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A CURA DELA CENTRALE DELL’ARTE

associazione no profit per la costruzione di un centro

di produzione e diffusione dell’arte contemporanea a sud

TESTI ALESSIA BATTAGLIA

PIERFRANCO CAVALLO MARIA FORTINOLAURA FURFARO

IMMAGINIALSSANDRO GORDANO

FRANCESCO NOTOROBERTA TERZI

IMPAGINAZIONE E GRAFICAFRANCESCO DE ROSE

CON IL PATROCINO DELLA PROVINCIA DI COSENZA

ASSESSORATO ALLE POLITICHE SOCIALI

IN COLLABORAZIONE CON IL WAJUKUU PROJECT

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LA SCATOLA CONTIENE

MAPPA DEGLI INSEDIAMENTI UMANI, 8

SUD SUD SLUM SLUM, 12

LA POETICA DELLO SLUM, 16

ABITARE LOW COST, 24

DIARIO DI VIAGGIO, 26

LO SPAZIO IMPRESSIONI E FORME DI LUOGHI, 27 NELLO SLUM, 34

IL RUOLO SOCIALE DELL’ARTE, 38

ART & STREET CHILDREN, 42

LE STORIE, 46

LA LINGUA, 48

WAJUKUU, I

OPERE, II

WAJUKUU ARTS PROJECT, XXIV

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Una mappa degli insediamenti umani per visualizzare quali città nel mondo sono soggette a fenomeni di urbanizzazione dilagante, in termini di popolazione, densità, tipologia di habitat, accesso ai servizi di base. Fenomeno che si configura con tendenze all’aumento, considerato che la popolazione mon-diale ha raggiunto i 6 miliardi di persone alla fine del ventesimo secolo ed è attualmente incrementata al 1,2 per cento annuale. Il raggiungimento dei sei miliardi ha portato in un periodo di 12 anni, cioè, tra il 1987 e il 1999, al più breve periodo in cui il mondo ha toccato il miliardo di persone. L’aumento della popolazione mondiale è previsto per 2,6 miliardi durante i prossimi 47 anni, dai 6,5 miliardi di oggi ai 8,9 miliardi nel 2050 (variabile media). Il tutto sta avendo luogo nelle città.

CONSULTARE QUESTA MAPPA, COME TUTTE LE MAPPE, VUOL DIRE LEGGERE UNO SPAZIO CHE HA DEI PUNTI NODALI DI RIFERIMENTO, LE CITTÀ, NON PIÙ STATICI MA IN ESPANSIONE PERMANENTE, COMPRENDERE QUESTO SPAZIO E LA FRAGI-LE ENTROPIA CHE LO GOVERNA VUOL DIRE ESSERE PREDISPOSTI ALLA RICER-CA DI LUOGHI, CITTÀ, PERCORSI INCONSUETI, PROBABILI, COMUNQUE EMO-ZIONALI. LO SPIRITO CHE ALIMENTA LA RICERCA È QUELLO DEL VIAGGIO E UN VIAGGIO SI RENDE CON IMPRESSIONI, CON SUGGESTIONI SEMPLICI E IMMEDIATE.

Scatti fotografici, voci, complessità. Stiamo comunicando lo slum, i grandi agglomerati urbani, le megalopoli e le periferie e tutto quello che si compie nell’istantaneità del tempo presente. Molteplici condizioni del vivere che non possono essere riprodotte, se non attraverso una lente d’in-grandimento sull’individuo come forma di vita che cerca di non sussistere a uno stato di fatto emer-genziale ma di reinterpretare questo secondo strategie di sopravvivenza ad hoc; l’arte, la manualità, i materiali, l’ingegno sono le componenti essenziali di questa tensione attiva, di questa vitalità: una poetica dello slum che si traduce in una ricerca stilistica del vivere e del fare con poco.

La scatola contiene frammenti ed estratti da un diario di viaggio nello slum. Ancora una volta, l’espressione artistica emerge nell’imminenza del viaggio, diventa un codice comune, un linguaggio forse caotico e indisciplinato ma in tutti i modi spontaneo.

La scatola contiene SudSud-SlumSlum che è insieme uno strumento di registrazione, una voce e un messaggio. Un’antenna per dar vita a un rapporto di interscambio culturale, finalizzato alla conoscen-za delle diverse metodologie artistiche sperimentate negli spazi vitali, in ogni sud e in ogni slum del mondo.

La scatola contiene se stessa. L’uso del cartone, nell’installazione così come nel libro, assume I connotati di un evento più temporale che materiale: avere tra le mani una scatola di cartone, saggiarne il peso, sco-starne I lembi, sono tutti rituali che prevengono ogni atteggiamento contemplativo e riportano alla quoti-dianità, alla familiarità delle caratteristiche del materiale: protezione e leggerezza ma anche precarietà. Lo scopo dell’installazione è quello di intensificare la natura fragile del “rifugio” (condizione abitativa di molti abitanti degli slum) introducendo il cartone come materiale costruttivo. In fondo, se pensiamo ai nostri ambienti di vita sterili, inoffensivi, alle nostre abitudini desoggettivate, private di quella lingua comune che l’individuo instaura con il luogo che abita, quanti luoghi siamo in grado di riconoscere e quanti di questi ci riconoscono? Quanti e quali siamo in grado di identificare come rifugi? Noi viviamo l’illusione del rifugio, piuttosto che rifugi stessi. Il cartone da imballaggio è interprete di ciò che è passeggero, transitorio, imminente; non a caso il trasloco, il cambiare casa, avviene mediante l’uso di molti box di cartone che, per pochi giorni, nel più ottimistico dei casi, ospitano la parte oggettistica della nostra esistenza. Il box di cartone racconta la temporaneità, questo transito, come un viaggio, come la reale condizione del vivere.

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INTRODUZIONE

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SUD SUD SLUM SLUMLe traiettorie della ricerca, che la Centrale dell’Arte persegue, riguardano le reali qualità della vita culturale economica e sociale che si svolgono ai margini della città. Questa modalità ha condotto a porre uno sguardo al di fuori del proprio contesto incontrando similitudini e diversità in luoghi apparentemente lontani, come gli slums di Nairobi, in Kenya. Da qui nasce l’incontro e la volontà di collaborare con gli artisti kenioti del progetto artistico Wajukuu Arts Project che vivono nello slum di Mukuru a Nairobi.

I punti di affinità che legano il rapporto fra la Centrale dell’Arte e il Wajukuu Arts Project passano, soprattutto, attraverso la condivisione del concetto di arte come sperimentazione delle possibilità di espressione di se stessi e della realtà circostante con i diversi linguaggi artistici. L’associazione Wajukuu Arts Project ha come obiettivo la diffusione delle esperienze artistiche negli slums di Nairobi; dove slum significa baracche di lamiera aggrappate le une alle altre, fogne a cielo aperto, vicoli maleodoranti per l’odore pungente di urina animale e umana, discariche che diventano habitat per minori in stato di abbandono, disabili psico-fisici, anziani e donne senza dimora.

Una periferia che assume i connotati numerici di una città dentro una città in cui si racchiude il surplus dell’umanità. Gli slums del sud del mondo convivono per la maggior parte attorno ai complessi industriali, già di per sé fatiscenti e pericolosi che, coniugati al traffico dei mezzi di trasporto, formano un clima veramente infernale. Una cappa di smog inquinante e alcuni impianti industriali chimici si trasformano spesso nei confini artificiali delle zone urbane. Queste ultime ospitano una umanità a cui viene negato l’accesso alla gestione delle risorse produttive di un sistema economico locale e mondiale, dove la ricchezza ha una mobilità verticale. Ai vertici vi si trova una casta di pochi che sceglie le strategie di una economia di mercato, le cui applicazioni portano alla formazione stessa degli slums.Lo slum si presenta come un agglomerato urbano formale (come edilizia popolare, affitto privato) e informale (come occupazioni autorizzate e abusive, campi profughi) che sta fra la città e la campagna, ma che non è né città né campagna. Ospita le migrazioni che provengono dalla campagna e accoglie gli abitanti che sono tagliati fuori dalla produttività della città e dai suoi costi alti di abitabilità. Ha una fisionomia complessa che non risponde a nessun parametro urbano a causa della mancanza di infrastrutture e per l’elevata quantità di abitanti che la popolano. È un ecosistema che denuncia, con il solo fatto di esistere, la gravità dell’inquinamento ambientale in cui versano le sue condizioni. Sembra quasi una

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sorta di limbo, una città al rovescio con la tendenza di continuare a crescere negli anni futuri. Intrappolati dentro queste baraccopoli, i giovani artisti kenioti cercano di comunicare con la forza della loro arte le potenzialità per migliorare le qualità dell’esistente.

L’approccio creativo, sia della Centrale dell’Arte che del Wajukuu Arts Project, nasce dal bisogno essenziale di rispondere alle difficoltà sociali di vivere dentro una dimensione

marginale, pertanto la creatività assume un valore altro di r-esistenza quale strumento di interpretazione di sé e del mondo circostante. Inseriti in tale visione, i due progetti tendono a elaborare una relazione profonda con le proprie percezioni, trasformandole in possibilità

di cambiamento, non solo della propria esistenza, ma anche dell’ambiente contenitore di esperienze artistiche e sociali che si svolgono al suo interno.

