Subalternità e Subaltern Studies-libre

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Università degli studi di Cagliari Facoltà di Scienze Economiche, Giuridiche e Politiche Corso di Laurea in Governance e Sistema Globale Subalternità e Subaltern studies Relazione finale del corso Storia del colonialismo e della decolonizzazione Relazione a cura di Piero Onida

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Subaltern Studies

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Università degli studi di Cagliari

Facoltà di Scienze Economiche, Giuridiche e Politiche

Corso di Laurea in Governance e Sistema Globale

Subalternità e Subaltern studies

Relazione finale del corso Storia del colonialismo e della decolonizzazione

Relazione a cura di

Piero Onida

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Sommario

Introduzione ...................................................................................................................................................... 3

Subaltern studies: scopi e storia breve ............................................................................................................. 4

Caso di studio: Can the subaltern speak? di G.C. Spivak ................................................................................... 7

Conclusioni ........................................................................................................................................................ 8

Bibliografia e sitografia .................................................................................................................................... 10

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Introduzione

Il discorso sui Subaltern studies, branca degli studi post-coloniali nata in India al principio degli anni ’80 del novecento, non sarebbe fluido e pienamente comprensibile senza aver ben chiara l’accezione con cui la gran parte degli studi storici attuali si riferisce ai termini subalterno e subalternità.

Il concetto di subalternità fu elaborato inizialmente dal critico marxista Antonio Gramsci che, nei suoi Quaderni dal Carcere1, identificò come classe subalterna il proletariato. In particolare, egli definì i proletari come disuniti, disorganizzati; impossibilitati a costruire una coscienza di classe contrapponibile a quella di chi deteneva il potere. Nel Quaderno 8, il discorso relativo alla subalternità diviene tra i prediletti nelle analisi del pensatore sardo. Proprio in queste pagine non è difficile riconoscere una nuova impostazione storiografica da lui proposta: una narrazione storica delle classi e delle popolazioni subalterne (particolarmente in Q8 §66, 70)2, tematica che, come vedremo in seguito, sarà di importanza centrale all’interno dei Subaltern studies. Successivamente, nel Q25, Gramsci affronta in maniera più decisa il ruolo del subalterno nella storia italiana, con particolare riferimento al Risorgimento, ove le classi subalterne divengono “forze innovatrici […] gruppi dirigenti e dominanti”3, mostrando in tal modo un esempio di ribaltamento sociale da parte delle classi sottoposte. È particolarmente interessante, alla luce dello studio che segue, l’analisi di percezione della cultura egemone rispetto alle manifestazioni sociali di massa dei subalterni, che Gramsci delinea nel Q25, nota su Lazzaretti:

“[…] questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico.”4

In questo frammento di discorso, Gramsci propone una visione sull’analisi superficiale svolta dagli egemoni sulla manifestazione di eventi collegata ai sottoposti: la profondità del disagio sociale subalterno viene mascherata ed occultata come evento violento ed animalesco nella concezione egemone5. Vi è dunque una orientalizzazione del subalterno, impossibilitato a rendere le proprie ragioni evidenti dal muro pregiudiziale costruito dalla classe dominante.

Il concetto di subalterno orientalizzato in senso proprio, fu sviluppato in maniera organica da Edward W. Said nel suo celeberrimo saggio Orientalismo6. Said ottempera alla necessità di applicare il concetto gramsciano al suo lavoro, collegando la condizione di sottoposizione del proletariato a quella delle culture non europee, in un connubio senza dubbio riuscito. Il subalterno in Said è, dunque, l’orientale ritenuto inferiore, nonché barbaro, dalla lettura culturale eurocentrica.

