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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica Unità Didattica I L’integrazione nel sistema scolastico italiano Lezione 1. Diversità ed integrazione L’attenzione alla diversità ed alle persone diverse quali persone con diritti e doveri, che esigono rispetto si è andata sempre più affermando negli ultimi cinquant’anni. In questa prospettiva la stagione dell’attenzione al diverso e ai suoi diritti che si è aperta a partire dal secondo dopoguerra ha portato oggi ad una concezione della diversità quale risorsa per tutta la comunità. Parlare di diversità oggi, specialmente all’interno del contesti socio-educativi, implica la necessità di prendere in considerazione almeno due dimensioni che spesso sono intrecciate tra loro: la dimensione intersoggettiva e la dimensione culturale. La dimensione intersoggettiva si riferisce all’ambito della rete formale e informale di relazioni, dove entrano in comunicazione differenti corpi, sensibilità e bisogni, differenti intelligenze, deficit, handicap e talenti. D’altro canto la dimensione culturale si riferisce all’ intreccio più ampio e anche invisibile di rapporti, sistemi di segni, gestualità, lingua, riti, cerimoniali, usi, costumi, valori che permeano i contesti di appartenenza, condizionando azioni e comportamenti. In questa prospettiva l’istruzione e la formazione sono i luoghi principali per l’inserimento e l’integrazione del diverso nella società. Nell'opinione corrente è pervasiva una visione strettamente scolastica, di natura burocratica e tecnicistica, del concetto di integrazione nell’ambito scolastico, inteso quale diritto affermato per alcune categorie di persone di frequentare le scuole comuni. Questa concezione impoverisce fortemente il reale significato del termine integrazione che nel senso più autentico del termine si riferisce ad un processo per cui due o più elementi si compenetrano o si compensano reciprocamente: si rendono quindi integri, interi e completi. Il processo di integrazione è intrinsecamente intersoggettivo e presuppone che l'essere umano 1

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica I

L’integrazione nel sistema scolastico italiano

Lezione 1. Diversità ed integrazione

L’attenzione alla diversità ed alle persone diverse quali persone con diritti e doveri,

che esigono rispetto si è andata sempre più affermando negli ultimi cinquant’anni. In

questa prospettiva la stagione dell’attenzione al diverso e ai suoi diritti che si è

aperta a partire dal secondo dopoguerra ha portato oggi ad una concezione della

diversità quale risorsa per tutta la comunità. Parlare di diversità oggi, specialmente

all’interno del contesti socio-educativi, implica la necessità di prendere in

considerazione almeno due dimensioni che spesso sono intrecciate tra loro: la

dimensione intersoggettiva e la dimensione culturale. La dimensione intersoggettiva

si riferisce all’ambito della rete formale e informale di relazioni, dove entrano in

comunicazione differenti corpi, sensibilità e bisogni, differenti intelligenze, deficit,

handicap e talenti. D’altro canto la dimensione culturale si riferisce all’ intreccio più

ampio e anche invisibile di rapporti, sistemi di segni, gestualità, lingua, riti,

cerimoniali, usi, costumi, valori che permeano i contesti di appartenenza,

condizionando azioni e comportamenti. In questa prospettiva l’istruzione e la

formazione sono i luoghi principali per l’inserimento e l’integrazione del diverso nella

società. Nell'opinione corrente è pervasiva una visione strettamente scolastica, di

natura burocratica e tecnicistica, del concetto di integrazione nell’ambito scolastico,

inteso quale diritto affermato per alcune categorie di persone di frequentare le

scuole comuni. Questa concezione impoverisce fortemente il reale significato del

termine integrazione che nel senso più autentico del termine si riferisce ad un

processo per cui due o più elementi si compenetrano o si compensano

reciprocamente: si rendono quindi integri, interi e completi. Il processo di

integrazione è intrinsecamente intersoggettivo e presuppone che l'essere umano

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non sia completo in sé, non sia autosufficiente, ovvero non sia un sistema chiuso,

ma si realizzi nel rapporto con gli altri. Pertanto il processo di integrazione non si

riferisce al soggetto individuato come svantaggiato o diverso ma all’intera comunità.

La buona integrazione è quella che permette di capire che non stiamo vivendo in

presenza di una diversità ma come una realtà, e pertanto implica l’attivazione di una

comunità nella direzione di una modifica del proprio status in favore del diverso. Da

un'analisi superficiale, potrebbe sembrare che il sistema d'integrazione scolastica

italiano sia di gran lunga migliore rispetto agli altri, e sicuramente esso denota

caratteristiche di evoluzione rispetto agli altri paesi, sebbene in concreto in Italia il

cammino dell'integrazione sia solo ad una fase iniziale. Se analizziamo le strutture

scolastiche sorge lampante agli occhi che la buona integrazione, a più di venti anni

dalla Legge che ne stabiliva l'attuazione, non si è ancora completamente realizzata,

ad esempio le barriere architettoniche nelle scuole hanno spesso uno stato di

provvisorietà tale da far pensare ancora una volta che l’integrazione del diverso sia il

frutto di un intervento sull’urgenza e non una prassi consolidata. Tuttavia è fuor di

dubbio che una persona disabile avrà migliori opportunità laddove esistano oltre che

le basi riabilitative, anche dei setting accoglienti, composti da operatori e strutture

decisamente qualificate ed in grado di operare al fine dell’inserimento sociale. La

difficoltà istituzionale e sociale, sopra delineata, nel concepire le prassi integrative, si

riflette molto spesso anche sul piano della dimensione didattica sotto forma di

concezione delle prassi integrative nei termini di prassi di socializzazione. Le scuole,

a partire da quelle dell’infanzia, sono normalmente frequentate da disabili, questo

però non vuol dire che essi siano veramente integrati; in molti casi gli sforzi compiuti

per individualizzare l’insegnamento si sono rivelati controproducenti sul piano della

socializzazione e d’altra parte l’eccessiva attenzione alla dimensione di

socializzazione spesso ha prodotto esiti deludenti sul piano dello sviluppo delle

abilità cognitive. In questa prospettiva la buona prassi integrativa nel gruppo classe

e nella società si realizza alla luce di un equilibrio tra il principio didattico con quello

della dell’individualizzazione (Pavone, Tortorello, 2002). Cominciamo col far

chiarezza sui termini individualizzazione e integrazione, oggi così frequentemente

utilizzati e spesso equivocati. L’istruzione individualizzata non è un’istruzione

individuale, realizzata semplicemente in un rapporto uno a uno. Essa consiste

nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali degli alunni (ai loro ritmi

di apprendimento, alle loro capacità linguistiche, alle loro modalità di apprendimento

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ed ai loro prerequisiti cognitivi), cercando di conseguire individualmente obiettivi di

apprendimento comuni al resto della classe. Bisogna attraversare strade diverse, più

corte, più lunghe, più attente ai bisogni di concretezza o più astratte, ma sempre

orientate al raggiungimento di traguardi formativi comuni (Baldacci, 1993). Il dibattito

sui piani di studio personalizzati previsti dalle indicazioni delegate al D.M. n. 59/04

applicativo della legge 53/03 ha riproposto la questione individualizzazione e/o

personalizzazione. La personalizzazione indica la necessità di modificare curricula,

obiettivi contenuti e attività didattica in sintonia con i bisogni propri di ciascuna

persona (Resico, 2005). In altri termini, l’individualizzazione da sola non basta

perché non prende in considerazione una dimensione personale di attitudini,

interessi, bisogni, motivazioni, non riconducibile a quella degli altri, e d’altra parte la

sola personalizzazione si propone come un limite in quanto causa di isolamento

dell’individuo dal resto della classe. L’integrazione dunque nasce e si sviluppa a

partire dalla relazione dialettica tra personalizzazione ed individuazione; la persona

adattivamente integrata conserva una propria identità diversa dalle altre, pur

mantenendo un ruolo nel gruppo. L’integrazione è dunque un processo in continuo

divenire in cui sia il gruppo ricevente sia i nuovi soggetti tendono a cambiamenti atti

a consentire loro occasioni di condivisione di comuni conoscenze, di aiuto reciproco,

di collaborazione in funzione dello sviluppo di tutte le potenzialità dei singoli soggetti

e per lo sviluppo del massimo grado di autonomia di ciascuno. La didattica

individualizzata in tal senso è propedeutica all’integrazione e pertanto non mette i

contenuti scolastici al centro del processo di insegnamento-apprendimento ma li

riporta al loro giusto ruolo di stimolo percepibile e utilizzabile dall’alunno. Il ricorso ad

una didattica integrata, in questa accezione, si fa sempre più urgente se si considera

che nella nostra scuola, oggi, accanto agli alunni disabili sono presenti alunni

stranieri, alunni deprivati culturalmente, alunni con problemi famigliari (genitori

tossicodipendenti, disoccupati, alcoolisti, etc.). L’alunno in difficoltà diventa una

occasione per la scuola per ripensarsi come strumento di successo formativo per

tutti e per le discipline di insegnamento per proporsi come mezzo per promuovere la

personalità dell’allievo in tutte le sue dimensioni

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica I

L’integrazione nel sistema scolastico italiano

Lezione 2. Il percorso per l'integrazione nella scuola

L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità costituisce un fiore all’occhiello

per il sistema educativo. Il sistema educativo in generale e scolastico nello specifico

si configura quale comunità accogliente nella quale tutti gli alunni, a prescindere

dalle loro diversità funzionali, possano realizzare esperienze di crescita individuale e

sociale. La piena inclusione degli alunni con disabilità è un obiettivo che la scuola

dell’autonomia persegue attraverso una intensa e articolata progettualità,

valorizzando le professionalità interne e le risorse offerte dal territorio. Tale ottica di

integrazione è indubbiamente stata favorita dalla legge 517/77 che ha segnato una

svolta importante nella cultura pedagogica del nostro Paese, anche con riguardo alle

politiche di integrazione scolastica dei disabili. Grazie a questa legge, infatti, la

scuola è passata da un approccio assistenzialistico nei confronti degli alunni in

situazione di handicap ad un approccio di sistema. Questo ha connotato la scuola

come comunità educativa accogliente e, al tempo stesso, come comunità

professionale competente, capace di ristrutturarsi per consentire anche agli alunni

disabili, e a tutti quelli che oggi definiamo portatori di bisogni educativi speciali, di

condividere la loro esperienza di apprendimento in situazione non emarginante. È

attraverso tale legge infatti che viene affrontata per la prima volta la questione del

recupero del bambino “diversamente abile”, nell’ambito di una programmazione

curriculare fortemente individualizzata, attraverso l’organizzazione di tempi, spazi,

gruppi di alunni e l’apporto di insegnanti specializzati e specialisti del settore e del

servizio socio-pedagogico.

Successivamente, nel febbraio 1992, l’approvazione della Legge Quadro per

l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, sottolinea la

necessità di una continuità educativa tra i diversi gradi di scuola con forme di

consultazione tra gli insegnanti e la stipula di accordi tra gli Enti Locali, finalizzati

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all’attuazione e alla verifica di progetti educativi, riabilitativi e di socializzazione

individualizzati.

L’attuale quadro normativo, sottolinea dunque la possibilità di realizzare l’integrazione

attraverso un preciso percorso che a partire dalla certificazione dell’Handicap fornisca

elementi conoscitivi e progettuali per l’integrazione scolastica. Ciò è reso possibile

attraverso la stesura di alcuni documenti quali la Diagnosi Funzionale, il Profilo Dinamico

Funzionale ed il Piano Educativo Individualizzato.

La Diagnosi Funzionale. "Per diagnosi funzionale si intende la descrizione analitica della

compromissione funzionale dello stato psico-fisico dell’alunno in situazione di handicap,

al momento in cui accede alla struttura sanitaria per conseguire gli interventi previsti dagli

artt. 12 e13 della legge n. 104/92”, essa è un atto sanitario medico legale, che descrive

analiticamente la compromissione funzionale dello stato psicofisico dell'alunno in

situazione di handicap, essa viene redatta dal neuropsichiatra infantile, dal terapista della

riabilitazione e dall’assistente sociale, e descrive analiticamente la compromissione

dello stato psico – fisico dell’alunno in situazione di handicap.

Il Profilo Dinamico Funzionale. La stesura del Profilo Dinamico Funzionale è

finalizzata alla stesura del Piano Educativo Individualizzato. Il Profilo Dinamico

Funzionale è atto successivo alla diagnosi funzionale e indica le caratteristiche

fisiche, psichiche, sociali ed affettive dell'alunno e pone in rilievo sia le difficoltà di

apprendimento conseguenti alla situazione di handicap e le possibilità di recupero,

sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e

progressivamente rafforzate e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della

persona disabile. Il Profilo Dinamico Funzionale è frutto di un lavoro di equipe cui

partecipano congiuntamente gli operatori delle ASL, i genitori, il personale docente

curriculare e specializzato e il dirigente scolastico, al fine di stabilire oltre alle

difficoltà di apprendimento conseguenti l’handicap, le possibilità di recupero e le

capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e potenziate. Infatti,

solo un intervento a livello di equipe permette una conoscenza puntuale, estesa e

approfondita della situazione individuale in grado di individuare indicazioni operative

per poter sviluppare le capacità dell'individuo. Il Profilo Dinamico Funzionale

comprende la descrizione funzionale dell'alunno in relazione alle difficoltà che

l'alunno dimostra di incontrare in settori di attività, e l'analisi dello sviluppo potenziale

dell'alunno a breve e medio termine, desunto dall'esame dei seguenti parametri:

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- cognitivo, esaminato nelle potenzialità esprimibili in relazione al livello di

sviluppo raggiunto (normodotazione; ritardo lieve, medio, grave; disarmonia

medio grave; fase di sviluppo controllata; età mentale, ecc.) alle strategie

utilizzate per la soluzione dei compiti propri della fascia di età, allo stile cognitivo,

alla capacità di usare, in modo integrato, competenze diverse;

- affettivo-relazionale, esaminato nelle potenzialità esprimibili rispetto all'area del

sé, al rapporto con gli altri, alle motivazioni dei rapporti e dell'atteggiamento

rispetto all'apprendimento scolastico, con i suoi diversi interlocutori;

- comunicazionale, esaminato nelle potenzialità esprimibili in relazione alle

modalità di interazione, ai contenuti prevalenti, ai mezzi privilegiati;

- linguistico, esaminato nelle potenzialità esprimibili in relazione alla

comprensione del linguaggio orale, alla produzione verbale, all'uso comunicativo

del linguaggio verbale, all'uso del pensiero verbale, all'uso di linguaggi alternativi

o integrativi;

- sensoriale, esaminato, soprattutto, in riferimento alle potenzialità riferibili alla

funzionalità visiva, uditiva e tattile;

- motorio-prassico, esaminato in riferimento alle potenzialità esprimibili in ordine

alla motricità globale, alla motricità fine, alle prassie semplici e complesse e alle

capacità di programmazione motorie interiorizzate;

- neuropsicologico, esaminato in riferimento alle potenzialità esprimibili riguardo

alle capacità mnesiche, alla capacità intellettiva e all'organizzazione spazio-

temporale;

- autonomia, esaminata con riferimento alle potenzialità esprimibili in relazione

all'autonomia della persona e all'autonomia sociale;

- apprendimento, esaminato in relazione alle potenzialità esprimibili in relazione

all'età prescolare, scolare (lettura, scrittura, calcolo, lettura di messaggi, lettura di

istruzioni pratiche, ecc.).