Entrambe le realtà trovano, dunque, un punto di contatto nell’approfondimento dell’accezione pedagogica dell’arte come legame creativo e interpretativo fra sé e il mondo, per rispondere al bisogno di fornire di sensi e di significati la dimensione umana e suburbana vissuta giorno

per giorno.Per questa ragione si sottintende all’arte un valore di alternativa educativa che si estende

verso una ricerca di contenuti, da condividere con la vita collettiva, in quanto l’attuale inclinazione interessa una dispersione di quel valore del vivere sociale come un insieme

diversificato nelle sue identità.Un elemento che approfondisce questo tipo di educazione all’arte si intravede nella forma

autodidatta che, soprattutto per gli artisti kenioti, stimola a sperimentare con libertà i linguaggi espressivi come delle qualità di visione e adesione alla vita.

Il metodo da autodidatta delle tecniche abbraccia così la ricerca in essa di un legame immediato fra l’ideale e la sua espressione creativa, laddove per tecnica si intende uno

strumento educativo con il fine di accrescere la stima in sé stessi e nelle proprie potenzialità di trasformazione del reale.

La stampa su carta, molto spesso riciclata, con le arcaiche tecniche della matrice in legno inciso della xilografia, ricollega a un’idea di arte immediata ma fortemente comunicativa

così come lo sono le immagini di vita quotidiana rappresentate dai giovani artisti kenioti. La visione delle loro opere fa riflettere su un senso di rinnovata circolarità temporale. Il rapporto

con la terra degli antenati che il Wajukuu Arts Project sembra non dimenticare si coniuga ai bisogni espressivi della contemporaneità che invoca il riuso dei materiali e mette a nudo

la crudità di una dimensione in cui a mancare sono i beni essenziali per la sopravvivenza umana. Da questa resistenza non sempre espressamente dichiarata ma comunque

intimamente sentita come necessità, nascono le xilografie del Wajukuu e da questa vicinanza di esistenti emerge il bisogno sentito dalla Centrale dell’Arte di collezionare opere di giovani

artisti da porre in una nuova ottica della diffusione dell’arte che parte da una produzione che viene dal basso e che risponde unicamente a bisogni comunicativi.

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LA POETICA DELLO SLUM

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In occidente tutto è fondato sulla verticalità nelle armonie. In Africa è l’orizzontalità che ci interessa, non si è visto mai un mondo semplicemente in piedi o sdraiato, è la fusione dei due che crea l’universo.Ray Léma- musicista congolese

L’orizzontalità in contrapposizione alla verticalità delle aree urbanizzate è una evidente caratteristica dello slum. Un tappeto di lamiere e rifiuti, un labirinto ferruginoso, che corre lungo la ferrovia. Formale e informale, veritiero e apparente, un percorso sensoriale, frenetico e lento, cotone e cera.

Slum come luogo diContraddizione/ContaminazioneAutodeterminazione/MarginalitàTrasformazione/ConservazioneFormale/InformaleRipetibile/IrripetibileVeritiero/ApparenteDistopia, ovvero la negazione totale e assoluta di un luogo, dove per luogo s’intende uno spazio fisico nel quale vi sono garantite le condizioni psicofisiche necessarie per la sopravvivenza di un essere umano.

Un luogo di attraversamento che coniuga in sé la contraddizione umana di aspirare a qualcosa di diverso e rimpiangere ciò che si lascia alle spalle.Un luogo di utopie concrete dove per poter attuare una trasformazione del reale è necessaria la conoscenza dei propri bisogni e la trans-migrazione di essi, verso altre forme di vivibilità.

“Nel territorio delle trasformazioni e delle sottrazioni del sentire, in che modo è ancora possibile parlare del periferico? Il precedente dualismo centro-periferia appare superato dal dilatarsi del magma periferico che ha a che vedere non solo con la condizione dell’abitare, ma soprattutto con quella dell’uso e della produzione in relazione al territorio”.Un luogo di vicinanza e di contatto sensoriale con il proprio ambiente fisico, di sovraffollamento dello spazio abitabile da condividere con altri; un luogo di disorientamento in cui i punti di riferimento spaziale non sono convenzionali, è per questo che alcuni “particolari” legati alle attività umane di una comunità, si trasformano nei segmenti di relazione spaziale.

WIKIPEDIA SOURCESLUM: voce inglese,

usata in genere al plurale (slums), con cui si indicano agglomerati di abitazioni

che presentono condizioni costruttive, igieniche ed ambientali

estremamente misere e precarie.

In Italiano BARACCOPOLI

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È possibile affermare che lo slum è sì un luogo fisico e tangibile, un iperluogo, in cui lo spazio ambientale coincide con quello corporeo (la vicinanza coatta di individuo a individuo, il contatto con gli escrementi, i rifiuti che coincidono con il cibo), ma è anche una tendenza,

per certi versi apocalittica, che coinvolge e si diffonde a livello globale, come uno slum diffuso e capillare.

Ciò che accomuna uno slum, una bidonville, una favela, un agglomerato urbano disumano, un campo rom o un cpt, a me che scrivo e perfino a chi sta leggendo, è lo stato di

“assolutismo desoggettivante della realtà”, è il disagio che ne deriva, l’impossibilità di mantenere un equilibrio di adattamento all’ambiente che ci circonda.

In questo riscontro perfino una condizione socio-economica che fa entrare in connessione luoghi e culture geograficamente lontani tra loro.

Mi documento: l’Onu nel 2002 dà una definizione di slum come “luogo caratterizzato da sovraffollamento, strutture abitative scadenti o informali, accesso inadeguato all’acqua

sicura e ai sevizi igienici, scarsa sicurezza del possesso”.

Come descriverlo? Lo slum è una successione di baracche aggrappate le une alle altre, fogne a cielo aperto, vicoli maleodoranti per l’odore pungente di urina umana e animale,

una periferia che assume i connotati numerici di una città in cui si racchiude il surplus dell’umanità.

Slum, baraccopoli, bidonville, favelas sono tutti termini che si riferiscono a un luogo dove vivono persone in condizione socio-economiche molto precarie.

La stessa natura illegale, solo a volte, tollerata dalle autorità è caratteristica che accomuna gli slum sparsi nel mondo.

Nessuna differenza tra lo slum e la baraccopoli: lo stesso significato in lingue diverse.Cos’è una baraccopoli, se non come lo slum un assembramento più o meno vasto di

baracche e casupole costruite per lo più con materiali di recupero alla periferia di grandi agglomerati urbani. Bidonville (dal francese bidon, bidone, e ville, città). Altri termini usati per definire le baraccopoli sono favelas (in portoghese) e appunto slum o shantytown (in inglese).

In questo e in altro riscontro una connessione tra i diversi luoghi del pianeta degli slum.Soprattutto nella capacità della gente di generare identità e cultura con il solo suo essere

individuo, in luoghi di forte degrado pubblico. Un’autodeterminazione che assume un valore altro di r-esistenza a un vivere sociale carente sia di mezzi materiali che di possibilità di svolgere una vita dignitosa, dove per dignitosa si intende avere soddisfatti i beni primari

dell’esistenza.Credo che il miglioramento della realtà degli slum del mondo passi anche dal riconoscimento

ufficiale di questi insediamenti spontanei da parte delle autorità locali.

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E anche in questo sento una similitudine.Il termine inglese slum comprende il significato tradizionale di aree residenziali che in passato erano rispettabili o persino desiderabili, ma che con il tempo si sono deteriorate a causa dell’abbandono degli abitanti originali, trasferitisi verso nuove e migliori aree della città.La condizione delle vecchie case è decaduta e le unità abitative sono state progressivamente suddivise e affittate a gruppi a basso reddito. Un esempio tipico è quello degli slum nei centri di molte città storiche sia di paesi industrializzati che in via di sviluppo. Faccio riferimento ai senzatetto giapponesi, piuttosto che alle tent city di Los Angeles o alla baraccopoli perpetua di Messina, solo per citare una realtà vicina al nostro sguardo.

Secondo il rapporto The Challenge of Slum, pubblicato a opera di UN-HABITAT, l’agenzia dell’ONU per gli insediamenti umani, lo slum rappresenta una complessa varietà di situazioni che in altre lingue sono indicate con specifici nomi locali, e spesso con più di uno per la stessa lingua. Perciò sebbene il termine slum sia applicato a una grande varietà di tipologie di insediamento urbano, ciò che le accomuna è il fatto di essere delle aree caratterizzate da isolamento sociale ed economico, proprietà terriera irregolare e condizioni sanitarie e ambientali sotto standard.

La qualità delle abitazioni in questi insediamenti varia da semplici baracche a strutture permanenti, mentre l’accesso all’acqua, elettricità, servizi igienici e altre infrastrutture e servizi di base tendono a essere limitati.

