Successo e aspettative: un legame a forma di cappio · Ma questo non significa azzerare anche...

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88 4 Successo e aspettative: un legame a forma di cappio Barbara ha dodici anni e frequenta la seconda media. Oggi è una giorna- ta particolarmente no. Rientra a casa svogliata senza scambiare neppure una parola con le amiche che fanno un pezzo di strada insieme, rispon- dendo a monosillabi e mandando a quel paese ogni tentativo di essere avvicinata per capire cosa succede. Arriva a casa e alla prima parola del- la mamma reagisce con un insulto. Poi si chiude in camera sua. Si butta sul letto, così com’è. Non piange, ha lo sguardo fisso nel vuoto e disegna per terra col dito indice, seguendo linee casuali. Dopo una mezz’ora e un paio di tentativi della mamma di entrare andati a vuoto, si alza e va verso

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Successo e aspettative: un legame

a forma di cappio

Barbara ha dodici anni e frequenta la seconda media. Oggi è una giorna-ta particolarmente no. Rientra a casa svogliata senza scambiare neppure una parola con le amiche che fanno un pezzo di strada insieme, rispon-dendo a monosillabi e mandando a quel paese ogni tentativo di essere avvicinata per capire cosa succede. Arriva a casa e alla prima parola del-la mamma reagisce con un insulto. Poi si chiude in camera sua. Si butta sul letto, così com’è. Non piange, ha lo sguardo fisso nel vuoto e disegna per terra col dito indice, seguendo linee casuali. Dopo una mezz’ora e un paio di tentativi della mamma di entrare andati a vuoto, si alza e va verso

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la scrivania. Accende il PC, mentre molla una pedata allo zainetto per ter-ra spostandolo verso la parete. Apre il browser e dopo aver passato qual-che pagina di social e cercato qualcosa a caso, ferma la sua attenzione su alcune immagini uscite con l’ultima ricerca. Barbara cerca di farsi picco-li taglietti sul braccio sinistro. Nella mattinata Barbara ha preso 6 (sei) in una disciplina, Musica.

L’origine di un comportamento come quello di Barbara, che ne po-trebbe anticipare altri di natura più autolesionistica, può avere differen-ti motivi, spinte e sollecitazioni. L’amarezza per un voto basso però, non è sufficiente per innescarlo, dev’essere senz’altro amplificata da qualco-sa che riguarda altro o altri, qualcosa di molto legato alla tematica delle aspettative. Ma andiamo per gradi.

1. Aspettative, una presenza invisibile

Negli ultimi mondiali di sci, la nostra nazionale femminile non ha brillato in quanto a risultati, inutile negarlo, ma questo fa parte del gio-co. In una competizione di qualsiasi tipo e natura, alcuni vincono, po-chi, e altri perdono, molti. Così come per il rapporto con la Scuola: non tutti prenderanno 110 e lode, non tutti avranno 100 alla maturità, non tutti Ottimo alla Primaria. La gara in questione è lo slalom speciale femminile, terminato con piazzamenti deludenti nell’animo di molti, e il termine deludenti richiama lo stato d’animo o il sentimento di delusio-ne, quello più truffaldino e ambiguo che ci sia nell’arco delle esperienze emotive umane.

Al termine della gara le interviste di rito, Davide Labate il giornalista, Federica Brignone l’atleta, la cui reazione viene considerata in altre tra-missioni sportive come frutto di una evidente irritazione, legata a un suo “essere fatta male”. Per queste persone Federica ha qualche problema. Sa-rebbe interessante leggere la trascrizione dell’intera intervista, metterebbe in luce tutta la dinamica trattata in merito alle aspettative a partire da un esempio vivo, ma purtroppo non è stato possibile recuperare la registrazio-ne e ne viene qui fatta solo una sintesi di significato. Il cronista dopo un breve riepilogo di quanto successo esordisce con una frase simile: “Ecco-ti con la tua depressione”. L’atleta ha una reazione accesa e risponde: “La depressione tienitela per te, io ho fatto una bella seconda manche ed ho anche recuperato posizioni…”.

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Dove sta il difetto? Federica Brignone è fatta male, si indispettisce facilmente, è permalosa? Oppure il giornalista mostra una dose non in-differente di ignoranza delle dinamiche umane nello sport ed ha una vi-sione esasperata del rapporto tra competizione e vincita, utilizzando termini a sproposito solo perché potrebbero fare colpo, provocare per attivare una reazione e farlo definire giornalista arrembante e figo, sol-lecitando qualche scoop come spesso avviene?

Il sottoscritto propende per questa seconda ipotesi. La frase: “Ecco-ti con la tua depressione” pone un legame certo e sicuro: “Chi non vin-ce deve essere depresso”, “Chi non fa goal è fallito”, “Se non vinci tutto il resto è inutile, e per questo devi stare male per forza, anzi, addirittu-ra deprimerti”.

Legittima e comprensibile la reazione di Federica che sembra vo-ler dire: “Per una gara andata a male non è proprio il caso di utiliz-zare una parola come depressione, e non è neppure il caso di puntare sempre e tutta l’attenzione sull’esito, sul risultato, perché il mio im-pegno l’ho messo come sempre e ne ho avuto qualche riscontro nella seconda manche”.

