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Studi M. Serraino 1 “CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA” PERIZIA E PERITO NEL PROCESSO PENALE, TRA TENSIONI NORMATIVE, ISTITUZIONALI, CULTURALI di Marco Serraino (Dottore di ricerca in diritto penale, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa) SOMMARIO: 1. Il contesto.- 1.1. Tesi: il “principio e fondamento” della perizia nel rito penale.- 1.1.1. Mutata la scienza, mutato il rito.- 1.1.2. La “trasfigurazione” della perizia.- 2. L’ammissione della perizia; 2.1. il “mito” della “neutralità” della perizia e l’operatività dei criteri ordinari.- 2.1.1. La perizia come “facoltà” del giudice?.- 2.1.2. Dalla discrezionalità alla “doverosità condizionata”.- 3. Il valore processuale della perizia.- 3.1. La valutazione giudiziale e la sua motivazione.- 3.1.1. Peritus iudex iudicum?.- 3.2. Verso un nuovo libero convincimento: il collegio “arbitral-peritale”.- 3.3. Iudex peritus?.- 4. È mutata la consulenza tecnica.- 4.1. Il valore processuale delle attività del consulente tecnico: è mutata la “verità”.- 5. Uno statuto “comune” per i mezzi di prova “scientifici”.- 6. Que reste-t-il? .- 6.1. Perizia e perito in articulo mortis. 1. Considerare le costanti dell’interpretazione giuridica è il solo metodo che permette di cogliere lo scarto esistente tra il “principio e fondamento” 1 della perizia nel rito penale e le sue manifestazioni attuali. Qual è il “principio e fondamento” della perizia nel processo penale? Sovente negletto, l’interrogativo si prospetta essenziale per comprendere funzioni e natura dell’istituto, in un quadro processuale istituzionale e culturale radicalmente mutato rispetto a quello nel quale mosse i suoi primi passi. Al solo scorgere un carico processuale imponente di episodi tragici (catastrofi aeree, incidenti sul luogo di lavoro, naufragi, disastri ambientali) 2 , la domanda di competenze “non comuni”, 1 Si mutua, si parva licet, la riflessione teologica preparatoria sul principium et fondamentum posta da S. Ignazio di Loyola al § 23 degli Esercizi Spirituali (S. P. Ignatii Loyolae, Exercitia spiritualia, Londini 1837, 24 s.), e tendente a enucleare ragioni e finalità della formazione spirituale cristiana. Abbracciare la prospettiva del “principio e fondamento” ignaziano implica, così sembra, il preventivo riconoscimento della linea teleologia sulla quale muove tutto l’esistente. Un’interpretazione “principial-fondamentale” non tende, pertanto, ad una sistemazione “cronologica” della ricerca: aspirando piuttosto ad esprimere ciò cui bisogna far riferimento fin dal principio, proprio perché, per così dire, “accade sempre” (quantomeno sul piano del sollen). Il «principio e fondamento» può quindi tradursi, ermeneuticamente, nella posizione delle coordinate fondamentali cui bisogna fare indefettibile rimando nella lettura (meglio, della “rilettura”) delle situazioni ricomprese all’interno del contesto del quale esse sono “reggitrici”. 2 Cfr. F. Stella, Il giudice corpuscolariano. La cultura delle prove, Milano 2005, 124; nonché P. Tonini, La Cassazione accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica. Riflessi sulla verifica delle massime

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Studi M.Serraino

1

“CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA” PERIZIA E PERITO NEL PROCESSO PENALE, TRA TENSIONI NORMATIVE,

ISTITUZIONALI, CULTURALI

di Marco Serraino (Dottore di ricerca in diritto penale, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa)

SOMMARIO: 1. Il contesto.- 1.1. Tesi: il “principio e fondamento” della perizia nel rito penale.-

1.1.1. Mutata la scienza, mutato il rito.- 1.1.2. La “trasfigurazione” della perizia.- 2. L’ammissione della perizia; 2.1. il “mito” della “neutralità” della perizia e l’operatività dei criteri ordinari.- 2.1.1. La perizia come “facoltà” del giudice?.- 2.1.2. Dalla discrezionalità alla “doverosità condizionata”.- 3. Il valore processuale della perizia.- 3.1. La valutazione giudiziale e la sua motivazione.- 3.1.1. Peritus iudex iudicum?.- 3.2. Verso un nuovo libero convincimento: il collegio “arbitral-peritale”.- 3.3. Iudex peritus?.- 4. È mutata la consulenza tecnica.- 4.1. Il valore processuale delle attività del consulente tecnico: è mutata la “verità”.- 5. Uno statuto “comune” per i mezzi di prova “scientifici”.- 6. Que reste-t-il? .- 6.1. Perizia e perito in articulo mortis.

1. Considerare le costanti dell’interpretazione giuridica è il solo metodo che

permette di cogliere lo scarto esistente tra il “principio e fondamento”1 della perizia nel rito penale e le sue manifestazioni attuali.

Qual è il “principio e fondamento” della perizia nel processo penale? Sovente negletto, l’interrogativo si prospetta essenziale per comprendere funzioni e natura dell’istituto, in un quadro processuale istituzionale e culturale radicalmente mutato rispetto a quello nel quale mosse i suoi primi passi. Al solo scorgere un carico processuale imponente di episodi tragici (catastrofi aeree, incidenti sul luogo di lavoro, naufragi, disastri ambientali)2, la domanda di competenze “non comuni”,

1 Si mutua, si parva licet, la riflessione teologica preparatoria sul principium et fondamentum posta da S. Ignazio di Loyola al § 23 degli Esercizi Spirituali (S. P. Ignatii Loyolae, Exercitia spiritualia, Londini 1837, 24 s.), e tendente a enucleare ragioni e finalità della formazione spirituale cristiana. Abbracciare la prospettiva del “principio e fondamento” ignaziano implica, così sembra, il preventivo riconoscimento della linea teleologia sulla quale muove tutto l’esistente. Un’interpretazione “principial-fondamentale” non tende, pertanto, ad una sistemazione “cronologica” della ricerca: aspirando piuttosto ad esprimere ciò cui bisogna far riferimento fin dal principio, proprio perché, per così dire, “accade sempre” (quantomeno sul piano del sollen). Il «principio e fondamento» può quindi tradursi, ermeneuticamente, nella posizione delle coordinate fondamentali cui bisogna fare indefettibile rimando nella lettura (meglio, della “rilettura”) delle situazioni ricomprese all’interno del contesto del quale esse sono “reggitrici”. 2 Cfr. F. Stella, Il giudice corpuscolariano. La cultura delle prove, Milano 2005, 124; nonché P. Tonini, La Cassazione accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica. Riflessi sulla verifica delle massime

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nonostante la “riformazione” del contesto, pare in effetti non cessare di accrescersi. Ma che resta dell’antico modus di acquisirle al processo? E come si è articolata e si articola, nel mezzo, la “vicenda” della prova peritale?

Dal punto di vista dell’elaborazione teorica, la riflessione non può dirsi coeva del suo oggetto, giuridicamente incarnatosi nel rito inquisitorio di matrice romano-canonica3. Solo sul finire del XIX secolo, infatti, l’espressione “giustizia scientifica” compariva nei trattati procedurali4, inaugurando un dibattito, lontano dall’essersi sopito, sull’ordinamento da dare alla prova peritale penale. Almeno tre sembrano essere i paradigmi teorici enucleabili rispetto alle diverse tipologie di perizia storicamente manifestatesi: la perizia libera, la perizia ufficiale, la perizia giudiziale, secondo una linea di digressione omogenea, dalla più lontana alla più vicina all’archetipo “principial-fondamentale”.

La perizia “libera”, modello del Cpp vigente, è frutto dell’ibridazione tra la perizia “originale” e le moderne strutture del processo penale, ed è informata al principio per cui la perizia sia un comune mezzo di prova. Venute meno le premesse “ideologiche” così come le antiche prerogative, opacizzate sempre più le distinzioni con i consulenti tecnici di parte, c’è motivo di dubitare che nella variante “libera” possa ritrovarsi una “forma di manifestazione” della perizia penale.

La perizia “ufficiale”, figura “chiave” nel Cpp del 1930, si fonda, al contrario, sul presupposto “principial-fondamentale” che il perito sia una longa manus del giudice, sebbene le parti possano domandarne, in taluni casi5, la nomina6. In effetti, nel Cpp del 1930 il “potere” conferito ai periti indicava l’importanza del loro ufficio nell’accertamento della verità, in un contesto di pacifica affermazione del “principio e fondamento”. Il potere d’inchiesta peritale si presentava “indeterminato”, a poco valendo opporgli l’“argine” del iudex peritus peritorum7. Il riconoscimento codicistico costituiva, infatti, convalida normativa di uno statuto giuridico secolare, che in età moderna poteva dirsi risalente quantomeno alla dottrina dei pratici8.

d’esperienza, in DPP 2011, 1341; per uno sguardo “extrapenalistico”, cfr. M. Taruffo, Legalità e giustificazione nella creazione giudiziaria del diritto, in RTrimDProcCiv 2001, 24. Cfr. inoltre T. Padovani, La tragedia collettiva delle morti da amianto e la ricerca di capri espiatori, in RIMedLeg , 2015, 384 s. 3 Cfr. I. Virotta, La perizia nel processo penale italiano, Padova 1968, 8 s.; nonché, più generalmente, A. Giuliani, Prova (filosofia), in ED XXXVII, Milano 1988, 535 ed E. Dezza, Accusa ed inquisizione dal diritto comune ai codici moderni, I, Milano 1989, 21. 4 F. Chauvaud, L. Doumoulin, Experts et expertise judiciaire, Rennes 2003, 3. 5 Essenzialmente nel solo dibattimento, ove la perizia perdeva di rilevanza; cfr. art. 455 Cpp 1930. 6 “Concessiva” impalpabile, il perito non essendo un comune mezzo di prova come la testimonianza, ma un organo “ausiliario” del giudice. 7 Cfr. da ultimo G. Carlizzi, Iudex peritus peritorum. Un contributo alla teoria della prova specialistica, in www.penalecontemporaneo.it, 5 maggio 2017. 8 I quali assegnarono un ruolo primario all’indagine peritale sul corpus mortum (antequam ad investigationem procedat, debet judex constare de maleficio: rectores mittunt officialem ad videndum mortuum; secondo l’indicazione di Bartolo da Sassoferrato, menzionata in G. Salvioli, Storia del diritto italiano, III, Milano 1927, 358). Ma anche sul “nesso causale” si chiedeva il responso peritale, che aveva valore vincolante: secondo una regola sancita nella decretale Licet heli di Innocenzo III (che formalizzò per il rito inquisitorio l’ispezione peritale sulle tracce materiali dell’omicidio; cfr. F.

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Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, Firenze 1925, 71 s.), se peritorum iudicio medicorum era appurata la non letalità del colpo inferto, l’autore non doveva considerarsi omicida (Cfr. A. Gargani, Dal corpus delicti al Tatbestand. Le origini della tipicità penale, Milano 1997, 189). La necessità che si costatasse il corpus mortuum per mezzo di discreti assessores fu ribadita da Alberto da Gandino, nella rubrica de presumptionibus et indiciis dubitatis quibus proceditur ad tormenta, contenuta nel celebre Tractatus de maleficiis. In particolare, escludendo la confessione potesse contribuire alla prova del fatto, egli riaffermava la centralità dell’ispezione corporale diretta e l’esame delle ferite rinvenute sul cadavere, ad opera dei funzionari nominati dal giudice (A. Gargani, op. cit., 196; ivi le citazioni direttamente dal Tractatus). L’intervento peritale vincolante rafforzava una tendenza ideologica chiara: quella ad eliminare qualsiasi arbitrio giudiziale, privilegiando elementi di prova afferenti alla categoria dell’evidenza (scientifica, in questo caso), e screditando le prove argomentative, chiamate appunto imperfectae. Prospero Farinaccio contribuì allo sviluppo della dottrina della perizia rispetto al constare, confermando il potere di nomina dei periti in capo al giudice, sia per la constatazione del corpus delicti del visum e del repertum (cfr. P. Farinacii, Praxis et theoricae criminalis, I, Venetiis 1609, 9) sia dell’omicidio: «Se e quando sia da credere ai referti e alle deposizioni dei medici sulla mortalità delle ferite» si intitola la quaestio CXXVII del trattato de homicidio (P. Farinacii, De homicidio, riportato in V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, III, Torino 1932, 284 s.). La concezione “non integrata” del reato che ne conseguiva era imperniata sull’idea di materialità fenomenica, che “fotografava” una sequenza delittuosa, prescindendo dall’autore dell’azione o dell’omissione. L’accertamento esordiva dalle conseguenze naturalistiche del reato, progrediva nella ricerca delle prove, per terminare con la determinazione della causa. Tra elemento oggettivo e soggettivo si frapponeva, dunque, il requisito del constare de delicto, cioè la prova diretta della veritas delicti, non già della reitas. Da questa concezione del reato, trarne quella della perizia era opera consequenziale: un’ispezione privilegiata, talora tendente alla refertazione pura, votata comunque all’accertamento (secondo la “miglior scienza ed esperienza”) dell’elemento materiale del reato, in un contesto in cui il canone probatorio della “certezza” si poneva all’inizio dell’inquisitio. Questa teorica, peraltro, vacillò all’affermarsi della necessità di facilitare la ricerca della prova. I pratici presero a considerare rilevanti anche per la prova del corpus delicti elementi per loro natura rivolti a costruire il giudizio sulla colpevolezza. Ebbe così inizio la c.d. fase di “dematerializzazione” del contenuto della regola del constare de delicto (quindi dell’intervento peritale come esordio tecnico-processuale), con conseguente affluenza nell’inquisizione generale di logiche astrattive e di caratteri privi di riscontri estrinseci, come la fama e le prove indiciariae. Questa “seconda fase”, se così può dirsi, trovò in Giulio Claro un nuovo sistematore di riferimento, anzitutto attraverso la sua opera di distinzione dei gradi di certezza del constare del delitto (J. Clarii, Sententiae, Liber V, quaestio IV, citata in A. Gargani, op. cit., 207). In particolare, respingendo l’unicità del grado del constare, Claro pose la nota distinzione tra delitti di fatto permanente (rispetto ai quali il giudice è sempre tenuto ad accertare la veritas delicti) e di fatto transeunte (rispetto ai quali il giudice è invece autorizzato ad individuare immediatamente nel sospettato l’oggetto dell’indagine, sulla base della fama o della querela). Non essendo possibile nei delitti di fatto transeunte la prova della veritas delicti (raggiungibile soltanto assieme a quella della reità; nel senso che dalla dimostrazione della qualità d’autore promana quella della delittuosità del fatto, secondo quella che è stata autorevolmente denominata «concezione integrata del reato»; cfr. G. De Francesco, La forza della ragione e la ragione della storia. Il seducente eclettismo della codificazione penale napoletana, in Le leggi penali di Giuseppe Bonaparte per il Regno di Napoli [1808], Padova 1998, 215 s.) la prova peritale smarrisce, rispetto a questi, l’importanza cardinale che aveva nell’inquisitio generalis, contribuendo la sua assenza ad accentuare la “spiritualizzazione” del constare - intatto ormai per i soli delicta facti permanenti – ed a giustificare, quindi, un abbassamento del canone probatorio (per l’esigenza pratica di garantire la repressione dei delicta facti transeuntis). La duttilità di questa sistemazione consentì un inquadramento teorico lasco (nel quale elemento soggettivo ed oggettivo si confondono) ma certo (nell’ambito dei delitti di fatto transeunte) di tutti i casi di prova complessa (cfr. A. Gargani, op. cit., 210). Sicché, paradossalmente,

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La perizia “giudiziale” (cioè, il “giudice perito”9), variante “esponenziale” del modello “ufficiale”, implica la coincidenza tra attività peritale e giurisdizionale, nel senso che egemone sia però la prima. L’assunto è che solo gli specialisti della materia possano risolvere la quaestio facti, essenziale per l’accertamento della responsabilità. La teorica non pone questione sull’ampiezza dei poteri “peritali”, che corrispondono a quelli del giudice; e se per tutte quelle materie che possono formare oggetto di perizia occorre una “giurì” peritale, alla competenza per materia e per territorio si aggiunge – con evidenti implicazioni, anche in punto di precostituzione del giudice naturale - un altro, singolare, tipo di competenza: la competenza “per competenza”. Qualora si tratti di un caso per il quale sia necessario un esame dei gruppi sanguigni, occorrerebbe così una giuria competente e specializzata in ematologia; in un procedimento, nel quale si debba procedere ad accertamenti grafici, siederebbe una giuria competente e specializzata in materia grafica, e così via.

L’esposizione vuole indagare il rapporto giuridico peritale, come possibilità “residuale” del contributo che la scienza può offrire al processo penale attraverso la perizia; individuare le tendenze e le crisi in atto, per trarne, infine, le necessarie conseguenze, non solo istituzionali: ha più ragione e “diritto” d’essere l’istituto peritale nel rito penale?

1.1. Nel tentativo di tratteggiare il “principio e fondamento” della perizia, può

premettersi che sua “primitiva” ratio sia di fornire al giudice una verità scientifica infallibile, completa e certa per provare un fatto: ed il processo, in tal senso, è a disposizione del perito.

La perizia “originale” pone quindi in rilievo caratteri definiti: la perizia “antica” continuò a spiegare il proprio ruolo essenzialmente nella veste di mezzo di prova per reati, appunto, a prova “semplice” (quelli, cioè, di fatto permanente). Una parte di essa (la più moderna) trasmigrerà progressivamente in un diverso luogo processuale, ossia nell’inquisitio specialis, ove sarà esperita per la prova del corpus e per l’investigatio de maleficio (estesa quindi anche alla componente soggettiva del delitto). Il passaggio “scompositivo”, quindi, dalla perizia del diritto intermedio alla perizia dei modelli ottocenteschi pare possa registrarsi nel progressivo smarrimento dell’impronta fenomenica e materiale riguardo al reato commesso, ed alla “volatilizzazione” dei presupposti processuali (con conseguente posticipazione dell’inferenza ad uno stadio “progredito” dell’inchiesta). La perizia, in definitiva, oltre a mutare i suoi connotati, aprendosi sempre di più all’analisi del foro interiore, moltiplicherà le sue “destinazioni” e le sue funzioni (tradizionalmente limitate ai classici delitti di omicidio, infanticidio, procurato aborto), cangianti secondo il momento processuale dell’accertamento scientifico, andando sostanzialmente ad “atipicizzarsi”: una perizia “notizia di reato”, una perizia “mezzo di ricerca della prova”, una perizia “mezzo di prova”, una perizia “mezzo di valutazione”, una perizia “decisione”, e così via. 9 Del quale si trova vasta eco fino al secolo scorso; cfr. F. Carnelutti, secondo cui il parere peritale dovesse essere accolto dal giudice «quale esso è senza soggiacere al riesame, al controllo tecnico di un giudice incompetente»; pertanto, coerentemente proponeva che i periti giudiziari dovessero essere inquadrati, anche a livello ordinamentale giudiziario, quali veri e propri assistenti tecnici del giudice: «Questi bisogna farli sedere accanto a lui»; più avanti si esprimeva ancor più chiaramente «solo quando lo avremo fatto salire sulla cattedra del tribunale, il perito giudiziario si toglierà dalla grottesca situazione di un giudice o quasi giudice, le cui opinioni vengono criticate dalle parti, e troverà nel prestigio e nella coscienza dell’altissimo ufficio la naturale difesa contro ogni tentazione» (Prove civili e prove penali, in RIDPrCiv 1925, 24 e 26).