Nell’elaborazione del Profilo Dinamico Funzionale iniziale seguono, con il concorso

degli operatori delle unità sanitarie locali, della scuola e delle famiglie, verifiche per

controllare gli effetti dei diversi interventi e l'influenza esercitata dall'ambiente

scolastico. Il Profilo Dinamico Funzionale è aggiornato a conclusione della scuola

materna, della scuola elementare e della scuola media e durante il corso di

istruzione secondaria superiore.

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Piano Educativo Individualizzato. È il documento nel quale si descrivono

dettagliatamente il progetto operativo interistituzionale tra operatori della scuola, dei

servizi sanitari e sociali, in collaborazione con i familiari ed il progetto educativo e

didattico personalizzato riguardante la dimensione dell'apprendimento correlata agli

aspetti riabilitativi e sociali. A redigere il PEI, provvedono congiuntamente: gli operatori

delle ASL, gli insegnanti curriculari, il docente di sostegno, l’operatore psico –

pedagogico in collaborazione con i genitori. Il PEI tiene presenti i progetti didattico-

educativi, riabilitativi e di socializzazione individualizzati, nonché le forme di

integrazione tra attività scolastiche ed extrascolastiche. Nella definizione del PEI

ciascuna figura coinvolta propone, in base alla propria esperienza pedagogica, medico-

scientifica e di contatto, e sulla base dei dati derivanti dalla diagnosi funzionale e dal

profilo dinamico funzionale, gli interventi finalizzati alla piena realizzazione del diritto

all'educazione, all'istruzione e l’integrazione scolastica dell'alunno in situazione di

handicap. In sintesi il PEI permette innanzitutto l’identificazione della situazione al

momento di ingresso del soggetto nella scuola, contiene la valutazione approfondita

degli aspetti generali, dei livelli di capacità, dei livelli di apprendimento, delle abilità

pratiche e operative ottenute anche attraverso l’uso di strumenti di osservazione come

griglie, schede, etc. Il PEI individua, inoltre, gli obiettivi didattici contenenti ciascuno il

materiale didattico, i luoghi e i tempi, la collaborazione tra i vari docenti; “in

corrispondenza” la definizione di interventi terapeutico-riabilitativi da parte degli

operatori socio-sanitari; e permette la verifica da parte del gruppo del “programma

svolto” anche attraverso una valutazione complessiva volta all’eventuale riformulazione

del “programma per obiettivi”.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica I

L’integrazione nel sistema scolastico italiano

Lezione 3. Per un intervento integrativo: lavorare sulla classe

La programmazione individualizzata deve necessariamente tenere conto della

programmazione della classe per poter permettere un’adeguata integrazione del

disabile, in altro modo si configurerà come elemento di separazione, di

segregazione e di lavoro individuale condotto dall’insegnante di sostegno, dentro e

fuori la classe. Affinché si instauri un circolo virtuoso tra programmazione

individualizzata e programmazione di classe è necessario che i docenti di sostegno

e i docenti curricolari lavorino insieme in maniera da poter selezionare obiettivi,

contenuti e attività che possono essere scanditi secondo diversi livelli di difficoltà.

Per raggiungere tale scopo sono individuabili alcune semplici strategie in grado di

realizzare una buona integrazione salvaguardando sia i diritti dei disabili che i diritti

dei suoi compagni di classe. A tal fine infatti è necessario costruire un clima classe

inclusivo, che funga da ambiente adattivo per il superamento della disabilità e che

permetta da un lato l’adeguamento degli obiettivi del disabile agli obiettivi della

classe e dall’altro di adeguare gli obiettivi della classe a quelli del disabile.

Creare un clima inclusivo. La realizzazione dell’integrazione degli alunno disabili

all’interno del contesto classe passa e si sviluppa attraverso la definizione di un

clima di accoglienza nella classe, che sia da preludio per l’adeguamento di obiettivi

e di materiali ai bisogni del disabile. Tale operazione infatti sarebbe vana qualora

non si fosse creato un clima di accettazione reciproca nel rispetto delle differenze

individuali. Il concetto di inclusione, ovvero, l’appartenenza ad un gruppo pur

conservando la propria peculiarità e sperimentando l’interdipendenza da esso, si

fonda sul riconoscimento di altri due concetti: quello di normalità e quello di

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specialità. La normalità risponde al bisogno di sentirsi considerati e trattati alla

stessa stregua degli altri. La specialità risponde al bisogno di sentirsi diversi dagli

altri, tale riconoscimento potrebbe passare ad esempio attraverso l’offerta fatta ad

un alunno di poter scegliere tra diverse attività che sono svolte all’interno di un

laboratorio, in tal modo la possibilità di scegliere offerta a tutti (normalità) e la

specializzazione dell’attività (specialità) si coniugano. Pragmaticamente, in un loro

studio sull’inclusività delle classi, Andrich e Miato, focalizzano alcune coordinate

che fungono da mediatori e moderatori dell’integrazione dell’alunno disabile: 1)

l’alunno disabile deve rimanere in classe per il maggior tempo possibile; 2) l’alunno

disabile deve fare il più possibile le stesse cose che fanno i suoi compagni; 3)

l’alunno disabile deve il più possibile essere posto nelle stesse condizioni formative

degli altri studenti; 4) i migliori insegnanti di sostegno sono i suoi compagni; 5) gli

spazi di un’aula inclusiva devono essere ampi. Queste indicazioni sostengono d’altra

parte la tesi per cui la cura per la qualità relazionale e l’allestimento di un setting

educativo adeguato diventano assolute priorità per lo sviluppo di buone prassi di

integrazione per studenti disabili, che sentendosi accolti ed incoraggiati hanno una

percezione di valorizzazione della loro diversità, e tale sensazione funge da volano

per l’integrazione nel gruppo classe, condizione necessaria per sviluppare al meglio

anche la propria dimensione cognitiva.

Adeguare gli obiettivi del disabile agli obiettivi della classe. Sul paino strettamente

didattico l’integrazione dell’alunno disabile nella classe può avvenire attraverso la

strutturazione e la messa in opera di un percorso didattico specifico ed adeguato

che avrà il vantaggio secondario di favorire ed accelerare il processo di integrazione.

Inoltre, l’adozione di strategie didattiche specifiche, come ad esempio il modello

didattico per problemi, o il modello didattico per concetti, o ancora il modello della

didattica breve o per obiettivi, si sono dimostrati vettori particolarmente efficaci per

l’integrazione. Nello specifico il modello per obiettivi, sicuramente per le sue

implicazioni positive rispetto ai processi di individualizzazione (la scansione degli

obiettivi, degli argomenti, il rispetto dei tempi e delle caratteristiche del soggetto, la

preoccupazione circa la verificabilità dei risultati) ha dimostrato una maggiore

efficacia come strategie didattica integratoria del deficit, procedendo dal meno grave

al più grave.

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L’adeguamento degli obiettivi del disabile in relazione agli obiettivi della classe è

definito dal docente sulla base del modello didattico adottato, e, in linea con questa

prospettiva Ianes (2005) individua cinque livelli di adeguamento degli obiettivi in

relazione alla gravità:

- La sostituzione. L’obiettivo non si semplifica, ma viene curata solo l’accessibilità

dei codici linguistici (lingua dei segni, materiale in Braille, registrazioni audio dei

testi).

- La facilitazione. Per garantire il raggiungimento dell’obiettivo è sufficiente utilizzare

tecnologie più motivanti (ad esempio software didattici) e contesti didattici

fortemente interattivi e operativi (tutoring, gruppi di apprendimento cooperativo,

laboratori, simulazioni etc.).

- La semplificazione. Si modifica il lessico, si riduce la complessità concettuale, si

eseguono le operazioni di calcolo utilizzando la calcolatrice, si modificano i criteri di

corretta esecuzione di un compito (consentendo più errori e imprecisioni).

- Scomposizione nei nuclei fondanti. Nell’epistemologia di un sapere disciplinare si

identificano delle attività fondanti e accessibili al livello di difficoltà di cui abbiamo

bisogno.

- La partecipazione alla cultura del compito. Si cerca di trovare occasioni perché

l’alunno sperimenti, anche se soltanto da spettatore, la “cultura del compito” (il clima

emotivo, la tensione cognitiva, i prodotti elaborati, etc.). Nella vita di ogni giorno noi

partecipiamo ad una infinità di situazioni, pur non avendo in esse particolari

competenze. Ci sono settori dei quali non sappiamo molto, ma non per questo ci

esoneriamo dal partecipare all’atmosfera culturale ricavandone sollecitazioni

importanti sul piano personale. In una classe che attua l’integrazione si verificano

dinamiche analoghe. In base alla gravità del deficit, i docenti possono scegliere il

livello di semplificazione degli obiettivi che reputano più idoneo per l’alunno disabile.

Adeguare gli obiettivi della classe alle esigenze del disabile.

D’altra parte essendo il processo di integrazione fondamentalmente un processo

dialogico che implica la compartecipazione dell’alunno disabile e del contesto

classe, gli sforzi di adeguamento dell’alunno alle attività della classe devono essere

compensati da uno sforzo di integrazione da parte della classe, solo in tal modo

infatti potremmo parlare di una vera integrazione.

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La realizzazione del processo di integrazione infatti si realizza richiedendo, sia al

gruppo accogliente sia all’allievo inserito, una serie di cambiamenti capaci di

consentire loro occasioni di collaborazione e aiuto reciproco. Ciò implica per la

classe un generale adeguamento degli obiettivi perseguiti alle esigenze del disabile,

con la consapevolezza che questo adeguamento possa giovare ad entrambi.

Questo concetto non si traduce in una programmazione “al ribasso” in cui viene

richiesto agli studenti di una classe di tornare a ripetere programmi già affrontati, ma

di cercare tutte le occasioni possibili per avvicinarsi al lavoro del disabile. Se, per

esempio, un bambino sta lavorando sulla discriminazione dei colori, si possono

programmare delle lezioni sullo spettro solare e i colori dell’iride; se sta imparando la

successione dei numeri servendosi della retta numerica, la classe può lavorare sugli

assi cartesiani che, in fondo, non sono altro che due rette numeriche perpendicolari.

Tuttavia è auspicabile la messa in atto di un approccio didattico sistematico volto ad

avvicinare le esigenze della classe alle esigenze del disabile, a tal fine alcune

semplici operazioni sembrano supportare tale prospettiva didattica. Ad esempio il

ripasso frequente degli argomenti rappresenta un primo tentativo di andare incontro

alle esigenze del compagno più debole e non è detto che rappresenti una perdita di

tempo per la classe. Un altro esempio può essere un approccio operativo verso tutte

le discipline, e non solo a quelle tecniche o artistiche, che sembra essere in grado di

sostenere l’apprendimento del disabile facendo leva sul suo bisogno di pragmatismo

e di concretezza, ed allo stesso tempo si configura come occasione preziosa per

tutti quegli alunni che vivendo l’esperienza scolastica come un male necessario,

possono trarre dalle attività pratiche (costruire cartelloni, fare esperimenti, utilizzare

il mezzo informatico ai fini didattici, etc.) e nuova motivazione. Un altro esempio può

essere la concentrazione dell’attività didattica a supporto dello sviluppo di abilità di

studio intesa nei termini di individuazione dei concetti chiave di un brano di lettura,

nel sottolineare le parti più importanti e nello schematizzare in maniera gerarchica i

concetti, tale attività infatti si configura come occasione per abbandonare una

concezione esclusivamente nozionistica dello studio e intraprendere un percorso

attento ai processi di studio e non solo ai contenuti.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica I

L’integrazione nel sistema scolastico italiano

Lezione 4. Per un intervento integrativo: lavorare sulla didattica

Come evidenziato nelle lezioni precedenti la realizzazione dell’integrazione si

realizza non solo sul piano della relazione tra individuo disabile e classe ma anche,

e soprattutto attraverso la relazione didattica che assume il ruolo di mediatore del

processo integrativo. Infatti, la programmazione educativa individualizzata deve

prevedere, a livello massimo possibile, tutte le materie della programmazione di

classe, differenziandole solo nel livello di complessità. Tale differenziazione si

realizza attraverso pratiche di rielaborazione ed adattamento delle unità di contenuto

e ciò è auspicabile per almeno due valide ragioni che rendono l’adattamento dei

materiali di studio una buona pratica per l’integrazione: da un lato permette

all’alunno disabile di sperimentare il piacere del successo incrementando la

motivazione e predisponendo a nuove esperienze di apprendimento con i compagni;

dall’altro evita la frustrazione generata dalla consapevolezza di aver bisogno di libri

di testo di un ordine di scuola inferiore.

