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Studi e ricerche Arte popolare e intellettuali durante il nazismo Stefano Cavazza Partendo dalla constatazione che i regimi fasci- sti hanno fatto ampio ricorso in chiave populi- sta al folklore, ma che, dietro a questo uso spes- so propagandistico si manifestava il disagio di gruppi intellettuali nei confronti degli effetti della modernizzazione, la ricerca ha posto in lu- ce funzioni e contenuti ideologici della rivaluta- zione dell’arte popolare e mostrato alcuni tenta- tivi di rivitalizzazione compiuti durante il nazi- smo. Preliminarmente sono stati presi in esame gli effetti della presa del potere nazista sulla folkloristica sia in termini di politiche accademi- che sia in termini di elaborazione teorica, con particolare riguardo agli elementi di affinità ideologica tra la tradizione di questa disciplina e la cultura nazista. Nello stesso tempo si è cerca- to di far emergere le differenze tra le concezioni dei vari gruppi intellettuali che si occuparono di arte popolare (i folkloristi accademici, gli arti- giani, i militanti nazisti ecc.), alcuni tesi al ripri- stino di passate forme economico-sociali, altri interessati a influenzare la modernità con valori tradizionali. In questa fase sono state impiegate prevalentemente, anche se non esclusivamente, fonti a stampa, in particolare riviste accademi- che di tradizioni popolari e organi dell’attività cultura nazionalsocialista. Dal punto di vista in- terpretativo si è seguito un approccio pluridisci- plinare utilizzando sia le analisi e le ricostruzioni dell’organizzazione culturale nazista compiute dagli storici sia le riflessioni storiografiche ela- borate dai folkloristi tedeschi.Come schema in- terpretativo generale si è utilizzata la categoria di modernismo reazionario evitandone però una trasposizione meccanica che non tenesse conto delle diverse intenzioni degli attori in gioco. It is commonly held that fascist regimes resorted largely to folklore in their populist commit- ment, yet behind such often propagandistic use there actually urged a true discomfort o f intel- lectual elements put under pressure by the mo- dernization process. This essay sheds new light on the ideological contents and functions o f Na- zi revaluation o f popular art, describing certain attempts of revival promoted by National Socia- lism. The A .’s investigation deals preliminarily with the impact o f Nazi seizure o f power on folklore studies, both from an academic and theoretical point o f view, taking into special account the af- finities between the tradition o f that discipline and the assumptions of Nazi ideology. No less attention is devoted to the differences existing among the various intellectual grups that took interest in popular art (scholars, kraftsmen, Na- zi militants, etc.), some o f them nostalgic o fpa- st social-economic forms, others simply willing to influence modernity with traditional values. Drawing mainly, if not exclusively, on press sources (namely scholarly journals and organs o f Nazi propaganda), the A. ‘s interpretative ef- fort provides a cross-cultural approach that pays due attention to both the historians’ recon- struction o f Nazi cultural organizations and the historiographic debate carried out by German folklore specialists. The key concept is that of reactionary modernism, conveniently revised in order to embody the different actors’ inten- tions. ‘Italia contemporanea”, dicembre 1993, n. 193

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S tu d i e ricerche

Arte popolare e intellettuali durante il nazismo

Stefano Cavazza

Partendo dalla constatazione che i regimi fasci­sti hanno fatto ampio ricorso in chiave populi­sta al folklore, ma che, dietro a questo uso spes­so propagandistico si manifestava il disagio di gruppi intellettuali nei confronti degli effetti della modernizzazione, la ricerca ha posto in lu­ce funzioni e contenuti ideologici della rivaluta­zione dell’arte popolare e mostrato alcuni tenta­tivi di rivitalizzazione compiuti durante il nazi­smo. Preliminarmente sono stati presi in esame gli effetti della presa del potere nazista sulla folkloristica sia in termini di politiche accademi­che sia in termini di elaborazione teorica, con particolare riguardo agli elementi di affinità ideologica tra la tradizione di questa disciplina e la cultura nazista. Nello stesso tempo si è cerca­to di far emergere le differenze tra le concezioni dei vari gruppi intellettuali che si occuparono di arte popolare (i folkloristi accademici, gli arti­giani, i militanti nazisti ecc.), alcuni tesi al ripri­stino di passate forme economico-sociali, altri interessati a influenzare la modernità con valori tradizionali. In questa fase sono state impiegate prevalentemente, anche se non esclusivamente, fonti a stampa, in particolare riviste accademi­che di tradizioni popolari e organi dell’attività cultura nazionalsocialista. Dal punto di vista in­terpretativo si è seguito un approccio pluridisci- plinare utilizzando sia le analisi e le ricostruzioni dell’organizzazione culturale nazista compiute dagli storici sia le riflessioni storiografiche ela­borate dai folkloristi tedeschi.Come schema in­terpretativo generale si è utilizzata la categoria di modernismo reazionario evitandone però una trasposizione meccanica che non tenesse conto delle diverse intenzioni degli attori in gioco.

It is commonly held that fascist regimes resorted largely to folklore in their populist commit­ment, yet behind such often propagandistic use there actually urged a true discomfort o f intel­lectual elements put under pressure by the mo­dernization process. This essay sheds new light on the ideological contents and functions o f Na­zi revaluation o f popular art, describing certain attempts o f revival promoted by National Socia­lism.The A . ’s investigation deals preliminarily with the impact o f Nazi seizure o f power on folklore studies, both from an academic and theoretical point o f view, taking into special account the af­finities between the tradition o f that discipline and the assumptions o f Nazi ideology. No less attention is devoted to the differences existing among the various intellectual grups that took interest in popular art (scholars, kraftsmen, Na­zi militants, etc.), some o f them nostalgic o f pa­st social-economic forms, others simply willing to influence modernity with traditional values. Drawing mainly, i f not exclusively, on press sources (namely scholarly journals and organs o f Nazi propaganda), the A . ‘s interpretative ef­fo rt provides a cross-cultural approach that pays due attention to both the historians’ recon­struction o f Nazi cultural organizations and the historiographic debate carried out by German folklore specialists. The key concept is that o f reactionary modernism, conveniently revised in order to embody the different actors’ inten­tions.

‘Italia contemporanea”, dicembre 1993, n. 193

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L’avvento del nazionalsocialismo e i de- mologi

La storiografia da tempo ha cominciato ad esplorare il retroterra culturale dell’ideolo­gia nazista1. In particolare, nel corso degli anni sessanta, l’attenzione si è rivolta all’in­fluenza esercitata, in Germania, dalla tradi­zione irrazionalistico-organicistica sulle di­scipline accademiche2. Tra queste ultime la folkloristica intrecciò un rapporto molto stretto con il regime. D’altra parte la rivalu­tazione delle tradizioni popolari fu un feno­meno che riguardò anche altri movimenti di destra3. Nel caso della folkloristica la rico­struzione della sua storia durante il nazismo è stato un processo lento e difficile, tant’è vero che i primi contributi analitici proveni­vano da studiosi esterni alla disciplina, come Heinz Maus4, e solo negli anni sessanta, gra­zie a Hermann Bausinger e a Wolfgang Em­merich, i demologi tedeschi hanno comin­ciato ad operare una ricostruzione storico-i­

deologica della propria storia. Altri elemen­ti, nell’analisi del rapporto tra nazionalso­cialismo e folkloristica, sono stati aggiunti dalle indagini sulle organizzazioni nazional- socialiste di Reinhard Bollmus e Michael Kater. Dal punto di vista degli storici la ri- costruzione delle vicende legate a questa di­sciplina e in particolare al settore dell’arte popolare durante il nazismo consente, prima di tutto, di analizzare il rapporto tra l’ideo­logia vòlkisch (nazionalistica) e un gruppo intellettuale che stava definendo e consoli­dando il proprio campo disciplinare; in se­condo luogo, di esplorare un aspetto dell’at­tività dopolavoristica; in terzo luogo di veri­ficare lo scarto tra i programmi di rilancio della cultura rurale e tradizionale e la loro effettiva realizzazione. Il primo effetto della Machtergreifung (presa del potere) riguardò le organizzazioni demologiche. Nel 1933 due membri filonazisti, Fehrle e Schewe, entra­rono a far parte del comitato della Società tedesca per le tradizioni popolari5. Nello

Nel testo verranno utilizzate le seguenti abbreviazioni: BAK = Bundesarchiv Koblenz; DsH = Das schòne Heim; GSPK = Geheimes Staatsarchiv Preussischer Kulturbesitz; GG = Geschichte und Gesellschaft; HBfV = Hessi- sche Blatter für Volkstunde; JfhV = Jahrbuch für historische Volkskunde; NZfV = Niederdeutsche Zeitschrift für Volkskunde; ÓZfV = Òsterreichische Zeitschrift für Volkskunde; VdLAS = Veròffentlichung des Landesgewer- bemuseums Abteilung Sammlungen Stuttgart; VuH = Volkstum und Heimat; Vw = Volkswerk; WZfV = Wiener Zeitschrift für Volkskunde; ZfV = Zeitschrift für Volkskunde.1 Martin Broszat, Die vòlkische Ideologie und der Nationalsozialismus, “Deutsche Rundschau”, a. 84, 1958, pp. 53-68; George Mosse, Le origini culturali del terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 1968 (ed. orig. Londra 1964).2 Si veda per esempio Andreas Flitner (a cura di), Das deutsche Geistesleben und der Nationalsozialismus, Tübin­gen, 1965.3 Per una visione d’insieme in area tedesca cfr. Utz Jeggle,L ’Ethnologie dans l ’Allemagne nazie, “Ethnologie Française”, 1988, n. 2, pp. 114-119. Sull’Italia cfr. Victoria De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fa ­scista, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 234-248; Stefano Cavazza, Feste popolari durante il fascismo, in Fiorenza Tarozzi, Angelo Varai, Tempo libero nell’Italia unita, Bologna, Clueb, 1992. Sul rapporto tra demologi e fascismo cfr. Roberto Cipriani, Cultura popolare e orientamenti ideologici, in Id. (a cura di) Sociologia della cultura popo­lare, Napoli, Liguori, 1979, pp. 13-60; Sandra Puccini, Massimo Squillacciotti, Per una prima ricostruzione degli studi demo-etno-antropologici tra le due gene, in Studi antropologici italiani e rapporti di classe, Milano, Angeli, 1980, pp. 67-93; Massimo Tozzi Fontana, Il ruolo delle mostre etnografiche nell’organizzazione del consenso 1936- 1940, “Italia Contemporanea”, n. 137, ott.-dic. 1979; Stefano Cavazza, La folkloristica italiana e il fascismo. lì Comitato Nazionale per le Arti Popolari, “La Ricerca Folklorica”, n. 15, aprile 1987; Id., Die italienische Volks­kunde und Südtirol wiihrend des Faschismus, in Reinhard Johler, Ludwig Paumichl, Barbara Plankesteiner (a cura di), Im Auge der Ethnographen, Wien/Lana, Edition per Procura, 1991, pp. 170-192. Sulla Francia cfr. Cristian Faure, Le projet culturel de Vichy. Folklore et révolution nationale 1940-1944, Lyon, Edition du Cnrs-Presses Uni­versitaires de L y o n ,1989.4 Heinz Maus, Zur Situation der deutschen Volkskunde, “Der Umschau” n. 3, nov.-dic. 1946, pp. 349-359.5 Wolfgang Emmerich, Germanistische Volkstumideologie, Tübingen, Tübinger Vereinigung für Volkskunde,

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stesso tempo la riorganizzazione di istituti e associazioni comportò l’epurazione di studiosi avversi al regime. Con la trasfor­mazione della Commissione tedesca per le arti popolari in organo del museo berlinese di folklore, avvenuta nel 1935, vennero al­lontanati alcuni membri tra cui Georg Sch- reiber, il demologo ed esponente del Zen- trum cattolico6. Ancora più drammatica fu la distruzione della folkloristica ebraica7. D’altra parte il valore ideologico di una di­sciplina che studiava la cultura del Volk favorì l’istituzione di nuove cattedre e di enti di ricerca. Nel 1932 c’erano solo due ordinari di folkloristica, dopo il 1933 il lo­ro numero aumentò rapidamente8. Sorsero nuovi organismi deputati allo studio del folklore all’interno di organizzazioni del partito come D eutsche A hnenerbe (eredità tedesca degli avi) o V A m t Rosem berg9, mentre le associazioni esistenti vennero in­quadrate in D achverbande (Organizzazioni

superiori di coordinamento) secondo i prin­cipi della Gleichschaltung (livellamento) na­zista.

