Anno 8 Seminari 2011 di Ematologia Oncologica2013/05/10  · Federico Caligaris Cappio Università...

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NEL PROSSIMO NUMERO IL PAZIENTE “UNFIT” Definizione clinico-biologica • Leucemia linfatica cronica • Linfoma non Hodgkin • Trapianto di cellule staminali emopoietiche • Edizioni Medico Scientifiche - Pavia EDIZIONI INTERNAZIONALI srl Editor in chief Giorgio Lambertenghi Deliliers Anno 8 Numero 3 2011 Seminari di Ematologia Oncologica Terapia continuativa ISSN 2038-2839

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NEL PROSSIMO NUMERO

IL PAZIENTE “UNFIT” Definizione clinico-biologica •

Leucemia linfatica cronica •Linfoma non Hodgkin •

Trapianto di cellule staminali emopoietiche •

Edizioni Medico Scientifiche - Pavia

E D I Z I O N I I N T E R N A Z I O N A L I s r l

Editor in chiefGiorgio Lambertenghi Deliliers

Anno 8Numero 32011 Seminari

di EmatologiaOncologica

Terapia continuativa

ISSN 2038-2839

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Editor in ChiefGiorgio Lambertenghi Deliliers

Fondazione IRCCS Ca’ GrandaOspedale Maggiore Policlinico di Milano

Editorial BoardSergio Amadori

Università degli Studi Tor Vergata, Roma

Mario BoccadoroUniversità degli Studi, Torino

Alberto BosiUniversità degli Studi, Firenze

Federico Caligaris CappioUniversità Vita e Salute, Istituto San Raffaele, Milano

Antonio CuneoUniversità degli Studi, Ferrara

Marco GobbiUniversità degli Studi, Genova

Fabrizio PaneUniversità degli Studi, Napoli

Mario PetriniUniversità degli Studi, Pisa

Giovanni PizzoloUniversità degli Studi, Verona

Giorgina SpecchiaUniversità degli Studi, Bari

Direttore ResponsabilePaolo E. Zoncada

Registrazione Trib. di Milano n. 532del 6 settembre 2007

Vol. 8 - n. 3 - 2011Mieloma multiplo 5BARBARA LUPO, STEFANIA OLIVA,

MARIO BOCCADORO

Leucemia mieloide cronica 19ANTONELLA GOZZINI, ALBERTO BOSI

Sindromi melodisplastiche 37PELLEGRINO MUSTO

Leucemia mieloide acuta 67DOMENICO PASTORE, MARIO DELIA,

GIORGINA SPECCHIA

Linfomi non Hodgkin 79FRANCESCO ZAJA, RENATO FANIN

Terapiacontinuativa

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PeriodicitàQuadrimestrale

ScopiSeminari di Ematologia Oncologica è un periodico di aggiorna-mento che nasce come servizio per i medici con l’intenzione direndere più facilmente e rapidamente disponibili in formazioni suargomenti pertinenti l’ematologia oncologica.Lo scopo della rivista è quello di as sistere il lettore fornendo-gli in maniera esaustiva:a) opinioni di esperti qualificati sui più recenti progressi in formachiara, aggiornata e concisa;

b) revisioni critiche di argomenti di grande rilevanza pertinenti gliinteressi culturali degli specialisti interessati;

NORME REDAZIONALI

1) Il testo dell’articolo deve essere editato utilizzando il programmaMicrosoft Word per Windows o Macintosh. Agli AA. è riservata la correzione ed il rinvio (entro e non oltre 5gg. dal ricevimento) delle sole prime bozze del lavoro.

2) L’Autore è tenuto ad ottenere l’autorizzazione di «Copyright»qualora riproduca nel testo tabelle, figure, microfotografie odaltro materiale iconografico già pubblicato altrove. Tale mate-riale illustrativo dovrà essere riprodotto con la dicitura «perconcessione di …» seguito dalla citazione della fonte di pro-venienza.

3) Il manoscritto dovrebbe seguire nelle linee generali la seguentetraccia:

TitoloConciso, ma informativo ed esauriente.Nome, Cognome degli AA., Istituzione di appartenenza senzaabbreviazioni.Nome, Cognome, Foto a colori, Indirizzo, Telefono, Fax, E-mail del1° Autore cui andrà indirizzata la corrispondenza.

IntroduzioneConcisa ed essenziale, comunque tale da rendere in maniera chia-ra ed esaustiva lo scopo dell’articolo.

Parole chiaveSi richiedono 3/5 parole.

Corpo dell’articoloIl contenuto non deve essere inferiore alle 30 cartelle dattiloscritte(2.000 battute cad.) compresa la bibliografia e dovrà rendere lo statodell’arte aggiornato dell’argomento trattato. L’articolo deve esserecorredato di illustrazioni/fotografie, possibilmente a colori, in file adalta risoluzione (salvati in formato .tif, .eps, .jpg). Le citazioni bibliografiche nel testo devono essere essenziali, maaggiornate (non con i nomi degli AA. ma con la numerazione cor-rispondente alle voci della bibliografia), dovranno essere numera-te con il numero arabo (1) secondo l’ordine di comparsa nel testoe comunque in numero non superiore a 100÷120.

BibliografiaPer lo stile nella stesura seguire le seguenti indicazioni o consultareil sito “International Committee of Medical Journal Editors UniformRequirements for Manuscripts Submitted to Biomedical Journals:Sample References”.

Es. 1 - Articolo standard1. Bianchi AG, Rossi EV. Immunologic effect of donor lymphocy-tes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232:284-7.

Es. 2 - Articolo con più di 6 autori (dopo il 6° autore et al.)1. Bianchi AG, Rossi EV, Rose ME, Huerbin MB, Melick J, MarionDW, et al. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone mar-row transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7.

Es. 3 - Letter1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes[Letter]. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7.

Es. 4 - Capitoli di libri1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocy-tes. In: Caplan RS, Vigna AB, editors. Immunology. Milano:MacGraw-Hill; 2002; p. 93-113.

Es. 5 - Abstract congressi (non più di 6 autori)1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytesin bone marrow transplantation [Abstract]. Haematologica.2002; 19: (Suppl. 1): S178.

RingraziamentiRiguarda persone e/o gruppi che, pur non avendo dignità di AA.,meritano comunque di essere citati per il loro apporto alla realizza-zione dell’articolo.

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Seminari

di EmatologiaOncologica

Periodico di aggiornamento sulla clinica e terapia

delle emopatie neoplastiche

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Editoriale Editoriale

GIORGIO LAMBERTENGHI DELILIERSFondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano

Nell’ultimo decennio notevoli progressi sono statiottenuti nella terapia delle neoplasie ematologi-che grazie a terapie d’induzione e di consolida-mento diversificate a seconda dell’età e dellecaratteristiche biologiche della malattia. Nonostante l’incremento, a volte significativo,della sopravvivenza globale, le percentuali dipazienti che mantengono a lungo la remissionecompleta è ancora troppo piccola, per cui è giu-stificata la necessità di instaurare una terapiacontinuativa con gli obiettivi di eradicare la malat-tia minima residua, evitare la recidiva e prolunga-re il più possibile la durata delle risposte. A que-sto proposito diverse opzioni sono oggi disponi-bili grazie a nuovi farmaci in grado di interferirecon specifici targets molecolari o patogenetici.Seminari di Ematologia Oncologica ha sceltocome esempio alcune delle neoplasie ematolo-giche più frequenti, dove attualmente la terapiacontinuativa ha un razionale consolidato conrisultati preliminari incoraggianti ed un accettabi-le profilo di tollerabilità. Nel mieloma multiplo èconsigliabile impostare un trattamento con talido-mide, lenalidomide o bortezomid per tenere sotto

controllo la malattia dopo la fase d’induzione siachemioterapica che trapiantologica. Analogamente in alcuni linfomi maligni ad altorischio di recidiva, vengono utilizzati anticorpimonoclonali e terapie immunomodulatorie edepigenetiche. Nelle leucemie mieloidi acute enelle sindromi mielodisplastiche, dove le recidi-ve refrattarie sono eventi frequenti, è particolar-mente sentita la necessità di una terapia conti-nuativa post-remissionale, soprattutto nei pazien-ti anziani dove l’ipotesi trapiantologica è impro-ponibile. Diversi studi sono in corso per valutarel’efficacia e la tollerabilità delle citochine, degliagenti ipometilanti e degli inibitori dell’angioge-nesi e delle tirosinochinasi. Questi ultimi, come ènoto, hanno modificato la storia naturale dellaleucemia mieloide cronica e rappresentano ilmodello ideale di una terapia continuativa gesti-ta secondo determinate linee guida approvatedalla comunità scientifica. In conclusione, siamoin attesa di conoscere l’impatto che i trattamen-ti a lungo termine avranno sulla sopravvivenza esulla qualità di vita di pazienti affetti da determi-nate neoplasie ematologiche.

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n INTRODUZIONE

Il mieloma multiplo (MM) è una discrasia plasma-cellulare maligna che rappresenta l’1% di tutti itumori e il 10% delle neoplasie ematologiche.L’incidenza varia da 0,4 a 5 casi per 100.000 abi-tanti, con una maggiore frequenza nei soggettimaschi residenti in paesi sviluppati, e tra gli afro-americani. L’incidenza aumenta notevolmentecon l’età, con una età media alla diagnosi di 66anni (tassi di incidenza corretti in base all’età: 2,1e 30,1 nei pazienti di età inferiore e superiore a65 anni, rispettivamente) (1, 2).Dal punto di vista terapeutico, sono stati otte-nuti numerosi progressi negli ultimi 20 anni, inparticolare con l’introduzione del trapianto auto-logo di cellule staminali periferiche (ASCT) e piùrecentemente con l’avvento dei nuovi farmaci,talidomide, lenalidomide e bortezomib che han-no un ruolo oramai ben definito nell’incremen-to della sopravvivenza globale (OS) e della pro-gressione libera da malattia (PFS) (3, 4).Nonostante tali progressi il MM resta comunqueuna malattia incurabile e con un’alta probabili-tà di recidiva; pertanto gli obiettivi principali deglistudi di ricerca attuali sono l’ottenimento dellamiglior risposta grazie all’utilizzo di una terapiacitoriduttiva che utilizzi l’associazione di più far-

maci, e il controllo della malattia con una tera-pia in continuo e ben tollerata (5).La terapia di mantenimento intesa come terapiacontinuativa rappresenta una delle più recentiacquisizioni scientifiche ed ha come obiettivoprincipale il prolungamento della durata dellerisposte ottenute con le terapie d’attacco. Tra le prime opzioni terapeutiche nel manteni-mento, gli steroidi hanno dimostrato di esserein grado di prolungare la durata della risposta macon effetti limitati sulla sopravvivenza, come evi-denziato in alcuni studi (6, 7). Tra i farmaci uti-lizzati in passato un ruolo importante ha avutol’interferone (IFN), come dimostrato in uno stu-dio in cui era somministrato come mantenimen-to dopo induzione con chemioterapia conven-zionale e confrontato con un gruppo di pazien-ti che non erano avviati a nessuna terapia dimantenimento, riportando un prolungamento del-la sopravvivenza con IFN, soprattutto nel grup-po di pazienti che aveva risposto alla preceden-te terapia di induzione (P=0,0352) (8).I risultati preliminari di uno studio randomizza-to avevano evidenziato un vantaggio nel man-tenimento dopo ASCT con IFN; tali dati, però,non sono stati confermati da un follow-up piùlungo, che ha mostrato un modesto beneficioin termini di PFS e OS al prezzo di numerosieffetti collaterali (9). I risultati finali di uno stu-dio di fase III hanno in seguito decretato il fal-limento dell’IFN come terapia di mantenimen-to, sia dopo ASCT che dopo chemioterapia con-venzionale (10). Negli ultimi anni, l’avvento dei nuovi farmaci hapermesso di sviluppare ulteriormente la ricercanel campo della terapia di mantenimento. Diversistudi hanno infatti dimostrato il vantaggio di unaterapia in continuo sia alla diagnosi che in reci-

Mieloma multiploMieloma multiploBARBARA LUPO, STEFANIA OLIVA, MARIO BOCCADORODivisione di Ematologia dell’Università di Torino, Azienda Ospedaliera S. Giovanni Battista, Torino

Parole chiave: mieloma multiplo, mantenimento, tali-domide, lenalidomide, bortezomib.

Indirizzo per la corrispondenza

Mario Boccadoro, MDDivisione di Ematologia dell’Università di Torino,Azienda Ospedaliera S. Giovanni BattistaVia Genova, 3/E - 10126 TorinoE-mail: [email protected]

Mario Boccadoro

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6 Seminari di Ematologia Oncologica

diva di malattia, e numerosi sono quelli ancorain corso che hanno l’obiettivo di valutarne l’ef-ficacia e la tollerabilità a lungo termine, come illu-strato nei successivi paragrafi.

n IL RUOLO DELLA TALIDOMIDE

La talidomide, inizialmente usata in Europa comesedativo ipnotico, tranquillante e antiemetico, èstata recentemente introdotta nella terapia di alcu-ne patologie neoplastiche, in particolare nel MM,per le sue proprietà antiangiogenetiche, immuno-modulanti e antinfiammatorie, benché il suo pre-ciso meccanismo d’azione rimanga tuttora sco-nosciuto (11-15).Risalgono agli anni ’90 i primi studi che hannodimostrato la sua efficacia nel trattamento del MMin recidiva (16). Sulla base di tali risultati, furonocondotti in un secondo momento studi che neprovarono l’efficacia anche come terapia di pri-ma linea (17, 18).Inoltre, la possibilità di somministrarla per via ora-le in maniera continuativa, senza determinare l’ef-fetto mielotossico tipico degli agenti alchilanti, haspinto a valutarne l’efficacia come terapia di man-tenimento a lungo termine, sia in pazienti giova-ni sottoposti a ASCT, che in pazienti anziani o noncandidabili alla terapia ad alte dosi.

La talidomide dopo ASCTI principali risultati dell’ultilizzo della talidomidedopo ASCT sono illustrati in tabella 1. Lo studiodi fase III Total Therapy 2 (TT2) ha valutato l’effi-cacia dell’aggiunta della talidomide durante tut-te le fasi del trattamento (dall’induzione al man-tenimento), dimostrando una sostanziale superio-rità del braccio sperimentale rispetto al bracciodi controllo. Durante il mantenimento la talidomi-de veniva somministrata in maniera continuativafino a progressione di malattia o a sviluppo di tos-sicità, al dosaggio di 100 mg al giorno durante ilprimo anno al dosaggio ridotto di 50 mg a gior-ni alterni, dal secondo anno in poi.Sebbene i primi risultati avessero inizialmentemostrato la superiorità di tale schema rispettoal controllo solo in termini di PFS (19), una recen-te revisione dei dati dopo un più lungo follow-up ha evidenziato il vantaggio dell’utilizzo dellatalidomide anche in termini di OS (20). Un altro studio di fase III (21) ha confrontato ilruolo del mantenimento con talidomide e pami-dronato (braccio C) dopo chemioterapia standarde ASCT, rispetto al solo pamidronato (braccio B)o a nessun mantenimento (braccio A). In que-sto caso i pazienti randomizzati nel braccio Cricevevano la talidomide al dosaggio iniziale di400 mg al giorno, riducibile fino ad un minimodi 50 mg al giorno in caso di tossicità.

TABELLA 1 - Studi principali della terapia a lungo termine con talidomide dopo ASCT.

Studio Terapia di induzione/ASCT Schema di mantenimento PFS/EFS OS Referenze

TT2 - Induzione: chemioterapia IFN+talidomide (100 mg/d il 1°anno, NA NA (20)vs chemioterapia + talidomide 50 mg a giorni alterni dal 2° anno in poi)

- Doppio ASCT- Consolidamento: chemioterapia

vs chemioterapia + talidomide

IFM 99-02 Doppio ASCT No mantenimento vs pamidronato NA NA (20, 21)vs pamidronato + talidomide (50-400 mg/d)

MRC IX trial Pazienti giovani: No mantenimento vs talidomide HR=1.36; No di fferenze (22)CTD vs CVAD -> ASCT (50 mg/d aumentati a 100 mg/d 95% CI1,15-1,61; (p=,40)Pazienti anziani: dopo 4 settimane) p<,001MP vs CTD ridotto

ALLG trial Singolo ASCT Prednisone vs prednisone+talidomide PFS a 3 anni 23% OS: 75% (23)(200 mg/d per 12 mesi) vs 42% (p<,001) vs 86% (p,004)

MY.10 NCIC ASCT No mantenimento vs prednisone+talidomide PFS: 17 vs 28 mesi OS a 4 anni 60% (24)200 mg/d (p<,0001) vs 68%

HOVON 50 VAD vs TAD → ASCT Interferone a vs talidomide 50 mg/d PFS: 25 vs 34 mesi OS: 60 vs 73 mesi (25) (p<,001) (p=,77)

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7Mieloma multiplo

Nonostante la durata mediana di trattamento inquesto gruppo sia stata di soli 15 mesi, il man-tenimento con talidomide ha mostrato un van-taggio in termini di miglioramento della qualitàdella risposta ottenuta dopo ASCT. Un significativo beneficio dal trattamento è sta-to evidenziato solo nei pazienti che avevano rag-giunto una risposta inferiore alla risposta parzia-le molto buona (VGPR) prima dell’inizio del man-tenimento, con effetti invece più limitati neipazienti già in VGPR al momento della rando-mizzazione. Tale dato supporterebbe l’idea cheil vantaggio ottenuto con la talidomide sia daattribuire all’ulteriore riduzione della massatumorale più che alla capacità di mantenere larisposta ottenuta. Per quanto riguarda invece l’OS, il vantaggio cheera stato inizialmente evidenziato a favore del-la talidomide, non è poi stato confermato dai datiemersi dopo un più lungo follow-up (20).Anche nello studio inglese MRC IX la talidomi-de è stata utilizzata come mantenimento in asso-ciazione a bisfosfonati. In questo caso venivasomministrata in combinazione con ciclofosfa-mide e desametasone (CTD) già durante la fasedi induzione, in alternativa all’associazioneciclofosfamide, vincristina, doxorubicina e desa-metasone (CVAD). Ogni braccio di trattamentoprevedeva inoltre randomizzazione a concomi-tante terapia con acido zoledronico o a clodro-nato, somministrati fino a progressione dimalattia. I pazienti erano successivamente ulte-riormente randomizzati a ricevere o meno tera-pia di mantenimento con talidomide. Un recen-te update di questo studio ha riportato unasostanziale parità in termini di OS in entrambi igruppi (p=0,4), e significativo beneficio in termi-ni di PFS nel gruppo che ha ricevuto manteni-mento con talidomide (p<0,001). Un’analisi disottogruppo ha però evidenziato tale beneficiosolo nei pazienti con una FISH favorevole, men-tre nei pazienti con citogenetica sfavorevole laPFS è risultata simile e l’OS addirittura peggio-re (p=0,009) (22). Un vantaggio in termini di OS oltre che in ter-mini di PFS è stato riscontrato in uno studioaustraliano cha ha confrontato la terapia di con-solidamento con prednisone e talidomide (som-ministrata per 12 mesi al dosaggio di 200 mg)

rispetto al solo prednisone (OS: 86% vs 75% a3 anni, P=0,004; PFS: 42% vs 23% a 3 anni,P<0,001) (23). Tale beneficio non è stato evidenziato nellasopravvivenza dopo recidiva, con una sostan-ziale uguaglianza tra i due gruppi (79% a 1 annonel braccio sperimentale rispetto al 77% delbraccio di controllo, P=0,0237). In questo stu-dio, inoltre, la PFS non è risultata influenzata dal-la risposta ottenuta dopo ASCT, diversamentedai dati ottenuti nello studio francese.Anche lo studio americano condotto da Stewartet al. (24) ha confrontato il mantenimento con lacombinazione di talidomide e prednisone (T/P)rispetto al solo prednisone, avendo come obiet-tivo primario l’OS. In questo caso però, mentre la PFS è risultatasignificativamente superiore nel braccio speri-mentale, non si sono osservati benefici in ter-mini di OS, a fronte invece di una differenza signi-ficativa in termini di tossicità generale [grado 3(G3) 92% T/P vs 49% controllo, grado 4 (G4)16% T/P vs 7% controllo].Risultati analoghi sono stati ottenuti nello studioHOVON 50 (25), in cui i pazienti randomizzati nelbraccio sperimentale ricevevano la talidomide siadurante l’induzione (al dosaggio di 200 mg algiorno in associazione con adriamicina e desa-metasone), sia in alternativa all’IFN come man-tenimento dopo trapianto (al dosaggio di 50 mgal giorno). In questo caso la sopravvivenza doporecidiva è risultata significativamente inferiore nelbraccio sperimentale, anche se la PFS era signi-ficativamente superiore nel gruppo di manteni-mento con talidomide.Dal punto di vista della tossicità, i principali effet-ti collaterali emersi nei diversi studi sono rappre-sentati soprattutto da neuropatia periferica,astenia e stipsi. Una delle principali cause di interruzione del trat-tamento è la neurotossicità, anche se l’inciden-za di neuropatia severa è piuttosto limitata. Ilrischio di eventi tromboembolici non è risultatoparticolarmente elevato, diversamente da quan-to si verifica durante l’induzione, quando proba-bilmente vi è un rischio maggiore anche in cor-relazione ad una più elevata massa tumorale. La principale difficoltà nel paragonare questi stu-di è determinata dal fatto che in alcuni la talido-

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8 Seminari di Ematologia Oncologica

mide veniva somministrata già in fase di indu-zione, in altri solo durante il mantenimento, dopoinduzione con chemioterapia standard. L’impatto della pregressa esposizione alla talido-mide sul successivo mantenimento è pertanto dif-ficile da valutare. I dati sembrerebbero suggerire che, per minimiz-zare gli eventi avversi correlati ad una esposizio-ne prolungata, la terapia con talidomide dopo indu-zione potrebbe avere un ruolo soprattutto in ter-mini di consolidamento, e il trattamento andreb-be interrotto dopo ottenimento della migliore rispo-sta possibile.

La talidomide nei pazienti non candidabili al trapianto autologoLa terapia di mantenimento con talidomide è sta-ta indagata dopo trattamento di induzioneanche nei pazienti anziani o nei pazienti giova-ni non candidabili al ASCT. I principali risultatidell’utilizzo della talidomide in questa categoriadi pazienti sono illustrati in tabella 2.Nello studio GIMEMA (26) i pazienti di età com-presa fra i 65 e gli 85 anni o più giovani ma noncandidabili al trapianto venivano randomizzati alladiagnosi a ricevere terapia di induzione con mel-phalan-prednisone (MP) o melphalan, predniso-ne e talidomide (MPT). Alla fine della fase di indu-zione i pazienti del braccio MPT ricevevano suc-cessivo mantenimento con talidomide al dosag-gio di 100 mg al giorno. Dopo una mediana difollow-up di 38,1 mesi, la PFS mediana è risul-tata di 21,8 mesi nel braccio MPT e di 14,5 mesinel braccio MP, senza però evidenza di differen-ze significative in termini di OS (45 mesi vs 47,6mesi, rispettivamente).Un analogo confronto è stato effettuato nello stu-

dio HOVON 49 (27), che ha paragonato il tratta-mento standard MP con lo schema MPT, segui-to da mantenimento con talidomide al dosaggiodi 50 mg al giorno. Un’analisi intention-to-treatcondotta nei 333 pazienti valutabili ha mostratoun tasso di risposta superiore nel braccio speri-mentale [≥ remissione parziale (PR): 66% vs 45%rispettivamente, P<0,001], confermandone ilvantaggio non solo in termini di sopravvivenzalibera da eventi (EFS) (13 mesi nel braccio MPTvs 9 mesi nel braccio MP, p<0,001), ma anchein termini di OS (40 mesi nel braccio MPT vs 31mesi nel braccio MP, P=0,005) (27).Ludwig et al (28). hanno confrontato il manteni-mento con talidomide e IFN vs il solo IFN, dopoterapia di induzione con MP o talidomide e desa-metasone (TD), osservando un vantaggio signi-ficativo in termini di PFS nel mantenimento conIFN e talidomide rispetto al solo IFN (27,7 vs 13,2mesi, P=0,0068), senza beneficio in termini di OS(52,6 vs 51,4 mesi, P=0,81).L’associazione di talidomide e desametasonecome terapia di mantenimento è stata invece con-frontata con IFNa e desametasone dopo induzio-ne con talidomide, desametasone e doxorubici-na liposomiale (ThaDD), sia in pazienti alla diagno-si non candidabili al ASCT, sia in pazienti in reci-diva. In entrambe le categorie di pazienti la tali-domide ha mostrato un vantaggio sia in terminidi PFS che in termini di OS (29). Anche in que-sto caso, però, il beneficio determinato dalla tali-domide è stato osservato solo in pazienti chedopo l’induzione avevano raggiunto una risposta<VGPR, a sostegno del fatto che la talidomidemigliora la sopravvivenza mediante la riduzionedella massa tumorale più che mediante il man-tenimento della risposta già ottenuta.

TABELLA 2 - Studi principali della terapia a lungo termine con talidomide nei pazienti anziani o giovani non candidabili al ASCT.

Studio Terapia di induzione Mantenimento PFS/EFS OS Referenze

GIMEMA MP vs MPT No mantenimento vs talidomide (100 mg/d) PFS: 14,5 OS: 47,6 (26)vs 21,8 mesi vs 45 mesi

Hovon 49 MP vs MPT No mantenimento vs talidomide (50 mg/d) EFS mediano: 9 mesi OS: 31 (27)vs 13 mesi vs 40 mesi

Ludwig MP vs TD IFN vs IFN+talidomide (100 mg/d) PFS: 16,7 OS: 51,4 (28)et al. vs 20,7 mesi (P=,0068) vs 52,6 mesi, (P=,81)

Offidani Tha DD Interferone + prednisone vs prednisone PFS a 2 anni: OS a 2 anni: (29)et al. + talidomide 100 mg/d 32% vs 63% 68% vs 84% (p=,03)

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9Mieloma multiplo

n IL RUOLO DELLA LENALIDOMIDE

La lenalidomide è un farmaco analogo della tali-domide e i risultati iniziali degli studi sperimen-tali indicano che sia più efficace e con un diver-so profilo di tossicità, vale a dire una minore tos-sicità ematologica cumulativa e assenza di neu-ropatia periferica rispetto alla molecola caposti-pite. Per queste ragioni lenalidomide rappresen-ta una valida opzione terapeutica nei pazienti conMM, in particolare numerosi studi sono in cor-so per valutarne l’efficacia nella terapia a lungotermine e nel mantenimento, sia alla diagnosi chenei soggetti in recidiva di malattia. I risultati deiprincipali studi sono illustrati nella tabella 3.

Lenalidomide dopo ASCTNello studio francese di fase III IFM2005-02sono stati arruolati 614 pazienti di età inferioreai 65 anni che non erano progrediti entro seimesi dopo ASCT come terapia di prima linea.I pazienti venivano randomizzati a ricevere unconsolidamento con lenalidomide (a 25 mg algiorno per 21 giorni al mese per 2 mesi) segui-to da un mantenimento con placebo (braccio A)o con lenalidomide alla dose di 10 o 15 mg al

giorno (braccio B) fino a recidiva di malattia.Dopo un follow-up mediano di 34 mesi dalla ran-domizzazione e 44 mesi dalla diagnosi, è sta-to dimostrato che il consolidamento con lena-lidomide migliora la risposta, mentre il mante-nimento migliora la PFS mediana (PFS media-no dalla randomizzazione 24 mesi nel braccioA contro i 42 mesi dalla randomizzazione nelbraccio B, HR=0,5, P<10-8). Tale beneficio è sta-to dimostrato in tutti i sottogruppi di studio inclu-dendo tra le variabili la beta 2 microglobulina,il profilo citogenetico, e la risposta ottenuta dopoil trapianto.L’OS a 5 anni dalla diagnosi rimane elevata esimile nei due gruppi di trattamento (83%) (30).In uno studio multicentrico di fase III, i pazientiche avevano raggiunto almeno una malattia sta-bile (SD) dopo ASCT venivano randomizzati atrattamento giornaliero in continuo a base dilenalidomide al dosaggio di 10 mg o placebo,fino a recidiva. Dopo un periodo di follow-upmediano di 17,5 mesi dall’ASCT, i pazienti in tera-pia continua con lenalidomide hanno mostratouna PFS mediana significativamente superiorerispetto al placebo (42,3 mesi vs 21,8 rispetti-vamente) ed una riduzione del 60% del rischio

TABELLA 3 - Studi principali con lenalidomide come terapia continuativa.

Studio Regimi e dosi Risposte Sopravvivenza Referenze

RD/Rd Len: 25 mg giorni 1-21; Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20 ogni 28 giorni >VGPR: 50%vs 40% PFS: 19,1 vs 25,3 mesi (33)Len: 25 mg giorni 1-21; Dex: 40 mg giorni 1, 8, 15, 22 ogni 28 giorni >PR: 79%vs 68% OS: 75% vs 87% a 2 anni

MPR-R MPR 9 cicli in induzione, Len: 10 mg al giorno giorni 1-21 >PR: 77% PFS: 55% a 2 anni (35)o placebo fino a progressione CR: 16%

IFM Consolidamento post ASCT con Len: 25 mg al giorno NA PFS: 42 mesi (30)2005-02 per 21 giorni per 2 mesi seguito da mantenimento con len OS: 81% a 4 anni

da 1 a 15 mg al giorno per 21 giorno contro placebo fino a recidiva. dalla diagnosi

CALGB Mantenimento post ASCT con lenalidomide da 10 mg al giorno NA PFS: 42,3 mesi (31)100104 a 15 mg al giorno dopo 3 mesi fino a progressione di malattia 11 deceduti.

PAD-MEL PAD in induzione- doppio trapianto (MEL 100) seguito da consolidamento >VGPR 82% PFS: 69% a 2 anni (32)100 RP-R Len 25 mg al giorno per 21 giorni+ prednisone 50 mg a giorni alterni (dopo LP-L) OS: 86% a 2 anni

seguito da mantenimento Len 10 mg al giorno per 21 giorni CR: 66%fino a ricaduta di malattia

MM-09 Len 25 mg al giorno per 21 giorni + desametasone 40 mg g1-4,9-12, >PR 61% TTP: 11 mesi (42)17-20 per I primi 4 cicli poi solo giorni 1-4 vs placebo + desametasone CR: 14% OS: 29 mesifino a progressione di malattia

MM-010 Len 25 mg al giorno per 21 giorni + desametasone 40 mg g1-4,9-12, >PR 60% TTP: 11 mesi (43)17-20 per I primi 4 cicli poi solo giorni 1-4 vs placebo + desametasone CR: 15% OS: NRfino a progressione di malattia

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di progressione della malattia o di morte(P<0,0001). Il tempo mediano alla progressione(TTP) è risultato notevolmente più elevato per ilgruppo in trattamento con la lenalidomide (42,3mesi) rispetto al gruppo placebo (21,8 mesi). Glieffetti collaterali di grado 3-4 più comuni riscon-trati dai pazienti in terapia con lenalidomide o oche ricevevano placebo nello studio sono statila neutropenia (43% rispetto al 9%), la trombo-citopenia (13% rispetto al 4%) e le infezioni (16%rispetto al 5%) (31).Un altro recente studio di fase II ha analizzato l’ef-ficacia dei nuovi farmaci incorporati sia neglischemi di induzione pre-ASCT (bortezomib-doxorubicina-desametasone, PAD), sia nel con-solidamento post-ASCT (lenalidomide-predniso-ne, LP), che nel mantenimento (lenalidomide, L),in pazienti di età compresa tra i 65 e 75 anni: lerisposte ≥ remissioni parziali (RP) erano del 94%dopo induzione con PAD e 100% dopo conso-lidamento con LP; le remissioni complete (RC)erano del 13% dopo induzione con PAD, 43%dopo ASCT e 73% dopo consolidamento-man-tenimento con LP-L.Il miglioramento delle risposte durante consoli-damento è stato raggiunto nel 16% dei pazien-ti e il 4% di loro ha migliorato ulteriormentedurante il mantenimento; questi dati suggerisco-no che il bortezomib come induzione e la lena-lidomide come consolidamento e mantenimen-to aumentano le risposte grazie al vantaggio dipoter sfruttare l'esposizione sequenziale a diver-si farmaci (32).