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a) è una prova del giudice (meglio, il perito è un “giudice assieme al giudice”); b) è “giurisdizione” (il perito esercitando una funzione, di fatto, ausiliario-

giurisdizionale, contribuendo con un atto “decisionale”, per intrinseca forza persuasiva, alla formazione della sentenza)

c) è facoltativa e tendenzialmente insindacabile dal giudice (il giudice non dovendo necessariamente ricorrervi; se vi ricorre, non può poi dissociarsi dalle conclusioni della stessa, salva la valvola di sicurezza – che “sta e cade” con la formazione “monopolistica” della prova scientifica - del iudex peritus peritorum);

d) è “monocratica” (il parere dell’esponente di una scienza unica, esatta ed infallibile non essendo suscettibile di sindacato);

e) è “pubblica” (quindi ufficiale, perché “una” è la scienza, quella del perito del giudice);

f) è documentale e segreta (non potendo esporsi il perito ad una discussione aperta ed orale in contraddittorio, dovendo piuttosto la relazione finire nel “cassetto” del giudice istruttore);

g) interviene, pertanto, in fase d’indagine (non in dibattimento, se non eccezionalmente);

h) è autolegittimata (non potendo avere per scopo quello di valutare la necessità e l’attendibilità di se stessa);

i) è formazione ed insieme valutazione della prova (dovendo consistere nella prima, ultima ed irrevocabile parola “tecnica” sull’interpretazione di un fatto);

l) è, in definitiva, “padrona” (nel senso che sia il perito a servirsi del processo, e non l’inverso).

Così, appunto, il perito deve servirsi del processo tanto quanto gli sia d’aiuto per il suo fine10: che è fornire una verità – la perizia stessa - al giudice; e deve discostarsene, dal processo, tanto quanto possa intralciarlo o confonderlo (il contraddittorio scritto, l’esame orale, la valutazione del giudice stesso).

L’orizzonte si comporrebbe quindi di una sorta di “convergenza parallela”, per cui la verità del processo penale “deve” corrispondere alla verità del processo scientifico. Si è storicamente chiesta alla perizia la sicurezza e la precisione della risposta scientifica “classica": un «si si, no no» di matteano rigore (Mt V, 37); il dubbio “viene dal maligno”.

1.1.1. Ma come può “resistere” la perizia secondo il suo “principio e

fondamento”? Oggi il modello accusatorio sembra, infatti, imprimere sempre più addentro i suoi stigmi; i canoni costituzionali – e sovranazionali11 - inerenti alla 10 Ancora oggi, ex art. 208 Cpp, visionare atti, documenti, cose prodotte dalle parti; in precedenza, esaminare “realmente” le parti stesse, assumere prove motu proprio, ispezionare, e così via; cfr. art. 317 s. Cpp 1930. 11 V. gli orientamenti della Corte di Strasburgo. La quale ha concentrato la sua elaborazione sull’irrinunciabilità del contraddittorio nella formazione della prova scientifica: il riferimento normativo è costituito dall’art. 6 § 1 Cedu. Nella sentenza Mantovanelli c. Francia (Corte eur., 18.3.1997, in Diritti dell’uomo e libertà fondamentali. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Giustizia delle Comunità europee, a cura di M. De Salvia, V. Zagrebelsky, Padova 2006, 592), la Corte ha dichiarato pregiudicata l’equità del rito, per violazione dell’art. 6 § 1

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giurisdizione indicano nella dialettica permanente sin dalla formazione della prova il paradigma di riferimento; il conferimento di facoltà e diritti ai consulenti tecnici delle parti si segnala come tendenza in costante consolidamento.

Verso questo quadro, per così dire, “antagonista” si è inesorabilmente proiettati. Anche e soprattutto perché è la scienza, per prima, ad aver mutato statuto12.

Non è la scienza “di un tempo”13: non riveste più i panni dell’autorità che pure aveva allorché poteva concepirsi l’affiancamento di un sapere consolidato, ufficiale e “certo” nella decisione di una controversia, affidando ad un mediatore – il “perito” – la trasposizione di saperi ignoti al giudice nel processo. Se non può più concepirsi la

(per la mancata osservanza del contraddittorio), nel quale il giudice abbia nominato un perito e questi abbia introdotto prove per mezzo di attività alle quali le parti non abbiano potuto assistere, perché prive della facoltà di farlo, ovvero per mezzo documenti, ignoti alle parti. Il contraddittorio, così inteso, non implica soltanto la possibilità di presentare gli elementi necessari a sostenere le proprie ragioni, ma riguarda funditus la facoltà di entrare in confronto dialettico con ogni documento o osservazione presentata al giudice per formare il suo convincimento (Cfr. M. Chiavario, Art. 6, in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova 2001, 196). 12 La questione si prospetta di tale vastità, che un suo approfondimento esula dagli scopi dell’esposizione. Basti, quindi, tenere conto del passaggio dalla concezione positivistica a quella post-positivistica di scienza. In ambito positivistico la scienza era considerata illimitata, completa ed infallibile. Il “disegno” riposava, essenzialmente, sul principio di verificazione e su quello dell’unicità del metodo scientifico, insuscettibile di mutare al mutamento del settore epistemologico-scientifico di riferimento. Dalla metà del secolo scorso, questa impostazione ha palesato segni di cedimento sotto i colpi di teorizzazioni contrarie (cfr. K. R. Popper, Logik der Forschung, Wien 1935 e The Growth of Scientific Knowledge, New York 1963; cfr. inoltre P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano 2014, 258 s.), per le quali la scienza non è illimitata, né completa, né infallibile. Perché una legge della scienza possa essere ritenuta “certa”, non è quindi più pertinente il ricorso ai parametri empirici propri del principio di verificazione: occorre piuttosto provi la sua resistenza a tentativi di falsificazione. Continuare a predicare l’unicità del metodo è dunque anacronistico, richiedendosi piuttosto l’attagliamento del metodo al contesto disciplinare ed applicativo di riferimento. 13 Non è più la scienza che, ad esempio, ispirava ad Enrico Ferri la classificazione in “fasi storiche” della teoria delle prove: alla fase religiosa delle ordalie e della compurgazione legale, a quella della prova rigido-legale, a quella politico-ideale, succederebbe la fase c.d. “scientifica”, aperta al contributo della scienza e degli scienziati, chiamati a modellare una procedura “positivistica”, fornendo prove insuscettibili di essere confutate (Cfr. E. Ferri, Sociologia criminale, Torino 1900, 451 s.; nonché J. Graven, Retour à la confessione en justice?, in Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, Padova 1950, 235) La teorica poggiava su premesse e tecniche scientifiche che apparivano sconvolgenti al tempo in cui furono proposte, ma che hanno smarrito gran parte della loro vis clamorosa. Il postulato era, quindi, l’infallibilità della scienza: donde l’auspicata (dalla scuola positiva) vincolatività per il giudice del parere del perito (E. Ferri, Sociologia, cit., 772). Soluzione caldeggiata anche da quanti (una folta e ormai “celeste masnada”) prima di Enrico Ferri avevano arato non dissimile terreno. Basti rammentare come pure già Francesco Carrara – appartenente, per così dire, a tutt’altra schiera – avesse prospettato l’introduzione di una “giuria suppletoria” – da affiancarsi tanto ai giudici quanto ai giurati - composta da periti «ai quali si concederebbe esclusivamente la balìa di pronunciare il verdetto incensurabile e della responsabilità meno piena (…) Questo sarebbe il rimedio radicale, che in una buona legislazione dovrebbe essere comune a tutte le materie speciali, per esempio questioni cliniche, questioni di bancarotta»: (cfr. F. Carrara, I periti alienisti nel foro, in Opuscoli di diritto criminale, IV, Lucca 1887, 142 s.).

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scienza in termini di dato “incontestabile”, essa è un “fatto”, e, come tutti i fatti, deve essere provata: in un processo accusatorio, dalle parti. Sono le parti ad essere chiamate a “provare” la scienza, non il giudice (per via eteronoma, attraverso il perito).

Accogliere la nozione tradizionale di scienza illimitata, completa ed infallibile ha, pertanto, ricadute decisive sui rapporti tra prova scientifica, accertamento e contraddittorio “tecnico” nel processo penale. Se, infatti, mèta ideale è il disvelamento di “una sola” verità, soccorre la nomina di “un solo” perito, alter ego giudiziale, che ne sia depositario e che giuri di adempiere il suo ufficio a tale scopo.

Simile assetto era proprio dei sistemi inquisitori come quello del Cpp del 1930, nell’ambito del quale unicamente il giudice istruttore disponeva la perizia, nominava un perito, poneva a costui i quesiti, senza coinvolgere le parti del rapporto processuale (poiché si riteneva bastasse gravare il perito, alla pari del testimone, di un obbligo di verità). Il pubblico ministero, infatti, non poteva nominare un proprio esperto: accordargli tale facoltà avrebbe significato negare l’unicità del sapere scientifico, quindi l’autosufficienza della perizia “ufficiale” del giudice. Non diversamente il Cpp del 1930 regolava la materia per le parti private: le quali, pur avendo formale facoltà di nominare consulenti tecnici (secondo una consecutio della consulenza alla perizia, dalla quale l’esperibilità della prima “dipendeva”14), non avrebbero potuto proporne l’attività quale comune mezzo di prova, ma soltanto come strumento argomentativo15.

14 V. art. 322 Cpp 1930. Per l’istruzione, era accordata facoltà ai difensori di depositare in cancelleria le osservazioni che fossero state loro presentate dai consulenti tecnici entro cinque giorni dall’apertura del dibattimento a pena di decadenza. In tal caso le osservazioni avrebbero dovuto essere redatte in forma scritta. Nel dibattimento, invece, il consulente tecnico avrebbe potuto esporre oralmente, anche senza citazione, le proprie osservazioni, quando il perito fosse stato chiamato per esprimere parere su questioni prima non esaminate, o quando fosse stato citato nel corso del dibattimento e ritenesse di poter esprimere subito le proprie conclusioni, su tutti i casi previsti dall’art. 455 Cpp 1930. La presenza del consulente tecnico nel dibattimento era invece esclusa quanto il perito fosse stato citato a fornire chiarimenti (art. 416 Cpp 1930); purtuttavia le parti, tramite i loro difensori, potendo “criticare” i chiarimenti del perito in conformità a osservazioni che i consulenti tecnici avrebbero reso, per così dire, in camera caritatis. In piena grammatica “principial-fondamentale”, la previsione si giustificava nella necessità di evitare ogni possibile discussione pubblica fra consulenti e periti. 15 Attraverso redazioni di memorie ad adiuvandum. Il parere del consulente tecnico nel Cpp del 1930 soggiaceva alla “ordinaria” valutazione del giudice, intesa nel senso più ampio; non accadeva però che il giudice valutasse i diversi pareri emersi nel procedimento con lo stesso criterio di valutazione. Esso dipendeva, infatti, dall’attendibilità del parere oggetto della valutazione stessa. Il parere peritale era sorretto da una presunzione “relativa” di verità per via del giuramento prestato dal perito stesso, da una presunzione di obiettività per via dell’ufficialità della funzione, da una presunzione di capacità a causa della scelta insindacabile fatta dal giudice, da una presunzione di diligenza basata sulla direzione ed il controllo che il giudice esercitava sullo svolgimento dell’attività peritale. Questi “giardini pensili” di presunzioni concorrevano a rendere il parere peritale l’unico “veramente” attendibile per il giudice; quantomeno, più attendibile del parere del consulente tecnico, che al contrario recava su di sé uno stigma primordiale di inaffidabilità per il fatto stesso di essere espresso essenzialmente in difesa della parte, senza nemmeno il contrappeso dell’obbligo di non cadere nel falso. La giurisprudenza sul punto era, sostanzialmente, uniforme: una pronuncia, in particolare (che

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L’idea che al contrario pervade il rito del 1988, è che il contraddittorio costituisca il migliore metodo di conoscenza; tanto più in materia di prova scientifica, ove il paradigma dialettico è chiamato a riprodurre, all’interno del rito, il procedimento falsificazionista. Le parti devono poter ricercare ed esibire spiegazioni alternative del fatto, indagando, secondo tentativi di falsificazione, se si siano avverate tutte le condizioni postulate dalla legge scientifica, dell’attendibilità quale si discuta16. Il diritto alla prova non può che declinarsi, pertanto, anche nella sua dimensione “scientifica”. É necessaria, in questa direzione, l’attuazione di un contraddittorio non tanto e non solo “sulla” prova scientifica, altrove assunta e formatasi inaudita et altera parte, quanto “nella” formazione della prova scientifica (specie sui metodi e sulle tecniche che si vogliano introdurre nel processo)17. Attuare

si segnala per le sue argomentazioni “franche”), affermava come in linea di principio dovesse, per le ragioni suesposte, essere preferita a quella dei consulenti di parte l’opinione dei periti (Cass. 9.11.1963, in GP 1964, 681). 16 Cfr. K. Popper, Miseria dello storicismo, Milano 1997, 120. 17 La scienza potendo veicolare “menzogna” nel processo, per il “pervertimento” delle sue componenti metodologiche e tecnologiche. Cfr. il rapporto informativo (2009) del Comitee on identifying the Needs of Forensic Science Community e dal National Research Council (cfr. www.ncjrs.gov; cfr. M. Tonini, Manuale, cit. 258 ss.): nelle forensic sciences prese in considerazione (eccettuata l’analisi del DNA; cfr. da ultimo, cfr. L. Luparia, Probabilité et procès pénal à l’époque de la preuve ADN, in www.penalecontemporaneo.it, 15 maggio 2017) sovente manca il carattere di “scientificità” del metodo, quindi del risultato probatorio, frutto del giudizio “soggettivo” dell’organo tecnico-scientifico, indi riprodotto nella decisione dell’organo tecnico–giuridico. Cfr., inoltre, le due “celebri” pronunce della Corte Suprema statunitense, che simboleggiano icasticamente quel “rito di passaggio” tra due concezioni di scienza e di processo. Il caso Frye v. United States 293 F. 1013 (3.12.1923, in www2.law.columbia.edu) ed il più recente Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals, Inc. 509 U.S. 579 (28.6.1993, in https://supreme.justia.com), tenendo sempre presenti le rules 702 e 703 delle Federal rules of evidence (del 1975) sulla testimony by experts (cfr. C. Sterlocchi, La prova scientifica nell’esperienza statunitense. I criteri di affidabilità nelle elaborazioni post Kumho Tire (ii), in FAmbr 2004, 561). In particolare, è noto come la sentenza Daubert v. Merrell abbia fissato criteri rigorosi nella valutazione di quale scienza – tradizionale o nuova che sia – possa considerarsi good or junk (cfr. P. W. Huber, Galileo’s revenge: junk science in the courtroom, New York 1991, citato in F. Centonze, Scienza “spazzatura” e scienza “corrotta” nelle attestazioni e valutazioni dei consulenti tecnici nel processo penale, in RIDPP 2001, 1233 s.) ed essere quindi accettata dal giudice (il quale è gatekeeper rispetto alla validità e all’affidabilità dei metodi e delle procedure “scientifiche” da introdursi nel processo; cfr. M. Taruffo, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, in RTrimDProcCiv 1996, 232 s.). Il c.d. Daubert test, come noto, si articola in 4 “riserve” che il giudice deve sciogliere per stimare il grado di attendibilità di una ricostruzione scientifica proposta per la prova di un fatto: a) se la teoria sia suscettibile di controllabilità empirica. É necessario, cioè, il metodo o la tecnica proposti siano falsificabili, tenendo conto dell’esistenza e della continuità temporale di elevati standard di sperimentazione e controllo degli stessi, e dello stato evolutivo della branca scientifica di riferimento; b) se la teoria sia stata sottoposta a revisione scientifica. La revisione dovrebbe, infatti, assottigliare il margine di errore, il metodo o la tecnica avendo precedentemente formato oggetto di vaglio da parte di altri specialisti; c) se la teoria abbia un elevato grado di affidabilità. La verifica della falsificabilità punta, in effetti, ad individuare la soglia di “fallibilità” conosciuta o conoscibile (ed in tal caso può dirsi viga una massima d’esperienza per cui debba essere considerato inattendibile il perito che affermi l’inesistenza del rischio di errore della ricostruzione da lui proposta); d) se la teoria goda di generale accettazione da parte della comunità scientifica di riferimento. Criterio principe del c.d. Frye test, elaborato nel precedete caso Frye v.

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pienamente il metodo dialettico dal momento in cui l’elemento è raccolto, significa, infatti, conferire il maggior spazio al sindacato sul valore euristico della legge di riferimento18. Esaltare il rispetto del contraddittorio, valorizzare la distinzione tra fasi, custodire i momenti di formazione della prova, si prospetta viepiù essenziale quando quella scientifica risulti essere la prova “decisiva”, nel processo: in tal caso, infatti, è il metodo della scienza ad “informare” il metodo del processo19.

1.1.2. Affermatasi la grammatica post-positivistica ed aperta la formulazione in contraddittorio dell’ipotesi scientifica, come possono tali rinnovati “assetti” coordinarsi con la “tradizionale” sistematica peritale? Questa alterata, potrà d’altronde darsi una perizia “diversa” da quella originale? Quale ne sarebbe il senso, la finalità, il tratto distintivo rispetto agli altri mezzi di prova (specie la consulenza tecnica)?

Privata dei suoi connotati strutturali, la perizia mostra, infatti, un volto “trasfigurato”:

a) prova comune, che contribuisce assieme alle altre, in un contesto dinamico, a formare il convincimento del giudice;

United States (cit., 3.12.1923), per il quale, in un’ottica pienamente “positivistica”, l’attendibilità della prova scientifica deve trovare riscontro nella general acceptance della comunità scientifica. Il Frye test, in tal modo, punta a garantire tutte le “virtù” della scienza unica, infallibile ed esatta: una scienza elaborata fuori dal processo, ossia dalla comunità scientifica, e immessa dal suo rappresentate all’interno del processo, il perito. Dalla seconda metà del secolo scorso, il Frye test è tuttavia sottoposto a severa critica: le sue finalità, infatti, pure rivolte ad evitare l’acquisizione in forma di prova di teorie scientifiche controverse, risultano compromesse dal suo stesso meccanismo applicativo. Per esempio, anche le pseudo-scienze (nemmeno classificabili come bad or soft science), nel caso in cui godano di unanime approvazione da parte della relativa comunità pseudo-scientifica di riferimento, potrebbero così fare ingresso nel processo: giacché alla general acceptance il Frye test essenzialmente guarda. Il Frye test, pertanto, assume caratteri equivoci di formazione di una legge scientifica, non potendosi per suo mezzo sancire l’attendibilità di un metodo o di una tecnica di indagine rispetto al fatto da provare. Non a caso, quindi, il criterio della general acceptance è posto in fondo al Daubert test, quasi a rimarcarne la residualità (cfr. Cfr. M. Taruffo, Le prove scientifiche, cit., 233 ss.). 18 Tanto più necessario nei casi d’irripetibilità, cfr. artt. 360 e 391 decies Cpp. Ex multis, cfr. C. Bonzano, Prova “scientifica”: le garanzie difensive tra progresso tecnologico e stasi del sistema, in Scienza e processo penale: nuove frontiere e vecchi pregiudizi, a cura di C. Conti, Milano 2011, 112; C. Bonzano, Attività del pubblico ministero, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, III, Torino 2009, 300; S. Lorusso, Investigazioni scientifiche, verità processuale ed etica degli esperti, in DPP 2010, 1345 ss.; P. Tonini, Considerazioni su diritto di difesa e prova scientifica, in AP 2011, 825 ss.; P. Tonini, Informazioni genetiche e processo penale ad un anno dalla legge, in DPP 2010, 883; C. Conti, E. Savio, La sentenza d’appello nel processo di Perugia: la “scienza del dubbio” nella falsificazione delle ipotesi, in DPP 2012, 575; C. Conti, Il volto attuale dell'inutilizzabilità derive sostanzialistiche e bussola della legalità, in DPP 2010, 795; C. Valentini, Il caso di Rignano: ancora un episodio del rapporto tra scienza e processo, in CP 2008, 3350; S. Recchione, Le indagini nei casi di sospetti abusi su minori. La prova dichiarativa debole e la fruibilità negli atti di indagine, in CP 2009, 246. 19 Cfr. R. E. Kostoris, I consulenti tecnici nel processo penale, Milano 1993, 14; nonché C. Conti, Al di là del ragionevole dubbio, in Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio, a cura di A. Scalfati, Milano 2006, 91.