Per quanto riguarda il ruolo intellettuale dei demologi, l’avvento del regime aprì le porte a brillanti carriere ai simpatizzanti come Konrad Hahm10 e Karl von Spiess. Tuttavia la possibilità di rafforzare il cam­po disciplinare della folcloristica fece si che anche studiosi meno affini ideologicamente finissero per venire attratti nell’orbita delle iniziative naziste. Come ebbe a dire, con ri­ferimento all’arte popolare, Adolf Spamer, una delle figure scientifiche di maggior ri­lievo di quegli anni, la ricerca non ha biso­gno solo di genio e intuizione, ma anche di istituzioni di ricerca, di cattedre, di riviste specializzate11. Nel rafforzamento della di­sciplina, effetto del valore attribuito dal re­gime alle tradizioni popolari, questi studio­si ben avvertivano però il rischio di metter­ne a repentaglio la validità scientifica. Si-

1969, p. 152. Sulla carriera di Fehrle cfr. Peter Assion, "Was Mythos unseres Volkes ist”. Zum Werden und Wir- ken des NS-Volkskundlers Eugen Fehrle, “ZfV”, 1985, pp. 220-244.6 La trasformazione avvenne per effetto di un decreto del 4 ottobre 1935 del Ministero per la scienza e l’istruzione. Della nuova commissione continuavano a far parte: Otto Lehmann (presidente), Konrad Hahm (amministratore), Herbert Freudenthal, Adolf Helbok, Huber, Hans Karlinger, John Meier, Wilhelm Pessler, Josef Ritz, Adolf Spa­mer e Kurt Reiners. La commissione arti popolari era l’emanazione di una commissione internazionale nata in seno alle Società delle Nazioni. Sulla Commissione tedesca in epoca weimariana cfr. S. Cavazza, Arte popolare, intellet­tuali, questione artigiana: Edwin Redslob e la mostra di Dresda, “Rivista di storia contemporanea”, n. 1, 1991. Su Schreiber cfr. Klaus Freckmann, Aufklàrung und Verklarung. Positionen im Werk Georg Schreibers, in Helge Gerndt (a cura di), Volkskunde und Nationalsozialismus, München, Deutsche Vereinigung für Volkskunde, 1987, pp. 283-295.7 Cristoph Daxelmueller, Nationalsozialistisches Kulturverstàndnis und das Ende der jiidischen Volkskunde, in H. Gerndt (a cura di), Volkskunde, cit., pp. 149-167.8 W.Emmerich, Germanislische, cit., pp. 151-152.9 Sul rapporto tra folklore e Amt Rosemberg cfr. W. Emmerich, Germanistische, cit., p. 155 e segg.; Gerhard Lutz, Das Amt Rosemberg und die Volkskunde, in Wolfgang Bruckner-Klaus Beiti (a cura di), Volkskunde als akademischen Disziplin. Studien zu Institutionenausbildung, Wrien, Mitteilung des Instituts für Gegenwartsvolk- skunde n. 12, 1983, pp. 161-171. Sull’organizzazione in generale l’opera fondamentale resta Reinhard Bollmus, Das Amt Rosemberg und seine Gegner. Zum Machtkampf im Nationalsozialistischen Herrschaftssystem, Stuttgart, Deutsche Verlag-Anstalt, 1970, sul folklore cfr. in particolare pp. 211-221.10 Dopo la nomina a direttore del riorganizzato museo berlinese di arte popolare nel 1935 (Martin Roth, Heimat- museen 1918-1945. Eine deutsche Institution im Wandel derpolitischen System, Tübingen, Univ. Diss., 1987, p. 73 nota 2), nel 1936 ottenne un incarico di arte popolare all’università di Berlino e fu nominato direttore dell’istituto per la ricerca sull’arte popolare (H.[ = Hahm], Institut für Volkskunstforschung, “Vw”, 1941, p. 307).11 Adolf Spamer, Volkskunstforschung als akademisches Lehrfach, “Vw” 1941, p. 26. Sulle esigenze di consolida­mento disciplinare della folkloristica si veda relativamente al periodo weimariano: S. Cavazza, Arte popolare, cit., p. 147 e sgg.

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gnificativamente nel 1933 il demologo John Meier si preoccupavadi impedire che dilettanti e folkloristi occasionali si conquist [assero] spazi e in tal modo prima o poi gett [assero] discredito sulla disciplina e le recassero] sensibili danni [...] essere di moda è sempre anche un pericolo12.

L’avvento al potere del nazismo fece infatti emergere figure di cultori “militanti” delle tradizioni popolari, attivi nel settore dopola­voristico, di cui parleremo più avanti. Il ten­tativo di ottenere dalla rivalutazione ideolo- gico-propagandistica delle tradizioni popo­lari finanziamenti e potere accademico senza compromettere la serietà del proprio lavoro scientifico era un’operazione destinata al fallimento come testimonia la vicenda per­sonale di Meier13. L’oggettiva difficoltà di mantenere la propria autonomia con la Glei- chschaltung nazista non può però far dimen­ticare che alcuni studiosi di valore assunsero incarichi nelle file delle organizzazioni cultu­rali del partito. Spamer fu membro del par­tito e del Nationalsozialistische Lehrerbund (Lega nazionalsocialista degli insegnanti) in Sassonia e diresse alcune istituzioni demolo­giche, prima collegate all’organizzazione do­polavoristica Kraft durch Freude (Forza at­traverso la gioia) e poi passate alla Ns-Kul- turgemeinde di Rosemberg14. Sarebbe quin­di semplicistico ridurre il problema della de­

mologia durante il nazismo ad una distinzio­ne tra una disciplina ideologizzata e una po­liticamente neutrale e scientificamente se­ria15. Inoltre anche il campo nazista era tut- t’altro che omogeneo. Wolfgang Emmerich ha operato una distinzione tra una folklori- stica “bruna” e una “nera” per designare due gruppi, diversi e in competizione tra lo­ro, tra i demologi filonazisti16 17. Da una parte egli collocava Karl von Spiess, Edmund Mu- drak, e Matthes Ziegler, che diresse la sezio­ne di folklore e religione deH’Amt Rosem­berg e che nel 1937 fu chiamato alla guida della neonata Reichsarbeitsgemeinschaft fiir deutsche Volkskunde (Gruppo di lavoro del Reich per il folkkore tedesco) n . Dall’altra parte stavano uomini legati alle SS e all’isti­tuzione Ahnenerbe come Wolfram Sievers e Heinrich Harmjanz18. Estendendo l’analisi al complesso degli studiosi il quadro diventa più complicato e il dibattito sull’arte popo­lare lo mostrerà con chiarezza. La tradizione demologica tedesca fin dal suo sorgere si è più volte intrecciata e a volte identificata con la tradizione vòlkisch. Il richiamo al Volk, al ruralismo, al radicamento alla pro­pria terra erano elementi ideologici che ri­troviamo sia nella folkloristica sia nell’ideo­logia nazionalsocialista19. Questi elementi di vicinanza rendevano la disciplina permeabile all’influenza nazionalsocialista. Nello stesso tempo l’affinità culturale e ideologica non è

12 II brano tratto da una lettera a Schuchardt del 17 agosto 1933 è citato da Anka Oesterle, John Meier und das SS- Ahnenerbe, in H. Gerndt (a cura di), Volkskunde, cit., p. 83.13 Si veda la ricostruzione del mutamento di direzione della “Zeitschfrift fiir Volkskunde” in A. Oesterle, John Meier, cit., pp. 85-86.14 Hannjost Lixfeld, Forschungsgemeinschaft und Dachverbànde der Volkskunde, in H. Gerndt (a cura di), Volks­kunde, cit., p. 73.15 Su questo punto rimangono condivisibili le critiche a tali posizioni espresse da W. Emmerich, Germanistische, cit., pp. 157-163.16 W. Emmerich, Germanistische, cit., pp. 156-157.17 A. Lixfeld, Forschungsgemeinschaft, cit., p. 74-75.18 Harmjanz venne nominato nel 1937 ad una carica all’interno dell’Istruzione e posto a capo dell’atlante tedesco per le tradizioni popolari. L’anno seguente, a soli 34 anni, divenne ordinario a Francoforte ed entrò nell’associa­zione Ahnenerbe. (Michael Kater, Ahnenerbe der SS 1935-1945, Stuttgart, Deutsche Verlag-Anstalt, 1974, p. 75).19 Hermann Bausinger, Volksideologie und Volksforschung. Zur nationalsozialistische Volkskunde, “ZfV”, 1965,

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di per sé un criterio sufficiente per distingue­re nazisti e non-nazisti. La complessità del rapporto tra ricerca e ideologia è conferma­ta dal caso di Kurt Huber, legato al gruppo di resistenza delle sorelle Scholl e condanna­to a morte dai nazisti, la cui concezione de­mologica presentava però un richiamo orga­nicistico alla comunità nazionale simile a quella dell’ideologia nazista20. All’opposto Hans Naumann, pur sostenendo posizioni politiche reazionarie vicine a quelle nazio- nalsocialiste, fu oggetto di feroci critiche per la sua teoria del folklore come patrimonio degradato dalle classi alte, teoria accusata di minare l’unità della cultura del Volk21.

La Machtergreifung orientò anche la ri­cerca verso particolari obiettivi, come testi­monia il proliferare di indagini sulle simbo­logie dell’arte popolare. Questo filone di studi, strettamente collegato all’attività cul­turale nazionalsocialista, produsse risultati scientifici per lo più risibili22. Otto Lauffer, dopo aver riconosciuto, ironicamente, la “produttività” di uno di questi studiosi che era riuscito a decifrare da 678 illustrazioni circa duemila-duemilacinquecento simboli, concludeva constatando l’impossibilità di un confronto scientifico con chi esercitava così liberamente la propria fantasia23. Un altro

esempio di settore in sviluppo per effetto dell’influenza nazista fu la cosiddetta Ru- nenkunde, la disciplina dedita allo studio dell’alfabeto runico, nella quale si intreccia­vano arte popolare, indagine sui simboli, folklore e scienze preistoriche24.

La demologia tedesca subì anche la pesan­te influenza della teoria razzista. Ziegler, ri­costruendo una tradizione di precursori che partiva da Justus Mòser e Herder e attra­verso i fratelli Grimm, Moritz Arndt, Lud­wig Jahn e Wilhelm Heinrich Riehl conduce­va al nazismo, individuava l’essenza della demologia nella ricerca dell’eredità culturale del popolo tedesco, un popolo che aveva la sua origine nel tardo neolitico nell’area nord-orientale, centro di espansione delle migrazioni indogermaniche25. Ma al di sotto della continuità culturale stava quella raz­ziale, fondata sulle teorie razziali di Hans K. Giihnter26. L’influenza di queste farneticanti teorie non si limitò a questi personaggi scientificamente screditati, ma si riverberò all’interno della corporazione27.

Anche entrando nel merito del dibattito scientifico sarebbe fuori luogo individuare una monolitica uniformità. Tra gli studiosi di arte popolare per esempio esistevano dif­ferenziazioni teoriche di non poco conto.

20 H. Bausinger, Volksideologie, cit., pp. 200-201. Anche il caso di Georg Schreiber è particolarmente complesso, deputato del Zentrum, il prelato si oppose al nazismo anche sotto il profilo ideologico soprattutto contro la pretesa di quest’ultimo di sostituirsi alla religione. Nondimeno la sua concezione culturale era sostanzialmente irrazionali­stica ed influenzata anch’essa dall’esaltazione del Volkstum sicché la sua critica finiva per coinvolgere anche libera­lismo e marxismo (W. Emmerich, Germanistische Volkstumideologie, cit., pp. 161-162).21 Matthes Ziegler, Volkskunde auf rassischer Grundlage. Voraussetzungen und Aufgaben, München, Nationalso- zialistische Wissenschaft n. 4, 1936, p. 7. Sulla polemica cfr. W. Emmerich, Germanistische Volkstumideologie, cit., pp. 162-164.22 Si veda l’accenno di Herman Bausinger, Diskussion IV, in H. Gerndt, Volkskunde, cit., p. 144 W. Emmerich, Germanistische, cit., pp. 204-213. Da notare che il regime spinse verso l’ostracismo del termine Symbol in favore del più germanico termine Sinnbild.23 H. Bausinger, Volksideologie, cit., pp. 193-194.24 Ullrich Hunger, Die Runenkunde im Dritten Reich, Frankfurt a. M.-Bern-New York-Nanzy, Peter Lang Verlag, 1984.25 M. Ziegler, Volkskunde, cit., p. 9. Una precedente versione era apparsa in “Nationalsozialistische Monatshef- te”, n. 53, agosto 1934.26 M. Ziegler, Volkskunde, cit., p. 12.27 Sulle tendenze razziste cfr. in generale W. Emmerich, Germanistische, cit., p. 169 e segg.

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Per esempio una netta demarcazione può es­sere individuata tra quanti leggevano l’arte popolare come il risultato di un naturale bi­sogno decorativo e quanti la riconducevano ad una esigenza magico-cultuale28 29. Lo spar­tiacque tra scienza e ideologia è, dunque, molto difficile da individuare, ma, pur ri­mandando la ricostruzione del dibattito complessivo ad altra sede, intendo fornire un esempio delle implicazioni ideologiche della demologia filonazista attraverso l’ana­lisi delle teorie dello studioso austriaco Karl von Spiess. Questi riconduceva le differenze tra arte colta e popolare ad una rigida dico­tomia tra arte personale e arte impersonale. La prima, urbana, era il prodotto di valori estetici individuali e soggetta al mutare degli stili; la seconda, rurale, coincideva con l’ar­te popolare, ed era oggettiva in quanto espressione di un principio trascendente co­mune all’insieme dei soggetti sociali:[l’arte impersonale corrisponde ad una] concezio­ne, che non cerca il fondamento per tutte le ma­nifestazioni nelle cose stesse, ma rende ogni cosa dipendente da una forza che si trova al di fuori di

29esse .

La dicotomia personale-impersonale ri­specchiava un’antitesi tra individuale e col­lettivo, tra materiale e trascendente, tra transeunte ed eterno ed era riconducibile al contrasto tra Zivilisation e Kultur. Città e campagna rappresentavano dunque distinte e contrapposte spiritualità:Così si contrappongono due uomini, nella so­stanza completamente estranei, l’uno che costrui­sce solo sulle proprie forze e che ascolta la voce della sua interiorità, l’altro ripieno di sentimenti di dipendenza, che si considera solo come l’anello

di una catena, rivolto con lo sguardo al cielo, do­ve si compiono i cicli prestabiliti. Estraneo deve essere tutto ciò che parte da questi due uomini — anche l’arte, che mostra chiaramente riconoscibi­li due direzioni del tutto diverse del creare: una personale e una impersonale30.

Le due spiritualità non erano poste sul me­desimo piano, perché il legame con la natura conferiva alla campagna un piano di supe­riorità. Nell’età contemporanea i difetti del­l’ambiente urbano s’erano accresciuti perché la frenetica vita metropolitana distruggeva10 stesso carattere individuale dell’arte citta­dina come era testimoniato dal cubismo:Così noi vediamo che coloro che comprendono la metropoli e la sua vita con i nervi sensibili del­l’uomo speciale e ci vogliono restituire in forme per così dire cristallizzate la sua essenza, alla fine distruggono la possibilità stessa dell’espressione personale31.

Spiess faceva risalire la scissione tra città e campagna all’affermazione della città greca. In tal modo l’arte contadina diventava l’ere­de dell’arte germanica e veniva accentuato il suo legame con la preistoria. Il principio tra­scendente era radicato nella mentalità miti- co-religiosa del contadino alla quale i cicli stagionali fornivano il contenuto simbolico.11 fatto che la vita del contadino scorresse sempre secondo i medesimi riti scanditi dai cicli lunari e solari spiegava la continuità di forme e simboli dell’arte popolare, continui­tà che poteva essere fatta risalire sino alla preistoria germanica32.