Per comprendere quanto lo slum coincida con il vivere di diverse persone in diversi luoghi del mondo, faccio riferimento allo stesso “rapporto dell’agenzia dell’ONU per gli insediamenti umani” che definisce l’abitante dello slum come quell’individuo che non ha accesso a uno o più dei seguenti elementi: accesso all’acqua, accesso a servizi igienici, spazio vitale sufficiente, qualità/durata delle abitazioni, garanzie del possesso.

È chiaro che nel rapporto il concetto di abitante di uno slum è stato esplicitamente ridotto, mettendo da parte le condizioni socio-economiche in cui vivono questi abitanti informali, come gli standard di vita, gli aspetti culturali, l’impiego, il reddito e altre caratteristiche relative all’individuo o alla famiglia. Fattori per noi rilevanti che trovano forma e risposte non solo nelle nostre intenzioni progettuali ma anche nel nostro vivere, nel nostro essere abitanti informali che tentano di attuare meccanismi di appropriazione e di trasformazione nel tentativo di migliorare gli aspetti culturali, l’impiego, il reddito e altre intime caratteristiche relative all’individuo e al vivere pubblico.

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La poetica dello slum è da considerasi come una pratica, se vogliamo low-cost che cerca di dare risposta al degrado culturale presente nel proprio ambiente vitale. Lo slum esiste ed è causa del sistema economico dominante, lo slum sempre esisterà come processo di autorganizzazione dell’abitato.

Il rapporto The Challenge of Slums mostra come questi luoghi impongono ai loro abitanti la sopportazione di alcune delle più intollerabili condizioni di vita, la convivenza in quartieri sovraffollati e insicuri e la costante minaccia degli sfratti. La vita negli slum perciò impone enormi carichi sociali e psicologici sui residenti che spesso porta alla disgregazione dei nuclei familiari e all’esclusione sociale. Sebbene gli slum non siano degli obiettivi politici desiderabili in nessuna città, nel rapporto si mostra che la loro esistenza urbana può avere benefici involontari. Per esempio essi sono spesso il primo punto di sosta delle popolazioni che dalla campagna emigrano verso la città; forniscono degli alloggi a basso costo tali da poter permettere ai nuovi emigranti di risparmiare sufficiente denaro per la loro eventuale incorporazione nella società urbana. La maggior parte degli abitanti di uno slum trae il proprio guadagno da attività informali ma cruciali per la vita di molte città, fornendo dei servizi che non potrebbero essere facilmente disponibili tramite l’economia formale.

Le politiche adottate nei confronti dello slum sono state sempre rivolte all’estirpazione fisica delle abitazioni irregolari che non tengono conto della causa della loro esistenza.Credo che chiunque sia sottoposto a questo genere di condizioni e soprattutto chi ne ha preso coscienza, trovi che l’alternativa indispensabile alla sopravvivenza sia l’autodeterminazione, l’espressione di sè attraverso la gestione delle risorse di cui dispone.

Gli autori del rapporto ritengono infine, che l’ammodernamento degli slum esistenti è più efficace della rilocazione dei loro abitanti altrove e del successivo abbattimento degli insediamenti negli slum. Quest’ultima soluzione può creare infatti più problemi di quelli che tenta di risolvere. L’eliminazione e la rilocazione distruggono senza necessità una grande quantità di alloggi in cui i poveri delle città posso permettersi di vivere, mentre le nuove case sono spesso economicamente inavvicinabili per essi, con il risultato che le famiglie di sfollati ritornano a una sistemazione arrangiata in forma di slum.

Sono documentate numerose prove di soluzioni innovative sviluppate dai poveri per migliorare l’ambiente in cui vivono, che hanno portato a un graduale consolidamento degli insediamenti informali, rendendoli socialmente più coesivi, offrendo maggiori garanzie sul possesso degli alloggi, sviluppando l’economia locale e migliorando il reddito degli abitanti. Partecipazione è avere la possibilità di realizzarsi insieme agli altri utilizzando la propria conoscenza e i propri strumenti per aggiungere significato condiviso a quel tema o progetto di vita.

FOTO SOURCEla foto nella pagina precedente

è parte della raccolta che la centrle dell’arte ha effettuato su

http://www.flickr.com/groups/slumslumsudsud

in particolare la foto è stata concessa da DAMADINEVE

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SlumSlum/SudSud è un luogo da abitare dove entrare in contatto con le esperienze creative dello slum.

Dove raccontare lo slum attraverso un percorso, una successione di spazi che contengono significato.

Per noi, low-cost non significa dimenticare le rappresentazioni estetiche così come le caratteristiche emozionali e funzionali che delineano la vera

differenza tra una casa e un imballaggio. È per questa ragione che la casa, intesa come ricerca del rifugio, adotta le prestazioni

peculiari dei differenti materiali al fine di andare oltre la loro forma e destinazione originaria. Gli slum contrastano l’essere senza tetto dell’uomo moderno.

Questa posizione è chiara nelle opere altri artisti che vedono queste espressioni come una celebrazione dell’“indipendenza e ingegnosità individuale” che appare attraverso “enormi

divisioni culturali”. La proliferazione delle “negoziazioni urbane”, l’abbondanza di strategie di costruzioni ad hoc

nel globo, rivela un modo di fare e di essere al mondo. Manifesta una pratica e un’inventiva umana agente che è ingegnosa con ciò che si presenta,

siano situazioni, materiali, persone, o risorse come energia o acqua.

FOTO SOURCEla foto nella pagina precedenteè parte della raccolta che la centrle dell’arte ha effettuato su http://www.flickr.com/groups/slumslumsudsudin particolare la foto è stata concessa da DAMADINEVE

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all’altro finchè non trovano o non capiscono in quale buca cadere dentro”. Il mondo si metropolizza. Più della metà della popolazione mondiale vive in aree urbane caratterizzate da una potente attrattività per chi cerca di stare dentro e da una produzione drammatica di scorie sociali, di soggetti che non ce la fanno e precipitano fuori.Architettura soft-assemblaggio e autocostruzione:Leggerezza, basso costo, provvisorietà, con discreta ricercatezza, si sta sviluppando un modo nuovo e disincantato di affrontare il compito architettonico. Lavoro abbastanza diffuso, svolto da giovani architetti intenti a realizzare piccoli interventi con poca spesa e molto impegno progettuale. Costruzioni più simili a installazioni che non a edifici tradizionali, costruite da materiali come legno, vetro, metallo, montati a secco, conferiscono alla costruzione l’aspetto di un assemblaggio.L’architettura dell’assemblaggio è ormai commisurata a una tenden-za, su un livello esigenziale, su una qualità della vita radicalmente differente. Modificabilità, autocostruzione: cultura dell’hardware, cioè del ferramenta, del fai-da-te, la casa da autocostruire con il cacciavite e senza cazzuola. Strategia progettuale che meglio descrive le con-dizioni che informano le richieste d’uso nelle nostre metropoli diffuse contemporanee. Temi quali l’individualità, la standardizzazione, i trasporti, il lavoro agricolo suburbano, la semplicità di assemblaggio, la rapidità di costruzione, la modularità, le finiture industriali, descri-vono una realtà costruttiva e abitativa troppo a lungo ignorata dagli addetti ai lavori, dagli architetti e dagli amministrori. Certo non dalla gente comune che, proprio con queste tecniche, proprio con queste attese, ha costruito le sconfinate periferie metropolitane suburbane fatte di case autocostruite. Il progetto non può più fare i conti con la immodificabilità del prodotto: bisogna riconoscere il superamento del concetto di definitività temporale e spaziale del progetto di architet-tura che dovrà imparare a governare la propria modificabilità e la propria alterabilità.Leggerezza, basso costo, provvisorietà sono da intendere come condizioni che favoriscono la materializzazione di elaborate concet-tualizzazioni architettoniche. L’aspetto scatolare rimproverato a tanta architettura moderna, più un’immagine cubista che un autentico fatto costruttivo, diventa ora un fatto reale: i nuovi assemblaggi architetto-nici aspirano ad abbandonare disinvoltamente la fatica del costruire per diventare in forma ingrandita, modelli a scala reale, gioco delle costruzioni. L’immortalità dell’architettura, la sacralità del luogo archi-tettonico non hanno più ragione di esistere; l’architettura deve essere rapida come il nostro passaggio nel mondo è veloce. Concepire interventi provvisori con una durata di vita limitata, ma perfettamente inseriti, posizionati nel tempo in cui sono nati.