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b) non più latrice di verità, ma di semplici argomenti di prova, da inserirsi nel più ampio procedimento logico inferenzial-induttivo proprio del giudizio sull’imputazione, che coinvolge tutte le prove e che riguarda una puntuale affermazione di responsabilità penale rispetto ad un certo fatto (non la trasposizione “processuale” di una “verità scientifica”);

c) non più istituto sui generis, “giurisdizionale” (o ausiliario, per dirla con un’antica dottrina20), bensì “mezzo”, appannaggio delle parti, raramente del giudice;

d) non più “indefettibile”, bensì dispensabile (ricorrendo il tema di prova “alieno” dallo scibile comune, il giudice la disporrà, di fatto, soltanto in assenza di consulenze o di una consulenza “vittoriosa” sulle altre);

e) non più “monocratica”: la perizia essendo chiamata a calarsi in quella stessa dialettica permanente, da realizzarsi sin dalla raccolta del reperto sulla scena del delitto, o eccezionalmente ex post, tramite il sindacato sul metodo acquisitivo e le tecniche di conservazione (quindi recuperando un contraddittorio “tardivo” sulla formazione della prova scientifica);

f) non più segreta né documentale, dovendo il perito, o i periti, sottoporsi all’esame incrociato delle parti, preparate in questo da propri consulenti (i quali, dall’inizio delle operazioni, partecipano alla perizia, assistendo al conferimento dell’incarico al perito, presentando richieste, osservazioni e riserve al giudice, dialogando con le altre parti e con il giudice sui quesiti da porre, proponendo al perito specifiche indagini);

g) non più “protagonista” nella fase d’“inchiesta”, essendo anzi prova essenzialmente dibattimentale; potendo essere disposta, nella fase delle indagini preliminari, solamente attraverso l’incidente probatorio (ex art. 392 lett. f Cpp);

h) non più “autolegittimata”, potendo avere per scopo quello di valutare l’eventuale necessità di sé stessa.

Lo sbocco, così delineato, segna un punto di passaggio, probabilmente già varcato ben prima di un possibile adeguamento legislativo. L’esperienza giuridica ha, infatti, modificato la perizia, conferendole una sembianza non semplice da decifrare. Ciò è avvenuto col ricorso a criteri “pratici”: secondo regole affermatesi in base al costume giudiziario, alla lealtà ed inderogabilità del contraddittorio, nonché ai cangianti rapporti istituzionali tra parti private e parti pubbliche. Esigenze legate ad uno sviluppo “pratico e concertato” del rito, benché sprovviste di un sincronico adeguamento normativo, hanno quindi sollecitato detti mutamenti 21 ; peraltro intervenuti non senza incontrare “resistenze”, a motivo di quello stesso passato nel quale allignano le radici della prova peritale.

20 Il centro della controversia, non solo terminologica, è da ricercarsi nel fatto che, prendendo a base il concetto di perizia come mezzo di valutazione della prova e non come mezzo di prova, molti autori hanno in passato ritenuto che il perito, approntando la sua opera per permettere al giudice una migliore valutazione, potesse ritenersi un ausiliare di quest’ultimo, non già un organo di prova. Altrimenti opinare avrebbe, per questa teorica, significato una degradazione della figura processuale del perito (cfr. F. Carnelutti, Prove civili, cit., 21). 21 Cfr. Nella più ampia ottica di una diversità di rapporti tra forma Stato e modelli processuali M. Damaŝka, The Faces of Justice and State Authority, New Haven 1986, § 3.

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S’individueranno tre momenti salienti di questa tensione viva tra paradigma antico e nuovo, attraverso le relative composizioni: l’ammissione della prova peritale; il suo “valore” processuale; il “valore”, di risulta, della consulenza di parte ed i suoi riformati “equilibri” con la “perizia contemporanea”.

2. Presupposto per la nomina del perito, ex art. 220 Cpp, è che “occorra”

svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni richiedenti specifiche competenze tecniche, scientifiche ovvero artistiche. Si tratta di una formula che non si discosta da quella del Codice di rito del 1930, che richiedeva la perizia si prospettasse “necessaria”. Ma in rapporto a quali parametri stimare tale necessità-occorrenza?

Nel Codice del 1930 la valutazione sulla ricorrenza del requisito spettava al solo giudice; le parti potevano al più “proporgli” la nomina. Stando alla lettera dell’“originale” art. 314 Cpp 1930 (il giudice «può»), la perizia non era un obbligo, bensì una facoltà del giudice22. “Facoltà” non significava che il giudice potesse, semplicemente, disporre o rigettare l’istanza di perizia. Per disporla, si è già visto, la legge ne richiedesse la “necessità”; per rigettarla, il giudice sarebbe stato obbligato a motivare il diniego. Il verbo «potere» fu poi rimosso, per mezzo dell’art. 15 l. 18.6.1955, n. 517; la seconda versione dell’art. 314 co.1 suonava, quindi, così: «Quando sia necessaria un’indagine che richieda particolari cognizioni di determinate scienze o arti il giudice dispone la perizia», ossia ha l’obbligo di disporla.

L’attuale Cpp non può dirsi abbia risolto quest’ambiguità, tra l’indicativo-imperativo della disposizione e l’asserita facoltà giudiziale, pur testualmente non esclusa. Manca, infatti, l’esplicito riferimento all’indisponibilità della nomina (quantomeno, con riferimento alle personali conoscenze e competenze del giudice), in ciò riscontrandosi una discrasia di disciplina tra interpretazione e perizia23.

La locuzione «la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini» pare nondimeno rimarcare due aspetti. Da un lato, essa ripropone l’obbligatorietà del ricorso allo strumento tecnico, replicando (in forma passiva, per sottolineare la degradazione da protagonista a comprimario del ruolo rivestito dal giudice) la più significativa delle innovazioni apportate l. 18.6.1955 alla “vecchia” disposizione del Codice. Dall’altro, “indica” un ampliamento delle possibilità di ammissione della perizia rispetto ai confini angusti che derivavano, vigente l’art. 314 co. 1 Cpp 1930, da una problematica enunciazione in termini di stretta necessarietà. La variante adottata («quando occorre svolgere indagini») pare, infatti, smussare il rigore, anche lessicale, del precedente normativo («qualora sia necessaria un’indagine»), nel tentativo – dichiarato anche in Relazione 24 - di “inibire”, in fase ammissiva, 22 Cfr. A. Jannitti Piromallo, Lezioni di diritto processuale penale, Roma 1950, 260. 23 Tuttavia, come le norme sul diritto all’interprete (malgrado la presenza di una disposizione stentorea, come quella di cui all’art. 143 co. 5 Cpp), specie a seguito della novella intervenuta con l’art. 1 co. 1 lett. b) d.lgs. 4.3.2014 n. 32, sono chiaramente rivolte verso lo scopo di garantire la chiarezza lessicale di ogni termine della questione processuale alle parti, allo stesso modo deve trarsi che quando i temi processuali ineriscano materie estranee alla comune esperienza, quella stessa chiarezza della quale il Cpp si fa garante sul piano linguistico debba essere assicurata (in linea tendenziale) anche su quello tecnico-scientifico. 24 Relazione al Cpp, in GU 24.10.1988, n. 150 (suppl. ord.), 2470.

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l’operatività del principio del iudex peritus peritorum. Tentativo che sembra ostacolato dalla facoltà formalmente accordata al giudice di “disporre” anche d’ufficio la perizia25, ovvero di negarla; così come dall devoluzione allo stesso giudice del riesame critico sull’elaborazione peritale (sebbene filtrata, almeno teoricamente, dal contraddittorio delle parti).

2.1. Nell’ambito di questa sistemazione, è germogliato quell’orientamento che

ritiene la perizia un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti, indi tuttora prerogativa del giudice. Tale “neutralità” sarebbe quindi da intendersi, più che altro, per “giudizialità”. Le attestazioni in tal senso sono costanti e risalenti, ed hanno riguardato la morfologia stessa della prova peritale. Si è data, della perizia, l’immagine di un mezzo strutturalmente “autonomo”, prescindente dalla presenza di pareri tecnici prodotti dalle parti. Sicché, è stato affermato, la valutazione della necessità di disporre indagini specifiche spetterebbe al solo giudice, e tale valutazione, motivata “adeguatamente” 26 , risulterebbe insindacabile in sede di legittimità27.

L’asserita neutralità della perizia impedirebbe, inoltre, essa possa costituire oggetto del diritto alla controprova (ex art. 495 co. 2 Cpp), non essendo “a priori” identificabile come prova a carico né a discarico. È stata conseguentemente esclusa la riconducibilità della perizia al concetto di prova decisiva28, negando, nei casi di mancata assunzione, il rimedio del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 lett. d. I criteri che informano la nomina del perito divergerebbero quindi, per questa teorica, da quelli ordinari ex art. 190 Cpp: “occorrenza e specificità” ne indicherebbero semmai la deroga, libero il giudice di valutare l’an ed anche il quando 29 della disposizione peritale, nel quadro di una legalità nell’ammissione della prova a sfondo “impressionistico”30.

Agli antipodi, maggioritaria dottrina afferma per la perizia debbano valere gli stessi, ordinari, criteri ex art. 190 co. 1.

La perizia richiesta dovrebbe perciò risultare (con valutazione a carattere prognostico) pertinente e verosimile, ossia non contraddetta dall’epistemologia dominante in materia31. Al giudice sarebbe rimesso setacciare, realisticamente per 25 Nell’udienza preliminare, ai sensi dell’art. 422 Cpp, e nel dibattimento, artt. 224 co. 1 e 508 Cpp; eccezionalmente, durante le indagini, ma su richiesta di parte nelle forme dell’incidente probatorio ex art. 392. 26 Cass. 22.5.2007, Caputo, in GD 2007 (43), 84 s.; uno di quegli stilemi avverbiali ricorrenti in giurisprudenza, «racconto che uno sciocco va sciorinando pien di suoni e ardori, e non viene a dir nulla» (Macbeth, V.v.17-28; trad. it. di G. Carcano, Teatro scelto di Shakespeare, II, Firenze 1858, 251). 27 Da ultimo, Cass. 10.10.1997, Illiano ed a., in CP 1999, 941. 28 Cass. 11.10.2005, Mancini, in GD 2006 (2), 110. 29 Essendo sprovvista di sanzione processuale la violazione dell’obbligo di decidere tempestivamente sulla richiesta di ammissione della prova. Cfr. Cass. 8.7.2009, Scappulla, CEDCass, m. 245115. 30 Cfr. E. Amodio, Perizia e consulenza tecnica nel quadro probatorio del nuovo processo penale, in CP 1989, 170. 31 Questo criterio della verosimiglianza si risolverebbe nell’«impegno della futura valutazione ad incidere sulla disciplina del provvedimento ammissivo: sarebbe insensato per il giudice ammettere ciò che non ritenga di potere utilizzare in sede di valutazione» (G. Ubertis, Sistema di procedura

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mezzo di esperti, il panorama epistemologico rintracciandovi il parametro di riferimento, ai fini della valutazione di verosimiglianza. Occorrerebbe perciò che il giudice attivi una sorta di “accertamento sull’accertamento”, o nominando un perito che “collaudi”, giustificandola, l’ammissione della “perizia principale” 32 , ovvero affidando questo controllo ai consulenti nominati dalle parti fuori dai casi di perizia (ex art. 233 Cpp). Ancorché il vaglio si prospetti complesso, esso si presenta ormai “irrinunciabile” 33 , alla luce dei criteri indicati dal c.d. Daubert test 34 e della riconosciuta necessità dell’incidente sul metodo35. penale, Torino 2013, 101; dello stesso A. sul punto cfr. anche La prova scientifica e la nottola di Minerva, in La prova scientifica nel processo penale, Padova 2007, 86 s.); il giudice, in fase di ammissione, dovrebbe quindi verificare che con la perizia richiesta non si punti ad ottenere qualcosa «in maniera estranea ai parametri epistemologici storicamente dati, e quindi non possa essere usato per accertare il tema di prova, mancando la possibilità di controllarne e giustificarne razionalmente l’origine o l’elaborazione nel contesto della motivazione del provvedimento» (G. Ubertis, Sistema, cit., 89). 32 Alla maniera dell’art. 196 co. 2 Cpp, che in materia di testimonianza ammette appunto la possibilità per il giudice di verificare prodromicamente, attraverso «accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge», l’idoneità fisica o mentale del teste per la deposizione. 33 Cfr. O. Dominioni, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Milano 2005, 214, il quale sostiene che l’idoneità nei termini appena visti faccia riferimento esclusivo alla prova atipica ex art. 189 Cpp; v. nota 35. 34 Cfr. Daubert v. Merrell, cit. 28.6.1993; v. nota 17. 35 La mancanza, nel sistema del Cpp, di uno spazio deputato a provocare un contraddittorio sul metodo o sulla tecnica proposta, e di una normazione che vincoli il giudice a provocare un incidente di tal fatta, non ha impedito di ricavare una “regola” in via interpretativa: essa, per le dette ragioni, s’impone. La dottrina (cfr. O. Dominioni, voce Prova scientifica, in ED, II, Milano 2008, 984) ha, infatti, indicato nell’art. 189 Cpp la “chiave”: quando le parti chiedano di ammettere una prova scientifica basata su nuove tecniche o metodologie sarebbe possibile, nel contraddittorio, un giudizio, non contemplato dall’art. 190 Cpp, sulla sua idoneità accertativa, e sulla sua inoffensività rispetto alla libertà morale della persona. D’altronde, è stato anche sostenuto (cfr. G. Ubertis, La prova scientifica, cit., 91) che già la disciplina ordinaria sull’ammissione consentirebbe una verifica preliminare di attendibilità dello strumento scientifico: il che renderebbe inutile il richiamo alla prova innominata ex art. 189; finanche controindicato, poiché indurrebbe a ritenere la scienza nuova veicolabile necessariamente con un mezzo di prova atipico. Il dibattito svela un vizio originale del Cpp: il legislatore, infatti, pare volesse riferirsi, per mezzo dell’art. 190 Cpp, all’ammissione di mezzi di prova tipici, la cui idoneità accertativa era, quasi per definizione, presunta dalla legge. Per mezzo dell’art. 189, al contrario, non poteva che richiedere la prova, in contraddittorio, che il mezzo atipico fosse dotato di attitudine “dimostrativa”. In effetti, i redattori mostrano di aver preso le mosse da premesse filosofico-scientifiche obsolete, per le quali, come detto, la scienza si considerava ancora munita dei caratteri dell’unicità e dell’infallibilità (cfr. P. Tonini, Manuale, cit.., 252): quale questione si sarebbe potuta porre in sede di ammissione rispetto ad un eventuale metodo scientifico “nuovo”, dal momento che “tutta” la scienza era riversata nel mezzo di prova tipico della perizia, la cui idoneità accertativa era presunta dalla legge? Mutata la scienza, divenuta essa stessa “atipica”, la perizia risulta ora un “guscio vano”, quindi “intrinsecamente” atipico: manca d’altronde la nozione di “perizia”, che traeva dalla scienza “ufficiale” la propria sostanza; ben può quindi il mezzo mediare qualsiasi sapere – tecnico, scientifico ed artistico, “nuovo o tradizionale" – voglia per suo tramite importarsi al processo. Se la scienza è in evoluzione permanente, le nuove teorizzazioni non possono allora che essere preliminarmente stimate, indipendentemente dal mezzo di prova attraverso il quale esse trovino ingresso nel processo. Il problema della “nuova” scienza non inerisce quindi la tipicità o l’atipicità del vettore, bensì il “metodo” impiegato, in sede di ammissione, per approfondirne i

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La perizia non dovrebbe inoltre essere vietata36 nè superflua, ossia tendente ad acquisire un risultato conoscitivo diverso da quelli già conseguibili con altri ammessi mezzi di prova. Se ne richiederebbe, infine, la rilevanza: il risultato cui è preordinata la perizia dovendo possedere “attitudine dimostrativa” rispetto al fatto da provare37.

Un simile “adeguamento” non può che passare attraverso una “rilettura” complessiva del rapporto tra il giudice e la prova peritale: storicamente caratterizzatosi, in fase d’ammissione, in termini essenzialmente “facoltativi”.

2.1.1. Si ponga mente al disposto degli artt. 224, 507 e 508 Cpp. La possibilità di

disporre ex officio la prova peritale sembra deroghi all’ipotesi “ordinaria” di ammissione probatoria officiosa da parte del giudice. Il requisito della “necessità assoluta”, ex art. 507 Cpp, non ricorre, infatti, agli artt. 224 e 50838, che si porrebbero in rapporto di specialità rispetto all’art. 507 Cpp, in direzione “derogativo-semplificatoria”39. Quando la legge stabilisce sia il giudice a disporre la citazione del perito, dando gli opportuni provvedimenti per la comparizione delle persone sottoposte all’esame dello stesso (art. 224 co. 2 prima parte), replicherebbe, quindi, la facoltà ex art. 507, in una forma consentanea alla diversa posizione processuale nella quale essa è destinata ad esplicarsi (cioè all’esordio del dibattimento, non nell’interstizio tra la sua fase istruttoria e quella conclusiva). Così ricostruita, tale facoltà non può che prescindere tanto dall’istanza di parte (in ciò accomunandosi con l’art. 507 Cpp) quanto dal requisito dell’assoluta necessità, la cui ricorrenza nella fase iniziale del dibattimento è sovente indeterminabile (rispetto all’esito dell’istruzione dibattimentale).