Tale operazione di semplificazione ed organizzazione dei materiali della classe si

realizza attraverso l’uso di materiali didattici strutturati e non strutturati. Il materiale

strutturato è rappresentato da testi specializzati, schede, giochi didattici, etc. che

hanno il vantaggio di essere costruiti nel rispetto dei principi psico-pedagogici,

sebbene in genere siano molto frammentari e portino alla perdita del significato

globale della esperienza di apprendimento. I materiali non strutturati sono, invece,

quei materiali che i docenti e a volte gli allievi più capaci, costruiscono per mettere

l’alunno disabile nelle condizioni di poter seguire gli stessi lavori della classe. Due

esempi classici di materiali non strutturati sono i cartelloni e gli adattamenti dei libri

di testo.

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Il cartellone ha il vantaggio di organizzare idee principali di un’unità di

apprendimento, e la sua elaborazione in tramite parole-chiave permette un uso

collettivo volto ad agevolare la comprensione dei concetti e a potenziare le capacità

di organizzazione degli stessi. D’altra parte l’adattamento dei libri di testo, in linea

con quanto espresso da Scataglini e Giustini (2004) richiede preliminarmente le

seguenti operazioni: l’analisi della modalità percettive del disabile, dello stile

cognitivo, del grado di motivazione e degli interessi e l’analisi del testo da

semplificare o organizzare.

Sulla base di queste due analisi la semplificazione dei testi si snoda in diversi livelli

di semplificazione: un primo livello consiste nell’ estrapolare dal testo i concetti

chiave, ingrandirli graficamente e aggiungere a questi un supporto iconico che sia

particolarmente motivante. L’alunno così potrà lavorare sullo stesso libro dei

compagni. Questo tipo di semplificazione si rivolge a quegli alunni che, pur essendo

in grado di seguire gli stessi ritmi della classe, hanno difficoltà percettive

nell’approccio dei testi. Un livello più avanzato di semplificazione consiste nella

ristrutturazione del testo eliminando le parti non essenziali e riportando solo le idee

più importanti espresse con parole semplici e aspetti grafici in grado di risaltare le

parole chiave. Da ultimo si rende necessario ridurre al massimo la parte linguistica

per lasciare spazio ad una sequenza di immagini in grado di stimolare l’interesse

dell’alunno e facilitargli la comprensione e la memorizzazione delle nozioni

presentate.

Accanto alle forme di semplificazione dei testi è necessario ricordare che

l’apprendimento migliora se a monte della lettura dei testi vengono applicate

metodologie chiare e strutturate in grado di organizzare le informazioni: in questo

senso si rimanda all’utilità di utilizzare organizzatori anticipati, ovvero mezzi di

rappresentazione visiva della conoscenza ossia un modo di strutturare

l’informazione o di organizzare gli aspetti più importanti di un argomento in uno

schema che utilizza le definizioni, in grado di selezionare le idee principali,

individuare i nessi causa-effetto, stabilire analogie e differenze, a supporto della

complessa operazione di organizzazione delle informazioni.

I principali tipi di organizzatori anticipati sono:

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- Diagrammi causa-effetto. Sono usati per evidenziare i nessi causali nelle azioni di

un personaggio di una storia, nelle manifestazioni di un fenomeno, negli eventi che

hanno segnato la Storia.

- Grafici di sequenze. Servono ad evidenziare gli elementi chiave secondo una linea

temporale, oppure nelle Scienze o in Fisica per visualizzare le procedure di un

esperimento scientifico.

- Diagrammi di confronto. Sono un eccellente strumento per evidenziare visivamente

le somiglianze e le differenze tra le idee principali, per costruire la scaletta di testi

comparativi e, in matematica, per trovare il massimo comun divisore ed il minimo

comune multiplo fra più numeri.

- Grafici dell’idea principale e dei dettagli. Sono utilizzati per individuare l’idea

principale ed elencare una serie di dati minori che servono ad illustrarla.

Da una prospettiva didattica il processo di integrazione e di ottimizzazione

dell’apprendimento per gli alunni disabili può avvenire non solo attraverso la

rielaborazione delle unità didattiche da parte degli insegnanti, ma anche attraverso

l’uso di modalità diverse di presentazione dei contenuti. Queste diverse modalità

vengono denominate in letteratura “mediatori didattici”, ovvero azioni messe in atto

dagli insegnanti per favorire l’apprendimento degli alunni. Damiano (1993) identifica

quattro tipi di mediatori:

- I mediatori attivi che fanno ricorso alla esperienza diretta. Un esempio di mediatore

attivo è rappresentato dall’esperimento che si realizza in laboratorio. Il limite

principale di questo mediatore è costituito dal fatto che esso richiede tempi lunghi di

esecuzione, ma se si considerano i vantaggi che derivano dal contatto fisico con il

reale, dalla densità emotiva che si viene a produrre, quello della lungaggine dei

tempi diventa un limite del tutto irrisorio.

- I mediatori iconici che si basano sulla rappresentazione del linguaggio grafico e

spaziale (immagini, schematizzazione di concetti, fotografie, filmati, carte

geografiche etc.). L’apprendimento mediante immagini si fonda sulle abilità

percettive del soggetto. Nonostante siano presenti numerose qualità in termini di

sollecitazione di interessi e di motivazione, il mediatore iconico non può essere

considerato del tutto autosufficiente, ma richiede l’intervento del mediatore

simbolico. Il linguaggio grafico spesso non riesce a riprodurre adeguatamente

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l’estensione di un concetto e sul piano mnestico, poi, è ingombrante e poco

persistente.

- I mediatori analogici cercano di rifarsi alle possibilità di apprendimento insite nel

gioco e nella simulazione. Si tratta di attività ludiche di gruppo in cui i partecipanti

ricreano particolari situazioni e interpretano personaggi. Il tasso di realismo

conseguito con i giochi di ruolo è sicuramente maggiore di altre forme tradizionali di

insegnamento ma bisogna stare attenti ad evitare il rischio di scambiare la

simulazione con la realtà, creando l’illusione di aver fatto veramente esperienze

dirette.

- I mediatori simbolici sono quelli che si allontanano di più dalla realtà di riferimento

e sono considerati i meno validi soprattutto dai sostenitori del principio

dell’apprendimento diretto. La lezione frontale costituisce un esempio di mediatore

simbolico. In termini di risultati di apprendimento è uno degli approcci meno efficaci

soprattutto per la passività che induce presso chi ascolta. In termini di tempo è,

invece, il più economico dei mediatori e questo rappresenta uno dei principali motivi

per cui è preferito dalla gran parte dei docenti.

Accanto alle tecniche mediazionali realizzate dagli insegnanti nell’ultimo trentennio

sono state realizzate molte ricerche, italiane e straniere, che dimostrano l’utilità

dell’insegnamento mediato da pari con studenti con capacità e interessi diversi. Si

tratta di una serie di modalità alternative di insegnamento nelle quali gli studenti

rivestono il ruolo di facilitatori dell’apprendimento dei compagni. L’insegnamento

mediato da pari costituisce un ottimo modo per coinvolgere attivamente gli studenti

nel loro apprendimento, cosa che spesso, con le modalità tradizionali e soprattutto

nel caso di studenti disabili, non accade. I tipi di insegnamento mediati da pari più

noti e utilizzati con maggiore frequenza sono i seguenti: Il cooperative learning che è

centrato su gruppi di lavoro eterogenei, sulla effettiva interdipendenza dei ruoli e

sull’uguaglianza di opportunità di successo per tutti; il tutoring che consiste

nell’affidare ad un alunno specifiche responsabilità di tipo educativo e didattico; il

peer teaching che consiste nell’affidare la realizzazione di compiti a studenti che

sono alla pari come capacità cognitive. Per facilitare un processo di reale

integrazione del soggetto con disabilità, i metodi collaborativi rappresentano una

potenzialità di grande rilievo, ma la loro attivazione richiede un lungo lavoro di

preparazione da parte degli insegnanti. È necessario che essi creino le condizioni

migliori perché il gruppo che lavora con il compagno disabile possa dare risultati

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soddisfacenti. A fronte del generale consenso sull’efficacia dell’insegnamento

mediato da pari, vi è una scarsa concordanza di opinioni rispetto alle basi teoriche

(Slavin, 2007): l’approccio motivazionale sostiene che l’insegnamento mediato da

pari fornisce agli alunni la motivazione ad aiutarsi reciprocamente aumentando così

il loro rendimento. I teorici della coesione sociale ritengono che nei gruppi

cooperativi gli studenti sono sollecitati nell’aiutarsi perché hanno più cura l’uno

dell’altro (ossia più coesione sociale) e vogliono che gli altri abbiano risultati positivi.

Gli approcci cognitivisti suggeriscono che le interazioni verbali e non verbali tra gli

alunni migliorano le loro abilità di elaborazione mentale e di conseguenza le loro

prestazioni. Insegnando ai compagni contenuti e strategie, gli studenti sviluppano

una comprensione più approfondita dei contenuti stessi (imparare insegnando). Le

prospettive evolutive affermano che le attività collaborative promuovono lo sviluppo

perché gli alunni lavorano nella loro zona di sviluppo prossimale e imitano

comportamenti di collaborazione leggermente più sofisticati dei loro. Per quanto tutte

e quattro le prospettive possano essere valide: Mahed, Yharper e Mallette (2001),

propongono una prospettiva sinottica che utilizza tutte e quattro le ipotesi per

esaminare gli effetti sul piano cognitivo e relazionale dei vari metodi di

insegnamento mediato da pari. In tale prospettiva i metodi collaborativi

rappresentano una potenzialità di grande rilievo, ma la loro attivazione richiede un

lungo lavoro di preparazione da parte degli insegnanti. È necessario che essi creino

le condizioni migliori perché il gruppo che lavora con il compagno disabile possa

dare risultati soddisfacenti. La condizione più importante è che la classe conosca il

deficit del compagno più sfortunato.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica I

L’integrazione nel sistema scolastico italiano

Lezione 5. Note per una didattica integrativa

La presenza di alunni in situazione di handicap nelle classi, piuttosto che essere un

ostacolo alla realizzazione delle normali attività didattiche, costituisce, in definitiva,

una preziosa occasione perché la scuola cambi e si ripensi come strumento di

successo formativo per tutti. Il cambiamento, gestito con competenza, può produrre

notevoli vantaggi per gli alunni disabili, per tutti gli alunni della classe e per l’intera

comunità scolastica. Occorre precisare, comunque, che l’integrazione dei disabili è

compito specifico della scuola, ma non esclusivo. È un compito che investe

numerose altre agenzie: famigliari, sanitarie, lavorative, sociali e ricreative. La

scuola, in quanto agenzia formativa per eccellenza, può dare, però, un contributo

decisivo perché si realizzino alcune condizioni fondamentali per l’integrazione, come

la costruzione di un itinerario didattico integrato con quello della classe e condotto in

maniera da rappresentare un vantaggio per tutti; l’attivazione di un’opera di

sensibilizzazione e di coinvolgimento di tutte le agenzie che a vario titolo si

interessano dell’alunno disabile; la creazione di un nuovo concetto di diversità che

superi la distinzione tra abili e disabili, tra uguali e diversi.

La possibilità di perseguire un’azione integrativa ed inclusiva in una classe o in una

scuola passa necessariamente dalla valorizzazione delle originalità e diversità

attraverso la costruzione di un ambiente classe, di un ambiente gruppo di pari, e di

un ambiente - scuola positivo, affettivamente sicuro, che crea appartenenza, che è

basato sull’istituzione negoziata e condivisa delle regole della vita quotidiana, che

“nutre” l’identità e l’autostima, che mette a punto le condizioni affinché differenti

intelligenze, sensibilità e bisogni, sistemi di segni, climi relazionali e appartenenze

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culturali s’incontrino. D’altra parte l’adozione di misure integrative eleva il livello

potenziale del gruppo classe soprattutto se il lavoro individuale viene affiancato da

approcci di tipo collaborativo tra alunni.

L’apprendimento dalla differenza implica inoltre l’attivazione di importanti processi

meta cognitivi realizzati attraverso un duplice processo di elaborazione cognitiva e

affettiva basato su confronto e riflessione, solo l’attivazione di tali processi infatti

permette di riconoscere e di elaborare l’ambivalente, complesso, sentimento di

attrazione/repulsione per tutto ciò che viene vissuto come differente e dissimile da

sé. I processi di integrazione implicano per tutto il gruppo classe un confronto con la

differenza che richiede sia il riconoscimento della diversità altrui, ovvero la differenza

dell’altro, sia il riconoscimento della propria diversità, ovvero la propria differenza

dall’altro. Questo complesso sistema relazionale che si viene a creare sottende un

meta-apprendimento importante in cui il riconoscimento delle reciproche diversità

funge da volano per l’attivazione di un processo di decentramento in cui è possibile

guardarsi con gli occhi dell’altro. Tale decentramento è ancora più evidente nel

confronto con le differenze culturali poiché chiama in causa significati spesso remoti

e profondi, che si sono storicamente sedimentati, e che richiedono uno sforzo di

avvicinamento e comprensione lento e graduale: la scoperta e l’incontro con culture

differenti si accompagna ad una maggiore acquisizione di “forza” e di fiducia nelle

proprie personali capacità di avvicinarsi e scoprire il nuovo.