Gramsci e Said risulteranno fondamentali nei Subaltern studies, ove il lavoro dei due viene costantemente utilizzato tanto per questioni di ricerca ed analisi metodologica quanto per l’affinità degli studi subalterni alle categorie concettuali elaborate dai due autori. La concezione di subalterno

1 GERRATANA Valentino (a cura di) GRAMSCI Antonio, Quaderni del carcere, 4 voll., Einaudi, Torino 1975 2 Ibidem, Q8, §66 e §70 pag.980 e pag.982 3 Ibidem, Q25, §48, pag.332 4 Ibidem, Q25, I, pag. 2279 5 BUTTIGIEG Joseph A., subalterno, subalterni in LIGUORI Guido / VOZA Pasquale (a cura di), Dizionario Gramsciano 1926-1937, Carocci Editore, 2009 Roma, pag. 830 6 SAID Edward, Orientalismo, Feltrinelli, 1999 Milano

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già vista in Said, è un collegamento ideale molto forte tra il concetto gramsciano e quello elaborato da Gayatri Chakravorty Spivak, filosofa americana di origine bengalese, studiosa di primissima importanza nel campo dei Subaltern studies. Il subalterno della Spivak è il proletario del mondo, incapace perfino di comunicare la sua situazione:

“[…] subalterno non è semplicemente un termine aulico per dire “oppresso”, per l’Altro, per colui che non riceve la sua fetta di torta […] In termini post-coloniali, chiunque abbia accesso parziale o non abbia accesso all’imperialismo culturale è subalterno. Ora, chi direbbe che stiamo parlando degli oppressi? Il proletariato è oppresso. Non è subalterno […] In tanti vogliono appropriarsi della subalternità. Chi se ne appropria è dannoso e poco interessante. Voglio dire, essere solo una minoranza discriminata in un campus universitario; questa non è “subalternità” […] Costoro possono vedere quali siano i meccanismi della discriminazione. Sono parte del discorso egemonico, anche se vogliono un pezzo di torta e non possono averlo, hanno la possibilità di parlare, di utilizzare il discorso egemonico. Non dovrebbero autoproclamarsi subalterni.”7

Gayatri Spivak, pur sfruttando il lemma gramsciano, ne critica l’utilizzo nella sua accezione più strettamente vicina agli studi di Antonio Gramsci: il subalterno della Spivak è al gradino più basso della scala sociale mondiale; orientalizzato, sottoposto ed incapace di lamentarsi. I Subaltern studies tentano di costruire la storia di “questi” subalterni e non di coloro che reclamano la subalternità, con tutte le difficoltà legate al dare voce e dignità storica a chi non l’ha mai avuta.

Subaltern studies: scopi e storia breve

I Subaltern studies si pongono in relazione di scontro con la narrazione storiografica occidentale tradizionale. L’input lanciato alla fine dell’introduzione di questa relazione, secondo cui gli studi subalterni abbiano la necessità di costruire la storia dei sottoposti, è vero solo in parte; poiché lo scopo dei Subaltern studies è ben più ambizioso: la volontà è quella di decostruire tassello per tassello la narrazione storica per inserire in maniera precisa e contestualizzata il resoconto documentato della storia dal basso. L’impostazione di ricerca dei Subaltern studies si presenta come anti-essenzialista (finanche anti-storiografica) rigettando l’identitarismo culturale e le convenzioni orientalistiche della storiografia eurocentrica8.

La nascita degli studi post-coloniali sulla subalternità è databile tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 in India, nell’Università di Nuova Delhi, attorno alla figura dell’economista e storico Ranajit Guha9. Il primo collettivo dei Subaltern studies sviluppatosi nel subcontinente indiano si occupò di una ricostruzione storica settoriale, strettamente legata alla terra d’origine dei suoi partecipanti, con uno scopo affine a quello sopra descritto: ovvero una rielaborazione complessiva della storia del sud asiatico, con la ricollocazione delle classi subalterne come parte del complesso storico e non più come masse informi e passive, così come erano descritte nella storiografia britannica coloniale prima ed in quella delle élite nazionali poi. La critica mossa dal collettivo dei Subaltern studies è quella di una duplice parzialità nella storiografia indiana delle classi egemoni: 7 DE KOCK Leon, Interview With Gayatri Chakravorty Spivak: New Nation Writers Conference in South Africa, in ARIEL: A Review of International English Literature, 23:3, July 1992 8 ATABAKI Touraj, BEYOND ESSENTIALISM Who Writes Whose Past in the Middle East and Central Asia?, Lecture for the University of Amsterdam, Amsterdam, 2003 9 DI MAIO Alessandra, Subaltern studies, http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/subaltern_studies_b.html

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parziale perché racconta solo parte del processo storico, dimenticandosi degli strati della popolazione demograficamente più densi, ma senza potere decisionale; parziale poiché di parte, propositiva solo dei punti di vista delle classi egemoni10.