L’officiosità, così ricostruita, dell’ammissione della prova, non ne determina, per ciò solo, la tanto predicata neutralità40. Ex art. 151 NAttCpp, ad esempio, se il giudice stabilisce quale parte debba condurre l’esame, bisogna prima determini – ex post, in base alla “direzione” delle dichiarazioni rese – chi avrebbe domandato l’ammissione della prova stessa (a risultato probatorio acquisito); a chi, quindi, per

connotati “probatori”. In questo “incidente” sul metodo, che il giudice è chiamato, se non a provocare, almeno ad accordare alle parti, se la tecnica o la metodologia scientifica siano “nuove”, entreranno in gioco i criteri Daubert test, elaborato come detto nell’ambito del caso Daubert v. Merrell (cit. 28.6.1993), da riversarsi sull’eventuale provvedimento di ammissione della prova (un rigetto essendo comunque impugnabile unitamente alla sentenza, ex art. 586 Cpp). Se, al contrario, non vi sia – almeno apparentemente - novità, l’unica ipotesi di esperimento del Daubert test riposerebbe nella contestazione della “tradizionalità”, quindi dell’idoneità accertativa presunta, del metodo o della tecnica scientifica di riferimento: ed il giudice non potrebbe che aprire ad un confronto, sempre in fase di ammissione del mezzo (cfr. P. Tonini, Manuale, cit., 253). 36 Rispetto alla perizia, peraltro, il divieto principale è espresso, ex art. 220 co. 2 Cpp; gli altri si sostanziano, essenzialmente, nel non ledere i diritti, anche costituzionali, delle parti o di terzi e soprattutto la libertà morale e fisica delle medesime, ex artt. 188 e 191 co. 1 Cpp 37 Cfr. L. P. Comoglio, Prova ed accertamento dei fatti nel nuovo codice di procedura penale, in RIDPP 1990, 135; cfr., inoltre, A. Nappi, Guida al codice di procedura penale, Milano 2001, 106. 38 Lasciando da parte il caso dell’art. 392, che è strutturalmente, invece, ad “istanza di parte”. 39 Cfr. P. Tonini, C. Conti, Il diritto delle prove penali, Milano 2014, 326 s. 40 Cfr. C. Conti, Il processo si apre alla scienza. Considerazioni sul procedimento probatorio e sul giudizio di revisione, in RIDPP 2010, 1209; nonché P. Tonini, Manuale, cit., 334.

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destinazione del risultato, spetti la prova (perché possa determinarsi l’ordine delle parti, a norma dell’art. 498 co. 1, 2 e 3). La Consulta ha, altresì, affermato che rientri tra le possibili conseguenze naturali che la prova «introdotta nel processo ex art. 507, torni a beneficio della parte istante»41 Cosa impedisce allora di riproporre analogo meccanismo rispetto alla perizia “officiosa”? Non il fatto che quella peritale sia una prova “intrinsecamente” neutra, potendo il suo risultato assumere un significato favorevole o sfavorevole per la parte.

Se da un lato ciò smentisce la neutralità della prova peritale42, dall’altro non definisce la dimensione della discrezionalità giudiziale in quest’ambito, né l’operatività della regola di cui all’art. 190 Cpp43. La circostanza che il giudice possa appropriarsi del risultato del contraddittorio o di quello delle consulenze tecniche di parte extraperitali (ex artt. 233 e 360 Cpp) non significa, infatti, che “in astratto” (v. ultimo §) egli se ne “debba” avvalere. Non viene meno l’impressione che, in questa “fase”, il giudice disponga – in un’ottica “principial-fondamentale” - di un residuo potere sostanzialmente discrezionale.

Ugualmente può dirsi con riferimento all’«occorrenza» della perizia: la cui nozione si dilata o si restringe secondo il “tipo” di discrezionalità riconosciuta al giudice in sede di ammissione. Se la discrezionalità è vincolata al contraddittorio ed ai pareri di parte, l’occorrenza riprodurrà la non superfluità dell’art. 190 Cpp: e la perizia dovrebbe risultare meramente “utile” in relazione al contesto probatorio delineatosi, cioè non superflua. Si trattasse invece di discrezionalità “pura”, l’occorrenza incarnerebbe un parametro “intimistico” rivolto il giudice (alla maniera dell’art. 314 Cpp 1930): che vi ricorrerà, per giustificare la scelta “soggettiva” di disporre l’assunzione della prova peritale.

Storicamente, la perizia è sempre stata una facoltà del giudice44: ed è quindi secondo la prospettiva ritenuta dominante (“principial-fondamentale” o “moderna”) che il giudice “può” ovvero “deve” disporre la perizia.

Dal punto di vista teorico, se il giudice è dominus delle prove, la perizia si traduce in un semplice strumento “ausiliare”, liberamente concesso al procedente. In tale scenario, le norme del Codice si “convertono” in regole organizzative delle attività processuali, ed i poteri del giudice in autonoma facoltà di ricorrere ad uno strumento “consegnatogli” direttamente dal legislatore. Al contrario, se si riconosce il complessivo mutamento delle “direttrici” concettuali ed istituzionali, la conclusione risulta rovesciata: ed il procedimento peritale non può soggiacere alla “libera scelta” del giudice. Si ammetterà piuttosto che il ricorso alla prova peritale costituisce 41 Cfr. C. Cost., 26.2.2010, n. 73 in www.giurcost.org. Cfr. P. Tonini, C. Conti, op. cit., 326. 42 Dando, almeno in parte, una risposta più ragionevole al problema della sua decisività ed al sindacato di legittimità sulla sua mancata acquisizione. 43 Cfr. P. Tonini, Manuale, cit., 334 s. 44 Cfr., per esempio, la Constitutio criminalis Carolina: agli artt. 35 e 147, affrontando la questione del ricorso alla perizia, si limitava a dire: «sarà bene» nel primo caso, e «potranno farne uso» nel secondo. Si era quindi lontani dal concetto di obbligatorietà, essendo possibile anzi chiaramente scorgere – nel diritto mitteleuropeo del XVI secolo - la matrice essenzialmente facoltativa dell’ammissione. Cfr. K. Geppert, Die Peinliche Halsgerichtsordnung Karls V. (die “Carolina”), in Juristische Ausbildung (JURA) 2015, 146 ss.

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oggetto di un diritto delle parti all’esperimento garantito e rigoroso della prova scientifica45. É quindi un errore concettuale, pure tuttora commesso46, ricavare la discrezionalità del giudice nella disposizione della perizia dalla discrezionalità, che pure “teoricamente” conserva, nell’accogliere o meno i risultati della perizia47 (v. infra).

Lo “stato dell’arte” mostra peraltro un chiaro spostamento, solo in parte spronato dal Cpp 1988, verso la seconda delle due teoriche enunciate. Nondimeno, talvolta il principio del libero convincimento risulta strumentalizzato per affermare, in senso restaurativo, una “pienezza” dei poteri del giudice in ordine all’opzione fondamentale se ricorrere all’indagine peritale super partes. Gioverà, in tal senso, rinotare come l’esaltazione del libero convincimento in questa materia non significhi soltanto svincolare il giudice dalle conclusioni cui il procedimento peritale disposto sia pervenuto, quanto appunto liberarlo, in chiave “principial-fondamentale”, dalle premesse (ex artt. 220 ss.). L’utilizzazione di accertamenti svolti nella fase delle indagini (attraverso la lettura dibattimentale dei verbali, nei casi di sopravvenuta impossibilità di ripetizione ex art. 512 Cpp), rappresenta, ad esempio, un altro mezzo per conseguire – più formalmente – un esito non dissimile nella sostanza48.

L’ampiezza della facoltà del giudice di disporre la perizia andrebbe tratta, in definitiva, dai principi generali del sistema probatorio vigente. Assai raramente, a determinate condizioni (cfr. art. 507 Cpp), la legge accorda al giudice un potere istruttorio “eccezionale”, connotato, comunque, in termini essenzialmente “obbligatori”49. D’altra parte, se l’art. 314 Cpp conferiva al giudice una facoltà (tramutata in obbligo dalla l. 18.6.1955 n. 517), sembra l’evoluzione legislativa sia andata nella direzione di affermare che disporre la perizia, nel caso in cui sia necessaria un’indagine richiedente specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche non rappresenti appunto una facoltà, bensì un obbligo, per il giudice.

L’art. 220, in tal senso, mostra una trama “imperfetta”: e all’infuori del dato normativo non è d’altronde possibile predeterminare il parametro in base al quale ritenere operativa la situazione processuale della “doverosità”50. L’obbligo previsto 45 Cfr. G. Vassalli, Il diritto alla prova nel processo penale, in RIDPP 1968, 27 ss. 46 Cfr. per esempio, da ultimo, Cass. 12.12.2002, Bovicelli, in CP 2004, 1659; nonché Cass. 22.5.2007, Caputo, cit., 84. 47 G. Vassalli, Il diritto, cit., 39. Si tratta di due concezioni antagoniste (una di matrice inquisitoria, che riconosce nel giudice un soggetto dotato di facoltà d’iniziativa di fatto sterminate; un’altra di matrice accusatoria, che accorda alle parti un controdiritto alla prova capace di bilanciarsi con i poteri di direzione processuale dei quali titolare è, invece, il giudice), che si contendono il campo in materia di perizia: ad essere in gioco sono, appunto, la facoltà di introdurre la prova ed il suo oggetto, nonché l’adozione di un metodo piuttosto che un altro (Cfr. M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano 1974, 374). 48 Cfr. M. Nobili, Il principio, cit., 375. 49 A fortiori rispetto alla perizia, proprio perché l’elusione del metodo si traduce in una virtuale inosservanza del contraddittorio sul versante tecnico-scientifico, nella remota ipotesi in cui manchino consulenti tecnici, oltreché in una violazione dell’art. 220 Cpp, il cui indicativo passivo «è ammessa» pare avere, dal punto di vista della grammatica processuale, un chiaro significato di doverosità. 50 Cfr. F. Cordero, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino 1956, 158 s.

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dall’art. 220 Cpp opera solamente nell’eventualità che l’accertamento presupponga specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche di cui il giudizio, più che il giudice, non sia munito. Orbene, se in concreto questo presupposto ricorra è, in ultima analisi, decisione che spetta al giudice (salva la possibilità, enunciata supra, di farsi assistere da un perito o, più realisticamente, dai consulenti delle parti per determinare l’“occorrenza” della perizia).

Frequente è d’altronde l’accennata affermazione pretoria, per cui l’assunzione della prova peritale sia «rimessa al potere discrezionale del giudice, nessuna limitazione essendo posta dalla legge, salvo che la decisione sia assistita da adeguata motivazione; elemento che rende insindacabile il diniego ai sensi dell’art. 606 lett. e Cpp»51. La discrezionalità del giudice, stando a questo orientamento, non si mostra vincolata: quandanche s’interpretasse la perizia come un mezzo di prova cui le parti hanno diritto, non pare i “generici” presupposti dell’art. 220 Cpp impediscano l’aggiramento della garanzia. C’è riscontro in quell’“occhiuta” giurisprudenza di legittimità, vista supra52, orientata a considerare la perizia prova “neutra”, sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa alla discrezionalità del giudice (con il corollario dell’asserita ed, almeno in tali termini, ontologica non decisività della prova peritale).

Per il giudice resiste dunque uno “storico” spazio di valutazione dell’“occorrenza” della perizia? Probabilmente sì, almeno in linea di principio. Del resto è complesso53 prestabilire il confine che divide il sapere comune (termine della “scienza privata” del giudice54) dal sapere tecnico; quel confine che cioè renda processualmente “manchevole”, perché ottenuta senza le necessarie garanzie, una soluzione ottenuta fuori dal contraddittorio scientifico55. Sennonché, nel momento stesso in cui si riconosce questa facoltà, si riattiva il circolo vizioso fin qui descritto, per cui la facoltà impinge sovente verso la discrezionalità insindacabile. Non resta

51 Cass. 25.11.2008, Brettoni, in GD 2009 (8), 84; prima ancora, per esempio, Cass. 13.11.2003, Sarcina ed a., in GD 2004 (24), 77. 52 Che, talvolta, nega la sindacabilità per cassazione, ex art. 606 co. 1 lett. d del convincimento espresso dal giudice circa l’esistenza di elementi tali da escludere la situazione che l’accertamento peritale richiesto dovrebbe dimostrare, a patto che la scelta sia “sufficientemente” motivata. Cass. 22.5.2007, Caputo, cit., 84, nonché Cfr. Cass. 7.7.2003, Bombino, in CP 2004, 4164. 53 Il patrimonio culturale dell’“agente modello” in quest’ambito accrescendosi con l’evoluzione delle acquisizioni scientifiche Cfr. O. Dominioni, La prova, cit., 55. 54 Cfr. V. Andrioli, Prova (materia civile), in NssDI, XIV, Torino 1967, 281. 55 Una simile difficoltà nel segnare tale confine tra sapere usuale e sapere scientifico non è sconosciuta nemmeno alla processualcivilistica, che concepisce, sulla base dell’art. 115 Cpc co. 3, la nozione di massima d’esperienza come limitata alla cultura comune del giudice. La disposizione deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati. Tuttavia, la possibilità per il giudice di ricorrere ai fatti notori in tanto si dà in quanto si tratti di fatti acquisiti alle conoscenze della collettività, in un dato tempo e luogo, con grado di certezza tale da apparire sostanzialmente incontestabile; tipico esempio ne è la svalutazione monetaria. Cfr. F. P. Luiso, Diritto processuale civile, Milano 2015, I, 195; v. anche E. Redenti, Profili pratici del diritto processuale civile, Milano 1938, 376, nonché M. Taruffo, Libero convincimento del giudice: I) diritto processuale civile, in EG, XVIII, Roma 1990, 4 s.

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che affidarsi alla coscienza dei giudici56, alla loro “buona fede” processuale nel ritenere tale facoltà un’extrema ratio57?

2.1.2. Nondimeno la discrezionalità, che il diritto vivente tuttora accredita e

che non sembra sopprimibile per le esposte ragioni, sta e cade proprio con l’individuazione del carattere “tecnico” della questione. E può dirsi sia sempre più onere delle parti, specie attraverso consulenze disposte fuori dai casi di perizia (ex art. 233 Cpp), dimostrare tale carattere. Provata la “tecnicità” (o anche un mero “dubbio” di tecnicità58), è stato autorevolmente rilevato, «sulla originaria situazione soggettiva di discrezionalità, se ne innesta una di vera e propria doverosità»59. Ricorrendo i presupposti ex art. 220, non sembra pertanto al giudice restino margini, magari derivanti dall’operatività del principio del libero convincimento60.

In circostanze simili la perizia, se (raramente) richiesta, è un diritto delle parti: attenente non tanto all’oggetto, quanto al metodo con il quale si forma l’argomentazione processuale, quindi il convincimento del giudice. È il “metodo” il fulcro dell’art. 220: in esso riposa la “scientificità” della prova, non certo nelle scoperte scientifiche da conseguirsi nel processo per suo mezzo. Ciò che non sembra dispensabile è che, in definitiva, al cospetto di una situazione richiedente valutazioni tecniche, queste siano formulate in un “certo” modo, non che portino ad un risultato “certo”.

In secondo luogo, la discrezionalità del giudice e lo stesso riconoscimento del carattere tecnico della questione sono ormai sempre più “condizionate” dalle scelte delle parti, come anticipato. Le quali, vista la costante espansione “nella prassi” del ruolo della consulenza tecnica extraperitale, disponibile ab ovo, ben potranno non domandare la perizia, contentandosi dei risultati raggiunti attraverso le consulenze, ovvero giudicando insidiosa una presenza tecnica “terza”; con conseguente, sempre maggiore “sussidiarietà” e “marginalità” della prova peritale, destinata ad essere poco “richiesta”, comunque essenzialmente nella sola fase dibattimentale (v. ultimo §).

56 Cfr. M. Nobili, Il principio, cit., 380. 57 E’ l’eterno ritorno dell’extrema ratio: per dirla con T. Padovani (cfr. Libertà dal carcere, libertà nel carcere. Affermazione e tradimento della legalità nella restrizione della libertà personale, Torino 2012, XXV s.), l’extrema ratio è il “palo” attorno al quale, in questo caso il giudice, farebbe la lap dance. 58 Se, come auspicato, si seguissero le regole generali, non occorrerebbe, infatti, la certezza di rilevanza e non manifesta superfluità, essendo sufficiente il mero dubbio, vale a dire la non manifesta superfluità o irrilevanza della perizia richiesta (ex art. 190 co. 1 Cpp). Il quantum di prova si abbasserebbe (cfr. Cfr. L. P. Comoglio, op. cit., 135; cfr., inoltre, A. Nappi, op. cit., 106, per il quale opererebbe finanche una presunzione di ammissibilità fino a prova contraria), limitando in modo drastico il potere discrezionale del giudice di opporre un diniego all’ammissione. 59 M. Nobili, Il principio, cit., 380; cfr. anche F. Cordero, Le situazioni, cit., 170 s., nonché F. Bricola, La discrezionalità nel diritto penale, Milano 1965, 155 s. 60 Cfr. M. Nobili, Diniego di perizia e utilizzazione di indagini tecniche svolte in sede amministrativa, in RIDPP 1971, 1028 s.

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3. Anche e soprattutto il valore processuale della perizia si è storicamente posto in tensione con il principio della libera valutazione61, accumulando nel tempo una schiera di opinioni critiche stratificate62.

Sistema vigente, è affermata con forza l’operatività del criterio della libera valutazione del giudice, con tutti i suoi corollari63: ed è, in effetti, questa la posizione dottrinale egemone64.

3.1. Della valutazione il giudice è tenuto a spiegare le ragioni nella motivazione

della sentenza. Come la motivazione è necessaria per respingere un’istanza di perizia, a salvaguardia dei diritti delle parti, così pure è indispensabile a enucleare le ragioni che inducono ad una certa valutazione del parere peritale, a garanzia della sostanzialità, della obiettività e della legittimità della valutazione stessa65.

61 Già esponenti della scuola positiva avevano visto nella libera valutazione un ostacolo al progresso della giustizia penale, siccome impeditivo l’ingresso delle “verità” scientifiche, ritenute sopra ogni valutazione; ed è per questo che, dal ceppo della teoria del giudice perito, è venuta a prendere corpo la teoria dell’obbligatorietà di ricezione per il giudice del parere vincolante del perito, come reazione mossa al principio del iudex peritus peritorum. 62 Cfr. per una rassegna storica di queste opinioni, specie nel diritto comune, E. Florian, Delle prove penali, II, Milano 1961, 237. Basti ricordare l’orientamento della scuola classica, che proponeva di imporre al giudice l’obbligo di recepimento, impedendogli di disattendere il giudizio peritale (cfr. G. Carmignani, Teoria delle leggi della sicurezza sociale, IV, Pisa 1832, 88 e F. Carrara, I periti alienisti, cit., VII, 143). La vincolatività del giudizio peritale fu posta poi alla base del disegno tratteggiato in materia dalla scuola positiva: «Il convincimento del giudice non può essere sovrano che là dove si tratti di apprendere ad apprezzare cose comuni; il semplice suo convincimento non può formarsi là dove si tratti di cose tecniche (…) La esigenza si è, dunque, che la funzione peritale nel processo possa esplicarsi efficacemente secondo il suo scopo, che il contributo peritale venga o debba venire utilizzato, quale esso è, senza soggiacere al riesame, al controllo tecnico di un giudice incompetente» (E. Ferri, Sociologia, cit., 772 s.). 63 Specie in punto di ridefinizione istituzionale dell’ambito della prova tecnica, sempre più incedente verso la realizzazione di un contraddittorio pieno ed esteso, quindi a quello stesso modello a legalità forte perseguibile soltanto attraverso le consulenze di parte, abbozzato al § 1. 64 Cfr. ex multis, M. Taruffo, Considerazioni su scienza e processo civile, in Scienza e diritto nel prisma del diritto comparato, a cura di G. Comandè, G. Ponzanelli, Milano 2004, 492 s.; L. Lombardo, La scienza e il giudice nella ricostruzione giudiziale del fatto, in RDPr 2007, 37 s.; V. Denti, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, in RDPr 1972, 414 ss.; M. Pisani, Peritus peritorum, in IP 1971, 536; G. Canzio, Prova scientifica, ragionamento probatorio e libero convincimento del giudice nel processo penale, in DPP 2003, 1195; L. D’Auria, Prova penale scientifica e “giusto processo”, in GP 2004, 26 ss.; G. F. Ricci, Nuovi rilievi sul problema della «specificità» della prova giuridica, in RTrimDPrCiv, 1154 ss.; L. Masera, Il giudice penale di fronte a questioni tecnicamente complesse: spunti di riflessione sul principio dello iudex peritus peritorum, in CMer 2007, 354 ss.; E. Salomone, Sulla motivazione con riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio, in RTrimDPrCiv 2002, 1027 ss; B. Cavallone, Riflessioni sulla cultura della prova, in RIDDP 2008, 980 ss.; L. De Cataldo Neuburger, Gli sviluppi della psicologia giuridica: la valutazione della qualità del contributo dell’esperto, in La prova scientifica nel processo penale, Padova 2010, 523 ss.; O. Dominioni, voce Prova, cit., 983 ss.; O. Dominioni, La prova, cit., 334 ss.; P. Tonini, La prova scientifica, in Trattato di procedura penale (diretto da G. Spangher), I, Torino 2009, 85 s. 65 Cfr. ad esempio, Cass. 17.2.1992, Khaled Mohamed El Jassem, in GP, II, 1993, 195 e Cass. 18.1.1995, Mazzoni, in RP 1996, 251; nonché, con simili conclusioni, Cass. 1.10.1996, De Tommasi, in RP 1997, 351 e 12.7.2004, Spapperi, in CP 2005, 3058.

