionali,

ma conservano alcune caratteristiche relativamente all’orientamento e, immancabile, la presen-

za della Stube.

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La Stube

Stufa con incastellatura lignea e impalco superiore

Angolo del crocefisso Finestra

Soffitto foderato in legno

Modernità

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La Stube è il cuore pulsante del maso, la stanza dove si svolge la vita quotidiana della casa,

specialmente nei mesi invernali quando la maggior parte del tempo si trascorre all’interno.

La caratteristica principale della stube è la grande stufa (Ofen) in muratura o, nelle dimore dei

benestanti, in ceramica. La stufa, alimentata dall’esterno, riscalda la stanza in modo uniforme

e costante. L’alimentazione della stufa avviene dal corridoio, cosicché la Stube rimane libera dal

fumo e sicura dai gas nocivi.

La stufa si trova generalmente in un angolo della stanza, verso l’interno della casa. è appoggiata

a una sola parete, quella verso il corridoio, in modo da offrire maggiore superficie radiante e dif-

fondere meglio il calore. Attorno alla stufa sono disposte delle panche; un’incastellatura lignea

ospita un soppalco che viene utilizzato per riposare e riscaldarsi.

All’angolo opposto alla stufa, lungo la diagonale, si trova il tavolo. Usato per consumare i pasti,

per leggere e per lavorare, esso è posto nei pressi delle finestre per ricevere migliore illuminazio-

ne. Sopra al tavolo è il cosiddetto Hergotteswinkel, l’altare domestico. Lì troviamo il crocefisso e

immagini sacre della Madonna e dei Santi. Spesso sono esposte nell’angolo anche le fotografie

dei cari defunti.

Ciò che maggiormente uniforma la Stube è la presenza del legno. Non solo i mobili ma anche il

pavimento è di legno, le pareti sono foderate e quasi sempre anche il soffitto. Le fodere isolano

l’ambiente e lo rendono caldo ed accogliente. Non mancano fodere impreziosite da decorazioni

e intagli che sono veri e propri capolavori dell’artigianato locale.

La Stube è ancora il centro della vita del maso, dove le famiglie passano la maggior parte del

tempo quando si trovano dentro casa. è lo spazio in cui i bambini giocano e fanno i compiti, il

salotto per gli ospiti, la sala da pranzo e naturalmente il luogo che ospita la radio e la televisione.

Anche nei masi ristrutturati di recente e nelle case di nuova costruzione nella montagna sudti-

rolese, la Stube mantiene la sua centralità nelle funzioni domestiche.

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Sudtirolo. Il cammino degli erediISBN 978-88-904295-1-4

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