Negli anni trenta Spiess inserì la sua teoria demologica in una generale rilettura della storia dell’arte. Alla disciplina lo studioso viennese rimproverava l’eccesso di filologi-

28 U. Hunger, Die Runenkunde, cit., p. 207.29 Karl von Spiess, Persónliche und unpersònliche Kunst, “Korrespondenzblatt der deutschen Geseilschaft fiir An­tropologie, Etnologie und Urgeschichte”, a. XL VI, 1915, p. 11.30 K. von Spiess, Bauernkunst ihr Art und ihr Sinn, Wien 1925, p. 15.31 K. von Spiess, Persónliche, cit., p. 20.32 K. von Spiess, Persónliche, cit., p. 19.

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smo e la subordinazione alla teoria estetica. Il primo la rendeva incapace di cogliere il si­gnificato profondo dell’opera, la seconda la fuorviava basando il giudizio sul punto di vista dell’osservatore che era storicamente determinato33 cosicché essa perdeva la possi­bilità di individuare il significato profondo dell’arte e si risolveva in un’esteriore storia degli stili. Infine Spiess rigettava il canone classico rinascimentale insieme a quello winckelmaniano rivalutando il ruolo dell’in­fluenza germanica rispetto a quella tardo- romana34.

Nella contrapposizione tra arte germanica e arte classica è evidente l’influenza esercita­ta su Spiess dalla rivalutazione dell’arte nor­dica condotta da Strzygowskj e dalla scuola di studi preistorici di Kossinna35. L’influen­za di queste correnti culturali sulla demolo­gia tedesca fu rilevante36, perché il confron­to tra manufatti preistorici e popolari sem­brava poter confermare la persistenza della struttura spirituale riconducibile alla relazio­

ne tra uomo e ambiente37, relazione centrale nelle concezioni demologiche dell’epoca. Ne derivava la più volte ribadita necessità di in­staurare una collaborazione tra demologi e studiosi di preistoria per individuare la ricer­ca della radici preistoriche della cultura ger­manica38, collaborazione che fu messa in pratica dal programma di lavoro dell’istitu­to delle SS Ahnenerbe39.

Negli anni venti l’impostazione del demo- logo austriaco aveva raccolto più critiche che consensi. Il punto più discusso della sua opera era l’ermeneutica mitologica delle for­me. Naumann l’aveva liquidata come fanta­sticheria40. Lauffer sostenne che la relazione istituita tra arte contadina e arte urbana, ri­fiutando ogni ruolo all’impulso ludico nella creazione, finiva per negare la creatività stessa dell’arte popolare. La separazione tra città e campagna in campo artistico, — pro­seguiva lo studioso — non era così antica come credeva Spiess, ma risaliva alla fine del medioevo, per di più senza che ciò avesse

33 Su questo punto Josef Strzygowskj, Die Krisis der Geisteswissenschaft, Wien, Kunstverlag, 1923.34 K. von Spiess, Marksteine der Volkskunst, “JfhV”, vol. I, 1936, pp. 26-27.35 Josef Strzygowskj, Das Erwachen der Nordforschung in der Kunstgeschichte, Acta Academiae Aboensis, Hu- maniora, vol. 4, n. 6, 1923, pp. 3-45; vedi anche Johannes Schwieger, Der Begriff Norden, in J. Strzygowski (a cu­ra di), Der Norden in den bildenden Kunst Westeuropas. Heidnisches und Christlisches um das Jahr 1000, Wien, 1926, pp. 271-290. Su Kossinna vedi Herbert Kuhn, Geschichte der Vorgeschichteforschung, Berlin 1976, p. 343 e segg.; Oskar Veit, Gustav Kossinna und V. Gordon Childe, “Saeculum”, a. 35, 1984, pp. 328-333; M. Kater, Ah­nenerbe, cit., pp. 19-22.36 Konrad Hahm, Kunst im Finnland, Berlin, 1933, p. 8; Hans Hahne, direttore del museo di Halle e membro della commissione tedesca arti popolari, era stato allievo di Kossinna; i fratelli Haberlandt erano debitori degli studi sul­l’arte preistorica di Moritz Hoernes, (Leopold Schmidt, Arthur Haberlandt zum Gedachtnis. Nachruf un Biblio­graphie, “OZfV” vol. XVIII n.s. 1964, p. 218. Sul ruolo del mito germanico nella cultura tedesca cfr. Klaus von See, Deutsche Germanen-Ideologie vom Humanismus bis zum Gegenwart, Frankfurt a. M., Athenàum Verlag, 1970; per l’influenza dell’ideologia germanofila sulla disciplina vedi W. Emmerich, Germanistische, cit., p. 172 e segg.; Martin Scharfe, Einschwórung auf den vòlkisch-germanischen Kulturbegriff, in Jorg Tròger (a cura di), Ho- chschule und Wissenschaft im Dritten Reich, Frankfurt-New York 1984, pp. 105-115.37 Frederick Adama van Scheltema, Die deutsche Volkskunst und ihre Beziehungen zur germanischen Vorzeit, Leipzig, Bibliographisches Institut, 1938, p. 9.38 Josef Strzygowski, Zur Rolle der Volkskunde in der Forschung iiber bildende Kunst, in Festschrift für Michael Haberlandt, “WZfV”, 1925, n. 31, pp. 105-106; Oswald Erich, (a cura di), Die Sachgilter der deutsche Volkskun­de, Berlin, 1934, “JfhV”, voli. III-IV, p. 9.39 M. Kater, Ahnenerbe, cit., pp. 17024.40 Hans Naumann, “JfhV”, vol. Ili, “HBfV”, 1926, p. 263; per un giudizio positivo cfr. Michael Haberlandt, Volkskunde und Kunstwissenschaft, in Wilhelm Fraenger (a cura di), Die Volkskunde und Ihre Grenzgebiete, “JfhV”, 1925, p. 228.

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comportato l’interruzione dei contatti tra le due sfere come testimoniava la persistente imitazioni di forme urbane da parte della campagna. Secondo il demologo, la rigida definizione di arte impersonale rischiava, in­fine, di cancellare il ruolo dell’individuo nel­l’arte popolare41. Cautela mostravano perfi­no studiosi che recepivano la teoria di Spiess poiché essi erano consapevoli che alla per­manenza delle forme si accompagnava spes­so il mutare dei contenuti simbolici42. Il di­battito demologico sul concetto romantico di creazione collettiva non era stato senza effetti nel campo dell’arte popolare e la con­seguente rivalutazione del ruolo individuale nel processo creativo veniva condivisa da molti demologi, con il risultato che gli stessi sostenitori di Spiess ne recepivano la teoria sfumandone la rigida dicotomia. Infatti l’impersonalità dell’arte popolare veniva ri­dotta al ruolo esercitato solo “in ultima istanza” dal patrimonio di forme della tradi­zione43.

Negli anni trenta il ruralismo di Spiess trovò invece un’eco più ampia e favorevole sfruttando il clima ideologico irrazionalista che nell’arte popolare vedeva una manife­stazione del carattere nazionale, senza riu­scire però a sfuggire a critiche nello stesso campo filonazista e su un punto non certo irrilevante.

Ai teorici della Bauernkunst (arte contadi­na) come Spiess non appariva concepibile lo sviluppo di un’arte popolare urbana se non

per mano della prima generazione di conta­dini inurbati o degli abitanti nelle zone di confine tra città e campagna44 e la rinascita dell’arte popolare, e della cultura popolare in generale, dipendeva pertanto solo dal po­tenziamento dell’insediamento rurale45. Una posizione radicalmente diversa era invece sostenuta da Otto Lehmann, uno studioso tutt’altro che in odore di eresia. Pur ammet­tendo che il contadino, per il suo contatto con le “datità naturali del suolo”, fosse maggiormente predisposto verso la produ­zione di arte popolare, egli ricordava come l’eredità del sangue si conservasse anche nel contadino inurbato. Pertanto più che di un’assenza di arte popolare urbana si sareb­be dovuto parlare di una carenza di indagini volte a scoprirla. Le città non erano agglo­merati amorfi e indistinti, ma in esse il senti­mento popolare si manifestava conferendo loro una specifica conformazione urbanisti­ca46. Anche la città esprimeva una propria vita comunitaria attraverso le associazioni e le leghe urbane e le loro manifestazioni culturali47. La stessa insoddisfazione del­l’operaio per il suo lavoro, infine, non era connaturata al lavoro industriale, ma di­pendeva dalla passata penetrazione di ideo­logie estranee al ceto operaio — accenno evidente all’influenza socialista48. Hermann Bausinger nel rilevare questo contrasto di posizioni ha giustamente messo in luce che la posizione espressa da Lehmann rimase minoritaria49. Ma la persistenza di questi

41 Otto Lauffer, Deutsche Volkskunst, “Zeitschrift für Deutschkunde” , 1927, rispettivamente p. 596 e p. 603.42 Arthur Haberlandt, Begriff und Wesen der Volkskunst, in W. Fraenger, Vom Wesen, cit., p. 31.43 A. Haberlandt, Begriff, cit., p. 24.44 K. von Spiess, Marksteine, cit., p. 39.45 Deutsches Heimatwerk, Ausstellung für Volkskunst und bodenstandiges Handwerk, Berlin, 1933, p. 3.46 Otto Lehman, Deutsches Volkstum in Volkskunst und Volkstracht, Berlin, De Gruyter 1938, pp. 111-112. Sul­l’attività della casa editrice in campo demologico cfr. Heidemarie Schade, De Gruyter und die Volkskunde bis 1945, in W. Bruckner-K. Beiti (a cura di), Volkskunde als akademischen, cit., pp. 145-159.47 H. Schade, Volkskunde und Grossstadt, in Ernst Borcher-Herbert Freudenthal, Volkskundearbeit. Zielsetzung und Geschichte. Otto Lauffer zur 60. Geburstag, Leipzig, 1934, p. 29.48 E. Borcher, H. Freudenthal, Volkskundearbeit. Zielsetsung und Geschichte, cit., p. 26.49 H. Bausinger, Volksksideologie, cit., p. 188.

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contrasti era il segno di contraddizioni più profonde.

Volkstumarbeit e arte popolare

Alla rifondazione di una cultura popolare tradizionale, definita come Volkstumarbeit, i nazionalsocialisti dedicarono molte energie. Il termine Volkstum, coniato da Jahn nel 1810 per designare il carattere nazionale e se­gnato da una connotazione organicistica50, era ben presto entrato a far parte del bagaglio linguistico delle correnti vòlkisch51. L’uso della parola Arbeit, lavoro, voleva sottoli­neare la diversità del nazionalsocialismo ri­spetto ai precedenti movimenti di conserva­zione del patrimonio culturale della nazione che chiamavano la loro attività Volks- tumpflege (conservazione del carattere nazio­nale). Agli occhi dei nazisti i movimenti wei- mariani si erano limitati a conservare i resti della cultura tradizionale trasformandoli in oggetti da museo, mentre il nazionalsociali­smo mirava a fare rinascere quest’ultima ren­dendola un fenomeno vivente52. A questo compito diedero il loro contributo diverse or­ganizzazioni del partito. Nel 1934 venne fon­dato il Reichsamt Volkstum und Heimat (Uf­

ficio del Reich carattere nazionale e patria), affidato alle cure di Werner Haverbeck, al­l’interno dell’organizzazione dopolavoristica Kraft durch Freude ( = KdF)53. Anche VAmt Rosemberg fondò un proprio ente culturale con una sezione riservata alle tradizioni po­polari54. Di folklore si occupavano anche l’associazione rurale di Walther Darrè e le or­ganizzazioni giovanili e femminili del partito. Come hanno mostrato gli studi sul nazional­socialismo, queste organizzazioni erano in conflitto tra loro, conflitto che, dopo un’ini­ziale alleanza, divenne particolarmente acuto tra KdF e VAmt-Rosemberg55. Il Reichsamt Volkstum und Heimat poteva vantare una cerchia di destinatari decisamente ampia. Nel­la primavera del 1934 l’organizzazione inqua­drava circa diecimila associazioni, pressappo­co 4 milioni di uomini56 57. Rappresentava quin­di un ambito boccone nella lotta per il potere interna al regime. Nel 1935 essa e il suo omoni­mo organo di stampa, per effetto di un accor­do tra Ley e Rosemberg, passarono da KdF al­le dipendenze dell’associazione culturale del- VAmt Rosemberg denominata Ns-Kulturge- meinde51. Nel ’37 in seguito ad un nuovo ac­cordo la rifondazione di una cultura popolare tradizionale (Volkstumarbeit) tornò sotto la tutela dell’associazione dopolavoristica58.

50 Cfr. la voce Volksthum in Jacob Grimm-Wilhelm Grimm, Deutsches Wòrterbuch, vol. 12, sezione II, (rielabo­rato da Rudolf Meizzner), Leipzig, Verlag von S. Hirzel, 1951, colonna 499.51 Sull’ideologia vòlkisch, oltre a G. Mosse, Le origini culturali, cit., passim cfr. M. Broszat, Die vòlkische, cit., pp. 53-68; Kurt Sontheimer, Antidemokratisches Denken in der Weimarer Republik, München, 1968.52 Werner Haverbeck, Rechenschaftsbericht der Nationalsozialistische Volkstumarbeit auf dem Reichsparteitag 1934, “VuH”, 1934, p. 196.53 Si trattava dell’incorporazione in K df del Reichsbund Volkstum und Heimat nato l’anno precedente e diretto da un giovane attivista politico nazista, Werner Haverbeck. Su queste vicende cfr. R. Bollmus, Das Amt Rosemberg, cit., pp. 47-50. Su K df vedi Wolfhard Buchholz, Die Ns-Gemeinschaft Kraft durch Freude. Freizeitgestaltung und Arbeiterschaft im Dritten Reich, tesi di dottorato Università di München, 1976.54 SaVi’A m t Rosemberg e l’originario avvicinamento a Ley cfr. R. Bollmus, Das Amt Rosemberg, cit., p. 61 e sgg.55 Sulla rottura tra Rosemberg e Ley cfr. R. Bollmus, Das Am t Rosemberg, cit., p. 85 e sgg.56 H. Bausinger, Volkskunde und Volkstumarbeit im Nationalsozialismus, in H. Gerndt (a cura di), Volkskunde, cit., p. 133.57 “VuH”, 1935 n. 5 /6 . Ley minacciò il licenziamento per chi avesse continuato a collaborare con la NS-Kulturge- meinde (circolare 2 febbraio 1935 in BAK, NS 22/667).58 R. Bollmus, Das Amt Rosemberg, cit., pp. 101-102. Un altro accordo fu stipulato con l’associazione di Darrè cfr. Die Kulturarbeit auf dem Lande, “VuH”, 1937, pp. 125-126.