Esistono margini urbani popolati da un’umanità invisibile, non classi-ficabile in categorie sociologiche, che evoca una condizione di non riconoscimento nei confronti delle città ufficiali. Questo non è il frutto di una difettosa regolazione sociale ma è parte integrante delle metropoli contemporanee.Aldo Bonomi

ABITARE LOW COSTPer chi approda nella metropoli, magari sprovvisto di risorse e relazioni, le barriere all’inclusione si sono fatte sempre più alte. Ma, che cosa è successo? Perché una città pur abituata ad affrontare i processi di gran-de cambiamento sembra faticare a metabolizzare i flussi umani e culturali oltre che economici che, come un magnete, essa attira, incorpora e diffonde nel territorio circostante?E’ successo che la città, o meglio il suo corpo sociale, si è fratturato. Come altre grandi metropoli si è aperta al processo di globalizzazione. Flussi umani, ma anche economici e culturali, di capitali e di lavoro ne attraversano lo spazio urbano, lo modellano, trasformando anche i corpi e le identità dei soggetti che lo vivono. La città si è come estroflessa, proiettata verso la dimensione della competizione globale forse dimenticando l’equilibrio della sua coesione sociale. Le forme comunitarie che sostenevano le condizioni di vita dei quartieri e che costituivano la membrana protettiva in cui l’individuo era inserito, hanno teso a dissolversi. E’ questa radicale discontinuità delle forme sociali che incrina le forme dell’abitare a cui eravamo abituati.Convivono nella città una globalizzazione degli innovatori dall’alto, fatta del massimo dell’innovazione tecnologica, e una globalizzazione delle moltitudini dal basso, portatrici di bisogni elementari come vestirsi, mangiare e abitare. Il vecchio adagio heideggeriano secondo cui “l’essere prima abita, poi costruisce, e poi pensa il territorio”, tipico di un abitare dei luoghi, si è rovesciato nel suo contrario. Oggi, l’essere “prima pensa il territorio, poi lo costruisce e poi lo abita”.La globalizzazione ha cancellato la polarizzazione centro-periferia, che aveva a sua volta diluito la divisione tra città e campagna. Resta sulla scena il binomio dentro-fuori. Che genera nella società una duplice risposta: una frustrazione endemica, che spesso diviene paura di precipitare fuori, e una competizione molecolare permanente per essere dentro.Lo si osserva soprattutto nella dimensione metropolitana. Qui la città-corpo, quella dei corpi intermedi e delle classi in cui si riusciva spesso a prendere l’ascensore dalla periferia al centro si è fatta “città-flipper dove le persone più fragili sono palline che schizzano da un luogo

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DIARIO DI VIAGGIO

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LO SPAZIOIMPRESSIONI E FORME DI LUOGHIAPPUNTI DI VIAGGIO DI ROBERTA TERZI

SLUM. - Dall’alto è Kandinsky, la foto dal satellite è un quadro astrattista, forme variegate di animali preistorici, grandi esseri con ali, spina dorsale e lunghe code, di nuvole ammassate, saline di lamiere monocromo, crepe dei reticoli stradali, chiazze di tessuti urbani. Questa l’immagine che si ha dello slum fuori terra. Una intera regione interstiziale, una porzione di spazio che si frappone tra una realtà e un’altra. ‘In natura ogni sostanza estranea tende a depositarsi e a incrostarsi in ogni crepa, fessura o buco, vale a dire negli interstizi’ (trasher 1963 the gang).

Un tappeto marrone, il colore dall’alto è distinguibile, i contorni sono ambigui ma i confini attorno netti, si distingue il diverso, il colorato, il verde, il resto. Passeggiando si aprono vaste viste, ai nostri piedi l’immondezza, ci alziamo, il dislivello non è costante, non omogeneo, siamo sopra, sembriamo non appartenervi, ne siamo lontani, guardiamo tutto dall’esterno, solo lamiere, tetti, case, si intravede l’azzurro, il verde. Fitto così che non si immagina una composizione sociale, non si immagina che l’interstiziale è anche una fessura e una frattura nella struttura dell’organizzazione sociale.

Ma siamo dentro, viviamo anche noi colori, rumori e suoni. Prospettive, sembrano uniche nella forma ma in realtà è paradossale, sotto quella statica forma di cielo residua tra due case ogni direzione contiene sempre qualcosa di diverso. L’apparenza è la costante, margini sempre uguali si distinguono solo per il colore, una casa è un’abitazione, un negozio, una clinica, un saloon, è tutto.

Sagome, da dietro sagome che camminano, portando qualcosa, davanti una ripetizione di profili, lunghi, eleganti, ben vestiti. Si fermano, sostano, comprano, ridono, ignorano, guardano. Oggetti, appesi, per terra, in mano, strumenti o spazzatura.Bimbi, poggiati al muro, scrutano, giocano, osservano, circondano, si mantengono lontani.Siamo dentro ora, siamo nei loro occhi, ne usciamo, abbiamo il loro volto a un centimetro da noi, è indefinibile l’imbarazzo, il piacere, lo scompiglio, l’incanto. Lo sguardo ora è dentro il nostro cervello. La memoria inganna, ma qualcosa rimane senza bisogno di richiamarlo.

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PERCORSO D’ARTE Per raggiungere un luogo si hanno diverse possibilità, a seconda del momento, della scelta, dello stato d’animo, del tragitto, del tempo. È raro che

si abbia solo una possibilità, ma i percorsi obbligati esistono. Vincolati da mura, strisce pedonali, tragitti naturali, ostacoli, quasi mai nell’ordine del quotidiano che ci appartiene,

da una palizzata di grigie lamiere che vivacemente colorate e dipinte paradossalmente non cambiano contenuto, da un torrente naturale che in realtà raccoglie scarichi industriali, da

un fiume di coriandoli, depositi e rifiuti stratificati di diversa natura e incognita provenienza. Il percorso obbligato si dirama in realtà in una variegata composizione di diverse sostanze e materiali, componenti quotidiane di una miscela interstiziale tra forme di diverso genere, e di

declinazioni di difficile interpretazione.

Percorso obbligato tra corpi compressi tra teste rasate su lunghi colli neri o tra piedi veloci sotto gambe sottili, a seconda di dove si decide di guardare durante il cammino per arrivare in un piccolo luogo che in realtà si riempie di tutti queste sostanze contenendole attraverso

una semplice trasposizione, palese, implicita, affascinante, difficile, scelta, l’arte. Tre dimensioni rappresentate da una scatola di lamiera e legno, l’accesso è il semplice varco

di una porta che non ha nessuno scopo di nascondere percorsi, creare effetto sorpresa, interpretare un’architettura, già dalle fessure si legge il contenuto.

Un’esposizione, giochi di luce, sedute, legno sotto i piedi, scatole, barattoli di colore, una collezione, le pareti sono intonacate da parole e rivestite da abiti coloratissimi appesi con

chiodi, gli sguardi vi sono appoggiati e sono seduti per terra che aspettano, ascoltano, osservano, parlano, rispondono, si muovono, eleganti e si trascinano il riflesso

dei loro movimenti per quanto sono lunghi e snelli.C’è coerenza tra tutte le cose che questo piccolo contenitore racchiude, materiali semplici,

paradossalmente reperibili con difficoltà; vari fogli di carta appesi ad asciugare, che in realtà sono già l’esposizione di vari stadi di concepimento, che possono divergere o rimanere

primitivi secondo una scelta; colori, forse non compatibili perfettamente con il loro uso; e diverse mani lunghe che operano secondo leggi che non è detto che ci siano, e tutto questo

rende l’arte la cosa più coerente a questo luogo. Arte che veicola un grande desiderio di comunicazione, di lanciare messaggi, di esportarli fuori le case e le strade di loro, artisti,

per raccontare proprio quello che vi succede dentro.

C’è una forma di organizzazione in tutto questo che vive recuperando volontariamente e spontaneamente la comunicazione ed è aperta a nuovi esperimenti, nuove esperienze.

E come rispondiamo noi? Per riempire di significati un qualsiasi altro spazio, un luogo che in realtà non è meta di un percorso forzato, ma si riempie di corpi affamati di altro che

non il quotidiano, animati da volontà di assorbire ogni possibile forma di comunicazione, luogo aperto a esperienze dissimili, e all’importazione più coerente anche stavolta di forme

diversificate di vivere l’arte e di darvi corpo?

FOTO SOURCEla foto nella pagina successiva è parte della raccolta che la centrale dell’arte ha effettuato su http://www.flickr.com/groups/slumslumsudsuded è di CHRISSY OLSON

FOTO SOURCEle foto nella pagina precedentesono di Francesco Noto.

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NELLO SLUM

APPUNTI DI VIAGGIO DI GIANLUCA SALOMONE

…Scesi dal matato, bizzarro e accogliente autobus quasi sempre stracolmo di persone e bagagli aggrappati e legati nei posti più improbabili al ritmo di una musica ad alto volume.

Battista ci disse che per raggiungere la scuola nel cuore della slum di Mukuru bisogna seguire le rotaie e tagliare la strada principale per poi immettersi nel sentiero sterrato

laggiù, dove finiscono le fabbriche.

Battista conosce questi luoghi e questa gente; è un padre missionario che ha scelto ormai da tempo di vivere nella terra d’Africa.

Le rotaie proseguivano giù lungo lo sterrato; a volte scomparivano e altre volte ritornavano tra piccoli campi di mais e cumuli di spazzatura.

Le due linee di metallo si stendevano su un terreno polveroso costeggiato da piccole abitazioni costruite prevalentemente in lamiera ondulata, mattoni di terra e legno.

Le case diventavano sempre più compatte a formare un’unica trama, dal colore della terra, della ruggine; dall’alto il paesaggio era formidabile: un avvicendarsi di tetti di lamiera quasi

all’inverosimile… eravamo nel cuore di un immenso villaggio di baracche.