La lenalidomide nei pazienti alla diagnosinon candidabili al trapianto autologoUno studio di fase III dell'Eastern CooperativeOncology Group (ECOG) ha confrontato lalenalidomide in combinazione con due diversedosi di desametasone nei pazienti alla diagno-si. Il primo braccio della randomizzazione pre-vedeva lenalidomide 25 mg nei giorni 1-21 conalte dosi di desametasone (40 mg nei giorni 1-4, 9-12, e 17-20 ogni 28 giorni [RD]), il secon-do braccio prevedeva lenalidomide con bassedosi di desametasone (40 mg nei giorni 1, 8, 15e 22 ogni 28 giorni [Rd]). Dopo i primi 4 cicli, ipazienti potevano interrompere tale schema eproseguire con altre opzioni terapeutiche o con-

tinuare con lo stesso schema fino a progressio-ne. Nonostante un più elevato tasso di rispostanei pazienti trattati con RD [PR rate: 79% (RD)vs 68% (Rd), P=,008 e ≥VGPR, 42% (RD) vs24% (Rd), P=,008], la PFS mediana e l’OS a 1e a 2 anni sono risultate significativamente supe-riori nel gruppo Rd rispetto al gruppo RD [PFS25,3 mesi (Rd) vs 19,1 mesi (RD), P=0,026; OSa 2 anni 87% (Rd) vs 75% (RD), P=0,0002]. Tossicità di grado ≥3 si sono verificate in mag-gior misura nel gruppo RD, le più frequenti era-no le trombosi, le infezioni e l’astenia; per talemotivo e per la maggiore mortalità precoce, ipazienti appartenenti a tale braccio potevanointerrompere prematuramente la terapia ed usu-fruire dello schema Rd, meno tossico. Comeconseguenza l’OS a 3 anni non differiva nei duegruppi (75% in entrambi). Una landmark analysis dello studio si è focaliz-zata sul confronto dell’OS a 3 anni in pazienti incui erano stati utilizzati tre diversi approcci tera-peutici e il risultato è stato: OS 55% nei pazien-ti che avevano discontinuato la terapia dopo 4mesi e che non avevano proseguito con il tra-pianto, OS 92% nei pazienti che avevano inter-rotto a 4 mesi per poi essere avviati al trapian-to e OS 79% in coloro che avevano proseguitocon l’associazione di lenalidomide e desameta-sone anche dopo i primi 4 cicli. I risultati di que-sta analisi suggeriscono l’importanza di esten-dere il trattamento nel tempo o di attuare un trat-tamento di breve durata ma seguita da trapian-to autologo (33). Tali dati dimostrano come laridotta tossicità del braccio Rd si traduca in unincremento della OS. È stato ipotizzato che ildesametasone a dosaggio elevato aumenti l’ef-fetto tumoricida della lenalidomide, antagoniz-zandone però maggiormente gli effetti immuno-modulatori (34). Nei pazienti non candidabili al ASCT, l’uso a lun-go termine della lenalidomide riduce il rischio diprogressione di malattia utilizzando un profilo diterapia maneggevole in termini di tossicitàcome dimostrato da uno studio randomizzato difase III in cui 459 pazienti con nuova diagnosidi mieloma multiplo di età superiore ai 65 annivenivano randomizzati in un braccio che riceve-va lenalidomide [R] in continuo al dosaggio di 10mg al giorno dopo induzione con melphalan [M],

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prednisone [P], e R (MPR-R), in un secondo brac-cio che riceveva solo MPR senza successivomantenimento ed infine in un terzo braccio chericeveva solo MP. I risultati hanno dimostrato che la combinazioneMPR-R riduce il rischio di progressione del 58%rispetto all’associazione MP (hazard ratio [HR]=0,423; P<0,001). La PFS è risultata superiore neipazienti che ricevevano R in continuo indipenden-temente dal sesso, dallo stadio di malattia, dallafunzionalità renale o dal valore alla diagnosi del-la beta2-microglobulina. Un’analisi landmark haparagonato MPR-R con MPR ed ha dimostratoche il mantenimento con R riduce il rischio di pro-gressione del 69% rispetto al placebo (HR=0,314;P<0,001). Indipendentemente poi dalla rispostaottenuta dopo induzione, i pazienti trattati con Rin mantenimento avevano una PFS prolungatarispetto al gruppo placebo. Neutropenia, trombocitopenia e anemia di gra-do 3-4 sono state riscontrate rispettivamente nel71%, 38% e 24% dei pazienti del gruppo MPR-R e nel 30% 14% e 17% del gruppo MP; il man-tenimento con R è stato però ben tollerato selo si paragona col gruppo placebo, con pochieventi avversi di grado 3-4 e minima tossicitàcumulativa, 3% di trombocitopenia rispetto al2% del placebo, 2% di neutropenia rispetto a0% e 1% di trombosi venosa profonda rispet-to a 0% (35).

Lenalidomide nei pazienti recidivati/refrattariLa lenalidomide è stata studiata come singoloagente e in associazione con desametasone neipazienti con MM recidivati/refratttari (36-38); è indi-cata, in associazione a desametasone nei pazien-ti che siano stati trattati almeno con una terapiain prima linea (39-40).Sono due gli studi più importanti che hanno valu-tato l’utilizzo in continuo di tale associazione neipazienti recidivati, paragonata al placebo, riscon-trando un miglioramento della quota delle rispo-ste, del TTP e dell’OS (41-43).Un’analisi di sottogruppo di questi studi ha con-frontato i 133 pazienti trattati con lenalidomide edesametasone (Len/Dex) in prima recidiva, con i221 che hanno ricevuto Len/Dex dopo due o piùregimi (44). Le risposte ≥VGPR sono risultate signi-ficativamente maggiori nel gruppo Len/Dex in pri-

ma recidiva (39,8% contro li 27,7%; P=0,025), cosìcome l’OS mediana (42,0 contro 35,8 mesi;P=0,041). L’incidenza di eventi avversi, interruzio-ni di terapia e riduzione di dose è stata simile inentrambi i gruppi, mentre la durata di terapia èrisultata superiore nel gruppo Len/Dex alla primarecidiva.In questi studi si è anche dimostrato che il tipodi terapia precedente a Len/Dex ha un discretoimpatto sull’efficacia e la tollerabilità della suc-cessiva terapia: Len/Dex è infatti risultata più effi-cace del solo desametasone nei pazienti che era-no stati precedentemente trattati con talidomi-de (45). All'interno del gruppo Len/Dex, i pretrattati contalidomide hanno ottenuto una quota di rispostee un TTP inferiore rispetto ai pazienti mai tratta-ti con talidomide, mentre l’OS è risultata simile neidue gruppi. Avet Loiseau et al. hanno osservatoin un recente studio che la talidomide non influen-za i risultati successivi con lenalidomide (46). Altristudi hanno poi dimostrato che terapie preceden-ti a base di bortezomib sono correlate con un piùalto rischio di progressione dopo Len/Dex (47, 48). Lo studio VISTA ha dimostrato che usare o menobortezomib come terapia di prima linea noninfluenza poi i risultati di Len/Dex in prima reci-diva (49), così come emerso dagli studi in cuiLen/Dex era utilizzata dopo ASCT (50).Analizzando i risultati di trials in cui i pazienti era-no stratificati in sottogruppi con prognosi infau-sta (età avanzata, basso performance status, mie-loma multiplo IgA, stadio di malattia avanzato, fun-zionalità renale compromessa, neuropatia perife-rica) non è stata rilevata un’influenza negativa sul-le successive risposte a Len/Dex (51-55).La conclusione di questi studi è che l’utilizzo diLen/Dex è efficace soprattutto in fase precocemediante un regime continuativo nei pazientiresponsivi e fino a progressione di malattia.Emerge l’importanza della terapia con Len/Dex inprima recidiva rispetto ad un trattamento di sal-vataggio in pazienti pluri chemio-trattati.L’efficacia di Len/Dex pare essere indipenden-te dai tipi di terapia precedenti sebbene in alcu-ni studi la non risposta alla talidomide risulti cor-relata ad una minore efficacia, in particolare neigruppi di pazienti con un intervallo dall’ultimaassunzione di talidomide superiore a 1 anno.

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Per quanto riguarda la durata della terapia conLen/Dex, gli studi MM-09 e MM-010 hanno evi-denziato come il 50% dei pazienti che inizialmen-te aveva ottenuto una RP abbia ottenuto unaVGPR o RC tardivamente grazie a un trattamen-to continuativo (56). Nel 38% dei casi questo miglioramento era sta-to ottenuto dopo sei cicli di terapia con Len/Dex,mentre il 7% dei pazienti migliorava la qualità del-la risposta dopo 12 cicli.I pazienti che ottenevano una RC o una VGPRavevano un TTP prolungato rispetto ai pazienti inPR (27,7 mesi contro i 12,0; P<0,021), da qui l’im-portanza di una terapia continuativa. Fra i pazien-ti che rispondevano a Len/Dex, coloro i quali con-tinuavano la terapia avevano un rischio inferioredi morte rispetto a coloro che la discontinuava-no precocemente per ragioni diverse dalla pro-gressione di malattia, come eventi avversi o riti-ro del consenso (57).Ovviamente tutti gli studi concordano sul fatto cheil trattamento in continuo debba essere persegui-to con la miglior dose tollerata, sia della lenalido-mide sia del desametasone. In uno studio di tol-lerabilità nei pazienti in recidiva di mieloma mul-tiplo Len/Dex era associato a basse percentualidi interruzione di terapia per eventi avversi rispet-to a talidomide e bortezomib (6,2 contro 13,3 e11,1% rispettivamente) (58).Purtroppo non ci sono dati che riguardino inve-ce l’efficacia di una terapia in continuo di lenali-domide come monoterapia nei pazienti recidiva-ti. Un’analisi retrospettiva degli studi MM-09 eMM-010 ha dimostrato che i pazienti che riduce-vano il dosaggio di desametasone ottenevano unamaggiore efficacia in termini di qualità di rispo-ste (P<0,001), TTP (P<0,005) e OS (P<0,019) (59).Alcuni studi si sono occupati di valutare le modi-fiche delle dosi di lenalidomide per eventi avver-si e hanno dimostrato che, fra i pazienti respon-sivi, coloro i quali riducevano la dose del farma-co oltre i 12 mesi ottenevano migliori risultatirispetto a coloro che riducevano entro i 12 mesio a coloro che non la riducevano affatto (60). Ciò implica che un dosaggio pieno di lenalidomi-de per 12 mesi ha una ricaduta favorevole sul-l’efficacia della terapia e che l’eventuale riduzio-ne del dosaggio oltre tale periodo non compro-mette poi l’efficacia del trattametno.

n LENALIDOMIDE E INSORGENZA DI SECONDE NEOPLASIE PRIMITIVE

A seguito dell’ osservazione, in tre studi clinicicondotti nel mieloma multiplo non precedente-mente trattato (due studi - IFM 2005 - 02 eCALGB 100 104 - nel mantenimento post trapian-to e uno - MM015 - nel trattamento di prima lineadei pazienti non candidabili al trapianto) di unnumero di secondi tumori primitivi (SPM) più ele-vato nel braccio lenalidomide rispetto al bracciodi controllo, l’Agenzia Europea de Medicinali(EMA) ha ritenuto, nel Marzo del 2011, di volerrivalutare il rapporto beneficio - rischio del far-maco nell’indicazione autorizzata (mieloma mul-tiplo recidivato-refrattario). La procedura di rivalutazione si è conclusa posi-tivamente con la conferma, per lenalidomide(Revlimid), di un rapporto beneficio/rischio estre-mamente favorevole nell’indicazione autorizzata.Questo esito è stato il risultato di una collabora-zione tra l’Autorità e l’Azienda, che ha presenta-to una documentazione non solo nell’ indicazio-ne approvata, oggetto della procedura di reas-sessment, ma anche nelle nuove indicazioniattualmente in fase di studio (LLC, LNH) e in quel-la del tutto recentemente sottomessa alle Autoritàper approvazione (trattamento del mieloma mul-tiplo mai precedentemente trattato). I dati aggiornati sull’incidenza di secondi tumo-ri primitivi (SPM) forniti dall’Azienda saranno, inquesto caso, oggetto di ulteriore valutazione daparte dell’ Autorità Regolatoria nell’ambito del-l’esame del dossier registrativo per il rilascio del-la Marketing Authorization (MA).

n IL RUOLO DEL BORTEZOMIB

Il bortezomib è il primo inibitore del proteasomaad essere entrato nella pratica clinica ed appro-vato per il trattamento del MM. I risultati consoli-dati che ne hanno mostrato l’efficacia e la sicu-rezza, sia alla diagnosi che in recidiva, hanno spin-to a valutarne l'utilizzo come terapia di manteni-mento. Lo studio di fase III HOVON 65 ha inda-gato il ruolo del mantenimento con bortezomibdopo induzione con 3 cicli PAD e ASCT, in alter-nativa a talidomide, somministrata come terapia

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di mantenimento dopo induzione con 3 cicli VAD(vincristina, adriamicina e desametasone) (61). Idati emersi mostrano un vantaggio in termini dirisposta nel gruppo PAD rispetto al gruppo VAD(≅ VGPR 41% vs 17%, p=0,001), con un ulterio-re incremento dopo ASCT (≅ VGPR 59% vs 47%,p=0,14) ed una sostanziale superiorità del man-tenimento con bortezomib, con un tasso di rispo-sta completa del 27% nel gruppo PAD-B rispet-to al 5% del gruppo VAD-T (P=0,001). L’efficacia dell’utilizzo di regimi terapeutici conte-nenti bortezomib come consolidamento dopoASCT è sostenuta anche dai risultati dello studioitaliano condotto da Ladetto et al. in pazienti cheavevano raggiunto almeno una VGPR dopoASCT ed avevano un marker molecolare misura-bile basato sul riarrangiamento della catenapesante delle immunoglobuline. In questo casoil consolidamento con 4 cicli VTD (bortezomib, tali-domide e desametasone) ha determinato un incre-mento della CR dal 15% dopo trapianto al 49%dopo VTD ed un significativo incremento dellaremissione molecolare (62).Il mantenimento con bortezomib è stato studia-to anche nei pazienti con MM alla diagnosi noncandidabili al ASCT.

Lo studio spagnolo di fase III ha confrontato ilmantenimento con bortezomib e prednisone inalternativa a bortezomib e talidomide, riscontran-do in generale un beneficio dalla terapia di man-tenimento, con un incremento del tasso di remis-sione completa dal 24% dopo terapia di induzio-ne al 42% dopo mantenimento, con una PFS leg-germente più lunga nel gruppo bortezomib-tali-domide rispetto al gruppo bortezomib-predniso-ne (63).L’associazione di bortezomib e talidomide cometerapia di mantenimento è stata utilizzata anchein uno studio italiano di fase III che prevedeva ilconfronto tra induzione con la combinazione diquattro farmaci (bortezomib-melphalan-predniso-ne-talidomide, VMPT) seguita da mantenimentocon bortezomib-talidomide (VT) in alternativa abortezomib-melfalan e prednisone (VMP) senzasuccessivo mantenimento. L’associazione VMPT-VT è risultata superiore allo schema VMP in ter-mini di risposte e PFS, ma il beneficio effettivodeterminato dal successivo mantenimento con VTnon è determinabile, a causa dell’assenza di unaseconda randomizzazione dopo la fase di indu-zione e del follow-up relativamente breve. Pochipazienti hanno però ottenuto un miglioramento

TABELLA 4 - Studi principali con bortezomib come terapia continuativa.

Studio Terapia di Mantenimento Risposta PFS/ES Referenzeinduzione/ASCT

HOVON-65/ VAD vs PAD Talidomide 50 mg/d CR globali incluso il mantenimento: NA (61)GMMG-HD4 → ASCT vs bortezomib 1,3 mg/mq 5% vs 27% (P=.001)

ogni 2 settimane per 2 anni

Ladetto ASCT 4 cicli VTD (bortezomib 1,6 mg/mq Incremento remissione molecolare NA (62)et al. al mese+talidomide 200 mg/d+ dal 3% dopo ABMT al 18%

desametasone 20 mg/d ai giorni dopo VTD1, 4, 8, 11, 15 e 18)

Mateos VMP vs VTP Bortezomib (1,3 mg/mq g 1, 4, CR: 39% vs 44% PFS mediana: (63)et al. 8, 11 ogni 3 mesi) + prednisone 24 mesi

(50 mg a giorni alterni) vs Bortezomib vs 32 mesi (P=0,1)(1,3 mg/mq g 1, 4, 8, 11 ogni 3 mesi)+ talidomide (50 mg/d) per 3 anni

Palumbo VMP vs VMPT No mantenimento vs Bortezomib CR globali: 24 vs 38% PFS a 3 anni: (64)et al. 1,3 mg/mq ogni 2 settimane + 41 vs 56%

talidomide 50 mg/d per 2 anni (P=,008)

Benevolo NA Bortezomib 1,3 mg/mq ogni 2 settimane ≥PR: 76% PFS a 1 anno 61% (65) et al. + desametasone 20 mg/d g 1-2

e 15-16 ogni 28 giorni

Dispenzieri Bortezomib Bortezomib 1,3 mg/mq ogni 2 settimane ≥PR: 48% P PFS mediana: 7,8 mesi (66)et al.

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della risposta durante i primi sei mesi del man-tenimento, verosimilmente in correlazione al fat-to che la maggiore influenza sul tasso di rispo-sta è determinata soprattutto dalla fase di indu-zione (64).Il mantenimento con bortezomib in associazioneal desametasone è stato invece valutato in unostudio italiano condotto in pazienti con mielomamultiplo refrattario o in recidiva dopo iniziale rispo-sta a trattamento di salvataggio contenente bor-tezomib. Dei 49 pazienti inizialmente arruolati, 7hanno ottenuto un miglioramento della risposta(4 CR e 3 VGPR), con una mediana di TTP di 16mesi e una PFS del 61% a un anno (65).Il gruppo della Mayo Clinic ha invece valutato ilruolo del bortezomib single agent come terapiadi induzione, mantenimento e re-induzione inpazienti con MM ad alto rischio (livelli di ß2micro-globulina ≥5,5 mcg/ml, plasma cell labelingindex ≥1%, delezione del cromosoma 13), otte-nendo un tasso di risposta complessiva all’indu-zione pari al 48% (66). Come dimostrato ancheda questi studi, i più comuni eventi avversi cor-relati alla terapia con bortezomib sono rappresen-tati da astenia, neuropatia periferica, disturbigastrointestinali, riattivazione di herpes virus, trom-bocitopenia e neutropenia.Il ruolo del bortezomib come terapia di consoli-damento/mantenimento è ancora in fase di defi-nizione. È possibile che, analogamente alla tali-domide, possa avere un ruolo soprattutto comeconsolidamento, considerato il fatto che una suaprolungata somministrazione è gravata dal poten-ziale rischio di neuropatia periferica irreversibile.La possibilità di infusioni a dosaggio ridotto, comesperimentato in alcuni di questi studi, o la som-ministrazione per via sottocutanea anziché endo-venosa potrebbero permettere di beneficiare deivantaggi di un trattamento prolungato, senza peg-gioramento della tossicità.

n CONCLUSIONI

Se si guarda al disegno degli studi clinici in cor-so, si osserva un profondo cambiamento rispet-to a pochi anni or sono. Nella maggior parte deglistudi sia nei soggetti giovani sia anziani la tera-pia si divide in blocchi con una fase di induzio-

ne, una di consolidamento ed a seguire un man-tenimento. Si tende quindi a impostare una tera-pia continuativa che tenga sotto controllo la malat-tia in ogni sua fase.I cambiamenti sono certamente dovuti all’intro-duzione dei farmaci immunomodulanti talidomi-de e lenalidomide che vengono integrati nella tera-pia. Entrambi i farmaci sono stati somministratiper periodi prolungati di tempo. Tuttavia soprat-tutto la neuropatia ha impedito alla talidomide diessere un farmaco per il trattamento in continuo.La lenalidomide è stata approvata per essere som-ministrata in continuo nel MM recidivato e refrat-tario. Per la sua efficacia e per l’assenza d‘impor-tanti effetti collaterali è stata quindi valutata in varistudi sperimentali come terapia continuativa dimantenimento dopo terapia convenzionale e dopotrapianto autologo. Anche il ruolo del bortezomibè ancora in fase di sperimentazione: i primi risul-tati ne evidenziano l’utilità soprattutto in fase diconsolidamento, anche se l’uso di schemi adosaggio ridotto e la somministrazione sotto cutepotrebbe ridurre il rischio di neurotossicità, con-sentendone così l’utilizzo a lungo termine.I risultati preliminari della terapia di mantenimen-to mostrano differenze altamente significativedell’EFS, solo in uno studio si ha aumento dellasopravvivenza (31). Certamente sono questi i piùpromettenti risultati presentati dalla letteraturanegli ultimi anni. Occorre tuttavia prolungare l’os-servazione di questi pazienti per verificare se l’al-lungamento della fase di remissione si traducein un aumento della sopravvivenza, se esistonodei sottogruppi di pazienti in cui l'efficacia è mag-giore ed infine valutare tossicità e qualità di vitadei pazienti sottoposti ad un prolungato tratta-mento.

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n INTRODUZIONE

La leucemia mieloide cronica (LMC) è stata la pri-ma neoplasia ad essere associata ad una speci-fica alterazione genetica, il cromosomaPhiladelphia (Ph+), la cui identificazione (1) e laseguente scoperta del gene chimerico BCR-ABLha portato alla comprensione biologica dellamalattia. Questo, a sua volta, ha condotto allo svi-luppo sia della target therapy che delle metodi-che molecolari per monitorarne l’andamento (2).La combinazione di questi eventi ruota attorno adun disegno terapeutico che è l’invidia dellaoncologia.La LMC è una neoplasia mieloproliferativa, rela-tivamente rara con una incidenza di 1,1-1,8 nuo-vi casi/100.000 abitanti caratterizzata da una tra-slocazione cromosomica aberrante che si iden-tifica nel cromosoma Ph+. Tale traslocazione fon-de due geni, la cui combinazione attiva costitui-sce una proteina tirosino-chinasica (TK) intracel-lulare, denominata Bcr/Abl. La scoperta dell’ini-bitore specifico della TK, Imatinib mesilato(STI571-Gleevec/Glivec, Novartis Pharmaceuti -

cals, EAST Hanover, NJ, USA), ha drammatica-mente cambiato lo scenario terapeutico dellamalattia, dimostrando, nello studio registrativo difase III IRIS (Internation Randomized Study ofInterferon vs STI571) una superiore efficacia diImatinib in confronto al trattamento standard inter-ferone alpha (IFN-a) + citarabina (Ara-C) inpazienti affetti da LMC-fase cronica (FC) di nuo-va diagnosi (3, 4). L’importanza di questa rivolu-zione terapeutica ha portato la EuropeanLeukemia Network (ELN) a consultare un gruppodi esperti che creassero raccomandazioni utili allacomunità scientifica sulla gestione delle LMC Ph+trattate con Imatinib (Tabella 1) (5). Rapidamentesono stati disponibili dati di efficacia anche fuo-ri dall’ambito di studi clinici controllati, il follow-up si allungava e la conoscenza di meccanismidi resistenza ai TKI diventava sempre più ricca edettagliata. Nel frattempo altri inibitori delle TKsono stati sviluppati e testati sia in vitro che in stu-di clinici, e due di questi (dasatinib, Sprycel, BristolMyers Squibb e nilotinib, Tasigna, Novartis) sonostati registrati per il trattamento dei pazienti affet-ti da LMC resistenti a Imatinib e/o intolleranti (6).Per queste ragioni è stato necessario rivalutare ifattori che influenzano la risposta a imatinib e capi-re quali risposte cliniche, tra l’ematologica, cito-genetica o molecolare (Tabella 2), influenzasserol’outcome a lungo termine di questi pazienti, perattuare strategie terapeutiche in grado di supe-rare la resistenza instauratasi (Tabella 3 per la valu-tazione della risposta). Sempre per questa ragio-ne, sebbene i dati di efficacia ed il follow-up deipazienti trattati con inibitori di seconda genera-

Leucemia Leucemia mieloide cronicamieloide cronicaANTONELLA GOZZINI, ALBERTO BOSIAOU Careggi, SODc Ematologia, Università degli Studi di Firenze

Parole chiave: Leucemia mieloide cronica (LMC), ini-bitori delle tirosino chinasi (TKis), risposta citogeneti-ca completa (CCyR), Imatinib.

Indirizzo per la corrispondenza

Antonella GozziniLargo Brambilla, 3 50134 FirenzeE-mail: [email protected]

Antonella Gozzini

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20 Seminari di Ematologia Oncologica

zione siano ancora scarsi, è stato altresì neces-sario provvedere alla stesura, seppure provviso-ria, di una sorta di raccomandazioni per valutar-ne la risposta e per identificare soprattutto ipazienti candidabili ad una procedura di trapian-to allogenico (7). Il tentativo è quello di raggiun-gere la sopravvivenza del 100% dei pazienti trat-tati ed una normale qualità di vita. Le definizionidi risposta ematologica, citogenetica e moleco-lare, la valutazione della risposta a Imatinib e leraccomandazioni ELN del 2009 sono riprodottenelle tabelle 1, 2 e 3.

n RISPOSTA CITOGENETICA MAGGIORE: IMATINIB IN PRIMA LINEA

L’IFN è stato il primo farmaco a provocare unamarcata riduzione della percentuale delle cellulePh+ midollari nei pazienti affetti da LMC, e la com-binazione con Ara-C ha dimostrato un incremen-to della percentuale del raggiungimento dellamajor cytogenetic response (MCyR) e un allun-gamento della sopravvivenza rispetto al trattamen-

to con IFN da solo (8); infatti si era appreso nelcorso degli anni che l’ottenimento di una rispo-sta citogenetica correlava con la sopravvivenza.L’avvento ed il successo di Imatinib nel trattamen-to della LMC ha quindi decisamente cambiato l’al-goritmo terapeutico. Lo studio randomizzatoIRIS ha largamente confermato la superiorità diImatinib su IFN+Ara-C nel trattamento di LMC-FC in prima linea. Lo studio IRIS ha arruolato 1106pazienti affetti da LMC-FC di nuova diagnosi (ran-dom 1:1; n=553 in Imatinib 400 mg/d; n=553 inIFN+Ara-C) in un periodo di 6 mesi tra il 2000 eil 2001. Nel protocollo era previsto un cross-overper coloro che dimostravano intolleranza o per-dita di efficacia al trattamento iniziale assegnato,oppure per chi volontariamente voleva interrom-pere il trattamento con IFN e Ara-C in assenza diintolleranza e/o resistenza. Questo grazie ad unemendamento redatto dopo soli 24 mesi dall’ini-zio dello studio dopo aver valutato i preliminariincredibili dati di efficacia nel braccio Imatinib 400mg/d (3-4). Il follow-up a 8 anni mostra una eventfree survival (EFS) del 82% per i pazienti trattaticon Imatinib con un 92% di progression free sur-

TABELLA 1 - Raccomandazioni ELN (European Leukemianet) sul trattamento della Leucemia Mieloide Cronica (LMC) per le diversefasi di malattia (7).

Fase di malattia Raccomandazioni

Fase cronicaPrima lineaTutti i pazienti Imatinib 400 mg/diSeconda lineaIntolleranti a Imatinib Dasatinib o NilotinibSubottimali a Imatinib Continuare Imatinib alla stessa dose; Imatinib a dose incrementata; Dasatinib o NilotinibFallimento a Imatinib Dasatinib o Nilotinib; trapianto allo genico di cellule staminali nei pazienti.

Con storia di fase accelerata o blastica o pazienti che presentano la mutazione T315I.Terza lineaRisposta subottimale Proseguire con TKI di 2G, con opzione trapiantologica per i pazienti con caratteristiche a Dasatinib o Nilotinib di warning (resistenza ematologia a Imatinib pregressa, mutazioni) e in pazienti con uno

score prognostico trapiantologico (EBMT-European Group of Blood and Marrow Transplantation) < o=2

Fallimento a Dasatinib Trapianto allo genico di cellule staminali emopoieticheo NilotinibFase accelerata o blastica Prima linea, pazienti che Trapianto allogenico, preceduto da Imatinib ad alte dosi (600 mg/di o 800 mg/di, sono naive ai TKIs Dasatinib o Nilotinib in caso di mutazioni scarsamente sensibili a ImatinibSeconda linea, pazienti Trapianto allo genico, preceduto da Dasatinib o Nilotinibcon precedente trattamento con Imatinib

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21Leucemia mieloide cronica

TABELLA 2 - Definizioni di risposta ematologia, citogenetica e molecolare per la LMC. Da raccomandazioni European LeukemiaNet-ELN- (7). *Attualmente si definisce una risposta molecolare completa come CMR, ma si preferisce utilizzare il termineRisposta Molecolare (MR) indicando il grado di sensibilità del test utilizzato (104 o più) → MR4 o MR4,5 o MR5. **Attualmente laRisposta Molecolare Maggiore è convenzionalmente definita come MMR. ***Risposta Citogenetica: se non possono esserecontate 20 metafasi midollari, la definizione di CCgR si può basare sulla ibridazione in sito fluorescente su almeno 200 nuclei ininterfase (FISH). Nel testo Cg è convenzionalmente chiamato Cy come nella letteratura.

Tipo di risposta Definizione

EMATOLOGICA Globuli Bianchi <10.000 x 109LDefinizione convenzionale Basofili <5%(d.c.) → CHR No mielociti, promielociti, blasti nella formula leucocitariaRisposta Ematologica Completa Piastrine <450x109/L

Milza non palpabileCITOGENETICA***COMPLETA CCgR (d.c.) → Risposta Citogenetica Completa No Metafasi Philadelphia positive (Ph+)PARZIALE PCgR (d.c.) → Risposta Citogenetica Parziale Da 1% a 35% Metafasi Ph+MINORE mCgR (d.c.) → Risposta Citogenetica Minore Da 36% a 65% Metafasi Ph+MINIMA minCgR (d.c.) → Risposta Citogenetica Minima Da 66% a 95% Metafasi Ph+NESSUNA noCgR (d.c.) → Nessuna Risposta Citogenetica >95% Metafasi Ph+MAGGIORE MCgR (d.c.) → Risposta Citogenetica Maggiore CCgR+PCyRMOLECOLARECOMPLETA CMolR*(d.c) → Risposta Molecolare Completa Trascritto mRNA BCR/ABL non evidenziabile mediante

PCR (Polymerase Chain Reaction) quantitativa (real-time) e/o mediante nested-PCR (PCR qualitativa) in due consecutivi campioni di adeguata qualità (sensibilità >104)

MAGGIORE MMolR** (d.c.)→ Risposta Molecolare Maggiore Rapporto (ratio) di BCR/ABL su ABL (o altri geni controllo) < o =a 0,1% secondo International Scale (IS)

TABELLA 3 - Definizione della valutazione della risposta a Imatinib come trattamento di prima linea nelle fasi croniche precoci diLMC (7).