D’altra parte accanto a questa funzione assolta dall’interazione del contesto classe

deve essere preso in considerazione il ruolo di strategie individualizzate, che

possono prevedere compiti, materiali, ruoli, percorsi diversificati, facilitati o arricchiti

e accelerati nello sviluppo delle competenze individuali, le specifiche attitudini e

talenti personali. Le ricerche più recenti d’approccio interattivo-costruttivista e

contestualista evidenziano come i gruppi fra coetanei, impegnati in attività di

laboratorio offrano preziose occasioni di confronto di idee e concezioni, di processi

di pensiero (metodo induttivo, deduttivo, messa a punto schemi di sintesi, di

strategie argomentative e di intervento), di co-costruzione e scoperta, di

socializzazione di differenti modi per reagire a situazioni o per esprimere/ controllare

affetti e sentimenti.

Il gruppo classe e l’ambiente scolastico, quindi, in virtù della loro natura di contesti di

interazioni e relazioni (simmetriche e a simmetriche), di gioco e di lavoro, di

proiezioni e di identificazioni, hanno il privilegio di poter essere una vera e propria

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fabbrica di competenze e di umanità: attraverso l’esempio e l’esperienza di essere

ascoltati e di ascoltare le figure adulte di riferimento ed i compagni, di confrontarsi

con il modo di vedere e di percepire degli altri la relazione interpersonale e

intercultura le può divenire una ineliminabile fonte di apprendimento per sé. Il

massimo potenziale di apprendimento di un gruppo - classe/sezione, di una scuola

sta nel fatto di essere un contesto sociale “quasi naturali” in cui si possono costruire

reti sociali tra pari e si può attivare e coltivare quel delicato, prezioso processo di

elaborazione cognitivo/affettiva e di attribuzione di valore e di significato che rende

la diversità una risorsa.

Alla luce di quanto affermato fin’ora la presenza in classe dell’alunno disabile può

diventare una opportunità positiva per tutti. Purtroppo, però, i docenti curricolari, nel

programmare le attività per la classe, generalmente non prestano la dovuta

attenzione alle esigenze del disabile e questo avviene soprattutto per alcuni motivi: il

rallentamento dei lavori della classe (i programmi sono ampi e non si può modificare

il percorso o tornare indietro per aspettare il compagno più lento); la convinzione che

i diritti della maggioranza a svolgere il proprio programma siano maggiori dei diritti

del disabile che è solo; la consapevolezza da parte della classe di non avere nulla

da guadagnare nel tornare indietro nel programma, nell’utilizzare modalità operative

per la comprensione di concetti astratti e nell’aiutare un compagno in difficoltà.

Logiche di questo tipo difficilmente portano ad una reale integrazione, infatti le

ricerche portate avanti in ambito di didattica integrativa hanno messo in luce come

metodologie didattiche volte a favorire l’integrazione e che seguono le linee

direzionali descritte permettono agli studenti – disabili e non – di ottenere migliori

risultati, rispetto all’insegnamento tradizionale: dal punto di vista cognitivo infatti gli

alunni memorizzano meglio, sviluppano una maggiore motivazione e livelli superiori

di ragionamento; sul piano relazionale si creano rapporti di amicizia e la diversità

viene rispettata e da punto di vista psicologico migliorano l’immagine di sé e il senso

di autoefficacia e di affrontare le difficoltà e lo stress (Johnson, Johnson, 2007).

La condizione più importante è che la classe conosca il deficit del compagno più

sfortunato, infatti se il deficit diventa oggetto di discussione le incertezze

diminuiscono e la diversità assume sempre più la valenza di condizione che non

inficia la dignità della persona. Secondo Ianes (2001), le informazioni sulla disabilità

possono essere integrate nel curricolo in diversi modi: invitando in classe i genitori

dei disabili, i medici e i terapisti; presentando e discutendo filmati sulla disabilità;

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svolgendo ricerche su personaggi celebri con disabilità; informandosi sulle

tecnologie che riducono l’handicap. Se viene realizzato questo processo di

sensibilizzazione della classe, sarà più facile che la presenza del disabile non

costituisca un ostacolo ai lavori del gruppo bensì una preziosa occasione per i

compagni per sperimentare la solidarietà. Imparare ad aiutare gli altri è una

componente molto rilevante nella formazione di una persona e può avere molti

vantaggi.

Per rendere ancora più tangibile quanto descritto fin ora di seguito riportiamo

qualche esempio di intervento integrativo riferito ai diversi ordini di scuola.

Attraverso tali esempi infatti si intende rende più chiaro come declinare la pratica

della didattica individualizzata. Per la scuola elementare, prendiamo il caso di un

bambino inserito in una prima classe impegnata nell’apprendimento della lettura e

della scrittura con il metodo fonetico. Il bambino non è ancora pronto per questo

obiettivo perché non ha ancora acquisito la capacità di discriminare. Se si

considerano solo i bisogni cognitivi dell’allievo si è tentati di lavorare sulla

discriminazione di colori o forme geometriche, ignorando quello che fa il resto della

classe; se invece ci sta a cuore che il bambino partecipi ai lavoro dei compagni,

potremmo sollecitarlo ad acquisire l’abilità di discriminare utilizzando grandi lettere

dell’alfabeto in stampatello maiuscolo. Nell’ambito linguistico, obiettivi come saper

ascoltare e saper comunicare, sono quasi sempre alla portata degli allievi disabili.

Altri obiettivi come saper leggere, saper comprendere, saper produrre testi scritti si

prestano ad essere utilizzati come punto di partenza di una programmazione

individualizzata che tenga conto di quello che fanno i compagni. Nella scuola media

la situazione si fa più complessa perché la distanza fra gli obiettivi della classe e le

effettive potenzialità del disabile tende ad aumentare. Tuttavia si possono ancora

individuare obiettivi comuni: in una prima media vengono programmate attività per

insegnare ai ragazzi a comunicare verbalmente in modo adeguato. È una buona

occasione per lavorare anche con l’allievo disabile individuando obiettivi specifici al

suo livello: dire il proprio nome in risposta ad una domanda, chiedere in prestito una

matita oppure esprimere il proprio punto di vista, accettare il punto di vista dell’altro.

Nell’ambito storico, un obiettivo adatto anche ai disabili che non sanno leggere può

essere ordinare cronologicamente fatti ed eventi. Questo obiettivo permette di

sistemare su di una tabella fatti ed eventi secondo un ordine cronologico e

insegnare il concetto di prima e dopo anche ad un allievo con difficoltà di

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apprendimento. In ambito geografico, troviamo l’obiettivo di leggere mappe e carte.

Anche questo obiettivo può essere raggiunto a diversi livelli di complessità: alcuni

leggeranno le carte per programmare un viaggio, altri impareranno a guardare le

carte per conoscere il tragitto da casa a scuola. Per la scuola media superiore il

discorso è analogo. Certamente le difficoltà aumentano e diventa più difficile

realizzare una didattica integrata, ma non impossibile. Le occasioni in cui si possono

realizzare lavori più concreti e vicini alla realtà dell’alunno con problemi diventano

più sporadiche, ma l’importanza di fargli sperimentare un lavoro simile a quello dei

compagni di classe, giustifica anche il lavoro su contenuti poco funzionali. Lo scopo

principale di tutto questo lavoro sull’adattamento degli obiettivi è quello di cercare di

evitare incresciose situazioni di emarginazione.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica II

Bisogni educativi speciali: prospettive per la didattica

Lezione 1. I Bisogni Educativi Speciali

La legge n. 517 del 1977, ha dato avvio al processo di integrazione scolastica per i

disabili, definendo i principi di base per la messa in atto di un processo di

integrazione nel mondo scolastico, e si è configurata come punto di riferimento

imprescindibile per lo sviluppo di adeguate politiche di inclusione a livello Europeo

e non solo. Secondo la prospettiva delineata dal nostro sistema legislativo per

l’inclusione scolastica, infatti il sistema scolastico si viene a configurare non solo

quale un luogo di conoscenza e di istruzione, ma quale luogo di sviluppo e

socializzazione per tutti, sottolineandone gli aspetti inclusivi piuttosto che quelli

selettivi. Forte di questa esperienza, il nostro Paese è ora in grado, passati più di

trent’anni dalla legge n. 517 del 1977 che diede avvio all’integrazione scolastica, di

considerare le criticità emerse e di valutare, con maggiore cognizione, la necessità

di ripensare alcuni aspetti dell’intero sistema.

Oggi giorno, l’esperienza scolastica mette in risalto come gli alunni con disabilità si

trovano inseriti all’interno di un contesto sempre più variegato, dove la

discriminante tradizionale - alunni con disabilità/alunni senza disabilità - non

rispecchia pienamente la complessa realtà delle nostre classi. In questa direzione,

infatti, si fa sempre più forte la necessità di assumere un approccio educativo, per

il quale l’identificazione degli alunni con disabilità non avvenga solo, o

esclusivamente, base della procedura certificativa; se da un lato, infatti la

procedura certificativa mantiene utilità per una serie di benefici e di garanzie per gli

alunni disabili, d’altra parte corre il rischio di relegare gli alunni stessi in una

cornice pregiudiziale e didattica ristretta e definita aprioristicamente.

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A questo riguardo sia sul piano diagnostico che sul piano del modello culturale che

veicola la dimensione diagnostica appare rilevante l’apporto del modello

diagnostico ICF (International Classification of Functioning) proposto

dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che considera la persona nella sua

totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale. Il modello ICF, infatti, piuttosto che

focalizzare la dimensione di deficit dell’individuo, presta attenzione al profilo di

funzionamento e all’analisi dei contesti in cui l’individuo è inscritto, in questo modo

il modello ICF consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali (BES)

dell’alunno prescindendo da preclusive tipizzazioni. L’ICF si configura pertanto

come modello concettuale finalizzato allo sviluppo di una Diagnosi Funzionale

Educativa. La rivoluzione culturale dell’ICF sta principalmente nella trasmettere

un’idea di “trasversalità” della disabilità, per cui ogni alunno, con continuità o per

determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali; o per motivi fisici,

biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è

necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. La

prospettiva dell’ICF potenzia quindi l’aspetto inclusivo piuttosto che esclusivo

anche mediante un approfondimento delle relative competenze degli insegnanti

curricolari, finalizzata ad una più stretta interazione tra tutte le componenti della

comunità educante.

L’ICF assume la prospettiva per cui la situazione di una persona va letta e

compresa in modo olistico e complesso, da diverse prospettive, e in modo

interconnesso e reciprocamente causale, pertanto tale modello è utile per una

lettura dei Bisogni Educativi Speciali in un’ottica di salute globale, in grado di offrire

una comprensione qualitativa delle difficoltà di un alunno e una definizione delle

risorse. La situazione di salute di una persona è la risultante globale delle

reciproche influenze tra diversi fattori; da un lato la dotazione biologica e dall’altro

l’ambiente di crescita dove accanto a fattori esterni (relazioni, culture, ambienti,

ecc.) e fattori contestuali personali e le dimensioni psicologiche fanno da sfondo

interno alle azioni (autostima, identità, motivazioni, ecc.).

È quindi nella grande dialettica tra le dimensioni biologico contestuali, intese come

luogo entro cui l’individuo si sviluppa ed agisce nelle sue dimensioni biologico-

culturali, in base alle proprie reali capacità performative che va letto e colto

l’alunno; se questi aspetti si sviluppano attraverso un approccio sinergico lo

sviluppo si configurerà in modo adattivo, altrimenti lo sviluppo necessiterà di

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Bisogni Educativi Sociali. Proprio per questo l’alunno che viene conosciuto e

compreso, nella complessità dei suoi bisogni, attraverso il modello ICF, necessita

di un’analisi approfondita in grado di focalizzarsi su vari e specifici ambiti:

- Condizioni fisiche: malattie varie, acute o croniche, fragilità, situazioni

cromosomiche particolari, lesioni, ecc;

- Strutture corporee: mancanza di un arto, di una parte della corteccia cerebrale,

ecc.;

- Funzioni corporee: deficit visivi, deficit motori, deficit attentivi, di memoria, ecc.;

- Attività personali: scarse capacità di apprendimento, di applicazione delle

conoscenze, di pianificazione delle azioni, di comunicazione e di linguaggio, di

autoregolazione metacognitiva, di interazione sociale, di autonomia personale e

sociale, di cura del proprio luogo di vita, ecc.;

- Partecipazione sociale: difficoltà a rivestire in modo integrato i ruoli sociali di

alunno, a partecipare alle situazione sociali più tipiche, nei vari ambienti e contesti;

- Fattori contestuali ambientali: famiglia problematica, cultura diversa, situazione

sociale difficile, culture e atteggiamenti ostili, scarsità di servizi e risorse, ecc.;

- Fattori contestuali personali: scarsa autostima, reazioni emozionali eccessive,

scarsa motivazione, ecc.

Il Bisogno Educativo Speciale si manifesta in uno, o più, degli ambiti su descritti, e

la situazione generale dell’alunno, va letta alla luce della peculiare interazione che

avrà ciascuno di questi ambiti specifici con tutti gli altri; ovviamente, il peso dei

singoli ambiti varierà da alunno ad alunno, anche all’interno di una stessa

condizione biologica originaria o contestuale ambientale. Il modello ICF si

configura quindi come un valido supporto per conoscere in modo più approfondito

e le diverse situazioni di difficoltà degli alunni, sottolineando di volta in volta il ruolo

delle componenti biologiche, corporee, contestuali, ambientali, e così via.