Considerare i Subaltern studies solamente come una narrazione storiografica di rivalsa delle classi sottoposte, sarebbe tuttavia incorretto: il lavoro sui subalterni non ha solo vocazione storica, ma anche economica, sociale e politica in ottica presente. Numerose opere facenti parte del lavoro del collettivo presentano infatti report e ricerche dedicate alla situazione economica e sociale attuale delle classi subalterne.

Riprendendo il discorso relativo agli studi storici, che risulta essere ad oggi la branca più estesa ed approfondita dei Subaltern studies, è necessario porsi la questione riguardante l’impostazione metodologica data alla ricerca delle fonti storiche per la costruzione di una storia della subalternità. La difficoltà nella ricostruzione storica sta nel trovare voci subalterne autentiche, testimonianze non adulterate od edulcorate. La necessità primaria è legata alla riscoperta di fonti alternative o trascurate o, ancora, oscure agli ambienti degli studi accademici poiché facenti parte esclusivamente degli ambienti subalterni, distanti dalla critica e dal lavoro delle università. I membri del collettivo di Nuova Delhi propongono la riscoperta di fonti desuete (o improprie secondo parte della storiografia classica) quali i racconti orali, la memoria popolare o documenti scritti trascurati e frammentari. Posto ciò, la difficoltà sta nel trovare gli strumenti adatti all’interpretazione storica di testimonianze non propriamente accettabili come fonti storiche, si voglia a causa della loro frammentarietà, della loro non tracciabilità, della loro scarsa referenzialità ad altre fonti od autoreferenzialità. Oltre all’impostazione di dubbio sul rigore delle nuove fonti, gli studiosi della subalternità si pongono in atteggiamento critico anche per quanto riguarda le fonti ufficiali della narrazione storica egemone: se lo scopo del lavoro è quello di ricostruire la storia riconoscendo l’importanza di ogni strato sociale, è necessario rielaborare il discorso storico generalmente accettato, disconoscendo e rielaborando i punti di vista rappresentati, spesso celebrazione delle classi dominanti in salsa neocoloniale11.

L’approccio storico dei Subaltern studies è assimilabile a quello della New Cultural History in particolare nella sua accezione di storia dal basso e di microstoria12, nonché all’analisi di tipo marxista della labour history, data dal ruolo giocato dalle tradizioni culturali e dal concetto di moralità delle classi popolari13. L’utilizzo di tale approccio marxista o post-marxista è dato dalla vicinanza della gran parte degli studiosi della subalternità alla critica marxista14 ed ai suoi teorici, come il già nominato Antonio Gramsci, utilizzato spesso per via delle sue categorie concettuali.

Il discorso sugli studi subalterni si sviluppò e si diffuse nel corso di tutti gli anni ’80, grazie ad una serie di monografie presentanti raccolte di saggi sulla subalternità curate da Ranajit Guha ed edite

10 DI MAIO Alessandra, Subaltern studies Op.cit. 11 Idem 12 FAZIO Ida, Nuova storia culturale in COMETA Michele, COGLITORE Roberta, MAZZARA Federica (a cura di), Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma 2004, pag. 329 13 Ibidem, pag. 330 14 WILLIAMS R. John, "Doing History": Nuruddin Farah's "Sweet and Sour Milk", Subaltern Studies, and the Postcolonial Trajectory of Silence, in Research in African literatures, vol. 37, n.4 (Winter 2006), Indiana University press, Bloomington IN 2006, pag. 162