Valutazione Risposta ottimale Risposta subottimale Fallimento Warningsdel tempoMesi

Baseline NA (non applicabile) NA NA Alto rischio, CCA (clonal chromosomal abnormalities)/Ph+

3 mesi CHR e almeno Nola minor CgR CgR (Ph+>95%) Meno della CHR NA(Ph+<=65%)

6 mesi Almeno la PCgR Meno della PCgR No CgR(Ph+<=35%) (Ph+>35%) (Ph+>95%) NA

12 mesi CCgR18 mesi MolR (MMR) Meno della MMR Meno della CCgR NAIn ogni momento Stabile o Meno della MMR, Perdita della CHR; Incremento del trascrittodurante miglioramento mutazioni ancora perdita della CCgR; (significativo) BCR/ABL; il trattamento della MMR sensibili a Imatinib mutazioni non CCA/Ph-

sensibili a Imatinib, CCA/Ph+

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vival (PFS) (9). Una analisi dei dati a 5 anni hadimostrato come i pazienti che avevano raggiun-to la risposta citogenetica completa (CCyR) a 12mesi dimostravano una minore possibilità di pro-gredire in fase avanzata rispetto ai pazienti chenon l’avevano raggiunta (PFS 97% vs 81%;p<0,001) (4). Dopo 7 anni di follow-up sappiamo anche che il5% dei pazienti trattati con Imatinib interrompe-va il trattamento per eventi avversi, il 15% per per-dita di efficacia e il 20% per altre ragioni. Il 75%dei pazienti che avevano ottenuto una CCyR han-no ad oggi mantenuto la risposta. Da notare chele percentuali annue di perdita di risposta o tra-sformazione in fase avanzata di malattia erano piùalte durante i primi tre anni di trattamento (3,3-7,5%) e diminuivano successivamente (0,3-1,7%-dati a 8 anni) (9).Risultati simili sono riportati dallo studio prospet-tico multicentrico tedesco (German IV) che mostraa 5 anni di osservazione una overall survival (OS)del 94% per i pazienti trattati con Imatinib 400mg/d e una EFS a 2 anni del 80% (10). In una analisi intention to treat (ITT) di 204 pazien-ti con nuova diagnosi di LMC-FC consecutivi trat-tati c/o il centro Hammersmith a Londra, il 77%raggiungeva una CCyR ed il 34% una rispostamolecolare maggiore (MMR) dopo una medianadi follow-up di 38 mesi. A questo timing point soloil 74% dei pazienti rimaneva in trattamento conImatinib e la probabilità di rimanere in risposta cito-genetica parziale (PCyR-0-35% metafasi Ph+) a5 anni era il 63% dei pazienti trattati rispetto al solo25% di coloro che avevano sospeso il farmaco perintolleranza o resistenza (11). In un altro studioinglese che prendeva in considerazione unapopolazione costituita da pazienti affetti da LMC-FC con nuova diagnosi provenienti da 12 centridiversi, risultava che il 49% dei pazienti valutabi-li a 24 mesi era resistente o intollerante, inclusi 6pazienti che erano progrediti in fase blastica, 19che avevano fallito il raggiungimento o manteni-mento di una CCyR e 2 che erano intolleranti (12).Numerosi altri studi condotti al di fuori di settingcontrollati di trials clinici hanno identificato unaquota di resistenti e/o intolleranti a Imatinib piùalta rispetto a quella presentata nello studio IRIS.Le raccomandazioni ELN definiscono risposta otti-male al trattamento di prima linea con Imatinib il

raggiungimento della CCyR a 12 mesi. Sia ELNche NCCN (National Comprehensive CancerNetwork) considerano che i pazienti che non rag-giungono una risposta ematologica (CHR) a 3mesi, una qualsiasi risposta citogenetica a 6 mesi,una PCyR a 12 mesi o una CCyR a 18 mesi dopotrattamento standard con Imatinib 400 mg/d sia-no giudicati fallimenti e come tali dovrebbero avva-lersi di una terapia di seconda linea (5, 7).Il problema del fallimento a Imatinib è quindi piùgrande di quanto ci si potesse aspettare a fron-te di eccezionali dati di sopravvivenza a lungo ter-mine.Usando i criteri ELN quindi circa il 25% delle fasicroniche precoci dovrebbe essere dichiarato fal-limento o subottimale a Imatinib, insieme ad unapiccola quota considerata invece intollerante altrattamento. Siamo di fronte a circa il 30% deipazienti trattati con Imatinib in prima linea can-didati ad una alternativa terapeutica (13).Dal momento che è stata identificata una resisten-za a Imatinib, sono stati rapidamente sviluppatiinibitori di seconda generazione. Uno step inizia-le importante è stato quello di documentare eidentificare mutazioni puntiformi nel dominio chi-nasico come il più comune meccanismo di resi-stenza. Disponiamo quindi di criteri di rispostacondivisi e abbiamo a disposizione efficaci alter-native terapeutiche,tuttavia non abbiamo ancorametodi validati per prevenire la resistenza o stra-tificare i pazienti, per adeguare il trattamento cor-retto ad ogni categoria individuata.

n LA TERAPIA DI SECONDA LINEA

Inizialmente il primo riflessivo approccio ai casiresistenti a Imatinib fu l’incremento della dose delfarmaco. I risultati dello studio Internazionale ran-domizzato 2:1 (Tyrosine Kinase InhibitorOptimization and Selectivity Study (TOPS)) cheprevedeva l’utilizzo di Imatinib ad alte dosi (800mg/d n=319) vs Imatinib dose standard 400 mg/d(n=157) mostrano un raggiungimento di rispostecitogenetiche più rapide per il gruppo trattato conalte dosi (57% vs 45%) sebbene a 12 mesi nonci fosse una differenza significativa tra i due brac-ci di studio (70% vs 66%) (14). A 24 mesi non viera alcuna differenza tra la percentuale cumula-

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tiva di risposte CCyR (75% in entrambi i gruppi),quella di EFS, PFS e soprattutto di OS (15). Dasottolineare che le alte dosi erano meno tollera-te dai pazienti e che le possibili sospensioni e/oriduzioni di dosaggio di Imatinib che ne deriva-vano potevano riflettersi su una minore efficacia.Altri studi sono stati condotti in Germania (16) ein Francia (17) per validare l’efficacia di Imatinibad alte dosi o la combinazione di Imatinib con IFN.Al momento sono disponibili dati che evidenzia-no solo un modesto vantaggio nella percentualedi CCyR per coloro che fanno Imatinib ad alte dosie IFN+Imatinib. Non è invece evidente che talemodesto vantaggio rifletta realmente un benefi-cio in termini di sopravvivenza ma soprattutto sepossa competere con gli inibitori di seconda gene-razione che hanno mostrato dati di assoluta effi-cacia nell’ambito di studi di fase II e III.Dasatinib e Nilotinib sono TKI di seconda gene-razione approvati per pazienti con LMC resisten-te o per pazienti intolleranti a Imatinib (18-20).Come Imatinib Nilotinib si lega alla conformazio-ne inattiva di BCR-ABL ma con affinità maggio-re rispetto al farmaco capostipite per una miglio-re specificità topografica. Da ciò deriva una atti-vità inibitoria di 10-50 volte maggiore rispetto aImatinib con una minore specificità per le altre chi-nasi target tipo il platelet derived growth factorbeta receptor (PDGFR) (21). Dasatinib lega inve-ce le due conformazioni di BCR-ABL, sia attivache inattiva, avendo affinità per multiple chinasied è 325 volte più potente rispetto ad Imatinibnegli studi in vitro (22, 23).Bosutinib, che è un altro TKI, non ancora appro-vato dalle autorità regolatorie, si lega ad una con-formazione di ABL che è transitoria tra la formaattiva e inattiva ed è approssimativamente 25 vol-te più potente rispetto ad Imatinib in vitro (24).Il meccanismo di resistenza a Imatinib megliocaratterizzato sta nella identificazione di muta-zioni puntiformi nella sequenza genica del domi-nio chinasico di ABL. Tale meccanismo è statodocumentato con più di 50 cambi di residui ami-noacidici di BCR-ABL (25). In vitro, sia Dasatinibche Nilotinib sono risultati attivi contro tutte lemutazioni testate BCR-ABL resistenti a Imatinibtranne la T315I. Ogni agente testato ha comun-que una potenza ridotta verso specifiche muta-zioni. Da questo deriva una resistenza clinica

documentata per esempio a Dasatinib, se asso-ciata con mutazione V299, T315 e F315, aNilotinib se associata con mutazioni Y253,E255, T315 e F359 (26-28).Sia dasatinib che nilotinib hanno mostrato un rag-giungimento della CCyR in circa il 50% dei casidi fase cronica resistente a Imatinib.L’attività di Dasatinib sia per la fase cronica, cheaccelerata o blastica di LMC è stata documenta-ta in diversi trials clinici di fase II. Nello studio ran-domizzato START-R veniva comparata l’efficaciain termini di CyR di Dasatinib 70 mg BID vsImatinib alte dosi (800 mg/d). Al minimo follow-updi due anni, la percentuale di MCyR per Dasatinibvs Imatinib era 53% vs 33% (p=0,017) e la CCyRera 44% vs 18% (p=0,025) e la MMR era 29% vs12% (p=0,028). la PFR stimata era migliore perDasatinib rispetto ad Imatinib e la mediana di PFSnon era raggiunta a 30 mesi nel braccio Dasatinib.Il 23% dei pazienti trattati con Dasatinib hannointerrotto il trattamento per eventi avversi legati altrattamento (29).La dimostrazione che un breve trattamento conDasatinib (3-5 ore) mandava le cellule in apopto-si (30) ha portato a modificare la dose raccoman-data da 140 mg a 100 mg al giorno (31).I dati che derivano da uno studio di fase III(CA180034) con follow-up minimo di 24 mesidimostrano che Dasatinib 100 mg una sola vol-ta al giorno induce il raggiungimento di una CCyRcomparabile alla percentuale ottenuta con gli altridosaggi descritti nello studio, (n=670 pazienti infase cronica resistenti, intolleranti o subottimali aImatinib randomizzati a ricevere o Dasatinib 100mg una sola volta al giorno, 50 mg x due volteal giorno, 140 mg x 1 o 70 mg BID) riducendo peròla frequenza degli effetti collaterali. Una PFS di80% a 2 anni e una OS del 91% erano compa-rabili alle percentuali emergenti dagli altri braccidello studio. Inoltre per i pazienti trattati conDasatinib 100 mg/d per 6 mesi senza raggiungi-mento di una CCyR, la possibilità di ottenerla a2 anni era il 50% per chi avesse una PCyR masolo un 8% per chi avesse una CyR minima ominore. Meno del 3% dei pazienti arruolati è pro-gredito in fase avanzata di malattia (32).Un aggiornamento dei dati dello studio 034 diDasatinib 100 mg/d presentato all’ASCO 2011conferma l’efficacia con una PFS di 79% per i

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pazienti che avessero ottenuto una CCyR a 12mesi e di 35% per coloro che non lo avesserofatto.L’attività clinica di Nilotinib per i pazienti resisten-ti e/o intolleranti a Imatinib è molto simile a quel-la vista per Dasatinib. Nello studio ENACT, conun minimo follow-up di due anni, la percentualedi MCyR era 59%, la CCyR 44% e la MMR 28%;la mediana di PFS non era raggiunta a 36 mesimentre il 19% dei pazienti ha sospeso per even-ti avversi (33).Interessanti i dati estrapolati dal gruppo di 1793pazienti resistenti in tutte le fasi di malattia trat-tati con Nilotinib in II linea: i pazienti >65 anni nonmostrano differenze per quanto riguarda l’outco-me e la safety rispetto ai pazienti più giovani (34).

n L’ALGORITMO DECISIONALE: L’IMPORTANZA DELLE RISPOSTE CITOGENETICA E MOLECOLARE

Cosa significa oggi curare una LMC? I punti didibattito oggi sono ovviamente quelli sulla tera-pia front-line e sullo switch precoce rispetto alleraccomandazioni ELN, ma soprattutto se lamaggiore percentuale di CCyR con i nuovi inibi-tori si traduca in un aumento della sopravviven-za a lungo termine. Ad oggi sappiamo che la per-centuale di inadeguatezza di risposta alla terapia

front-line con Imatinib è circa il 30%; il 50% diquesto recupera una CCyR con gli inibitori di IIgenerazione. Per l’altro 50%, che dipende da sele-zione clonale o instabilità genetica causata da Bcr-Abl, si rende necessaria una strategia di III linea,identificata nel trapianto allogenico per chi è ele-gibile o in farmaci sperimentali.Prima di allestire un algoritmo terapeutico, è quin-di fondamentale capire quale deve essere il goaldella terapia per la LMC.L’interferone è stato a lungo usato come terapiastandard per la LMC proprio perché induceva unaremissione citogenetica in un numero significati-vo di pazienti. È stato ampiamente dimostrato chei pazienti che raggiungevano una CCyR aveva-no un aumento significativo della sopravvivenza,con una percentuale del 78% a 10 anni (35).Quindi, l’ottenimento della CCyR era considera-to il goal della terapia per la LMC (Figura 1). ConImatinib il concetto e l’importanza della CCyR siè consolidato ma contemporaneamente è con-siderevolmente evoluta la necessità di monitora-re questi pazienti mediante la risposta molecola-re. Anche questo concetto era nato durante l’erainterferone, in cui era stato osservato che i pazien-ti con bassi valori di malattia residua misurata conla metodica molecolare PCR (polimerase chainreaction) avevano maggiore probabilità di man-tenere la risposta citogenetica ottenuta (36). Ladefinizione di risposta molecolare è anch’essa

PFS

(%)

96%

0 12 24 36 48 60

de Lavallade H, et al. J Clin Oncol 2008; 26: 3358-63.

100

80

60

40

20

0

FIGURA 1 - Confronto dei pazienti affetti daLMC trattati con Imatinib in prima linea cheraggiungono una CCyR a 12 mesi rispetto aipazienti che non la raggiungono: progressionfree survival (PFS) a 60 mesi era 96% vs 74%(P=0,007). La OS a 60 months era 98% vs74% (P=0,03). Cortesemente da BristolMyers Squibb.

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evoluta negli anni. Oggi consideriamo una MMRla diminuzione di 3-log delle cellule leucemicherispetto al valore basale standardizzato. A causadella estrema variabilità numerica derivante dal-la metodica, è stato necessario armonizzare taledato in modo da renderlo riproducibile e confron-tabile. La risposta molecolare viene espressa intermini di un International Scale (IS) che è statoimplementato attraverso risultati standardizzati indiversi laboratori internazionali. Una MMR corri-sponde quindi ad una quota di BCR/ABL rispet-to al gene di controllo ABL pari o minore allo 0,1%(2). La definizione invece di risposta molecolarecompleta (CMR) dipende dalla qualità dei cam-pioni analizzati. Possiamo considerare una CMRuna quota di trascritto non identificabile nell’am-bito di un test con una sensibilità >4,5 log, ma ildibattito per una sua corretta definizione è tutto-ra in corso. Recentemente è stata proposta l’in-troduzione della definizione di risposta moleco-lare (MR, molecular response) seguita dal valoreche indica la sensibilità del test utilizzato.Parleremo quindi di MR4 o MR4,5 o MR5, fino a chenon vi sarà concordanza su una definizione uni-voca di CMR.Mentre il valore clinico del raggiungimento dellaCCyR è indiscusso e viene oggi ritenuto un end-point condiviso dalla comunità scientifica pergarantire un outcome ottimale al paziente in fasecronica trattato con TKIs, il valore prognostico delgrado e del tempo di raggiungimento di una rispo-sta molecolare è ancora oggetto di acceso dibat-tito. La risposta citogenetica è l’unica che con-ferisca vantaggi in termini di sopravvivenza a lun-go termine, infatti una attenta analisi dell’outco-me di pazienti con inadeguata risposta a Imatinibha osservato come, benché alcuni pazienti pos-sano migliorare la risposta continuando Imatinib,coloro che non raggiungono la CCyR a determi-nati time points raccomandati da ELN, hanno laprobabilità di migliorare la risposta quanto quel-la di progredire nelle fasi avanzate di malattia. Suuna casistica di 258 pazienti non in risposta cito-genetica la probabilità di raggiungimento dellaCCyR decresce, mentre aumenta la probabilità diprogredire ad ogni singolo time point di valuta-zione della risposta, 3, 6 e 12 mesi (37). È inte-ressante estrapolare come i pazienti che a 12 mesinon hanno raggiunto una CCyR abbiano un alto

rischio di progressione e come tali possono esse-re degli ottimi candidati ad uno switch terapeu-tico nonostante rientrino nella categoria deipazienti subottimali. A questo proposito un altrostudio descrive il possibile significato dell’appli-cazione dei criteri di risposta subottimale in 281pazienti, trattati con dosaggio standard o con lealte dosi (800 mg/d): l’incidenza di risposta subot-timale a 6, 12, 18 mesi è rispettivamente del 4%,8% e del 40% e non è influenzata dal rischio Sokalalla diagnosi. I pazienti con risposta subottimalea 6 mesi hanno una bassa probabilità di raggiun-gere la CyR se confrontati con quelli in rispostaottimale (30% vs 97%) e l’EFS e il TFS (transfor-mation free survival) sono simili a quelle dei pazien-ti considerati in fallimento allo stesso time point.La risposta subottimale a 12 mesi identifica dun-que un gruppo di pazienti con una TFS simile aipazienti con risposta ottimale ma con una peg-gior EFS. Coloro invece che mostrano una rispo-sta subottimale a 18 mesi hanno un outcome simi-le a quelli in risposta ottimale (38). L’esperienzadel GIMEMA su una casistica di 423 pazientiosservati con una mediana di follow up di 41 mesi,identifica a 12 mesi 31 pazienti subottimali conuna peggiore FFS (failure free survival) rispetto algruppo (n=323) degli ottimali (68% vs 94%) eduna minore probabilità di raggiungere la MMR(68% vs 96%). (39). Questi risultati suggerisco-no che la categoria dei pazienti subottimali è estre-mamente eterogenea e che, verosimilmente, giài pazienti in risposta subottimale a 6 mesi potreb-bero diventare dei candidati ad un intervento tera-peutico precoce.Resta da capire se l’ottenimento di una MMRmigliori l’outcome a lungo termine dei pazienti chesono in CCyR. Ci sono alcuni studi che mostra-no come l’ottenimento di una MMR sia associa-to ad una migliore PFS (40), ma il ruolo della MMRsulla OS è assai controverso.Varie pubblicazioni attribuiscono un valore progno-stico della MMR. Sono riportati dati in cui il falli-mento dell’ottenimento di una profondità dirisposta molecolare identificata come la riduzio-ne di 2-log al momento del primo raggiungimen-to della CCyR era un fattore indipendente predit-tivo di una successiva PFS (41). Seguendo ipazienti arruolati nello studio IRIS, il gruppo austra-liano nel 2007 ha mostrato come la probabilità di

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raggiungere una risposta molecolare completa(CMR) sia significativamente più elevata (72%) peri pazienti che avevano ottenuto una MMR a 12mesi rispetto al solo 5% di coloro che non l’ave-vano ottenuta (42). Non tutti gli studi sono d’ac-cordo che il raggiungimento della MMR contribui-sca a migliorare l’outcome dei pazienti in termi-ni di PFS. Uno studio retrospettivo, analizzando244 pazienti e applicando i criteri ELN del 2006,non ha confermato il ruolo di MMR a 12 o 18 mesicome indicatore prognostico favorevole per la PFSa 5 anni. In questa esperienza del gruppo ingle-se al Hammersmith di Londra i pazienti in CCyRche fallivano l’ottenimento di MMR a 12 o 18 mesierano più esposti alla perdita della CCyR rispet-to a coloro che invece raggiungevano al MMR(43). È stato esplorato anche il vantaggio, in ter-mini di durata della CCyR, PFS, di avere una rispo-sta molecolare stabile rispetto al non averla (44)nonostante non sia stato rilevato un impatto pro-gnostico sulla OS.L’ottenimento di una MMR porta ad una duratapiù lunga di CCyR e ad una percentuale più altadi PFS ed EFS specialmente se questa rispostaè stabile nel tempo. Una risposta subottimalemolecolare è invece associata ad un rischioaumentato di sviluppare mutazioni e a perdita del-la risposta ottenuta. Un attento monitoraggiomolecolare può permettere un precoce riconosci-mento di resistenza acquisita e anche di capirese vi è una corretta aderenza al trattamento (45).Molte controversie rimangono nell’ambito delladefinizione della CMR, intesa come end point perla cura della LMC.

n L’ALGORITMO TERAPEUTICO NELLA LMC

L’ottimizzazione della terapia di prima lineaL’eccellente attività clinica e l’ottimo profilo di tol-lerabilità dimostrato da entrambi gli inibitori diseconda generazione (Dasatinib e Nilotinib), hareso questi farmaci i perfetti candidati per la tera-pia di prima linea nei pazienti con nuova diagno-si di LMC in FC. Tre protocolli clinici di fase II han-no esplorato l’efficacia di Nilotinib o Dasatinib inprima linea, riportando entusiasmanti risultati diottenimento di rapide risposte citogenetiche e

molecolari con oltre il 90% dei pazienti trattati inCCyR a 6 mesi di osservazione (46-48). Per con-fermare questi risultati preliminari sono statiquindi disegnati trials clinici randomizzati di faseIII per confrontare l’efficacia di Imatinib conNilotinib, Dasatinib e bosutinib nei pazienti affet-ti da LMC-FC di nuova diagnosi. Nello studioENESTnd (Evaluating Nilotinib Efficacy and Safetyin Clinical Trials - newly diagnosed patients) sonostati randomizzati 846 pazienti stratificati secon-do rischio Sokal per ricevere trattamento conNilotinib 300 o 400 mg BID o Imatinib 400 mg/duna volta al giorno (49). I dati a 12 mesi hannoevidenziato una più alta percentuale di MMR (end-point primario), 44% vs 43% vs 22% (p<0,001)con un vantaggio in termini di CCyR e MMR peri pazienti ad alto rischio Sokal trattati conNilotinib. Una CMR (percentuale di riduzione deltrascritto <0,0032% cioè 4,5 log dallo standardbasale-convenzionalmente dallo studio IRIS) a 24mesi era quantificata nel 25% e 19% per Nilotiniballe diverse dosi e 9% per Imatinib. Anche le pro-gressioni di malattia in fase accelerata o blasticasono state significativamente minori nei bracciNilotinib rispetto a Imatinib (0,7; 1,1 e 4,2%). Afronte di una sovrapponibile tossicità ematologi-ca, diversi quadri di eventi avversi extraematolo-gici sono stati documentati per i pazienti trattaticon Nilotinib (i più comuni, sebbene di grado 1-2, sono dermatologici e neurologici con cefalea)con incremento di anomalie biochimiche labora-toristiche (incremento transaminasi, amilasi e lipa-si). In uno studio di fase II del gruppo italianoGIMEMA CML Working Party, 73 pazienti connuova diagnosi di LMC-FC sono stati trattati conNilotinib 400 mg BID front-line con ottenimentodi CCyR a 3 mesi nel 78% e a 12 mesi nel 96%,con una MMR del 52% a 3 mesi e del 85% a 12mesi di trattamento (48). Nel dasision trial (Dasatinib versus Imatinib studyin treatment-naive CML), 519 pazienti stratificatisecondo rischio Hasford sono stati randomizza-ti 1:1 per ricevere Dasatinib 100 mg/d vs Imatinib400 mg/d. Una efficacia superiore è stata riscon-trata nel gruppo di pazienti trattati con Dasatinib,valutata in termini di raggiungimento di CCyR(77% vs 66%), confermata in due determinazio-ni consecutive a distanza di 30 gg (end point pri-mario dello studio) (50). Più del 50% (54%) ave-

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va raggiunto la CCyR a 3 mesi in confronto al 31%dei pazienti trattati con Imatinib. A 12 mesi la per-centuale di CCyR era del 83% nel braccioDasatinib vs il 72% nel braccio Imatinib con unsimile vantaggio in termini di raggiungimento diMMR (46% vs 28%). A 24 mesi il 17% dei pazien-ti trattati con Dasatinib aveva raggiunto la CMR(<0.0032% rispetto al trascritto basale, conven-zionalmente dallo studio IRIS) rispetto al 8% deipazienti in trattamento con Imatinib. La progres-sione verso la fase accelerata o blastica era quan-tificata nel 2,3% dei pazienti nel braccio Dasatinibrispetto al 5% dei pazienti nel braccio Imatinib.Per quanto riguarda la tossicità ematologica vie-ne riportata una maggiore incidenza di trombo-citopenia per i pazienti trattati con Dasatinib, afronte di una minore incidenza di eventi avversiextraematologici, fatta eccezione per l’insorgen-za di versamento pleurico; tale evento si riscon-tra nel solo braccio di trattamento Dasatinib, com-plessivamente nel 14% con un <1% di grado 3,senza alcun impatto sfavorevole sulla risposta a24 mesi (95% di CCyR e 68% di MMR nei pazien-ti con versamento pleurico) (51).Altri studi spontanei hanno confermato la supe-riorità di Nilotinib e Dasatinib in prima linea rispet-to a Imatinib in casistiche di pazienti sovrappo-nibili agli studi descritti.Si delinea a questo punto l’importanza di un fol-low-up più lungo per definire l’impatto degli ini-bitori di seconda generazione sulla OS.Questi eccellenti risultati sull’utilizzo degli inibito-

ri di seconda generazione in prima linea apriran-no dunque nuove vie di approccio sulla terapiafront-line (Tabella 4).Da una parte abbiamo brillanti risultati conImatinib, con un follow-up a 8 anni che confer-ma la durata della risposta ed un buon profilo ditollerabilità, senza significativi eventi avversi a lun-go termine.Dall’altra parte abbiamo documentato in questianni come un terzo dei pazienti trattati conImatinib in prima linea non raggiunga una rispo-sta adeguata per garantire un outcome ottimalea lungo termine. Sappiamo anche che gli inibito-ri di seconda generazione recuperano, in terminidi CCyR quasi il 50% dei pazienti resistenti aImatinib, e quindi possiamo aspettarci che qua-si il 90% dei pazienti affetti da LMC-FC trattati conterapia sequenziale di TKI possa trovarsi di fattosopravvivente in CCyR. I prossimi anni sarannodedicati a capire se l’utilizzo dei TKI di secondagenerazione in prima linea possa migliorare que-sto dato e se la velocità del raggiungimento del-la risposta possa influire sulla sopravvivenza a lun-go termine. Sarà importante capire anche se lastratificazione dei pazienti secondo il rischio pos-sa rappresentare un criterio per l’uso differenzia-to dei TKI o se possono essere validati fattori pro-gnostici biologici nello stesso ambito.In questo momento, la raccomandazione per laterapia di prima linea per i pazienti di nuova dia-gnosi affetti da LMC-FC rimane Imatinib 400mg/d, nonostante anche i nuovi inibitori abbiano

TABELLA 4 - Riassunto dei risultati a 12 mesi con i vari tirosin chinasi inibitori (TKIs) usati in prima linea di trattamento nei diversistudi randomizzati menzionati nell’articolo. Le definizioni e le metodologie per i differenti end-points variano da studio a studio.Questa tabella è solo un riassunto dei dati presentati e non un confronto tra i vari studi (71).

Outcome IRIS Imatinib Imatinib GIMEMA Dasatinib Imatinib Nilotinib Nilotinib Imatinibai primi Imatinib 400 mg 800 mg Nilotinib 100 mg 400 mg 300 mg 400 mg 400 mg12 mesi 400 mg (TOPS) (TOPS) 800 mg (DASISION) (DASISION) Due volte due volte (ENESTnd)di terapia N=553 N=157 N=319 BID N=73 N=259 N=260 al giorno al giorno

ENESTnd) (ENESTnd)N=282 N=281 N=283

CCgR 65 66 70 96 83 72 80 78 65(o CyR)MMR 39 40 46 85 46 28 55 51 27Eventi 3,3 2,5 1,9 NR NR NR 2,1 0,3 4,6Trasforma- 1,5 1,9 0,9 NR 1,9 3,5 0,7 0,3 3,8zione

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ottenuto l’indicazione terapeutica per questa fasedi malattia. La raccomandazione corrente è di proseguire laterapia continuativamente senza interruzione neipazienti in risposta ottimale secondo ELN. Ipazienti in risposta ottimale sono considerati colo-ro che raggiungono la CHR a 3 mesi, almeno unaminima risposta Citogenetica a 3 mesi, almenouna PCyR a 6 mesi, una CCyR a 12 mesi ed unaMMR a 18 mesi, mantenuta stabile nel tempo.

Se Imatinib fallisce: quando cambiareterapia e comePer i pazienti che sono resistenti o intolleranti aImatinib, sia Nilotinib che Dasatinib, come abbia-mo precedentemente descritto nel paragrafodedicato alla seconda linea, sono stati approva-ti dalle autorità regolatorie e altri farmaci sono instudio. L’indicazione indiscussa al cambio dellaterapia è riservata ai pazienti che sono ritenutiresistenti secondo i criteri definiti da ELN (veditabella 3).I pazienti resistenti sono considerati coloro chenon raggiungono una CHR a 3 mesi, oppure unaminima risposta citogenetica a 6 mesi, oppure unaPCyR a 12 mesi o una CCyR a 18 mesi.In questi casi è importante cambiare la strategiaterapeutica appena il criterio di fallimento è sta-to riconosciuto, in quanto è stato osservato comei pazienti ritenuti resistenti per criteri citogeneticirispondano meglio al trattamento di seconda lineapiuttosto che i pazienti che abbiano perso anchela risposta ematologica (52). Per i pazienti subottimali, che sono rappresen-tati da coloro che non hanno ottenuto la rispo-sta citogenetica minima a 3 mesi, meno dellaPCyR a 6 mesi, la PCyR a 12 mesi, meno dellaMMR a 18 mesi, oppure hanno una perdita del-la MMR in qualsiasi momento, o mostrano unarisposta MMR non stabile, o presentano la com-parsa di mutazioni pur mantenendo la rispostacitogenetica, non esistono raccomandazioni rigi-de per la gestione del trattamento. In accordo aELN, per i pazienti subottimali le indicazioni sonoil proseguimento della terapia in atto, sebbenenon siano garantiti benefici a breve termine, l’in-cremento delle dosi di Imatinib, oppure lo switcha TKI di seconda generazione. Sappiamo che ipazienti in risposta subottimale hanno comunque

un outcome a lungo termine peggiore dei pazien-ti in risposta ottimale. La categoria di questipazienti è estremamente eterogenea, infatti dal-l’algoritmo decisionale presentato in questo arti-colo sappiamo quanto diverso sia l’impatto di unarisposta subottimale citogenetica rispetto ad unarisposta subottimale molecolare. Una rispostasubottimale citogenetica a 6 mesi ha un impat-to diverso sull’outcome a lungo termine rispet-to ad una risposta subottimale a 18 mesi (37, 38).A questo proposito abbiamo già analizzatocome la probabilità di raggiungimento della CCyRdecresce per i pazienti che non hanno raggiun-to una risposta citogenetica, mentre aumenta laprobabilità di sviluppare una progressione dimalattia. Tale fenomeno è presente ad ogni sin-golo time point di valutazione della risposta, 3,6 e 12 mesi, diventando estremamente signifi-cativo a 6 e 12 mesi. È quindi ragionevole, con la disponibilità dei datidei diversi TKI in nostro possesso, considerareuno switch precoce come un intervento terapeu-tico volto a incrementare il raggiungimento del-la CCyR e quindi mirato a migliorare l’outcomea lungo termine per la maggior parte dei pazien-ti trattati.Le raccomandazioni ELN non danno inoltre indi-cazioni precise per quanto riguarda il pazienteintollerante.Un paziente viene definito intollerante quando pre-senta uno o più effetti collaterali durante un trat-tamento, che possono essere ematologici oextraematologici e quantificati secondo la scalaCTC che misura il grado di tossicità (CTCAE-Common Terminology Criteria for Adverse Events-grading scale 1-2-3-4). La ricorrenza di un even-to avverso di grado 2 o la comparsa di un even-to avverso di grado 3 raccomanda la sospensio-ne temporanea del farmaco fino a ripristino del-le condizioni basali. La dose di farmaco può esse-re allora reintrodotta intera o ridotta a seconda deicasi e del giudizio del clinico, eventualmente ripri-stinata come quella iniziale se è stata reintrodot-ta ridotta, qualora non si verifichi la ricomparsadell’evento avverso. Un evento avverso di grado4 raccomanda invece la interruzione del farma-co e lo switch ad un diverso TKI. Nel caso di ricor-renza di evento avverso di grado 2 o di compar-sa di evento avverso di grado 3 la scelta può esse-

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re quella di cambiare inibitore, senza necessaria-mente tentare con la reintroduzione dello stessofarmaco alla medesima dose iniziale o ridotta. Nonci sono comunque chiare indicazioni per questifenomeni descritti.Una volta che l’indicazione del cambio di tratta-mento è stata stabilita, sia per resistenza cheintolleranza, è importante scegliere quale farma-co utilizzare. La presenza di mutazioni può gui-dare nella scelta, perché sappiamo che alcuniagenti hanno maggiore sensibilità ad alcunemutazioni rispetto ad altri (18, 53). Per esempio,per i pazienti che presentano la mutazione F317L,Nilotinib rappresenta una migliore scelta rispet-to a Dasatinib mentre quest’ultimo è preferibilenel caso di riscontro di mutazione F359V oY253H/F. La presenza di mutazioni incide solo sul50-60% dei casi di resistenza, quindi in tutti glialtri casi la scelta del TKI da utilizzare si basa sulprofilo di tossicità, sulla presenza di comorbidi-tà del paziente da trattare e sulla esperienza delclinico. Per fare un esempio i pazienti con affe-zioni polmonari e maggiormente a rischio di svi-luppare versamento pleurico potrebbe essere pre-feribile Nilotinib, mentre per i pazienti con una sto-ria di pancreatite potrebbero essere invece trat-tati con Dasatinib. Nella maggior parte dei casiè la familiarità di un farmaco piuttosto che un altroapplicata alla anamnesi del paziente che guidala scelta del clinico.

Quando interrompere il trattamentoTra gli argomenti più dibattuti in questi ultimi mesinel mondo della LMC c’è la possibilità dellasospensione del trattamento che si accompagnaal concetto di cura della malattia. L’ottenimentodel raggiungimento della CMR quindi diventa ilgoal per programmare una sospensione dellaterapia. Risultati preliminari in questo ambito deri-vano dallo studio STIM (Stop Imatinib), che havalutato l’interruzione di Imatinib in 69 pazientiin risposta molecolare completa stabile da dueanni. I dati mostrano una ricaduta molecolare nel59% dei pazienti (54). La ricaduta, solo moleco-lare, avveniva entro il settimo mese dalla sospen-sione e rispondeva comunque sempre alla rein-troduzione di Imatinib. Da un analogo studio fran-cese del 2007 emerge che il precedente tratta-mento con IFN contribuiva al mantenimento del-

la risposta molecolare completa anche dopo lasospensione di Imatinib, cosi come una più lun-ga esposizione del farmaco negli anni (55).Sebbene i dati sull’argomento siano ancora pochie sia necessario un follow-up più lungo che li con-fermi, approssimativamente il 40% dei pazientinon ricade se sospende Imatinib in CMR. Saràimportante capire quali caratteristiche contribui-scono a mantenere la risposta e soprattutto qua-li possono essere gli approcci per evitare la rica-duta. Quindi, il goal del futuro potrebbe esserequello di sospendere la terapia per la maggiorparte dei pazienti. Per questo, il primo approc-cio è quello di incrementare le risposte CMR, siacon l’utilizzo dei TKI di seconda generazione inprima linea sia con terapie immunomodulanti (56).Il secondo approccio sarà quello di sviluppareapprocci terapeutici che garantiscano un man-tenimento della risposta prevenendo la ricadutamolecolare. Esistono in questo senso studi in cor-so che esplorano l’utilizzo di IFN nel mantenimen-to oppure inibitori di vie implicate nella traduzio-ne del segnale delle cellule leucemiche.Al momento la raccomandazione comunque èquella di proseguire il farmaco continuativamen-te e le sospensioni devono avvenire solo all’inter-no di studi clinici controllati e assolutamentedisposti dal clinico.La gravidanza. Per il particolare periodo della gra-vidanza esistono raccomandazioni sulla sospen-sione temporanea dei TKI. I dati in nostro pos-sesso riguardano fondamentalmente Imatinib dicui abbiamo una maggiore esperienza. Tra le rac-comandazioni emergenti dal panel di ELN nonsembra che vi siano controindicazioni per ilmaschio affetto da LMC in trattamento per la pro-creazione. Per la donna affetta, il consiglio è quel-lo di pianificare una gravidanza mediante unasospensione temporanea di almeno 7-10 gg pri-ma della fecondazione presunta e di mantenerela sospensione nel caso di gestazione. Questainterruzione deve essere mantenuta fino al par-to, ed è sconsigliato l’allattamento al seno. È rac-comandato programmare lo stato di gravidanzaper donne affette che siano in MMR o CMR sta-bile da almeno 24 mesi, e di monitorare stretta-mente (mensilmente possibilmente), la rispostamolecolare nel periodo della gestazione. Nel casodi ricaduta citogenetica o di ricaduta ematologi-

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ca è consigliato utilizzare IFN dal secondo seme-stre (57).