I cronisti sportivi, alcuni in particolare, e i tifosi di un qualsiasi sport, più o meno tutti in generale, nutrono aspettative, si aspettano che l’atleta o la squadra vincano, sempre, e quando non succede si deprimo-no, si arrabbiano, fanno domande stupide nelle interviste, trasformano il tifo in cappio, al punto che, quando queste aspettative non vengono cor-risposte, iniziano a fischiare, e tutto quel grande tifo presente all’inizio dell’impresa, il supporto, l’incoraggiamento, lo tolgono, lo cancellano, danno l’assalto agli autobus, danneggiano oggetti nello stadio, si com-portano come gli innamorati nel bel mezzo di un tradimento, non ti vo-glio più bene quindi ti distruggo. O come i bambini durante una litigata: non sei più mio amico.

Aspettative, delusione e tradimento fanno il paio, anche se sono in tre, sono sposi inseparabili. Il tradimento delle aspettative viene punito in vari modi: sentimenti negativi, recriminazioni, accuse e biasimo, di-stanze e separazioni, ripicche e piccole o grandi vendette.

Così avviene per la separazione comunemente descritta, tra un alle-natore e la squadra cui non ha regalato soddisfazioni e traguardi. Così avviene nella separazione tra partner o coniugi, frutto della non corre-sponsione di aspettative reciproche.

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2. Delusione, un sentimento particolare

Il sentimento di delusione, definito poco fa ambiguo, è l’indicatore principale della presenza di questa componente relazionale, le aspettative.

“La nazionale di calcio ha deluso”, molte volte si sente dire, ci si aspettavano grandi cose, e invece il risultato non ha corrisposto.

Lo stesso meccanismo, la stessa dinamica avviene in qualsiasi ti-po di relazione: genitori e figli, partner di ogni genere e tipo, amicizie e rapporti di lavoro.

Quando il sentimento provato da un genitore o da un docente, si av-vicina a questa parola, anche se nominata utilizzando altri termini, è meglio che scatti un campanello d’allarme e si innalzi la attenzione per comprendere cosa sta sotto: qui gatta ci cova.

La dinamica di aspettative, delusione e tradimento è perversa, è in molti casi disfunzionale e porta con sé molti difetti, uno dei quali la possibilità di colorare una qualsiasi esperienza di vita, compresa quella scolastica, di un color nero intenso, molto più accentuato di quanto le-gittimamente immaginare.

Dietro il tentativo di Barbara di farsi dei taglietti, potrebbe celarsi questa dinamica: aspettative di altri nei suoi confronti, genitori, docenti, gruppo dei pari, trasformate in aspettative nei confronti di se stessa, cui non ha corrisposto con quel voto.

Perché un 6 in musica porta con sé un sentimento di sconfitta tale da sollecitare un comportamento autolesionista? Inoltre Barbara dimostra di non aver maturato alcuna competenza nella gestione di un insuccesso, competenza che genitori e docenti potrebbero trasferire, e vedremo come.

– Allora secondo te per uscirne sane, le persone dovrebbero azzerare tutte le aspettative? Ma questo non significa azzerare anche sogni, sco-pi e obiettivi che nel capitolo 2 definivi ragionevoli per non vivere una vi-ta “così come viene”?– Sei nato per mettere in luce contraddizioni e ambiguità?– In genere è il mestiere di ogni coscienza. Voglio vedere come ne esci.

La contraddizione potrebbe anche starci, sembra un gatto che si mor-de la coda, forse non è possibile stabilire traguardi senza avere aspetta-tive, ognuno di noi spera o vorrebbe raggiungerli, totalmente o parzial-mente. Una persona che desidera avere una casa di proprietà, si aspetta che all’impegno e all’investimento di tempo e denaro corrisponda un ri-sultato. Il tranello negativo sta nel considerarsi un fallito, se quella casa di proprietà non arriva mai nell’arco della vita.

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Inoltre, aspettarsi di vedere un esito dal proprio impegno è legittimo e naturale, da sé ma anche da altri.

Questo significa che le aspettative non sono di per sé un fattore ne-gativo, possiamo dire che ne esistono alcune funzionali e lecite, e altre forse illecite e in alcuni casi disfunzionali.

Facciamo qualche esempio per capire.Un Sindaco un qualsiasi Assessore Comunale, Provinciale o Regio-

nale, viene eletto per occuparsi della cosa pubblica. Queste persone ven-gono delegate e ricevono un mandato. Questo mandato è composto da alcune condizioni, la principale delle quali è il legame tra il voto e il buon governo.

Trattandosi di cosa pubblica, è legittimo e funzionale aspettarsi da quelle persone onestà e correttezza, il non abusare del potere conferi-to dalla posizione, il non rubare, il non gestire appalti con tangenti e regalie di ogni tipo, il non inserire nelle spese sostenute per lo svolgi-mento del servizio alcun oggetto o prestazione di carattere privato e personale, e una lunga lista di fattori che costituiscono la fiducia nelle Istituzioni e nei loro rappresentati.