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dalla Oxford University Press India, aventi cadenza quasi annuale15. Il lavoro del collettivo di Nuova Delhi balzò agli occhi degli accademici di tutto il mondo nella seconda metà degli anni ’80, con la pubblicazione di un saggio di Rosalind O’Hanlon riguardante i Subaltern studies nella rivista Modern Asian Studies della Cambridge University Press16. Da qui, la diffusione divenne più capillare nel mondo accademico, ed alcuni volumi, già scritti in inglese per ampliare le possibilità di diffusione e consultazione, furono tradotti in diverse lingue. Tra i lavori che maggiormente hanno contribuito alla diffusione degli studi subalterni è utile ricordare la selezione Selected Subaltern Studies, curata da Ranajit Guha e Gayatri Spivak17, con prefazione di Edward Said, ed il celebre saggio della Spivak Can the subaltern speak?18 di cui discuteremo in seguito.

L’internazionalizzazione dei Subaltern Studies passa dalla diffusione del materiale del collettivo di Nuova Delhi in occidente attraverso le università di Oxford e Cambridge, nonché dalla partecipazione di uno degli studiosi di maggiore fama internazionale, quale Edward Said, agli studi. L’attrattiva e gli orizzonti della narrazione subalterna si sono dunque ampliati in maniera consistente, portando, nel 1993 alla nascita di un nuovo collettivo di studi subalterni nell’America Latina19. Il nuovo collettivo, fondato da cinque accademici (John Beverley, Robert Carr, Jose Rabasa, Ileana Rodriguez e Javier Sanjines), si occupò in principio di un connubio tra studi storici e politica, sviluppando il discorso relativo al legame tra subalternità e post-colonialismo, tentando di instaurare un rapporto di solidarietà tra accademia e sottoposti20. Il collettivo latino-americano non è stato per ora prolifico come quello del subcontinente indiano, alle difficoltà iniziali si sono aggiunte la carenza di interesse nelle università e l’assenza di fondi tesi allo sviluppo di uno studio della subalternità nel continente americano, tant’è che il collettivo ad oggi si trova in una situazione di stallo e dismembramento21.

Il processo di crescita degli studi subalterni, tuttavia, non è da dirsi arrestato per le sole difficoltà degli studi latino-americani: negli ultimi vent’anni, l’interesse è andato crescendo grazie a diverse pubblicazioni di diffusione internazionale, come la pubblicazione nel 1994 di un numero monografico della American Historical Review dedicata ai subaltern studies22, la creazione dell’antologia sugli studi subalterni svolta da Ranajit Guha nel 199723, o il volume del 2001 di David Ludden della Penn University: Reading Subaltern studies.24 La diffusione di materiale di qualità ha portato ad un ritorno al passato degli studi, articoli passati in secondo piano vennero riletti, tradotti

15 GUHA Ranajit, a cura di, Subaltern Studies I. Writings on South Asian History and Society, Oxford UP India, New Delhi, 1982. (e successivi) 16 O’HANLON Rosalind, "Recovering the Subject: Subaltern Studies and Histories of Resistance in Colonial South Asia", in Modern Asian Studies 22, 1, 1988, pagg. 189-224 17 SAID Edward, Foreword, in GUHA Ranajit, SPIVAK Gayatri Chakravorti (a cura di), Selected Subaltern Studies, Oxford UP, New York 1988 18 SPIVAK Gayatri Chakravorty, “Can the Subaltern Speak?”, in C. Nelson, L. Grossberg (a cura di), Marxism and The Interpretation of Culture, Macmillan, London 1988, pagg. 271-313 19 LUDDEN David, Reading Subaltern Studies: Critical History, Contested Meaning, and the Globalisation of South Asia, Permanent Black, India 2003 20 AUTORE SCONOSCIUTO, The Latin American Subaltern Studies Group, 2006, http://digitalunion.osu.edu/r2/summer06/herbert/testimoniosubaltern/latinamericasuba.html 21 Idem 22 American Historical Review, n. 99, American Historical Association, Oxford University Press, 1994 23 GUHA Ranajit, A Subaltern Studies Reader. 1986-1995, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1997 24 LUDDEN David, Op. cit.