La resistenza agli inibitori di secondagenerazioneI pazienti che falliscono il trattamento con gli ini-bitori di seconda generazione hanno delle opzio-ni limitate. Quando la ragione del fallimento è l’in-tolleranza, le alternative sono comunque miglio-ri rispetto alla presenza di resistenza. Approssimativamente il 25% dei pazienti resisten-ti a due TKI possono usufruire di trattamenti alter-nativi e raggiungere una MCyR con una duratalimitata di 20 mesi (58). Questi sono pazienti can-didati al trapianto allogenico, se sono elegibili allaprocedura per età, disponibilità del donatore,comorbidità.Nell’era TKI il trapianto allogenico è delegatocome terapia di salvataggio anche se, a frontedi una considerevole potenziale tossicità, èindubbiamente la cura della LMC. Dati riportatida diversi gruppi di lavoro mostrano una percen-tuale di sopravvivenza >85% (59-61), sebbenesi tratti di categorie selezionate di pazienti. Il suc-cesso terapeutico declina enormemente quan-do si tratta di fasi avanzate di malattia. Questosottolinea l’importanza di procedere al trapiantoprima che avvenga la progressione. Recentemente sono stati analizzati score progno-stici in cui la combinazione della eventuale neu-tropenia nel corso di trattamento con Imatinib,la risposta a Imatinib e il rischio Sokal alla dia-gnosi genera uno score in grado di identificare ipazienti che risponderanno, in termini di raggiun-gimento della CCyR, agli inibitori di II generazio-ne (62). Questa identificazione potrebbe antici-pare una eventuale ricerca di donatore da regi-stro o programmare un trapianto nel caso didonatore familiare compatibile disponibile. L’uso di un terzo TKI disponibile potrebbe esse-re destinato ai pazienti che non possono usufrui-re dell’opzione trapiantologia, oppure potrebbeessere utilizzato come bridge per arrivare al tra-pianto nelle fasi più avanzate. I pazienti che sviluppano la mutazione T315I han-no una prognosi assai sfavorevole per la man-canza di un trattamento adeguato, e come talisono candidati al trapianto allogenico, sebbenequesta procedura sia destinata ad un basso

numero di pazienti (15%). Sono molti i nuoviagenti che sono in sviluppo per questi pazienti(63-65), alcuni di essi fanno già parte dello sce-nario terapeutico delle LMC e nel prossimo futu-ro entreranno a far parte dell’algoritmo terapeu-tico. Uno di questi è il ponatinib che ha dimo-strato efficacia nell’indurre CCyR in pazienti cheavevano sviluppato la mutazione T315I. Altri far-maci, come gli inibitori di Smo, sono in sperimen-tazione ma i risultati di fase I sono assolutamen-te entusiasmanti.

L’importanza della compliance nella terapiacontinuativaL’importanza della aderenza alla terapia in un trat-tamento continuativo è la base per il percorso diraggiungimento della risposta terapeutica.I risultati a lungo termine dipendono fondamen-talmente dalla compliance del paziente, e il pro-blema, della aderenza è tipico nelle malattie cro-niche. Il sospetto che vi potesse essere un pro-blema un non corretto comportamento di assun-zione della terapia, è insorto con l’osservazionedi comparsa di eventi dopo il 7° anno di follow-up di IRIS. La misurazione della concentrazioneplasmatica di farmaco ha dato in questi anni risul-tati contrastanti, tali da non poter attribuire un cut-off chiaro secondo il quale identificare un pazien-te in dosaggio adeguato o meno.Recentemente nell’ambito della compliance sonostati effettuati almeno due studi in Europa in cuiè emerso che tra i maggiori predittori della nonaderenza sono descritti: comorbidità del pazien-te, effetti collaterali provocati dal farmaco e com-plessità della dose da assumere (66). In questostudio belga, mediante l’analisi di questionari, sidimostra, in un campione di 84 pazienti, che soloil 14% assume correttamente la dose prescrittae un terzo dei pazienti non è aderente.In un altro studio condotto dal gruppo inglese vie-ne adoperato un meccanismo elettronico che,mediante la registrazione dell’apertura della sca-tola del farmaco, misurava il numero di assunzio-ni giornaliere. In questa analisi viene dimostratoche, su un campione di 90 pazienti consecutiviaffetti da LMC-FC osservati per 90 giorni la com-pliancemediana era del 97,6% con un rangemol-to variabile da 22,6% a 103,8%. La cosa piùimportante che emerge da questo studio è che

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la compliance era strettamente correlata con il rag-giungimento della MMR (4 log di riduzione) o laCMR. Non era riportato il raggiungimento dellaCMR per i pazienti con una aderenza <90% e del-la MMR per chi assumeva <80% della dose pre-scritta. Incrementi di trascritto bcr/abl erano cor-relati con una scarsa aderenza (Marin JCO). Ilrischio di perdere la risposta citogenetica in segui-to al non raggiungimento o perdita della MMRpotrebbe riflettersi su un peggioramento della PFS(67). Nell’ambito della qualità di vita dei pazientiaffetti da LMC, che potrebbe riflettersi sulla com-pliance, l’obiettivo di uno studio italiano recente-mente pubblicato era quello di valutare la quali-tà di vita di pazienti affetti da LMC in terapia conImatinib da lungo tempo, per confrontarla con laqualità di vita di soggetti sani. Sono stati analiz-zati dati derivati da 448 pazienti con età media-na di 57 anni e in trattamento con Imatinib da unamediana di 5 anni. Le maggiori differenze in ter-mini di peggiore qualità di vita a causa di impli-cazioni fisiche e psicologiche sono state identi-ficate nel gruppo di pazienti più giovani e nelledonne. L’astenia era il sintomo più frequentemen-te riportato dai pazienti intervistati. I pazienti piùanziani (>60 anni) mostravano un profilo di qua-lità di vita sovrapponibile alla popolazione norma-le di confronto (68). Tra gli aspetti futuri della gestione della LMC c’èquindi anche, oltre alla attenta gestione degli effet-ti collaterali che derivano dalla terapia continua-tiva, la corretta informazione sui rischi che unaaderenza non corretta possa comportare e lo svi-luppo di presidi che possano migliorarla.

n CONCLUSIONI

La LMC rappresenta un prototipo per lo svilup-po di terapie intelligenti. Dopo oltre 40 anni dal-la identificazione del modello patogenetico sonostate sviluppate terapie sempre più specifiche edefficaci. Imatinib ha trasformato l’algoritmo tera-peutico ed ha drammaticamente cambiato la sto-ria naturale della malattia.Nonostante la maggior parte dei pazienti affettida LMC-FC rispondano in modo ottimale al trat-tamento con Imatinib, e non sia stata dimostra-ta una influenza sulla risposta relativamente alla

età dei soggetti trattati, approssimativamente unterzo dei pazienti sviluppa una resistenza o unaintolleranza al farmaco. È dimostrato che ipazienti che ritardano il raggiungimento di unarisposta citogenetica completa hanno un maggiorrischio di progressione di malattia. Con la dispo-nibilità e l’esperienza dei nuovi TKI abbiamo lapossibilità di ridurre questo rischio di progressio-ne adottando strategie terapeutiche diverse neicasi subottimali o nei late responders proponen-do uno switch terapeutico secondo l’esperienzache gli studi clinici ci hanno fornito e secondo leraccomandazioni ELN. È verosimile che una vigorosa soppressione dibcr/abl all’esordio della malattia mediante gli ini-bitori di seconda generazione sia più efficace nelridurre la instabilità genetica che poi conduce allaprogressione. Un follow-up più lungo è necessa-rio per validare l’impatto di questa efficacia sullasopravvivenza globale. Da un altro punto di vista,sappiamo che ci sarà sempre una quota consi-stente di pazienti che sviluppano la malattia anniprima che questa sia diagnosticata e, per questi,il danno genetico si sia già instaurato. Anche le implicazioni economiche che questi far-maci hanno, in considerazione di una aumenta-ta prevalenza di casi, avranno il loro ruolo nel futu-ro scientifico di questa malattia. Nonostante il 50%dei nuovi casi abbia più di 60 anni, è stato ampia-mente dimostrato che non vi è differenza di rispo-sta a TKI e/o di tollerabilità rispetto alla popola-zione adulta <60 anni (69, 70). L’età quindi non èun parametro che può incidere sulla risposta, néal momento un dato che possa delineare tratta-menti di prima linea diversi.Per i pazienti che falliscono la terapia di secon-da linea e per quelli di nuova diagnosi che falli-scono la terapia front-line con i TKI di II genera-zione, possiamo dunque offrire il trapianto allo-genico come trattamento alternativo, o farmacisperimentali per chi non è eleggibile per la pro-cedura.In ultima ipotesi, in una terapia continuativa di cuila LMC è un modello senza precedenti, per unacura della malattia dobbiamo identificare elemen-ti prognostici che permettano la previsione dellarisposta sia nelle nuove diagnosi che nei pazien-ti resistenti affinché possa essere intrapresa unaterapia adeguata per la totalità dei pazienti.

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Oltre a identificare criteri di risposta e di resisten-za, l’importanza della aderenza alla terapia, dob-biamo anche stabilire se una risposta molecola-re completa (condivisa nella sua definizione) pos-sa eventualmente rappresentare un utile end pointper la LMC e possa individuare i pazienti chepotrebbero giovarsi della sospensione del farma-co. I prossimi anni quindi promettono di esserevolti allo studio di questi parametri, alimentati dal-l’entusiasmo di dati sempre più incoraggianti.

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34 Seminari di Ematologia Oncologica

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37

n INTRODUZIONE

Sebbene negli ultimi anni siano sempre più chia-ramente emerse la eterogeneità clinica e la com-plessità biologica delle sindromi mielodisplastiche(SMD), circa i tre quarti di queste patologie sonocostituiti, alla diagnosi, da pazienti a rischio pro-gnostico IPSS (International Prognostic ScoringSystem) (1) o WPSS (WHO-based PrognosticScoring system) (2) basso o intermedio. Pertanto,con la sola eccezione dei pochi soggetti per i qua-li vi è indicazione a un trapianto allogenico di cel-lule staminali emopoietiche (ad oggi l’unica pro-cedura terapeutica potenzialmente curativa), tut-ti questi pazienti, se sintomatici, possono esse-re considerati candidabili, in aggiunta alla even-tuale terapia di supporto trasfusionale, a forme ditrattamento continuativo. D’altra parte, un’impor-tante quota di pazienti ad alto rischio, principal-mente per motivi di età o di comorbidità conco-mitanti, non è in grado di sostenere trattamentichemioterapici intensivi o trapiantologici; anchequesti pazienti, dunque, possono evidenziare, nel-la maggior parte dei casi, la necessità di un trat-

tamento cronico. A tale proposito, è interessan-te notare come il concetto di preleucemia, inte-so in passato come sinonimo di SMD, sia statonel tempo gradualmente ridimensionato, allaluce del fatto che la maggior parte di questipazienti, spesso anziani, è maggiormente predi-sposta alle complicanze dell’insufficienza midol-lare e delle citopenie periferiche, piuttosto cheall’evoluzione leucemica; proprio la correzione del-le citopenie, dunque, rappresenta spesso il prin-cipale target della terapia. In questo contesto, leterapie continuative, soprattutto in considerazio-ne di alcuni trattamenti innovativi resisi disponi-bili nel corso degli ultimi anni, costituiscono oggiun fondamentale elemento per la cura delle mag-gior parte delle SMD; esse hanno altresì introdot-to, come vedremo, alcuni aspetti di assoluta novi-tà rispetto a paradigmi terapeutici consolidati. In questa sede verranno descritte le caratteristi-che più interessanti relative all’uso di terapie con-tinuative in pazienti mielodisplastici, con partico-lare riferimento ai fattori di crescita, agli agentiimmunomodulanti e ai farmaci ipometilanti, tenen-do conto che alcuni dei farmaci descritti e talu-ne specifiche indicazioni non hanno tuttavia anco-ra ottenuto l’approvazione da parte dell’AgenziaEuropea del Farmaco (EMA).

n FATTORI DI CRESCITA

Eritropoietine e altri agenti stimolantil’eritropoiesiL’eritropoietina (EPO) costituisce il più importan-te fattore di regolazione dell’eritropoiesi. Attraverso

Sindromi Sindromi melodisplastichemelodisplastichePELLEGRINO MUSTODipartimento Onco-Ematologico e Direzione Scientifica, IRCCS “Centro di Riferimento Oncologico della Basilicata”, Rionero in Vulture (Pz)

Parole chiave: sindromi mielodisplastiche, eritropoie-tina, lenalidomide, azacitidina, decitabina.

Indirizzo per la corrispondenza

Pellegrino MustoU.O.C. di Ematologia e Trapianto di Cellule Staminali EmopoieticheIRCCS, Centro di Riferimento Oncologico della BasilicataVia Padre Pio, 1 - 85028 Rionero in Vulture (PZ)E-mail: [email protected]

Pellegrino Musto

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38 Seminari di Ematologia Oncologica

la modulazione dell’attività proliferativa e dei pro-cessi di apoptosi cellulare, questa molecola rap-presenta, sostanzialmente, un fondamentale fat-tore di sopravvivenza dei progenitori eritroidimidollari. L’efficacia della EPO umana ricombinan-te (r-Hu EPO) o di altri erythropoiesis stimulatingagents (ESA), come la darbopoetina (DPO), bendimostrata in condizioni anemiche costante-mente caratterizzate da un deficit produttivo diEPO endogena (come l’insufficienza renale e lacosiddetta anemia da malattia cronica), sembraavere basi fisiopatologiche diverse nelle SMD,dove risulta minoritaria la quota di pazienti che evi-denzia livelli circolanti di EPO inadeguati al gra-do di anemia. In particolare, l’effetto degli ESA nel-le SMD si realizzerebbe attraverso un’azione di sti-molo sull’eritropoiesi normale residua non clona-le e di inibizione sui processi apoptotici intrami-dollari che caratterizzano, soprattutto nelle fasi ini-ziali di malattia e nei pazienti a basso rischio,l’emopoiesi displastica, con conseguente riduzio-ne dell’eritropoiesi inefficace (3). I dati iniziali di efficacia sull’utilizzo di ESA nelleSMD sono stati recentemente valutati in una meta-nalisi (4) che ha considerato 59 studi clinici; cin-que trials erano studi controllati, randomizzati ver-so terapia di supporto, 1.936 i pazienti con SMDglobalmente analizzati. Negli studi comparativi larisposta eritroide ad ESA era pari al 27%, con unsignificativo vantaggio nei confronti dei controlli.La percentuale di risposte risultava più elevata (32-48%) negli studi non controllati. Un trattamentoprolungato, la supplementazione di ferro e ridot-ti livelli di EPO endogena si associavano ad unapiù elevata probabilità di risposta. Una seconda e più recente metanalisi (5) ha valu-tato i risultati ottenuti in 30 studi, per un totale dioltre 1.300 pazienti, riportando una percentualeglobale di risposta eritroide pari al 57% negli stu-di di comparazione con terapia di supporto e del59% in quelli di fase 2, non comparativi. In que-sta analisi venivano valorizzati come parametripredittivi di risposta livelli basali di EPO sierica infe-riori a 500 miu/ml ed una diagnosi di anemia refrat-taria, con o senza sideroblasti, ma senza ecces-so di blasti. In particolare, l’utilizzo di dosi fisse epiù elevate (60-80.000 U/settimana per r-Hu EPOalfa, 300 mcg/settimana per DPO) evidenziava unrate di risposte significativamente più elevato

rispetto alle dosi standard (r-Hu EPO alfa 30-40.000 U/settimana, DPO 100-150 mcg/settima-na) (63-71% vs 48-53%, p<0,001). Ancor più recentemente, alcuni ampi studi retro-spettivi e trials clinici prospettici di fase 2 non ran-domizzati hanno confermato una probabilità dirisposta globale del 49-75% in pazienti con SMDa basso rischio trattati con dosi di 40-80.000U/settimana di r-Hu-EPO (6-8) o DPO alla dosedi 150-300 mcg/settimana (9-11), 4,5-9 mcg/kg/a settimana (12), o di 500 mcg ogni 2-3 settima-ne (13). Va tuttavia considerato che alcune del-le casistiche pubblicate sono state selezionatesulla base di ridotti livelli iniziali di EPO endoge-na e di limitate necessità trasfusionali deipazienti arruolati, parametri, come già ricorda-to, in genere associati a una più elevata proba-bilità di risposta. Di particolare interesse, in alcu-ni di questi studi, la chiara correlazione tra miglio-ramento dei livelli di emoglobina e qualità di vita,esplorata attraverso l’utilizzo di questionari vali-dati. Da ricordare, infine, un recente studio fran-cese che ha chiaramente evidenziato come l’uti-lizzo precoce (entro 6 mesi dalla diagnosi) di ESAin pazienti con SMD a basso rischio, anemici manon trasfusione-dipendenti, determini un allun-gamento molto significativo (80 vs 35 mesi,p<0.007) del tempo alla comparsa di trasfusio-ne-dipendenza (14). La risposta eritroide ottenuta dopo terapia conESA viene generalmente persa alla sospensionedel farmaco. La durata della risposta è, peraltro,risultata estremamente variabile nei diversi studie nei singoli pazienti (da poche settimane a diver-si anni) (15). Tra gli studi con maggiore follow-up,rilevante l’esperienza del GFM (Groupe Francaisedes Myelodysplasies), la più ampia sinora descrit-ta, che riporta una durata mediana della rispostaa ESA di circa 2 anni (9). In una casistica retro-spettiva italiana recentemente pubblicata, il 77%di 36 responders a r-Hu-EPO alla singola dose di40.000 UI per settimana ha mantenuto la rispo-sta dopo un follow-up mediano di 46 mesi (8). Ladurata mediana di risposta ad una dose analogadi r-Hu-EPO, ma somministrata due volte a set-timana, fu di 9 mesi, con il 33% dei pazienti anco-ra responsivi dopo un anno di trattamento (7); d’al-tra parte, la DPO, alla dose di 150-300 mcg a set-timana in singola somministrazione, ha indotto una

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39Sindromi melodisplastiche

durata della risposta eritroide di 22 e 15 settima-ne, in pazienti rispettivamente senza o con fab-bisogno trasfusionale (10).

Eritropoietina e G-CSFDati in vitro hanno suggerito un possibile effet-to sinergico dell’uso combinato di r-Hu EPO efattori di crescita mieloidi, in particolare G-CSF,sui processi di proliferazione, differenziazione eapoptosi dell’eritropoiesi mielodisplastica. I daticlinici più significativi sono stati riportati in dueampi studi retrospettivi (9, 16), uno studio pro-spettico di fase 2 con incremento progressivodella dose di DPO (12) e 3 studi randomizzati difase 3, rispettivamente verso terapia di suppor-to (in un caso con dosi crescenti di r-Hu EPO)(17, 18) o dosi standard di sola r-Hu EPO beta(19). La percentuale globale di risposte eritroidivariava dal 38% al 62%, risultando peraltrogeneralmente limitata ai pazienti senza o conminimo fabbisogno trasfusionale (<2 unità/mese)e con livelli inadeguati di EPO endogena (<500miu/ml) (16). A supporto di una possibile attivi-tà sinergica tra i due farmaci, parte di queste

risposte veniva persa se il G-CSF era interrottoe riacquisita se si reintroduceva l’associazione.Come già osservato per la r-Hu-EPO utilizzatacome agente singolo (20), prolungando il tratta-mento combinato fino a 36 settimane in pazien-ti con EPO endogena <500 miu/ml è stato pos-sibile raggiungere l’80% di risposte (21).L’efficacia di tale associazione non è stata tut-tavia confermata in pazienti trasfusione-dipen-denti, già trattati senza successo con r-Hu EPO(22). Nell’esperienza del GFM la percentuale dirisposte nei pazienti trattati con ESA come sin-golo agente o in combinazione con G-CSF nonrisultava statisticamente differente (66% vs58%, p<0,17) (9). Inoltre, uno studio randomiz-zato francese ha chiaramente evidenziato comela combinazione di r-Hu EPO e G-CSF risultas-se significativamente più costosa del supportotrasfusionale, senza tradursi in un sostanzialebeneficio (anzi, con un possibile peggioramen-to) della qualità di vita dei pazienti) (17). Anchela possibile miglior risposta al trattamento com-binato r-Hu EPO + G-CSF inizialmente ipotizza-ta nelle anemie sideroblastiche (16) sulla base

FIGURA 1 - Una recente metanalisi ha confermato che l’uso di r-Hu-EPO ad alte dosi migliora la risposta eritroide (ER) rispetto ar-Hu-EPO utilizzata a dosi standard (STD) come agente singolo o in combinazione con G-CSF/GM-CSF (26).

80

70

60

50

40

30

20

10

0

Risposta eritroide

EPO std EPO std + G-/GM-CSF EPO ad alte dosi

Confronto con EPO alte dosi p <0,007

Confronto con EPO alte dosi p <0,001

p n.s.

ER globale

ER maggiore

49,0%

27,2%

30,5%

44,9%

50,6%

64,5%

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40 Seminari di Ematologia Oncologica

di osservazioni in vitro che dimostravano la capa-cità del G-CSF di inibire l’apoptosi mediata daimitocondri attraverso il rilascio di citocromo C(23), non è stata successivamente confermatain altre casistiche (9, 18, 22, 24, 25). L’efficacia della associazione di r-Hu EPO alfa confattori di crescita mieloidi è stata valutata in unametanalisi di 15 studi includenti globalmente 741pazienti (26). La quota di risposte eritroidi neipazienti trattati con la combinazione di r-Hu EPOalfa con G-CSF o GM-CSF risultava sovrappo-nibile a quella ottenibile con sola r-Hu EPO alfa(circa 50%). Questa analisi ha anche evidenzia-to come r-Hu EPO alfa usata come agente sin-golo a dosaggi elevati (60-80.000 U/settimana)abbia prodotto una percentuale di risposte più ele-vata (64%) rispetto a dosaggi standard di 30-

40.000 U/settimana (49%), anche quando r-HuEPO era associata a G-CSF o GM-CSF (Figura1); la differenza era altamente significativa e risul-tava indipendente dal sottotipo FAB e dalla dipen-denza trasfusionale. Sebbene l’uso di ESA sia stato recentementeassociato ad una prognosi non favorevole inpazienti neoplastici (27), il loro utilizzo nelle SMDè generalmente ritenuto sicuro e ben tollerato (28).Due metanalisi (4, 5) e ampi studi retrospettivi (9,29) hanno sostanzialmente confermato, in parti-colare, l’assenza di un rischio più elevato di even-ti trombotici o cardiovascolari e di trasformazio-ne leucemica nei pazienti trattati in maniera con-tinuativa con ESA come single agent o in asso-ciazione con G-CSF; sporadiche anche le segna-lazioni di aplasia selettiva della serie rossa lega-

FIGURA 2 - Sono riportati due deglistudi che hanno evidenziato un pos-sibile miglioramento della sopraviven-za in pazienti responsivi a ESA rispet-to a pazienti non responsivi o maitrattati con questi farmaci (IMRAW:database IPSS) (9, 32).

risposta a r-EPOnon risposta a r-EPOIMRAW

mai trattati con r-EPOnon risposta a r-EPOrisposta a r-EPO

Mesi

Sopravvivenza globale

Anni dalla diagnosi o dal trattamento con r-EPO

100%

90%

80%

70%

60%

50%

40%

30%

20%

10%

0%

100%

90%

80%

70%

60%

50%

40%

30%

20%

10%

0%

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

0 12 24 36 48 60 72 84 96 100 120

p<0,0001

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41Sindromi melodisplastiche

ta alla comparsa di autoanticorpi anti-EPO (30).Occorre infine ricordare che tre studi retrospetti-vi ed un trial prospettico hanno riportato che ipazienti con SMD a basso rischio responsivi aESA+/-G-CSF, manifestano un vantaggio disopravvivenza nei confronti dei pazienti nonresponsivi o che non sono mai stati sottoposti atale trattamento (9, 18, 31, 32) (Figura 2). Il moti-vo di questo beneficio non è del tutto chiaro,anche se sono stati ipotizzati come possibili fat-tori l’abolizione della trasfusione-dipendenza e,quindi, delle complicanze da sovraccarico mar-ziale, il miglioramento della performance cardia-ca, la selezione di pazienti con caratteristiche bio-logiche intrinseche più favorevoli, la possibile atti-vità degli ESA nei confronti di sistemi e processinon strettamente correlati all’eritropoiesi.

Altri fattori di crescitaAl di là del loro possibile utilizzo in combinazio-ne con ESA, G-CSF e GM-CSF sono stati usa-ti in profilassi, con dosi e schemi variabili, inpazienti con SMD allo scopo di migliorarne laneutropenia e ridurne il rischio infettivo. Nel 76-90% dei casi è stato possibile ottenere un incre-mento significativo dei leucociti e, in particolare,della conta neutrofila (33, 34). Non è stato tutta-via dimostrato un impatto significativo sulla per-centuale e sulla gravità degli eventi infettivi e sul-la sopravvivenza globale. Ad oggi non vi sonodunque dati consistenti a supporto dell’utilizzocontinuativo di fattori di crescita mieloidi inpazienti con SMD. Due nuovi thrombopoietin-mimetics stimolanti lapiastrinopoiesi (romiplostim, peptide iniettabile, edeltrombopag, molecola non peptidica, sommini-strabile per via orale) sono stati recentementeintrodotti in clinica per il trattamento della piastri-nopenia autoimmune resistente a trattamenti alter-nativi e della piastrinopenia secondaria a epato-patia HCV-positiva. Sono ad oggi disponibili alcu-ni dati preliminari sull’efficacia di queste moleco-le in vitro e in vivo nell’indurre un incremento del-la conta piastrinica, con riduzione del fabbisognotrasfusionale e degli eventi emorragici, anche inpazienti piastrinopenici con SMD (35-38). Ènecessario tuttavia attendere dati definitivi e con-solidati dagli studi in corso per valutare efficaciae safety di questi agenti nelle SMD.

Fattori di crescita: il primo esempio di terapia continuativa L’uso continuativo di ESA rappresenta oggi unostandard riconosciuto di trattamento per l’anemiadi pazienti con SMD a basso rischio (3, 28, 39),condiviso dalle linee guida internazionaliASCO/ASH (40) e NCCN (41). È tuttavia curiosonotare come, a tutt’oggi, sia stato pubblicato,ormai oltre 13 anni fa, un solo studio randomiz-zato di r-HuEPO vs placebo in pazienti con SMD(42) e come, nonostante la enorme mole di lavo-ri ed una esperienza clinica estesissima, nessu-na di queste molecole abbia ancora ricevuto talespecifica indicazione. Solo del tutto recentemen-te sono stati attivati studi registrativi per r-Hu-EPOalfa e DPO.In accordo con la recente revisione delle linee gui-da SIE/SIES/GITMO (43), gli ESA trovano quin-di attualmente indicazione nelle fasi iniziali dimalattia in pazienti con SMD a rischio IPSS bas-so o intermedio-1, con livelli di emoglobina infe-riori a 10 g/dl e di EPO endogena inferiori a 500miu/ml. Le dosi di r-Hu EPO raccomandate sonodi 60-80.000 U sottocute per settimana (da pre-scrivere secondo la normativa vigente della leg-ge 648), preferibilmente suddivise in due som-ministrazioni, anche se alcuni autori sottolinea-no come anche un trattamento iniziale con 40.000U di r-HuEpo in singola dose settimanale possafornire una soddisfacente percentuale di rispo-ste ad un costo inferiore (8). Per la DPO, la sin-gola dose iniziale consigliata è di 300 mcg persettimana (44). Occorre tuttavia ricordare chequest’ultimo farmaco non è ad oggi incluso nel-la suddetta normativa nazionale regolatoria di pre-scrivibilità. Sebbene la maggior parte delle risposte si osser-vi entro le prime 12 settimane di trattamento, alcu-ni dati indicano che la durata delle somministra-zioni per testare la sensibilità del paziente al far-maco potrebbe essere elevata fino a 20-24 set-timane, in considerazione di una possibile quotadi risposte tardive e di un miglioramento progres-sivo della qualità della risposta stessa. Un qua-dro di carenza funzionale di ferro in corso di trat-tamento con ESA, documentato da una percen-tuale di saturazione della transferrina inferiore al20%, è evento inusuale ma possibile anche inpazienti con SMD e può rappresentare, seppur

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42 Seminari di Ematologia Oncologica

raramente, una possibile causa di apparente man-cata efficacia. In tale situazione può essere neces-sario un supporto marziale. Occasionalmentesono stati anche descritti casi di poliglobulia tem-poranea da eccesso di risposta.Nei pazienti responsivi, il trattamento può esse-re continuato fintantoché rimane efficace. Il tar-get di emoglobina da raggiungere non dovrebbecomunque superare i 12 g/dl, al fine di ridurre lapossibilità di eventi trombotici. Una volta raggiun-to il miglior risultato ottenibile, la modalità di som-ministrazione (dose e schedula) dovrebberoessere modificate in modo tale da fornire la minorquantità di farmaco efficace per mantenere larisposta ottenuta. È raccomandabile una rivalu-tazione periodica dell’aspirato midollare e, laddo-ve necessario, della biopsia ossea, soprattutto neicasi di perdita della risposta clinica oppure di peg-gioramento repentino o progressivo del quadroanemico.La combinazione di ESA con G-CSF non è ingenere raccomandata, ma potrebbe essere pre-sa occasionalmente in considerazione in pazien-ti senza (o con minimo) fabbisogno trasfusiona-

le, con livelli di EPO endogena inferiore a 500miu/ml, non responsivi ad un trattamento con ESAeffettuato a dosaggi e per tempi adeguati, spe-cie in casi di anemia sideroblastica. Per quanto attiene i fattori di crescita non eritroi-di, una possibile indicazione può essere rappre-sentata dall’utilizzo, per brevi periodi, di dosimodulate di G-CSF in pazienti mielodisplastici gra-vemente neutropenici, con infezioni documenta-te e ricorrenti, mentre l’uso di agenti trombopo-ietici come romiplostim o eltrombopag nelle SMDpiastrinopeniche è attualmente ancora in corso divalidazione e deve essere limitato a pazienti inse-riti in trials clinici.La tabella 1 sintetizza i principali aspetti pratici del-l’uso dei fattori di crescita emopoietici nelle SMD.

n IMMUNOMODULANTI

Gli Immunomodulanti o IMIDS della letteraturaanglosassone (talidomide e lenalidomide) sonoagenti dotati di una complessa e ancora non deltutto chiarita serie di attività biologiche pleiotro-

TABELLA 1 - Gestione del trattamento con ESA e altri fattori di crescita emopoietici nelle SMD.

ESA:• Indicazioni: fasi iniziali di malattia in pazienti a rischio IPSS basso o intermedio-1, con livelli di emoglobina inferiori a 10

g/dl e di EPO endogena inferiori a 500 miu/ml. • Dosi: r-Hu-Epo 60-80.000 U sottocute per settimana; DPO 300 mcg per settimana, in singola dose.• Percentuali e durata della risposta: fino a circa il 60% dei pazienti trattati può ottenere una risposta eritroide nel “set-

ting” raccomandato, di durata variabile (da poche settimane ad alcuni anni); la sospensione del farmaco determina ingenere la perdita della risposta.

• Durata del trattamento: la risposta è ottenuta nella maggior parte dei casi generalmente entro le 12 settimane; succes-sivamente il trattamento può essere continuato, se tollerato, fino a perdita di efficacia.

• Supplementazione marziale: indicata nei casi di documentata carenza funzionale di ferro.• Target terapeutico ottimale: Hb 12 g/dl, successivamente modulare dosi e schedula per fornire la minor quantità possi-

bile di farmaco sufficiente per mantenere la risposta ottenuta. • Monitoraggio: emocromo settimanale nelle prime fasi di trattamento, poi controlli mensili. Rivalutazione midollare perio-

dica nei casi di perdita della risposta clinica oppure di peggioramento repentino o progressivo del quadro anemico.• Safety: l’utilizzo di ESA è generalmente ben tollerato, non incrementa il rischio trombotico o quello di trasformazione leu-

cemica; può essere associato, nei pazienti responsivi, ad una migliore prognosi.

G-CSF:• Generalmente non raccomandati l’associazione con ESA e il trattamento a lungo termine; può essere utile l’utilizzo come

agente singolo, per brevi periodi, in pazienti gravemente neutropenici, con infezioni documentate e ricorrenti.

Agenti trombopoietici (Romiplostim, Eltrombopag):• Uso attualmente in corso di validazione, da limitare a pazienti inseriti in studi clinici.

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piche, variamente esercitate sui processi di rego-lazione immunologica, proliferazione, differenzia-zione, apoptosi e angiogenesi cellulare e, in par-ticolare, sull’emopoiesi normale e neoplastica esul microambiente midollare. Queste caratteristiche ne hanno suggerito l’impie-go nell’ambito di numerose emopatie, ivi inclusele SMD (45, 46).

TalidomideUna recente metanalisi ha analizzato 527 pazien-ti con SMD trattati con talidomide. Globalmente,la media di risposte è stata del 43%, con un ampiorange di efficacia (9-56%, su base intention-to-tre-at) (47). In gran parte dei casi trattati la rispostaera rappresentata da un significativo miglioramen-to dei livelli di emoglobina, con riduzione o inter-ruzione completa del fabbisogno trasfusionale diemazie. La risposta, in genere ottenuta dopo 8-12 settimane di trattamento, non era correlata alladose di farmaco somministrata. In due studi è sta-to evidenziato un possibile vantaggio di soprav-vivenza nei pazienti trattati con talidomide (48, 49). Il principale problema dell’uso della talidomide neipazienti con SMD è rappresentato dall’elevata fre-quenza di effetti collaterali, anche severi (neuro-patia periferica, sedazione, stipsi, sonnolenza,astenia, bradicardia ed esantemi cutanei); questisono causa di interruzione precoce del trattamen-to, pur in presenza di una risposta favorevole, inun’alta percentuale di pazienti, in particolare inquelli anziani o trattati con elevati dosaggi di far-maco, non consentendo, di fatto, una modalitàdi trattamento continuativa accettabile. Sulla scorta dei dati disponibili in letteratura è tut-tavia possibile che questo farmaco possa anco-ra rappresentare un’opzione terapeutica se utiliz-zato a basso dosaggio (50-100 mg/die) per alme-no 12 settimane in pazienti selezionati, con unarecente diagnosi di SMD, trasfusione-dipenden-ti, a rischio IPSS basso o intermedio-1, senza cito-penie aggiuntive e non candidabili a terapia conlenalidomide o ESA (43). La profilassi anti-trom-botica non è raccomandata, in assenza di fatto-ri di rischio aggiuntivi. In considerazione dell’ele-vato grado di teratogenicità del farmaco, l’utiliz-zo della talidomide (tuttora non approvata nell’in-dicazione SMD) dovrebbe essere effettuato nel-l’ambito di programmi di sorveglianza.