Percorrendo la via principale incontravamo scene di vita di ogni genere; la densità di popolazione era altissima e questa frenetica vitalità alimentava l’emozione del viaggio.

FOTO SOURCEle foto nella pagina precedentesono rispettivamente da sinista a destra di Francesco Noto eAlessandro Gordano.

FOTO SOURCEla foto nella pagina successiva è di Francesco Noto

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Lungo il cammino si aprivano una moltitudine di tortuosi sentieri di terra, sembrava di stare in un labirinto; ruscelli di melma scorrevano ovunque.

L’olfatto era stimolato da un odore intenso e penetrante; tra l’amalgama dei suoni della vita nel villaggio la voce di Battista ci segnalava che eravamo arrivati.

Fu quì che incontrammo Shabu e i ragazzi del Wajukuu Project.

Tra le attività della scuola i ragazzi del Wajukuu si occupavano di un laboratorio di stampa xilografica e, dallo sguardo e dal calore del suono delle loro parole, si poteva intuire l’impegno e la passione nel loro lavoro e la volontà e la consapevolezza di poter esprimere attraverso la creatività i loro sogni ma anche tutto il loro pensiero su come vanno le cose nel mondo a Najrobi e nello slum.

Loro vogliono condividere questa esperienza dall’interno e aprire nuove vie di comunicazione e di sviluppo culturale e sociale verso l’esterno.

Il loro è un progetto sociale, per una società futura migliore.

Uno slum è la conseguenza di uno sporco gioco politico ed economico mondiale, lo sanno bene; la loro è una denuncia all’indifferenza e all’atteggiamento che il potere assume di fronte l’impegno preso di migliorare la qualità della vita di tutti e non investire in progetti disumani e innaturali per propri fini.

Ci invitarono a visitare il loro workshop prima della nostra partenza in Italia che si trovava sempre a Mukuru ma nella zona ovest.

Mentre raccoglievamo i nostri bagagli un canto corale si intonava all’unisono con il resto del mondo e tutto a un tratto dall’ umile architettura, una moltitudine di bambine e bambini uscivano a riempire la piazza di danze canti e giochi…

Intensa di luce e di buio come il volto che riflette nella pozza d’acqua che ristagna ormai da tempo, caldo e gelido come lo sguardo di chi, con cotone e cera trama l’abito per la grande festa del popolo dei bambini…

FOTO SOURCEle foto nella pagina precedente

è di Francesco Noto

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Il termine usato e abusato di “Arte Africana” appare veramente inadeguato quando ci riferiamo alle culture dell’Africa Nera. A quale tipo di “Arte” alludiamo?

E a quali paesi e a quali delle antiche aree culturali?Nessuno, per descrivere nello stesso momento l’Arte Fiamminga, il Surrealismo e l’Arte della

Grecia classica userebbe il termine di “Arte Europea”, bensì farebbe una precisa distinzione sia di spazio (luogo) che di tempo (epoca).

Così, quando qualcuno volesse parlare di “Arte Americana” non potrebbe certo alludere contemporaneamente all’Arte degli indiani Hopi o Kwakiutl, alla Pop Art e all’Arte dei popoli

sudamericani prima di Colombo. Usare quindi il termine esemplificativo di “Arte Africana” quando ci si riferisca a una testa

figurativa in bronzo del Benin del XVI secolo e contemporaneamente a una maschera “kanaga” dei Dogon dei primi del ‘900 o ad un reliquiario Kota-Obamba dell’800 è un errore

nel quale oggi non si dovrebbe più incorrere per non cadere nella trappola insidiosa di un superficiale e occidentalizzante etnocentrismo.

Alcuni potrebbero ribattere che la scultura africana nasceva da una tradizione religiosa e socio-politica omogenea, avente in comune molti aspetti in quasi tutte le aree in cui si era

sviluppata, ripetendosi poi in maniera iterativa nell’arco dei secoli.

IL RUOLO SOCIALE

DELL’ARTE

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I temi sociali sono prevalenti nell’arte africana tradizionale che, per esempio, raffigura le donne come madri che allattano o cullano i propri bambini, e gli uomini come capi anziani della comunità o come guerrieri vittoriosi, a cavallo e in abiti da guerra. Anche in numerose rappresentazioni in maschera i personaggi, sia umani sia animali, hanno ruoli che simboleggiano comportamenti sociali più o meno corretti. In quelle degli Ijo e degli Ibo meridionali della Nigeria si incontrano le figure dell’avaro e dell’ingordo; tra gli Egungun dei vicini Yoruba, il pettegolo, il goloso e lo straniero dai modi curiosi simboleggiano modelli sociali negativi.

L’opinione della comunità è parte essenziale della tradizione artistica di molte culture africane. Lo studio dei canoni estetici seguiti da artisti e critici indica una chiara predilezione per l’astrazione. Così, ad esempio, tra gli Yoruba della Nigeria i criteri di bellezza di una scultura si basano su un certo numero di elementi non figurativi, che comprendono: visibilità, anche quando essa comporti distorsione delle proporzioni; verticalità, che indica gioventù e buona salute; simmetria, che esclude gesti o posture più naturali; levigatezza, che suggerisce anch’essa gioventù e una condizione fisica priva di imperfezioni; enfasi sull’evocazione di una somiglianza, non su una rappresentazione puntuale. In alcune culture africane questi dettami venivano intenzionalmente trasgrediti per rappresentare coloro che assumevano comportamenti antisociali. Gli Ibo e Ibibio della Nigeria, per esempio, scolpivano maschere dai tratti orribili, mostruosi o asimmetrici per quei personaggi che nelle rappresentazioni avevano il ruolo di individui ribelli, malvagi o pericolosi.

Per molto tempo fu anche usato, come alibi, il fatto che il sostantivo “Arte”, per noi così importante e basilare, fosse del tutto sconosciuto agli scultori tradizionali africani. Però, non era certo a loro sconosciuto il gusto estetico e la concettualità nella sua forma più pura fatta di analisi, sintesi e sublime ardire esecutivo, qualità queste, che nella loro unicità fanno di alcuni scultori, nella quasi totalità dei casi ormai irreversibilmente anonimi, dei geniali, grandissimi, veri maestri.

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L’idea di sviluppare la musica, la danza, il teatro, la pittura a Korogocho con i bambini stessi, espressione naturale dell’arte, consiste nel trasformare, i ghetti della città in luoghi d’arte.Numerosi laboratori artistici sono iniziati dalla disponibilità e dall’esperienza di molti artisti

africani e non. Importante è stato, e continua ad esserlo tuttora, l’apporto di Elimu Njau, uno dei maggiori artisti africani, uno dei pochi che si è rifiutato di vendere il suo talento al

consumismo turistico dell’arte, pagando di persona la sua sceltacon una sorta di isolamento forzato.

Ne è uscita una compagnia piuttosto variegata per origini personali, esperienze, condizioni di vita, conoscenze… E questa è la caratteristica che contraddistingue l’arte negli slum

anche oggi e che può essere considerata una vera e propria ricchezza.Inizialmente, l’approccio timido con le arti, della gente che da lontano, nell’oscurità, con quel poco o pochissimo che ha e per quello che è, esce dal mimetismo immobile in cui si trova e

si mette in moto, camminando, cominciando a rendersi visibile.

Di fondo alcune, poche, idee: “Mostriamo quello che sappiamo fare” tanto spesso infatti bambini di strada si sentono dire che sono dei buoni a nulla e quasi quasi se ne sono

convinti - “Andiamo allo scoperto e prendiamo la parola” - perché l’autostima si conquista credendoci e sperimentando le proprie capacità “Apriamo un varco tra coloro che non

vogliono nemmeno ammettere che esitiamo” abbiamo tutti la responsabilità della verità, e perché la verità delle condizioni di vita dei bambini di strada emerga bisogna uscire dal

ghetto, usando un’espressione korogochana.

ART & STREET

CHILDRENnella pagina precedente:destra: il laboratorio di xilografiasinistra: laboratorio teatrale del wajukuu

sotto:laboratorio teatrale del wajukuu

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E così, con queste poche ma chiare idee di fondo, è iniziato il lavoro vero e proprio senza esclusione alcuna delle espressioni dell’arte: un tuffo nella tradizione con le danze Kikuyu e Luo; la scoperta dei talenti, c’è chi suona, chi danza, chi canta, chi recita, chi compone; la consapevolezza di sè: le maschere, il mio corpo e quello degli altri; la consapevolezza dell’ambiente: due fiumi scorrono a Korogocho, ma sono spariti i pesci ed è molto sconsigliato farci il bagno, molto meglio riciclare lattine della discarica adiacente, trasformandole in pesci di latta, per renderle arte, rivenderle al mondo ricco e ricavare i soldi delle tasse scolastiche.Fondamentalmente la scelta è sempre multi: multiculturale, multidisciplinare, ma soprattutto multiorientata: è l’arte, quella ufficiale degli artisti affermati che ha bisogno della vitalità degli street children per ritrovare o rigenerare la propria vitalità. Sono gli street children che hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a trovare il media giusto per esprimersi e per comunicare se stessi, il loro mondo, il loro futuro.L’arte riacquista il suo posto di vitalità creativa dentro un contesto storico, sociale e ambientale, fa sue le istanze dei bambini disperatamente alla ricerca di un futuro. I bambini, da parte loro, cominciando dal palcoscenico, si appropriano del mondo, contribuiscono a crearlo a partire dalla loro immaginazione, dai loro sogni, dal loro desiderio di cambiare le loro condizioni di vita. Infatti, se il mondo è uno e finito, questo non ce n’è un altro, noi abbiamo il dovere di consegnarlo sano e salvo nelle mani di tutti i bambini del mondo, di dare loro le possibilità di cui hanno diritto.