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e ristampati, come nel caso di Can the Subaltern Speak? di Gayatri Spivak, saggio di grande interesse che verrà analizzato nelle prossime pagine di questa relazione.

Caso di studio: Can the subaltern speak? di G.C. Spivak

Il saggio breve di Gayatri Spivak Can the subaltern speak?, venne presentato nel 1983 per una conferenza relativa al marxismo nell’interpretazione della cultura25 e pubblicato in Marxism and The Interpretation of Culture nel 1988 dalla Macmillan. Come il lettore avrà già intuito, il testo si presenta come una lettura della subalternità e dell’oppressione in chiave marxista: la Spivak critica la concezione di soggettività dell’Occidente, prendendo in esame un dialogo tra Foucault e Deleuze sull’associazione tra intellettuali e potere. L’autrice opera una decostruzione e rilettura del discorso tra i due intellettuali in un’ottica di critica marxista, scagliandosi contro l’intero impianto di ragionamento del mondo accademico occidentale, reo di non essere capace di intendere la realtà dell’Oriente subalterno, per motivi culturali di chiara matrice coloniale. Lo studio della storia e delle società Altre da parte dell’occidentale è sempre vittima di orientalismo: lo studioso di cultura egemone che si raffronta con il subalterno è incapace di ascoltarne la voce senza porsi in una condizione di superiorità etica, morale e sociale. La Spivak opera una decostruzione con lo scopo di allontanare gli studi culturali dall’ottica coloniale essenzialista, lanciando un’accusa alla ricerca di conoscenza europea, intesa come primaria giustificazione per la conquista e la distruzione delle altre culture; null’altro se non una parte del processo coloniale ed imperialista.

La questione posta dalla studiosa di origine indiana come titolo del saggio: “I subalterni possono parlare?” è una domanda che porta al suo interno numerosi interrogativi; la Spivak risponde retoricamente con un semplice no. I subalterni non possono parlare; non possono parlare poiché la loro voce non viene ascoltata, non possono parlare poiché la loro esperienza viene interpretata e resa valida solo alla luce delle considerazioni degli studi occidentali: sono zittiti da un interpretazione interessata, da uomini bianchi che narrano altri uomini bianchi di uomini e donne del terzo mondo.

Il saggio della Spivak si chiude con una disamina relativa all’esistenza ed all’abolizione del Sati, il suicidio rituale delle vedove Indù, arse vive sulla pira funebre del marito:

“La vedova Indù ascende la pira funebre del marito e vi si immola sopra. Questo è il sacrificio della vedova. […] Il rito non era praticato universalmente e non era legato alle caste ed alle classi sociali. L’abolizione del rito da parte degli Inglesi è stato generalmente inteso come un caso di ‘Uomini bianchi che salvano le donne marroni dagli uomini marroni’. Le donne bianche […] non hanno prodotto una comprensione differente. Contraria a questa tesi, è la tesi dei nativi indiani, una parodia delle origini perse: ‘le donne volevano morire’.26”

Qui la studiosa di origine indiana evolve ulteriormente il suo concetto di subalternità: realmente subalterna è la donna Indù (e la donna del sud del mondo in generale), impossibilitata ad esprimere un’opinione sulla sua stessa vita, nonché totalmente inascoltata nell’interpretazione culturale di una

25 BARRET Michéle, Can the subaltern speak? New York, February 2004, in History Workshop Journal no.58 Autumn 2004, Oxford University Press, Oxford 2004, pag.359 26 SPIVAK Gayatri Chakravorty, “Can the Subaltern Speak?” Op. cit, pag. 93

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realtà ove è doppiamente sottoposta dalla cultura bianca colonialista e dalla cultura dominante patriarcale27.