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Uno spoglio della rivista “Volkstum und Heimat”, organo ufficiale del Reichsamt, sia pure circoscritto al problema dell’arte popolare, rivela alcune caratteristiche gene­rali della Volkstumarbeit. Nonostante le af­fermazioni naziste sul carattere innovativo della loro politica culturale in questo cam­po, il debito nei confronti delle esperienze di conservazione del patrimonio artistico dei decenni precedenti era rilevante. La stes­sa rivista “Volkstum und Heimat” era la prosecuzione del periodico “Das Land”, di­retto da Heinrich Sohnrey, una delle figure di maggior rilievo della Volkstumpflege59. Tra i suoi collaboratori troviamo nomi pro­venienti dalle file dei movimenti di conser­vazione artistica come Werner Lindner, se­gretario del Bund Heimatschutz (Lega per la conservazione della patria) associazio­ne che nel 1933 era confluita nella sezio­ne Volkstum und Heimat dell’associazio­ne dopolavoristica60. Questo debito era poi implicitamente riconosciuto nel momento stesso in cui si individuavano i precurso­ri della politica culturale nazista proprio ne­gli esponenti delle correnti culturali rurali- ste prebelliche come i già citati Sohnrey, Spiess oppure Robert Mielke e Oskar Sch- windrazheim.

Per quanto riguarda i collaboratori si de­

ve notare per prima cosa l’assenza dei fol­cloristi accademici. A parte qualche giovane demologo, gli unici nomi incontrati erano quelli di studiosi che avevano aderito com­pletamente al nazismo come Mudrak e Spiess61. In secondo luogo alcuni sondaggi biografici suggeriscono l’ipotesi che la loro estrazione sociale vada individuata soprat­tutto nell’area del ceto medio tradizionale62. Infine l’insofferenza manifestata da questi militanti della propaganda culturale nazista nei confronti degli accademici sembrerebbe accreditare l’idea che molti di questi perso­naggi fossero homines novi, privi di un or­ganico rapporto con la tradizione accademi­ca, anche se legati alla tradizione dell’Hei- matschutzbewegung (movimento per la tute­la dei beni patri). Infatti ai demologi veniva spesso rimproverato di non enfatizzare a sufficienza l’unità sostanziale delle manife­stazioni culturali del popolo tedesco. La di­cotomia tra la cultura alta e quella dei ceti inferiori appariva come una negazione del­l’unità dalla Volksgemeinschaft (comunità popolare), mentre la pedanteria accademica dei demologi avrebbe loro impedito di affer­rare il senso profondo del folklore63. Al de­mologo Paul Geiger un recensore nazista rimproverava di essersi rivolto “all’intellet­tuale” cioè a colui, “che rifiuta la possibilità

59 Robert Mielke (necrologio), “VuH”, 1935, p. 264. Su Sohnrey cfr. Klaus Bergmann, Agrarromantik und Stadt- feindlichkeit, Meisenheim am Gian, Verlag Anton Hain, 1970, pp.63-85.60 Nel 1933 la Bund deutscher Heimatschutz era stata cooptata nella sezione Volkstum und Heimat di KdF (Wer­ner Lindner, Heimatschutz im neuen Reich, Leipzig, Seeman, 1934, p. 69). Sull’Heimatschutz Klaus Bergmann,A- grarromantik, cit., pp. 122-135.61 H. Bausinger, Volkskunde und Volkstumarbeit, cit., p. 139.62 Tra di essi vanno annoverati un artigiano come Hugo Kiikelhaus, uno scultore come Wolfgang Schultz che si de­dicava a lavori di Kunstgewerbe, oppure una pittore come Hentschel. Il primo negli anni venti era stato prima se­gretario e poi presidente dell’associazione falegnami della Renania-Westfalia (Heinrich August Winkler, Mittle- stand, Demokratie und Nationalsozialismus. Die politische Entwicklung der Handwerk und Kleinhandel in der Weimarerrepublik, Kóln, Kiepenhauer & Witsch, 1972, p. 63 e p. 123). Il secondo scolpiva su legno e pietra. Aveva studiato alla Technische Hochschule di Vienna e alla scuola di intaglio su legno di Hallstatt e si era perfezionato dal ’25 al ’32 all’accademia viennese con Anton Hanak e Jos. Muellner (Hans Vollmer (a cura di), Allgemeines Lexi- kon der Bildenden Kiinstler des XX. Jahrhunderts, Leipzig, vol. IV, 1958, p. 229). Mi riprometto di convalidare queste ipotesi di lavoro attraverso ricostruzioni biografiche. Occorre precisare che il sondaggio riguardava solo quanti si occupavano di arte popolare.63 Heinrich Guthmann, Der erste Riistlager fiir Volkstumarbeit der N.S.-Kulturgemeinde, “VuH”, 1935, p. 166.

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di una fede e di una relazione interiore con il simbolo”64.

Il rilancio dell’arte popolare passava per prima cosa attraverso la rieducazione dell’a­bilità manuale e del senso estetico del popo­lo. Nel 1934 il Reichsamt Volkstum und Heimat progettò la costituzione di gruppi di lavoro per addestrare alla produzione ma­nuale di oggetti con l’ausilio di semplici utensili. I manufatti sarebbero poi stati esposti nella speranza di contribuire alla na­scita di vere e proprie branche economiche in grado di produrre autonomamente arte popolare e di lottare contro il Kitsch nell’ar­redamento domestico65. Per favorire la rie­ducazione artistica del popolo tedesco, sia KdF sia l’organizzazione di Rosemberg alle­stirono numerose mostre66. In esse modelli buoni e cattivi di arte colta e d’artigianato venivano contrapposti per stimolare l’eserci­zio manuale e il risveglio della capacità crea­tiva del popolo67. Nell’esposizione, inaugu­rata il 10 ottobre 1935 dal significativo titolo Deutsches Laienschaffen (Produzione arti­stica amatoriale tedesca) una sezione, curata del museo folklorico di Berlino diretto da Hahm, illustrava ai visitatori la ricchezza della manualità tedesca del passato, mentre

il resto ospitava i risultati dell’attività do­polavoristica con esclusione dei prodotti destinati alla vendita: giocattoli costruiti per i propri figli, poesie composte per i com­pleanni, tappeti murali, giornalini scola­stici ecc. Durante il periodo dell’esposi­zione vennero organizzati anche dei cor­si d’istruzione. A Margarete Naumann, di­venuta famosa negli anni venti per la sua metodologia didattica68, fu affidata la sezio­ne sul ricamo, e a Christof Drexel quella sul disegno. Uno dei corsi illustrava un’antica tecnica tessile diffusa anche tra le popolazio­ni nordiche, che era stata da poco riesuma­ta69. L’azione di KdF nel campo delle mo­stre proseguì per tutti gli anni trenta coin­volgendo anche le fabbriche per ridurre la distanza tra artista e operai e favorire l’atti­vità dopolavoristica di questi ultimi70. La ri­presa dell’arte popolare non era però fa­cile come testimonia la lamentela apparsa, nel 1939, su “Volkstum und Heimat”: non si poteva ancora parlare di rinascita della Volkskunst (arte popolare) fintanto che si seguivano i canoni stilistici dell’espressione individuale71.

I destinatari principali dei programmi di Volkstumarbeit erano il contadino e il “colo-

64 Um die deutsche Kultureinheit, “VuH”, 1937, p. 31.65 Ans Werk Kameraden! Von der Durchführung des Generalplanes des Reichsamtes Volkstum und Heimat der NS-Gemeinschaft “Kraft durch Freude”, “VuH”, 1934, p. 175.66 Per un cenno sull’attività di KdF ch. W. Buchholz, Die Ns-Gemeinschaft, cit., p. 238.67 Anatol von Hiibbenet, Die N.S.-Gemeinschaft Kraft durch Freude, “Schriften der Hochschule fair Politile”, 1934, n. 27/28, p. 37.68 Dopo aver studiato arte industriale a Dresda dal 1908 al 1912, la Naumann aveva sviluppato negli anni seguenti un suo particolare metodo di insegnamento denominato Margareten-Technik basato sulla libera creazione basata sull’impiego della carta. La Naumann godette di un notevole credito anche negli anni trenta, quando questo meto­do venne considerato uno stadio iniziale nell’avviamento al lavoro tessile (Agnes Gerlach, Frauenhande schaffen, “VuH”, 1934, pp. 219-220. Su Margarete Naumann cfr. Anonimo, Die Margaretetechnik, Leipzig, s.d., in BAK R32/184 n. 9.69 I corsi di Brettchenweberei — antichissima! pratica egizia — erano tenuti dalla Staudigel (Hans Miihle, Deut­sches Laienschaffen, “VuH”, 1935, pp. 226-227). Drexel era stato in origine un pittore espressionista, membro del. gruppo di Novembre, cfr. Hans Vollmer, Allgemeìne Lexikon der bildende künstler des XX. Jahrhunderts, vol. 1,Leipzig, 1953, p. 593.70 Werner Kindt, Kunsterziehung durch der NS-Gemeinschaft Kraft durch Freude, “Kunst im Dritten Reich”, a. 3, 1939, appendice, pp. I-II. La rivista era nata in seno all’organizzazione di Rosemberg cfr. R. Bollmus, Das Amt Rosemberg, cit., p. 111.71 Friederich Lembke, Überlieferung und Gegenwart. Wiederbelebung des Hausfleisses, “VuH”, 1939, p. 23.

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no”, cioè l’abitante dei nuovi insediamenti edilizi72. Nel 1937 l’editoriale d’apertura del­la rivista dichiarò l’intenzione di concentrar­si nell’organizzazione pratica delle attività culturali e nella diffusione di quei valori ru­rali dai quali erano scaturite “le manifesta­zioni della vita culturale tedesca”73. Il rurali- smo fu uno dei punti di convergenza tra nazi­smo e folkloristica anche se, come abbiamo visto, sul piano teorico non mancavano voci dissenzienti. Anche all’interno della Volks- tumarbeit la città non veniva trascurata. Nel­lo stesso anno, in polemica con l’idea che la conservazione delle tradizioni popolari fosse limitata alla sola campagna, “Volkstum und Heimat” ricordò che tale conservazione av­veniva anche nella città. Per dimostrare que­sto fatto il Landesstelle Kurmark fiir die Deutsche Volksforschung (Ufficio regionale del Kurmark per la ricerca sul popolo tede­sco) aveva condotto un’inchiesta tra le Volksschule (scuole popolari) di Berlino in base alla quale il Volkstum (carattere nazio­nale) berlinese rivelava un’insospettata vita­lità74. Benché questa precisazione fosse tem­perata dall’assicurazione che il “risanamento dell’organismo popolare tedesco” dipendeva in primo luogo dal ceto rurale, l’apertura verso la città rimane un fatto significativo soprattutto perché non era isolato. Nel 1933 la mostra de\V Heimatwerk (opera per la pa­tria) aveva esposto i prodotti dopolavoristici di una famiglia berlinese, “affamata della comunanza di idee e destini rurale” , e il pro­dotto di qualche scolaresca75.Due anni dopo, citando un’inchiesta condotta nel 1934 dal­l’associazione rurale Reichsnahrstand di Darrè sulla diffusione urbana dei telai ma­

nuali, un collaboratore della rivista poteva scrivere che tra

gli operai industriali che vivono negli insediamen­ti urbani e [...] i cittadini [...] è entrato il telaio a mano [e] [...] la tessitura viene praticata quale at­tività secondaria sia come produzione domestica (Hausfleiss) che come lavoro a domicilio76.

La scelta di Berlino per l’inchiesta sulla vi­talità del folklore nella città aveva un valore simbolico. In passato Berlino era stata in­fatti identificata come sede dell’arte e della cultura moderna. Si intendeva in tal modo mostrare come la rigenerazione culturale nazista stesse espugnando i bastioni della Zivilisation. Ma viene da chiedersi se questa persistenza di strumenti tradizionali fosse effettivamente un fatto positivo, un segno— secondo l’istituzione nazionalsocialista— della vitalità dell’abilità manuale tede­sca77, oppure fosse un indice di arretratez­za. La persistenza di un’attività collaterale mi sembra testimoniare più il frutto della necessità di integrare il reddito familiare che il segno di una vocazione. Altrettanto vero­simile mi sembra l’ipotesi che la conser­vazione di vecchi sistemi di lavorazione ri­flettesse la lenta diffusione del progresso tecnico nel settore del lavoro a domicilio. A una conclusione simile era giunta nel 1925 un’inchiesta condotta per conto dei sindacati78.

Referenti ideologici della pedagogia artistica

L’opera di rieducazione artistica vagheggia­ta dai nazionalsocialisti aveva un insospetta-

72 Rudolf Ramlow, (a cura di), Und jetzt ist Feierabend, Berlin s.d. (successivo al 1938) p. 167.73 “VuH”, 1937, p. 1.74 Gross-Berlin. Volkskundliche Grossstadt-Untersuchung, “VuH”, 1937, p. 21.75 Deutsches Heimatwerk, Ausstellung, cit., p. 17.76 Ernst Bargel, Von der Volkskunst desHandwebens im Maschinenzeitalter, “VuH”, 1935, p. 52 e p. 55.77 L’inchiesta censì 127.537 telai manuali (Ausstellung Deutsche Bauernkunst, Berlin s.d., 1937, pp. 19-21).78 Dora Benjamin, Der Stand der Heimarbeit in Deutschland, Ergebnisse der deutschen Heimarbeitausstellung, “Schriften der Gesellschaft fiir soziale Reform”, n. 77, 1928, p. 14.