Queste aspettative legittime e funzionali, cioè sane perché parte di un accordo o contratto anche se non firmato su carta, vengono frequen-temente tradite e danno vita a una serie di sentimenti e azioni. In questo caso le aspettative e le relative conseguenze per il tradimento sono per così dire sane e quindi giustificate. Se non governi bene, ti tolgo voto e fiducia, così funziona.

Nel matrimonio i due coniugi si aspettano legittimamente che il partner sia fedele. In caso di tradimento di questa aspettativa, anche la legislazione italiana prevede diritti di varia natura, a partire dalla possi-bilità di accedere alla separazione giudiziale, segno della sua salubrità e

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giustizia, frutto ancora una volta di un patto, di un impegno, di un con-tratto.

Al contrario, aspettarsi che una atleta come Federica Brignone vinca sempre, e soprattutto considerare la sconfitta un tradimento, trasformar-la in fallimento con relativa cocente delusione e caricarla sulle sue spal-le invitandola alla depressione, certamente no, non è altrettanto salutare.

Aspettarsi che un marito “veda da solo le cose di casa”, faccia tutto quanto è necessario per l’economia domestica senza doverglielo dire, è al-trettanto disfunzionale, quando non è pattuito. Le persone non sono fat-te tutte allo stesso modo e non hanno tutte le stesse esperienze, le stesse abitudini familiari, gli stessi valori, la stessa importanza o attenzione per le cose di casa. E i mariti si sa, contraddicendo spudoratamente la teoria gender, non hanno una dotazione genetica per queste attitudini, non ve-dono le occorrenze, non si accorgono del muro scrostato, manterrebbero il frigo vuoto e pulito limitandosi all’acquisto di cibi in rosticceria, lasce-rebbero crescere la ragnatela sul soffitto pensando che prima o poi matu-ri e cada da sola.

Aspettarsi che una amica telefoni tutti i giorni per farsi sentire e per chiedere come state, dimostrando in questo modo cos’è la vera amicizia, è disfunzionale se non concordato esplicitamente. Il significato di ami-cizia e il modo non solo di intenderla ma di viverla e agirla, differisce da persona a persona. C’è chi telefona tutti i giorni e chi una volta al mese, quando capita. E dire a quest’ultima: “Non sei una vera amica”, per il fatto di razionare mensilmente le telefonate, è fuori luogo, malsa-no. Chi stabilisce cosa e come sia una vera amica? Ci sono leggi in pro-posito che codificano il giusto e l’ingiusto?

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3. Aspettative come fonte di conflitti

Spesso i conflitti nelle relazioni nascono proprio quando una persona si aspetta che l’altra corrisponda al suo modo di concepire la vita, men-tre l’altra ne ha uno differente.

Cosa significa questo nei confronti di figli e alunni? Vediamo un pa-io di esempi, famiglia e scuola.

FamigliaQuesta volta a richiedere un intervento di counselling è una intera fami-glia, madre, padre e due figlie, 19 e 23 anni. Il ricordo è sfumato dal tem-po, una ventina d’anni fa, ma il sentimento provato è chiarissimo, allora come ora. Quello che succede nel colloquio lascia il segno dentro di me, non avevo mai vissuto una esperienza simile. Il colloquio inizia con la di-samina del motivo che ha spinto i quattro a cercare l’incontro, e soprat-tutto nel definire l’obiettivo specifico che potrebbe avere la collaborazione con il sottoscritto. Le cose in famiglia non vanno bene, in particolare tra le due figlie e il padre, con sentimenti negativi e recriminazioni recipro-che. Il racconto si dipana nella descrizione degli anni passati e di quanto è avvenuto nel tempo, incentivando il progressivo raffreddamento di rap-porto. Parlano la madre e in sequenza le due figlie. Quando è il turno del padre, rimango toccato dalle sue parole, ma non positivamente. Descrive in modo dettagliato tutti i singoli tradimenti ricevuti dalle figlie, nel man-cato rispetto di quanto lui si aspettava da loro.Nelle sue parole c’è una amarezza strana, che viene dal profondo dell’ani-mo, accompagnata da un riferimento chiaro: si sente tradito dalle sue fi-glie perché non hanno seguito e fatto nulla di quanto per lui era oppor-tuno o giusto facessero. Non scelgono le scuole che lui ha indicato, non aderiscono alla pratica religiosa per lui fondamentale, si vestono come vo-gliono, anche in modo eccentrico, si allontanano sempre più da lui, dal suo punto di vista.Ad un certo punto del colloquio dice apertamente di non sentire più alcun sentimento di amore nei loro confronti. Quanto dice a parole è tanto forte e vero, che mi sembra di sentire fisicamente il rifiuto che ha ormai per lo-ro. Una cosa strana, inaspettata, amara persino da ascoltare. Mentre parla osservo lo sguardo delle figlie che mostrano visibilmente la difficoltà nel capire quanto dice il padre, il motivo e la portata di tale reazione, per loro incomprensibile e forse inimmaginabile. I loro commenti che seguono so-no senza parole, sembrano senza parole e il sentimento che provano è di smarrimento.