LenalidomideIl primo studio di fase II sulla lenalidomide nelleSMD (MDS-001) è stato condotto in 43 pazienticon IPSS prevalentemente a rischio basso o inter-medio-1, utilizzando dosi giornaliere di 10 o 25mg/die o di 10 mg/die per 21 giorni al mese (50).Il 56% dei pazienti ha ottenuto, entro 12 settima-ne, una risposta eritroide, prevalentemente mag-giore secondo i criteri IWG (51, 52) e, quindi, coninterruzione del fabbisogno trasfusionale. In un ter-zo circa dei pazienti, la risposta ha avuto una dura-ta superiore a 4 anni, con una mediana non rag-giunta dopo un follow-up mediano di 81 settima-ne. Il dato più interessante emerso da questo studioè stata la stretta correlazione fra risposta al trat-tamento e la presenza di delezione interstiziale delbraccio lungo del cromosoma 5 [del(5q) o 5q-]:in 12 pazienti con tale anomalia citogenetica, infat-ti, la percentuale di risposte eritroidi è stata pariall’83%, con il 75% dei pazienti che ha ottenutouna remissione citogenetica completa. Una rispo-sta prolungata era comunque osservata anche inpresenza della persistenza della del(5q) in alcunidei pazienti che manifestavano tale anomalia all’in-gresso nello studio (53). Altro dato emerso è sta-ta la rilevante tossicità midollare (neutropenia epiastrinopenia), osservata in circa due terzi deipazienti trattati, in particolare in quelli che aveva-no ricevuto la dose continuativa di 25 mg/die.Sulla scorta di questi risultati, sono stati succes-sivamente condotti altri due trial internazionali conlenalidomide, entrambi alla dose di 10 mg al gior-no (continuativa o per 21 giorni ogni 4 settima-ne), focalizzati su pazienti con SMD trasfusione-dipendenti, prevalentemente con anemia refrat-taria e con punteggio IPSS basso o intermedio-1, rispettivamente con (MDS-003) o senza (MDS-002) l’anomalia citogenetica del(5q).Nello studio MDS-003 (54), effettuato su 148pazienti con del(5q) isolata o associata ad altreanomalie citogenetiche, la maggior parte dei qua-li non responsivi a r-Hu EPO, è stata ottenuta unapercentuale di risposte eritroidi pari al 76%, conindipendenza dalle trasfusioni nel 67% dei casi.Il tempo mediano alla risposta era di 4,6 settima-ne e l’incremento medio di emoglobina nei sog-getti responsivi era di 5,4 g/dl. La percentuale dirisposte non è risultata diversa nei pazienti con

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del(5q) isolata oppure associata a un’altra singo-la anomalia citogenetica o nell’ambito di un cario-tipo complesso. Analogamente, le risposte cito-genetiche globali (73%) e complete (45%) non dif-ferivano in questi tre gruppi di pazienti. Il 36% deipazienti ha anche evidenziato una remissione isto-morfologica, che risultava sempre associata a unarisposta citogenetica completa. All’analisi multi-variata, la presenza di piastrinopenia pre-tratta-mento ha condizionato negativamente la percen-tuale di risposte eritroidi e citogenetiche, verosi-milmente a causa delle necessarie riduzioni del-la dose e della durata del trattamento con lena-lidomide. Con un follow-up di 104 settimane, lamediana di durata della trasfusione-indipenden-za non è stata raggiunta, con 61 dei 99 pazientidivenuti trasfusione-dipendenti ancora non neces-sitanti di supporto dopo un anno di terapia. Una tossicità midollare di grado 3-4 (neutropeniae/o piastrinopenia) è stata confermata in circa lametà dei pazienti trattati. In particolare, i casi dineutropenia più grave si sono verificati nei sog-getti che avevano ricevuto la somministrazionequotidiana e senza interruzione del farmaco. Soloil 3% dei pazienti trattati ha evidenziato compli-canze tromboemboliche. Esantemi cutanei, aste-nia, prurito, diarrea e nausea sono stati osserva-ti in una minoranza dei casi (<3%). Lo studio di fase II MDS-002 è stato condottousando le medesime dosi di lenalidomide in 214pazienti mielodisplastici trasfusione-dipendenti,senza anomalie del cromosoma 5 (55). Il 78% deipazienti presentava un punteggio IPSS basso oINT-1. Il 26% dei pazienti trattati ha ottenuto unarisposta eritroide con indipendenza completa

dalle trasfusioni (incremento mediano di emoglo-bina di 3,2 g/dl), con un tempo mediano allarisposta di 4,8 settimane e una durata di rispo-sta di 41 settimane. Un ulteriore 17% di pazien-ti ha manifestato una riduzione del fabbisognotrasfusionale >50% (risposte eritroidi totali 43%),senza significative differenze in base all’IPSS, alcitotipo FAB o al cariotipo. Nove dei 47 pazien-ti con anomalie del cariotipo hanno ottenuto unarisposta citogenetica (20%), in 4 casi (9%) com-pleta. Con un follow-up mediano di 58 settima-ne, la durata della trasfusione-indipendenza èstata di 41 settimane. Neutropenia e piastrino-penia di grado 3-4 sono state osservate nel 30%e nel 25% dei pazienti, rispettivamente. I risul-tati di questo trial hanno dunque evidenziato unarisposta eritroide e citogenetica, una durata del-la risposta, ma anche una tossicità ematologi-ca significativamente inferiori rispetto a quantoosservato negli studi condotti in pazienti condel5q (Figura 3, Tabella 2). È attualmente in corso in Europa e negli USA unostudio di fase 3, controllato con placebo, che con-fronta dosi di 5 e 10 mg di lenalidomide vs pla-cebo in pazienti a basso rischio senza del(5q)(MDS-005).Sulla scorta di questi dati, la Food and DrugAdministration (FDA) statunitense ha approvato neldicembre 2005 l’uso della lenalidomide esclusi-vamente per i pazienti affetti da SMD trasfusio-ne-dipendente, a rischio IPSS basso o interme-dio-1, con del(5q) isolata o associata ad altre ano-malie del cariotipo.Successivamente alla approvazione FDA, sonostati riportati i dati relativi ad uno studio multicen-

FIGURA 3 - Durata della trasfusione-indi-pendenza nei pazienti responsivi a lena-lidomide negli studi MDS-003 (con del5q)e MDS-002 (senza del5q) (54, 55).

Censorizzati

MDS-003 (del5q)

MDS-002 (non del5q)

Settimane

% p

azie

nti t

rasf

usio

ne-in

dipe

nent

i

100

90

80

70

60

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40

30

20

10

00 25 50 75 100 125 150

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trico francese che ha valutato efficacia e safetydella lenalidomide (10 mg al di per 21 giorni almese) utilizzata per uso compassionevole (e,quindi, nella pratica clinica quotidiana), in 95pazienti (età mediana 70,4 anni) con SMD edel(5q), a rischio IPSS basso (30%) o interme-dio-1 (70%) (56). Il 38% dei pazienti presentavauna sindrome del 5q-, secondo la classificazio-ne WHO (57), due terzi erano in precedenza sta-ti trattati con ESA. La del(5q) era presente comeunica anomalia, associata ad un’altra singola alte-razione citogenetica o nel contesto di un cario-tipo complesso nel 79%, 14%, e 6%, rispettiva-mente. I pazienti ricevevano il farmaco per alme-no 16 settimane e il trattamento proseguiva inquelli che evidenziavano almeno una rispostaminore secondo i criteri IWG 2000 (51), fino a per-

dita della risposta, progressione di malattia o tos-sicità non gestibile. Con un follow-up mediano di 18,5 mesi, la dura-ta mediana di trattamento è stata di 183 giorni(range 3-1029+). Una risposta eritroide, valutatasecondo i criteri IWG 2006 (52), è stata osser-vata nel 65% dei pazienti trattati (il 63% interrom-peva il supporto trasfusionale), con un tempomediano alla trasfusione-indipendenza di 16 set-timane (range 8-33). La differenza con gli studiprecedenti per quest’ultimo parametro era dovu-ta essenzialmente ai diversi criteri utilizzati per ladefinizione del tempo alla trasfusione-indipenden-za utilizzati. Una risposta citogenetica fu osservata in 9 dei 15pazienti rispondenti testati (6 risposte parziali,40%, e 3 risposte complete, 20%). Fattori pre-

TABELLA 2 - Gestione del trattamento con Immunomodulanti nelle SMD.

Talidomide:• Possibili indicazioni: SMD di recente diagnosi, trasfusione-dipendenti, a rischio IPSS basso o intermedio-1, senza cito-

penie aggiuntive e non candidabili (o non responsivi) a terapia con lenalidomide o ESA.• Dosi: basso dosaggio (50-100 mg/die); se non tollerato anche 50 mg a di alterni possono essere efficaci.• Principali effetti collaterali: frequenti, specie in pazienti anziani e con dosaggi superiori a 100 mg/die: neuropatia perife-

rica, sedazione, stipsi, sonnolenza, astenia, bradicardia, ed esantemi cutanei.• Target terapeutico ottimale: trasfusione indipendenza; ottenibile se utilizzata a basso dosaggio e in pazienti selezionati,

in circa il 40% dei casi. • Durata trattamento: almeno 8-12 settimane; se c’è risposta continuare al minimo dosaggio tollerato.• Precauzioni: profilassi anti-trombotica non raccomandata, in assenza di fattori di rischio aggiuntivi; programma di sor-

veglianza per prevenzione gravidanza.

Lenalidomide:• Indicazioni: pazienti con SMD a rischio IPSS basso o intermedio-1, trasfusione dipendenti e con del(5q), isolata o in com-

binazione con altre anomalie citogenetiche aggiuntive. Trattamento attualmente non raccomandato per pazienti a rischioIPSS intermedio-2 o alto con del(5q), o a rischio basso/intermedio-1, senza del(5q).

• Dosi: inizialmente 10 mg al di per 21 giorni al mese, con interruzione/aggiustamento dose in caso di citopenia. G-CSFin caso di neutropenia severa prolungata. Anche i 5 mg possono rappresentare un efficace trattamento. Modulare ladose in relazione alla funzionalità renale.

• Target terapeutico ottimale: trasfusione indipendenza e remissione citogenetica, ottenibili rispettivamente nel 60-70% e50-60% dei casi.

• Durata della risposta: in genere superiore ai due anni, con possibilità di risposte prolungate anche dopo sospensionedel farmaco.

• Durata del trattamento: attualmente non ben codificata; inizialmente programmare almeno 4 cicli per testare la sensibi-lità; se la terapia è efficace e tollerata, possibile un trattamento continuativo fino a progressione; in alternativa conside-rare una sospensione dopo aver ottenuto una remissione citogenetica completa prolungata (12 mesi).

• Effetti collaterali principali: mielotossicità (neutropenia fino al 70%, piastrinopenia 30-40%); rari DVT e tossicità cutanee.• Monitoraggio: controllo emocromo e funzionalità renale almeno settimanale nelle prime 8 settimane di trattamento, poi

a intervalli di 2-3 settimane. Valutazione periodica midollo osseo e cariotipo.• Precauzioni: profilassi anti-trombotica non raccomandata, in assenza di fattori di rischio aggiuntivi; attivare un program-

ma di sorveglianza per prevenzione gravidanza.

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dittivi per l’ottenimento della trasfusione indipen-denza erano rappresentati da un numero di pia-strine al baseline superiore a 150.000/µl ed unariduzione di almeno il 50% della conta piastrini-ca nel corso della prima settimana di trattamen-to. Una evoluzione leucemica fu osservata in 6pazienti (6,3%). La dose media giornaliera di man-tenimento di lenalidomide somministrata fu di 5,3mg (range 1,7-7,5). Undici (18%) dei pazienti conrisposta completa sono recidivati dopo 1,5-22,2mesi (mediana 14,4), mentre 50 sono rimastirispondenti dopo una mediana 20,5 mesi (range4+ to 33+). In questo studio, il 92,5% ed il 77%dei pazienti sono rimasti liberi da necessità tra-sfusionali, rispettivamente dopo 1 e 2 anni.Globalmente, con un follow-up mediano di 80 set-timane, la mediana della durata di risposta nonè stata raggiunta. I dati sulla tossicità ematologica di grado 3-4 (neu-tropenia 74%, 3 i morti per sepsi; piastrinopenia37,9%, una morte per emorragia cerebrale), sonorisultati sostanzialmente in linea con gli studi pre-cedenti. La percentuale di trombosi venose pro-fonde osservate è stata del 9,5%, più marcata nel-le pazienti che raggiungevano livelli di emoglobi-na >13 g/dl e, soprattutto, nei soggetti con unariduzione del numero di piastrine inferiore al 50%nel corso del trattamento. Di particolare rilevanza appare lo studio rando-mizzato internazionale di fase III MDS-004 (58),controllato con placebo, recentemente conclu-so e valutato su 139 pazienti mielodisplastici tra-sfusione-dipendenti con sindrome del(5q) arischio IPSS basso (49%) o intermedio-1(51%)arruolati ed effettivamente trattati con lenalido-mide 10 mg (n. 41), 5 mg (n. 47) o placebo (n.51) per 21 giorni al mese. Lo studio prevedevala successiva possibilità di cross-over in una faseaperta di terapia attiva fino a 3 anni nei pazien-ti trattati con placebo o con lenalidomide 5 mg,non rispondenti dopo 16 settimane di terapia. Lapopolazione aveva un’età mediana di 69 anni, untempo mediano dalla diagnosi di 2,7 anni, unrischio WPSS basso, intermedio o alto del7,9%, 59% e 32,4%, rispettivamente ed eviden-ziava un pregresso trattamento con r-Hu-EPO nel52% dei casi. L’anomalia del(5q) risultava isola-ta nel 76,3% dei pazienti e associata ad una opiù alterazioni citogenetiche aggiuntive nella

restante popolazione. Circa la metà dei pazien-ti presentava una classica sindrome del5q-, larestante metà era variamente distribuita nell’am-bito dei rimanenti citotipi WHO (57). Tre quarti dei pazienti trattati con lenalidomide haricevuto il farmaco per almeno 16 settimane, il21,7% (5 mg) e il 42% (10 mg) per almeno unanno. La percentuale di indipendenza dalle tra-sfusioni ottenuta è stata del 42,6/51,1% per i 5mg e del 56,1/61% per i 10 mg (durata >26 set-timane come end-point primario dello studio/cri-teri IWG 2000-2006, rispettivamente) (51, 52). Ladifferenza, non significativa fra i due gruppi trat-tati con lenalidomide, è risultata invece altamen-te significativa, per entrambi i gruppi trattati, neiconfronti del placebo (p<0,001). L’incrementomediano dei livelli di emoglobina era di 6,3 g/dlper i 10 mg e 5,2 g/dl per i 5 mg. Circa la metàdei pazienti rispondeva dopo un ciclo, un terzodopo il secondo ciclo, mentre meno del 10%rispondeva dopo 4 cicli. La durata mediana glo-bale di trasfusione-indipendenza dei pazienti trat-tati con lenalidomide non è stata raggiunta dopoun follow-up mediano di 18,6 mesi in entrambi igruppi trattati (5 e 10 mg) con lenalidomide. Unarisposta citogenetica era ottenuta nel 50% deipazienti trattati con 10 mg (29,4% complete) e nel25% (15,6% complete) di quelli che avevano rice-vuto 5 mg (p 0,06).La comparsa di nuove alterazioni citogenetiche fuosservata nel 23,5%, 31,3% e 14,3% dei pazien-ti rispettivamente trattati con 10 mg, 5 mg o pla-cebo. Il tempo mediano alla progressione citoge-netica fu di circa 3 mesi in tutti e tre i gruppi. Ipazienti con livelli basali di EPO endogena >500miu/l ottenevano la trasfusione-indipendenza piùfrequentemente se trattati con i 10 mg, mentre nonsi osservavano differenze fra i due dosaggi in rela-zione a età, sesso, classificazione FAB/WHO, sco-re prognostico IPSS/WPSS, tempo dalla diagno-si, precedente uso di r-Hu-EPO, del5q isolata vsdel5q combinata con una o più alterazioni citoge-netiche addizionali, fabbisogno trasfusionale, con-ta piastrinica. Fattori predittivi per il raggiungimen-to della trasfusione-indipendenza >26 settimaneerano rappresentati da una conta piastrinica>150.000/µl ed un tempo dalla diagnosi >2 anni.Per i pazienti trattati con lenalidomide la soprav-vivenza globale a tre anni e il rischio di trasfor-

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mazione leucemica risultavano rispettivamentedel 56,5% e del 25,1%. Non si osservavano dif-ferenze in termini di tempo all’evoluzione leuce-mica (30,9 mesi placebo, 31,8 mesi 5 mg, 36,1mesi 10 mg) e sopravvivenza globale (42,4 mesiplacebo, >35,5 mesi per i 5 mg e 44,5 mesi peri 10 mg) fra i tre gruppi di pazienti: l’ottenimen-to della indipendenza trasfusionale, ma non laremissione citogenetica, influenzavano però inmaniera positiva sia la sopravvivenza globale cheil tempo alla trasformazione leucemica, con unriduzione del rischio del 42% e del 47%, rispet-tivamente. Sostanzialmente comparabile fra i duedosaggi risultava la tossicità ematologica di gra-do 3-4 (73,9% vs 75.4% la neutropenia, 33,3%vs 40,6% la trombocitopenia) e l’incidenza dieventi trombotici (1,4% vs 5,8%), con un tassodi riduzione dose/interruzione temporanea del55,1-52,2/46,4%-29% nel braccio con 10 e 5 mg,rispettivamente. La sospensione del trattamen-to fu invece necessaria nell'8,7% del gruppo 10mg, nel 17,4% nel gruppo 5 mg e nell'1,4% nelgruppo placebo. Questionari del tipo FACT-Andocumentavano un significativo incremento deilivelli di qualità di vita nei pazienti responsivi, conuna significativa correlazione con l’incremento deivalori di emoglobina. Gli autori di questo studioconcludevano che un trattamento con lenalido-mide alla dose iniziale di 10 mg al di per 21 gior-ni al mese, con le eventuali riduzioni posologi-che necessarie in corso di terapia, è fattibile, haun accettabile profilo di tossicità, induce indipen-denza trasfusionale e risposte citogenetichedurevoli in una rilevante quota di pazienti conSMD a rischio basso o intermedio con del(5q),migliora la qualità di vita e riduce il rischio di mor-te e di trasformazione leucemica nei soggettiresponsivi. Decisamente meno soddisfacenti i risultati otte-nuti nei pazienti con SMD ad alto rischio con pre-senza di del(5q) (59). In uno studio di fase 2 con-dotto in questo specifico subset, una rispostaeritroide secondo i criteri IWG a 10 mg di lena-lidomide al di per 3 settimane al mese è stataosservata nel 27% di 47 pazienti trattati (preva-lentemente anemie refrattarie con eccesso di bla-sti e forme leucemiche con blastosi midollare del20-30%), con ottenimento di 7 remissioni com-plete (RC), due risposte midollari e 4 migliora-

menti eritroidi. Dodici pazienti (25%) hanno rag-giunto la trasfusione-indipendenza, la cui dura-ta mediana è stata di 6,5 mesi. Cinque sono sta-te le risposte citogenetiche complete ottenute,4 le parziali. La durata mediana della RC è sta-ta di 11,5 mesi. Le risposte sono state osserva-te pressoché esclusivamente nei pazienti chepresentavano la sindrome del(5q) come singo-la alterazione citogenetica e con numero di pia-strine >100.000 µl. Dosi maggiori di lenalidomi-de (fino a 30 mg al di) hanno indotto rispostecitogenetiche ed ematologiche parziali in 4/14pazienti con SMD ad alto rischio con anomaliecitogenetiche del cromosoma 5, in assenza dimutazione di P53 (60).Sono attualmente in corso trials clinici tesi a valu-tare l’efficacia dell’associazione di lenalidomidecon altri agenti, in particolare con ESA (61), sul-la base di specifici profili di espressione genicacorrelati alla differenziazione eritroide, anche inassenza di sindrome del(5q) (62), e con azaciti-dina, per pazienti ad alto rischio, di cui sono giàdisponibili interessanti dati preliminari (62, 63).- Meccanismi molecolari. Al di là delle già descrit-te attività pleiotropiche sul microambiente midol-lare (64, 65), è ormai evidente che la lenalidomi-de è in grado di esercitare un importante effet-to diretto sul clone neoplastico. Sono stati in par-ticolare identificati alcuni geni oncosoppressori,dotati di attività protein-chinasica modulante i pro-cessi apoptosici o codificanti per proteine ribo-somiali o, ancora, con attività fosfatasica rego-lanti il ciclo cellulare (in particolare SPARC,CSNK1A1, activina A e RPS14, Cdc25C ePP2Acalpha) potenzialmente coinvolti, con mec-canismi di aploinsufficienza, nella patogenesi del-le SMD con del(5q) e, in particolare, della sindro-me del5q- (66-69). La loro riattivazione, indottadalla lenalidomide, potrebbe essere alla base del-la sensibilità al trattamento di questi pazienti, for-nendo in tal modo un nuovo possibile esempiodi targeted-therapy molecolare. Sebbene siaimmaginabile, nella patogenesi mielodisplasticacon coinvolgimento del(5q), un network pluri-genomico verosimilmente più complesso, è rile-vante notare come uno studio italiano abbia con-fermato in vivo la capacità della lenalidomide diripristinare l’attività deficitaria di uno di questi geni,RPS14, in pazienti con SMD a basso rischio con

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del(5q), correlandola con la risposta al trattamen-to (70). - Tossicità, monitoraggio e terapia a lungo termi-ne. La tossicità ematologica rappresenta, comericordato, il principale problema della terapia conlenalidomide. Essa comporta la frequente neces-sità di aggiustamenti posologici e, talora, di unapossibile interruzione del trattamento in una quo-ta non trascurabile di pazienti. In proposito sonostati anche occasionalmente descritti decessi aseguito di sepsi in pazienti neutropenici in tera-pia con lenalidomide. È dunque importante unmonitoraggio ematologico costante, specie nel-le prime settimane di trattamento, con sospen-sioni temporanee della terapia in caso di neutro-penia sotto i 500 µl e/o piastrinopenia sotto le25.000 µl; la eventuale ripresa del trattamento vaeffettuata al recupero dei neutrofili (>1.000 µl) edelle piastrine (>50.000 µl), riducendo il dosag-gio iniziale e integrandolo, se necessario, con lasomministrazione di G-CSF (71). Va considerato,peraltro, che la comparsa di tossicità ematologi-ca in corso di trattamento con lenalidomide, e inparticolare di piastrinopenia, è risultata associa-ta ad una maggiore probabilità di risposta (72).Contrariamente a quanto osservato nel mieloma,gli eventi trombo-embolici sono risultati rari e, per-tanto, una profilassi antitrombotica non viene ingenere raccomandata in pazienti con SMD cheassumono lenalidomide senza fattori di rischioaggiuntivo. Un recente studio post-marketing haanalizzato 7.764 pazienti con SMD trattati conlenalidomide, di cui solo lo 0,53% ha sviluppatouna complicanza trombotica (73); l’associazionedi lenalidomide e r-HuEPO è risultata tuttavia mag-giormente associata alla possibilità di tale com-plicanza (circa il 5%). La lenalidomide viene prevalentemente elimina-ta per via renale; sono dunque necessari, soprat-tutto nelle fasi iniziali del trattamento, un attentomonitoraggio della funzionalità d’organo ed even-tuali aggiustamenti del dosaggio in pazienti convalori di creatinina elevati e/o ridotta clearance (71).Una adeguata gestione della dose e della sche-dula permette comunque la somministrazione delfarmaco anche in soggetti con severa compro-missione renale (74).Il Farmaco è teratogeno, pertanto sono raccoman-dati test di gravidanza ravvicinati prima e duran-

te il trattamento con lenalidomide nelle donne inetà fertile e appropriati metodi anticoncezionali peri pazienti e i loro partner, nell’ambito di un pro-gramma di controllo simile a quello utilizzato perla talidomide.Attualmente la lenalidomide è prescrivibile in Italiaper le SMD attraverso la normativa 648, nelle indi-cazioni già accettate dalla FDA. Questa moleco-la, tuttavia, non ha ancora ottenuto l’approvazio-ne ufficiale dell’EMA, soprattutto in virtù di alcu-ne perplessità riguardanti la safety del farmacoe, specificamente, la possibile correlazione conun incremento del rischio di evoluzione clonalee di trasformazione leucemica, in particolare inpazienti che non ottengono risposte ematologi-che e citogenetiche (75). In questo contesto, sem-brerebbero giocare un possibile ruolo fenomenidi accorciamento telomerico (76) e la presenzadi mutazioni di TP53 (77). Tuttavia, il confronto sto-rico con casistiche comparabili per caratteristi-che cliniche ma non trattate con lenalidomide, haevidenziato una sostanziale equivalenza in termi-ni di percentuali di pazienti con SMD a rischiobasso o intermedio-1 con del5q evoluti in leuce-mia mieloide acuta (LMA) (16-23% dello studioMDS-003 vs 12-28% nei pazienti del databaseIPSS vs 11-35% nei pazienti del databaseWPSS vs 24% nel registro di Dusseldorf)(Celgene, dati su file). A tale proposito, una sub-analisi del recente e già citato studio compassio-nevole francese (56, 78) ha utilizzato un approc-cio statistico basato sul propensity score, checonsente di correggere eventuali fattori confon-denti nella valutazione di comparazioni non ran-domizzate. Questa analisi ha evidenziato una inci-denza cumulativa stimata di progressione leuce-mica a 4 anni pari al 9% in 71 pazienti con SMDe del(5q) trattati con lenalidomide e del 15,8% inun analogo gruppo di controlli storici, sostanzial-mente comparabili per caratteristiche clinico-bio-logiche, ma mai trattati con lenalidomide (p 0,16).La sopravvivenza mediana è stata di 150 mesi neipazienti trattati con lenalidomide e di 78 mesi neicontrolli (p 0,06), con il 67% dei pazienti trattaticon lenalidomide e il 73% di quelli non trattati vivia 4 anni (p 0,15) (78).Nel trial randomizzato MDS-004, la percentualedi progressione leucemica è stata del 30,4%, neipazienti inizialmente trattati con placebo (ma poi

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passati al trattamento con lenalidomide) e pari al23,2% e 21,7% in quelli che avevano ricevuto dal-l’inizio rispettivamente 5 o 10 mg di lenalidomi-de (58). Non è in realtà agevole comparare que-sti dati con quelli di studi precedenti condotti inpopolazioni del(5q) non trattate con lenalidomi-de a causa dell’eterogeneità delle terapie alter-native ricevute, dei diversi tempi e criteri di valu-tazione e, soprattutto, del differente impatto pro-gnostico di anomalie citogenetiche aggiuntive (79)e della percentuale di blasti midollari (80). Anchequesto studio, tuttavia, sembrerebbe non eviden-ziare un rischio leucemico più elevato in pazien-ti con SMD trattati con lenalidomide. Sulla scorta dei dati di letteratura oggi pubblica-ti, le linee guida della SIE, SIES e GITMO (43)attualmente raccomandano un trattamento di pri-ma linea con lenalidomide alle dosi di 5-10 mgal di per 21 giorni al mese in pazienti con SMDa rischio IPSS basso o intermedio-1, trasfusionedipendenti e con del(5q), isolata o in combinazio-ne con altre anomalie citogenetiche aggiuntive,preferibilmente nell’ambito di studi clinici o di regi-stri nazionali (43). La lenalidomide non è invece

raccomandata, se non all’interno di studi clinici,per i pazienti a rischio IPSS intermedio-2 o altocon del(5q), o a rischio basso/intermedio-1, sen-za del(5q). Questa indicazioni sono essenzialmen-te condivise dalle linee guida NCCN (41). La durata del trattamento non è attualmente codi-ficata con certezza di dati. In assenza di segnidi progressione di malattia o di chiara selezioneclonale, è possibile ipotizzare una terapia conti-nuativa nei pazienti che hanno ottenuto una rispo-sta ematologica, specie se associata and unaremissione citogenetica, possibilmente riducen-do la dose alla quantità minima efficace per man-tenere la risposta e monitorando periodicamen-te midollo osseo e cariotipo. D’altra parte, è sta-ta riportata la possibilità che trattamenti con lena-lidomide anche di breve o brevissima durata pos-sano indurre risposte protratte, pur in assenza diuna risposta citogenetica completa (56, 81-84).Sebbene non esistano in proposito dati conso-lidati, una eventuale interruzione del trattamen-to viene da alcuni ritenuta una opzione pratica-bile, preferibilmente in pazienti che hanno pro-seguito il trattamento per almeno un anno dopo

FIGURA 4 - Risultati dei principali studi pubblicati sull’uso della lenalidomide nelle SMD.

*ND: non disponibile; ATU: programma compassionevole; **NR: non raggiunta; ***Risposte solo in pazienti con del5qcome singola anomalia e piastrine >100.000/mmc

N. pazienti Risposta Indipendenza Tempo Aumento Risposta Durata Neutro-globale dalle alla risposta Hb citogenetica media IT piastrinopenia

trasfusioni (completa) grado ≥3(IT)

del(5q) 148 76% 67% 4,6 sett. 5,4 g/dl 73%* NR** 55-44%Low/Int-1 (45%) Follow-up MDS-003 mediano

2 anni

del(5q) 95 65% 63% 16 sett. (TI) ND* 40% (20%) NR** 74-38%Low/Int-1 Follow-up ATU** mediano

18 mesi

del(5q)Low/Int-1 69 (5 mg/d) ND* 51% 3,3 sett. 5.2 25% (16%) NR** 74-33%MDS-004 69 (10 mg/d) 61% 4,3 sett. 6.3 50% (29%) Follow-up 75-41%

mediano18.6 mesi

del(5q) 47 27% 25% 2-4 cicli ND* 19% (10%) 25 sett. 76-79%Int-2/Hghrisk***

Non 215 43% 26% 4,8% 3,2 g/dl 20% (9%) 41 sett. 30-25%del (5q)MDS-002

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l’ottenimento di una remissione citogenetica com-pleta (81). Sono anche stati descritti casi in cuila ripresa del trattamento per recidiva dopo inter-ruzione ha reindotto una nuova risposta (1, 56).Ciò che sembra certo, a testimonianza di unamancata eradicazione di malattia, è la recentedimostrazione della presenza di cellule stamina-li con del(5q) nei midolli di pazienti in remissio-ne citogenetica completa dopo trattamento conlenalidomide (85). La tabella 2 sintetizza i principali aspetti praticidell’uso degli agenti immunomodulanti nelleSMD. La figura 4 riporta i risultati dei principalitrials clinici con lenalidomide nelle SMD ad oggipubblicati.

n AGENTI IPOMETILANTI

È noto che i processi di metilazione del DNA sonoin grado di determinare alterazioni epigenetichepotenzialmente reversibili del corredo cromatini-co cellulare, che rappresentano uno dei principa-li meccanismi di modulazione funzionale del-l’espressione genica (86). Questo processo, cheagisce senza modificare strutturalmente lasequenza del DNA stesso, è fisiologicamenteimportante per la regolazione dell’embriogenesi,dell’imprinting e dei meccanismi di differenziazio-ne cellulare. D’altra parte, molti tumori, incluse leSMD, presentano una abnorme e diffusa condi-zione di ipermetilazione genica che, inducendo ilsilenziamento epigenetico di geni onco-sop-pressori, facilita i processi di progressione neo-plastica. I farmaci ipometilanti o demetilanti sono analo-ghi sintetici in grado di sostituirsi ai residui nucleo-tidici di citosina e di impedire alle DNA metil-tran-sferasi di attivare i meccanismi di metilazione cro-matinica, inducendo la riattivazione e la trascri-zione di geni importanti per il controllo inibitoriodella proliferazione tumorale (87). Azacitidina(AZA) e decitabina (DEC) sono i due principaliagenti ipometilanti attualmente disponibili in cli-nica per il trattamento delle SMD. In realtà, il mec-canismo d’azione di questi farmaci, in passato uti-lizzati a dosaggi più elevati per sfruttarne l’effet-to citotossico, non è del tutto compreso ed è vero-simile che essi svolgano la propria attività anti-

neoplastica anche attraverso vie alternative ocomplementari, diverse da quelle di induzione del-la ipometilazione genica in vivo del DNA.