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to retroterra culturale. I corsi di educazione artistica del popolo tedesco rifiutavano l’uso didattico di conferenze e lezioni per privile­giare la diretta partecipazione al processo la­vorativo. In tal modo essi si riallacciavano, esplicitamente, alla tradizione pedagogica ottocentesca da Johann Heinzich Pestalozzi a Alfred Lichtwark79, una tradizione impor­tante ai fini dello sviluppo della pedagogia moderna. In particolare i riformatori di fine ottocento si erano contrapposti al metodo razionalistico di insegnamento e alle sue astrattezze in voga alla fine del secolo scorso nelle scuole d’arte e d’artigianato. Sarebbe fuori luogo ascrivere questi pensatori nel no­vero dei precursori del nazionalsocialismo. Teorici filonazisti come Kornman e Geist ne svilupparono l’eredità, coniugandola alle dottrine elaborate da Gustav Britsch nel pe­riodo weimariano. Inseriti in un contesto teorico irrazionalista mutuato dall’opera di Langbehn questi elementi conducevano ad una sorta di neoromanticismo mistico80. Il loro metodo educativo iniziativa con il dise­gno libero e passava attraverso l’esercizio pratico nelle arti applicate (produzione di tappeti ecc.) per giungere alla realizzazione di un’opera completa81. Questo metodo si basava sull’idea fiedleriana, rielaborata da Britsch, che concepiva l’attività artistica

quale capacità conoscitiva autonoma e indi- pendente da quella scientifico-intelletiuale. Secondo il teorico ottocentesco Fiedler, an­zi, la crescita della capacità analitico-concet- tuale finiva per limitare lo sviluppo di quella espressivo-artistica82. Il campo di applica­zione primario era naturalmente la scuola dove il fanciullo non era stato ancora gua­stato dall’intellettualismo e dall’insegna­mento e riusciva ad esprimersi con facilità secondo schemi che apparivano, agli occhi di questi pedagoghi, assai vicini a quelli del­l’arte popolare. Ma per raggiungere quest’o­biettivo il bambino non doveva copiare la realtà, ma esprimere il suo mondo percetti­vo. L’azione sull’infanzia era la premessa per far sgorgare l’arte nazionale del doma­ni83. Sulla base di questi presupposti anche l’attività artistica amatoriale (LaienschaJ- ferì) era ritenuta uno stadio fondamentale per la crescita delParte tedesca84.

È interessante rilevare che l’impiego di­dattico dell’arte popolare fosse teorizzato anche da un personaggio come Adolf Rei- chwein, membro della resistenza antinazista. Egli però collaborò anche alle attività del museo berlinese diretto da Hahm, dirigen­done la sezione pedagogica e organizzando alcune mostre sull’arte germanica e sul lavo­ro artigiano destinate alle scuole85. Reich-

79 E. Bargel, Von der Volkskunst des Handwebens, cit., p. 56 in cui l’autore si richiamava a Pestalozzi e a Georg Kerschensteiner.80 Gunter Otto, Kunst und Erziehung in industriellen Zeitalter, in Theodor Ellwein, (a cura di), Erziehungswissen- schaftliches Handbuch, vol. I, Berlin 1969, pp. 231-235; Herbert Wilmsmeyer, Volks, Blut, Boden, Kiinstler, Gott. Zur Kunstpadagogik im Dritten Reich,in Peter Lundgreen, Wissenschaft in Dritten Reich, Frankfurt a.M., Suhr- kamp, 1985, p. 86 e p. 97.81 Erich Parnitzke, Von der stets gegenwartigen Bedeutung des ursprungsnahe Bildschaffens, in Hanns Egerland, Unsterbliche Volkskunst, München, 1936, pp. 40-41. Per le teorie di Britsch si veda Gustaf Britsch, Theorie der Bildende Kunst (a cura di Egon Kornmann), München 19302.82 H. Wilsmeyer, Volk, cit., pp. 100-103.83 “Senza la lezione preliminare della scuola non ci sarebbe oggi attività artistica amatoriale (Laienschaffen) degli adulti; senza la produzione riflessiva del dilettante non c’è arte popolare domani; senza la genuina adesione alla specificità (Eigenart) del popolo intero non c’è nemmeno alcuna prestazione magistrale nelle arti plastiche dopodo­mani” (Wolfdietrich Stein, Vom Laienschaffen, in H. Egerland, Unsterbliche, cit., p. 88).84 Hans-Friederich Geist, Die Wiedergeburt des Künstlerischen aus dem Volk, Leipzig, Seemann, 1934, p. 49.85 M. Roth, Heimatmuseen, cit., p. 118; Martin Roth, Heimatmuseum. Zur Geschichte einer deutschen Institu­tion, Berlin, Gebr. Mann Verlag, 1990, p. 91; Ulrich Steinemann, Die Entwicklung des Museums fur deutsche

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wein era stato direttore delle università po­polari della Turingia ed aveva sviluppato una concezione che poneva il lavoro al cen­tro dell’attività museale secondo una pro­spettiva in contrasto con gli indirizzi nostal- gico-ruralisti prevalenti in quegli anni86. Tuttavia, benché egli mirasse alla valorizza­zione dell’attività manuale e della comunità scolastica come fatti concreti e storicamente determinati, evitando l’ipostatizzazione astorica attuata dalle correnti di pensiero reazionarie, in epoca nazista le sue mostre finirono per essere influenzate anch’esse dall’idealizzazione del passato germanico87.

Artigianato e arte popolare nei Terzo Reich

La questione artigiana aveva avuto il suo momento di gloria tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nel 1907 era nata un’associazione di produttori e artisti deno­minata Deutsche Werkbund (Wb) per mi­gliorare il design tedesco. Dopo una prima fase nella quale l’artigianato e le forme tra­dizionali avevano esercitato una certa in­fluenza, l’orientamento predominante del­l’organizzazione si era rivolto al funzionali­smo portando alla rottura con i fautori di un radicamento nazionale dell’industria d’arte e dell’artigianato come Schultze- Naumburg88. Con l’avvento del nazionalso­

cialismo, mentre organismi concorrenti co­me il reazionario Kampfbund für deutsche Kultur (Lega di lotta per la cultura tedesca) cercavano di liquidarlo con l’accusa di esse­re un bastione del “bolscevismo culturale”, il Wb subì la Gleichschaltung89. Il progetto di riorganizzazione dell’associazione elabo­rato dagli esponenti filonazisti mirava al ri­lancio dell’artigianato tradizionale e dell’ar­te popolare, alla lotta contro il Kitsch nella produzione di souvenir e all’allestimento di mobilio rurale destinato al contadino e al colono90. A questo scopo il congresso di Würzburg istituì un’apposita commissione di studio91. L’inversione di tendenza rispetto all’evoluzione del Wb degli anni venti riflet­teva l’enfasi ideologica sulle virtù artigiane presente nel movimento nazista, ma era an­che il segno della presenza di tendenza criti­che nei confronti della Neue Sachlichkeit (nuova oggettività) e della forma tecnica che essa aveva esaltato. Nell’introdurre il suo li­bro sull’arte industriale apparso durante la guerra, Walter Passarge polemizzò esplicita­mente contro questo concetto e contro la concezione di Le Corbusier della casa come di una macchina per abitare. A questo do­minio della tecnica Passarge contrapponeva una riscoperta delle forme eterne, operata negli anni trenta per mezzo delle mostre Ewiges Handwerk (Eterno Artigianato) e Ewige Formen92 (Eterne forme). L’allonta-

Volkskunde von 1889 bis 1964, in Aa.Vv., 75 Jahre Museum für Volkskunde zu Berlin 1889-1964, Berlin, 1964, pp. 40-41; Walther Schuchardt,Begegnungen mit Alfred Reichwein, in Wilfried Huber-Albert Krebs (a cura di), A dolf Reichwein 1938-1944, Schòning, Paderborn 1981, pp. 52-58.86 Sull’attività museale cfr. Wilfried Huber, Museumspddagogik und Widerstand 1939-1944. Zum Bildungspoliti- schen Aspekt im Leben Adolf Reichwein, in F. Huber-P. Krebs (a cura di), A dolf Reichwein, cit., pp. 303 e segg.87 M. Roth, Heimatmuseen, cit., p. 120; M. Roth, Heimatmuseum, cit., p. 92.88 Sulla storia del Wb e la relativa bibliografia cfr. Joan Campbel, Il Werkbund tedesco. Una politica di riforme nelle arti applicate e nell’architettura, Venezia, Marsilio, 1987 (ed. orig. Princeton, 1978); sull’influenza esercitata dall’artigianato sul Bauhaus vedi Giulio Carlo Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, Torino, Einaudi, 1968, p. 43 e segg.; Marcel Franciscono, Walter Gropius and the creation o f the Bauhaus in Weimar. The Ideals and artistic theories o f its foundation years, Urbana 111., University of Illinois Press, 1971, pp. 222-223; sul problema dell’arte popolare a Weimar cfr. S. Cavazza, Arte popolare, cit.89 Per la ricostruzione della vicenda cfr. J. Campbel, Il Werkbund, cit., pp. 233 e segg.90 (Lòrcher-Wendland), Der deutsche Werkbund im Dritten Reich, Berlin 3 marzo 1933, p. 6, in GSPK Rep. 90/1793.91 J. Campbel, Il Werkbund, cit., p. 250.92 Walter Passarge, Deutsche Wertkunst der Gegenwart, Berlin, Rembrandt Verlag, 19442, p. 6.

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namento dagli insegnamenti degli anni venti era visibile sia sul piano teorico sia su quello della realizzazione nel rifiuto della forma quadrata propagandata dal Bauhaus e nel­l’esaltazione della forma circolare93. Nello stesso tempo è evidente che la lezione fun- zionalista non era stata dimenticata, tanto che perfino nelle pubblicazioni della Volk- stumarbeit ritroviamo indicazioni in questo senso. Per esempio, secondo l’artigiano Kiihkelhaus, la scelta del mobilio da parte del consumatore doveva privilegiare la fun­zione abitativa degli oggetti94. Questo signi­ficava proporre mobili dalle forme semplici, con richiami evidenti all’arredamento rurale e di basso costo95. Da rigettare era pertanto il concetto di bello, che avrebbe caratterizza­to l’epoca “liberale”, dominato dal deside­rio di manifestare il proprio status sociale attraverso la sontuosità degli arredi e dei mobili96. Mi sembra plausibile vedere queste indicazioni come un tardo effetto del dibat­tito dei primi anni venti, soprattutto della fase “populistica” del Bauhaus, come testi­monia anche il fatto che il Deutsche Waren- kunde — un catalogo commerciale pubbli­cato nel 1938 per orientare il gusto dei con­sumatori tedeschi97 — includesse, nella se­

zione dedicata all’artigianato tedesco, i vasi di Otto Lindig creati nella prima fase del Bauhaus. Alla base di alcune continuità di temi v’era certamente anche il fatto che ar­chitetti e designer del vituperato Wb weima- riano avessero proseguito la loro attività du­rante il regime, come testimonia la vicenda di Behrens98. La presenza di elementi di con­tinuità non può far dimenticare che la risco­perta dell’artigianato non era la riproposi­zione di idee dismesse dalle avanguardie pri­mo-novecentesche, ma era l’espressione di un diverso clima culturale. Ne abbiamo con­ferma esaminando il contributo di Walter Dexell, che, laureato in storia dell’arte, nel­l’anteguerra aveva iniziato a dipingere sotto l’influenza fauve, e che, dopo essere entrato in contatto con il Bauhaus e con Theo Van Doesburg, era giunto nel 1923 a privilegiare l’astrazione geometrica. Fino al 1933 aveva insegnato a Magdeburgo, successivamente i nazisti lo privarono dell’incarico99. La ten­sione con il regime non impedì che, nei suoi lavori teorici, Dexell rivalutasse la forma ar­tigiana e la tradizione nazionale. La fonte di ispirazione dell’artigiano doveva essere il patrimonio nazionale di forme100 che com­prendeva sia l’arte contadina sia l’arte urba-

93 Hans Scheerer, Die Gestaltung im Dritten Reich 2, “Die Form”, 1975, f. 70, p. 32.94 Hugo Kiikelhaus, Dein Heim vom Handwerk, “VuH”, 1934, p. 140. Negli anni trenta Kiikelhaus curò, assieme a Lindner, una collana dedicata all’arte artigiana.95 Mostra Die Aussteuer, Stuttgart, 1934, Stuttgart, VdLAS, 1937, p. 3.96 Das Haus des Siedlers, Stuttgart, VdLAS, 1937, p. 3. Alcune foto illustravano esempi di arredamento negativo: pavimenti adorni di tappeti, la tavola coperta da una tovaglia e numerosi soprammobili sulla credenza e sulla stessa tavola (p. 4).97 H. Weber, Die deutsche Warenkunde. Eine Bestands-Aufnahme deutscher Wertarbeit, “Kunst im Dritten Reich”, 1939, n. 3, appendice, pp. 2-3.98 Behrens tentò di accreditarsi come simpatizzante senza riuscirci (Alan Windsor, Peter Behrens, Architect and Designer, London, The Architectural Press, 1981, p. 170). Ciò nonostante pur godendo della benevolenza di Speer e continuando a lavorare, Behrens fu oggetto di pesanti attacchi che lo qualificavano come artista bolscevico (A. Windsor, Peter Behren, cit., p. 173).99 Emile Benezit, Dictionaire critique et documentaires des peintres, sculpteres, dessinateurs et graveurs, Nouvelle edition entièrement refondue... Tome Troisième, Paris, 1976, p. 554; Hans Vollmer, Allgemeine Lexikon, cit., vol. I, Leipzig, 1953, p. 557. Dexel venne licenziato con l’accusa di essere un artista degenerato (cfr. la precisazione po­lemica di Arianna Giachi in H. Scheerer, Die Gestaltung... 2, cit., p. 34).100 Walter Dexel, Deutsches Handwerksgut, eine Kultur-und Formgeschichte des Hausgerats, Berlin, 1939, p. 9. Si veda anche Id., Deutsche Volksformen, in Ausstellung Die scheme Form im deutschen Handwerk, Zu Halle, 1940.

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na a condizione che in essa risultasse preva­lente il naturale processo della modellazione artigiana101. Le radici della tradizione nazio­nale affioravano anche per Dexell in quel passato germanico che non aveva subito l’influenza dell’arte classica. Per questa via si giungeva ad una rivalutazione dell’orna­mento purché questo risultasse in armonia con la forma del manufatto e la natura dei suoi materiali costitutivi:

motivi ornamentali che non possono venir esegui­ti dalla stessa mano, che non risultano dalla for­ma dell’oggetto e dal suo materiale, sono decora­zioni arbitrarie. Essi spezzano, occultano o di­struggono la forma, essi sono fronzoli102.