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“Come fa un padre a perdere completamente l’amore per le proprie fi-glie?”, penso dentro di me mentre lo ascolto osservando le espressioni del suo volto. Un volto sofferente e rassegnato, ma allo stesso tempo stracari-co di rancore per quelle aspettative deluse e forse pretese, su quelle figlie “di proprietà”, che fanno di tutto per acquisire la propria libertà, identità e autonomia. Ecco la delusione che lascia negativamente il segno nella sua massima espressione. Quel padre non ha il minimo dubbio che il proble-ma sia suo, non pensa minimamente che il suo amore sia pesantemente condizionato dal desiderio che le figlie corrispondano a quanto lui vuole o si aspetta. E non si accorge neppure di avere due figlie belle, care, piene di sentimenti e pensieri positivi. Certo, perché con un racconto del gene-re è facile immaginare due figlie sporche, malvestite, rasta, con piercing e tatuaggi da tutte le parti del corpo, che masticano gomma americana con la bocca aperta, bestemmiano e dicono parolacce a piè sospinto. E inve-ce no, niente di tutto questo, parlano da persone avvedute e mature, so-no ben vestite, umili e aperte nel modo di parlare. Lo stesso sentimento di smarrimento che provano loro nell’ascoltare le parole del padre, lo provo io. Per tutto il colloquio non riesco a facilitare, come spesso mi succede, un riavvicinamento. Il padre è irremovibile, distante, disamorato, nel suo animo si è spento ogni barlume di fiammella, non è più possibile riaccen-dere alcunché, è tutto spento. L’unica cosa che rimane è il rifiuto. Per me è un insuccesso professionale, per lo meno così lo vivo, avere la speran-za di recuperare armonia in una famiglia che ne avrebbe la possibilità, e non riuscire a favorire l’imbocco di quella strada. Certo, anch’io nutro aspettative nei miei confronti, anche le persone ne hanno per me quando vengono in consulenza, ma è legittimo, fa parte dell’accordo e del contrat-to che regola la mia professione.

ScuolaFrequento l’Università “da grande”, sono vicino ai quaranta e lavoro già da tempo come formatore. Il modo di approcciare lo studio e quanto av-viene nel percorso universitario è certamente differente da quanto suscita in un ragazzo di vent’anni, inevitabile.L’esame in questione è Filosofia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il docente principale è un sacerdote. Da studente lavoratore fre-quento pochissime lezioni e in questo caso l’unica occasione che ho per conoscere questo docente, è proprio durante l’esame.Mentre attendo il mio turno osservo quanto avviene con gli studenti che mi precedono. Capisco che sono quasi tutti terrorizzati dall’esame, non tanto per la materia e i suoi contenuti, quanto per il docente.

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E in effetti quando iniziano gli esami ne capisco il motivo.Quando uno studente non risponde in modo diretto alla domanda che fa, nel modo e con le parole che lui richiede, inizia ad alterarsi, alza il tono di voce, rimprovera, batte i pugni sul tavolo, e poi prende a deridere chi gli sta di fronte. Con una ragazza, al termine della solita sfuriata, chie-de di avvicinarsi con l’indice alla linea che sul muro delinea la divisione tra una pittura a smalto inferiore e una pittura a tempera superiore dicen-do: “Segua quella linea con il dito, avanti, cammini seguendo la linea”. E quando la ragazza inizia a camminare scorrendo il dito sulla parete le di-ce: “Ecco, brava, segua la linea sino alla porta ed esca”. Al di là di ogni protesta che fatti simili potrebbero ragionevolmente legittimare, una co-sa rimane oscura. Per quale motivo il docente si altera? Perché si arrab-bia? Perché deride, umilia, punisce per quanto gli consente il potere che incarna? Un’interrogazione ha lo scopo di valutare apprendimenti e ragionamenti. Il voto è l’espressione di questa valutazione. Chi studia e sa, molte volte ot-tiene un buon voto. Chi non studia e non sa, molte volte ottiene un catti-vo voto. In una interrogazione sorretta da un sano rapporto tutto dovrebbe finire lì, si ottiene ciò che si investe. Rabbia e alterazione, sarcasmo, de-risione e umiliazione non avrebbero niente a che vedere. Questi strani fe-nomeni, forniscono al contrario altre indicazioni.Per molti docenti c’è inconsapevolmente l’aspettativa che l’altro attribu-isca importanza e valore alla sua materia. Per molti altri la mancanza di studio viene intesa come mancanza di rispetto per la sua professio-nalità. Per altri ancora come una sorta di sfida o tentativo di prendere in giro il docente. Un docente si aspetta studenti che studiano, perché quello è il loro dovere, si aspetta studenti interessati perché lui met-te impegno nella preparazione, si aspetta studenti che apprezzino ciò che condivide perché è importante. Insomma anche in questo caso le aspettative possono snaturare ruoli e relazioni, abbassando inevitabil-mente la motivazione di tutti, docenti e studenti.