Gli alunni con Bisogni Educativi Speciali vivono una situazione particolare, che li

ostacola nell’apprendimento e nello sviluppo: questa situazione negativa può

essere a livello organico, biologico, oppure familiare, sociale, ambientale,

contestuale o in combinazioni di queste. Un alunno con Bisogni Educativi Speciali

può avere una lesione cerebrale grave, o la sindrome di Down, o una lieve

disfunzionalità cerebrale e percettiva, o gravi conflitti familiari, o background

sociale e culturale diverso o deprivato, reazioni emotive e/o comportamentali

disturbate, ecc. Queste (e altre) situazioni causano direttamente o indirettamente -

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grazie all’opera mediatrice di altri fattori (personali e/o contestuali: si veda poi la

concettualizzazione del funzionamento umano dell’ICF) - difficoltà, ostacoli o

rallentamenti nei processi di apprendimento che dovrebbero svolgersi nei vari

contesti. Queste difficoltà possono essere globali e pervasive (si pensi all’autismo)

oppure più specifiche (ad esempio nella dislessia), settoriali (disturbi del

linguaggio, disturbi psicologici d’ansia, ad esempio); gravi o leggere, permanenti o

(speriamo) transitorie. In questi casi i normali bisogni educativi che tutti gli alunni

hanno (bisogno di sviluppare competenze, bisogno di appartenenza, di identità, di

valorizzazione, di accettazione, solo per citarne alcuni) si «arricchiscono» di

qualcosa di particolare, di «speciale» nel loro funzionamento. Il loro bisogno

normale di sviluppare competenze di autonomia, ad esempio, è complicato dal

fatto che possono esserci deficit motori, cognitivi, oppure difficoltà familiari nel

vivere positivamente l’autonomia e la crescita, e così via. Riconoscere i Bisogni

Educativi Speciali significa rendere conto delle varie difficoltà, grandi e piccole, per

sapervi rispondere in modo adeguato. L’idea del Bisogno Educativo Speciale

rifugge quindi una cultura medico nosografia aprendo all’idea di disabilità

transitoria:si potrebbe dire che ogni bambino può incontrare nella sua vita una

situazione che gli crea Bisogni Educativi Speciali; dunque è una condizione che ci

riguarda tutti e a cui siamo tenuti, deontologicamente e politicamente, a rispondere

in modo adeguato e individualizzato. Gli alunni con Bisogni Educativi Speciali

hanno infatti necessità di interventi tagliati accuratamente su misura della loro

situazione di difficoltà e dei fattori che la originano e/o mantengono. Questi

interventi possono essere ovviamente i più vari nelle modalità (molto tecnici o

molto informali), nelle professionalità coinvolte, nella durata, nel grado di

«mimetizzazione» all’interno delle normali attività scolastiche: una normalità

educativa-didattica resa più ricca, più efficace attraverso le misure prese per

rispondere ai Bisogni Educativi Speciali. In alcuni casi questa individualizzazione

prenderà la forma di un formale Piano educativo individualizzato-Progetto di vita, in

altri sarà, ad esempio, una «semplice» e informale serie di delicatezze e attenzioni

psicologiche rispetto a una situazione familiare difficile, in altri ancora potrà essere

uno specifico intervento psicoeducativo nel caso di comportamenti problema, e

così via. I Bisogni Educativi Speciali sono dunque molti e diversi; una scuola

davvero inclusiva dovrebbe essere in grado di leggerli tutti (individuando così il

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reale «fabbisogno» di risorse aggiuntive) e su questa base generare la dotazione

di risorse adeguata a dare le risposte necessarie.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica II

Bisogni educativi speciali: prospettive per la didattica

Lezione 2. Strategie di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali

Riconoscere i Bisogni educativi Speciali (BES) di alcuni alunni implica la necessità

di elaborare un percorso individualizzato e personalizzato, individuato sulla base

della redazione di un Piano Didattico Personalizzato, individuale o anche riferito a

tutti i bambini della classe con BES.

Sono infatti le scuole – con determinazioni assunte dai Consigli di classe, risultanti

dall’esame della documentazione clinica presentata dalle famiglie e sulla base di

considerazioni di carattere psicopedagogico e didattico – ad avere la possibilità di

avvalersi per tutti gli alunni con bisogni educativi speciali di strumenti compensativi

e di misure dispensative previste dalle disposizioni legislative, in grado di porsi allo

stesso tempo come strumento di lavoro in itinere per gli insegnanti e come

documentazione per le famiglie delle strategie di intervento messe in atto dalla

scuola.

L’elaborazione e la progettazione di tali percorsi per bambini con bisogni educativi

speciali si sviluppa alla luce di una attività progettuale e di intervento che riguarda

tutti gli insegnanti perché l’intera comunità scolastica è chiamata ad organizzare i

curricoli in funzione dei diversi stili o delle diverse attitudini cognitive, a gestire in

modo alternativo le attività d’aula, a favorire e potenziare gli apprendimenti e ad

adottare i materiali e le strategie didattiche in relazione ai bisogni degli alunni.

Infatti, non si può dare vita ad una scuola inclusiva se al suo interno non si avvera

una corresponsabilità educativa diffusa e non si possiede una competenza

didattica adeguata ad impostare una fruttuosa relazione educativa anche con

alunni con disabilità. Non in altro modo sarebbe infatti possibile che gli alunni

esercitino il proprio diritto allo studio inteso come successo formativo, e la

predisposizione di interventi didattici differenziati evidenzia immediatamente una

attenzione del servizio di istruzione verso gli alunni al di là delle loro differenze.

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Pertanto diviene compito del Collegio dei docenti provvedere a mettere in atto

azioni volte a promuovere l’inclusione scolastica e sociale degli alunni con

disabilità, inserendo nel Piano dell’Offerta Formativa la scelta inclusiva

dell’Istituzione scolastica e indicando le prassi didattiche che promuovono

effettivamente l’inclusione (gruppi di livello eterogenei, apprendimento cooperativo,

ecc.). I Consigli di classe/interclasse hanno pertanto l’importante funzione di

coordinarsi in merito ad attività didattiche, di preparazione dei materiali, di

definizione delle attività in grado di consentire all’alunno con disabilità la

partecipazione allo svolgimento della vita scolastica. A ben vedere tale ruolo

coordinativo e di definizione di adeguate strategie di intervento, sebbene sia

portato avanti a livello di consigli di classe, assume la sua valenza pragmatica

all’interno del contesto classe dove diviene compito dell’insegnante assumere

comportamenti non discriminatori, essere attento ai bisogni di ciascuno, accettare

le diversità presentate dagli alunni disabili valorizzandole come arricchimento per

l’intera classe in modo da favorire la strutturazione di un senso di appartenenza.

Assume quindi particolare rilevanza l’adozione di strategie didattiche e di strumenti

in grado di favorire l’inclusione di alunni con Bisogni Educativi Speciali. Alcuni

esempi potrebbero essere:

- l’apprendimento cooperativo;

- il lavoro di gruppo e/o a coppie;

- il tutoring;

- l’apprendimento per scoperta;

- la suddivisione del tempo in tempi;

- l’utilizzo di mediatori didattici;

- l’avvalersi di attrezzature e ausili informatici.

Le strategie elencate sono solo alcuni artifizi in grado di trasformare l’ambiente

scuola in un sistema inclusivo in grado di considerare l’alunno come il protagonista

dell’apprendimento qualunque siano le sue capacità, le sue potenzialità e i suoi

limiti. E ciò a nostro avviso è potenziato da pratiche di costruzione attiva della

conoscenza, che attivino personali strategie di approccio al “sapere”, rispettando i

ritmi e gli stili di apprendimento e “assecondando” i meccanismi di

autoregolazione.

È dunque solo all’interno di tale logica che assume senso parlare di pratiche di

insegnamento/apprendimento individualizzate e/o personalizzate. Infatti, se ciò che

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caratterizza gli alunni con Bisogni Educativi Speciali non è una diagnosi medica o

psicologica, ma una qualche situazione di difficoltà specifica per ciascun alunno,

allora è necessaria la messa a punto di strategie di intervento individualizzate, o

meglio personalizzate: individualizzazione si riferisce alle strategie didattiche che

mirano ad assicurare a tutti gli studenti il raggiungimento delle competenze

fondamentali del curricolo, quindi obiettivi comuni, attraverso una diversificazione

dei percorsi di insegnamento; personalizzazione indica, invece, la messa in atto di

strategie didattiche finalizzate a garantire ad ogni studente una propria forma di

eccellenza cognitiva, attraverso possibilità elettive di coltivare le proprie

potenzialità intellettive.

Alla luce di questa distinzione “individualizzato” è l’intervento calibrato sul singolo,

anziché sull’intera classe o sul piccolo gruppo, che diviene “personalizzato”

quando è rivolto ad un particolare alunno. Se contestualizziamo tale differenza

all’interno del contesto di insegnamento alla classe l’azione formativa

individualizzata pone obiettivi comuni per tutti i componenti del gruppo-classe,

sebbene tale azione sia sviluppata attraverso l’uso e l’adattamento delle diverse

metodologia alle caratteristiche individuali degli alunni, per poter permettere a tutti

gli studenti, in modo trasversale la possibilità di conseguire le competenze

fondamentali previste dal curriculo formativo nel pieno rispetto delle differenze

individuali. L’azione formativa personalizzata ha, in più, l’obiettivo di dare a ciascun

alunno l’opportunità di sviluppare al meglio le proprie potenzialità e, quindi, può

porsi obiettivi diversi per ciascun discente, essendo strettamente legata a quella

specifica ed unica persona dello studente a cui ci rivolgiamo.

Alla luce di questa differenziazione possiamo definire la didattica individualizzata

come l’attività di recupero individuale svolta dall’alunno per potenziare alcune aree

o affinare specifiche competenze attraverso la messa in atto di strategie

compensative realizzate all’interno del contesto classe o in momenti specifici

secondo tutte le forme di flessibilità del lavoro scolastico consentite dalla

normativa.

D’altra parte potremmo definire la didattica personalizzata, anche sulla base di

quanto indicato nella Legge 53/2003 e nel Decreto legislativo 59/2004, come la

possibilità di sviluppare una adeguata offerta didattica, sulla base della specificità

ed unicità dell’alunno, ovvero a partire dal livello personale dei bisogni educativi

che lo caratterizzano, considerando le differenze individuali dal punto di vista

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qualitativo, in modo da favorire lo sviluppo e l’accrescimento dei punti di forza di

ciascun alunno.

Dal punto di vista della metodologia didattica, la personalizzazione concepisce

l’apprendimento come un processo aperto e problematico, in cui ogni soggetto può

sviluppare una propria forma di eccellenza cognitiva attraverso il perseguimento e

conseguimento di obiettivi diversi. Le pratiche didattiche in tale direzione si

diversificano nei termini di elaborazione e realizzazione di plurimi progetti didattici

ed attivazione di una didattica diversificata.

Ecco che allora la didattica individualizzata si arricchisce sempre più di procedure

metodologiche innovative che vanno dalla lezione frontale al mastery learning, alle

tecniche di problem solving, alla didattica per soluzione di problemi, che offrono

opportunità per sviluppare la collaborazione, la discussione e la riflessione al fine

di far acquisire ad ogni allievo un’adeguata autonomia nei processi acquisitivi e

nella costruzione delle competenze disciplinari e trasversali.

Dal punto di vista della metodologia la didattica l’individualizzazione trova maggiori

possibilità di felicità nella messa in atto di metodologie e strategie didattiche tali da

promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno; l’uso dei

mediatori didattici (schemi, mappe concettuali, etc.), l’attenzione agli stili di

apprendimento, la calibrazione degli interventi sulla base dei livelli raggiunti,

nell’ottica di promuovere un apprendimento significativo.

Tuttavia la strategia didattica individualizzata non deve essere vista come

un’antitesi alla strategia didattica personalizzata, infatti è nel loro lavoro sinergico

che l’alunno con BES trova le condizioni più favorevoli per il raggiungimento degli

obiettivi di apprendimento.

Concepire il lavoro con alunni portatori di BES in termini di messa in atto di

strategie didattiche personalizzate ed individualizzate nei termini di progettazione

didattica liquida, ovvero di messa in opera di azioni didattiche finalizzate allo

sviluppo di percorsi appropriati e motivati in modo da contribuire alla crescita delle

potenzialità e dei talenti individuali.

Se, infatti la procedura individualizzata mira a far acquisire le competenze

essenziali di base, tenendo nella giusta considerazione la storia relazionale e

formativa, d’altra parte la personalizzazione della didattica con la conseguente

diversificazione dei traguardi e dei livelli di apprendimento favorisce lo sviluppo

dell’eccellenza individuale favorendo una comparazione intraindividuale ed

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interindividuale in grado di verificare in quale capacità un soggetto mostra

maggiore attitudine e propensione. Il lavoro sinergico di didattica individualizzata e

personalizzata consente ad ognuno, partendo dalle conoscenze e dalle

competenze acquisite, di aspirare all’eccellenza una volta acquisiti, ma anche

mentre si acquisiscono gli obiettivi di base comuni a tutti, infatti la conoscenza in

sé non ha alcun valore sufficiente se non riesce ad essere parte integrante e

stabile delle acquisizioni del soggetto fino a divenire promotrice di ulteriori

conoscenze e competenze. Lo scopo ultimo della formazione, in tal senso si

propone come opportunità per sviluppare competenze personali attraverso forme

di eccellenza che l’alunno deve salvaguardare ed arricchire e favorire durante tutto

l’arco della vita. In questa accezione si delinea tra l’altro un’idea di cultura non

cumulativa ma frutto di conoscenze integrate ed interagenti fortemente

personalizzate, frutto della valorizzazione del talento e dell’eccellenza personale in

un contesto di assoluta uguaglianza delle opportunità e degli esiti.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica II

Bisogni educativi speciali: prospettive per la didattica

Lezione 3. La professionalità docente come vettore per una scuola inclusiva

La realizzazione di una buona prassi didattica inclusiva si sviluppa a partire da una

concezione dei docenti in termini di “gruppo docente” in grado di porsi come una

risorsa finalizzata al sostegno ed allo sviluppo di competenze di ciascun alunno.