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In questo secondo caso, per costante dichiarazione pretoria, il paradigma motivazionale si prospetta, tuttavia, “binario”. Se il giudice accetta il parere peritale, infatti, la giustificazione è la stessa sulla quale il perito abbia fondato il proprio parere. Qualora, invece, la decisione del giudice diverga dalle conclusioni della perizia, occorrerà egli dia conto delle ragioni del convincimento contrario con una valida analisi critica66.

Può quindi trarsi come il giudice che abbia condiviso le conclusioni del perito (anche per ciò che concerne l’analitica confutazione delle contrarie deduzioni di parte), non sia tenuto ad una “motivazione sulla motivazione” tecnico-scientifica, da esigere soltanto quando lo stesso giudice non ritenga attendibili e scientificamente esatti i risultati peritali67.

Come il giudice possa stimare tale inattendibilità, inesattezza, non si prefigura chiaro, all’infuori della ipotesi in cui nomini un altro perito per valutare le risultanze della “prima” perizia (nomina che la giurisprudenza ritiene, comunque, non necessaria; v. infra). Simile teorica presuppone un’interpretazione letterale del disposto di cui all’art. 220, quindi un riconoscimento che le competenze richieste debbano necessariamente ritenersi escluse dalle cognizioni del giudice (ed in genere dalle nozioni di comune esperienza). Sarebbe contraddittorio in quest’ottica – la stessa sposata dal menzionato orientamento - pretendere dal giudice un’autonoma dimostrazione dell’esattezza delle argomentazioni peritali, quando a tali conclusioni egli ritenga di prestare adesione. Allo stesso modo, si evince come sia ritenuto sufficiente che dalla motivazione del provvedimento giurisdizionale emerga un’adesione non “acritica” nè “neghittosa”, bensì «frutto di attento e ragionato studio, necessariamente condotto, peraltro, nel presupposto che le suddette conclusioni peritali, sia per la “particolare competenza” di cui il perito deve presumersi fornito ex art. 221 Cpp, sia per l’impegno che egli deve assumere all’atto del conferimento dell’incarico, ex art. 226 co.1 Cpp, siano, fino a prova contraria affidabili»68.

Secondo quest’indirizzo, la valutazione circa l’attendibilità corrisponderebbe a quella inerente la “necessità” (o, “occorrenza”) della perizia. Entrambe le verifiche sarebbero rimesse al giudice, che discrezionalmente (nei termini visi al § 2)

66 Se in motivazione manchino tali ragioni o se esse diano luogo a contraddizione interna o esterna (qualora in contrasto con un’acquisizione scientifica del processo), la sentenza sarà viziata da nullità e ricorribile per cassazione ex art. 606 co. 1 lett. e. Su quest’ultimo punto si attesta quella critica al criterio della libera valutazione giudiziale della perizia, basata sull’ipotesi che per essa possano essere respinte “certezze scientifiche”, sulla scorta che si ritenga inopportuno il rimedio approntato dalla legge (ossia, il ricorso per cassazione sulla motivazione della sentenza penale); cfr. F. Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997, 200 s. A ben vedere, infatti, l’ipotesi che nella libertà del giudice dalla perizia si annidi il rischio di giudizi “stravaganti” è sovente neutralizzata – dal punto di vista argomentativo – con il rammentare da un lato l’obbligo di motivare le conclusioni cui il giudice stesso sia pervenuto in sentenza, dall’altro, come poc’anzi detto, la censurabilità degli ipotetici vizi di logica delle prove attraverso il giudizio per cassazione (Cfr. M. Nobili, Il principio, cit., 385 s.). 67 Cfr. ex multis, Cass. 17.2.1992, El Jassem, cit., 196 s. 68 Cfr. Cass. 11.11.1993, Carrozzo, in ANPP 1994, 429.

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disporrebbe ex art. 220 Cpp e valuterebbe ex artt. 192 e 546 lett. e Cpp. Tali scelte non sarebbero sindacabili in sede di legittimità, in presenza di una motivazione che non appaia contrastante – in maniera manifesta69 - con le regole della logica, e che attinga elementi concreti emersi nel processo. Perché non sia censurabile il suo operato, che il giudice “mostri” – sembra appunto suggerire, quasi esortare, questa giurisprudenza – di aver riflettuto sulle valutazioni ricevute, di essersi persuaso della loro affidabilità. Il giudice potrà, ad ogni modo, raffrontare quei risultati, almeno superficialmente70, con le argomentazioni concorrenti di un altro perito 71 o dei consulenti. Tali argomentazioni “concorrenti” porteranno, in ipotesi, a ravvisare un vizio di motivazione solo se tali da dimostrare in modo «assolutamente lampante e inconfutabile la fallacia delle conclusioni peritali»72. Costituisce, infatti, giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità, la scelta operata dal giudice tra le diverse tesi prospettate73.

La soluzione muta se si considera la posizione del giudice che ritenga erroneo il risultato della perizia, decidendo di disattenderlo. La facoltà è parimenti incontestata, fermo restando l’adempimento dell’onere di motivazione, diversamente connotato – dalla stessa giurisprudenza di legittimità – in termini di “maggiore e più penetrante” ponderazione “tecnica”. Il giudice che voglia “affrancarsi” dalle conclusioni peritali dovrà motivare con riferimento ai criteri seguiti che giustificano una conclusione contraria. Per il caso poi in cui sussista contrasto con le deduzione dei consulenti di parte, occorrerà una motivazione estesa ad ogni singolo profilo di censura74: cioè un’enunciazione delle ragioni scientifiche e fattuali (indicate con rigore, anche metodologico75) che abbiano indotto il giudice a respingere dette valutazioni. Tale “dissociazione” non implicherebbe peraltro, secondo lo stesso “filone”, l’obbligo di nominare un nuovo e diverso perito, potendo il giudice trarre aliunde gli argomenti necessari ad una smentita resistente nel giudizio sulla motivazione76.

3.1.1. Il libero convincimento, declinato in forma “negatoria”, si estrinseca

quindi in una motivazione più diligente e sorvegliata. In tal caso, il giudice deve dare 69 Secondo la citata Cass. 3.6.1994, Nappi, in ANPP 1995, 711. 70 Cfr. Cass. 11.5.1998, Sileno, in CP 1999, 2951; Cass. 27.11.2001, Carrara, in GD 2003 (15), 96; Cass. 17.2.2009, Panini, in CP 2010, 3190. 71 Cass. 24.10.2007, Antignani, in ANPP 2009, 139. 72 Cass. 12.7.2004, Spapperi, cit., 3058. 73 Cfr. Cass. 6.11.2008, Ghisellini, in ANPP 2010, 116. 74 Cfr. tuttavia Cass. 17.4.2012, p.c. in c. Sorrentino ed a., in GD 2012 (42), 101, che ha asserito non costituisca di per se vizio di motivazione l’omesso esame critico di ogni minimo passaggio della relazione tecnica disattesa, essendo la valutazione delle emergenze processuali affidata al potere discrezionale del giudice di merito, il quale non dovrebbe, secondo la pronuncia, prendere in considerazione – quantomeno in maniera espressa – tutte le argomentazioni critiche dedotte o deducibili per adempiere compiutamente l’onere di motivazione; sarebbe piuttosto sufficiente che enunciasse con logicità gli argomenti determinanti per la formazione del suo convincimento: enunciazione che renderebbe immune il giudizio da censure di legittimità. 75 Cfr. Cass., 1.2.2006, Albano, in ANPP 2006, 504. 76 Cass. 22.11.2007, p.m. in c. Orlando ed a., in GD 2008 (10), 91.

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conto delle ragioni del dissenso o della scelta operata, comprovando di essersi soffermato sulle tesi ritenute non convincenti e confutando in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti. Il tutto, come appena visto, potendo svolgersi anche “in solitudine”: non essendo richiesta l’assistenza di un perito ad motivandum. Ove la motivazione sia stata congruamente composta in sede di merito, sarebbe precluso al giudice di legittimità procedere ad una differente valutazione77.

Ma quando può dirsi raggiunta, questa congruità? Per assolvere l’onere, bisognerebbe infatti che il giudice, all’esito dell’incidente peritale, sia davvero divenuto il “perito dei periti”; sia cioè capace di districarsi tra i pareri e quindi discernerli, mostrando di avere acquisito conoscenze praticamente superiori a quelle dei soggetti chiamati ad infondergliele.

Mentre la giurisprudenza concorda nel predicare la necessità della motivazione (di una “vera ed ottativa” motivazione) quando il giudice “scelga” di discostarsi dal parere del perito, se il giudice stesso (non) decida di sposare i risultati delle operazioni peritali quella “necessità” sbiadisce, vacilla. Se da un lato si concede, infatti, che in quest’ultimo caso l’obbligo di motivazione sia assolto con diverso rigore (poiché solo nella prima ipotesi, quella del dissenso, sarebbe necessario esporre in maniera “rigorosa” le ragioni che giustificano la scelta), dall’altro si opina che il giudice debba “comunque” motivare, quasi non possa per principio ricevere responsi tecnico-scientifici senza esercitare un “minimo” di controllo (senza poi chiarire, rispetto all’adesione, la consistenza ed il contenuto di questo, comunque più modesto, filtro).

Sembra qui emergano le perplessità maggiori, stemperate al sol considerare che si tratta di una riedizione silente e sofisticata dell’invito “principial-fondamentale” al giudice, formalmente guarnito della regola del iudex peritus, di accogliere le conclusioni peritali. Se, infatti, il giudice sposa il parere del perito, l’obbligo di motivazione sfuma, riemergendo l’antica ed originale regola per cui la perizia si “automotivi”. La perizia deriverebbe cioè la propria “autorevolezza” dal momento dell’ammissione e della scelta dell’esperto. Questi offrirebbe alla decisione del giudice - con la sua valutazione - un elemento non contestabile fino a prova contraria; prova che nel contesto delle origini, privo di contraddittorio tecnico, grava sullo stesso giudice, divenendo sostanzialmente “diabolica”. Di qui, l’“automatismo” in caso di adesione è logica conseguenza: un automatismo che si traduce nel “decidere di non decidere”, ossia nel lasciare che sia il perito a decidere.

La prova contraria si mostra effettivamente “diabolica” quando il giudice opti per la non adesione, e debba appunto dimostrare la ragionevolezza del suo giudizio, attraverso una motivazione che, ostentata come limite all’arbitrio, diviene piuttosto un’esaltazione “mitica” e perciò “mistificatoria” dell’antico slogan per cui iudex est (cioè deve essere, se vuole discostarsi dai risultati peritali) peritus peritorum. Vale a dire: se il giudice voglia “divincolarsi” dalle valutazioni del perito senza incorrere in una censura di legittimità, bisogna possieda (questa l’implicita richiesta pretoria) almeno la stessa “perizia” che ha portato perito e consulenti, ove nominati, a 77 Si sarebbe in presenza, si ripete, di un accertamento in fatto, come tale insindacabile oltre i limiti del vizio motivazionale; cfr. F. Cordero, Procedura penale, Milano 2012, 1146 ss.

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formulare in quei termini il giudizio. Altrimenti, riecheggiando il monito di un illustre esponente della c.d. scuola criminale radicale, «il libero convincimento si trova campato in aria, senza punto d’appoggio; diventa fine a se stesso»78. In ciò si pone il crocevia dei rapporti tra giudice, perito e consulenti tecnici: nella stessa ottica “principial-fondamentale” che, più che altrove, mostra in questo passaggio la sua più ostinata resilienza.

L’obbligo di motivazione, così delineato, appare inesaudibile: non potendosi esigere che il giudice pareggi in competenza il perito, nell’ambito scientifico di riferimento (e nella sua specifica articolazione interna, sempre più specialistica, periferica, autonoma), per stimare il parere col “senso critico” preteso dalla giurisprudenza. Il rigore della conclusione è, d’altra parte, destinato ad amplificarsi ogni minuto che passa, al divaricarsi continuo e progressivo delle conoscenze tecniche dalle conoscenze “comuni”79.

Seguitare evocando il principio del iudex peritus peritorum è, perciò, richiamo in vita del “passato”: come detto, “mito” e “mistificazione”. Il “mito” dello iudex peritus rappresenta, d’altronde, una componente irrinunciabile della teorica “principial-fondamentale” in materia: forza viva, sedimentata nel tempo, che fornisce quella giustificazione astratta senza la quale l’intera operazione risulterebbe, per ciò solo, “illegittima”. É anche “mistificazione”: se il giudice dichiara che la questione trascende le sue capacità, tanto da disporre la perizia (ex art. 220), egli non può (ripete d’altronde quella stessa giurisprudenza, che ripara poi all’ombra del iudex peritus) logicamente negare la precedente ammissione, disattendendo le conclusioni del perito cui si è in precedenza rivolto80.

Non sfuggirà, come da antico retaggio, che una volta accolto il giudizio del perito, il principio operativo è all’opposto quello del peritus iudex iudicum, sulle questioni di sua competenza81. Così sembrano motivarsi le tendenze mai sopite – cui pure si è fatto cenno supra82 – a predicare l’abbandono di un principio, quello del iudex peritus, che pare da un lato obsoleto, dall’altro surrettiziamente travisante il paradigma del libero convincimento in materia. Il problema, infatti, non risiede nell’operatività (raramente confutabile) del “contrario” principio del peritus iudex, ma nel fatto che questo si sia storicamente incarnato in forma “monocratica”, documentale e segreta. La teorica del “giudice perito” varrà ancora nei rapporti “1 a 1” (perito e giudice istruttore nel Cpp 1930; oggi p.m. e suo consulente nelle indagini; § 6.2.): i quali presuppongono cioè uno sia il perito, una la scienza, una l’alternativa “bloccata”, per il giudice, tra accogliere (“senza” motivazione) o respingere (motivando in maniera “penetrante”). Sembra possa concludersi, sul legame tra 78 E. Florian, op. cit., 239. 79 Cfr. V. Denti, op. cit., 429 s. 80 Cfr. M. Taruffo, Considerazioni, cit., 492; L. Lombardo, op. cit., 37 s. 81 Sull’assunto, si ripete, che sia una competenza esclusiva, come lascia intendere lo stesso art. 220 Cpp, e, più in generale, la ratio del procedimento peritale complessivamente inteso 82 Cfr. anche A. Salis, Sull’attendibilità del principio “iudex peritus peritorum”, in Democrazia e diritto, I, 1960, 172 e F. Colace, Valore della perizia nei giudizi civile e penale, in RIDPP 1956, 320 s.; G. Alma, La perizia con particolare riferimento a quella grafica, nel campo della procedura penale vigente, in GP 1965, I, 229, citati in M. Nobili, Il principio, cit., 388.

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principio del iudex peritus e perizia “principial-fondamentale”: simul stabunt, simul cadent.

3.2. La richiamata efficacia “storica” degli argomenti che si oppongono

all’indipendenza del giudice dal responso peritale, impone ormai un approccio “realistico” e “moderno”, per un superamento, o un “adeguamento”, del sistema del libero convincimento in ambito probatorio-scientifico. Fermi restano i limiti “esterni ed interni”: il giudice non può surrogare il perito scegliendo arbitrariamente la teoria ricostruttiva, né – questo indica il diritto vivente – “omologarsi”, senza aver “provocato” il suo spirito critico (o, più realisticamente, quello dei “mediatori” tecnici), alla conclusione peritale.

La tendenziale “vincolatività” del parere, a ben vedere, oggi non incontrerebbe nemmeno la resistenza di quanti denunciavano – con riferimento al Cpp 1930 – gli effetti menomativi dei diritti di difesa. Nel Cpp Rocco, prescindendo dalle modeste facoltà accordate ai consulenti di parte, si rammenterà come esclusa fosse la possibilità per il pubblico ministero di nominare un proprio consulente tecnico83, e come il perito d’ufficio finisse con lo svolgere, di conseguenza, un ruolo ausiliario anche dell’accusa84. Già con l’introduzione per il pubblico ministero della facoltà di nominare un proprio consulente tecnico, il quadro risulta sostanzialmente modificato.

Con l’intervenuta ridefinizione della figura e delle facoltà dei consulenti di parte, il contraddittorio tecnico non pare più compresso, essendo stata restituita al perito d’ufficio la sua (quantomeno astratta) posizione di “imparzialità”.

Sembra pertanto si diano le condizioni per configurare, anche normativamente, una sorta di “arbitrato” peritale: un collegio, composto dai consulenti delle parti e, quando nominato, dal perito giudiziale. Tale assetto si destinerebbe più ai “contraddittori” che al giudice, perché i primi, interloquendo, contribuiscano per mezzo di esperti all’opera di “chiarificazione” sul fatto scientifico. Chiarificazione che in quest’ambito significa pervenire ad uno scibile “artificiale” comune, attraverso un’approvazione di tipo “parlamentare”, ossia raggiunta attivando circuiti simili a quelli che informano il sistema deliberativo democratico. L’approdo finale sarebbe rappresentato da una decisione, per così dire, “trasparente”, non importa se fallace o impeccabile in termini assoluti. L’unico assoluto, in così periclitante materia, non può che essere il “metodo”, che fonda un sapere comune, quindi verificabile e sindacabile.

Si tratterebbe di un “polipolio” votato a realizzare un bilanciamento del contraddittorio tecnico-scientifico mediante un’equa e “paritetica” partecipazione di periti di parte e, se nominati, periti d’ufficio85. Così ottimizzata tale “dialettica

83 A riprova di una confusione non soltanto concettuale che il precedente Codice mostrava tra funzioni processuali del giudice istruttore e del pubblico ministero F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, I, Padova 1930, 188 s. 84 Il che, a qualunque grado realizzato, voleva significare una compromissione della “imparzialità” dell’ufficio peritale. 85 Cfr. M. Nobili, Il principio, cit., 388.