Ecco due esempi di quanto questa tematica riferita alle aspettative, possa giocare brutti e malsani scherzi alle persone. Il significato e il peso che ha un voto insufficiente, o appena sufficiente come quello preso da Barbara nel racconto di inizio capitolo, viene costruito socialmente. L’a-spettativa agisce come carico di stress aggiuntivo, a quanto le situazioni hanno già in sé. Non a caso anche nello sport in molti casi la prestazione viene deteriorata proprio dalla presenza di questo fattore, proprio o di al-tri poco importa.

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Considerare lo stesso brutto voto un’esperienza, piuttosto che un in-successo o addirittura un fallimento, è direttamente collegato al signifi-cato che viene attribuito all’evento. Questo significato varia da persona a persona, e in questo possono avere una grossa influenza nel bene o nel male genitori e docenti. Dare la giusta misura e il giusto peso alle cose è un salvavita, in qualsiasi evento di vita. Barbara non sta dando il giu-sto peso a quel voto in musica, lo sta vivendo forse come un fallimento tale da punirsi.

4. Cos’è il fallimento

Iniziamo a riprendere le questioni sospese, una alla volta: “Cos’è dunque il fallimento?”.

Questa parola, questo concetto, viene utilizzato spesso a sproposito, soprattutto per quanto riguarda la vita delle persone, le loro scelte, gli scopi e gli esiti ottenuti.

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Il contesto più appropriato nel quale viene utilizzata è quello giuridi-co, riferito a una impresa, una azienda, un ente o uno stato che arriva a trovarsi in condizioni irrimediabili di insolvibilità. Il fallimento decreta una situazione irrecuperabile, da concludere definitivamente.

Poche o forse pochissime sono le esperienze di vita cui poter ragio-nevolmente applicare questo termine, questo concetto.

Un matrimonio arrivato al capolinea può essere vissuto come un fal-limento, più che un insuccesso, soprattutto per due coniugi che hanno fatto del matrimonio religioso un caposaldo di vita.

Forse altre esperienze si possono avvicinare alla irrimediabilità, ma il più delle volte c’è qualcosa che si può fare per migliorare, cambiare, sostituire, rivedere.

Possiamo quindi sgombrare il campo da questo termine, abolirlo dal nostro vocabolario utilizzato per definire un fatto o una esperienza, non tanto per una questione di superficialità o minimizzazione, quanto per mantenere l’apporto di speranza sufficiente per non deprimersi. Perché il fallimento, anche finanziario, facilmente deprime e toglie vitalità.

Limitiamoci quindi a concepire quanto accade a noi, ai nostri figli o alunni come una esperienza di vita o un insuccesso, e veniamo alla se-conda domanda sospesa cui rispondere: “Cos’è l’insuccesso, come si so-stiene e gestisce qualora arrivi?”.

– Adesso dai qualche suggerimento pratico?– Spero di sì, perché?– Perché quello che hai scritto sono tante belle parole, ma un genitore o un docente si chiede cosa può fare concretamente.– Lo so bene, e lo capisco, ma non si può tradurre la vita in un giochino di richieste e semplici suggerimenti.– Ma la vita è fatta di cose pratiche, perdona l’insistenza, ma le persone questo ti chiedono.– Non di solo pane vive l’uomo.– Ti manca la stola e poi sei a posto. Puoi rispondere senza metafore?!– Anche tu perdona la mia insistenza. Affrontare l’insuccesso di un figlio, di uno studente, non può essere solo una questione di “cosa fare”, perché il modo di Barbara di attribuire significato al sei in musica ha una storia, è nato e si è sviluppato in un certo modo, e non lo si può affrontare solo con un “cosa fare” con Barbara. I suoi genitori un pensierino lo potrebbero fa-re, su come nel tempo hanno affrontato l’esperienza scolastica insieme a lei, e su come lei sin dalla Scuola dell’Infanzia si è rapportata con il bino-mio successo e insuccesso. Ti faccio un altro esempio e poi vado avanti con i suggerimenti pratici.– Come vuoi. Io in ogni caso te l’ho detto. Come si dice: uomo avvisato…

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Trasmissione televisiva House of Gag, una serie di video di imprevisti, guai, situazioni strambe, animali che fanno cose ridicole. Il video in que-stione mostra quattro bambini seduti e appoggiati con la schiena al mu-ro esterno di una casa. Tra le gambe ognuno tiene un nastro di adesivo di quelli molto larghi, per fare pacchi. Di fronte a loro il terreno è legger-mente in discesa e al termine di questa, distante un paio di metri, è piaz-zata la telecamera che riprende la scena. Al via ognuno deve lasciare il nastro per vedere dove arriva e quale va più veloce. Tutti i bambini sono divertiti per l’esperimento che sta per cominciare, tranne uno che si la-menta e piagnucola. La traduzione mette al corrente della sua paura che il nastro adesivo impatti nella sua discesa la telecamera. Forse teme che si possa rompere. La voce adulta in sottofondo alterna frasi di rassicurazio-ne a risate divertite per quell’improprio lamento, non congruo con la si-tuazione oggettivamente senza alcun pericolo. Dopo un minuto di lamenti e tentennamenti i quattro nastri adesivi partono e, sfortuna delle sfor-tune, l’unico che si dirige dritto verso la telecamera è proprio quello del bimbo lamentoso, che durante la corsa del nastro, aumenta gradatamente il suo lamento all’avvicinarsi dell’impatto, che avviene effettivamente, an-che se in modo quasi impercettibile data la ridotta velocità del nastro, e senza alcun danno. Quando succede, il bimbo scoppia in un pianto a di-rotto che nessuno riesce a fermare, lacrime e strilli a tutto spiano, tipo at-tacco di ansia. Gli altri bambini lo guardano immobili, con una espressio-ne del viso che sembra imbarazzo, senza sapere cosa fare, se consolarlo o ridere della sua reazione.