Rifiutate le forme sfarzose l’ornamento do­veva essere costituito da semplici forme geo­metriche. I termini antitetici in questo caso non erano città e campagna, ma la forma popolare ( Volksform) e quella soggetta al variare dello stile (Stilform). Veniva ripro­posto dunque il contrasto tra arte colta e ra­zionale e arte spontanea e popolare. La dif­ferenza con l’arte colta risiedeva nelle diver­se modalità della creazione:

La forma popolare non viene scoperta né proget­tata. La forma popolare si compone. Essa cresce organicamente, simile ad una pianta, evolvendosi solo in periodi di tempo molto lunghi. Modifica­zioni della forma popolare non risultano mai per voglia di novità né per amore di se stesse. Perciò una modificazione della forma popolare significa sempre un miglioramento103.

Le somiglianze tra questa trattazione e gli accenti consueti nella tradizione nazionalista dell’Heimatschutzbewegung sono evidenti. Anche per Dexell la Volksform era il risulta­to dell’influenza della stirpe ed espressione della totalità del popolo. Dal punto di vista pratico ciò che lo interessava era soprattutto lo studio dell’abilità manuale, degli utensili e dei materiali. I modelli da lui proposti, pur all’interno di categorie teoriche differenti, finivano per convergere con le indicazioni del Comitato per le arti popolari104. La com­mistione di tradizione e funzionalismo della sua proposta ben si inseriva nel clima cultu­rale di quegli anni. Tutto ciò conferma che la riscoperta dell’artigianato negli anni tren­ta non fu un fatto marginale né un semplice effetto della propaganda del regime. Sulle ragioni di questo interesse torneremo nel pa­ragrafo conclusivo.

Rivitalizzazione dell’arte popolare durante il nazismo

Nel quadro dell’interesse per la cultura folk- lorica, l’organizzazione di Rosemberg mo­strò molto interesse per lo sviluppo di un ar­tigianato ispirato ai modelli tradizionali105. Da quanto si è finora detto è evidente come questo interesse rientrasse in una tendenza più generale che si traduceva, da un lato, nell’assunzione di modelli tradizionali nel- l’artigianato industriale, dall’altro, nell’in-

101 W. Dexel, Deutsches, cit., pp. 17-20.102 W. Dexel, Unbekanntes Handwerksgut, Berlin, Schriften zu deutschen Handwerkskunst, Alfred Metzner Ver- lag, 1935, p. 15.103 W. Dexel, Deutsches Handwerksgut, cit., 1939, p. 16.104 Indubbiamente, nella concezione di Dexell, la Volksform si differenziava dalla Volkskunst perché, a suo parere, que- st’ultima riguardava solo la produzione domestica delle classi rurali e perché i demologi si erano prevalentemente dedica­ti all’analisi del suo valore simbolico trascurandone l’analisi delle forme. Le critiche di Dexel emergevano anche nel di­battito demologico. Il libro di Lehmann venne criticato proprio per aver sottovalutato il ruolo dell’abilità manuale e del- l’artigianato nella tradizione artistica popolare (Walter Borchers, recensione a Otto Lehmann, Deutches Volkstum in Volkskunst und Volkstracht, “HBfY”, 1939, p. 233); critico verso la separazione tra personalità del produttore e arte popo­lare era anche Ernst Grohne, recensione a Otto Lehmann, Deutsches Volkstum..., “NZfV”, 16,1939, p. 255. Ma se andia­mo a cercare gli esempi di positivo impiego dell’arte popolare nel settore artigiano noteremo la somiglianza con le prescri­zioni di Dexell (cfr. i mobili proposti da Konrad Hahm, Deutsche Bauernmòbel, Jena, Diederichs, 1939).105 Reinhard Merker, Die bildende Kiinste im Nationalsozialismus,Kò\n, Dumont, 1983, pp. 138-140.

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centivazione di nuove forme di arte popola­re. Alla mostra internazionale dell’artigia- nato, tenutasi nel 1938, nella sezione dedi­cata all’arte popolare, quest’ultima veniva definita “fondamento del settore artigiano e forse dell’arte stessa”106. Nei programmi di Volkstumarbeìt l’arte popolare sembrava identificarsi con la produzione dopolavori­stica. Pertanto vennero incoraggiati l’auto- produzione di componenti dell’arredamento domestico (tende, cuscini ecc.)107 e il riuti­lizzo degli avanzi di stoffe e tessuti108. Lo sviluppo del bricolage dopolavoristico pote­va però entrare in concorrenza con il setto­re artigiano una volta che i suoi prodotti fossero stati posti in” vendita. Dato che i manufatti dopolavoristici erano prodotti da persone che si guadagnavano l’esistenza con il loro lavoro, il loro prezzo di vendita poteva risultare inferiore quello dei manu­fatti artigiani109. Per fugare i timori di con­correnza sleale in Germania, si cercò di di­stinguere tra un “buon” Hausfleiss (produ­zione domestica) e un “cattivo” Heimarbeit (lavoro a domicilio). Del primo si lodava la dipendenza dal bisogno del produttore-con­sumatore, l’impiego di materiali autoctoni e la manualità dell’esecuzione. Al contra­

rio, il lavoro a domicilio veniva guardato con sospetto per l’uso di tecniche e materiali d’importazione (ad es. l’avorio) e per il peri­colo che la sua produzione finalizzata allo smercio poteva rappresentare per il settore artigiano110. Il lavoro a domicilio era infatti spesso utilizzato dall’industria e poteva cela­re forme di lavoro nero. Inoltre l’immissione di produttori dopolavoristici nel mercato an­dava in senso contrario a quel controllo mo­nopolistico sui produttori ripetutamente ri­chiesto dagli artigiani111. Benché questo non abbia impedito la vendita dei risultati del bri­colage dopolavoristico112, le resistenze nei confronti di un’esercizio dopolavoristico con finalità di lucro rimanessero forti. Ancora nel 1940 “Volkstum und Heimat” invitava a produrre oggetti nel tempo libero per il pia­cere di fare e non per il profitto che poteva derivare dalla vendita113. Il regime cercò di aiutare l’industria domestica e il piccolo arti­gianato prima di tutto favorendo la distribu­zione e vendita dei prodotti. Dato che il ren­dimento economico delle attività a domicilio era spesso modesto, negli anni venti essa ve­niva svolta in gran parte come attività paral­lela da operai o da individui dalle ridotte ca­pacità di guadagno (pensionati, invalidi)114.

106 Erste internationale Handwerksausstellung 1938, Berlin, 1938 [...], p. 136. Tuttavia l’identificazione di Volkskunst e attività dopolavoristica operata nel 1940 da uno dei teorici dell’arte germanica (W. Dexel, Deutsche Volksformen, cit., p. 4) lascia pensare che la promozione del bricolage domestico abbia avuto la precedenza, forse a causa della ne­cessità dell’economia di guerra di sostituire materie d’importazione e di comprimere i consumi interni.107 Heimgestaltung, “VuH”, 1936, p. 101.108 R. Ramlow (a cura di), Und jetzt, cit., p. 163.109 Anche in seno alla Commissione Internazionale Arti Popolari della Società delle Nazioni si era manifestato un contrasto tra quanti vedevano nel guadagno supplementare un incentivo allo sviluppo dell’arte dopolavoristica e quanti paventavano ripercussioni negative per gli artigiani. Le conclusioni del rapporto erano a favore della vendi­ta, di parere diverso erano, per esempio, gli italiani (Dossiers..., Art populaire..., cit., p. 49 e pp. 166-167).110 Friederich Lembke, Hausfleiss und Heimarbeit, “VuH”, 1935, pp. 255-258. Paul Kettel, Deutsche Hausindu- strie, Leipzig, 1936, pp. 8-9.111 Arthur Schweizer, Die Naziflzierung des Mittelstands, Stuttgart, 1970, pp. 17-18; in generale sulla questione ar­tigiana cfr. oltre al lavoro di Winkler, Adelheid von Saldern, Mittelstand im Dritten Reich. Handwerker-Einzel- handler-Bauern, Frankfurt, Campus Verlag, 1985 (ed. or. 1979).112 Lo Strohlaiifer, esposto alla mostra del 1933, era considerato: “un lavoro a domicilio del contadino e del lavo­ratore agricolo prodotto sia per il proprio bisogno come per la vendita per un guadagno supplementare” (Deutsches Heimatwerk, Ausstellung fiir Volkskunst, cit., p. 5).113 F. Lembke, Ueberlieferung, cit., p. 21; Grete Zimmerman, Wiederbelebung Sinnvollen Brauchgutes, “VuH”, 1940, p. 62.114 Frida Wunderlich, Die deutsche Heimarbeitausstellung 1925, Jena, 1927, p. 13.

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Alcuni di essi si erano riunite in associazioni di produttori, il cui numero sembra essere cresciuto durante gli anni trenta115. Dopo il 1933, esse vennero inserite nell’organizzazio­ne denominata Heimatwerk, affiliata al Rei- chsnàhrstand che aveva punti di vendita in diverse città116. Esso promosse per esempio la diffusione dei tappeti lavorati a mano del­la Pomerania, indicati quale esempio di arte popolare vivente da Hahm117. In secondo luogo l’incentivo proveniva da commesse pubbliche, spesso legate a festività introdotte dal regime118, come nel caso dei fiori finti ri­chiesti dalla festa di ringraziamento per le messi119. In altri casi le commesse proveniva­no da associazioni assistenziali come il Win- terhilfswerk (Opera di assistenza inverna­le)120. In alcuni casi erano le stesse scuole professionali a stimolare la ripresa di un arti­gianato tradizionale. La scuola ceramica di Bunzlau dopo il 1933 tornò a rivolgersi alla

tradizione121 e nel 1936 diede vita ad un’as­sociazione di produttori delle città di Bunz­lau e Naumburger che mise in commercio con un certo successo i suoi prodotti con il marchio Bunzlauer Braunzeug ottenendo anche un premio alla mostra internazionale del 1938122.

Tuttavia i confini tra attività artigianale e industriale tendevano a sfumare. Nella zona sassone dei Monti metalliferi e in Turingia, accanto alla produzione artigianale di gio­cattoli tradizionali destinata alla città123, si era sviluppata anche una vera e propria in­dustria che impiegava tipi tradizionali. L’in­serimento degli oggetti tradizionali nella produzione industriale e nel circuito com­merciale urbano suscitava reazioni contra­stanti. Da una parte la diffusione di reparti specializzati in arte popolare e artigianato nei grandi magazzini, iniziata peraltro ben prima del 1933, veniva interpretata come un

115 Nel 1924 era sorta, per esempio, la Bauernkunstgenossenschaft (Associazione per l’arte contadina) che raggrup­pava lavoratori a domicilio, principalmente piccoli contadini che nei mesi invernali arrotondavano il loro reddito con questa attività (Deutsche Warenkunde, sezione 07, sottosez. 01, p. 35). Nella Turingia erano nate associazioni dopolavoristiche dedite alla produzione di giocattoli da vendere durante apposite esposizioni natalizie. Alla forma­zione di una comunità di artisti dopolavoristici era seguita nel ’35 la cooptazione da parte della NS-Kulturgemeinde e nel 1936 l’inserimento nell’Heimatwerk sassone (Adolf Spamer, Hessische Volkskust). Nel 1936 si contavano 60 associazioni, nel 1943 78. Sull’Heimatwerk sassone vedi anche Aus der praktischen Arbeit: Sachsen, was will das Heimatwerk Sachsen, “VuH”, 1937, pp. 120-122.116 Konrad Hahm, Deutsche Bauernmobel, cit., p. 8.117 H. Kaiser, PflanzengefarbtepommerscheBauernteppiche, “DsH”, a. 10, 1938-39, pp. 58-61.118 Helmutt Mebes, Handwerkskultur, Berlin, 1938, pp. 76-78. Su Mebes cfr. H. Vollmer, Allgemeine Lexikon, cit., p. 360.119 La produzione di fiori fìnti della regione sassone di Seibnitz-Neustàdter sembra aver avuto un rilancio, dopo l’i­stituzione della festa nazista per il ringraziamento alle messi, grazie alle commesse del Reich. Si era così assicurato il lavoro a 18000 lavoranti a domicilio e a 10000 operai di fabbrica. Analogamente si era cercato di preservare la produzione di pizzi al tombolo (Klòppeispitze) dal declino attraverso la fondazione di scuole e l’istituzione di premi (Adolf Spamer, Sachsen, Weimar, Deutsche Volkskunst n.s., 1943, p. 42 e p. 45).120 Proprio queste commesse avevano consentito di contrastare a partire dal 1934 il declino dell’intaglio d’avorio a Erbach in Assia. Nel 1937 le commesse avevano coinvolto anche altre città dando lavoro a 1042 intagliatori artigia­ni, cifra che non comprendeva i lavoranti a domicilio (A. Spamer, Hessische, cit., pp. 102-104). Il declino era ini­ziato all’inizio del novecento subendo una battuta d’arresto nell’immediato dopoguerra per la scarsità di metalli preziosi, la ripresa era durata fin verso la metà degli anni venti (M. Klee, Der Bein und Elfenbeinschnitzen im Odenwald, Jena, Heimarbeit und Verlag in Neuzeit, fase. 8, 1927, p. 8 e pp. 10-12.121 La scuola, sorta nel 1897, si era avvicinata, per impulso di Hennig, all’esperienza, delle avanguardie artistiche. I nazisti lo sostituirono con lo scultore Fritz Theilman che tornò a rivolgersi alla tradizione (Heidi Müller, Die kera- mische Fachschule Bunzlau, in Id., Bunzlauer Geschirr, Berlin, Schriften des Museums für deutsche Volkskunde, vol. 14, 1986, pp. 185-186).122 H. Müller, Aktion Bunzlauer Braunzeung, in Id., Bunzlauer Geschirr, cit., pp. 193-196.123 F. Wunderlich, Die deutsche, cit., p. 11.

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successo della Volkstumarbeit nazionalso­cialista. Dall’altra parte la rivista “Volks- tum und Heimat” lamentò ripetutamente che i negozi cittadini mettessero in vendita imitazioni di arte contadina124. Sia pure con toni diversi anche i demologi condividevano queste critiche. Adolf Spamer stigmatizzò duramente la proliferazione di imitazioni dei giocattoli artigianali:

Ciò che oggi viene posto in vendita nei negozi specializzati cittadini [...] come novità tra i gio­cattoli dei monti metalliferi non è soltanto un’im­magine distorta della produzione popolare, ma con le sue ordinazioni orientate verso superficiali e poco seri acquirenti cittadini danneggia l’arte popolare molto più di ogni sviluppo indu­striale125.