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necessaria”, potrà realizzarsi l’agognata “processualizzazione” del metodo scientifico. Il collegio di periti e consulenti rappresenterebbe, cioè, un’adeguata premessa alla trasposizione processuale del falsificazionismo. Da un lato inibirebbe aneliti di superiorità dei periti o dei consulenti dell’accusa pubblica (secondo l’originale stigma dell’ipse dixit dello scienziato “ufficiale”). Dall’altro implicherebbe di saggiare “sul campo” l’attendibilità della loro ricostruzione: la loro resistenza, cioè, ai tentativi di smentita delle parti private e dei relativi consulenti86.

Tale riordinamento verso la “legalizzazione” in senso “forte” dell’acquisizione della prova scientifica, passa attraverso l’annullamento delle differenze “principial-fondamentali”, normative ed ideologiche (quindi anche giudiziariamente “inconsce”), tra perito (e consulente del p.m.) e consulente, presuntivamente ritenuto meno attendibile, perché di parte. Questa parificazione gerarchica 87 consentirebbe al principio del libero convincimento di giocare le sue carte migliori nella scelta tra vari esperti e varie tesi prospettate, dotate tutte “in astratto” della medesima “qualità”, quindi “possibilità”, persuasiva. La Consulta 88 si è pronunciata con chiarezza, dichiarando l’illegittimità costituzionale della previgente disciplina sul gratuito patrocinio nella parte in cui limitava il beneficio al consulente tecnico endoperitale: «La consulenza è suscettibile di assumere pieno valore probatorio non diversamente da una testimonianza (…) pertanto il giudice non è obbligato a nominare un perito qualora le conclusioni fornite dai consulenti di parte gli appaiano oggettivamente fondate, esaustive e basate su argomentazioni convincenti».

L’auspicata evoluzione, sempre che non debba preferirsi un’abrogazione tout court dell’istituto peritale89 (la cui sopravvivenza si giustifica per ragioni aliene ad un’ordinata costruzione della procedura, v. infra), non corroborerebbe l’obiettività della perizia90, quanto la sua “sindacabilità”.

La figura processuale del “perito di parte” rappresenta, in tal senso, una nota dimenticata della nostra tradizione legislativa (art. 211 Cpp 191391). La partecipazione

86 Non presuntivamente, cioè, per il fatto solo di essere stato nominato da un organo terzo ed imparziale; cfr. O. Dominioni, La prova, cit., 334. 87 Cfr. O. Dominioni, La prova, cit., 334. 88 C. Cost. 19.2.1999, n. 33, in CP 1999, 1736 con nota di R. E. Kostoris, Consulente tecnico extraperitale e gratuito patrocinio. 89 Preferenza già affermatasi, per esempio, nel passaggio dal Cpc del 1865 (che regolava la perizia civile al § 4 del libro I titolo IV, agli artt. 252 s.; cfr. L. Mortara, Istituzioni di procedura civile, Firenze 1922, 223 s.) a quello del 1940 (che, come noto, tratta del consulente tecnico del giudice nel capo III del titolo I del libro I; cfr. S. Satta, C. Punzi, Diritto processuale civile, Padova 2006, 86). 90 Che, dal punto di vista del risultato processual-probatorio, è pressappoco un’incongruenza: da qui derivando la teorica della “neutralità” della prova peritale (cfr. § 2). 91 Cfr. A. Stoppato, Commento al Codice di procedura penale, III, Torino 1915, 488 s. L’art. 198 co. 1 stabiliva che i difensori delle parti avessero diritto di assistere agli esperimenti giudiziali, alle perizie, alle perquisizioni domiciliari ed alle ricognizioni; al co. 2, che il giudice potesse autorizzare anche l’assistenza dell’imputato o della parte lesa agli atti suddetti, se il pubblico ministero o i difensori ne avessero fatta richiesta, o la qualità dell’atto lo avesse reso necessario a giudizi dello stesso procedente. Salvi i casi di urgenza, di indagine semplice o reato di tenue gravità, nei quali casi la perizia era eseguita da un solo perito di nomina giudiziale (in tali evenienze, a pena di nullità, doveva essere notificata, ex art. 213 co. 2, all’imputato l’esecuzione della perizia e la conseguente

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del perito di parte alla perizia “ufficiale” poteva, infatti, paragonarsi alla partecipazione del difensore al giudizio: il che è da considerarsi ancora un’avanguardia. Nel dubbio se la perizia offrisse solo un parere, o piuttosto una “decisione”, il legislatore del 1913 si mostrava preoccupato per lo sconvolgimento di una ritenuta necessaria obiettività della perizia (che ne restava comunque fortemente scossa, in quell’ottica). Oggi, che il dogma della “neutralità” della prova peritale è sottoposto a severa critica, cosa impedirebbe di rivitalizzare quel modello, magari integrandolo con le consulenze di parte (nelle fasi in cui non è possibile disporre la perizia); o comunque riconoscendo – caduto l’asserto dell’obiettività assoluta – libertà lato sensu difensive al perito designato dalle parti? Forse il persistente timore della natura sostanzialmente “decisionale” della perizia collegiale?

Se deve sopravvivere la perizia, il modello del perito di parte (dal punto di vista istituzionale) sembra ricorrere ad un registro processuale più netto e consentaneo all’evoluzione dei diritti delle parti ed alla parità delle stesse, nelle varie fasi nelle quali il procedimento si snoda. Se, invece, come pare ormai testimoniato dai fatti (nel senso di un ruolo sempre maggiore giocato dalle consulenze), siano davvero venute a mancare le ragioni fondative della perizia “original-ufficiale”, un altro archetipo s’impone: quello della consulenza di parte, sempre più incedente, mutatis mutandis, verso la “figura” processuale dell’expert witness di matrice angloamericana.

facoltà per lo stesso di esaminarla per mezzo di un perito di sua scelta, perché esprimesse il proprio parere), in via ordinaria la perizia era sempre “duale”: un perito di nomina giudiziale, ex art. 208, un altro (tenuto a prestare giuramento di verità al pari del perito nominato dal giudice, ex artt. 90 e 397 co. 2, in tal modo profilandosi un possibile cortocircuito tra perizia imparziale e perizia “parziale”) nominato dall’imputato, ex art. 211 (ovvero nominato dal giudice stesso ogniqualvolta fosse mancata la scelta dell’imputato, o nel caso in cui l’autore del reato fosse ignoto: a tal punto giunse lo scrupolo del riformatore, perché fosse garantita la difesa con l’osservanza del contraddittorio), o dal civilmente responsabile (art. 212 co. 2, non dalla parte civile). Un terzo perito poteva essere nominato dal giudice in caso di disaccordo tra i due periti originali. Tale sistema della collegialità della perizia, che a sua chiusura prevedeva il c.d. “parere dirimente", riprendeva sul punto le legislazioni austro-tedesche dell’epoca: in quegli ordinamenti, quando il parere dei periti fosse rimasto dubbio, si faceva luogo – in via facoltativa - al parere di speciali consessi scientifici, autentiche istituzioni super-arbitrali (cfr. Nuovo codice di procedura penale, a cura di A. Bruno, Firenze 1913, 222 s.). D’altra parte, l’istituzione di un consiglio scientifico, collocato sopra le parti, cui rinviare le relazioni peritali in caso di contestazione e di controperizia (prima che fossero accettati come atti di procedura) doveva essere ipotesi assai in voga nello spirito riformatore del tempo, se essa fu pure reclamata in Francia (ove questo sindacato superiore parve del pari indispensabile a por fine alle divergenze peritali, almeno nei procedimenti per reati per i quali fosse stabilita la pena di morte, e a condizione che la questione scientifica, così definitivamente decisa, non potesse essere ripresa all’udienza sotto alcun pretesto; cfr. F. Guillot, Des principes du nouveau code d’instruction criminelle, Paris 1884, 187 s.), nonché in altri ordinamenti di tradizione francoloquente, come il Belgio (cfr. A. Drioux, Organisation de l’expertise contradictoire et d’un tribunal de superarbitre. Expertise dans les legislations étrangères, in Journal de Droit, I, 1906, 59 s.). Il Cpp Finocchiaro Aprile sposava, in definitiva, nell’ambito di una salda collocazione in fase istruttoria, il sistema del collegio peritale, a contemperamento dell’ufficialità del mezzo di prova (ribadito, nondimeno, dalla nomina giudiziale pro quota) associato a quello della c.d. perizia libera (con la possibilità della parte di scegliersi a propria volta un esperto).

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Tendenze in atto (anche normative), il giudice non può, in ogni caso, dirsi “libero” di “formarsi” una ricostruzione scientifica – “autonoma” o diversa da quelle emerse nel processo - sulla quale basare la propria decisione. In concreto, non gli rimane che accogliere in sentenza uno dei risultati formati nel contraddittorio “in senso lato” peritale, sposati con la logica comune e con le altre risultanze probatorie. In situazioni, cioè, di “1 a 2” (o più di due, quanti sono i consulenti ed i periti), lo spazio “effettivo” del iudex peritus corrisponde a quello di “scelta” – obbligata - di una tra le ricostruzioni proposte (non già nel rigido aut aut tra accogliere o respingere): ed il perito potrà soccorrere, in ipotesi e se nominato, nell’indirizzarla (v. ultimo §).

Se questa dinamica “espropriativa” possa alimentare diffidenze del giudice verso la prova scientifica non può stabilirsi, né sembra decisivo. Riconosciuto, infatti (cfr. § precedente), che a certe condizioni (peraltro quelle ordinarie ex art. 190 Cpp, secondo l’auspicata prospettazione) il giudice non possa esimersi dal disporre la perizia, se sia libero di dissociarsi dai risultati è disquisizione “teorica” che offusca una realtà manifesta. Il giudice è stato esautorato del potere di accertare alcuni fatti, rispetto all’accertamento dei quali la legge non può che garantire la validità piena di una “metodologia”, quella falsificazionista. Idealmente, tale “incidente tecnico” è affidato alla “sovrintendenza” dello stesso giudice, che ne accetta le risultanze in via “selettivamente” automatica (v. § 3), una volta acclaratane l’attendibilità nel contraddittorio, per mezzo del contraddittorio. Il giudice è infine chiamato a dare ragione delle scelte in motivazione, la cui “razionalità” consiste nella fedeltà al risultato della “lotta peritale”; nella fedeltà, quindi, alla soluzione emersane come “vincitrice”.

3.3. L’operatività attuale del principio dello iudex peritus “sopravvive” nella

possibilità-limite che il giudice, “formalmente” non vincolato a quelle stesse risultanze, possa criticarne il metodo formativo92, ovvero semplicemente si limiti, come poc’anzi visto, a prediligerne una piuttosto che un’altra. Fermo resta l’auspicio di un’affermazione, anche normativa, delle garanzie del metodo “arbitral-peritale”: attraverso il riconoscimento della sua natura sostanzialmente “cognitoria” (ossia di “isola” giurisdizionale nella giurisdizione), traendo da questa “coscienza” le necessarie conseguenze93 sul piano pratico e sistematico. Il giudice, si ripete, in quest’ottica rinnovata è custode (gatekeeper, per dirla con la pronuncia Daubert v. Merrell94) della “legalità” dell’incidente peritale: in motivazione non potendo che dar conto dell’esito dello stesso. Il discostamento finisce col rappresentare, quindi, una vera extrema ratio.

Certo, “recepita” la valutazione, essa entrerà comunque in quel circuito probatorio “dinamico”, e dovrà essere “rivalutata” dal giudice – a quel punto, con

92 Quindi gli esiti medesimi: ad esempio quando questi risultino palesemente fallaci. 93 Ad esempio, trasmettendo chiaramente alle parti il messaggio che si tratti di un “processo nel processo” e come tale debba essere “affrontato” alla stessa maniera del “principale”, perché condotto con egual metodo e conducente, in proporzione, ad eguali esiti. 94 Cit. 28.6.1993; v. nota 17.

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“nuova e diversa” operatività del principio del libero convincimento – nel più complessivo contesto dell’intera istruzione probatoria95.

4. Secondo il paradigma “principial-fondamentale”, la “regola” dell’ufficialità

della perizia ha per coerente conseguenza l’unicità della funzione peritale nel processo. Se uno soltanto è il perito, quello nominato dal giudice, il controllo delle parti sulla perizia può essere riconosciuto (senza inserirsi nel rapporto peritale) concedendo alle parti stesse di eleggere un fiduciario, capace di portare le necessarie osservazioni difensivo-critiche sulla perizia96.

Il Cpp 1988 (ma, soprattutto, quei criteri di elaborazione “pratica” menzionati al § 1) ha, invece, sensibilmente ampliato le facoltà delle parti in materia di consulenza e degli stessi consulenti rispetto alla perizia, smorzando le rigorose conseguenze del principio di ufficialità della prova peritale. O la perizia non è quindi più tale (non è più ufficiale, essenzialmente) ed il rapporto è tra prove tecniche assunte per mezzo di consulenti (delle parti e del giudice, alla maniera del rito civile), oppure le consulenze sono da equipararsi all’istituto peritale vero e proprio (con tutto ciò che ne consegue) ed il rapporto peritale da costituirsi tra figure paritarie. Non è forse vero, in questo senso, che i consulenti abbiano ormai un visus assai esteso sull’oggetto della perizia? Non hanno essi il diritto di partecipare a tutte le attività peritali, di assistere all’assunzione delle prove, di provocare il perito stesso attraverso la proposizione d’indagini specifiche (nonché, più “blandamente”, con la formulazione di osservazioni e riserve ex art. 230 co. 2 Cpp)? Non è d’altronde per tali ragioni che la giurisprudenza fa discendere la nullità della perizia, ex art. 178 lett. c Cpp, dall’omissione dell’avviso che renda impossibile al consulente di parte la partecipazione all’attività peritale97?

95 Cfr. G. Canzio, La valutazione della prova scientifica fra verità processuale e ragionevole dubbio, in AP 2011, 3. Permane il rischio che, appresa la valutazione tecnico-scientifica, il quadro probatorio nel quale inserirla risulti complessivamente modesto: frequente è l’ipotesi che in presenza di una questione che richieda “particolari competenze” il processo, quindi la decisione, finisca con l’appiattirsi sulla prova scientifica, la sola ritenuta necessaria – e sufficiente – a risolvere il caso (sebbene soggiacente alla regola della pluralità, ex art. 192 co. 2 Cpp); in ciò ritornando un’eco antica e resistente del “principio e fondamento” della perizia, ossia la sua autosufficienza esplicativa, oggi reinterpretata in chiave di “deriva tecnicistica” del processo penale, surrettiziamente legittimante, ad esempio, fenomeni d’inerzia investigativa da parte dell’organo di accusa (che si contenta, meglio delega al consulente le proprie funzioni di ricerca e formazione della prova scientifica, quindi della prova tout court nei processi nei quali è appunto la scienza il “tema” dominante). 96 In tal senso, la Relazione al Cpp 1930, respingendo la proposta di concedere ai consulenti la facoltà di assistere alla perizia, giustificava la scelta esattamente sul piano sistematico: «Se il consulente tecnico non è un perito, ma un difensore tecnico, e se il difensore non può assistere alla perizia, è logico che non vi assista nemmeno il primo. Questi può fare la critica della perizia, ma non concorre in qualsiasi modo nella medesima. La legge provvede sufficientemente a rendere possibile e ad agevolare l’attività dei consulenti tecnici, ma costoro non devono in alcun modo essere equiparati ai periti». Cfr. Lavori preparatori del Codice penale e del Codice di procedura, XI, Roma 1928-1930, 75. 97 Cfr. Cass. 11.3.2003, Quinci, CEDCass, m. 224902. Cfr. S. Ramajoli, La prova nel processo penale, Padova 1995, 169.

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Magari bastano questi cenni, a porre in luce la finalità ideologicamente “anfibia” che sta dietro la divergenza, preservata dal Cpp, tra le figure processuali del perito e del consulente tecnico: conservare l’istituto peritale, intruso in un sistema accusatorio “puro”, riconoscendo un ruolo “autonomo” alla consulenza tecnica. “Vino nuovo in otri vecchi” (Mt IX, 17). Sembra il vino nuovo abbia rotto gli otri, come si vedrà (cfr. ultimo §).

4.1. Tale distinzione con la perizia, in un’ottica “principial-fondamentale”,

risulta ancor più chiara indagando il valore processuale del parere del consulente tecnico.

Il prodotto delle attività del consulente tecnico può, come noto, arrivare al giudice attraverso due vie disciplinate dal Codice disgiuntamente, a seconda si tratti della facoltà di presentare memorie scritte a norma dell’art. 121 Cpp (ex art. 233 co. 1 Cpp, replicando in maniera fedele la disciplina degli artt. 325 e 456 Cpp 1930, ossia riproponendo quelle evidenti tinte inquisitorie che già mostravano il consulente tecnico di parte come soggetto processuale “pregiudicato”98), ovvero del diritto a chiedere l’esame dei consulenti, ex art. 501 Cpp, secondo la disciplina sull’esame testimoniale “in quanto applicabile”.

Se l’esame testimoniale s’innalza a modello di riferimento per l’escussione di entrambe le figure di esperti (periti e consulenti tecnici, tanto endoperitali quanto extraperitali), seguendo una tendenza di “uniformazione” dei mezzi con cui le dichiarazioni probatorie trovano ingresso dibattimentale, nondimeno l’inciso «in quanto applicabili» costituisce esplicito riconoscimento di una diversità tra la dichiarazione, quindi la figura processuale, dell’esperto e del teste99. L’estensione ex art. 501 Cpp s’intende, quindi, riferita al solo modus operandi nell’acquisizione dibattimentale della prova scientifica (l’esame incrociato), non risultando un rinvio “sostanziale” a tutti i doveri, prodromici all’escussione, che il teste deve osservare. Proprio perché, verrebbe fatto di dire, il consulente non risulta gravato da obblighi di verità, né deve quindi essere avvertito del dovere di dirla, né invitato a rendere la solenne dichiarazione di impegno, ex art. 497 co. 2 Cpp100. 98 Cfr. M. Bazzani, Consulenza tecnica scritta e limiti alla sua utilizzazione nel dibattimento, in FI, II, 2003, 302. 99 Cfr. R. E. Kostoris, I consulenti, cit., 334. Note sono le differenze tra la dichiarazione tecnico-scientifica e la testimonianza (che impongono, normativa vigente, cautela nell’assimilare periti e consulenti tecnici alla figura di common law dell’expert witness): la prima, da prodursi all’esito di attività ricognitive, investigative, valutative (ex artt. 220, 225, 230, 233) la seconda, ex art. 194, votata ad esporre sui fatti che costituiscono oggetto di prova; la prima esaltante quindi il profilo logico, razionale e tecnico, la seconda caratterizzata dalla prevalenza della componente mnemonico-rappresentativa. Per dirla con autorevole dottrina, «nel percepire il dato fattuale il testimone mette a frutto le capacità sensoriali esercitandole anche sulla scorta di risorse valutative che appartengono al suo sapere generale, che è poi il senso comune (…) laddove l’esperto impiega specifiche competenze» (cfr. O. Dominioni, La prova cit., 23). 100 Cfr. G. Varraso, La prova tecnica, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, II, Torino 2009, 311. Il fatto che il legislatore abbia estromesso il consulente dal dovere “soggettivo” di verità – essendo comunque di assai complessa configurazione un dovere “oggettivo” rispetto alla prova scientifica – pare anzi possa essere esattamente letto nel senso che si ambisca a perseguire un

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Un’opinione contraria ha sostenuto, in pieno canone “principial-fondamentale”, l’estensione al consulente dell’obbligo di “verità”, per impedire l’ingresso nel processo della c.d. junk science101 . Posizione “conservatrice”, che conforta la tendenza a ritenere che il consulente di parte subisca una capitis deminutio in assenza dell’obbligo di verità. Insistere sull’antico102 argomento della “partigianeria” del consulente delle parti private, significa infatti legittimare l’inconscia impronta “principial-fondamentale” per cui il consulente tecnico della parte pubblica (una sorta di perito “ufficiale” in fase d’indagine) ed il perito del giudice producano, per loro asserita neutralità, dichiarazioni o pareri per ciò solo presuntivamente più attendibili (secondo quanto già visto con riferimento alla dinamica propria del Cpp del 1930; cfr. nota 15)103. D’altra parte, si ribadisce, quando la dichiarazione consiste in valutazioni formulate in base a regole e conoscenze scientifiche, non c’è altra verità “garantita” oltre quella scaturente dall’esame incrociato.