Se parlassimo solo del “cosa fare” in una situazione del genere, po-tremmo ipotizzare una gamma di atteggiamenti e parole di rassicurazio-ne che il genitore potrebbe mettere in pratica; potremmo capire come

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distrarre il bimbo da quella specifica esperienza per non drammatizzar-la troppo; potremmo conoscere come utilizzare il gruppo di amichet-ti per consolare il bimbo e asciugargli le lacrime; potremmo annuncia-re l’arrivo della sua merenda più agognata e cercare cento altre strategie per distoglierlo da quella situazione emotivamente negativa, ma reste-rebbe pendente e misterioso un interrogativo: “Per quale motivo un bim-bo di sei anni vive in modo così esasperato e differente dai suoi coe-tanei, un banale esperimento giocoso senza alcun pericolo di danno e infortunio?”.

5. Come affrontare l’insuccesso

Un genitore non può esimersi dal riflettere sulla relazione che ha co-struito nel tempo con quel bambino, non può esimersi dal pensare qual è il suo modo di vivere le situazioni potenzialmente minacciose, le pa-role che dice, i commenti che fa, anche senza che il figlio se ne accor-ga in modo consapevole. Affrontare e gestire l’insuccesso, come vedre-mo tra poco, è un po’ come elaborare un lutto. E il modo di elaborare un lutto, di qualsiasi tipo e natura, lo impariamo per prima cosa dal mondo di relazioni che viviamo sin dalla nascita, lo impariamo da come il mondo adulto intorno a noi si comporta, agisce, sente ed esprime, lo impariamo dagli esempi che riceviamo.

Per questo motivo offrirsi il tempo della riflessione ha senso, prima di passare alla componente “pratica”.

L’insuccesso ha quindi un’origine nella costruzione del suo significa-to, e può avere evoluzione più o meno naturale e positiva nel modo di af-frontarlo.

Quattro sono i passaggi che verranno qui affrontati.

1. Accoglienza2. Comprensione3. Correzione4. Revisione

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5.1. Accoglienza

Se per successo intendiamo il raggiungimento di scopi e obiettivi e traguardi che ci poniamo o abbiamo di fronte come una verifica scola-stica, l’insuccesso è l’esatto contrario: un esito negativo o comunque in-soddisfacente. L’insuccesso è una esperienza di vita, a volte amara ma pur sempre una esperienza di vita, che muove la nostra parte emotiva in modo variegato. L’atteggiamento di accoglienza è molto vicino alla le-gittimazione di cui al capitolo 2, nella parte riguardante il sostegno e l’incoraggiamento, significa ancora una volta legittimare e accogliere il vissuto legato all’esperienza. Non serve negare, mettere in ridicolo, mi-nimizzare, ridimensionare, in alcun caso. Anche fosse un vissuto spro-porzionato al fatto, come per Barbara che vive il 6 come fallimento, il punto di partenza è sempre l’accoglienza e la legittimazione di quanto una persona prova. L’eventuale ridimensionamento potrebbe anche ar-rivare, ma certamente in un momento successivo. L’accoglienza è fat-ta prima di tutto di silenzio e vicinanza. L’accoglienza è fatta di un pro-fondo sentimento di accettazione e comprensione umana, per quanto ognuno di noi vive nel proprio intimo. L’accoglienza è fatta di pazienza nel seguire i passaggi che l’altro fa nel possibile processo di digestione. L’insuccesso è una esperienza negativa che, come per un boccone indi-gesto, deve attivare un processo di digestione ed elaborazione, per non lasciare strascichi negativi. Così come avviene per le delusioni amoro-se. L’essere lasciati è una esperienza di insuccesso da digerire, da ela-borare, per rendere l’esperienza legittima, naturale, fonte di un eventua-le apprendimento di aspetti di sé prima sconosciuti. Senza una adeguata e naturale digestione, è possibile che la delusione amorosa porti con sé una diminuita propensione all’investimento affettivo, se non al ritiro de-finitivo in se stessi per timore di ripetere l’esperienza negativa.

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5.2. Comprensione

Finalmente siamo a conoscere l’impatto del saper ascoltare nel so-stegno e nella gestione di un insuccesso. L’esperienza amara, non sem-pre ma spesso, va verbalizzata per essere resa innocua, va verbalizzata in una relazione che riesca a contenerla e approfondirla. Per fare questo non è sempre necessario un colloquio nello studio di un Counsellor, di un Psicologo, di uno Psicoterapeuta, non esageriamo. Basta un genitore attento, oppure un docente sensibile e qualche parola detta al posto giu-sto e al momento giusto.