Una tale posizione sembra in contraddizione con la promozione di un artigianato popola­re operata dagli stessi studiosi. La mostra sull’arte popolare, il lavoro a domicilio e l’artigianato curata dalla Commissione tede­sca per le arti popolari nel 1932, infatti, ave­va avuto luogo nel cortile del grande magaz­zino Wertheim e la composizione e la pre­sentazione degli oggetti esposti sembra esse­re stata subordinata all’interesse economico, facendo leva anche su tecniche di tipo pub­blicitario126. Anche la mostra di arte popola­re della Germania meridionale organizzata nel 1937 dal gruppo di studiosi, che ruotava intorno al “Bayerisches Jahrbuch fiir Volk- skunde”, allestì uno stand destinato alla vendita dei prodotti artigianali127.

Le ragioni di questo ambivalente atteggia­mento erano molteplici. Nei militanti nazisti l’ostilità verso lo sfruttamento commerciale della Volkskunst era legato all’idea che il contenuto simbolico del manufatto popolare ne impedisse la fruizione in contesti diversi o per finalità diverse da quella per le quali era stato originariamente concepito. Per “Volks- tum und Heimat” lo sfruttamento pubblici­tario dell’immagine del Lebensbaum (Albe­ro della vita) ledeva la sacralità del folklo­re128.

In generale l’ostilità allo sfruttamento da parte dell’industria era alimentato dalla con­vinzione di matrice ottocentesca secondo la quale il valore dell’opera artigianale risiede­va nella manualità dell’esecuzione, intesa come rapporto diretto tra artigiano e pro­dotto. Questo rapporto diretto veniva rive­lato dalle imperfezioni dell’opera manuale, imperfezioni che venivano considerate l’e­spressione dello stato d’animo del creato­re129 130.

Un’incisiva descrizione di questa conce­zione del lavoro manuale ci è offerta dal manuale di falegnameria redatto dal catalo­go delle mostre organizzate da “Volkstum und Heimat” e dall’istituto per l’artigia­nato:

Non si scrive una lettera d’amore con la macchi­na per scrivere. La si scrive con la mano perché nelle linee tracciate manualmente risiede l ’anima di chi scrive. Ciò vale anche per questi mobili [ar­tigiani] [...] In essisi cela l ’animano. (cors. mio).

124 Catalogo della mostra Handwerk und Heimat, Stuttgart, VdLAS, 1939, p. 14 e p. 17.125 A. Spamer, Sachsen, cit., p. 62.126 M. Roth, Heimatmuseen, cit., p. 303.127 Süddeutsche Volkskunst, München, 1938. La mostra figurava tra le manifestazioni collaterali alla famosa mostra sull’arte degenerata cfr. Gottfried Korff, Volkskunst als ideologisches Konstrukt? Eragen und Beobachtun- gen zum politischen Einsatz der Volkskunst im 20. Jahrhundert, “Jahrbuch für Volkskunde” a. 15, 1992, pp. 31-32.128 Fin tüchtige Reklamenchef, “VuH”, 1937, p. 190, eEine Unsitte macht Schule, “VuH”, 1937, p. 229.129 Ernst Gombrich, Il senso dell’ordine, Torino, Einaudi, 1986 (ed. orig. Oxford 1979), p. 76.130 Die Wohnung des Meisters. In der Halle des Hardwerks auf der Ausstellung deutsche Volk deutsche Arbeit, Berlin von 21 Aprii bis31 juni 1934..., p. 6.

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A spingere contro la produzione industriale di oggetti tradizionali, era anche un’altra specificità dell’arte popolare e di un artigia­nato tradizionalistico che rinveniamo in for­me nette e dogmatiche nella Volkstumarbeit e in forme più sfumate nei folcloristi acca­demici: l’enfasi sul legame tra arte popolare e ambiente naturale, un legame inteso come tradizione di temi, come scelta e tecnica di lavorazione delle materie prime. La batta­glia nazista contro il Kitsch cercava proprio di rafforzare la produzione di souvenir nelle zone di vendita e la coerenza con la tra­dizione popolare e con i materiali locali131. Per la stessa ragione in occasione della fe­sta delle messi si esortava ad evitare i sur­rogati industriali e ad utilizzare manufatti manuali, preferibilmente autoprodotti132. Il tema dell’autoproduzione domestica, ricor­rente nella seconda metà degli anni trenta, va ricondotto prima di tutto alla necessità, imposta al settore artigiano dall’economia di guerra, di sostituire le materie prime im­portate133.

Vi era poi una seconda ragione di origine ideologica, basata sulla convinzione della necessaria corrispondenza tra natura e cul­tura, convinzione sedimentatasi per effetto dell’attività svolta nei decenni precedenti dai movimenti di tutela del patrimonio artistico nazionale e della quale i nazisti potevano ora approfittare per diffondere l’impiego di

materiali autoctoni. L’arte popolare e l’arti­gianato erano, e dovevano restare, il prodot­to dell’ambiente dal quale provenivano. Usare materiali indigeni voleva dire usare i materiali consoni alla spiritualità tedesca, cioè ripristinare il primato della Kultur sulla Zivilisation.

La materia prima per eccellenza era il legno delle foreste germaniche che posse­deva, secondo Kiihkelhaus, un valore spi­rituale, di cui i materiali artificiali erano pri­vi134. In definitiva, rifiutata l’ipostatizza­zione della tecnica, si sosteneva che la for­ma dovesse essere in relazione con la natu­ra, senza rinunciare alla semplicità, ma cer­candola nella tradizione. Il mobile artigia­no, secondo Kiihkelhaus, doveva sviluppar­si organicamente rispettando le proporzio­ni naturali della pianta (radice, fusto, chio­ma) o del corpo umano (piedi, busto, te­sta) seguendo una tripartizione che l’autore caricava di implicazioni teoriche misticheg- gianti135.

Dietro a queste teorizzazioni possiamo ri­conoscere da un lato l’influenza di tendenze irrazionalistico-organicistiche, dall’altro la volontà di mettere in relazione l’oggetto ar­tigianale o industriale con l’appartenenza et­nica, nazionale o regionale del produttore e del consumatore136. Di fronte agli effetti spersonalizzanti e massificanti della società moderna alcuni settori intellettuali anelava-

131 Cfr. il già citato programma (GSPK, Rep 90/1793) e la mostra del Wb: Reiseandenken, VdLAS, 1937, p. 4.132 Franz Kolbrand, Was muss vom Erntebrauch wissen, “VuH”, 1937, pp. 243-244.133 John Heskett, Modera und Archaismus im Design wahrend des Nationalsozialismus, in Hinz-Mitty-Schoem- berger, Die Dekoration der Gewalt. Kunst und Medien im Faschismus, Giessen, 1979, p. 38; sulle difficoltà per gli artigiani nell’approvvigionamento di materie prime vedi A. von Saldern, Mittelstand, cit., p. 96.134 “Quando voi sostituite il legno naturale con materie artificiali, allora voi derubate gli uomini degli spazi d’irra­diazione, che il vivente coltiva intorno a sé” (Hugo Ktikelhaus, Werde Tischler, Schriften fiir deutsche Handwerk- kunst, 1936, p. 25).135 Hugo Ktikelhaus, Werde, cit., p. 12; sul rapporto tra design e natura vedi Hans Scheerer, Die Gestaitung im Dritten Reich 1, “Die Form”, 1975, n. 69, p. 24; e là., Die Gestaitung... 2, cit., p. 31.136 Nel rifiutare il principio della “forma senza ornamento” Peter Meyer sottolineava il nesso tra ripresa dei movi­menti nazionalistici e riscoperta delle virtù artigiane (Peter Meyer, Das Ornament in der Kunstgeschichte, Zürich, 1943, p. 204).

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Arte popolare e intellettuali durante il nazismo 657

no a un’arte che restituisse il senso della par­ticolarità del soggetto creatore e diventasse un elemento di identificazione per il destina­tario.

Arte popolare e modernismo reazionario

Il concetto di arte popolare è stato utilizzato da movimenti artistici e culturali assai diver­si tra loro. A volte è stato salutato come ba­luardo contro la modernità, altre volte preso ad ispirazione dalle avanguardie artistiche quale espressione di spontaneità e funziona­lità137. Analogamente il suo impiego è rinve­nibile anche in regimi e movimenti politici molto distanti tra loro, la Germania nazista e la Repubblica Democratica Tedesca. Né va dimenticato che il museo di arti popolari pa­rigino, strumentalizzato dalla politica petai- nista, fu trasformato e potenziato durante gli anni di governo del fronte popolare138. La differente collocazione politica o artisti­ca e il diverso contesto in cui queste analogie si inseriscono non possono ovviamente esse­re sottovalutati. La constatazione di alcune convergenze deve semmai portarci a conve­nire con il demologo Gottfried Korff, che ha sottolineato la valenza ideologica e simboli­ca della categoria, valenza da collegare alle esigenze della politica di massa del XX seco­

lo139, assumendo questa considerazione co­me un punto di partenza per un’interpreta­zione del fenomeno.

Nel corso delle pagine precedenti abbiamo esplorato i legami tra il concetto di arte po­polare e i fondamenti dell’ideologia nazista e abbiamo visto come l’interesse nazista per arte popolare e folklore avesse rafforzato la demologia come disciplina accademica. Più complesso è valutare in che misura si possa parlare di una rivitalizzazione nazista del­l’arte popolare.

L’attività dei folkloristi ottenne risultati contraddittori. La commissione tedesca per le arti popolari non riuscì a pubblicare, nel 1936, per mancanza di fondi, uno Jahrbuch, affidato ad Hahm e dedicato al rapporto con l’artigianato140, mentre il numero di vi­sitatori alle mostre del museo berlinese andò declinando nel corso degli anni141. Ciò fa­rebbe pensare ad un calo di interesse da par­te del regime per folklore e arte popolare. Altri indizi però inducono a ritenere che i nazisti continuassero a volere la “diffusione di un’istruzione folklorica”142. Anche i già ricordati allestimenti di mostre scolastiche nel museo berlinese testimoniano il persi­stente interesse nazista in questo campo, semmai il problema è di non sopravvalutare il peso relativo del folklore all’interno della cultura nazionalsocialista.

137 È documentato l’interesse degli espressionisti per l’arte popolare basato sull’impressione di semplicità e ingenui­tà evocata dai manufatti popolari. Kandinskj, Klee, Marc avevano infatti dipinto vetri imitando prodotti dell’arte popolare bavarese (Ludwig Grote, Expressionismus und Volkskunst, “ZfV”, a. 55, 1959, pp. 28 e sgg.; Herbert Schwedt, Moderne Kunst, Kunstgewerbe und Volkskunst, “ZfV”, a. 60, 1964, pp. 210-213; Ursula Glatzel,D/'e Be- deutung der Volkskunst beim Blauen Reiter, tesi di dottorato, Università di München, 1975, pp. 95 e segg.). Per l’interesse del Bauhaus cfr. nota 86. Su questo problema cfr. G. Korff, Volkskunst, cit., pp. 46-48.138 C. Faure, Le projet culturel, cit., pp. 27-29.139 G. Korff, Volkskunst, cit, in particolare pp. 26-35.140 Sembra che la Notgemeinschaft der deutsche Forschung (Associazione per il sostegno alla ricerca tedesca) aves­se negato i finanziamenti. Nel 1934 erano previsti altri tre volumi, sull’artigianato, sui fondamenti della disciplina (curato da Lutz Mackkensen), sulle caratteristiche delle stirpi tedesche (curato da Martin Wahler) (cfr. la pubblicità di copertina in “JfhV”, 1934). Invece vennero pubblicati due volumi a cura di Spiess dal titolo Die Marksteine der deutsche Volkskunde.141 M. Roth, Heimatmuseen, cit., p. 178 per i dati sui visitatori nota 2.142 Così si espresse un membro del governo per ottenere rapidamente una nuova sede per il museo berlinese, quan­do Hitler decise di fare del castello Bellevue una residenza di rappresentanza (Ministro prussiano delle finanze al capo del governo, Berlin 14 dicembre 1937, in GSPK, Rep 90/2403).

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Occorre però capire se il problema della rivitalizzazione avesse origini economico-so- ciali oppure prevalentemente simbolico-cul- turaii. Nel primo caso dobbiamo vedere se vi fosse un effettivo orientamento in senso tradizionalistico della produzione artigiana e se questo presunto sviluppo fosse espressio­ne degli interessi di questa parte del ceto me­dio. Per quanto riguarda la produzione di oggetti ispirati alla tradizione, scorrendo le pagine del “Deutsche Warenkunde”, accan­to a forme ed oggetti moderni, troviamo in­dubbiamente manufatti che si accordavano alle proposte di un artigianato tradizionali­stico143. I mobili in stile rurale venivano pro­dotti dall’industria nell’ambito della razio­nalizzazione dei tipi promossa dal Reichsku- ratorium für Wirtschaftlichkeit (Consiglio del Reich per l’economizzazione) mediante un apposito comitato. Essi non erano riser­vati esclusivamente ai contadini. L’organiz­zazione per il miglioramento delle condizio­ni di lavoro degli operai, Schònheit der Ar­beit (Bellezza del lavoro), inserì, tra le sue proposte di arredamento a basso costo, “mobili germanici”144, ma allo stato attuale degli studi non si può dire in che misura tali proposte abbiano incontrato successo tra i ceti popolari urbani. Se si guarda invece agli arredamenti di rappresentanza, nonostante la retorica filoartigiana, questi erano im­prontati ad uno stile classicista, cui si ag­giungeva il rifiuto di elementi decorativi che

doveva ispirare un’idea di semplicità pur in presenza di materiali e oggetti di lusso. Per le residenze di campagna i gerarchi nazisti fecero riprendere elementi della tradizione folklorica rurale, non però di quella del con­tadino semplice, ma di quella del contadino ricco. Il richiamo ad un’estetica artigiana in questo caso aveva una chiara funzione ideo­logica, di vetrina rivolta alle masse a confer­ma dell’unità della comunità nazionale145.

Per quanto concerne il secondo punto, la questione si complica prima di tutto perché l’interpretazione, accreditata fin dagli anni trenta, del nazionalsocialismo come di un partito di ceti medi in rivolta è stata messa in discussione da alcune recenti ricerche sul comportamento elettorale146. Ciò indurreb­be a ridimensionare il peso dell’area di inte­ressi del ceto medio, compresa, anche se in misura minore, quella degli artigiani.