Azacitidina nei pazienti ad alto rischioL’AZA è stata approvata negli USA nel 2004 dal-la FDA per tutti i citotipi FAB (88), essenzialmen-te sulla base degli studi del CALGB (Cancer andLeukemia Group B) (89), che avevano evidenzia-to una percentuale di risposte ad AZA inizialmen-te somministrata in infusione endovenosa (e.v)continua e poi, essendone stata documentatal’equivalenza dell’assorbimento, per via sottocu-tanea (s.c.), pari a circa il 50%, oltre metà dellequali plurilineari. Di particolare interesse erano i dati ottenuti nel-lo studio 9221 (90), un trial randomizzato che para-gonava l’AZA con la migliore (ma senza utilizzodi fattori di crescita) terapia di supporto (best sup-portive care: BSC) in 191 pazienti con SMD pre-valentemente a rischio intermedio-elevato e, inminor misura, con rischio basso, ma con citope-nia severa. In questo studio la schedula dell’AZA prevedevala somministrazione di 75 mg/m2 s.c. per 7 gior-ni, ripetuta mensilmente. L’età media era 68 anni.La RC si osservava nel 7% dei pazienti trattati conAZA e la risposta globale, comprensiva anche diremissioni parziali e miglioramenti ematologicisecondo i criteri IWG 2000 (51), era ottenuta nel60%, rispetto al 5% dei pazienti nel braccio dicontrollo (p<0,001). La durata mediana della rispo-sta era di 15 mesi. Il tempo medio alla trasforma-zione in LMA o al decesso era di 21 mesi neipazienti trattati con AZA rispetto ai 12 mesi nelbraccio BSC (p<0,007). In particolare, la trasformazione leucemica preco-ce (entro 6 mesi) si verificava solo nel 3% deipazienti trattati con AZA contro il 24% di quelliinseriti nel braccio BSC (15% vs 38% il dato glo-bale dello studio). I risultati hanno anche dimo-strato la superiorità dell’AZA sulla BSC in termi-ni di qualità della vita (91). Non si evidenziava, inve-ce, un significativo vantaggio della sopravviven-za globale, probabilmente a causa del disegnodello studio, che permetteva il cross-over al brac-cio AZA nei pazienti inizialmente trattati solo conBSC. Una landmark-analysis indicava tuttaviachiaramente un beneficio (18 mesi addizionali vs

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11 mesi nel braccio di controllo) per i pazienti ini-zialmente trattati con AZA o che avevano comun-que ricevuto il farmaco entro 6 mesi dall’inclusio-ne nello studio (P<0,003).È stato dunque necessario condurre un secon-do studio randomizzato (AZA-001), per conferma-re l’eventuale vantaggio dell’uso di AZA, inpazienti con SMD a rischio elevato, anche in ter-mini di sopravvivenza (92). I 358 pazienti arruo-lati presentavano una malattia più avanzatarispetto al precedente trial CALGB 9221 e un’etàmedia di 69 anni. All’ingresso, sulla base del giu-dizio clinico del medico curante e prima della ran-domizzazione tra AZA e trattamenti alternativi, ipazienti venivano assegnati ad uno tra tre regimidi terapia convenzionale (conventional care regi-mens: CCR) ritenuti standard di riferimento:BSC, basse dosi di citosina arabinoside (LDAC),chemioterapia di induzione intensiva LMA-like(schema 3+7). Successivamente, il paziente veni-va randomizzato per AZA (con una schedula ana-loga a quella utilizzata per il programma CALGB9221) o per il regime convenzionale preselezio-nato, senza possibilità di cross-over.Il numero medio di cicli di AZA somministrata èstato di nove (14 cicli nei rispondenti). In questostudio il tasso di RC è stato del 17%, con unapercentuale di risposta globale pari al 49%. Perla prima volta nella storia delle SMD, veniva evi-denziato un miglioramento della sopravvivenzamediana che risultava, globalmente, significativa-mente migliore nei pazienti trattati con AZA rispet-to a CCR (24,5 vs 15 mesi, rispettivamente;p=0,001). In particolare, a 2 anni, il 51% deipazienti trattati con AZA era vivo, rispetto al 26%dei controlli. Inoltre, con AZA, la progressione aLMA risultava significativamente ritardata; pari-menti, la necessità di trasfusioni e il tasso di infe-zioni venivano significativamente ridotti. Il vantag-gio di sopravvivenza con AZA era mantenutocostantemente nei diversi sottogruppi, a prescin-dere, quindi, da età (compresi i pazienti di etàsuperiore ai 75 anni), sesso, performance status,citotipo WHO, blasti midollari (inclusi i pazienti conpercentuale di blasti dal 20% al 30%, attualmen-te classificati come LMA utilizzando i criteri WHO)(57), rischio IPSS o cariotipo. Il vantaggio risulta-va statisticamente significativo se l’AZA venivaconfrontata con BSC e, in particolare, con LDAC

(94), ma non con il gruppo di controllo sottopo-sto a chemioterapia (CT) intensiva, dove il nume-ro di pazienti trattati era verosimilmente troppo pic-colo per permettere un adeguato confronto. Nello specifico, per i pazienti randomizzati conAZA, contro BSC, la OS mediana è stata rispet-tivamente di 21,1 mesi contro 11,5 mesi(p=0,0045); per i pazienti randomizzati ad AZAcontro LDAC, la sopravvivenza è stata di 24,5mesi rispetto a 15,3 mesi (p=0,0006), mentre peri pazienti randomizzati ad AZA rispetto alla CTintensiva il confronto di sopravvivenza non hamostrato alcun beneficio per AZA, pur in presen-za di un trend favorevole all’agente ipometilante(24,5 mesi contro15,7 mesi, p=0,51).Sulla base di questi dati anche l’EMA ha appro-vato l’uso di AZA, limitatamente ai pazienti arischio IPSS intermedio-2 o alto, ivi compreseLMA con blasti midollari dal 20% al 30% (AREB-t della classificazione FAB) e la leucemia mielo-monocitica cronica non proliferativa, con meno del30% di blasti midollari.Nell’ambito di un trattamento con AZA in pazien-ti con SMD ad alto rischio, sono stati identificatialcuni fattori predittivi negativi (precedente som-ministrazione di LDAC, elevata quota blasticamidollare o periferica, cariotipo sfavorevole, scar-so performance status e rilevante fabbisogno tra-sfusionale), in grado di definire uno score progno-stico (95). Analogamente, i livelli di LDH e unrischio WPSS elevato (96), come pure la rispostapiastrinica dopo il primo ciclo (97) ed alcuni para-metri molecolari, in particolare lo stato mutazio-nale di TET2 (98) e il riscontro di miR-29b (99),sono risultati in grado di individuare sottogruppidi pazienti con differenti possibilità di risposta edi outcome clinico.

Azacitidina nei pazienti a basso rischioUn trattamento con AZA può rappresentare unaopzione terapeutica anche per pazienti mielodi-splastici a basso rischio (41, 43, 100). In uno studio statunitense multicentrico, rando-mizzato, in aperto, condotto per valutare le rispo-ste ematologiche a 3 differenti dosaggi di AZAsomministrata s.c. a 151 pazienti con SMD, 95(63%) presentavano una malattia a basso rischioin base alla classificazione FAB (101). Tre le sche-dule utilizzate:

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a) 75 mg/m2/die sc per 5 giorni, seguita da 2 gior-ni di interruzione nel week-end e poi nuova-mente da 75 mg/m2/die sc per altri 2 giorni (5-2-2);

b) 50 mg/m2/die sc per 5 giorni, seguita da 2 gior-ni di interruzione nel week-end, e poi da 50mg/m2/die sc per altri 5 giorni (5-2-5);

c) 75 mg/m2/die sc per 5 giorni.Tutti e tre gli schemi posologici inducevano unarisposta nel 50-75% dei pazienti con SMD a minorrischio entro 6 cicli di trattamento, consentendodi ottenere un miglioramento ematologico e/o l’in-dipendenza trasfusionale; il dosaggio di 75mg/m2/die sc per 5 giorni risultava essere quel-lo meglio tollerato.Nel già citato studio CALGB 9221 (90), 27 dei 191pazienti arruolati erano affetti da SMD a bassorischio. Anche in questo gruppo di pazienti il trat-tamento con AZA ha dimostrato una significati-va superiorità nei confronti della sola terapia disupporto, consentendo di ottenere percentuali dirisposta più elevate, di migliorare la qualità dellavita, di ridurre il rischio di trasformazione leuce-mica, e di migliorare la sopravvivenza rispetto allasola terapia di supporto.Un piccolo studio di fase II (102) ha utilizzato AZA75 mg/m2 in infusione venosa giornaliera di 20minuti per 5 giorni ogni 28 in pazienti con vari sot-totipi di SMD, ottenendo risultati comparabili nei9 pazienti con SMD a basso rischio e nei 19 conforme a rischio più elevato. Analogamente, una risposta globale del 43% èstata ottenuta in 14 pazienti anemici con menodel 10% di blasti midollari, trattati con AZA alladose di 50 mg/m2 tre volte a settimana per 2 set-timane al mese (103).Uno studio prospettico multicentrico italiano di faseII ha utilizzato AZA alla dose standard di 75mg/m2/die sc per 5 giorni ogni 4 settimane in 34pazienti con SMD a basso rischio e anemia tra-sfusione-dipendente, non responsivi a r-Hu-EPOo con grave trombocitopenia o neutropenia (104).Lo schema ha ottenuto una risposta globale del58% e una RC nel 19% dei casi. Alcuni pazientihanno mantenuto una risposta durevole anchedopo la sospensione della terapia. Sono stati tut-tavia osservati alcuni eventi avversi rilevanti inpazienti molto anziani, con più comorbidità o conneutropenia e/o trombocitopenia severe.

Uno studio multicentrico italiano (105) ha riporta-to i dati relativi a una analisi retrospettiva in 74pazienti con SMD a rischio IPSS basso o interme-dio-1, arruolati da 22 centri italiani in un program-ma di trattamento per uso nominale. L’AZA è sta-ta utilizzata per via sottocutanea a dosaggi varia-bili di 75 mg/m2 o 100 mg a dose fissa per 5, 7 o10 giorni al mese. Con un follow-up mediano di15 mesi e una mediana di 7 cicli effettuati, la rispo-sta globale è stata del 46% (51% nei pazienti trat-tati con almeno 4 cicli) e la sopravvivenza 71%(96% nei pazienti responsivi). I risultati migliori sonostati ottenuti nei pazienti trattati frontline, non tra-sfusione-dipendenti ed in quelli che non sospen-devano il trattamento dopo la risposta. Non sonostate osservate differenze sostanziali in relazionealle diverse schedule utilizzate.Un gruppo spagnolo (106) ha effettuato un’ana-lisi preliminare sui dati di 90 pazienti con SMD arischio IPSS basso o intermedio-1 raccolti nel cor-so di uno studio compassionevole retrospettivomulticentrico del registro nazionale e condotto conAZA per un numero mediano di 6 cicli secondo3 possibili regimi terapeutici:a) 75 mg/m2/die sc per 5 giorni;b) 75 mg/m2/die sc per 5 giorni, seguita da 2 gior-

ni di interruzione (week end) e successivi 75mg/m2/die sc per altri 2 giorni;

c) 75 mg/m2/die sc per 7 giorni.Con un follow-up mediano di 17 mesi, è stata ripor-tata una risposta globale del 61%, con il 21% diRC. La risposta e la sopravvivenza ad un anno sonorisultate comparabili fra i 3 gruppi di trattamento.La tollerabilità del farmaco si è dimostrata in lineacon il relativo profilo già noto del prodotto. Risultati sostanzialmente analoghi sono statiriportati in 228 pazienti affetti da SMD a rischiobasso o intermedio-1 (il 69% dei pazienti di età≥75 anni) inseriti nel registro VIDAZA (azacitidinepatient registry), uno studio osservazionale, di tipoprospettico e multicentrico, che si propone di rac-cogliere i dati della pratica clinica nella storia natu-rale delle SMD trattate con AZA con varie sche-dule e dosaggi, sia per via sottocutanea che endo-venosa (107). Sulla base di questi dati, le linee guida SIE, SIESe GITMO attualmente suggeriscono di conside-rare un trattamento con AZA anche in pazienti arischio IPSS basso o intermedio-1 severamente

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citopenici e sintomatici, non eleggibili per terapiecon ESA, lenalidomide o immunosoppressori eche presentino una quota blastica midollare >5%e/o un cariotipo sfavorevole (43). Attualmente,però, l’AZA non è approvata dall’EMA nelle SMDa basso rischio.

DecitabinaLa DEC ha avuto uno sviluppo parallelo a quellodell’AZA negli Stati Uniti (108). Un’analisi cumulativa di tre studi europei ed unoamericano di fase II ha valutato l’efficacia di bas-se dosi di DEC in 177 pazienti con SMD, con etàmedia di 70 anni (109). La risposta globale è sta-ta del 49% (24% di RC, 10% remissione parzia-le, 15% miglioramento ematologico), con un 20%aggiuntivo di stabilizzazione della malattia. Ladurata mediana della risposta era 36 settimane,la sopravvivenza mediana 15 mesi, con il 31%dei pazienti vivi a 2 anni. La mortalità da tratta-mento raggiungeva il 7%. Nel periodo di terapiail 18% dei pazienti manifestava una trasforma-zione leucemica. Livelli elevati di LDH ed un’età >75 anni correla-vano con una minore sopravvivenza. Il trattamen-to migliorava la sopravvivenza nei pazienti arischio più elevato, in particolare in quelli concariotipo sfavorevole, rispetto all’outcome atte-so in base al rischio IPSS. La tossicità risultavaaccettabile. La DEC è stata successivamente approvata dal-la FDA sulla base di uno studio randomizzato difase III verso BSC che ha utilizzato 15 mg/m2 pervia endovenosa nell’arco di 3 ore, ogni 8 ore per3 giorni, ripetuta ogni 6 settimane (110). Questoschema, somministrato per una mediana di 3cicli, ha mostrato un tasso di RC del 9% ed unaquota di risposte globali pari al 30%, con un tem-po mediano alla risposta di 3,3 mesi ed una dura-ta di 10,3 mesi. La risposta migliore si ottenevageneralmente dopo 2 cicli. I pazienti trattati conDEC manifestavano una migliore qualità di vita,una significativa riduzione del fabbisogno trasfu-sionale e un ritardata trasformazione in LMA (12mesi contro 6,8 mesi, p=0,03) rispetto al brac-cio BSC. Non veniva tuttavia osservato un miglio-ramento della OS. Un confronto storico di 115 pazienti con SMD adalto rischio, trattati con CT intensiva LMA-like

comparati con un analogo numero di pazienticase-matched per età, citogenetica e IPSS trat-tati con DEC tra il 1995 e il 2005, ha evidenziatouna probabilità di ottenere la RC simile (46 vs43%) e una mortalità entro tre mesi significativa-mente più elevata nei pazienti sottoposti a CTintensiva (23 vs 7% p<0,001), con conseguentevantaggio, in termini di OS, per i pazienti che ave-vano ricevuto DEC (22 vs 12 mesi, p<0,001) (111). Contestualmente, allo scopo di individuare la doseottimale di DEC e utilizzando metodi statisticibayesiani, i ricercatori del MD Anderson CancerCenter hanno condotto uno studio randomizza-to di fase II con tre differenti schedule, per unadose totale costante di 100 mg ogni 4 settima-ne: 20 mg/m2 e.v. x 5 giorni; 20 mg/m2 s.c. x 5giorni; 10 mg/m2 e.v. x 10 giorni) (112). Dopo unamediana di 7 cicli, lo schema con 5 giorni di DECsomministrata quotidianamente alla dose di 20mg/m2 ha dimostrato di essere superiore alla sche-dula di 10 giorni o alla via sottocutanea (CR 39%vs 21-24%). Ad una analisi multivariata, fattori pro-gnostici negativi per il raggiungimento della RCerano rappresentati da una condizione di leuce-mia mielo-monocitica cronica, lunga durata dimalattia e precedenti trattamenti, laddove influi-vano negativamente sulla OS la presenza di ano-malie dei cromosomi 5 e/o 7, l’età avanzata e,ancora, una precedente terapia per la SMD (113). Uno studio multicentrico di fase II di DEC(Alternative Dosing for Outpatients Treatment[ADOPT]) condotto su 99 pazienti con SMD uti-lizzando lo schema di 20 mg/m2 e.v. (infusione di1 ora) x 5 giorni ogni 4 settimane, ha conferma-to la sicurezza di questa schedula, anche se i tas-si di risposta sono stati significativamente inferio-ri a quelli riportati dal gruppo del MD Anderson(114). Nello studio ADOPT, il numero medio di ciclisomministrati è stato di cinque, il tasso di RC17%, la risposta globale 51% (includendo il miglio-ramento ematologico) ed il tempo di sopravviven-za 19,4 mesi.Un recente studio randomizzato di fase IIIdell’EORTC ha paragonato la DEC alla BSC in 233pazienti con SMD ad alto rischio (età media 70anni), utilizzando la schedula standard di 3 gior-ni ogni 6 settimane (115). Il tasso di risposta com-plessiva per DEC è stato del 34%. Sebbene sia-no stati osservati in questo studio un prolunga-

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mento della sopravvivenza libera da progressio-ne ed un miglioramento dei parametri di valuta-zione della qualità di vita nel braccio DEC, lasopravvivenza globale (obiettivo principale del trial)è risultata sovrapponibile nei due gruppi (10,1 mesiper DEC contro 8,5 mesi per BSC, p=0,38). Lapercentuale di neutropenia febbrile di grado 3-4risultava più elevata nel braccio DEC (25% vs 7%),mentre le complicanze infettive severe erano com-parabili (57% vs 52%). Una possibile e importan-te limitazione di questo studio era la durata rela-tivamente breve  della terapia somministrata. Ilnumero mediano di cicli per paziente era infattidi soli quattro e il 40% aveva ricevuto 1-2 cicli.Un trial comparativo di AZA contro DEC è statorecentemente attivato. Ad oggi, la DEC non èapprovata dall’EMA.

Strategie per massimizzare i benefici degli agenti ipometilantiDue metanalisi hanno recentemente conferma-to l’efficacia degli agenti ipometilanti nell’indur-re risposte significative nelle SMD ad alto rischio(116, 117): solo AZA ha però dimostrato un van-taggio significativo in termini di sopravvivenza edi riduzione del rischio leucemico, almeno neiconfronti della BSC e del trattamento con LDAC,mentre DEC è risultata maggiormente tossica. Gliipometilanti hanno anche evidenziato un impat-to positivo nei pazienti con alterazioni dei cromo-somi 5 e 7 (118). Critica, per il successo sia diAZA che di DEC, è l’applicazione di cicli ripetu-ti di terapia e, di conseguenza, la selezione deipazienti idonei che sono disposti e in grado disottoporsi a terapia prolungata. L’aspettativa delpaziente (e del medico) di risposta immediata del-la malattia e la delusione per la mancanza dellastessa, è probabilmente un fattore importante nelgenerare la stanchezza da trattamento, che è unproblema ben noto in tutte le terapie croniche(soprattutto in quelle con tossicità significativa,come AZA o DEC). Ciò ha un impatto negativosul successo terapeutico. Così, una adeguatainformazione pre-trattamento ai pazienti dovreb-be descrivere non solo la risposta e/o il benefi-cio di sopravvivenza, ma anche l’andamento tem-porale della risposta. Comprendere il vantaggiopotenziale del trattamento di questi agenti anchesenza raggiungere la RC (lo scenario più proba-

bile) è dunque molto importante; questo concet-to, se sufficientemente validato, potrebbe infat-ti modificare uno dei paradigmi consolidati deltrattamento delle emopatie (e in particolare del-le leucemie acute), secondo il quale un miglio-ramento della sopravvivenza non può prescinde-re dall’ottenimento della RC. In considerazione dei dati attualmente disponibi-li, l‘utilizzo di AZA alla dose di 75 mg/m2 per viasottocutanea per 7 giorni, ogni 4 settimane, rap-presenta la schedula più appropriata nei pazien-ti con malattia ad alto rischio. In considerazionedella provata efficacia sulla sopravvivenza globa-le, di una minore tossicità e di una più agevolemodalità di somministrazione, l’AZA è da consi-derarsi preferibile alla DEC (43). La somministra-zione endovenosa di AZA è anch’essa approva-ta dalla FDA e ha biodisponibilità paragonabile.Lo schema di 7 giorni ogni 4 settimane è fattibi-le; nello studio AZA-001 solo il 14% dei pazien-ti ha necessitato di una riduzione della dose, el’80% dei cicli è stato effettuato a distanza di 4o 5 settimane, senza uso del G-CSF in profilas-si. I pazienti trattati con AZA non evidenziano tas-si di infezione o emorragie significativamente piùelevati rispetto ai gruppi di terapia di supporto oa basso dosaggio, un dato, questo, importantee che conferisce particolare rilevanza alla tollera-bilità e alla efficacia della somministrazione di unaterapia potenzialmente citotossica, specialmen-te in pazienti anziani, nei quali, come riportato inprecedenza, è stato confermato il vantaggio disopravvivenza. Sebbene siano stati segnalati tassi di risposta simi-li a quelli osservati nello studio AZA-001 utilizzan-do schemi e dosaggi differenti (101), per nessu-na di queste schedule è stato ad oggi riportato unmiglioramento della sopravvivenza. L’utilizzo di 100mg a dose fissa per via sottocutanea per 5-7 gior-ni ogni 4 settimane potrebbe rappresentare unaalternativa ragionevole ed efficace per pazienti conmalattia a basso rischio (105), ma questo approc-cio necessita di ulteriori conferme. Uno studioretrospettivo di registro spagnolo sull’utilizzo di AZAnella pratica quotidiana in 144 pazienti ha peral-tro dimostrato che la fedeltà del programma di 7giorni con AZA può essere associata ad  unamigliore risposta rispetto uno schema di 5 giorni(RC 22% vs 12%, ORR (overall response rate) 74%

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vs 58%) (119). Singole esperienze sembrerebbe-ro confermare tale dato (120).Una recente re-analisi dello studio AZA-001(121) ha evidenziato, per i pazienti che risponde-vano al farmaco, che il numero medio di cicli perottenere una prima risposta era di due, che ilnumero medio di cicli per ottenere la miglior rispo-sta era di quattro e che quasi il 90% dei pazien-ti otteneva una risposta al sesto ciclo. Inoltre, laqualità della risposta stessa migliorava, prose-guendo il trattamento con una media di 3 cicliaddizionali, nel 48% dei pazienti. Ancora, il 14%dei pazienti senza risposta obiettiva dopo sei cicli(ma con malattia stabile), otteneva un successi-vo miglioramento ematologico a partire dal nonociclo. Globalmente, il 92% dei pazienti raggiun-geva il miglior risultato dopo 12 cicli di terapia(Figura 5). Anche l’analisi degli studi CALGB ha evidenzia-to come la prima risposta ad AZA avvenga dopouna media di 3-4 cicli. In particolare, lo studio 9221

(90) ha mostrato che il 90% delle risposte è otte-nuto nei primi 6 cicli di trattamento e che la miglio-re risposta generalmente si verifica 2 cicli dopola prima risposta.Questi dati suggeriscono che, sebbene alcunidegli effetti positivi dell’AZA si manifestino pre-cocemente, sono necessari eventi aggiuntivi perottenere la migliore risposta. Pertanto, continua-re la terapia è verosimilmente la miglior opzioneper ottimizzare i benefici del trattamento con AZA,fino a che questo è tollerato e se non ci sono evi-denze di una progressione della malattia. I tassi di RC, sia con AZA che con DEC, sono rela-tivamente bassi in confronto con i programmi diinduzione LAM-like. Questo minor tasso di RC èbilanciato da una ridotta mortalità, in genere infe-riore al 5% nelle prime 6-8 settimane di trattamen-to, contribuendo, almeno parzialmente, al bene-ficio, in termini di sopravvivenza, osservato conquesti agenti nelle SMD. C’è inoltre da conside-rare che, come già ricordato, un allungamento del-

CR+PR+HI1.0

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0 3 6 9 12 15Tempo (cicli)

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CR+PR+HI1.0

0.9

0.8

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0 3 6 9 12 15 18 21 24Tempo (cicli)

A

FIGURA 5 - (a) Numero di ciclinecessari per l’ottenimento della pri-ma risposta in pazienti trattati conAZA e responsivi (CR = risposta com-pleta; PR = risposta parziale, HI =miglioramento ematologico). (b) Numero di cicli necessari per otte-nere il miglior risultato dopo la primarisposta ad AZA. La linea verticalesull’asse delle y rappresenta il 52%dei pazienti in cui la risposta inizialeè rimasta la migliore. Il rimanente48% dei pazienti ha mostrato unmiglioramento da ME a RP o RC rice-vendo fino a 11 cicli aggiuntivi (121).

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la sopravvivenza rispetto a terapie alternative èstato associato anche a risposte parziali o al sem-plice miglioramento ematologico (caratterizzatodal raggiungimento della indipendenza da trasfu-sioni di emazie e/o incremento della conta pia-strinica) (92). Questo sembrerebbe confermare cheil raggiungimento della RC non è essenziale perottenere un beneficio clinico; in realtà gli agentiipometilanti, e in particolare l’AZA, agirebbero suldifferenziamento del clone displastico, senzanecessariamente eradicarlo (122). È, d’altra par-te esperienza comune che una volta che il trat-tamento con un agente ipometilante è interrotto,la maggior parte dei pazienti perde  rapidamen-te la risposta. Le possibili spiegazioni del peculiare pattern dirisposta osservato in corso di trattamento conAZA possono dunque essere legate alla sua azio-ne di modulatore sul clone displastico. Gli effet-ti, citotossico e ipometilante, della AZA dipendo-no dalla incorporazione del suo metabolita nel-le neo-sintetizzate catene di RNA e DNA. Sonoin realtà necessari molti cicli cellulari affinché siabbia la incorporazione del metabolita e quindiuna alterazione nell’espressione genica. Studi difarmacocinetica ne hanno dimostrato una ridot-ta emivita nel plasma e ciò rende difficile spie-gare come una rapida ipometilazione possa avve-nire nelle popolazioni cellulari dove poche cellu-le sono in fase S. Tuttavia, la risposta clinica allaAZA in pazienti con SMD correla con misure far-macocinetiche dell’esposizione al farmaco e laipometilazione indotta da AZA (123). Inoltre, dopoil primo ciclo di trattamento, è stata documen-tata una eterogenea metilazione di alleli in cellu-le midollari e una incompleta demetilazione inpazienti che rispondono alla terapia. Questaosservazione suggerisce che l’ipometilazioneindotta da AZA avviene progressivamente nel clo-ne displastico e che la massima demetilazionesi ottiene dopo molte esposizioni al farmaco. Setuttavia il trattamento con AZA è sospeso, riap-pare un aberrante metilazione del promotore chereinduce il silenziamento genico. Tutto ciò con-ferma che una esposizione prolungata al farma-co è una condizione necessaria per il manteni-mento della inibizione della metilazione del DNA(124). Quindi, un trattamento continuativo fino aprogressione o tossicità inaccettabile, è utile e

necessario sia per gli effetti iniziali, che per il suc-cessivo miglioramento della qualità e della dura-ta della risposta; questo concetto è valido inpazienti che raggiungono la RC, così come inquelli che ottengono una risposta di minore qua-lità (Figura 6). Per i pazienti senza risposta (macon malattia stabile) dopo almeno sei cicli, la pro-secuzione del trattamento dovrebbe esserecomunque individualizzata.Il regime ottimale da utilizzare con la DEC, in con-siderazione dell’efficacia dimostrata e della fat-tibilità pratica, è rappresentato dai 20 mg/m2 aldì, somministrati per via endovenosa nell’arco di1-3 ore, per 5 giorni ogni 4-6 settimane. Nellostudio ADOPT (114), il 68% dei cicli che hannoutilizzato questa schedula è stato somministra-to nei tempi previsti, con un ritardo massimo di8 giorni. Tra i pazienti che avevano avuto miglioramenti,l’82% ha mostrato la prima risposta entro la finedel ciclo 2, e la maggior parte dei pazientiresponsivi ha avuto anche la migliore rispostanello stesso periodo di tempo, tempi apparen-temente più rapidi, quindi, rispetto ad AZA. DECpotrebbe quindi potenzialmente essere più effi-cace in pazienti ipercitosici e con elevato nume-ro di blasti. Per le considerazioni già espresse, anche per laDEC il mantenimento della risposta con la tera-pia continuativa rappresenta verosimilmente l’op-zione migliore, in assenza di tossicità inaccetta-bile o evidenza di progressione della malattia. Le tossicità ematologiche sono comuni adentrambi gli agenti ipometilanti e si manifestanopiù frequentemente nei primi 2 cicli di terapia, ten-dendo ad attenuarsi e ad essere meno frequen-te in quelli successivi. Infezioni si sono verificatein circa il 50% dei pazienti trattati con AZA nellostudio AZA-001 (vs 41% nel gruppo BSC) e dal58% al 61% dei pazienti ha avuto trombocitope-nia e/o neutropenia di grado 3/4. La mielosoppres-sione sembra essere più rilevante con DEC, piut-tosto che con AZA, associandosi ad un tasso lie-vemente più elevato di neutropenia febbrile (10%dei ricoverati in ospedale durante il ciclo 1 inADOPT; il 77% aveva neutropenia di grado 4 e il28% aveva neutropenia febbrile in fase di regi-strazione). Viene raccomandato generalmente unmonitoraggio almeno settimanale (o, comunque,

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secondo indicazione clinica) dell’emocromo nel-le prime 8-12 settimane di trattamento, poi a inter-valli di almeno 2 settimane. Da considerare unavalutazione periodica di midollo osseo e carioti-po, in particolare dopo i primi 6 cicli o, comun-que, in presenza di segni di possibile progressio-ne di malattia. La tossicità ematologica può essere gestita pre-feribilmente ritardando il ciclo successivo, piut-tosto che ricorrendo ad una riduzione di dose.Modificare la dose o prolungare di 1-2 settima-ne gli intervalli fra i cicli può tuttavia ridurre l’ef-ficacia del trattamento; pertanto, specie neipazienti inizialmente citopenici, con elevata quo-ta blastica e cariotipo complesso, questo approc-cio non è in genere raccomandato nei primi trecicli di terapia, anche in caso di citopenia seve-ra, se non in presenza di gravi complicanze o disepsi (125, 126). Per quanto concerne in parti-colare l’AZA, una riduzione di dose del 50% (efino a un terzo, in caso di ridotta cellularità midol-

lare) viene in ogni caso suggerita in pazienti cito-penici ad inizio terapia, nei quali il recupero midol-lare sia superiore ai 21 giorni o in soggetti noncitopenici all’esordio che sviluppino, in corso ditrattamento, una citopenia severa (neutrofili<1.000 µl e piastrine <50.000 µl), non recupera-ta entro 14 giorni (126). Per mantenere l’intensità di dose e massimizza-re il beneficio, occorre quindi attivare un adegua-to trattamento di supporto trasfusionale secon-do linee guida, il monitoraggio stretto della cra-si ematica ed, eventualmente, una profilassi anti-biotica e antifungina secondaria in caso di epi-sodi infettivi precedenti. Non è ad oggi dimostra-to un reale beneficio dell’uso del G-CSF in asso-ciazione con agenti ipometilanti in pazienti neu-tropenici con SMD. In base al disegno del trial,il G-CSF non è stato utilizzato nello studio CALGB9221 con AZA, mentre è stato consentito in AZA-001 solo in caso di infezione severa, ma non perprofilassi. Cionondimeno, è stato possibile som-

FIGURA 6 - Il vantaggio di sopravvivenza in pazienti con SMD ad alto rischio trattati con AZA è indipendente dal tipo di rispostaottenuta (RC = risposta completa; RP = risposta parziale, ME = miglioramento ematologico; MS = malattia stabile; MP = malattiain progressione) (92).

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ministrare l’AZA alla dose ai tempi stabiliti nellamaggior parte dei casi e il rischio di infezione nonè risultato sostanzialmente diverso dal braccioBSC. L’uso di G-CSF trova comunque indicazio-ne in caso di neutropenia febbrile, specie se que-sta è correlata all’utilizzo del farmaco (ad esem-pio, se il numero di neutrofili era più alto nel pre-ciclo).Va infine ricordato che l’utilizzo di agenti ipome-tilanti non è, in assoluto, controindicato in pazien-ti con insufficienza renale (127).La tabella 3 sintetizza i principali aspetti pratici del-l’uso di AZA e DEC nelle SMD.

Problemi apertiL’uso dei farmaci demetilanti ha certamente aper-to prospettive nuove per il trattamento delle SMD,ma sono numerosi gli aspetti di rilevanza clinicasui quali non sono ancora disponibili dati defini-tivi. Non è ancora chiaro, ad esempio, se i pazienti piùgiovani o comunque fit, con una conta di blastimidollari elevata, in particolare quelli che hanno unapossibilità immediata di trapianto allogenico epazienti con cariotipo sfavorevole (probabilmen-te più sensibili all’uso di AZA), debbano ricevereuna terapia di induzione con agenti ipometilanti,

TABELLA 3 - Gestione del trattamento con agenti ipometilanti nelle SMD.

Azacitidina:• Indicazioni: terapia di prima linea in pazienti a rischio IPSS intermedio-2 o alto, specialmente se citopenici e sintomati-

ci, non eleggibili per un trapianto allogenico o con donatore non immediatamente disponibile. Preferibile rispetto a DECe da utilizzare anche in soggetti anziani, eventualmente escludendo solo pazienti “very frail”. Da considerare anche inpazienti a rischio basso o intermedio-1, non candidati per altre terapie, che necessitano di trattamento per citopeniesevere sintomatiche e presentino fattori prognostici negativi (attualmente no indicazione EMA per basso rischio).

• Dosi: 75 mg al di s.c x 7 giorni (consecutivi o secondo schedula 5-2-2) al mese per i pazienti ad alto rischio; nei pazien-ti a basso rischio si sono dimostrate efficaci anche dosi di 75 mg/m2 per 5 giorni o 100 mg a dose fissa x 5-7 giorni.

• Target terapeutico ottimale: trasfusione indipendenza e miglioramento ematologico, ottenibile nel 40-50% dei pazientitrattati. La qualità della risposta può migliorare con il procedere del trattamento.

• Durata della risposta: 15-18 mesi, con riduzione del rischio di trasformazione leucemica e incremento della sopravviven-za (in genere superiore ai 2 anni).

• Durata del trattamento: inizialmente almeno 6 cicli; se la terapia è efficace e/o tollerata, trattamento continuativo fino aprogressione, anche in caso di malattia stabile.

• Monitoraggio: controllo emocromo almeno settimanale nelle prime 8-12 settimane di trattamento, poi a intervalli di 2settimane. Utile valutazione periodica midollo osseo e cariotipo, in particolare dopo i primi 6 cicli o, comunque, in pre-senza di segni di possibile progressione di malattia.

• Precauzioni: non raccomandati una riduzione della dose o l’allungamento degli intervalli fra i cicli in presenza di un peg-gioramento iniziale di citopenie pre-esistenti durante i primi 3 cicli, se non in caso di neutropenia febbrile o di sepsi docu-mentata. Una riduzione di dose va comunque presa in considerazione in pazienti citopenici e con midollo ipocellularead inizio terapia o in soggetti non citopenici all’esordio che sviluppino, in corso di trattamento, una citopenia severa, neiquali il recupero midollare sia tardivo. Eventuali citopenie vanno trattate con terapia di supporto standard e adeguataprofilassi; se necessario, può essere utilizzato il G-CSF.

Decitabina:• Indicazioni: pazienti a rischio IPSS intermedio-2 o alto, non eleggibili per un trapianto allogenico o con donatore non

immediatamente disponibile. Di seconda scelta rispetto ad AZA, probabilmente preferibile ad AZA nella leucemia mie-lo-monocitica cronica e nei pazienti con elevata quota blastica.