Facilitare la verbalizzazione ha due o tre scopi principali. Il primo è quello di far venir fuori ciò che sta dentro, per renderlo meno noci-vo. Il secondo è quello di permettere la consapevolezza dell’origine di uno stato d’animo, l’origine dei sentimenti provati. Il terzo prepa-ra il terreno per i due passaggi successivi: correzione e revisione. Un po’ di esempio pratico ci sta a questo punto. Riprendiamo la situazio-ne di Barbara, che ci sta accompagnando ritmicamente in questo ca-pitolo, immaginando un breve dialogo con la mamma. Il presupposto inevitabile per rendere credibile quanto verrà descritto, è che la ma-dre abbia e metta in atto alcune condizioni: a) di certo non esaspera l’aspettativa di ottenere sempre il massimo, b) ha un discreto rapporto con Barbara, c) è attenta ai cambiamenti di umore della figlia, d) os-serva eventuali segnali al suo rientro a casa. Queste condizioni sem-brano sufficienti perché Barbara non passi immediatamente al taglieg-giamento di braccia.

– Ciao.– Mmmhm…– Orpo, cose brutte stamattina a scuola…– Non parlarmene…– Cose irreparabili e orribili?– Lascia perdere…– Ok, non ti va di parlarne.– Cosa c’è da mangiare?Francesca, mamma di Barbara, riesce a capire quando è il momento di forzare la mano, o quando è il momento di mettersi in standby e atten-dere l’attimo propizio per offrirsi. Il pranzo trascorre tra bocconi, pause di silenzio e occhiate alla TV, poi Barbara va in camera sua. Francesca ri-mane in cucina a riassettare e lascia che la cosa si sedimenti un poco, ri-mandando alla prima occasione utile il gancio per parlare di quanto suc-cesso. Dalla cucina Francesca sente alcune note di strumento musicale

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provenire dalla camera di Barbara. Dopo una mezz’ora Barbara torna in cucina per un bicchiere d’acqua. – Questione di amici o questione di prof?– Se non ci fossero gli amici…– Quindi di prof, ma stamattina non avevi interrogazioni se non sbaglio.– No, cioè sì, musica, prova individuale con voto.– Il cerchio si restringe, andata storta?– 6.– Storta?– Vedi un po’ tu…– Per te prendere 6 è molto storta.– Mi rovina la media.– Ci tieni tanto…– Perché, a te non importa nulla?!– Semplicemente ho capito che sei rimasta molto male e mi spiace.– Lascia perdere la compassione.– Irreparabile?– Manca poco alla fine dell’anno.– Oggi proprio non vedi l’uscita dal tunnel.– Cosa posso farci?!– Non so, potresti chiedere al prof se c’è possibilità di rimediare e come.– Figurati…– Ma almeno hai capito il perché? Te l’ha spiegato?– Mah, credevo di aver capito bene un passaggio e invece no, e poi ho fatto esercizio su un altro pezzo, Daniela mi aveva detto che era quello…– Messa così non sembra irrimediabile, visto che hai messo a fuoco cosa non ha funzionato…– Chissene.– Certo, puoi anche rinunciare a ciò che desideravi, per noi non è un grosso problema se va bene a te, ma se poi ti penti di non aver fatto neppure il tentativo di spiegarti e chiedere al prof?Barbara non risponde, esce dalla cucina e torna in camera sua. Dell’ar-gomento non ne riparlerà più per tutta la settimana. Anche Francesca non ritorna più sull’argomento. Lo stesso giorno della settimana suc-cessiva Barbara rientra a casa. Il viso non mostra tracce di giornata storta. Solito saluto veloce, solita scivolata in camera sua per lascia-re zaino e passare dal bagno per lavare le mani, poi ritorna in cucina. A metà pranzo, Barbara mimetizza la notizia come non avesse molta im-portanza.– Ah, ho poi parlato con il prof di musica.– Morale?– C’è speranza, tranquilla.

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– Finalmente posso dormire, è tutta settimana che prendo tranquillanti.– Non ci crede nessuno, ti si sente russare sin dal giardino.

Francesca, mamma di Barbara, in questo dialogo fa molte cose in-teressanti. Fosse questo un manuale dedicato solo ai dialoghi madre-figlia, si potrebbero prendere una per una le frasi che dice per ana-lizzarle e fare pratica. In questo contesto possiamo solo apprezzare la prudenza che utilizza nel rispettare i tempi e i modi di sua figlia, la de-licatezza che usa nell’offrire suggerimenti senza forzare la mano mossa da aspettative sul fatto che la figlia li accolga immediatamente, l’atten-zione che impiega nel cercare di capire per quale motivo la figlia vi-ve in modo così intenso e negativo un 6 in musica, limitandosi a capi-re il suo punto di vista, senza darne una valutazione in bene o in male, il suo mostrare molta fede nel fatto che la speranza sia l’ultima a mo-rire, il mantenere anche la possibilità di lasciare sullo sfondo un po’ di ironia e leggerezza, che non guasta in questi frangenti, e infine il co-noscere e riconoscere quando è il momento di parlare e quando ritirar-