Seguendo questa direttiva la possibilità di mettere in atto buone prassi didattiche

nasce e si sviluppa attraverso una concezione della professionalità del docente

basata su alcuni elementi fondamentali che consentano ad ognuno di realizzare

una scuola inclusiva e favorevole all’integrazione e che, al contempo, favorisce il

superamento della concezione dell’apprendimento come trasmissione di nozioni.

Troppo a lungo, a purtroppo ancor oggi, la didattica è stata concepita nei termini di

trasmissione di saperi, in cui l’alunno rappresenta il destinatario dell’azione

d’insegnamento, relegato al ruolo di memorizzare le nozioni apprese onde poterle

eventualmente applicare in un futuro più o meno prossimo. Tuttavia, negli ultimi

anni, si sta sempre più affermando la consapevolezza del ruolo attivo e partecipe

da parte dell’alunno nei termini di nodo cruciale per lo sviluppo di un corretto

processo d’insegnamento apprendimento; il riconoscimento delle discipline di

studio come strumenti di pensiero che come tali costituiscono non solo la

componente contenutistica, ma anche quella metodologica. La comprensione del

ruolo strumentale delle discipline rispetto alla formazione della persona e la

concezione di apprendimento non ristretta solamente alla dimensione del sapere,

ma anche a quella della promozione di competenze relative al saper fare, a quelle

relazionali, comunicative e al saper essere, hanno portato ad un superamento di

tale concezione approdando ad un’dea di didattica in cui non è più sufficiente la

conoscenza della propria disciplina, ma l’associazione tra la passione per essa e la

conoscenza degli alunni per attivarne le potenzialità e per poterne adeguare le

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proprie proposte. Tale spostamento dal punto di vista del modello didattico che

sottende le prassi di insegnamento si rende ancor più necessario nel momento in

cui le diversità ed i bisogni specifici degli alunni costituiscono una, più o meno

forte, resistenza alla riduzione di asimmetria tra essere e dover essere, attivata nel

processo didattico. In questi casi l’analisi delle disposizioni raggiunte e la prognosi

disposizionale relative a tutte le dimensioni della personalità, anche con l’aiuto di

esperti, consente di individuare gli obiettivi sui quali appoggiare la

programmazione educativa e didattica che guida il processo d’integrazione. In

questa direzione l’organizzazione della propria programmazione didattica deve

assumere come punto di partenza i livelli di competenza effettivamente posseduti

dagli allievi ed i loro potenziali di apprendimento e, a tal fine, la conoscenza

approfondita degli allievi, e nei casi necessari la stesura del loro profilo dinamico

funzionale, accanto ad una preparazione specifica dei docenti per moderare e far

crescere gli intrecci relazionali che si realizzano nella vita di gruppo; la conoscenza

e la capacità di attuazione di più metodologie e più tecniche didattiche si configura

quale approccio imprescindibile per la didattica di oggi.

In questa direzione la realizzazione della professione docente per lo sviluppo di

una didattica inclusiva necessita il superamento della lezione frontale e collettiva

come unica modalità didattica: la classe è infatti una realtà eterogenea e

considerarla come un insieme omogeneo non consente di promuovere la crescita

delle individualità di ciascuno: prendere atto delle diversità significa sostenere i

singoli nello sviluppo dei loro potenziali di apprendimento superando la frustrante

situazione di impossibilità e limitatezza: sull’insegnamento individualizzato ci sono

stati e ci sono tuttora vari fraintendimenti, a volte fino a crederlo coincidente con

quello fatto ad un solo alunno.

Al contrario garantire la simultaneità del diverso, cioè la coeducazione di alunni

con diversi livelli di formazione e diverse competenze trasformano l’eterogeneità in

risorsa per il successo formativo di ciascuno, e ciò è ancor più efficace se tale

approccio viene ampliato attraverso l’utilizzo di diversi mediatori didattici; nella

scuola si utilizzano prevalentemente mediatori simbolici con scarso ricorso invece

ai mediatori di esperienza, iconici e analogici. Si tratta di diversificare le esperienze

di apprendimento offerte agli allievi superando la prassi prevalente, e quasi

esclusiva, dell’uso della parola del docente o del libro.

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D’altra parte si rende necessario considerare nella propria prassi didattica i diversi

stili cognitivi degli alunni in riferimento alla realtà della propria classe, tale

operazione infatti consente all’insegnante di non proiettare e riconoscere come

adeguato solamente il proprio stile cognitivo, ma di valorizzare i diversi stili

proponendo esperienze diversificate che nella loro “pluralità” offrano più possibilità

di apprendimento per tutti gli allievi. Tale operazione ha forti implicazioni nelle

prassi valutative degli alunni, trasformandola da prassi classificatoria, che fa

riferimento al paragonare la situazione di un alunno con un modello prescelto o

con la media della classe, ad una prassi comparativa, in cui valutare significa

attribuire il valore a quanto verificato rapportandolo alla crescita personale

dell’allievo. La valutazione così intesa ha una valenza propriamente formativa

poiché permette di evidenziare il collegamento di quanto realizzato dall’alunno con

il proprio personale processo di crescita.

Tuttavia i cambiamenti suggeriti nella prassi didattica necessitano di cambiamenti

nel paradigma organizzativo all’interno del gruppo docente attraverso lo sviluppo di

un’integrazione tra i docenti; da consiglio di classe a gruppo docente. La prima

condizione di una scuola capace di integrare i propri alunni è che si realizzi

un’integrazione di progettazione e di azione tra i docenti di una stessa classe.

Come non si può dare per scontato che una classe sviluppi delle dinamiche

relazionali positive, così non basta ritrovarsi insieme in un consiglio di classe

perché questo operi come un gruppo docente. Servono consapevolezza

dell’importanza di operare in tal senso, condizioni istituzionali che lo favoriscano e

capacità relazionali che promuovano la crescita di un gruppo di lavoro. Certamente

accanto a queste dimensioni di sistema che abbiamo delineato devono essere

prese in considerazione ulteriori dimensioni legate alla professione docente che si

configurano quali vettori di una didattica volta all’integrazione ed allo stesso tempo

attenta alla formazione degli alunni che meriterebbero spazi appositi per essere

approfondite, quali: la capacità di riconoscere, moderare, promuovere per il meglio

le dinamiche relazionali che compaiono nel gruppo classe, e nelle relazioni tra

docenti e famiglie; il possesso di più tecniche didattiche, che di volta in volta

rendano più agevole l’acquisizione di nozioni diverse; la capacità di organizzare in

più modi il lavoro scolastico, per essere in grado fra l’altro di salvare la produttività

complessiva nelle diverse situazioni.

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Quanto messo in luce evidenzia come lo sviluppo di una didattica inclusiva ed

attenta tanto al bisogno dei singoli quanto al raggiungimento di adeguati standard

formativi trasversali nasce primariamente dallo sviluppo di una professionalità

competente nel corpo docente nel senso di capace di adeguarsi e modellarsi sulla

base del contesto classe in cui si trova ad operare.

È dunque l’insegnante che si configura quale primo mediatore del rapporto

didattico, e pertanto la competenza della professione docente deve svilupparsi

anche nella direzione di riconoscere il mediatore didattico più idoneo alle diverse

situazioni classe in cui è inserito. Il mediatore si interpone tra il soggetto e la realtà

interpretandola e dando modo agli allievi di apprendere. L’insegnante mediatore

offre agli allievi la possibilità di imparare a interpretare, organizzare e strutturare le

informazioni provenienti dall’ambiente. Il mediatore non elimina le difficoltà ma

propone difficoltà graduate, esplicita gli obiettivi, cerca di indurre autonomia negli

apprendimenti stimolando il superamento degli ostacoli. È proprio all’interno di una

azione di mediazione che si può costruire, creare un contesto nel quale le persone

e le loro idee si evolvono continuamente, si modificano, si incontrano,

interagiscono. Il docente si pone in un ascolto continuo delle esigenze dell’allievo e

stimola in lui l’attivazione di schemi elaborativi attraverso i quali poi orienta l’attività

cognitiva dell’allievo determinando un cambiamento che porta ad un

apprendimento costruttivo e non nozionistico. L’insegnante è chiamato a “tras-

formare” il saper da insegnare affinché sia possibile apprenderlo. Strutture,

concetti, contenuti vengono tradotti e rielaborati secondo il livello di sviluppo del

discendente. Un buon mediatore crea un ambiente favorevole, pertanto nelle

situazioni scolastiche, il docente deve essere in grado di affiancare alla parola altre

modalità, capaci di stimolare le diverse forme di intelligenze ed attivare diversi

canali di comunicazione, in modo da coinvolgere tutti gli alunni e da stimolarne la

partecipazione al processo di apprendimento. A tale scopo la metodologia didattica

deve comprendere il maggior numero possibile di tecniche, al fine di rendere vario,

flessibile, ricco ed efficace l’insegnamento.

In tal direzione assumono particolare rilevanza l’utilizzo di strumenti tecnologici

quali ad esempio gli ipertesti che consentono di fare dell’allievo il protagonista del

suo sapere poiché non solo permettono di rendere possibile la ripetizione e quindi

la chiarificazione dei concetti, ma anche offrono la possibilità di autovalutazione da

parte dell’utente offrendo la possibilità di imparare dagli errori. Infine, permettono

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fare leva sull’aspetto ludico-motivazionale. Oltre alla conoscenza di differenti

tecniche utili all’insegnamento, occorre che il docente sappia variarne anche, a

seconda delle situazioni, gli stili, scegliendo di volta in volta diversi mediatori: attivi

(attraverso visite guidate, esplorazione su campo), simbolici (con l’uso e la

manipolazione del linguaggio), iconici (da impiegare soprattutto nel metodo di

studio, per stimolare l’analisi degli oggetti visualizzati), analogici (come i giochi di

simulazione), tecnologici (che racchiudono in sé tutti gli altri tipi di mediatori). Tale

prospettiva si rende necessaria anche alla luce delle attuali condizioni di forte

accessibilità alle fonti di sapere che ridefiniscono il ruolo del docente da detentore

del sapere a veicolo per agli alunni per l’apprendimento di metodi di fruizione

culturale e strumenti che li rendano autonomi nella ricerca e nell’acquisizione di

nuove conoscenze. Il sapere dell’insegnante da oggetto di conoscenza si configura

quindi come punto di partenza per un ulteriore arricchimento culturale e autonomo

da parte dello studente.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica II

Bisogni educativi speciali: prospettive per la didattica

Lezione 4. Cooperative Learning come metodologia per i BES

Tra le numerose metodologie didattiche offerte oggi agli insegnanti quali

metodologie per lo sviluppo di una didattica integrativa, e rispettosa al contempo

sia delle esigenze di insegnamento apprendimento degli studenti sia delle loro

individualità e dei loro bisogni educativi speciali, viene citato il Cooperative

Learning. Il Cooperative Learning o Apprendimento cooperativo, è definito come

una metodologia didattica che sviluppa l’apprendimento del singolo attraverso una

cooperazione attiva tra i compagni di classe.

Il Cooperative Learning, tuttavia non coincide con la pratica di lavoro di gruppo, già

adottata da molto tempo nella scuola italiana. Nel lavoro di gruppo, infatti, al di là

della situazione gruppale, ciascun allievo si preoccupa di imparare per se stesso

senza sentirsi responsabile dell’apprendimento altrui, vi è un solo leader che di

solito guida il gruppo, l’attenzione dei docenti è rivolta maggiormente ai livelli di

apprendimento conseguiti e non alle relazioni instauratesi fra i membri del gruppo,

e la valutazione stessa del lavoro che ricade sul gruppo disincentiva la

partecipazione adeguata di alcuni membri. Vengono dunque a mancare quegli

elementi di organizzazione strutturale che rappresentano le caratteristiche

fondamentali proprie del Cooperative Learning quali l’interdipendenza positiva fra i

membri del gruppo, la responsabilità della leadership condivisa fra tutti i suoi

membri, l’instaurarsi di un’interrelazione positiva (o interazione costruttiva diretta),

l’insegnamento diretto delle abilità sociali (in particolare quelle relazionali)

necessarie a instaurare dei rapporti di collaborazione all’interno del gruppo e la

valutazione non solo individuale ma anche di gruppo. Accanto a tali caratteristiche

i gruppi di Cooperative Learning differiscono dai gruppi di lavoro tradizionali anche

per altri aspetti: la formazione del gruppo secondo criteri di eterogeneità anziché in

maniera omogenea o causale come avviene invece nel gruppo tradizionale; la

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possibilità per l’insegnante di intervenire, dando dei feedback rispetto al modo di

relazionarsi dei membri del gruppo vs interventi di mero recupero o pacificazione

delle tensioni; l’autonomia del gruppo vs i continui interventi dell’insegnante. Il

Cooperative Learning grazie alla sua peculiarità rappresenta un metodo ed un

modello didattico fondamentale per gli studenti con bisogni educativi speciali, infatti

se da un punto di vista metodologico rafforza la motivazione degli studenti e si

adatta maggiormente a coloro i quali hanno necessità particolari, da un punto di

vista sociale migliora e rinforza le relazioni interpersonali fra studenti

“diversamente abili” e “normali”. L’atteggiamento cooperativo del gruppo classe

contribuisce al successo del gruppo ed è più probabile che in questo contesto di

successo anche gli studenti con disabilità o bisogni educativi speciali siano

accettati. Mettere insieme delle diversità, dal momento che ognuno è portatore di

una diversità, offre la possibilità a tutti di arricchirsi. In definitiva la strategia di

apprendimento cooperativo si offre come la possibilità di risposta personalizzata ai

bisogni educativi di ciascuno e a maggior ragione a chi è portatore di bisogni

educativi speciali. La personalizzazione, che si contrappone all’individualismo, e

l’integrazione delle diversità sono occasioni di conoscenza e rispetto delle

differenze, di lavoro comune e modalità di trovare il proprio percorso

individualizzato e personalizzato in un contesto di cooperazione finalizzata al

raggiungimento di obiettivi specifici sia di gruppo che individuali. Di seguito

proveremo a mettere in evidenza alcune caratteristiche dei Cooperative Learning

delineando quali aspetti si configurano come elementi di efficacia di questa

metodologia:

Il primo elemento che caratterizza i Cooperative Learning è la presenza di

un’interrelazione fra i membri del gruppo che, da un lato è finalizzata a raggiungere

l’obiettivo della conoscenza, e dall’altro persegue il superamento dei conflitti

all’interno delle relazioni instauratesi nel gruppo. L’interazione che si sviluppa

all’interno di tali gruppi pertanto non è fine a sé stessa ma è volta a sviluppare un

senso di fiducia reciproca e di accettazione dell’altro. Tale senso di fiducia passa

dal riconoscimento della diversità delle idee dall’altro e dalla condivisione di risorse

e delle paure all’interno del gruppo, nell’ottica di un reciproco sostegno. Tale

prospettiva infatti si offre quale volano per lavorare non solo sugli obiettivi

dell’apprendimento in sé legati alle diverse discipline di studio, ma anche quale

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momento per sperimentare relazioni positive, che potranno rivelarsi preziose nei

momenti di difficoltà che potrebbero essere incontrate nel percorso scolastico.