La presa di posizione della Spivak si espone a diverse criticità: il suo subalterno è estremamente settoriale. L’impostazione secondo la quale la subalternità è propria solo delle donne del sud del mondo è vittima di una gerarchizzazione, forse eccessiva, della condizione di oppressione a seconda dello stato sociale; non è forse subalterno chiunque sia sottoposto e non abbia possibilità di modificare il suo status? Secondo Gayatri Spivak no. Il subalterno è tale non solo per l’impossibilità di modificare la sua condizione, ma anche per l’inabilità a comunicare ed a lamentarsi della sua situazione. Tuttavia, questo ragionamento apre un altro problema: se i subalterni non possono parlare, come possono essere strutturati i Subaltern studies? Le fonti ricercate nella storia e nella viva voce dei subalterni saranno sempre influenzate dall’impostazione concettuale accademica: per quanto possa essere autentica, la narrazione storica sarà pur sempre condizionata dal punto di vista dello studioso che raccoglie la testimonianza e che, da studioso, ha un apparato critico ed un modo di vedere la realtà estremamente differente rispetto al subalterno. Ulteriore criticità in Can the subaltern speak? è la valutazione negativa che la Spivak conferisce agli studi occidentali in materia di subalternità. Nel discorso di decostruzione della scuola europea la Spivak si affida ad un modello di ragionamento di stampo marxista, e dunque, europeo. La richiesta di specificità e l’impostazione antioccidentale della Spivak risulta motivata, ma al tempo stesso di difficile percorrimento.

Conclusioni

I Subaltern studies sono un’impostazione storiografica necessaria, quasi obbligata, se si vuole soffiare via la polvere dalle enormi zone d’ombra della storiografia classica. Possono essere visti come una scelta storiografica derivata dalla politica e da un desiderio di rivalsa, ma hanno, in qualsiasi modo vi si guardi, più di una ragione per esistere. Dare dignità storica a chi non l’ha mai avuta può essere considerata una scelta etica, ma è al contempo una scelta con profonde connotazioni di legittimità e correttezza della narrazione: utilizzata per ampliare il campo visivo, uscendo dalla focalizzazione su protagonisti ed avvenimenti di rottura, arricchisce il racconto con elementi demograficamente importanti e di grande valore per esplicare l’evoluzione sociale delle fasce di popolazione non egemoni. Come scrive Cosimo Zene in un interessante saggio dedicato ai Dalits come subalterni28, l’idea è quella di sviluppare una storia integrale in senso gramsciano, da opporsi allo Stato protagonista della storia, che rilega i gruppi subalterni (gli schiavi, i contadini, i gruppi religiosi minoritari, le donne, le razze diverse ed il proletariato) ai margini della storia29.

Nello sviluppo dei Subaltern studies vi sono, tuttavia, numerose contraddizioni, criticità e domande che necessitano risposta. Anzitutto la già esposta difficoltà nel trovare e trattare le fonti, testimonianze che spesso non possono essere considerate fonti storiche in senso proprio, rischiano di mettere in discussione il rigore e la concretezza della narrazione storica; anche le metodologie

27 Tutto il testo di questo capitolo trova riferimento nel saggio SPIVAK Gayatri Chakravorty, “Can the Subaltern Speak?” Op. cit 28 ZENE Cosimo, L’autocoscienza dei Dalits-‘intoccabili’ come subalterni. Riflessioni su Gramsci nel sud dell’Asia, in BALDUSSI Annamaria / MANDUCHI Patrizia (a cura di), Gramsci in Asia e in Africa, Aipsa Edizioni, 2010 Cagliari 29 Ibidem, pag. 230

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d’analisi utilizzate per lo sviluppo della ricerca finiscono sotto la lente d’ingrandimento dell’occhio critico più attento: a tal proposito è interessante ripercorrere un breve excursus di Gianni Fresu sulle categorie concettuali gramsciane30, in alcuni casi utilizzate impropriamente. Secondo Fresu i Subaltern studies soffrono spesso di una decontestualizzazione delle motivazioni storiche che hanno portato alla creazione delle categorie concettuali in Gramsci, modificando, per questo motivo, la connotazione delle stesse. Un'altra critica da muovere nei confronti degli studi subalterni è sicuramente la loro eccessiva settorialità: tanto dal punto di vista geografico, quanto da quello della concezione di subalterno. I Subaltern studies sono qualificabili, per il momento, come storia delle fasce sociali subalterne nel subcontinente indiano; data lo scarso interesse mosso dai (pochi) studi svolti in America Latina. La volontà di selezionare i subalterni a seconda del loro grado di sottoposizione (vedi Spivak), riduce il campo di studi dei collettivi Subaltern.