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si dalla conversazione per lasciare spazio e iniziativa alla figlia, anche se torna in camera sua senza aver concluso il discorso. I tre scopi prin-cipali della “comprensione” sembrano raggiunti. Primo, Barbara par-la, anche se non scoppia in singhiozzi strappandosi i capelli, racconta quanto successo, pur nella frammentazione in due tronconi. Secondo, Barbara esprime il motivo della sua delusione, lo dice alla mamma e anche a se stessa: “è uno scopo importante per me non rovinare la me-dia”. Terzo, anche grazie alle parole della mamma, Barbara esplora le possibilità di affrontare la situazione: abbandonare o fare un tentativo di recupero, e in questo modo anticipa la terza voce descritta per soste-nere e gestire un insuccesso.

5.3. Correzione

La comprensione appena descritta, potrebbe fornire alcune infor-mazioni: il motivo dell’insuccesso, lo scopo, l’obiettivo, il traguar-do non raggiunto, il motivo e l’importanza di quello scopo. Barbara, una volta raccolte queste informazioni ha di fronte due possibilità, escludendo la terza racchiusa nella parola “chissene”: correzione e revisione.

La prima possibilità è la correzione, far buon uso delle informazio-ni, approfondirle nel dettaglio, per poi apportare dei correttivi prima di un tentativo ulteriore. Barbara ha già messo a fuoco cosa non ha funzio-nato. Quel ragazzo protagonista del colloquio che trattava in un capito-lo precedente del metodo di studio, lo ha fatto all’interno del colloquio stesso. Uno dei modi migliori di affrontare l’insuccesso è osservarlo da scienziati e considerarlo come una preziosa fonte di suggerimenti in me-rito a cosa correggere.

Lo scienziato non valuta l’insuccesso, non ne rimane demoralizza-to, sconfortato come fosse la fine del mondo. Lo scienziato serio l’in-successo lo studia, a volta anche anestetizzando un pochino l’aspetto emotivo, per non farsene condizionare pesantemente. L’atteggiamen-to da scienziato però, se non è immediatamente disponibile, può es-sere reso tale dalla pratica della fasi precedenti: accoglienza e com-prensione. Il pensiero razionale è disponibile quando il nostro corpo non è allagato emozionalmente. Per attivarlo, bisogna prima togliere l’acqua.

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5.4. Revisione

La seconda strada del bivio prende il nome di revisione, ed è la pos-sibilità di rivedere i propri scopi, gli obiettivi, alla luce degli esiti. Don Chisciotte diviene famoso per le sue battaglie contro i mulini a ven-to. Inevitabilmente perse. Perseverare è diabolico, dice il proverbio, e in questo senso la revisione offre la possibilità di attivare un cambiamento interiore. Va fatta molta attenzione a non scambiare questo concetto con quanto succede nella favola de La volpe e l’uva, nella quale l’animale si convince di non aver fame solo perché a quell’uva non ci arriva. La revi-sione è cosa seria.

Per quale motivo per Barbara è così importante una media ele-vata? Questa è una domanda che nel dialogo con sua mamma non è emersa. Vuole fare bella figura con i compagni? La sua autostima è legata indissolubilmente al successo, per cui non può sottrarsi dal raggiungere quanto si prefigge? Deve compiacere, soddisfare, corri-spondere le aspettative di qualcuno, a parte la mamma che abbiamo detto essere la persona più saggia e posata del pianeta? È in deficit di riconoscimento tale da conoscere solo quella strada per riceverne da-gli altri?

È la risposta a queste domande che potrebbe fornire indicazioni per un eventuale e possibile cambiamento, non tanto la rinuncia frettolosa con la scusa da volpe: “non mi interessa più”. Con tutto quello che po-trebbe dire la mia fedele coscienza in merito a questo, le domande van-no poste a sé stessi. Solo attraverso questo passaggio è possibile avere in-formazioni che consentano di passare al “fare qualcosa”, ammesso che qualcosa si possa fare.

– Visto che mi hai tirato in ballo, volevo dire una cosa.– Dai, parla.– Non potevi fare tutto il libro con esempi come il dialogo tra Barbara e sua mamma? Perché almeno lì si capisce qualcosa. Se poi lo spiegassi bene per ogni singola frase, anche chi legge potrebbe imparare e avere indicazioni precise da mettere in pratica.– Adesso che sono al termine del quarto capitolo me lo dici?– L’hai fatto ora l’esempio, come facevo a dirtelo prima, ti avevo avvisato di dare suggerimenti pratici.– Adesso non posso tornare indietro e rifare il libro.– Allora è irrimediabile.– Certamente.– Quindi è un fallimento, l’hai detto tu prima.

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– Meno male che ho ancora un capitolo da scrivere, capita a fagiuolo, ne ho proprio bisogno.– E di cosa parla?– Parla di come non suicidarsi per un fallimento, parla del modo di con-cepire e affrontare la vita quando manca l’applauso.– Quindi si parla di nutella.– Lasciamo perdere.

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