Il secondo elemento imprescindibile per il Cooperative Learning è il riconoscimento

del bisogno dell’altro quale componente competente per il raggiungimento del

risultato del gruppo. Tale prospettiva di interdipendenza positiva offre una

prospettiva del successo come frutto di un lavoro di squadra in cui ognuno ha

specifiche responsabilità individuali definite dal ruolo che viene attribuito. Questo

comporta che ognuno deve essere messo in grado di conoscere la finalità

generale del lavoro di gruppo, i metodi da utilizzare e gli strumenti da adottare.

Gli aspetti delineati mettono in luce il ruolo principe delle abilità sociali e relazionali,

tuttavia è luogo comune che tali abilità siano innate e non necessitino di alcuna

spiegazione o che non possano essere affinate più di tanto. Le conoscenze e le

abilità sociali relative alla gestione dei rapporti all’interno del gruppo devono essere

insegnate allo stesso modo in cui si insegnano le conoscenze e le abilità

disciplinari. Tuttavia, la trasformazione delle abilità sociali in competenze sociali è

un processo piuttosto lungo; si tratta quindi di un risultato di prospettiva ma

necessario per lo sviluppo di un processo di apprendimento cooperativo.

L’esperienza dei cooperative learning mette in luce come la mancanza di abilità

sociali è uno degli ostacoli principali, specie all’inizio di un percorso di

apprendimento portato avanti secondo tale metodologia. La capacità di

comunicazione, la capacità di prendere decisioni, la funzione di guida, le strategie

di soluzione positiva dei conflitti sono tutte abilità sociali che si possono e si

devono apprendere nei gruppi di lavoro cooperativo.

Un ulteriore caratteristica del Cooperative Learning è la capacità di sviluppare nel

gruppo una componente auto valutativa, capace di prendere in considerazione il

proprio processo di formazione e di individuare gli elementi positivi e negativi delle

proprie azioni, al fine di modificare alcuni comportamenti che possono incidere

sull’efficacia del lavoro di gruppo e di conseguenza sull’apprendimento. In questo

senso il Cooperative Learning si configura quale metodologia didattica auto

regolativa in grado di offrirsi autonomamente dei feedback e quindi di mettere in

atto prospettive di cambiamento autonome e funzionali. Oggetto di valutazione

sono sia i comportamenti individuali che quelli del gruppo nel suo complesso,

anche rispetto ai risultati raggiungibili da un punto di vista didattico. Data la

specificità di tale metodologia il Cooperative Learning si distingue anche da altre

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forme di approccio collaborativo (ad esempio il tutoraggio) rappresentandosi allo

stesso tempo sia quale ambiente di lavoro sia come strategia didattica specifica. Al

di là delle teorie e delle tecniche alla base del Cooperative Learning, viene

riconosciuta in maniera unanime la centralità dell’effettiva ed efficace cooperazione

fra gli alunni per lo sviluppo del processo di apprendimento; la collaborazione tra

alunni risulta l’elemento centrale in tutte le tecniche che si basano sulla

mediazione sociale ed ancor più nel caso dell’apprendimento cooperativo. La

dimensione cooperativo-interattiva si configura quale presupposto essenziale per

un’educazione efficace di tutti gli allievi, compresi quelli che sono a rischio di

dispersione, quelli che sono portatori di difficoltà e bisogni speciali e quelli

diversamente abili.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica II

Bisogni educativi speciali: prospettive per la didattica

Lezione 5. la costruzione del gruppo-classe come condizione per l’integrazione

Il passaggio dall’inserimento all’integrazione dei soggetti disabili o con bisogni

educativi speciali trova nel clima relaziona interno alla classe un elemento di

mediazione essenziale Al di là delle dimensione tecnico metodologiche messe in

atto dagli insegnanti è quindi necessario spendere alcune parole sul ruolo svolto

dal clima classe nelle prassi di insegnamento quale condizione contestuale entro,

e per mezzo del quale, si realizza l’integrazione scolastica degli alunni con bisogni

educativi specifici e con disabilità certificate.

L’aspetto socio-affettivo all’interno delle relazioni tra scolari e tra scolari ed

insegnanti riveste un ruolo fondamentale nei processi. Questo aspetto, gestito

spesso inconsapevolmente dai docenti all’interno della classe, può contribuire non

poco, alla qualità dell’apprendimento e può permettere positive interazioni tra

docenti e discenti creando le basi per l’attuazione della programmazione didattica,

rendendone più autentici i contenuti didattici ed educativi. La relazione è un

elemento fondamentale, che veicola e stimola gli apprendimenti. Non è facile

mediare gli aspetti relazionali con quelli cognitivi e solo la consapevolezza, dei

docenti, dell’interdipendenza dei due aspetti, permette l’attuazione di

apprendimenti significativi. Siamo consapevoli che all’interno di un gruppo classe,

le dinamiche che vengono a scatenarsi sono molteplici e sono legate a contesti

diversi, sempre più vari e questo non facilita certamente la gestione del gruppo. La

dinamica di gruppo è fondamentale al fine di un buon insegnamento e, soprattutto,

di un buon apprendimento. Senza la creazione di una relazione di classe positiva,

si rivela inutile ogni riflessione su come insegnare, su come costruire situazioni che

consentano apprendimento e su come procedere in maniera efficace. È infatti

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all’interno del contesto classe che si realizza il processo di integrazione perché

costituisce il contesto naturale di sviluppo della relazione insegnante-alunno.

Il gruppo-classe, inoltre, rappresenta la struttura di base attraverso cui

l’organizzazione scolastica persegue gli obiettivi istituzionali dell’acquisizione

sistematica e programmata di conoscenze ma costituisce anche l’ambito entro il

quale si manifestano bisogni di natura individuale, differenti da quelli istituzionali,

ad esempio il bisogno di avere amicizia, di conquistare prestigio o di scaricare

aggressività Quest’ultimo aspetto caratterizza profondamente il processo di

socializzazione ed è spesso considerato dagli insegnanti l’ambito all’interno del

quale si manifestano problemi di relazione tra gli alunni e tra gli alunni e il corpo

docente. D’altra parte non sempre l’insegnante riesce a cogliere correttamente la

qualità e la quantità dei rapporti interpersonali che si instaurano all’interno di una

classe. Il gruppo di bambini dà a ciascuno la necessaria sicurezza e costituisce un

insieme funzionale le cui attività si evolvono a partire dagli scambi tra i bambini

stessi, dagli scambi tra questi e gli insegnanti e dai cambiamenti che gli alunni

contribuiscono a suscitare nell’ambiente.

Considerare in tale direzione il contesto classe implica riconoscergli un ruolo

formativo essenziale, oltre la funzione contenitrice, ma quale luogo entro e per

mezzo del quale è possibile garantire una positiva esperienza scolastica per tutti

gli alunni. Le classi inizialmente si presentano come aggregato di alunni, non come

gruppo, che, al contrario rappresenta un obiettivo da perseguire da parte degli

insegnanti, non un punto di partenza. Affinché ciò si realizzi è necessario creare e

mantenere un equilibrio tra la dimensione dell’efficienza e quella dell’affettività,

riuscendo così a garantire ai suoi membri una produttività adeguata alle proprie

capacità all’interno di un buon clima sociale. La socializzazione si configura quindi

come principio metodologico alla base delle prassi didattiche, come veicolo

affinché ogni alunno viva i rapporti con i compagni e con l’insegnante in una

dimensione dialettica, ovvero una dimensione in cui gli interlocutori sono in grado

di prendere in reciproca considerazione il valore dell’altro. Il clima classe,

rappresenta il contesto socio-psicologico in cui avvengono le relazioni, e scaturisce

come risultante delle modalità di svolgimento dei rapporti. La costruzione di un

clima umano positivo è un elemento fondamentale per favorire la formazione in

tutti i suoi membri di benessere psicologico e di un’identità positiva; inoltre questo

consente al gruppo di raggiungere una coesione sempre maggiore, fino a maturare

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un senso di appartenenza alla classe che consente l’integrazione piena di tutti i

suoi membri.

La trasformazione di un gruppo di alunni in un gruppo classe è il risultato di

un’attività didattica individualizzata e personalizzata che permetta all’alunno di

fissarsi degli obiettivi da raggiungere di tipo personale e di potersi confrontare

all’interno di questa personalizzazione degli obiettivi con i risultati ottenuti dagli

altri; i gruppi-classe i cui insegnanti “spingono l’acceleratore” solo sulla dimensione

dell’efficienza, rischiano di creare dinamiche personali e sociali che innescano

circoli viziosi di insuccesso scolastico. La realizzazione del gruppo classe al

contrario si realizza attraverso la dimensione dell’affettività/socialità, ovvero quegli

aspetti della realtà interpersonale che riguardano l’attenzione alla persona, al suo

trovarsi a proprio agio, al suo sentirsi accettata e valorizzata. La costruzione del

gruppo classe passa dall’offerta da parte dell’insegnante di opportunità per

l’instaurarsi di relazioni significative che permettano ad ognuno di introdursi nei

rapporti interpersonali come persone autentiche con propri bisogni, aspettative,

idee e interessi.

Una scuola ad hoc dovrebbe essere caratterizzata da un buon clima interno

impostato al rispetto reciproco e al dialogo, all’ascolto e ad una collaborazione che

non esclude conflitti, ma ha la capacità di riconoscerli ed elaborarli per metterli al

servizio dello sviluppo e non delle forze regressive della mente. La scuola va

intesa come un "sistema di rapporti" che promuova la crescita e lo sviluppo delle

persone e non badi solo alle regole esteriori e formali. Le relazioni vanno

improntate allo sforzo di far fronte alle difficoltà piuttosto che a cercare di eluderle

in maniera illusoria. Si dovrebbero formare soggetti e gruppi che si muovano nella

prospettiva di lavorare insieme per individuare soluzioni di problemi e per

dialogare. Cosi facendo, il fine ultimo della scuola non è solo quello di trasmettere

sapere e cultura e introdurre gli individui nella società, ma anche quello di

svilupparne le potenzialità a tutti i livelli, quello emotivo-relazione compreso.

Il gruppo classe costituisce una risorsa educativa e didattica dove ognuno può

attingere l’energia ed il sostegno per dedicarsi alla propria autorealizzazione; è un

luogo in cui è possibile costruire insieme con gli altri la propria mappa cognitiva e

la propria personalità. Coltivando in classe il benessere, l’accoglienza, la

solidarietà e la responsabilità, si rende più piacevole ed efficace il processo di

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formazione. L’esistenza di un gruppo ed il suo sviluppo psico-sociale sono

determinati dalla realizzazione al suo interno delle seguenti componenti essenziali:

1) un’influenza reciproca: affinché un gruppo esista, è necessario che tra i suoi

partecipanti ci sia un’influenza reciproca, che, cioè, i singoli individui

interagiscano tra di loro e che il gruppo come tale incida, a sua volta, sul

comportamento di ogni individuo;

2) la percezione di ogni individuo di essere parte di un gruppo; prescinde

dall’effettiva partecipazione alle attività sociali del gruppo-classe. Questa

componente è necessaria per costruire una unità di gruppo che consenta di

ricercare una coerenza psicologica nei rapporti e nelle azioni, in maniera che

ogni individuo interagisca nell’ambiente sociale non più come singolo, ma come

gruppo. Nell’ambiente scolastico, in genere, la percezione soggettiva di far

parte di un gruppo-classe si verifica molto lentamente; è un processo

psicologico che matura gradualmente nel tempo e che non raggiunge gli stessi

risultati per tutti gli alunni;

3) una concordanza negli obiettivi da raggiungere; è importante che i partecipanti

al gruppo-classe abbiano una meta comune, perché il raggiungimento di uno

scopo dà senso all’esistenza del gruppo. In genere, le finalità che una classe

tende a raggiungere sono di tre tipi: aspetto di conoscenza, ovvero

l’interiorizzazione e l’elaborazione di informazioni, lo sviluppo di capacità di

strutturazione logica e di interpretazione dell’esperienza, l’acquisizione di

conoscenze specifiche e dettagliate delle materie di studio; aspetto didattico

inteso nei termini di efficacia delle attività disciplinari, stimolazione delle

capacità di ogni alunno e delle sue procedure di intervento, l’acquisizione di

competenze tecniche e operative; aspetto psicologico, nei termini di crescita

interpersonale, sviluppo di capacità di collaborazione e di relazione nel lavoro

di gruppo;

4) le regole di comportamento accettate da tutti i partecipanti. Le norme

scolastiche, esplicitamente oppure implicitamente stabilite, hanno la funzione di

regolare le attività che si svolgono nel gruppo. Per questo è necessario un

certo grado di osservanza di esse (conformità) affinché il gruppo possa esistere

e funzionare. Ciascun individuo deve osservare le regole del gruppo e si

aspetta che gli altri facciano altrettanto. Si è rilevato che, in genere, quando

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l’alunno rispetta le regole, gli altri componenti del gruppo attuano

spontaneamente delle ricompense emotive e didattiche, mentre, quando ciò

non si verifica, essi applicano delle sanzioni a chi viola la norma, con la

conseguente emarginazione dal gruppo stesso. Le regole possono essere

esplicite (orario di entrata e di uscita da scuola, giustificazione dopo

un’assenza, ecc.) o implicite (non parlare o non distrarsi durante le lezioni, non

uscire dall’aula senza permesso, ecc.). Comunque esse siano, è stato rilevato

che le regole imposte al gruppo da parte di una persona dotata di autorità

(insegnante) vengono osservate soltanto se si effettuano controlli con

ricompense o punizioni. Regole concordate in un rapporto di autorevolezza,

vengono interiorizzate spontaneamente, per cui ciascun alunno le considererà

come proprie e sarà intrinsecamente motivato ad osservarle.