• Dosi: 20 mg al di e.v, infusione di 1 ora x 5 giorni ogni 4-6-settimane. • Target terapeutico ottimale: trasfusione indipendenza e miglioramento ematologico ottenibile in circa il 40-50% dei pazien-

ti trattati. Ottenimento della risposta probabilmente più rapido rispetto ad AZA.• Durata della risposta: circa 1 anno, con una sopravvivenza attesa di 10-20 mesi.• Durata del trattamento: inizialmente almeno 4 cicli; se terapia efficace e/o tollerata trattamento continuativo fino a pro-

gressione. • Principali tossicita: tossicità ematologica, più elevata rispetto ad AZA.• Monitoraggio: come per azacitidina.

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piuttosto che una CT LAM-like (128). Solo uno stu-dio randomizzato head-to-head fra AZA o DEC vsCT intensiva potrà chiarire questo aspetto.Altrettanto importante sarà verificare il ruolo degliipometilanti, e in particolare della AZA, come trat-tamento di mantenimento in pazienti che abbia-no effettuato in precedenza CT intensiva e/o untrapianto allogenico, ottenendo la RC di malattia(129, 130).L’efficacia degli ipometilanti è anche in corso diulteriore valutazione in condizioni di displasie tran-sizionali ad impronta mieloproliferativa, come la leu-cemia mielo-monocitica cronica (131). Molto inte-ressanti, sul piano pratico, i dati recentemente pub-blicati sull’uso dell’AZA orale, il cui uso migliore-rebbe sostanzialmente la compliance del pazien-te e, verosimilmente, anche quella del medico(132). Sono altresì in fase di verifica alcune com-binazioni potenzialmente sinergiche con altri far-maci, che potrebbero in futuro aprire interessan-ti e innovative prospettive terapeutiche (63, 133-135). Infine, resta aperto il problema del trattamen-to dei pazienti che abbiano perso la risposta adagenti ipometilanti (136).

n CONCLUSIONI

La disponibilità e l’utilizzo di nuovi farmaci (in par-ticolare lenalidomide e azacitidina) e le conoscen-ze relative all’uso ottimale dei fattori di crescita,hanno rappresentato, negli ultimi anni, esempisignificativi dei progressi ottenuti nell’ambito di trat-tamenti continuativi dimostratisi utili nei pazienticon SMD, per la maggior parte dei quali il sup-porto trasfusionale, pur restando un cardineterapeutico, non costituisce ormai più la solaopzione disponibile (137). Lo scenario delle tera-pie a lungo termine per questi pazienti si arricchi-sce inoltre progressivamente di nuovi possibilistandard terapeutici. Sarà, ad esempio, molto inte-ressante conoscere i risultati definitivi degli studiin corso riguardanti l’impatto sulla sopravvivenzae sull’efficacia terapeutica dell’uso della terapia fer-rochelante orale nei pazienti con sovraccarico mar-ziale trasfusionale. Esistono infatti, in proposito,dati retrospettivi in popolazioni selezionate, anchein termini di possibili effetti positivi sull’emopoie-si, che necessitano tuttavia di validazione prospet-

tica. Analogamente, sarà importante definire l’ef-ficacia di terapie immunosoppressive innovative,anch’esse dimostratesi assai promettenti.Ovviamente, in tempi di grande scarsità di risor-se, l’intero approccio con trattamenti prolungatiin pazienti affetti da SMD non potrà assolutamen-te fare a meno di realistiche valutazioni costo-beneficio, che dovranno ragionevolmente guida-re le relative indicazioni nella pratica clinica sullabase di dati di reale e concreta efficacia terapeu-tica (138).

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n INTRODUZIONE

La leucemia mieloide acuta (LAM) è una patolo-gia caratterizzata da una marcata eterogeneitàbiologica e clinica che giustifica le diverse rispo-ste alla terapia e le differenti durate della soprav-vivenza (1). Negli ultimi anni, oltre ai più consoli-dati fattori prognostici come età, citogenetica, per-formance status, sono state identificate numero-se mutazioni di geni quali FLT3, c-Kit, NPM1, CEP-BA, MLL, RAS (2) che hanno contribuito a crea-re uno score prognostico citogenetico-molecola-re (Tabella 1) e quindi a diversificare le strategieterapeutiche. Gli endpoints più importanti e indiscussi nei pro-grammi terapeutici delle LAM sono: a) ottenimento della remissione completa (RC);b) migliore outcome definito dalla sopravviven-za libera da malattia (DFS) e dalla sopravviven-za globale (OS).

A tutt’oggi quindi la terapia delle LAM è essenzial-mente basata sulla massima terapia di induzionetollerata per ottenere la RC e sulla ottimizzazione

della terapia post-remissionale per evitare oalmeno ritardare la recidiva. La letteratura è oggiconcorde nel riportare che circa il 70% dei giova-ni e il 50% dei pazienti anziani fit ottiene la RC,ma che solo una proporzione di questi pazientimantiene una RC continua con le correnti strate-gie terapeutiche post-remissione (terapie ad altedosi, procedure trapiantologiche).Rimane, quindi, a tutt’oggi aperta la sfida per indi-viduare le terapie post-remissionali efficaci e tol-lerabili per tutti i pazienti affetti da LAM.La scelta della terapia post-remissionale varia inrapporto soprattutto all’età del paziente, alle carat-teristiche biologiche del clone leucemico e alle

Leucemia Leucemia mieloide acutamieloide acutaDOMENICO PASTORE, MARIO DELIA, GIORGINA SPECCHIAEmatologia con Trapianto, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”,Azienda Ospedaliero-Universitaria, Policlinico di Bari

Parole chiave: leucemia acuta mieloide, terapia di man-tenimento, agenti ipometilanti, immunoterapia.

Indirizzo per la corrispondenza

Prof.ssa Giorgina SpecchiaEmatologia con TrapiantoAzienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico BariPiazza G. Cesare, 11 - 70124 BariE-mail: [email protected]

Giorgina Specchia

TABELLA 1 - Rischio citogenetico/molecolare.

Rischio Pattern

Alto Cariotipo complesso-7/7q; -5/5qt(11q21-23)/MLL; ampl MLL; CALM/AF10Inv(3)/t(3;3)t(6;9)t(9;22)t(8; 16); inv(8)Cariotipo normale/FLT3+

Medio +(8) isolatot(9;11)Cariotipo normale

Basso Inv(16)/t(16;16); CBFB/MYH11t(8;21); AML1/ETOCariotipo normale/NPM+/FLT3-Cariotipo normale/CEPBA+

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68 Seminari di Ematologia Oncologica

condizioni cliniche dei pazienti in RC (comorbili-tà all’esordio, esiti di tossicità d’organo della tera-pia di induzione, compliance, ecc.).Nei pazienti di età inferiore a 60 anni, le moder-ne strategie di trattamento della LAM in RC dopoterapia di induzione comprendono uno o più ciclidi consolidamento seguiti dal trapianto autologoo allogenico di cellule staminali emopoietiche inrapporto sempre alle caratteristiche cliniche e bio-logiche del paziente (1-5).Nei pazienti di età superiore a 60 anni l’approc-cio terapeutico ottimale dopo il raggiungimentodella RC è tutt’ora oggetto di discussione; que-sta popolazione molto eterogenea costituisce cir-ca i 2/3 dei pazienti affetti da LAM (6, 7) ed hauna prognosi significativamente peggiore rispet-to ai giovani con un OS rate a 5 anni non supe-riore al 10-15% (2, 3). Una delle cause più frequen-ti di tale insuccesso è il fatto che per fattori clini-ci i pazienti anziani non sempre possono riceve-re terapie intensive post-remissionali e, a volte,vengono avviati a procedure terapeutiche defini-te di mantenimento non sempre codificate e, qua-si sempre, adattate al singolo paziente e al di fuo-ri di trials clinici. È riportato in letteratura che mentre la terapia dimantenimento ha determinato importantissimirisultati sull’outcome dei pazienti con leucemiaacuta promielocitica grazie soprattutto all’acidoretinoico (8, 9), questo dato purtroppo non è altret-tanto valido nelle altre LAM (4).Lo scopo della terapia di mantenimento dovreb-be essere quello di ridurre e/o controllare la malat-tia residua minima, migliorare la qualità dellaremissione e ritardare, ma soprattutto prevenire,la recidiva.Oggi si può considerare applicabile la terapia dimantenimento in alcuni subsets:- pazienti con età maggiore di 60-65 anni per iquali le procedure intensive comprese quelle tra-piantologiche sono controindicate per comor-bidità, performance status ecc. (2, 3);

- pazienti giovani non eleggibili per procedureintensive trapiantologiche o senza donatorecompatibile familiare, non familiare o cordoneombelicale.

Fino a qualche anno fa la terapia di mantenimen-to nella LAM veniva attuata con farmaci chemio-terapici convenzionali (soprattutto citosina-arabi-

noside) che, sia pure utilizzati a dosaggi inferioririspetto alla terapia di induzione e consolidamen-to, comportavano comunque una notevole mie-lotossicità non ripagata da un aumento della DFS(10-13). Inoltre i progressi del trapianto allogeni-co sull’outcome dei pazienti giovani e di quellianziani selezionati hanno ridotto significativamen-te l’interesse biologico e clinico delle terapie dimantenimento. Negli ultimi anni invece l’introdu-zione di nuove classi di farmaci potenzialmentemeno mielotossici e con svariati meccanismi diazione ha rivitalizzato l’interesse verso le terapieterapie di mantenimento nelle LAM (10, 14).

n MANTENIMENTO CON ARA-C

Il concetto di terapia di mantenimento come tera-pia mielosoppressiva e prolungata nelle LAM èstato introdotto più di 30 anni fa dal CALGB (15);questa terapia di mantenimento prevedeva lasomministrazione di ara-C (200 mg/m2/die EV os.c. per 5 giorni al mese) in associazione con thio-guanina (al 1° mese), ciclofosfamide (al 2° mese),CCNU (al 3° mese) e daunoblastina (al 4° mese);tale terapia di mantenimento veniva effettuata cicli-camente per 4-5 anni anche se in circa il 60% deipazienti neutropenia e piastrinopenia richiedeva-no una riduzione dei dosaggi e/o un ritardo del-la terapia stessa. Tale studio concludeva che lamigliore modalità di somministrazione di ara-C erala via sottocutanea e che questa terapia di man-tenimento era associata ad una migliore duratadella remissione (22 mesi di DFS mediana) esopravvivenza (35 mesi di OS mediana).Successivamente il gruppo tedesco (16) propo-neva, dopo una terapia di induzione con lo sche-ma TAD (thioguanina, ara-C e daunoblastina), unarandomizzazione dei pazienti in RC tra un brac-cio con terapia di mantenimento mensile mielo-soppressiva secondo schema CALGB e uno sen-za alcuna terapia (braccio osservazionale); a 2 annila percentuale di RC era del 30% nel braccio tera-pia di mantenimento e 17% nel braccio osserva-zionale (p=0,003), ma i pazienti non erano strati-ficati per gruppo di rischio citogenetico-moleco-lare.L’esperienza di Mayer (17) del 1994 intesa a con-frontare dosi alte, intermedie e standard di ara-C

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69Leucemia mieloide acuta

riportava una DFS a 4 anni del 44% per i pazien-ti giovani trattati con le alte dosi verso il 24% peri pazienti trattati con dosi convenzionali, mentrenon si osservavano differenze nei pazienti di etàsuperiore a 60 anni; inoltre solo il 30% dei pazien-ti anziani riusciva a completare la terapia con lealte dosi (principalmente per tossicità neurologi-ca). Tale studio quindi metteva in evidenza la scar-sa compliance del paziente anziano ad un approc-cio post-remissionale intensivo a base di ara-C. Sempre per valutare l’impatto della terapia dimantenimento nelle LAM, il gruppo Hovon nellostudio AML-9 (18) ha confrontato, in 489 pazien-ti, 2 regimi di induzioni (daunoblastina e ara-C vsmitoxantrone e ara-C); successivamente i pazien-ti in RC effettuavano un ciclo di consolidamen-to uguale all’induzione e venivano poi randomiz-zati a due programmi post-consolidamento;151 pazienti in RC venivano randomizzati a rice-vere o 8 cicli di ara-C a basse dosi o nessunaterapia; lo studio dimostrava che la terapia dimantenimento con basse dosi di ara-C era supe-riore per la DFS a 5 anni (13% vs 7%), ma nonper la OS (18% vs 15%).Anche il gruppo MRC con lo studio AML-11(19)ha valutato l’impatto della terapia di mantenimen-to in più di 1.400 pazienti con età superiore a 60anni; 371 pazienti in RC venivano randomizzati aricevere una terapia post-remissionale che preve-deva un solo ciclo secondo lo schema DAT (dau-norubicina, ara-C, thioguanina) o a una terapia diconsolidamento-mantenimento con 2 cicli di DATe 2 cicli di COAP (ciclofosfamide, vincristina, ara-C, prednisone); lo studio non riportava nessuna dif-ferenza tra 1 o 4 cicli di terapia post-remissiona-le riguardo a rischio di recidiva, DFS e OS. Sempre per quanto riguarda l'approccio post-remissionale, il lavoro di Stone (20) del CALGB del2001, ha confrontato una terapia post-remissio-nale che utilizzava ara-C a dosi intermedie asso-ciata al mitoxantrone con una terapia post-remis-sionale con ara-C a dosi standard; lo studio, oltrea riportare la maggiore tossicità di ara-C e mito-xantrone, non registrava nessuna differenza sta-tisticamente significativa in termini di EFS e OStra i 2 approcci post-remissionali.Una esperienza del 2003 del Gruppo Cooperativotedesco (21) randomizzava i pazienti in RC (etàmediana 54 anni; range 16-82) ad un ciclo di con-

solidamento intensivo (HAM) o terapia di mante-nimento (con ara-C, daunoblastina, thioguanina,ciclofosfamide) della durata di 3 anni; lo studioriportava una migliore relapse-free survival con laterapia di mantenimento, ma solo nei pazienti adalto rischio per età, cariotipo, LDH o blastosimidollare al 16° giorno di induzione. Nel 2007 lo studio del gruppo francese ALFA (22)ha randomizzato 164 pazienti con età maggioredi 65 anni in RC ad un consolidamento intensi-vo (con daunoblastina o idarubicina associate adara-C) o una terapia ambulatoriale (daunoblasti-na o idarubicina per 1 giorno associata ad ara-C sottocute per 5 giorni) per la durata di 6 mesi;questo studio concludeva per un vantaggio a 2anni in termini di DFS (28% vs 17%) e OS (56%vs 37%) della terapia di mantenimento vs con-solidamento intensivo, ma a 3 anni le curve del-la DFS si sovrapponevano con una percentualesimile di recidive (78% nel braccio consolidamen-to vs 70% nel braccio mantenimento).Pur considerando l’eterogeneità biologico-clinicadei pazienti arruolati e i diversi bias degli studi chehanno valutato il ruolo dei programmi post-remis-sionali a base di ara-C, si rileva soprattutto chenei pazienti di età inferiore a 60 anni tale terapia(diversa per durata e dosaggio da quella storicadel CALGB) ha in qualche caso lievemente miglio-rato la DFS senza modificarne la OS; inoltre, neipazienti anziani tale terapia,quando proponibile esoprattutto quando effettuabile secondo le diver-se schedule, non sembra avere migliorato signi-ficativamente la DFS e la OS.

n NUOVE TERAPIE POST-REMISSIONALI

Negli ultimi anni le nuove conoscenze biologichesulle LAM, e l’introduzione di nuove classi di far-maci (ipometilanti, inibitori delle tirosin-chinasi, ini-bitori dell’angiogenesi, inibitori della farnesil-transferasi, agenti antiapoptotici, inibitori del pro-teosoma, inibitori di mTOR, modulatori della resi-stenza pleiotropica, farmaci immunoterapici) consvariati meccanismi di azione ha risvegliato l’in-teresse per le possibili applicazioni nella terapiadi mantenimento (10, 14) (Tabella 2). La maggiorparte di questi farmaci utilizzati in monoterapia e/o

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70 Seminari di Ematologia Oncologica

in terapie di combinazione nelle LAM in induzio-ne o in recidiva/refrattarie ha dimostrato rispostevariabili, spesso modeste ma pur sempre meri-tevoli di attenzione clinica se si considera la tipo-logia dei pazienti inseriti nei diversi trials.L’interesse è in continua crescita per la evidenzadei peculiari meccanismi d’azione su pathwaysmolecolari coinvolti nella patogenesi delle leuce-mie che potrebbero fare ipotizzare una attività nelcontrollo della malattia residua e quindi un pos-sibile ruolo nella terapia di mantenimento delleLAM.

Agenti ipometilantiUna delle classi di farmaci più interessanti degliultimi anni è sicuramente quella degli inibitori diDNA metil-transferasi (agenti ipometilanti) che agi-scono bloccando i fenomeni di patologica meti-lazione del DNA e ripristinando la trascrizione deigeni silenziati (23-25); il razionale della utilizza-zione di questi farmaci nelle LAM è supportatoda dimostrazioni sperimentali di come nelle LAMci siano dei meccanismi aberranti di silenziamen-to genico (25, 26). Gli inibitori di DNA metil-tran-sferasi più studiati sono 2 analoghi nucleosidici:

l’azacitidina (AZA) e la decitabina (DAC).L’interesse scientifico per queste molecole èdocumentato dall’enorme mole di pubblicazionidegli ultimi anni (27-30); inoltre il successo tera-peutico osservato in patologie come le sindro-mi mielodisplastiche (SMD) a rischio intermedio-alto hanno lasciato intravedere anche una pos-sibile utilizzazione nelle LAM in RC/remissioneparziale (RP) anche per il controllo della malat-tia residua minima. Un recente lavoro prospetti-co di fase II (31) (Tabella 3) ha valutato l’effica-cia e fattibilità di una terapia di mantenimento conazacitidina in pazienti anziani con LAM o SMDad alto rischio con una schedula di 75 mg/m2 per5 giorni ogni 28 giorni; la dose è stata poi ridot-ta a 60 mg/m2/die per una alta incidenza di neu-tropenia di grado IV. Lo studio concludeva cheil trattamento era safe and feasible con una tos-sicità accettabile; il numero esiguo di pazienti (23pts) non consentiva valutazioni circa la durata del-la RC, ma il dato più interessante dal punto divista biologico era la correlazione con lo stato dimetilazione all’esordio di alcuni geni e in parti-colare di CDH1 la cui ipermetilazione era asso-ciata ad una scarsa risposta e ad una ridotta OS.

TABELLA 2 - Nuovi farmaci e meccanismo d’azione.

Farmaco Studio di riferimento Target

DemetilantiAzacitidina Grovdal M. (31) Geni ipermetilati (CDH1)Decitabina Ruter B. (38) Geni ipermetilatiInibitori TKSorafenib SORAML: on going PDGFR; FLT3, c-kitMidostaurina RATIFY: on going RTK; VEGFR, c-kit, PDGFR; FLT3Imatinib CASE-4906: on going PDGFR, c-kit (no D816)Dasatinib AMLSG 11-08: on going PDGFR, c-kit (si D816)Semaxanib NCI-673: on going VEGFR, c-kit; FLT3Inibitori di farnesilazioneTipifarnib Karp JE (72) Farnesiltransferasi inibitoreInibitori di angiogenesiBevacizumab NCI-6384: on going Anticorpo anti VEGFCilengitide NCI-6384: on going Peptidic integrin inibitoreLenalidomide RV-AML 166: on going Inibizione di bFGF e angiogenesi VEGF-correlata

GFM-Chimio-Rev: on goingLENAMAINT: on going

CitochineIL-2 Meloni G. (43) Potenziamento T e NK cells

ELAM02: on goingIL-2+istamina Brune M. (50) Potenziamento T e NK cells

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Un altro recente studio (32) di fase III ha valuta-to l’impatto della azacitidina sulla durata della RCe OS in pazienti con SMD ad alto rischio di cui1/3 potevano essere riclassificate come leuce-mie acute secondo la WHO 2008; i pazienti (etàmediana 70 anni) venivano randomizzati a rice-vere azacitidina (75 mg/m2/die per 7 giorni ogni28 giorni per un totale di 6 cicli) o terapia con-venzionale che includeva terapia di supporto,basse dosi di ARA-C o chemioterapia intensiva.Con un follow-up mediano di 20 mesi la media-na di OS era di 24 mesi (AZA) vs 15 mesi (tera-pia convenzionale) e a 2 anni l’OS rate era del50% (AZA) vs 16% (terapia convenzionale). Lostudio concludeva che l’AZA sembrava prolun-gare la sopravvivenza rispetto alla terapia con-venzionale ed era ben tollerata in pazienti adul-ti con LAM con blastosi midollare tra il 20 e il30%. Di particolare interesse sono 2 pubblica-zioni del gruppo di Houston (33, 34) che utilizzabasse dosi di AZA nei pazienti con LAM o SMDin recidiva dopo trapianto allogenico; questi stu-di suggeriscono che l’AZA possa indurre una nuo-va remissione in pazienti in recidiva dopo allo-trapianto e che la loro somministrazione prolun-gata possa prolungare la EFS e la OS.Recentemente la dimostrazione della biodispo-nibilità e della attività clinica e biologica della for-mulazione orale di AZA (35) lascia intravedere unfuturo di questa molecola nella terapia di man-tenimento delle LAM.Anche la DAC, già utilizzato in monoterapia nel-le SMD e nelle LAM dell’adulto (36-38) è statovalutato come terapia di mantenimento nelle LAM.In una pubblicazione di Lubbert et al. (39), ven-gono riportati 57 pazienti adulti affetti da LAM inRC o RP dopo un terapia con decitabina a dosag-

gio standard (135 mg/m2 per 3 giorni per 4 cicli)che effettuavano una terapia di mantenimento conDAC ad un basso dosaggio (20 mg/m2 die x 3giorni per 4 o più cicli ogni 6-8 settimane) fino arecidiva o progressione. Lo studio concludeva cheil trattamento era fattibile ambulatorialmente, conuna buona tollerabilità e quindi proponibile per unaterapia di mantenimento ma non erano riportatidati di efficacia. Al momento quindi gli agenti ipometilanti sonouna delle categorie di nuovi farmaci che potreb-bero avere un ruolo nella terapia di mantenimen-to dei pazienti con LAM non elegibili per terapieintensive, incluse quelle trapiantologiche (40, 41).Per definirne il ruolo sono auspicabili trials clini-ci che includano pazienti con LAM stratificati pergruppo di rischio clinico-biologico e trattatiomogeneamente per terapia di induzione epost-remissionale.

Immunoterapia e citochineUna delle ipotesi più affascinanti della terapia dimantenimento nelle LAM è sicuramente quelladella immunoterapia con l’utilizzazione di citochi-ne in grado di stimolare il sistema immunitario diun paziente in RC per controllare la malattia resi-dua minima. Gli studi si sono concentrati soprat-tutto sulla interleuchina 2 (IL2) per le sue notecapacità di stimolare le funzioni citotossiche deilinfociti T e delle cellule NK. Un lavoro del 2002(42) dimostrava che in pazienti con LAM in RC erafattibile la somministrazione prolungata di bassedosi di IL2 senza particolari tossicità d’organo econ una buona qualità di vita. Successivamentepoi gli studi randomizzati non sono riusciti a dimo-strare una chiara efficacia della IL2 nella terapiadi mantenimento della LAM in RC. Uno studio di

TABELLA 3 - Studi clinici di terapia post-remissionale con nuovi farmaci.

Farmaco Tipologia paziente Tipo studio Dati di sopravvivenza Autore

IL2+Istamina LAM Randomizzato (320 pz) DFS a 3 anni 40 vs 26% (50)Azacitidina HR SMD + SMD-LAM Prospettico non OS mediana 20 mesi (31)

randomizzato (60 pz)Decitabina SMD Prospettico non OS mediana 27 mesi (38)

randomizzato (22 pz)Tipifarnib LMA a basso rischio Prospettico non DFS a 1 anno 52% (72)

randomizzato (48 pz) DSF a 2 anni 30%

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un gruppo italiano (43) su 32 pazienti dimostra-va un trend di miglioramento della DFS in favo-re della IL2 a basse dosi rispetto al gruppo di con-trollo solo in pazienti in IIRC dopo terapia di sal-vataggio, ma i successivi studi su più ampie casi-stiche non dimostravano un reale vantaggio del-la terapia di mantenimento con IL2. Il CALGB (44), nel 2008 pubblicava uno studio nelquale 163 pazienti affetti da LAM in IRC e con unaetà superiore a 60 anni venivano randomizzati aricevere una terapia di mantenimento con IL2 abasse dosi (0.9 x106/m2 al giorno s.c. a cicli di 14giorni) o nessuna terapia; veniva riportata una tos-sicità importante (65% di piastrinopenia di gra-do IV e 64% di neutropenia di grado IV) e nes-suna differenza statisticamente significativa del-la DFS e della OS tra il gruppo trattato con la IL2ed il gruppo di controllo. In un altro lavoro più recente del 2010 (45), 161pazienti (età superiore a 50 anni) con LAM in RCdopo induzione venivano randomizzati a terapiadi mantenimento con IL2 (5 x106/m2 per 5 gior-ni al mese per 12 cicli) o a sola osservazione. GliAutori concludevano che la terapia di manteni-mento di un anno era portata a termine solo dal27% dei pazienti randomizzati a IL2 e comun-que il mantenimento con IL2 non migliorava laEFS e la OS.Anche la meta-analisi pubblicata da Buyse et al.(46) sulla IL2 come single agent nella terapia dimantenimento della LAM valutando diversi fatto-ri come età, sesso, performance status, carioti-po, tempo dall’ottenimento della RC all’inizio delmantenimento, confermava che da sola l’IL2 nonmodificava la DFS e la OS. Un nuovo impulso alla terapia di mantenimentocon IL2 è stata data da alcuni studi in vitro chehanno dimostrato che il diidrocloruro di istaminasomministrato insieme a IL2, determina una mag-giore citotossicità dei linfociti T e delle cellule NKverso le cellule leucemiche (target cells) (47-49);tale maggiore attività è dovuta al fatto che il dii-drocloruro di istamina, riducendo e/o abolendol’azione inibitoria dei monociti sui linfociti T e cel-lule NK, permetterebbe a queste ultime di produr-re IFN e di essere più responsive all’azione di IL2.Sulla base di tali evidenze, Brune nel 2006 (50)riportava i risultati della terapia di mantenimentocon IL2/istamina diidrocloruro in 320 pazienti (età

mediana 57 anni) in I o II RC; i pazienti venivanorandomizzati a ricevere terapia di mantenimentocon la somministrazione sottocute di IL2/istami-na diidrocloruro a cicli di 21 giorni per 10 cicli onessuna terapia; veniva dimostrato un significa-tivo miglioramento della EFS nei pazienti del brac-cio terapia di mantenimento (a 3 anni, 40% vs26%) con una tossicità accettabile, infatti solol’8% dei pazienti in terapia di mantenimento inter-rompeva il trattamento per tossicità. Ulteriori trialssu casistiche stratificate per gruppi di rischio bio-logico-clinico associati a studi biologici in vivosono necessari per validare il ruolo di IL2/istami-na diidrocloruro nella terapia di mantenimento.

Inibitori delle tirosinchinasiÈ dimostrato che alcune anomalie geniche delletirosinchinasi o dei loro recettori sono coinvolti nel-la leucemogenesi (51). Uno dei recettori tirosin-chinasici più studiato, anche per le implicazioniprognostiche sfavorevoli, è sicuramente FLT3, unrecettore transmembrana espresso in circa il 70-100% delle LAM; nel 25-30% delle LAM, FLT3 sicaratterizza per una mutazione che occorre neldominio juxtamembrana nota come ITD mentrenel 5-10% è invece presente una mutazione del-l’ansa puntiforme (TKD). In entrambe queste muta-zioni viene attivato costitutivamente il recettore cheè in grado di determinare la proliferazione cellu-lare e pertanto si è sostenuta l’ipotesi che FLT3potesse rappresentare un importante targetmolecolare nella terapia delle LAM.In uno dei primi lavori (52) sugli inibitori delle tiro-sinchinasi nelle LAM, si dimostrava che il sema-xanib (SU5416), molecola che inibisce FLT3, c-Kite VEGFR, fosse in grado di determinare RC in unapaziente con LAM in recidiva. Da allora altri inibi-tori di tirosinchinasi sono state sperimentati in cli-nica: PKC412 (midostaurina), CEP701 (lestaurti-nib), MLN518 (tandutinib), BAY439006 (sorafenib).Nella maggior parte degli studi (53-56) questi far-maci somministrati in monoterapia per via oralein pazienti con LAM in recidiva o refrattari sonostati ben tollerati, ma hanno dimostrato rispostecliniche modeste, limitate e transitorie. Altri Autori (57-60) hanno quindi cercato di valu-tare l’impatto degli inibitori di tirosinchinasi quan-do associati ad una chemioterapia standard diinduzione, lasciando intravedere un possibile uti-

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lizzo di questi farmaci nel controllo della malattiaresidua minima (vista la loro accettabile tossicità).Uno dei più interessanti inibitori di tirosinchinasi èsicuramente la midostaurina (PKC412) che oltre allaazione su FLT3 (sia ITD che TKD), mostra una note-vole azione di inibizione su VEGFR, c-Kit ePDGFR-A e B (60, 61); lo studio internazionale incorso del CALGB (62) che ha coinvolto anche ilGIMEMA prevede, in pazienti con LAM con muta-zioni FLT3, la randomizzazione in induzione a mido-staurina o placebo associati allo schema standarddi daunoblastina e ara-C (3+7); successivamentei pazienti in RC proseguono la terapia di mante-nimento per un anno con ara-C associata a mido-staurina o placebo. Al momento ci sono altri 3 studi di fase I/II che valu-tano l’impatto di inibitori di tirosinchinasi come tera-pia di mantenimento nelle LAM; questi studi uti-lizzano l’imatinib (Clinicaltrials.govNCT00509093),il dasatinib (Clinicaltrials.gov NCT00850382) e ilsemaxanib (Clinicaltrials.gov NCT 00005942).Anche il sorafenib (63) un inibitore di tirosinchina-si disponibile in formulazione orale è attivo ver-so FLT3, c-Kit, PDGFR e VEGFR e potrebbe averun ruolo nella terapia di mantenimento delle LAM;uno studio di fase II, randomizzato (64), ha valu-tato il significato sulla EFS e OS dell’aggiunta disorafenib o placebo alla terapia di induzione e poidi una terapia di mantenimento della durata di 1anno con sorafenib; sebbene la tossicità fosseaccettabile sia nella fase di induzione che nelmantenimento, l’aggiunta di sorafenib non deter-minava un miglioramento della EFS e OS rispet-to al controllo.

Inibitori di farnesil-transferasiLa farnesil-tranferasi agisce farnesilando residuiterminali di cisteina di molte proteine tra le qualiRAS e circa il 30% delle LAM hanno delle muta-zioni costitutive di RAS la cui attivazione stimolala proliferazione cellulare (65). Gli inibitori di far-nesiltransferasi bloccherebbero la farnesilazionedi RAS impedendone il trasferimento alla mem-brana cellulare e riducendo la trasduzione disegnali fitogeni (66, 67). Gli inibitori di farnesiltransferasi più studiatisono il lonafarnib (SCH66336) e soprattutto il tipi-farnib (R115777) che avrebbe anche una azioneinibitoria sulla MDR-1 e un sinergismo citotossi-

co con la daunoblastina (68). Alcuni studi han-no valutato l’azione del tipifarnib in pazienti conLAM in recidiva o refrattari; la mielosoppressio-ne era l’evento più frequente e non c’era eviden-za di efficacia superiore rispetto alla terapia con-venzionale (69-71). Uno studio (72), non randomizzato, ha valutatotipifarnib come monoterapia di mantenimento in48 pazienti con LAM ad alto rischio (per età, cito-genetica o diagnosi di LAM secondaria) in RC;al recupero dopo consolidamento tipifarnib veni-va somministrato per via orale alla dose di 400mg volte al giorno per 14 giorni ogni 21 per untotale di 16 cicli; anche in questo studio l’effet-to collaterale maggiore era la mielosoppressio-ne (58%) e solo il 42% dei pazienti concludevai 16 cicli. La durata media della DFS era di 13mesi, significativamente superiore a quella di 23pazienti con caratteristiche simili utilizzati comecontrollo; inoltre il 30% dei pazienti aveva unaDFS superiore a 2 anni e quindi lo studio, sia purenon randomizzato, lasciava intravedere un pos-sibile ruolo di tipifarnib nella terapia di manteni-mento della LAM. Sulla scorta di questa esperienza il gruppoECOG ha avviato un studio randomizzato di faseIII atto a valutare tipifarnib come terapia di man-tenimento in pazienti con LAM in II RC o RC dopo2a linea di chemioterapia fino a recidiva confron-tato con nessuna terapia (ClinicalTrials.govNCT00093470).

Inibitori dell’angiogenesiL’ipotesi che la neoangiogenesi abbia un ruoloimportante non solo nei tumori solidi ma anchenella leucemie acute è supportata non solo dalfatto che il midollo nelle LAM presenta una den-sità dei microvasi superiore rispetto al midollo nor-male (73, 74) ma anche dalla riduzione della den-sità dei microvasi nei pazienti con leucemia acu-ta che rispondono alla chemioterapia (74).Numerose evidenze in vitro supportano il contri-buto della angiogenesi alla leucemogenesi e inparticolare è stato rilevato che i blasti leucemiciesprimono VEGFR e sono in grado di stimolarela neoangiogenesi (75).Negli ultimi anni sono state identificate moltemolecole classificate come inibitori dell’angioge-nesi: bevacizumab (anticorpo anti-VEGF), suni-

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tinib (SU11246, inibitore di VEGF e di PDGFR),semaxanib (SU5416), lenalidomide agente immu-nomodulante, cilengitide. Per alcuni di questofarmaci (bevacizumab, cilengitide, lenalidomide)sono in corso trials per valutare l’efficacia di unaterapia di mantenimento nel pazienti con LAMin RC.