In secondo luogo posta l’esistenza di un’area di interessi da tutelare, occorre chia­rire se ciò si tradusse in un effettivo rilancio del settore artigiano147 oppure in una sempli­ce prosecuzione del protezionismo sociale guglielmino copertura di una condizione economica in declino dopo il 193 3148. Dal nostro punto di vista il problema è compli­cato dal fatto che il settore artigiano com­prendeva anche rami che erano nati in segui­to agli sviluppi della tecnica (ad esempio gli elettricisti). Gli artigiani interessati al ripri­stino di forme e metodi tradizionali erano

143 Si trattava, per esempio, dei mobili progettati per nuovi insediamenti come quello di Kaldenberg del 1935.144 J. Heskett, Modem , cit., p. 58; sull’attività in questo campo dell’organizzazione cfr. Chup Friemert, Produk- tionsasthetik im Faschismus. Das Amt Schònheit der Arbeit von 1933 bis 1939, München, Damnitz Verlag GmbH, 1980, pp. 280-296. Esempi di tale mobilio ad opera dell’arch. Nothelfer si trovano nel Deutsche Warenkunde. Le lodi nei confronti di arredamenti di stile rurale divennero frequenti negli anni trenta cfr. per esempio Eduard Bri- ner, Handwerkliche Móbel bauerlicher Art, “DsH” a. 8, 1936-37, pp. 339-343.145 Sonja Günther, Das deutsche Heim, “Werkbund-Archiv”, n. 12, 1984, pp. 124-132.146 Si veda l’argomentata rassegna di Friederich Lenger,Mittelstand und Nationalsozialismus? Zur Politische Orientierung von Handwerkern und Angestellten in der Endphase der Weimarer Republik, “Archiv für Sozialge- schichte”, 1989, pp. 189-195.147 Adelheid von Saldern, “Alter Mittelstand” im “Dritten Reich”. Anmerkungen zu einer Kontroverse, “GG”, 1986, pp. 235-243.148 Heinrich August Winkler, Ein neuer Mythos vom alten Mittelstand. Antwort auf eine Polemik, “GG”, 1986, pp. 548-557.

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pertanto solo una componente della catego­ria, senza contare che le ditte maggiori pote­vano copiare disegni tradizionali con tecni­che moderne. Nel 1938 le branche relative alla lavorazione di stoffe, legno e dell’abbi­gliamento ottennero profitti inferiori alla media del settore artigiano. Analoghe consi­derazioni valgono per le piccole aziende149 che è plausibile ritenere fossero maggior­mente interessate al ripristino della tradizio­ne. L’intervento statale di cui abbiamo par­lato sembra quindi configurarsi, in questi casi, come un’azione di tipo assistenziale per taluni settori piuttosto che come un vero ri­lancio economico. Non bisogna poi dimenti­carsi che una parte consistente del settore ar­tigiano si era modernizzata durante gli anni venti150 e probabilmente era poco interessata a rinsaldare il legame con la tradizione151. Appare evidente pertanto che una spiegazio­ne economico-sociale può spiegare solo in parte i tentativi di rivitalizzazione e l’impie­go propagandistico del concetto di arte po­polare e deve pertanto essere associata ad una spiegazione simbolico-culturale.

Da questo punto di vista la questione del­la rivitalizzazione e quella della riscoperta di arte popolare e folklore richiamano l’anno­so problema del rapporto instaurato dal na­

zismo e dal fascismo con la modernizzazio­ne. Benché questa categoria soffra di un’in­determinatezza concettuale e abbia forti im­plicazioni valutative152, adottando un mo­dello fondato su indicatori empiricamente verificabili come il grado di urbanizzazione, la partecipazione politica ecc., si può facil­mente confutare l’idea di un nesso tra mo­dernizzazione della società ed azione del na­zionalsocialismo153. Se si restringe la catego­ria modernità alla semplice razionalizzazio­ne tecnico-economica, è lecito chiedersi, con Herf, se il nazismo non abbia rappre­sentato proprio un tentativo di operare la quadratura del cerchio coniugando un as­setto ideologico e sociale conservatore con i risultati della modernità154. La tutela del paesaggio promossa dai nazisti non impedì loro non solo di costruire autostrade, ma di giustificarne, anche alPinterno degli stessi movimenti per la conservazione del paesag­gio, l’inserimento nell’ambiente155. Allo stesso modo la rivalutazione della tradizio­ne popolare non era vista necessariamente in contrapposizione con lo sviluppo della tecnica156. L’arcaismo programmatico pote­va ben celare forme di razionalizzazione tecnico-produttiva157. In questa chiave di­vengono comprensibili, nell’ambito della

149 A. von Saldern, Mittelstand, cit., p. 101.150 Accenna a questo problema, citando la fondazione dell’Istituto per la razionalizzazione a Karlsruhe F. Lenger, Mittelstand cit., p. 181.151 II sostegno manifestato alle iniziative del Reìchskunstwart (conservatore artistico) Redslob durante gli anni del­la repubblica sembrerebbe però testimoniare la presenza di un’area di consenso, probabilmente da parte dei settori in crisi, ad operazioni di recupero delle tradizioni (S. Cavazza, Arte popolare, cit., p. 145).152 Sui limiti del concetto cfr. Hans-Ulrich Wehler, Teoria della modernizzazione e storia, Milano, Vita e Pensiero, 1991 (ed. orig. Gottingen, 1975). Per una posizione polemica contro le semplicazioni e le implicazioni valutative della categoria cfr. Thimoty Mason, Moderno, modernità, modernizzazione: un montaggio, “Movimento operaio e socialista”, 1987, pp. 52 e 54.153 Jens Albers, Nationalsozialismus und Modernisierung, “Kòlner Zeitschrift ftir Soziologie und Sozialpsycholo- gie”, a. 41, 1989, in particolare pp. 331 e segg.154 Jeffrey Herf, Modernismo reazionario, Bologna, Il Mulino, 1987, (ed. orig. Princeton, 1983).155 Werner Lindner, Heimatschutz und Handwerk in der gestaltenden Volkstumarbeit, “VuH”, 1934, p. 60. Sulla compatibilità tra ambiente ed autostrade nelle proposte dagli ingegneri cfr. J. Herf, Modernismo, cit., p. 15 e p. 219 e segg.156 Otto Plassmann, Brauchtum oder Technik, “VuH”, 1937, pp. 8-11; W. Lindner, Heimatschutz und Handwerk in der gestaltenden Volkstumarbeit, cit., p. 225; Per notizie biografiche su Plassman cfr. M. Kater, Ahnenerbe, cit., p. 46.157 T. Mason, Zur Entstehung des Gesetzes zur Ordnung der nationalen Arbeit von 20 Januar 1934. Ein Versuch

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Volkstumarbeit, i frequenti ammonimenti contro le artificiose riproposizioni di forme desuete. Significative erano le precisazioni riguardo alla ricerca di un abbigliamento per il popolo che fosse in sintonia con il caratte­re nazionale, perché con esse entriamo nella dimensione simbolico-culturale. Il vestito te­desco non poteva essere semplicemente — non foss’altro che per ragioni igieniche — la riesumazione di antichi modelli. Doveva es­sere il vestito per tutti i giorni e non quello indossato durante le ricorrenze celebrative dagli aderenti alle associazioni per la difesa del costume tradizionale (Trachtenverei- ne)i5S. Analoga posizione venne espressa nel 1939 dal responsabile per il folklore di KdF159. Lo sforzo dei nazisti mirava a pro­durre un nuovo costume che riflettesse i tratti germanici e originari della cultura te­desca.160.

L’atteggiamento di “Volkstum und Hei- mat” nei confronti della tecnica non fu mai di totale rifiuto, ma sembra esser divenuto più conciliante dopo l’introduzione, nel 1936, del piano quadriennale. L’anno se­guente la rivista informava i suoi lettori che:Per togliere agli sforzi di conservazione del pae­saggio la reputazione di romanticismo estraneo alla realtà, si è dovuto [...] mettere in chiaro [...] che la progressiva diffusione della tecnica non produce necessariamente effetti negativi161.

Nel 1938 “Volkstum und Heimat” rico­nobbe l’insostituibilità della tecnica nel mondo moderno:

la crescente applicazione della tecnica al comples­so della vita popolare è una necessità. N o i non p o ss ia m o essere ro m a n tic i e ch iudere g li occh i d i f r o n te a q u esto genuino d a to d i f a t to . La giovane generazione dice di sì alla macchina. Al tempo stesso è consapevole e chiaro che questo processo richiede una rafforzata vigilanza spirituale (seeli- sch ), una comunanza al sangue e alla zolla, un radicamento con tutte le forze della nostra madre terra162 (cors. mio).

La priorità ideologica accordata al potenzia­mento produttivo bellico spingeva dunque a rivalutare la tecnica e a porre in secondo piano i fautori del ruralismo integrale163. La formula del “modernismo reazionario”, an­corché necessiti di ulteriori verifiche proprio per l’epoca nazista164, può fornirci un mo­dello interpretativo per le vicende del folklo- rismo nazista solo a condizione di non con­siderarlo tanto un disegno univocamente perseguito, quanto piuttosto il risultato di spinte contrastanti da parte dell’insieme di forze che aderivano al nazismo e ne condivi­devano alcuni postulati ideologici, interpre­tandoli però in funzione dei propri interessi e della propria visione del mondo. Come ab­biamo visto ricostruendo il contrasto tra al-

iiber das Verhàltnis archaischer und moderner Momente in der nuesten deutschen Geschichte, in Hans Mommsen, Dietmar Petzina, Bernd Weisbrod (a cura di), Industrielles System undpolitische Entwicklung in der Weimarer Re- publik, Düsseldorf, 1974, p. 322 e segg.158 Neugestaltung der deutschen Volkstrachten als Gemeinschaftsarbeit, “VuH”, 1935, p. 21 e segg.159 Citato da Heinz Schmitt, Nationalsozialistische Trachtenpflege, in Gerndt, Volkskunde, cit., p. 208.160 Ibidem, p. 212.161 Kampfwoche gegen die Verschandelung der Heimat, “VuH”, 1937, p. 37.162 Wostehen wir in der Volkstumarbeit, “VuH”, 1938, p. 65.163 Una delle accuse rivolte a Darrè era di mettere in discussione con il suo neoromanticismo contadino, il postula­to della comunità nazionale: “la concentrazione su una scienza del ceto rurale [...] non deve contraddire [...] gli sforzi per un’unità culturale che comprenda l’intero popolo” (Darrè und die Wissenschaft, “VuH”, 1937, p. 25). Nel periodo in cui usci l’articolo, la fortuna di Darrè era in declino cfr. Gustavo Corni, La politica agraria del na­zionalsocialismo 1930-1939, Milano, Angeli, 1989, p. 303 e segg.164 Cfr. le osservazioni di Erich Dorn Brose, German Fascism Revisited: Attitudes Toward Technology in Ger­many and Italy, 1919-1945, “German Studies Review”, n. 2, maggio 1987, p. 277.

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Arte popolare e intellettuali durante il nazismo 661

cuni demologi sul ruolo della città ai fini della produzione folklorica, gli stessi amanti dell’arte popolare presentavano differenzia­zioni non piccole al loro interno. Nel loro insieme però alcuni studiosi e la gran massa dei cultori dilettanti sembravano ancorati ad una visione romantico-ruralista e a un dise­gno di restaurazione destinato a fallire. Ma l’evidente sconfitta di questi settori non pose certo fine all’impiego di folklore e arte po­polare perché persisteva in essi una funzione simbolica che potremmo definire come raf­

forzamento di identità, funzione che ricon­duceva alla dicotomia tra una cultura co­smopolita e una orientata in senso naziona­le, cioè al contrasto tra Zivilisation e Kultur, tra valori universalistici e valori nazionali dove l’arte popolare favoriva l’identificazio­ne con il secondo polo dell’antitesi. In tal modo si offriva un sistema di valori nei qua­li alcuni settori intellettuali e gruppi sociali in crisi potevano riconoscersi.

Stefano Cavazza

Stefano Cavazza, attualmente borsista post-dottorato presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Uni­versità di Bologna, ha indagato aspetti del rapporto tra fascismo, folklore e intellettuali in Italia e in Germania. Tra i suoi lavori: T rasform azion i d i una fe s ta urbana: il C an tam aggio ternano, “Quaderni Storici”, 1987; L a fo lk lo r is tic a italiana e il fa sc ism o , “La Ricerca Folklorica”, 1987; A r te p o p o la re , in­te lle ttu a li e q u estio n e artigiana: E dw in R ed slo b e la m o stra d i D resd a , “Rivista di storia contempora­nea” , 1991 ; F este p o p o la r i d u ran te il fa sc ism o . In ven zion e della trad izion e e iden tità locale: la Toscana e la rea ltà n azionale , Tesi di Dottorato di Ricerca, 1991.

STUDI STORICISom m ario del n. 1 ,1993

Mario Liverani, Nelle pieghe del despotisme). Organismi rappresentativi nell’antico Orien­te; Pierre Vidal-Naquet, Note sulla posizione e lo statuto degli stranieri nella tragedia ate­niese; Jean-Michel David, Conformismo e trasgressione: a proposito del tribunato della plebe alla fine della repubblica romana.

Opinioni e dibattitiGiorgio Mori, "Riabilitare la rivoluzione industriale" (e, in parte un "cane morto"...). Qual­che commento su una discussione che si riaccende; Nicola Tranfaglia, Problemi storici e indirizzi storiografici nel Giappone e nell'Italia contemporanea', Atsushi Kitahara, La storia dell’Italia contemporanea nella storiografia giapponese.

RicercheCarlo Tosco, Isidoro di Siviglia e l ’architettura dell'alto Medioevo; M. Claudia Toniolo Pa­scione, Dottori in diritto e notai nei tribunali provinciali toscani (secoli XVI-XVII): Gaspare Polizzi, Sull’epistemologia allo stato nascente. La "Revue de métaphysique et de morale" tra 1893 e 1914; Giuseppe Battelli, PioXI e le Chiese non occidentali. La questione dell’u­niversalità del cattolicesimo.

Note criticheLucia Ceci, Una storia della Chiesa latinoamericana', Giovanni Vian, Lorenzo Milani tra storia e profezie.