Sembra d’altra parte impredicabile l’applicabilità degli artt. 372 e 373 Cp alla consulenza tecnica di parte104. Allo stesso tempo, manca una specifica norma105 che incrimini la “falsa consulenza”: né il fatto che il Cp preveda talune ipotesi di falso106 riconducibili all’attività del consulente permette di comporre un quadro organico della responsabilità penale del consulente tecnico.

La disciplina “esige”, pertanto, un intervento risolutivo del legislatore, davanti al quale si aprono, anche in questo specifico ambito, due vie.

O si “peritizzano” i consulenti – alla maniera del Cpp del 1913 – ribadendo l’unicità e l’ufficialità della funzione peritale nel processo107 e comprimendo le libertà difensive, in cambio della massima parsimonia nelle ricostruzioni e nelle valutazioni del collegio peritale così costituito (che avrebbe come principale scopo di impedire in risultato di “certezza processuale” per mezzo della sola adozione dell’esame incrociato, ex artt. 498 e 499 Cpp: ossia del medesimo modus examinandi contemplato per ottenere un risultato di verità dal teste (cfr. G. Varraso, op. cit., 312.). 101 Cfr. F. Centonze, op. cit., 1263. 102 Perché la “verità” di una dichiarazione tecnica non può essere stimata ex ante, né in base a posizioni precostituire, dovendo piuttosto passare attraverso il “battesimo del fuoco” rappresentato dalla replica del metodo falsificazionista all’interno del processo: l’attendibilità di una ricostruzione, quindi, non dipendendo soltanto dal suo “portatore”, ma soprattutto dalla sua resistenza ai tentativi di smentita. 103 Cfr. L. M. Marini, Obbligo di veridicità del consulente tecnico?, in GI 1994, II, 77 nonché A. Scalfati, voce Consulenza tecnica (diritto processuale penale), in EG, VII, Roma 1997, 8 ss. 104 Cfr. E. Gallo, Il falso processuale, Padova 1973, 260 ss.; T. Padovani, Commento alla riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in CGiur 1990, 121 ss.; F. Centonze, op. cit., 1250; v. Cass. 26.3.1999, in CP 1999, 3425, con nota di F. Ranzatto, Sulla configurabilità del delitto di falsa perizia rispetto al consulente tecnico. 105 Rammentando che la c.d. “Commissione Pagliaro”, nel disegno di legge-delega elaborato, previde all’art. 134 un espresso reato di «falsa perizia, interpretazione o consulenza», annoverando tra i soggetti attivi il solo consulente nominato dal pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari. 106 Es. gli artt. 374, 374 bis e 380 Cp 107 Con tutto il corredo di obblighi che ne discende; non ultimo quello di «far conoscere la verità», ex art. 226 Cpp, quindi di non dare pareri mendaci o affermare fatti non conformi al vero, ex art. 373 Cp.

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radice l’ingresso nel processo della c.d. junk science). O si “consulentizzano” i periti, dovendo in tal caso prima chiarirsi se i consulenti di parte siano o meno – “sostanzialmente” – dei testimoni. Poiché così non sembra (v. supra), la nuova figura processuale di “esperto” andrebbe a costituire un tertium genus, a cavaliere tra un perito “ufficiale” ed un teste comune. Dovrebbe allora essergli attagliata una responsabilità penale “su misura”, avendo particolare riguardo a quell’inesorabile fenomeno di “processualizzazione” del metodo scientifico, che rende la questione della tutela del “vero” processuale in questa materia indocile ad un’interpretazione lineare, secondo le tradizionali fattispecie incriminatrici. Si potrà, tuttavia, concepire la nuova disciplina esemplandola più sulla falsa perizia che sulla falsa testimonianza: in particolare, per la nozione di “parere mendace”108, che nell’attività peritale “in senso lato” implica una valutazione che non può più, già si vide (§1), essere ridotta ad un «si si, no no», ovvero ad uno schema oscillante tra due nozioni “rigide” e “predefinite” di vero e falso.

Ecco, quindi, un’altra faccia del poliedro che sempre più si sta sagomando. Assieme alla parificazione dei soggetti, ai loro contributi processuali-probatori, alla realizzazione di quel collegio “arbitral-peritale” richiamato supra, risalta quel transito “culturale” dalla verità “principial-fondamentale” - cui aspirava l’originale “tipo” peritale - alla “lealtà” processuale (meglio, alla “buona fede” processuale, la cui inosservanza può certo sfociare in condotte abusive), cui al contrario può e deve realisticamente tendere l’attuale sistematica della prova scientifica in ambito accusatorio, ancora in via di formazione e di assestamento109.

Si profila dunque il passaggio da un inconfigurabile, in questa materia, obbligo giuridico (e da altrettanto improponibili risposte sanzionatorio-penali) ad uno etico-professionale, nella consapevolezza che se «massima deve essere l’attenzione (…) alla qualità delle regole del diritto (…) altresì (deve essere) alla qualità degli uomini chiamati ad applicare il diritto»110.

“Provocare” ed “ottimizzare” il contraddittorio, affidando alla severità dell’agone l’“accreditamento” dei singoli esperti è quindi l’unica, diritta, via: da un lato, abbandonando la lettura divelta dal tessuto ideologico-normativo che pure tuttora si tende a dare dell’art. 233 Cpp, rispetto al quale si considera sufficiente, per

108 Che tale sarebbe, secondo una formula tralatizia, quando diverga da quella che secondo la coscienza del reo è la verità (cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, Milano 2008, 454; I. Caraccioli, Reati di mendacio e valutazioni, Milano 1962 28 ss.). La soluzione non convince: sarebbe assai complesso accertare l’intimo convincimento di chi abbia reso una perizia, senza contare che tale indagine ricostruirebbe l’elemento oggettivo sull’atteggiamento interiore del reo. Il parere mendace è tale, piuttosto, quando si basi su dati falsi, o falsamente attestati come veri o attendibili secondo determinate tecniche di validazione (cfr. V. D’Ambrosio, Commento all’art. 373, in Codice Penale, a cura di T. Padovani, Milano 2014, 2321). 109 Cfr. A. Giarda, La lealtà nell’esercizio della difesa penale, in CMer 2005, 919 s. 110 E. Marzaduri, Diritto alla prova testimoniale e modalità di escussione del testimone, in Verso uno statuto del testimone nel processo penale. Atti del Convegno (Pisa-Lucca, 28-30 novembre 2003), Milano 2005, 35. In qual modo, poi, tale qualità possa essere garantita è questione senz’altro aperta: poiché non pare che sovrastimare profili di responsabilità deontologia o “confidare” nel tempestivo ed incisivo intervento degli organi professionali possa costituire soluzione affidabile.

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acquisire la consulenza, la presentazione del parere (anche attraverso sole memorie scritte, che rievocano la natura di “argomenti difensivi”, quindi di mera ausiliarietà rispetto alla parte, del Cpp 1930); dall’altro, riaffermando l’identità del consulente di parte e del consulente del pubblico ministero, dei consulenti e del perito, del parere e della relazione peritale, così come l’unicità del relativo metodo acquisitivo, quello risultante dalla lettura coordinata degli artt. 501, 508 e 511 Cpp111.

5. Se ne ricava una natura della consulenza sempre più vicina ai mezzi di prova

tipici, ancorché promiscua con quella di attività ed atti espressivi della difesa tecnica, intesa nella sua più ampia accezione (dall’inizio, e nel corso di tutto il procedimento penale). D’altra parte, la stessa giurisprudenza di legittimità sembra rimarcare frequentemente l’attitudine ed il valore probatorio della consulenza tecnica, tendendo a trarre questi connotati da un’assimilazione sostanziale con la figura del testimone: prospettiva che, se assunta acriticamente, rischia come visto di condurre ad esiti fuorvianti (specie in tema di obblighi di verità)112.

111 Con tutti i corollari che ne susseguono, ad esempio l’inderogabilità dell’esame incrociato del consulente tecnico finalizzato alla seguente lettura del parere scritto presentato dal medesimo; in piena analogia, quindi, alla disciplina dettata per il perito e la sua relazione, ex art. 227 Cpp. Cfr. R. E. Kostoris, I consulenti, cit., 103. L’ottimizzazione prospettata passa attraverso la neutralizzazione di ogni tendenza “gerarchizzante”, tra consulenti e perito, ma anche (e soprattutto, vista la delicata sede processuale in cui la questione viene in rilevo, essenzialmente quella delle indagini preliminari) tra consulente di parte e consulente del pubblico ministero. Se è vero che l’attività svolta da quest’ultimo non può essere inquadrata nell’ambito di un contratto, soggiacendo piuttosto ad uno statuto particolare – specie in tema di responsabilità e di obblighi (in virtù della veste “pubblicistica”; cfr. P. P. Rivello, La consulenza cit., 371) – derivante dalla designazione pubblica, non per questo pare preclusa una via interpretativa “mitigante” le differenze con la consulenza di parte privata. Esasperare, infatti, la lettura “pubblicistica” della consulenza dell’accusa conduce ad assimilarla, sostanzialmente in tutto, alla perizia: finendo col separare entrambe le figure di esperti dai consulenti delle parti private, con ricadute pratiche significative. Il consulente del pubblico ministero, al pari del perito, si rivestirebbe di “ufficialità” (e dovrebbe inevitabilmente uniformarsi alla funzione istituzionale dell’accusa, in via ausiliaria), sarebbe tenuto a ricoprire l’incarico in modo “oggettivo”, a dire la verità, nonché a pronunciare la formula d’impegno; il consulente della parte privata, al contrario, sarebbe un semplice “mandatario” della difesa, senza obblighi e responsabilità diverse da quelle discendenti dal rapporto privatistico con la parte. Sicché, il “peso specifico” delle attività processuali dei due soggetti risulterebbe inevitabilmente diverso: il giudice potrebbe fondare il proprio convincimento sulle prove fornite dal consulente dell’accusa (un vero e proprio alter ego del perito, del quale non sarebbe peraltro necessaria la nomina), ma non su quelle fornite dalla sola consulenza di parte privata (che al contrario richiederebbe sempre un contraltare “pubblico ed imparziale”). Cfr. D. Potetti, Note in tema di consulente tecnico extraperitale, in CP 1997, 290 s. 112 In effetti, un orientamento consolidato, sulla scorta dell’asserita “sostanziale” qualità testimoniale del consulente tecnico (tratta da un lettura “integralista” del rinvio contenuto nell’art. 501 co. 1 Cpp), affermava non potesse per questo poi essere negata al giudice la possibilità di desumere elementi di prova e di giudizio dalle sue dichiarazioni e dai suoi chiarimenti. In tal modo – argomentava una non recente pronuncia di legittimità - decadeva l’obbligo per il giudice di disporre una propria perizia, proprio perché avrebbe potuto egli ugualmente addivenire ad una congrua motivazione sulla prova scientifica utilizzando le “prove” fornite dai consulenti, purché queste, secondo i canoni del c.d. Daubert test (cfr. Daubert v. Merrell, cit. 28.6.1993), risultassero processualmente prive di incertezze (basate quindi su un metodo corretto, argomentate logicamente e convincentemente, sopravvissute

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Che si pervenga a quest’assetto attraverso l’identificazione del parere del consulente con quello del perito (con conseguente applicazione dell’ordinario meccanismo acquisitivo ex art. 501, 508 e 511 Cpp), ovvero postulando la “sostanziale” testimonialità del consulente113, la prospettiva non cambia, nel solco di un’evoluzione “costituzionalmente” ispirata (specie ex art. 111 co. 4) della consulenza e della perizia e diretta ad attribuire la medesima “dignità” euristica agli elementi che fuoriescono dal procedimento di formazione della prova scientifica, indipendentemente dalla figura processuale che li produca. Detto altrimenti, che uno di questi elementi “discenda” da una perizia o provenga da una consulenza non può comportare alcun discrimine in punto di “attendibilità”. Attendibilità che, come visto, dipende dal metodo e dal sindacato sul metodo, non già dal soggetto cui è riconducibile l’introduzione della prova, soggiacendo tutti i contributi tecnico-scientifici alle medesime regole di valutazione.

A fortiori, se la ricostruzione della consulenza tecnica in chiave “probatoria” le conferisce identità di funzioni con la perizia (“scolorendo” distinzioni recanti l’impronta di un retaggio “istintivo”) ed uguale idoneità “formativa” del libero convincimento del giudice, non potrà che trarsene la conseguente omologazione dei criteri ammissivi dell’occorrenza e della specificità, nonché dell’idoneità e della rilevanza (secondo l’orientamento, visto in precedenza al §2, incline ad estendere alla perizia gli ordinari criteri ammissivi ex art. 190 Cpp)114.

Inducono le rinnovate prospettive della consulenza tecnica 115 a ritenere affermato il principio dispositivo in ambito tecnico-specialistico? Può forse affermarsi che il rapporto lato sensu giuridico-peritale si stia “civilizzando”, ricalcando cioè in modo sempre più definito la sistematica del Cpc in materia di consulenza tecnica? La risposta sembra essere affermativa, tenendo conto che gli stessi temperamenti predicati in civile valgono anche in penale. Uno su tutti, il fatto che spetti alle parti fornire le prove mediante propri esperti, salvo il potere d’ufficio (residuale e sussidiario; v. § 2 e prossimo) del giudice di interpellare un “proprio” consulente (ex art. 61 Cpc e 220 Cpp), ogniqualvolta il suo intervento risulti in concreto “necessario”

ai tentativi di falsificazione nel contraddittorio tecnico), rendendo quindi in concreto non necessaria la perizia stessa (parificata quoad effectum ad una consulenza di parte); Cass. 28.2.1997, Santilli, in FI Rep., voce Dibattimento penale, 1997, 101. 113 Che tuttavia, si ribadisce, se da un lato risolve senz’altro la questione della natura “probatoria” della consulenza, dall’altro non dà conto, anzi rischiando di legittimare sguardi “conservativi”, del rapporto istituzionale tra consulente di parte, consulente dell’accusa e perito. 114 Siccome, parimenti alla perizia (estratta dalle “sabbie mobili” della teoria della “neutralità”), la consulenza potrà atteggiarsi quale prova a carico ovvero a discarico, riguardo alla parte che l’abbia introdotta, ex artt. 493 e 495 Cpp. Se il consulente del pubblico ministero può dirsi chiamato a dare il suo apporto alla ricostruzione dell’enunciato fattuale contenuto nell’imputazione, il consulente delle parti private – ex art. 327 bis Cpp – dopo aver rintracciato elementi probatori favorevoli all’assistito, costituirà fonte di prova per confutare la ricostruzione accusatoria, ovvero semplicemente per formulare ipotesi ricostruttive “concorrenti” con quelle del consulente del pubblico ministero. 115 Come visto, fonte di conoscenza a cavaliere tra una testimonianza ed una perizia, che le parti possono – in sostanziale libertà – sottoporre al giudice per condizionarne il convincimento, ovvero contrapporre al perito o agli altri consulenti, per condizionare la formazione della prova scientifica.

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(eventualmente attestandosi sulla diversa estensione di questa necessarietà il discrimen tra le due ipotesi).

Al riguardo, la Consulta, con la menzionata sentenza 19.2.1999, n. 33, ha chiaramente affermato che la consulenza, anche privata, è suscettibile di assumere valore di piena prova, e che pertanto il giudice non deve ricorrere alla perizia quando le conclusioni dei consulenti tecnici gli appaiano «fondate, esaustive e basate su argomentazioni convincenti116». La pronuncia può dirsi abbia inferto un colpo letale da un lato alla concezione della prova scientifica “legale” (pur latente, proprio in virtù di quella stessa asimmetria, anzitutto istituzionale, fin qui messa in evidenza), dall’altro all’intuizionismo del giudice. Il quale, come già visto, non può dirsi libero di selezionare arbitrariamente la spiegazione scientifica da porre a base del proprio convincimento, dovendo piuttosto cogliere il frutto del contraddittorio “arbitral-peritale”, benché vagliato a lume di logica (pena la carenza della motivazione, quindi l’esposizione della sentenza ad un possibile annullamento)117.

Resta fermo che quella scientifica è solamente una delle prove, e s’inserisce (meglio, è auspicabile si inserisca) in uno spazio sovente più articolato, suscettibile di “riempimento”, se così può dirsi, “multifattoriale”.

6. Qualsiasi tentativo di ricostruzione dell’istituto peritale non può che piegarsi

sotto questa “nuova” e più “alta” coltre “principial-fondamentale”. L’onda lunga dello ius probandi, del metodo dialettico “permanente” e della regola dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” si è infatti riversata sulla perizia, travolgendola, sconvolgendola, tramortendola.

Non sembra che il transito dal Cpp del 1930 a quello del 1988 abbia rappresentato, in tal senso, un passaggio “risolutivo”. Quest’ultimo, infatti, soltanto in maniera esitata ha recepito il portato dell’evoluzione della filosofia della scienza; altrettanto sospesa tra vecchio e nuovo si presenta la disciplina riservata dal Codice alla perizia, come pure scorto118.

116 Cfr. R. E. Kostoris, Consulente tecnico, cit., 1736. 117 In questo “rigenerato” assetto in materia di prova scientifica, il libero convincimento viene ad atteggiarsi in modo del tutto peculiare: senza prove “legali” e gradazione delle prove stesse, il giudice ha infatti il compito di verificare la ritualità del contraddittorio tecnico-scientifico “paritario”, raffrontandone gli esiti con tutto il restante materiale probatorio a sua disposizione; cfr. Cass. 13.5.20011, in GD 2011 (36), 94; nonché O. Dominioni, La prova, cit., 343. D’altro canto, se la scienza impinge il processo verso sempre rinnovate dimensioni, non significa che i mezzi di prova “scientifici” debbano per ciò solo distinguersi da quelli comuni. La prova scientifica non esaurisce, quindi, la dinamica dell’accertamento: essa non può che immergersi nel grande mare del linguaggio processuale, alimentato dal contraddittorio, che ne saggia l’attendibilità, solo allora raffrontandola con le restanti risultanze per escludere o trarre, eventualmente, ricostruzioni alternative. 118 Basti pensare a quanto già detto sull’inavvertita necessità di valutazione dell’idoneità accertativa del metodo scientifico “nuovo” in sede di ammissione della perizia stessa, sulla scorta di una concezione di scienza ancora univoca e presuntivamente esatta; incidente sul metodo che oggi si prospetta, al contrario, irrinunciabile; cfr. nota 35.