Il festival dei bambini di strada al Paa Ya Paa (centro culturale e artistico non allineato di Nairobi, caduto in disgrazia dopo un incendio che alcuni dicono doloso), dal titolo “Celebriamo la vitalità dei bambini di Korogocho e la rinascita del Paa Ya Paa”. Il festival ha suscitato molto interesse per l’incredibile capacità comunicativa dei bambini, oltre che per le buone capacità tecniche che hanno dimostrato di avere. È stato un momento molto carico in cui veramente si poteva toccare con la mano il potere dell’arte: “the tranformative power of art in building people and community”.Bellezza, creatività e praticità ‘estratte’ dalla spazzatura. Arte popolare?Arte di arrangiarsi? Dal Kenya arriva una lezione sulla capacità di sopravvivere in condizioni proibitive. Fra le discariche e gli slum, insieme ai ragazzi e agli artigiani di strada, alla scoperta di come si riesce a sopravvivere, a recuperare e promuovere la propria esistenza tra mercati e villaggi kenioti dove si sviluppano attività e forme di sostentamento autonome; l’esperienza dello sfruttamento dei materiali poveri e di riciclo e la scoperta di forme d’arte locale di grande forza espressiva, a volte ingenua ma di grande intensità, dai giocattoli alle opere di artigiani e artisti. La forza di un’arte fantasiosa e un po’ magica.

il laboratorio di xilografia

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“Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti:

il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di

ricordi intatti...

Tali luoghi non esistono ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato.

Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo.

I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno, l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza riconoscerle alcune foto

ingiallite dal bordo tutto strappato. Non ci sarà più la scritta in lettere di porcellana bianca incollate ad arco sulla vetrina del piccolo caffè della rue Coquillière: “Qui si consulta l’elenco telefonico” e “spuntini

a tutte le ore”.

Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi:

scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche

briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno.”

Georges Perec, Specie di spazi

LE STORIELa voce letteraria africana si fa cantastorie in mezzo ai cantastorie, al ritmo della sua parola,

gli autori narrano costumi, gesti, riti, con una lingua piena di invenzioni, immettendo nuova linfa nelle convenzioni per ritrovare i toni e le vibrazioni del racconto e del proverbio antico.

É del tutto naturale accostarsi alle fiabe africane con una qualche curiosità e leggerle con aspettative diverse da quelle che si hanno nei confronti del patrimonio fiabesco europeo.

Ci si chiede quali temi e quali motivi ricorrano, quali strategie narrative le governino, quali personaggi e caratteristiche vi operino.

Il primo dato che non può non colpire è l’impressionante presenza degli animali. (...)

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Gli animali più diversi hanno una parte, mai secondaria, in quasi tutte le storie.. Insieme agli ovvi elefanti e leoni, troviamo il lemure e il ghiro, il camaleonte e il fringuello, la mantide e l’eland (grossa antilope), il ragno, l’aquila e l’orca di stagno (...) Il più delle volte gli animali hanno comportamenti simili agli umani, anche per gli aspetti più convenzionali e “culturali”. (...) D’altra parte, non mancano nei racconti d’Africa temi, centrali o marginali, che mostrano affinità con fiabe che appartengono al mondo europeo. E non c’è proprio da stupire. Diceva Propp: “Ogni popolo ha le sue fiabe nazionali e i suoi intrecci. Ma vi sono anche intrecci di un altro tipo, quelli internazionali, noti in tutto il mondo o almeno a un gruppo di popoli (..) In una certa misura la fiaba è il simbolo dell’unità tra i popoli. I popoli si capiscono a vicenda attraverso le fiabe”.

Grande è l’importanza che le storie ricoprono per l’umanità dalla notte dei tempi. In quell’epo-ca il Dio africano Anansi, rubò le storie a Tigre e da allora gli uomini gustarono la delizia della narrazione alterando sempre più la loro selvaggia natura animale.

Neil Gaiman dice a proposito: “Le storie sono come ragni, con lunghe zampe, e sono come le ragnatele in cui l’uomo finisce aggrovigliato, ma che se le guardi sotto una foglia, nella rugiada del mattino, sembrano tanto belle con quel modo di collegarsi una all’altra strette strette”.

[...] Ananse fracassò il piatto e scese. Si tolse il vestito col ricamo oyoko, lo ripose; e andò nel bosco. Strada facendo vide appesa là una bellissima cosa che si chiamava Mpere, la frusta. Disse: oh, che bellezza! Questa cosa è più bella dell’altra. Questa frusta è bella. La frusta disse: non mi chiamo mica bella. Il ragno disse: allora come ti chiami? Lei disse: mi chiamo Abiridiabrada ovvero “sferza-e-lascia-il-segno”. E Ananse disse: sferza un poco così mi fai vedere. E la frusta gli calò addosso, biridi, biridi, biridi! Padre Ragno gridava: pui! Pui! Un uccello che stava posato lì vicino disse ad Ananse: dì “adwobere, vacci-piano”. E Ananse disse: “adwobere, vacci-piano”. E la frusta smise di colpirlo. [...]

Gli scrittori contemporanei africani hanno fatto i prototipi di una narrativa che, abbandonato definitivamente l’esempio occidentale, si serve delle parole per raccontare i mali dell’univer-so post-coloniale, abitato da contraddizioni dolorose e fatali, che nessun discorso ideologico può risolvere.

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“Bar Karara, River Road, Nairobi.«Atmosfera calda e accogliente, servizio rapido e animazione.»

Così sarebbe stato scritto nelle inserzioni, se qualcuno avesse voluto vendere qualcosa, che si ven-deva benissimo da sola. Per essere più precisi, il Bar Karara era già stato venduto, venduto ai clienti

adoranti che vi si affollavano dentro giorno e notte.In questo immondezzaio di città pare sia l’unico posto dove ci si possa prendere una sbronza decente

di karara con due scellini. Il karara ha l’aspetto dell’acqua sporca, il sapore del succo di sisal, l’odore di una fogna a cielo aperto ed è potente come la benzina. I clienti lo amano,

amano ogni goccia puzzolente del suo liquido.Anche il bar è caldo e accogliente. E come potrebbe essere freddo? A parte la porta, l’unica altra

apertura è la finestrella del gabinetto sul retro. Se l’aria fresca vi entra, si riscalda ben presto nel suo viaggio attraverso il gabinetto. Il gabinetto manda un odore piuttosto pesante, in particolare dopo

che è stato visitato dai clienti. Ma è il karara ad attirare le folle, non certo il gabinetto pulito o l’aria fresca. Gli onorati clienti del Bar Karara sono una simpatica compagnia. È gente che proviene da tutte le strade e gli angoli della vita. Per questo i c’è animazione al Bar Karara. Ci vanno calzolai ambulanti, lustrascarpe, spazzini, importanti uomini d’affari, venditori ambulanti di frutta e verdura, i meccanici di

strada: tutti. La maggioranza sono vecchi cittadini raggrinziti, che vivono in armonia nel Bar Karara, lontani da ogni concorrenza. Loro sanno che non paga fracassare una bottiglia sulla testa di un altro

compagno di sbronza. No, a meno che questi non abbia accidentalmente versato il tuo karara o ti abbia chiamato povero ubriacone.

Nel Bar Karara non ci sono poveri. Tutti hanno il diritto di stare lì; e un diritto è pur sempre un diritto, sia che valga dieci scellini o solamente due. Ma se un tizio ti dà del poveraccio,

ci sono ragioni sufficienti per rompergli laschiena. Poi però la polizia ti dà la caccia e ti sbatte dentro. Raramente paga spaccare la testa a qualcuno. La migliore cosa da fare è pagare da bere al tuo nemi-co per provargli che, dopotutto, non sei poi così povero come lui crede. Per questo c’è quasi sempre

pace e armonia nel Bar Karara.”

Meja Mwangi Afcolta, Fam

LA LINGUAL’Africa è ricca di una letteratura orale linfa vitale delle sue culture. Il valore intrinseco del-

l’oralità è la trasmissione del sapere, le regole sociali, le storie. Per lasciare tracce della sua letteratura, l’Africa è stata obbligata a passare dallo stadio orale a quello scritto.