Anticorpi monoclonaliIl gemtuzumab ozogamicin (GO) è un anticorpomonoclonale antiCD33 legato alla calicheamici-na ampiamente studiato nelle LAM. La maggior parte dei primi studi con GO sonostati effettuati nella LAM in recidiva o in primalinea in associazione alla chemioterapia conven-zionale (76-79). Questi studi hanno mostrato cheGO ha attività limitata con agente singolo e chein terapia di combinazione non vi sono impor-tanti differenze in termini di frequenza di RC trai regimi con o senza GO ad eccezione di alcunisubset di pazienti a citogenetica favorevole/intermedia (79). Si potrebbe invece intravedereun ruolo di GO nella terapia di mantenimento enel controllo della malattia residua minima comeda alcuni risultati ottenuti nella leucemia acutapromielocitica (80). Un gruppo Italiano ha recen-temente valutato la terapia di mantenimento conGO a basse dosi (3 mg/m2 per 3 cicli) in pazien-ti con LAM ed età superiore a 60 anni che nonavevano mobilizzato cellule staminali periferichee che quindi non venivano avviati ad autotrapian-to; accanto ad una tossicità ematologica edextraematologica accettabile si registravanouna migliore DFS e OS rispetto ai pazienti chevenivano sottoposti ad autotrapianto o a chemio-terapia (81). È necessario però ricordare cheattualmente il GO non è più disponibile nella pra-tica clinica.

n CONCLUSIONI

Gli enormi progressi degli ultimi anni nella cono-scenza della biologia delle LAM hanno consenti-to stratificazioni prognostiche citogenetico-mole-colari ma non sono stati seguiti da significativemodifiche della DFS e OS soprattutto nei pazien-ti anziani. Infatti, anche se i pazienti trattati con tera-pie di induzione standard ottengono la RC in per-

centuali variabili in rapporto all’età e al gruppo dirischio biologico, la recidiva è un evento purtrop-po frequente. Pertanto la sfida più importante èstata e continua ad essere a tutt’oggi l’ottimizza-zione delle terapie post-remissionali. Nel paziente giovane l’ampliarsi degli orizzonti tra-piantologici con il diversificarsi dei regimi di con-dizionamento, delle fonti di cellule staminaliemopoietiche, il superamento della barriera HLA(trapianto da donatore non consanguineo, aploi-dentico o da cordone ombelicale) permettonoquasi sempre l’esecuzione di un trapianto alloge-nico nel paziente quando indicata. Nel paziente anziano invece l’ipotesi trapiantolo-gica post-remissionale e/o la terapia intensifica-te post-remissionali sono spesso improponibili ele classiche terapie mielosoppressive di mante-nimento hanno dato risultati controversi e spes-so deludenti; rimane a tutt’oggi fondamentalequindi continuare nella ricerca clinica di strategieterapeutiche di mantenimento.Le risposte cliniche dei nuovi farmaci in mono-terapia in induzione sono state spesso limitatee transitorie ed è realistico pensare che difficil-mente questi nuovi farmaci determineranno nel-la LAM quello che gli inibitori di tirosinchinasi han-no determinato nella leucemia mieloide cronica;ma proprio il loro meccanismo d’azione, in gra-do di interferire con specifici targets e pathways,ha riacceso l’interesse sulla terapia di manteni-mento nelle LAM; i profili di tollerabilità anche intermini di qualità di vita si sono mostrati accet-tabili ma solo studi clinici randomizzati potran-no dimostrare la loro efficacia nel migliorare laDFS e la OS.

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n INTRODUZIONE

I linfomi non Hodgkin (LNH) sono un gruppo ete-rogeneo di malattie del sistema linfatico che sidifferenziano per aspetti epidemiologici, biologi-ci, clinici e prognostici. Il trattamento dei LNH adalto grado è in genere mirato all’eradicazione dellinfoma, effetto che si ottiene in misura variabi-le nel 20-70% dei casi a seconda delle caratte-ristiche dei pazienti e del tipo di linfoma. L’etàavanzata e la presenza di comorbilità rappresen-tano frequentemente un ostacolo all’espletamen-to del programma terapeutico. I LNH a basso gra-do hanno un comportamento meno aggressivo,a volte indolente; il trattamento è in genere riser-vato alle forme sintomatiche o progressive e, sep-pur in grado di indurre remissioni complete, nonè quasi mai in grado di determinare l’eradicazio-ne della malattia che risulta quindi destinata neltempo a fasi di recidiva e necessità di nuovi trat-tamenti.In questi ultimi decenni anni l’introduzione di pro-cedure intensive quali il trapianto di cellule sta-

minali autologhe ed allogeniche e di nuovi agen-ti terapeutici come gli anticorpi monoclonali enumerosi agenti biologici ha modificato in misu-ra sensibile l’approccio ai pazienti affetti da LNH.Per specifiche tipologie di LNH e di pazienti, pro-grammi terapeutici un tempo basati solo su regi-mi di chemio o radioterapie di induzione, sono sta-ti ora ampliati con trattamenti di consolidamen-to e/o di mantenimento con un miglioramento intermini di qualità e di durata della risposta.Rispetto al passato quindi si attuano spesso pro-grammi terapeutici continuativi, strutturati in variefasi (induzione della risposta, consolidamento,mantenimento).I nuovi agenti terapeutici di cui oggi si disponetra cui gli anticorpi monoclonali, le terapie immu-nomodulatorie ed epigenetiche, differiscono dal-la tradizionale chemioterapia per le modalità disomministrazione (continuativa vs ciclica), per laminore intensità del trattamento, per il meccani-smo d’azione che risulta più specifico e seletti-vo, essendo mirato su precisi bersagli antigeni-ci cellulari o molecolari e per il migliore profilo ditolleranza. In virtù di tali caratteristiche questi nuo-vi agenti rappresentano una valida alternativaterapeutica specie per alcune categorie dipazienti e/o di LNH divenuti refrattari alle tradi-zionali chemioterapie o che non risultano eleg-gibili a programmi intensivi o che sono ad altorischio di recidiva, nei quali si vuole cercare di re-indurre o mantenere il più a lungo possibile unarisposta.Parallelamente alla disponibilità di nuove terapiesi sono ampliate le nostre conoscenze sulla bio-

Linfomi Linfomi non Hodgkinnon HodgkinFRANCESCO ZAJA, RENATO FANINClinica Ematologica, Centro Trapianti e Terapie Cellulari “Carlo Melzi”, DISM, Azienda Ospedaliero Universitaria, Udine, Italy

Parole chiave: linfomi non Hodgkin, terapia di conso-lidamento, terapia di mantenimento.

Indirizzo per la corrispondenza

Francesco ZajaClinica EmatologicaAzienda Ospedaliero UniversitariaS.M. MisericordiaP.le S. Maria Misericordia, 15 - 33100 UdineE-mail: [email protected]

Francesco Zaja

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logia dei LNH, sono stati definiti nuovi sistemi pro-gnostici e perfezionate le indagini di diagnosticamolecolare e radiologica. Queste nuove acquisi-zioni, rispetto al passato, ci consentono dimeglio definire il tipo, l’intensità e la durata del trat-tamento così da ottimizzare il percorso terapeu-tico nelle sue varie fasi.Obiettivo del presente articolo è cercare di for-nire un aggiornamento su alcune procedure otrattamenti che hanno maggiormente contribui-to a modificare l’approccio ai pazienti con LNHe sui criteri che, nella pratica clinica, orientanola scelta di un prolungamento od intensificazio-ne del programma terapeutico. In particolare cisi soffermerà sul ruolo della terapia di consoli-damento con autotrapianto di cellule staminali ocon radioimmunoconiugati, sugli effetti della tera-pia di mantenimento con rituximab, sull’attivitàterapeutica di alcuni nuovi agenti biologici comela lenalidomide, gli inibitori delle iston deacetila-si e mTOR.

n AUTOTRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI

L’impiego di chemioterapici a dosaggi sovra mas-simali con il supporto di cellule staminali autolo-ghe, (autotrapianto di cellule staminali, ASCT) rap-presenta un tentativo per cercare di superare imeccanismi della chemioresistenza. Numerosistudi sono stati finora eseguiti per valutare il ruo-lo dell’ASCT come terapia di consolidamento perpazienti con LNH ad alto e basso grado di mali-gnità, in prima linea o in salvataggio.Nei pazienti con LNH ad alto grado l’ASCT vie-ne somministrato con finalità eradicante. Il van-taggio di tale procedura nei confronti di una che-mioterapia tradizionale appare ben definito perquanto riguarda la categoria di pazienti con LNHB diffuso a grandi cellule (DLBCL) con ricadutachemiosensibile (1). Lo stato della risposta alla terapia di salvataggiorappresenta un elemento prognostico moltoimportante per prevedere la riuscita terapeuticadel trapianto e, a tal fine, l’esecuzione di una PETprima dell’ASCT può essere di utilità per megliointerpretare lo stato di remissione dei pazienti. Ilrischio di ricaduta post trapianto risulta infatti signi-

ficativamente maggiore nei pazienti PET positivi(2-6). Recentemente sono stati riferiti i risultati dello stu-dio europeo CORAL mirato a confrontare l’effica-cia di due regimi terapeutici di salvataggio, R-ICEvs. R-DHAP entrambi seguiti da consolidamen-to con ASCT in pazienti con DLBCL in ricaduta.Tale studio non ha dimostrato differenze sostan-ziali tra i due schemi terapeutici ma, come datocollaterale, ha permesso di evidenziare che leaspettative di raggiungere ed ottenere una remis-sione duratura in pazienti che ricadono dopo unregime di terapia di prima linea contenente ritu-ximab sono decisamente inferiori rispetto al pas-sato (7). L’impiego dell’ASCT come terapia di consolida-mento in prima linea rimane ancora controverso(8-16). I risultati di vari studi, peraltro condotti sucategorie a rischio diverso e con terapie di indu-zione non omogenee, hanno dato infatti risultaticontrastanti a favore o meno dell’intensificazio-ne con ASCT. Sulla base di tali esperienze e del-la rielaborazione dei risultati in alcune metanalisi(17, 18) l’impiego dell’ASCT in prima linea appa-re giustificato per le categorie prognostiche arischio alto-intermedio ed alto secondol’International Prognostic Index (IPI) dopo l’esple-tamento di un programma completo di chemio-terapia di induzione. Nell’ambito della FondazioneItaliana Linfomi è stato recentemente completa-to uno studio prospettico randomizzato riserva-to a pazienti con DLBCL ed IPI alto-intermedioed alto nel quale si è voluto valutare l’impatto deri-vante dall’eseguire o meno una procedura di con-solidamento con ASCT dopo una terapia di indu-zione “dose-dense”. I risultati di questo studiohanno documentato un vantaggio in termini disopravvivenza libera da progressione a 2 anni del13% nel braccio includente il consolidamento conASCT (72% vs 59%) (19).Per quanto riguarda i pazienti con LNH bassogrado ed, in particolare, linfomi follicolari, diver-si studi concordano che l’impiego dell’ASCTcome terapia di consolidamento alla ricadutadopo una terapia di salvataggio o dopo una pri-ma linea di terapia è in grado di prolungare ladurata della risposta e, in una certa percentua-le di pazienti, forse permettere l’eradicazione (20-22). Il raggiungimento della negativizzazione del-

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81Linfomi non Hodgkin

la malattia minima residua, valutata mediante ana-lisi PCR, appare strettamente correlato con ladurata della risposta (23, 24).

n AGENTI IMMUNOTERAPICI

Il trattamento dei LNH è stato rivoluzionato in que-sto ultimo decennio dall’inserimento dell’anticor-po monoclonale chimerico rituximab (25). Taleagente ha come bersaglio l’antigene CD20, unamolecola espressa nel comparto B linfocitario, dallinfocita pre-B al linfocita B maturo; non èespresso nelle cellule staminali emopoietiche enelle plasmacellule. Il rituximab determina una for-te citolisi dei linfociti B CD20 positivi mediante uneffetto di citotossicità anticorpo-dipendente, dicitotossicità cellulo-mediata anticorpo-dipenden-te ed un’attivazione dei fenomeni di apopotosi cel-lulare (25). Il rituximab in monoterapia si è dimo-strato un efficace trattamento di salvataggio nel43% dei casi (26). I buoni risultati in termini dirisposta e tolleranza hanno permesso il suo impie-go in associazione ai vari schemi di chemiotera-pia comunemente impiegati in prima linea o sal-vataggio (es. R-CVP, R-CHOP, R-FC, R-FN). I risul-tati di molteplici studi randomizzati concordanonell’indicare un vantaggio in termini di percentua-li e durata di risposta conferiti dall’associazionedi rituximab e chemioterapia rispetto alla sola che-mioterapia, in assenza di significativa tossicitàaggiuntiva (Tabella 1) (28-32).Nonostante i progressi terapeutici ottenuti con l’in-serimento del rituximab, la maggior parte deipazienti con linfoma follicolare è ancora destina-

ta a presentare ricaduta o progressione di malat-tia e pertanto necessita di un salvataggio terapeu-tico. Le fasi di recidiva si associano in genere afenomeni di farmaco-resistenza con ridotta qua-lità e durata della risposta. Per cercare di miglio-rare la prognosi dei pazienti in ricaduta è stato pro-posto di continuare il trattamento con rituximabanche dopo il termine della chemioterapia nell’am-bito di una terapia di mantenimento. A tal finel’EORTC ha promosso uno studio randomizzatoin pazienti con linfoma follicolare di grado 1-3 inricaduta dopo ≤2 regimi di chemioterapia senzaantracicline. I pazienti arruolati in questo studio venivano ran-domizzati ad una prima fase di re-induzione traCHOP e R-CHOP e, successivamente, i pazien-ti in risposta parziale o completa venivano ran-domizzati ad una seconda fase di terapia di man-tenimento con rituximab 375 mg/mq ogni 3 mesifino a 2 anni vs. sola osservazione. I risultati diquesto studio (33) hanno documentato un pro-lungamento della mediana di sopravvivenza libe-ra da progressione (obiettivo primario dello stu-dio) da 16 mesi a 44 mesi per il braccio sperimen-tale ed hanno permesso la registrazione FDA edEMA del rituximab come terapia di mantenimen-to in pazienti con linfoma follicolare in rispostacompleta o parziale dopo una terapia di salvatag-gio con schedula di somministrazione che ne pre-vede l’impiego al dosaggio di 375 mg/mq ogni 3mesi fino a 2 anni. Il vantaggio derivante dalla somministrazione del-la terapia di mantenimento con rituximab hadeterminato un prolungamento della sopravviven-za libera da progressione in tutti i gruppi di rischio

TABELLA 1 - Risultati studi randomizzati tra chemioterapia e rituximab associato a chemioterapia nel trattamento di pazienti conlinfoma follicolare.

Studio Regime di terapia Periodo osservazione Sopravvivenza (%) Valore P(anni)

Controllo Rituximab

M39021 (27) CVP ± rituximab 4 77 83 0,029M39023 (28) MCP ± rituximab 4 74 87 0,0205GLSG (29) CHOP ± rituximab 5 84 90 0,0493FL2000 (6) CHVP + IFN ± rituximab 5 79 84 0,025

(pazienti alto rischio)

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esaminati ed, in particolare, sia nei pazienti re-indotti con CHOP vs R-CHOP, sia nei pazienti inrisposta completa e/o parziale dopo la re-indu-zione (33). Quindi, oltre al stato di responsività allaterapia di salvataggio, al momento non disponia-mo di indicatori in grado di guidarci nel discrimi-nare categorie di pazienti ai quali somministrareo meno il mantenimento. Questo studio non è riu-scito a documentare un vantaggio in termini disopravvivenza globale verosimilmente per l’effet-to della terapia di salvataggio con rituximab neipazienti arruolati al braccio osservazionale.Anche altri studi hanno permesso di conferma-re l’efficacia di rituximab come terapia di mante-nimento (Tabella 2) anche dopo regime di che-mioterapia di salvataggio diversi dalla CHOP (34-39). Il gruppo tedesco di Forstpointer et al., oltrea confermare il vantaggio dell’aggiunta del ritu-ximab ad una polichemioterapia di salvataggiocon fludarabina, ciclofosfamide e mitoxantrone(FCM±rituximab), ha documentato che la prose-cuzione della terapia di mantenimento con ritu-ximab è risultata in grado di allungare anche ladurata della risposta (34) (Tabella 2). Nello studiocoordinato da Ghielmini et al. del gruppo SAKK,pazienti con linfoma follicolare in risposta dopoterapia con solo rituximab venivano randomizza-ti a ricevere o meno 4 ulteriori singole sommini-strazioni di rituximab ogni 2 mesi. Lo studio ha

documentato un vantaggio per il braccio rituxi-mab con un prolungamento della mediana disopravvivenza libera da eventi da 12 a 23 mesi(36) (Tabella 2). In termini di tossicità, l’impiegodi una terapia continuativa di mantenimento conrituximab è stata in genere ben tollerato; negli stu-di pubblicati (Tabella 2), durante la terapia di man-tenimento con il rituximab, non era previsto il ricor-so a specifici programmi di profilassi antimicro-bica. Nello studio EORTC (33) è stata osservatauna maggiore incidenza di eventi avversi infetti-vi nei pazienti avviati a terapia di mantenimentoanche se si è trattato in genere di infezioni delleprime vie aeree di non difficile gestione clinica.Analogamente negli altri studi randomizzati nelbraccio che prevedeva terapia di mantenimentocon rituximab non è emersa una significativa mag-giore incidenza di eventi infettivi, sviluppo disecondi tumori e/o significativa tossicità extra-ematologica. Da segnalare la possibile insorgen-za di neutropenia isolata (non associata ad ane-mia e/o piastrinopenia) ritardata (insorgenza adistanza di 1-5 mesi con mediana di 4 mesi daltermine della terapia), di grado variabile, raramen-te complicata da episodi settici, associata ad unaipoplasia midollare della serie granulocitaria, ingenere di breve durata, con recupero spontaneoo accelerato dall’uso del fattore di crescita gra-nulocitario (40).

TABELLA 2 - Risultati studi relativi all’impiego del mantenimento con rituximab in prima linea o dopo terapia di salvataggio neipazienti con linfoma follicolare.

Studio/Gruppo Terapia induzione Linea di terapia Disegno studio Mantenimento con rituximab

EORTC 20981 (33) CHOP ± rituximab 2 Fase III PFS da 16 a 44 mesi nel braccio R

GLSG (34) FCM ± rituximab 2 Fase III DR non raggiunta nel braccio R vs. 17 mesi

Minnie Pearl (35) rituximab 1 Fase II OR 73%; PFS 34 mesiSAKK 35/98 (36) rituximab 1/2 Fase III EFS da 12 a 23 mesi

nel braccio RMinnie Pearl (37) rituximab 2 Fase II PFS 31 mesi nel braccio

R vs 7 mesiECOG 1496 (38) CVP 1 Fase III PFS da 16 a 52 mesi

nel braccio RPRIMA (41) R-CHOP ± rituximab 1 Fase III PFS 75% braccio R vs 58%

PFS: sopravvivenza libera da progressione; R: rituximab; DR: durata risposta; OR: risposta globale; EFS: sopravvivenza libera da eventi.

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In definitiva, l'associazione rituximab-chemiote-rapia seguita da terapia di mantenimento con ritu-ximab rappresenta il nuovo standard terapeuticoper i pazienti con linfoma follicolare in recidiva.Sulla base di tali risultati, si è voluto verificare ilruolo della terapia di mantenimento con rituximabnon solo dopo terapia di salvataggio ma anchedopo un trattamento di prima linea.Questo l’obiettivo dello studio europeo PRIMA,recentemente pubblicato, nel quale pazienti conlinfoma follicolare di nuova diagnosi ed indicazio-ne al trattamento, in risposta dopo un prima fasedi chemio-immunoterapia secondo gli schemi R-CVP o R-CHOP o R-FCM venivano randomizza-ti a sola osservazione oppure ad una terapia dimantenimento con rituximab 375 mg/mq ogni 2mesi fino a 2 anni (41). La scelta di somministra-re il rituximab ogni 2 mesi scaturisce da alcuni stu-di di farmacocinetica che indicano un dosaggiosotto il livello terapeutico al 3 mese di terapia (42,43). I risultati dello studio PRIMA, analogamentea quello EORTC, documentano un vantaggio intermini di PFS (82% vs 66% a 2 anni) analizzan-do la popolazione di pazienti nel suo complessoe distinguendo sottogruppi di analisi in baseall’età, indice di rischio secondo FLIPI e rispostaalla terapia di induzione. Dopo un periodo media-no di osservazione di 36 mesi la sopravvivenzalibera da progressione è risultata del 75% nelbraccio di mantenimento con rituximab e del 58%nel braccio osservazione. Due anni dopo la randomizzazione il 71,5% deipazienti nel braccio di mantenimento con rituxi-mab erano in RC vs. il 52% del braccio osserva-zionale (p=0,0001). Tale vantaggio appare anco-ra superiore se confrontato con quello osserva-to nello studio EORTC in salvataggio. La soprav-vivenza globale al momento dell’analisi non dif-ferisce tra i due gruppi. Da segnalare un aumen-to dell’incidenza nel braccio di mantenimento conrituximab di eventi avversi di ogni grado (52% vs35%), di grado 3-4 (24% vs 17%) e di infezionio neutropenie di grado 3-4 (4% vs <1%).Questi risultati hanno portato all'autorizzazioneFDA ed EMA del rituximab come terapia di man-tenimento nei pazienti con linfoma follicolare inrisposta dopo una prima linea terapeutica conschedula di somministrazione ogni 2 mesi fino a2 anni.

Risulta evidente, da questi studi, che la continui-tà terapeutica con rituximab determina un van-taggio in termini di allungamento del tempo allaprogressione della malattia e durata della rispo-sta. Non è definito ancora il reale impatto in ter-mini di sopravvivenza secondario a questa poli-tica di trattamento ed è da verificare, la possibi-le insorgenza di effetti tossici tardivi, in partico-lare infezioni e seconde neoplasie. Una revisionesistematica con metanalisi degli studi randomiz-zati ha indicato che la terapia di mantenimentocon rituximab aumenta il rischio di infezioni e neu-tropenia; i pazienti precedentemente trattati conschemi contenenti Fludarabina appaiono partico-larmente esposti al rischio di queste complicazio-ni e richiedono programmi di stretta osservazio-ne (44).Rimangono ancora da chiarire alcuni aspetti rela-tivi alla terapia di mantenimento con rituximab ed,in particolare, la migliore schedula terapeutica, ladurata del trattamento, il monitoraggio dei pazien-ti. In fase di studio è anche l’impiego del rituxi-mab come terapia di mantenimento dopo unaprocedura ad alte dosi ed autotrapianto di cellu-le staminali o dopo terapia con radioimmunoco-niugati (45-49). Altri studi clinici sono in corso per verificare unanalogo effetto terapeutico in altre tipologie di lin-fomi indolenti e nei linfomi mantellari. Un recen-te studio del gruppo tedesco in pazienti con lin-foma mantellare di età >65 anni responsivi ad unaterapia di induzione di prima linea che prevede-va la randomizzazione tra terapia di mantenimen-to con interferon-alfa e con rituximab ha docu-mentato un significativo incremento della dura-ta della risposta nel braccio con mantenimentodi rituximab (50).Altri studi sono in corso per accertare l’effica-cia terapeutica in questo ambito di nuovi anti-corpi monoclonali anti CD20 quali il GA101, il ritu-ximab nella sua formulazione sc, l’ofatumomabe di altri anticorpi monoclonali diretti verso anti-geni diversi. Un approccio immunologico alternativo è quellofornito dall’impiego di agenti radioimmunoterapi-ci. In questo caso l’anticorpo funge solo da mez-zo di trasporto mirato di un isotopo radioattivo.Al momento si dispone di due radio immunoco-niugati diretti contro l’antigene CD20 e coniuga-

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ti rispettivamente con (90)Y (ibritumomab tiuxetan;Zevalin) o (131)I (tositumomab; Bexxar). Il vantag-gio di questi agenti è quello di poter effettuare unaradioterapia a livello sistemico attraverso una dif-fusione ematica del farmaco; l’effetto “cross fire”permette inoltre un’azione radiante anche sul quel-le parti del tessuto linfomatoso non raggiungibi-li direttamente dall’anticorpo. (90)Y ibritumomab tiu-xetan e (131)I tositumomab sono risultati attivi e bentollerati e trovano indicazione come trattamentodi salvataggio nei linfomi follicolari. La loro attivi-tà è stata sfruttata anche come terapia di con-solidamento dopo un programma di terapia con-venzionale. Lo studio di fase III FIT è stato fina-lizzato a valutare l’effetto del consolidamento con(90)Y ibritumomab tiuxetan vs osservazione inpazienti con linfoma follicolare in stadio avanza-to in prima remissione. Il gruppo di pazienti avvia-ti a consolidamento con (90)Y ibritumomab tiuxe-tan ha presentato un significativo miglioramentodella sopravvivenza libera da progressione (36,5vs 13,3 mesi) a prescindere dal tipo di risposta(parziale o completa) ottenuta al termine della tera-pia di induzione (51). Dopo consolidamento con(90)Y-ibritumomab tiuxetan, il 77% dei pazienti inrisposta parziale al termine dell’induzione si è con-vertito in risposta completa, con un tasso di rispo-ste complete finali pari all’87% (51).Tale agente può pertanto essere considerato inaggiunta o in alternativa all’autotrapianto speciein quelle categorie di pazienti nelle quali per etào comorbilità non risulti possibile eseguirlo.

n TERAPIA CONTINUATIVA CON NUOVI AGENTI TERAPEUTICI

LenalidomideLa lenalidomide è un agente immunomodulantedi nuova generazione con attività terapeutica invarie patologie onco-ematologiche ed, in partico-lare, nel mieloma multiplo, nelle sindromi mielo-displastiche, nelle leucemie acute mieloidi, nellaleucemia linfatica cronica ed in alcune forme dilinfoma. Il meccanismo d’azione è complesso esolo in parte conosciuto; nei linfomi mantellarilenalidomide ha un’azione diretta sull’espressio-ne di p21 e SPARC, 2 oncogeni che intervengo-no nei processi di crescita cellulare (52, 53).

Recentemente è stato inoltre dimostrato che lena-lidomide promuove l’attività dei linfociti T, delle cel-lule NK e NKT e la formazione di immuno-sinap-si tra le cellule linfomatose e le cellule NK (54).Somministrata in modo continuativo ad undosaggio variabile in base alla tolleranza da 10 adi 25 mg/die per 21 giorni ogni mese lenalidomi-de si è dimostrata attiva in diverse istologie di LNHricaduti/refrattari ed, in particolare, nel LNH man-tellari (MCL) dove si è osservato un 42-53% dirisposte globali ed un 20% di risposte complete(55-58). La tolleranza al farmaco è risultata buo-na con tossicità di grado 3-4 prevalentementeematologica, in particolare, neutropenia e piastri-nopenia. Nell’ambito della Fondazione ItalianaLinfomi è stato recentemente condotto uno stu-dio volto a valutare l’efficacia e sicurezza di lena-lidomide e desametasone come terapia di salva-taggio per i MCL. L’aggiunta del desametasoneera motivata dall’obiettivo di ottenere un effettosinergico sulla base di osservazioni in vitro a del-la favorevole esperienza clinica registrata nel mie-loma multiplo. Il disegno dello studio prevedevala somministrazione ogni mese fino ad un mas-simo di 12 mesi di lenalidomide al dosaggio di 25mg/die dal giorno 1 al 21 e di desametasone 40mg nei giorni 1, 8, 15 e 22, con possibilità di ridur-re il dosaggio dei farmaci in caso di intolleranza.L’analisi dei risultati su una popolazione di 33pazienti con età mediana di 68 anni ha documen-tato una percentuali di risposte del 52% e com-plete del 24% (59). Tredici pazienti hanno dovu-to interrompere il trattamento per mancanza dirisposta e due per intolleranza. Le mediane disopravvivenza libera da malattia e sopravviven-za globale sono risultate 12 mesi e 20 mesi. Lacinetica di risposta, qualora presente, è stata nel-la maggior parte dei casi veloce entro i primi 3mesi dall’inizio della terapia. Da rimarcare che il50% dei pazienti già precedentemente trattati conbortezomib o ASCT hanno risposto. Come atte-so, il tasso di risposta è risultato minore in queipazienti refrattari alla loro ultima linea terapeuti-ca, anche se pur sempre pari al 40% per le rispo-ste globali e al 10% per quelle complete (59). Idati esposti indicano che la lenalidomide è unagente efficace nel trattamento dei pazienti conMCL in fase avanzata e refrattario. La tossicità digrado 3/4 è stata prevalentemente ematologica

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con neutropenia nel 53%, leucopenia nel 25%,piastrinopenia nel 22%, infezioni e neutropeniefebbrili nel 12%. I risultati di questa esperienzasono in linea con quelli precedentemente ripor-tati in 2 studi con lenalidomide in monoterapia (57-58). Con i limiti di un confronto tra studi diversinon sembra che l’aggiunta del desametasoneabbia inciso in misura determinante in termini dirisposta e che pertanto altri agenti debbano esse-re sperimentati in associazione alla lenalidomide.Sono ora in fase di studio nuovi trials clinici conlenalidomide in associazione ad altri agenti, in par-ticolare rituximab e bendamustina.Oltre ai MCL, lenalidomide è stata impiegata conrisultati molto interessanti anche in altri istotipi LNHed in particolare nei DLBCL e nei LNH follicola-ri. Lo studio di Hernandez-Ilizaliturri et al. (60) havoluto verificare l’efficacia di lenalidomide cometrattamento di salvataggio nei pazienti conDLBCL, stratificando la risposta a seconda deisottogruppi tipo germinal center B-cell vs nonger-minal center B-cell-like secondo l’algoritmo diHans. Differentemente da quanto atteso, le per-centuali di risposta sono risultate nettamentemigliori per il sottogruppo a prognosi sfavorevo-le (nongerminal center B-cell-like) con risposte glo-bali pari a 53% vs 9% (P=,006), risposte comple-te 23,5% vs 4% e mediana di sopravvivenza libe-ra da progressione di 6,2 vs 1,7 mesi (60). Sullabase di questi incoraggianti risultati sono in cor-so studi volti a valutare l’impiego della lenalido-mide in associazione a schemi di polichemioim-munoterapia.

Inibitori delle iston deacetilasiLe nuove conoscenze dei meccanismi epigeneti-ci e delle loro implicazioni fisiopatologiche nello svi-luppo ed eterogeneità di varie patologie oncolo-giche tra cui i LNH hanno permesso di generarealcuni nuovi agenti terapeutici con meccanismod’azione mirato a livello molecolare.Le iston deacetilasi (HDAC) sono degli enzimi chepartecipano nel regolare la struttura e la funzio-ne della cromatina attraverso la rimozione di grup-pi acetili da residui di lisina del core istonico conil significato di reprimere l’attivazione di alcuni genioncosoppressori. Le HDAC agiscono inoltre suuna serie di proteine non istoniche come p53,HSP90, HIF-1α, α-tubulin e Rb. Gli inibitori delle

HDACs (HDAC) sono un gruppo di molecolecapaci di indurre una rapida acetilazione dell’isto-ne ed un rimodellamento della cromatina deter-minando l’attivazione di geni oncosoppressori edun effetto antitumorale mediante azione su genio proteine coinvolte nei fenomeni di apoptosi, pro-liferazione e differenziazione cellulare, angiogene-si e risposta immune. Le prime evidenze a supporto dell’azione antitumorale degli HDAC risalgono all’azione del sodiofenil butirato nella leucemia acuta promielocitica(61). Il vorinostat (Zolinza™), un HDAC per usoorale, è risultato attivo nel trattamento dei linfo-mi T cutanei (CTCL), dei linfomi diffusi a grandicellule e dei tumori della testa e del collo (62, 63).Vorinostat ha ricevuto l’approvazione FDA per iltrattamento di pazienti con CTCL refrattari.Attività similare è stata riportata anche con altriHDAC, tra cui la romidepsina (64). La FondazioneItaliana Linfomi sta conducendo uno studio clini-co di fase II volto a verificare l’azione terapeuti-ca di panobinostat, come terapia di salvataggionei pazienti con DLBCL. Panobinostat è un poten-te pan HDAC che ha dimostrato azione anti tumo-rale in numerosi modelli pre-clinici ed, in vivo, intumori solidi, nei LNH T cutanei e nel linfoma diHodgkin (65-76). Studi in vitro indicano la possi-bile attività terapeutica di panobinostat anche neiDLBCL (77, 78).La schedula terapeutica di questi agenti varia aseconda dell'HDAC in esame ma si caratterizza,in genere, per una somministrazione continuati-va nel tempo.

Inibitori di mTORLa via metabolica di mTOR (mammalian target ofrapamycin) interviene nell’accrescimento cellula-re regolando l’attivazione dell’oncoproteina AKT.Tra le varie forme di LNH, i MCL appaiono quel-li maggiormente implicati dal punto di vista fisio-patologico con la via metabolica di mTOR.Su questa base sono stati condotti studi di faseII con temsirolimus, un inibitore specifico di mTOR,in pazienti con MCL ricaduti/refrattari. La sommi-nistrazione di temsirolimus è risultata attiva in cir-ca il 40% dei pazienti senza differenze sostanzia-li a seconda dell’impiego di dosaggi di 250 mg o25 mg la settimana (79, 80). In uno studio di faseIII in 162 pazienti con MCL si è voluta confronta-

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re l’attività di temsirolimus a 2 diversi dosaggi (75mg la settimana vs. 25 mg la settimana fino a pro-gressione o intolleranza) con un approccio tera-peutico libero scelto dai singoli investigatori nel-l’ambito di una lista di possibilità. La percentua-li di risposta nei 3 gruppi di pazienti sono risulta-te 22%, 6% e 2%; la sopravvivenza libera da pro-gressione mediana è risultata rispettivamente 4.8,3.4, e 1.9 mesi (81).

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