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Si deve piuttosto alle sentenze “Franzese”119 e “Cozzini”120 la fissazione di un punto di storica congiunzione tra la nuova epistemologia scientifica e quella processuale: per mezzo della definizione del canone del “ragionevole dubbio”, nonché dell’affermazione di un “potenziato” ruolo delle parti (e sussidiariamente del giudice, “degradato” da dominus a “guardiano della ritualità” del procedimento peritale) relativamente all’ammissione ed alla formazione della prova scientifica. I principi enucleati dalle note pronunce “fotografano” il mutamento dei tratti genetici della prova tecnico-scientifica nel rito penale. Sono le parti, nella rinnovata prospettiva, a dover dimostrare le proprie tesi per mezzo di esperti, i quali offriranno una ricostruzione alternativa a quella degli altri consulenti, pubblici e privati, nonché a quella del perito del giudice (nei rari casi in cui sia nominato)121. Se la dialettica è eretta a mezzo “rituale” per la falsificazione, non c’è più posto per la perizia “originale”: perché essa non è più “attendibile in se”, ma in quanto resistente al setaccio del contraddittorio tecnico, al pari di ogni altra ricostruzione, da chiunque avanzata122.

6.1. Questo ha fatto e fa sì che il rapporto tra consulenza tecnica e perizia

risulti “ribaltato”: in ogni processo – nel quale occorra «svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche» (art. 220 Cpp) – sono nominati i consulenti; non in ogni processo sono nominati i periti. Anzi, la perizia è divenuta un mezzo “estremo” e “suppletivo”. Sono i consulenti ad aver assunto quel ruolo “cruciale” che i periti hanno a lungo rivestito.

Un tempo figure “di contorno” (agli esordi del processo), poi partecipi di un’operazione dialettica all’interno della perizia (come “satelliti” del perito), i 119 Cass. S.U. 11.9.2002, n. 30328; cfr. A. di Martino, Il nesso causale attivato da condotte omissive tra probabilità, certezza e accertamento, in DPP 2003, 58; nonché F. Viganò, Il rapporto di causalità nella giurisprudenza penale a dieci anni dalla sentenza Franzese, in www.penalecontemporaneo.it, 2 maggio 2013, 1 ss. 120 Cass., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini, est. Blaiotta, Rv. CED 248943. Cfr. anche Cass., sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237, Cantore, est. Blaiotta, Rv. CED 255105, 12 s.; Cass., sez. IV, 3 novembre 2016, n. 12175, Bordogna, est. Dovere, 41 ss., 53 s. Per un approccio parallelo, cfr. Cass., sez. V, 27 marzo 2015, n. 36080, Sollecito-Knox, est. Bruno, Rv. CED 264861, 33-35. Cfr.. P. Tonini, D. Signori, Il caso Meredith Kercher, in C. Conti (a cura di), Processo mediatico e processo penale. Per un’analisi critica dei casi più discussi da Cogne a Garlasco, Milano 2016, 140-149, nonché L. Luparia, F. Taroni, J. Vuille, La prova del DNA nella pronuncia della Cassazione sul caso Amanda Knox e Raffaele Sollecito, in DPenCont 1/2016, 155 ss. Cfr. da ultimo S. Zirulla, Amianto: la Cassazione annulla le condanne nel processo Montefibre-bis, sulla scia del precedente 'Cozzini', in www.penalecontemporaneo.it, 31 maggio 2017. 121 Cfr. C. Conti, Evoluzione della scienza e ruolo degli esperti nel processo penale, in Medicina e diritto penale, a cura di S. Canestrari, F. Giunta, R. Guerrini, T. Padovani, Napoli 2009, 335 s.). 122 Come autorevolmente sostenuto, è stato d’altra parte proprio l’antico rito accusatorio a condizionare lo sviluppo della moderna filosofia della scienza, e non il contrario: sono quindi il falsificazionismo, il metodo dialettico basato su teorizzazioni e smentite a derivare dal contraddittorio processuale. Cfr. P. Ferrua, Metodo scientifico e processo penale, in La prova scientifica nel processo penale, a cura di P. Tonini, in DPP (dossier), Milano 2008, 17; cfr. anche P. Ferrua, Epistemologia scientifica ed epistemologia giudiziaria: differenze, analogie, interrelazioni, in La prova scientifica nel processo penale, a cura di L. De Cataldo Neuburger, Padova 2007, 5.

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consulenti si sono tramutati prima in “deuteragonisti” (nella prospettiva del legislatore del 1988), poi in “protagonisti”. Processi di enormità “colossale” si decidono senza perizie, con i soli consulenti di parte. Basti rammentare il caso emblematico del petrolchimico di Porto Marghera: un processo che ha occupato quasi quattro anni di dibattimento e che ha visto la presenza di centoquindici esperti (schierati tra accusa – privata e pubblica – e difesa) di fama internazionale nelle varie discipline coinvolte, ma non un solo perito123.

Il giudice, attraverso il confronto tra i consulenti, deciderà in primo luogo “quale” sia la scienza, dando per acquisito – ciò pare corrispondere, del resto, alla realtà – che le visioni “scientifiche” di un fenomeno possano tra loro essere diverse, finanche contraddittorie. Non perché una affermi e l’altra neghi la legge di gravità – per esempio paradossale – bensì perché sono gli orientamenti scientifici a divergere sovente l’uno dall’altro. In un processo nel quale si discuta di mesotelioma, l’“approccio” degli epidemiologi e quello dei clinici è a tal punto divaricato che si tratta anzitutto di stabilire quale scienza sia quella capace di fornire la spiegazione di “quel” fenomeno124. Chiarito quale sia la scienza (o quali siano le scienze) si tratterà di stabilire “come” applicarla, in ciò intervenendo variazioni evidentemente “soggettive”. La questione è perciò legata non soltanto alla “natura” del sapere, ma anche alla “qualifica” di colui che è “portatore” del sapere stesso. Ulteriore problema dell’ingresso del sapere della scienza nel processo è dunque “chi” si fa latore dello stesso. Bisogna “discutere” dell’attendibilità dei consulenti, della loro dignità “a parlare”, del loro “livello”, degli interessi di cui sono portatori. Occorre esaminare, insomma, la “figura” dell’“esperto”, proprio perché questi media un sapere suscettibile di molte oscillazioni e connotazioni: e nell’applicazione di questo sapere si possono inserire, interferendo, aspetti di diversa natura.

Il giudice non può fare a meno del confronto, della dialettica: perciò non può che riluttare dal perito. Quantomeno non esordirà disponendo la perizia giacché essa, in simile contesto, si palesa “inaffidabile”: in quanto elaborazione condotta in regime di “monopolio”. Un monopolio magari relativo, perché interverranno i consulenti: ma finché i consulenti operino all’interno della perizia, non è fugata l’impressione si tratti soggetti di dignità diminuita. Le norme vigenti si mostrano, infatti, ancora inadatte ad assicurare una “compiuta” dialettica processuale: i consulenti pur sempre muovendosi all’interno di osservazioni formulate al perito. Il perito potrà tenerne conto, emanando però poi il “suo verdetto”, avente l’aura

123 Secondo la testimonianza “diretta” di T. Padovani, Disastri e diritto penale, corso tenuto presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Studi Universitari e Perfezionamento nell’a.a. 2015-2016, appunti dalle lezioni. Cfr. sentenza di primo grado e motivazioni tribunale ordinario di Venezia, disponibile in http://ivdi.it/Petrolchimico/download.htm 124 Cfr. T. Padovani, La tragedia, cit., 284 ss.; nonché R. Bartoli, La recente evoluzione giurisprudenziale sul nesso causale nelle malattie professionali da amianto, in DPenCont 2014 (3-4), 396 ss. Cfr. anche C. Zocchetti, A proposito del quesito sulla dose-dipendenza nella insorgenza ei mesoteliomi da amianto. Una rimeditazione critica del dibattito giurisprudenziale dal punto di vista di un epidemiologo, in www.penalecontemporaneo.it, 15 aprile 2011, 1 ss.

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“ancestrale” della nomina d’ufficio: «Io sono il perito, quindi per definizione “colui che sa”»125.

Il giudice “vuole” quindi lo “scontro” dei consulenti. Naturalmente, da questa contesa potranno emergere soluzioni non sempre prevedibili: proseguendo con l’esempio del mesotelioma provocato dall’esposizione ad amianto ed assumendo un “campione” di cinquanta sentenze, si troveranno almeno due soluzioni diverse. La scienza, quindi, non è unica, e peraltro varia da sentenza a sentenza.

Talvolta sarà nominato anche il perito: meglio, qualche rara volta, e sempre più somigliando questi (da “autocrate” qual era) al “servus servorum” del processo, alle soglie del dibattimento126.

Il perito sarà, quindi, nominato: a) quando si tratti di questioni per le quali la sua presenza realizzi “economia

processuale” (es: la questione non si presenta particolarmente complessa, e la nomina di un perito servirà a chiarire taluni aspetti, che potranno anche essere discussi, ma presumibilmente costituiranno un sostrato comunemente accettato dalle parti);

b) quando la parte privata non disponga di risorse sufficienti a nominare consulenti “di rilievo” (ed in generale a sobbarcarsi i costi dell’indagine tecnico-scientifica, per l’inadeguatezza della disciplina sul gratuito patrocinio127); 125 Peritus, infatti, participio di perior (experior) è esattamente tradotto come: «colui che con prove ed esperienze è giunto a cognizione»; cfr. K. E. Georges, F. Calonghi, Dizionario latino-italiano, Torino, 1999, 1896. 126 La perizia “originale”, complessivamente smembrata, finisce col perdere anche la sua primigenia sede istruttoria (quella nella quale e per la quale era stata concepita), divenendo mezzo essenzialmente e residualmente dibattimentale: disposto nelle ipotesi in cui le parti potranno domandarla a prova contraria di una consulenza (una volta definitivamente tramontata la concezione della perizia quale prova “neutra”), per un intervento (sempre più destinato a diventare realmente “straordinario”) ex officio del giudice, il quale potrebbe considerarsi ragionevolmente legittimato a disporre un mezzo di prova rispetto al quale continua ad avere – mutatis mutandis, in particolare la già vista questione della sede processuale – poteri assimilabili a quelli che gli erano accordati nel Cpp del 1930. 127 La l. 24 febbraio 2005, n. 25, peraltro, ha novellato l’art. 102 TuSpGiust riconoscendo il diritto che la scelta possa ora essere effettuata al di fuori del distretto stesso, già in fase investigativa. L’estensione appare, tuttavia, alquanto “spuntata”: la legge esclude – nel contesto della complessiva modestia del valore dei compensi liquidabili – la possibilità di rimborso delle spese e delle indennità di trasferta contemplate per le medesime tariffe professionali, di fatto unico parametro per gli onorari, ex art. 102 co. 2 TuSpGiust. Nemmeno inosservato passa l’art. 106 co. 2, laddove si dispone non possano essere liquidate spese sostenute per consulenze tecniche extraperitali quando queste, al momento della nomina dell’esperto, apparissero irrilevanti o superflue ai fini della prova: previsione davvero sciagurata, nella parte in cui allude ad una prognosi postuma – di fatto, largamente discrezionale - con finalità sanzionatorie, sostanzialmente impossibile da motivare ragionevolmente, se è vero – come pure pare essere – che scopo precipuo di una consulenza extraperitale, specie in fase investigativa, è il nudo setacciamento, il cui esito, necessariamente incerto, consiste appunto nel vagliare le possibilità di un accertamento specialistico, i cui reali effetti non possono che stimarsi cogliendo un “finale di partita” (e non certo a partire dall’esordio; cfr. G. Dean, Nuovi profili del patrocinio a spese dello stato nei giudizi penali, in Processo penale: il nuovo ruolo del difensore, a cura di L. Filippi, Padova 2001, 603 s.). Questo, congiunto alla davvero bassa soglia reddituale (fissata dall’art. 76 TuSpGiust in 11.528,41 Euro) che permette l’accesso al gratuito patrocino, raffrontata ai

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c) in caso di “improbabile” inerzia delle parti, che dovrebbe essere colmata, visto che, come visto (§2), quando il fatto da provare investa materie estranee allo scibile comune, non potrebbe motivarsi la sentenza secondo scienze private del giudice, dovendo questi ricorrere ad un metodo verificabile hinc et inde, proposto dalle figure processuali a questo deputate;

d) quando si tratti di casi “tecnici” a propria volta “residuali” (e qui il perito si occuperà degli “scarti”);

e) quando si tratti di situazioni in cui il privato “preferisca” domandare la nomina del perito “pubblico” (nell’antica e radicata impressione che sia un soggetto tuttora “più convincente” dei suoi omologhi non “ufficiali”);

f) nei “delicati” casi di conflitto irrisolvibile tra i consulenti: ed il perito sarà dunque chiamato ad “aiutare” il giudice stesso a dirimere il contrasto. Il giudice, cioè, esitando (e, come l’asino di Buridano, rischiando l’“inedia” nell’incertezza su come rendere il verdetto) nominerà allora un perito, in genere preoccupandosi di selezionare un’autorità straordinariamente elevata, e questi pronuncerà il suo “editto”. Il giudice dovrà infine risolvere il conflitto delle consulenze: dopo che il perito avrà dato, per così dire, la “palma” ad uno dei consulenti, quindi ad una soltanto delle tesi prospettate. Sarà sempre il consulente, in definitiva, a “ricevere la palma”.

La parte, insomma, deve provare in giudizio la scienza, come qualsiasi altro fatto; il giudice, al più, soccorrerà, se e quando realizzi di non avere mezzi per decidere all’infuori della nomina peritale.

Ecco perché la perizia è divenuta mezzo recessivo e marginale: il dominio della consulenza è viepiù significativo nei processi “significativi”; dove compare il perito o è un processo di modesta rilevanza o è un processo dove i consulenti hanno a talmente “duellato”, da essersi reciprocamente “trafitti” dal punto di vista dialettico, e non resti altra soluzione che chiamare in pedana un’autorità aliena, ufficiale, neutrale. La prova peritale pare perciò tenuta “artificialmente” in vita da ragioni avulse dal sistema processuale.

Se la perizia “classica” agonizza, altrettanto non può tuttavia ritenersi per le ragioni – ugualmente “principial-fondamentali” – che storicamente ne hanno giustificato l’esistenza. Esse possono, in estrema sintesi, enuclearsi tuttora nella necessità di fornire al giudice, ma prima ancora al giudizio, una ricostruzione tecnico-scientifica di un fatto che esige il possesso di competenze aliene dallo scibile comune, e che, per ciò solo, non può andare incontro ad una seconda valutazione da costi, talora enormi, cui dà luogo la prova scientifica, pare dissuadere, più che altro, il privato ad intraprendere motu proprio un’investigazione tecnica di parte, costringendolo di fatto ad imboccare un’unica strada: rinunciare al suo diritto di difendersi provando ed affidarsi alla perizia “ufficiale” del giudice, domandandone la disposizione e confidando nell’asserita terzietà ed imparzialità delle conclusioni peritali rispetto a quelle del consulente tecnico del pubblico ministero. Sole ragioni d’indisponibilità finanziaria conducono ad esiti tanto mortificanti, o emergono piuttosto rigurgiti di “principio e fondamento”, refrattari alla processualizzazione del metodo scientifico, quindi all’irrinunciabilità della struttura dialettica sin dalla formazione della prova scientifica, nonché all’inevitabile parificazione delle figure del perito e del consulente? Cfr. O. Dominioni, La prova, cit., 276.

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parte di un soggetto “profano”, qual è il giudice. Queste stesse ragioni – il cui “passato”, ossia “ciò che è sempre stato”, si mostra vivido come non mai – semplicemente tendono ad incarnarsi in forme istituzionali nuove, più acconce alle esigenze del tempo e al quadro giuridico di riferimento. Tale “sofisticata resistenza” rinsalda la risalente concezione di scienza “autoritaria”, sedente nei più alti scranni della vita organizzata (nell’ambito della quale deve essere anzitutto risolta la questione del “peso sociale” della valutazione scientifica).

Così, l’archetipo (v. § 1) della perizia “ufficiale” rivivrà, nella fase delle indagini preliminari, tra consulente tecnico del pubblico ministero e pubblico ministero stesso (verso il quale, in astratto, avrebbe senso articolare, in quanto dominus – art. 327 Cpp – dell’inchiesta segreta documentale monocratica, la formula del iudex peritus, valido nei rapporti “1 a 1”128).

In dibattimento si riaffermerà prevalente il modello della perizia “giudiziale”: sostituendo al perito “super-arbitro” il nuovo collegio “arbitral-peritale” o i semplici consulenti (che altro non rappresentano se non una versione “frammentata” del potere, cui sempre più bisognerà abituarsi, favorendo quella ripartizione di funzioni decisorie tra componenti tecniche e componenti “laiche” nel processo, nella quale si intravede l’approdo finale dell’incorporazione del metodo scientifico nel processo penale129).

La perizia “libera”, infine, l’unica ancora a nomarsi tale, “lentamente muore”, tra passi di “danza macabra”.

Frattanto, l’incerta e compassata affermazione della “nuova” grammatica prolungherà l’oscillazione tra due “principi e fondamenti”: uno dichiarato estinto, eppur latente nell’inconscio giudiziario; l’altro ad uno stadio, per così dire, eternamente “germinale”.

Ma sono comunque finiti i tempi del Sant’Uffizio e della Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficiorum130: quando al Beato Tribunale, nel 1630, nel condurre il processo alle streghe, s’impose di non iniziare nemmeno la procedura stregonesca se fosse mancata la constatazione di due cerusici, che avrebbero dovuto attribuire il decesso a cause non naturali. Sono finiti quei tempi perché è tramontata quella “certezza”: il che sembrerà paradossale,

128 Rapporto che si profila preoccupante, in ragione del fatto che il maggior “peso specifico” della prova scientifica può ben avvertirsi sin dalla fase delle indagini preliminari: in una fase caratterizzata, cioè, da modesti spazi di formazione bilaterale della prova, con la duplice conseguenza di una prova “ponderosa”, unilateralmente formata, che potrebbe resistere a resistere ad ogni successivo tentativo di smentita, in virtù di quella stessa “scientificità” che, come detto, nel processo dovrebbe essere attribuibile soltanto in un contesto collegiale (Cfr. P. Tonini, C. Conti, Il diritto, cit., 376, nonché C. Bonzano, Prova “scientifica”: le garanzie difensive tra progresso tecnologico e stasi del sistema, in Scienza e processo penale: nuove frontiere e vecchi pregiudizi, a cura di C. Conti, Milano 2011, 112) 129 Cfr. M. Damaŝka, Il diritto cit., 216. 130 Cfr. T. Castaldi, De potestate angelica, Roma 1650-52, II, 224. Cfr., inoltre, J. Tedeschi, Appunti sulla Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficiorum, in “Annuario per l’istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea”, XXXVII-XXXVIII, 1985, 219 s., ove la Istructio è attribuita al cardinale Desiderio Scaglia.

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perché in un’epoca in cui la scienza difettava – nel 1630 i medici possedendo un sapere, per così dire, “relativo” – il giudice si rimetteva “ciecamente” nelle mani della scienza; oggi che la scienza par esserci, il giudice può fidarsene molto meno. E bene fa a diffidare: perché essa va verificata, provata, discussa, seguita nelle sue applicazioni processuali in modo che non si trasformi in una sorta di “tirante dogmatico” che impone soluzioni, trascurando la complessità del reale.