Lo stimolo alla letteratura scritta è dovuto alla coabitazione con i colonizzatori europei e nella maggioranza dei casi è avvenuto con l’uso delle lingue dei dominatori come l’inglese, il francese, il portoghese. Ancora oggi si parla di letteratura africana anglofona, lusofona e

francofona. Chi scriveva in una lingua africana, lo faceva solo per pochi.I nigeriani Wole Soyinka (Nobel 1986), Achebe, Sony Labou Tansi, Nuruddin Farah, Ngugi wa Thiong’o, Ken Saro-Wiwa hanno usato le lingue dominanti, il più delle volte, intrecciati ai dia-letti e lingue locali. La questione della lingua da usare e il riferimento obbligato alla propria

Elfu huanzia moja

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cultura ha alimentato e alimenterà per lunghi anni contrasti soprattutto fra scrittori di lingua francese e quelli anglofoni. In particolare sulla negritudine il nigeriano Wole Soyinka scriverà: “La tigre non grida la propria tigritudine, la mette in atto”.È soprattutto con Kourouma e la pubblicazione del libro “I soli delle indipendenze” nel ’68 che il rapporto fra scrittore africano lingua francese è radicalmente cambiato. Kourouma ha introdotto degli “africanismi” che hanno generato una scrittura tipicamente africana. Egli ha miscelato i saperi linguistici al profitto di uno stile marcato dalla biculturalità. In pratica il francese e la lingua malinké vengono usati per una scrittura particolare: l’invenzione di una lingua basata su un codice che si fonda sull’oralità, definita «oralitura». Così la scrittura di Kourouma diventa un gioco fra le lingue e le sue tradizioni culturali africane sia ironizzando sulle dittature che affrontando il dramma dei bambini soldato.

L’oralitura che, declinata al femminile, affronta il quotidiano delle società africane: Bà, Sow Fall, VéroniqueTadjo, Ken Bugul e le più contemporanee Buchi Emecheta, Bessie Head, Mia Couto, Khady Sylla, Nafissatou Dia Diouf, Calixthe Beyala, Ama Ata Aidoo, Etoke, Werewere Liking, affrontano le condizioni della donna e la necessità di una sua liberazione nella società maschilista africana.

Dei “moderni” della letteratura negro-africana, la maggior parte vive in esilio in Francia o in Inghilterra. Essi portano una verve ibrida d’identità multipla e una collusione fra diverse tradizioni narrative dal cinema al teatro alla canzone e ai fumetti. I loro nomi: Ben Okri, Kossi Efoui, Kangni Alem, Florent Couao-Zotti, Abdourahman Waberi, Jean Luc, Sami Tchak, Daniel Biyaoula, Alain Mabanckou, Bessora, Moses Isewaga, Jean Roger. Sottolinea Kossi Efoui: “scrittori percepiti come singolarità e non rappresentanti una estetica collettiva della loro origine o della loro storia”. Rifiutano l’etichetta di “scrittore africano”: “siamo scrittori punto e basta”. Rifiutano di rinchiudere la loro opera in schemi identitari: puntano all’universale. Per esprimerlo meglio il togolese Kangni Alem fa sua la formula del portoghese Miguel Torga: “’universale, è il locale senza i muri”, una questione legittima in quest’era così globale. Con loro la letteratura africana cerca di assumersi come letteratura fino a fare dire a Kossi Efoui questa sconcertante battuta: “la letteratura africana non esiste”. In questa nuova generazio-ne il tema dell’identità diventa più complesso con l’emergere anche del tema dell’adolescen-za oltre a quello permanente dell’esilio.

Elfu huanzia moja

le migliaia cominciano da uno - detto swahili

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WAJUKUU

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50 I

Wajukuu (in swahili, nipote) è una comunità che ha fondato

un centro di arte visiva nell’area di Mukuru di Nairobi, una

area industriale circondata da diverse comunità slum.

Wajukuu nasce nel 2005 da un gruppo di giovani artisti di Mukuru e at-

tualmente ha 15 ragazzi e 35 bambini tra i suoi membri (molti dei quali

sono orfani).

Lo scopo del centro è quello di allevare talenti artistici,

coltivare un senso di dignità e stima di se stessi tra i giovani di Mukuru,

e di contribuire creativamente allo sviluppo del loro ambiente.

“Come per la mente pura tutte le cose sono pure, così per la mente

poetica tutte le cose sono poetiche”.

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III

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III

Paul Njoroge alias Pablo, Nouiding (?) of pots day - woodcut - 35 cm x 35 cm

nella pagina precedente:Paul Njoroge alias Pablo, Untitled woodcut - 37cm x 31cm

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IV

John Gushua, Nouiding (?) of pots day

wood print - 35 cm x 35 cm

nella pagina sucessiva:John Gushua,

Untitled wood print - 37cm x 31cm

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IV

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VII

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VII

Joseph Waweru, school days wood print - 34 cm x 26 cm

nella pagina precedente:Joseph Waweru, feeling music (particolare)wood print - 36 cm x 25 cm

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VIII

Millan Kamau, Nouiding (?) of pots day

wood print - 10 cm x 16 cm

nella pagina sucessiva:Millan Kamau,

Dream cost (particolare) wood print - 34 cm x 35 cm

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VIII

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XI

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XI

Ngugi Waveru,Untitledwood print - 37 cm x 37 cm

nella pagina precedente:Ngugi Waveru,Untitled (particolare) wood print - 51 cm x 32 cm

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XII

Peter Miguel,Untitled

wood print - 28 cm x 13 cm

nella pagina sucessiva:Peter Miguel,

Woodcock (particolare) wood print - 25 cm x 18 cm

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XII

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XV

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XV

Peter Musyoki, Untitledwood print - 38 cm x 26 cm

nella pagina precedente:Peter Musyoki,Untitled (particolare) wood print - 37 cm x 25 cm

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XVI

Lawrence Mwangi (Shabu), Rainday

wood print - 33 cm x 36 cm

nella pagina sucessiva:Lawrence Mwangi (Shabu),

Untitled wood print - 38 cm x 51 cm

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XVI

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XIX

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XIX

Lazarus Timbuti,Untitledwoodcut - 37 cm x 32 cm

nella pagina precedente:Lazarus Timbuti, Untitled (particolare)woodcut - 21 cm x 31 cm

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Wajukuu Arts Project

NGUGI WAWERUIl mio nome è Ngugi Waweru. Sono nato nel 1987 nel Distretto di Molo in Kenya e sono emigrato a Nairobi a causa della guerra. Nel 1995 mi sono iscritto alla Saint Elizabeth primary school. Ho iniziato ad interessarmi all’arte nella seconda classe e nella settima classe ho abbandonato la scuola perché la mia famiglia non poteva permettersi di pagare per me le tasse scolastiche. Dopo due anni sono ritornato a scuola e ho terminato gli studi con i miei esami finali che sono andati bene, ma non ho potuto frequentare la High School sempre per le tasse, finché ho incontrato alcuni ragazzi che si erano diplomati in una scuola d’arte e abbiamo pensato che potesse essere una buona idea far partire un progetto chiamato Wajukuu Arts Project. Io dipingo, faccio stampe, sculture e performance. Traggo ispirazione da ciò che succede attorno a me, tutte le manifestazioni della gente e la sua cultura. Il messaggio che viene dalla mia arte è mostrare alla gente come stare insieme, il mio sogno è vedere i giovani del ghetto proseguire insieme così che possano mostrare ai bambini una buona direzione da prendere piuttosto che finire nella droga e nel crimine.

JKMi chiamo John Guchua Muthoni. Sono nato nel 1988 a Nairobi in un posto chiamato Muthurwa. Più tardi sono emigrato nello slum che si trova a Makadara conosciuto come Lunga Lunga che è molto popolato e dove passa la fognatura di scarico proprio in mezzo alle case. Ho frequentato nelle vicinanze la Saint Elizabeth Primary School dove ho terminato i miei primi studi. Ero ansioso di frequentare la High School ma le possibilità della mia famiglia non erano economicamente stabili così sono stato costretto a rimanere a casa e ad aiutare i miei nei loro servizi quotidiani. Due settimane dopo sono stato condot-to da un mio amico nel centro di formazione per l’arte a Mukuru e sono entrato a farne parte. Ho studiato arte per due anni e presto mi sono diplomato con alcuni dei miei amici. Ero a quel punto capace di raccogliere una piccola somma di denaro per sopravvivere risparmiandone una parte e utilizzando il resto per comprare i materiali artistici. Visto che volevo iscrivermi alla High School ho utilizzato il denaro risparmiato per pagarmi l’iscrizione alle classi. Sebbene la produzione e la vendita dei lavori artistici prendevano molto tempo sono riuscito a frequentare un gruppo di ragazzi e di ragazze interessati all’arte e abbiamo deciso assieme di formare un progetto chiamato Wajukuu. Ora io ho cinque anni di esperienza nel campo dell’arte, partecipando anche a differenti esperienze in Kenya, Spagna e Slovacchia. Pratico formazione ai bambini che fanno parte del progetto così da aiutare loro a manifestare i loro sentimenti e affrontare le loro sfide attraverso l’arte. Il mio sogno è vedere il progetto andare avanti e avere un ampio luogo dove lavorare per l’arte, un buon mercato per questo e imparare differenti lingue come spagnolo e italiano. La mia arte parla soprattutto delle donne a causa delle prove che loro affrontano come la disuguaglianza sessuale, la gravidanza non desiderata e le usanze tradizionali e queste sfide che loro si trovano d’avanti le portano a essere coinvolte vagabondando nella strada della prostituzione e del furto.