Per questa serie di motivazioni, tante domande restano aperte sulla funzionalità e capacità degli studi subalterni, ma una questione in particolare necessita risposta: i subalterni possono parlare? La domanda a cui la Spivak risponde retoricamente con un secco no, è in realtà un punto di partenza per avvalorare questo campo di studi; sta infatti agli studiosi della subalternità tirar fuori le voci degli oppressi in maniera corretta e chiara, senza filtri interpretativi di carattere accademico.

30 FRESU Gianni, Stato, società civile e subalterni in Antonio Gramsci, in BALDUSSI Annamaria / MANDUCHI Patrizia (a cura di), Gramsci in Asia e in Africa, Aipsa Edizioni, 2010 Cagliari, pagg.75-76

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Bibliografia e sitografia

American Historical Review, n. 99, American Historical Association, Oxford University Press, 1994

ATABAKI Touraj, BEYOND ESSENTIALISM Who Writes Whose Past in the Middle East and Central Asia?, Lecture for the University of Amsterdam, Amsterdam, 2003 AUTORE SCONOSCIUTO, The Latin American Subaltern Studies Group, 2006, http://digitalunion.osu.edu/r2/summer06/herbert/testimoniosubaltern/latinamericasuba.html

BARRET Michéle, Can the subaltern speak? New York, February 2004, in History Workshop Journal no.58 Autumn 2004, Oxford University Press, Oxford 2004

BUTTIGIEG Joseph A., subalterno, subalterni in LIGUORI Guido / VOZA Pasquale (a cura di), Dizionario Gramsciano 1926-1937, Carocci Editore, 2009 Roma

DE KOCK Leon, Interview With Gayatri Chakravorty Spivak: New Nation Writers Conference in South Africa, in ARIEL: A Review of International English Literature, 23:3, July 1992 DI MAIO Alessandra, Subaltern studies, http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/subaltern_studies_b.html FAZIO Ida, Nuova storia culturale, in COMETA Michele, COGLITORE Roberta, MAZZARA Federica (a cura di), Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma 2004 FRESU Gianni, Stato, società civile e subalterni in Antonio Gramsci, in BALDUSSI Annamaria / MANDUCHI Patrizia (a cura di), Gramsci in Asia e in Africa, Aipsa Edizioni, 2010 Cagliari GUHA Ranajit, A Subaltern Studies Reader. 1986-1995, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1997

GUHA Ranajit, a cura di, Subaltern Studies I. Writings on South Asian History and Society, Oxford UP India, New Delhi, 1988 LUDDEN David, Reading Subaltern Studies: Critical History, Contested Meaning, and the Globalisation of South Asia, Permanent Black, India 2003

O’HANLON Rosalind, Recovering the Subject: Subaltern Studies and Histories of Resistance in Colonial South Asia, in Modern Asian Studies 22, 1, 1988

SAID Edward, Foreword, in GUHA Ranajit, SPIVAK Gayatri Chakravorti (a cura di), Selected Subaltern Studies, Oxford UP, New York 1988 SAID Edward, Orientalismo, Feltrinelli, 1999 Milano SPIVAK Gayatri Chakravorty, Can the Subaltern Speak?, in C. Nelson, L. Grossberg (a cura di), Marxism and The Interpretation of Culture, Macmillan, London 1988

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WILLIAMS R. John, "Doing History": Nuruddin Farah's "Sweet and Sour Milk", Subaltern Studies, and the Postcolonial Trajectory of Silence, in Research in African literatures, vol. 37, n.4 (Winter 2006), Indiana University press, Bloomington IN 2006

ZENE Cosimo, L’autocoscienza dei Dalits-‘intoccabili’ come subalterni. Riflessioni su Gramsci nel sud dell’Asia, in BALDUSSI Annamaria / MANDUCHI Patrizia (a cura di), Gramsci in Asia e in Africa, Aipsa Edizioni, 2010 Cagliari