MUKIl mio nome è Poul Nioroge. Sono nato nello slum nel 1988 e ho completato la mia educazione fino all’ottava classe. Mi sono unito a un gruppo di artisti per formare il Wajukuu Art Project nel 2002 in cui ho ritrovato in me capacità artistiche e ho così fatto la mia scelta di essere un artista. La mia arte mi aiuta a esprimere astrattamente le mie sensazioni nel trascorrere del tempo.

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SHABUIl mio nome è Lawrence Mwangi Wanjiku (Shabu), sono nato nel 1985 nel Nyandarua District e successivamente sono migra-to a Nairobi nello slum Fuata Nyayo a SouthB. Lì ho iniziato la mia educazione elementare alla Mukuru Primary School. Dopo due anni mi sono spostato nello slum Lunga Lunga. Più tardi mi sono iscritto a scuola nel 1995 fino al 2000, dopo ho ab-bandonato la scuola per problemi di famiglia. In quel tempo mi ero unito a una classe per studiare arte a scuola, così la mia carriera e la mia passione per l’arte cominciò all’inizio del 1998, proprio quando ho dovuto lasciare la scuola. Non avevo un posto dove andare, così stavo a casa, svolgendo le mie attività e dedicandomi anche in parte all’arte per circa tre anni. Nel gennaio successivo ho iniziato a frequentare un centro di formazione per arte e mestieri per consolidare la mia professione. Sono rimasto lì per un anno e più tardi mi sono diplomato con i miei amici più stretti. Successivamente nel 2005 siamo partiti con il nostro progetto conosciuto come Wajukuu Art Project che si sviluppava nella nostra comunità. L’obiettivo era quello di mantenerci al lavoro insieme come una squadra e dopo ci siamo focalizzati sui problemi che i giovani e i bambini devono affrontare nella nostra società. Io e i miei amici abbiamo deciso di partire con una classe di formazione per bambini per dare loro una mano attraverso l’arte. La mia carriera professionale è cominciata nel 2004 quando dei miei lavori sono apparsi su un giornale in Kenya chiamato Msanii. Io mi esprimo usando il semi-astratto come un modo per comunicare senti-menti al mondo intero. La mia arte parla dell’umanità e della politica in Kenya. Io ero ispirato da mio zio a essere un artista, lavorare insieme alla mia squadra mi ha reso energico, sebbene mi capita di stare per tre mesi o quattro senza vendere niente, qui in Kenya è veramente difficile vendere un pezzo d’arte perché i kenioti non apprezzano l’arte, specialmente in questo slum.

TUMIl mio nome è Lazarus Tumbuti e vengo da Mukuru. Sono nato nel 1989 e ho frequentato la Saint Elizabeth Primary School fino all’ottavo livello. Ho aderito al progetto chiamato Mukuru Art and Craft e dopo due anni mi sono diplomato. La mia arte parla di ciò che io vedo accadere negli slums, io amo dipingere le donne, che sono belle e amabili.

WECHEIl mio nome è Joseph Waweru Wangui. Sono nato nel 1987 nella città di Nakuru. Ho avuto la mia educazione elementare in un posto chiamato Githurai e nel 2003 sono andato a Mukuru dove ho fatto esperienza delle mie potenzialità per poter esse-re un artista. Ho frequentato un centro per la formazione a Mukuru per acquisire più capacità artistiche. Ho fatto questo per due anni. Io sono solo, senza genitori, vivo solo con mia zia e mia cugina che sono gentili con me, loro mi hanno supportato nella mia carriera artistica. Ho fatto arte per cinque anni. Ciò che desidero nella mia vita è essere un artista professionista e conoscerne sempre di più. Quando sono libero il sabato io aiuto i bambini nella loro formazione artistica. Il mio programma lavorativo è stato di grande successo, ho tenuto un workshop con alcuni grandi artisti in Kenya, Uganda, Spagna e Olanda. Ciò che desidero in futuro è avere un buon mercato per la produzione dell’arte ed essere indipendente così da poter suppor-tare i bambini della mia comunità e per aiutare loro a dare il loro messaggio attraverso l’arte. La mia arte parla di ciò che sento, della mia comunità, ciò che vorrei vedere è un mondo pacifico. Io faccio parte con un gruppo di artisti del Wajukuu Art Project dove spero di avere un buon futuro.

KAMUIl mio nome è Millan Kamau. Sono nato nel 1989. Ho frequentato la Saint Elizabeth Primary School e più tardi mi sono iscritto a una scuola d’arte chiamata Mukuru art and Craft dove ho ritrovato le mie capacità artistiche come dipingere, fare stampe e fare lavoretti con perline. Mi sono unito a un gruppo di artisti e ora lavoriamo insieme nel Wajukuu Art Project. Io ho sviluppato una tecnica di pittura e stampa. I miei dipinti parlano soprattutto di umanità e natura. Sono anche un buon rapper e un ballerino tradizionale. Ho parecchi certificati come artista mr. Mukuru, miglior ballerino tradizionale e il migliore nella gara Kiwi (atterige). Il mio sogno è diventare un buon rapper e un artista figurativo.

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MSKSBSIl mio nome è Peter Migwi Muthoni. Sono nato nel 1990 in un posto chiamato Naivasha a Longonot e dopo sono migrato nello slum di Makadara chiamato Lunga Lunga. La mia famiglia è composta da 4 membri, mia madre e due sorelle. Ho co-minciato il mio processo educativo nell’arte nel 2006. Ho avuto molti problemi a scuola così mi sono inserito in un progetto d’arte mentre a scuola nella quinta classe facevo parte di un gruppo artistico. Mentre frequentavo la sesta classe mi sono anche iscritto a un corso di musica e football. Nel 2005 ho frequentato la Secondary School, nella terza classe la passione per l’arte continuava e ho deciso di unirmi ai miei amici nel Wajukuu Art Project. Lavoro soprattutto sulla stampa di fotomon-taggi e lavoretti con perline. Vengo dallo slum dove la gente va avanti in differenti modi di vivere. Io provo a rappresentare attraverso l’arte la vita reale. Noi ci occupiamo anche di formazione per i bambini che sono interessati nell’arte con il pro-getto Wajukuu. Ora sono in procinto di fare gli esami di fine anno della High School, che mi daranno l’opportunità di avere un certificato keniota di educazione secondaria.

MUSYOKIIl mio nome è Peter Musyoki Ndunda. Sono nato in Kenya in un villaggio Kamba. Ho 23 anni. La mia educazione comincia nel 1992 frequentando la Primary School fino al 2000. Nel 2003 mi sono iscritto alla Secondary School fino al 2004. Mi piace praticare arte figurativa nella comunità dove espongo soprattutto disegni, fotomontaggi, sculture, condividendo con le donne la fatica per portare il pane quotidiano. La mia arte proviene dalle mie esperienze con mia madre e le altre donne che circon-dano l’area dove sto io. Ho frequentato anche un corso di carpenteria che mia ha dato grande opportunità di migliorare.

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BIBLIOGRAFIAMike Davis, Il pianeta degli slum, Feltrinelli editorePaolo Desideri, La città di latta-Favelas di lusso, autogrill, svincoli stradali e antenne paraboliche, costa & nolanMichel Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, MimesisTHE CHALLENGE OF SLUMS-GLOBAL REPORT ON HUMAN SETTLEMENTS 2003 United Nations Human Settlements ProgrammeArticoli su ‘Internazionale’ di Binyavanga Wainaina, 26 settembre 2008/18 gennaio 2008Africa superstar, Dossier di ‘Internazionale’, 20/26 giugno 2008Massimo Ilardi, Il tramonto dei non luoghi, Meltemi editoreAa.vv, Gomorra. Territori e culture della metropoli contemporanea, Meltemi editoreNgugi wa Thiong’o, Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali, Meltemi editoreGeorges Perec, Specie di spazi, Bollati BoringhieriMarc Augé Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, EleutheraRyszard Kapuscinski, Autoritratto di un reporter, Universale Economica FeltrinelliDoris Lessing, Racconti africani, Universale Economica FeltrinelliMwangi Meja, I am Sam, Jaca BookDonatella Ziliotto, Rossana Guarnirei, Fiabe Africane, Edizioni PrimaveraCristiana Pugliese, Racconti dall’Africa, Mondadori editorePaul Radin, Fiabe africane, Unità/EinaudiNgugi wa Thiong’o, Petali di sangue, Jaca BookRoberto Papetti, Gianfranco Zavalloni, Bambini barattoli giocattoli, Macro EdizioniVandana Shiva, Il bene comune della terra, Feltrinelli editoreMaurizio Pallante, Ricchezza ecologica, ManifestolibriPierfranco Cavallo, Ecovollaggio. Un parco per Paternò, tesi di laurea

SITOGRAFIA

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