Sentirsi accettati nel gruppo, valorizzati per le proprie competenze, oggetto di

aspettative positive da parte degli altri e inseriti in una rete di rapporti amichevoli

sono bisogni fondamentali di ogni individuo, il cui soddisfacimento influisce in

modo consistente sullo sviluppo del concetto di sé, sul comportamento sociale, ma

anche sul rendimento scolastico. Per questo motivo è importante che il gruppo

docente riconosca le strutture interattive nella concretezza della vita delle proprie

classi ed individui gli interventi che consentano una loro evoluzione favorevole ad

una positiva intersoggettività nel gruppo.

Nel progettare in modo innovativo l’organizzazione didattica, la scuola, anziché

assegnare alla classe il ruolo di unità amministrativa intorno alla quale far ruotare

rigidamente tutte le attività scolastiche, pone l’attenzione primaria sulla

personalizzazione dei loro apprendimenti. Al docente è richiesto di salvaguardare il

gruppo classe come comunità, quando gli alunni sono chiamati a svolgere

prevalentemente attività omogenee ed unitarie. Il gruppo classe rimane quindi uno

spazio irrinunciabile quando contribuisce a ridurre gli scarti di partenza dei

bambini, quando la sistematicità del lavoro offre stimoli a tutti i livelli e quando è

possibile organizzare l’attività in modo che gli alunni più competenti supportino

efficacemente gli alunni meno competenti.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica III

Prospettive per lo sviluppo di un sistema didattico integrativo

Lezione 1. Scuola e Teoria Generale dei Sistemi

Lo studioso a cui viene attribuita la Teoria Generale dei Sistemi è von Bertalanffy il quale

descrisse una serie di principi e di modelli interdisciplinari applicabili a tutti i sistemi. Secondo

l‟autore, per comprendere un fenomeno, è necessario studiarne gli elementi che lo

compongono non solo nelle loro peculiarità ma anche e soprattutto nella loro interazione. La

Teoria Generale dei Sistemi nacque come risposta alle nuove conoscenze che la biologia

cominciò a sviluppare nei primi anni del secolo XX.

Storicamente la si può ritenere scaturita da due diversi fattori quali l‟esigenza di riconoscere

“scientificità” alle scienze del comportamento - psicopedagogiche e sociali -, e il bisogno delle

scienze dei sistemi di elaborare una teoria più ampia che superasse la divisione e l‟isolamento

tra le varie discipline. Tra gli anni „80 e „90 venne estesa alla psicologia dello sviluppo e venne

considerata in relazione al contesto scolastico, in particolare alla relazione bambino-

insegnante. Approcciare la scuola e la didattica secondo l‟ottica sistemica significa guardarla

contemporaneamente come sovra sistema, ovvero come apparato burocratico, differenze

gerarchiche e generazionali, e come sottosistema, cioè come rete di relazioni che crea “la realtà

di quella specifica scuola”; significa riconoscerla come un vasto ed ampio sistema aperto allo

scambio con l‟esterno e allo stesso tempo chiuso al suo interno. L‟individuo - insegnante,

allievo, genitore - quindi, non considerato più come monade, può essere osservato, nel contesto

scolastico, come membro di uno o più sistemi relazionali (es. la relazione insegnante-allievo/i;

insegnante-colleghi; insegnante/i-genitore/i degli allievi ecc.). La pragmatica della

comunicazione umana e gli ulteriori sviluppi dell‟approccio promosso dalla prospettiva della

Teoria Generale dei Sistemi possono offrire strumenti utili alla comprensione e allo studio dei

comportamenti comunicativi e relazionali a scuola e ai differenti significati che essi possono

assumere per i differenti soggetti che entrano in relazione. Condizione necessaria perché si

stabilisca un sistema, e che sia mantenuto come tale, è che i diversi elementi che lo

compongono possano interagire tra loro scambiandosi informazioni; le parti agiscono in

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maniera organizzata e interdipendente al fine dell‟adattamento e della sopravvivenza delle

unità nel complesso. Un intervento sistemico non è sugli elementi , ma sulle relazioni e sulle

interazioni tra di essi; nessun individuo può essere compreso al di fuori del contesto in cui vive.

La Teoria Generale dei Sistemi fornisce agli insegnanti non solo utili suggerimenti per

impostare, in modo proficuo relazioni tali da promuovere sviluppo e, nell‟ambito di situazioni

di rischio, realizzare percorsi favorenti un miglioramento del comportamento dei bambini in

difficoltà, ma offre anche una serie di principi per penetrare e comprendere la complessa natura

dei percorsi evolutivi del bambino e dei sistemi nei quali è immerso. I principi della Teoria

Generale dei Sistemi mettono in evidenza la necessità di comprendere il comportamento delle

parti in relazione al tutto e la comprensione delle dinamiche del tutto in relazioni alle parti.

Come dire che le modalità di relazione dell‟insegnante, nel contesto della classe, permettono di

comprendere il comportamento sociale del bambino e possono prevederne il miglioramento. I

sistemi sono unità composte di diverse parti interconnesse che agiscono in modo organizzato e

interdipendente per promuovere l‟adattamento o la sopravvivenza dell‟unità intera. Ogni

contesto come comunità, scuola, classe, gruppi, famiglie e ogni procedura come pratiche

disciplinari o linguistiche, relazioni bambino-insegnante, situazioni di apprendimento, regole di

gioco ecc. sono sistemi che implicano differenti livelli di interazione e differenti attori

interagenti e che quindi non possono essere considerati isolatamente e/o indipendentemente

uno dall‟altro. L‟analisi dei sistemi evolutivi permette, quindi, di comprendere la loro influenza

reciproca nei contesti scolastici. In modo notevolmente diverso da quello proprio di altre

organizzazioni, il sistema scolastico vive naturalmente in una condizione di continua

instabilità, generato dal cambiamento continuo di una parte dei suoi membri, e dalla la rapidità

con cui i membri che si succedono agli altri introducono, al suo interno, aspettative, idee,

orientamenti e valori di un sistema sociale in continuo movimento.

Questo tipo di situazione risulta notevolmente interessante. Costituendosi nella zona di confine

tra l‟organizzazione propria della scuola e il resto della società, il sistema scolastico- come

anche il sistema familiare- richiede, per essere studiato e conosciuto, concetti dinamici ed

evolutivi quali quelli richiesti dai sistemi lontani dall‟equilibrio. Nonostante il cambiamento

costante dei suoi membri, il sistema scolastico ancora la sua stabilità organizzativa alla legge

della distribuzione del potere al suo interno. La distribuzione del potere all‟interno di un

sistema interpersonale è questione assai complessa anche se volessimo occuparci di relazioni

tra due soli soggetti. Riguardo alla distribuzione del potere nel sistema scolastico, ci limiteremo

qui a ricordare:

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a) i membri di un sistema relazionale sono ordinati in una gerarchia che permette di

distinguere le diverse generazioni: nel caso della famiglia i genitori e i figli; in quello della

classe il maestro e gli allievi e così via; dal punto di vista del potere e della sua

distribuzione, la divisione in generazioni dei membri di un sistema ha spesso importanza

decisiva;

b) i membri di un sistema relazionale possono contrarre fra loro alleanze e/o coalizioni di

vario tipo: si tratta di alleanze e/o coalizioni che possono avere conseguenze importanti in

termini di potere;

c) i membri di un sistema relazionale aperto hanno la possibilità di ottenere l‟appoggio di

figure autoritarie o di regole istituzionali che si trovano fuori al sistema e che hanno

tuttavia influenza su di esso (sistema sanitario, giudiziario ecc). La distribuzione del potere

comunque non crea solo vincoli ma introduce anche possibilità.

È all‟interno di questo complesso sistema di relazioni e nell‟incontro con l‟insegnante che il

bambino prende coscienza del come relazionarsi con gli altri, regolando la propria esperienza

all‟interno della classe. Tuttavia, non è da sottovalutare l‟influenza esercitata dalla cultura

locale e dalla comunità, anche se in modo indiretto, sull‟educazione dei bambini. Esse

indicano i momenti importanti della vita; l‟apprendimento della cura della persona, l‟entrata

nella scuola, con tappe prestabilite per età, quando imparare a leggere e a scrivere con la

conseguente accettazione della verifica e della valutazione sui percorsi educativi e di

apprendimento. Le tappe sono istituzionalizzate, l‟assegnazione alle classi per età e per

numero sono dettate dall‟amministrazione scolastica. Anche i piccoli gruppi, come famiglia,

scuola, classe hanno i loro codici che influenzano i comportamenti, indirizzandoli a uno

scopo. In questa prospettiva gli insegnanti potrebbero adottare un sistema di gestione del

comportamento che preveda conseguenze costanti per un certo comportamento (sia positivo

che negativo) in modo tale che le reazioni dell‟adulto siano prevedibili e nel bambino si

formi una valida struttura che gli indichi quanto sia importante valutare le conseguenze del

proprio comportamento. Nelle interazioni tra due persone, specialmente bambino-insegnante,

c‟è bisogno di tempo, di assiduità nei contatti per conoscersi a fondo e le aspettative vengono

esplicitate sulla base della fiducia reciproca. Il meccanismo di regolazione nei rapporti spesso

avviene per prove ed errori. La regolazione della diade insegnante allievo si realizza tramite

codici individuali. Questi codici coinvolgono i sentimenti e le credenze che gli adulti hanno

riguardo al come ci si debba comportare con i bambini; ciò che ci si può attendere da essi e in

che modo. Tali sentimenti e tali credenze si manifestano nell‟interazione quotidiana che

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possiamo definire microregolazione; la reciprocità, la sensibilità, la coordinazione e la

sincronia ne costituiscono gli aspetti più importanti. La prospettiva sistemica considera

importante la relazione bambino-insegnante, ne evidenzia le qualità dinamiche e interattive

perché dà valore anche a quello che i bambini si aspettano dall‟adulto. Le credenze del

bambino nei confronti dell‟insegnante possono influenzare il rapporto e provocare, con il

loro comportamento, nell‟insegnante stesso reazioni positive o negative dal punto di vista

emotivo e comportamentale. Anche il bambino costituisce un sistema strutturato secondo

unità interdipendenti e organizzate tra loro che non possono essere studiate separatamente;

l‟unità biologica con potenzialità funzionamento e, qualche volta, deficit, lo sviluppo motorio

e linguistico, gli aspetti cognitivi ed emozionali un tutto espresso nella singola personalità

con le sue peculiari caratteristiche. Quando le pratiche educative si concentrano

esclusivamente su uno di questi ambiti (es. la lettura ad alta voce di un soggetto insicuro non

raggiunge livelli di prestazione ottimali), si può verificare che nell‟insegnante si rafforzi

l‟idea che il bambino possa essere valutato su ciascuno dei singoli comportamenti e non su

una gamma di aspetti che riflettono funzioni integrate scaturite anche dalle situazioni in cui si

manifestano. Dalla concettualizzazione del bambino e del suo funzionamento derivano

implicazioni nel contesto scolastico. Le previsioni sul rendimento, gli indicatori di progresso,

gli obiettivi educativi sono tutti influenzati dall‟immagine del bambino come sistema

educativo nel contesto delle relazioni sociali. Ovviamente, come il bambino è considerato

facente parte di un sistema globalmente strutturato a cerchi concentrici, così è da considerare

l‟insegnante che interagisce con lui; anche quest‟ultimo instaura relazioni diadiche, che, di

volta in volta, hanno come riferimento l‟alunno, il partner, i figli, o i propri genitori; fa parte

di piccoli gruppi. È inserito, infine, in gruppi più ampi in seno alla comunità in cui vive.

Tutto ciò può influenzare il singolo rapporto in modo del tutto inconsapevole, ma non senza

effetti sui meccanismi di regolazione dell‟esperienza che il bambino fa nel contesto classe,

sia dal punto di vista emotivo che dal punto di vista relazionale con l‟insegnante e con i pari,

fornendo occasioni utili per modellare i propri processi di autoregolazione in via di sviluppo.

La teoria presentata non considera il cambiamento di ciascun sistema in termini di

acquisizione di nuove competenze, ma è visto come una riorganizzazione o trasformazione,

in termini discontinui, che interessa il sistema considerato. La complessità della relazione in

trasformazione tra i sistemi va oltre il comportamento del singolo bambino; alla base dei

processi di cambiamento nell‟organizzazione dei sistemi proposti dalla Teoria Generale dei

Sistemi vi sono i concetti di auto-stabilizzazione e di autorganizzazione. L‟auto-

stabilizzazione consente al sistema di rispondere ai mutamenti richiesti dall‟esterno senza che

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sia necessario riorganizzare le caratteristiche interne. Le richieste di cambiamento

consentono l‟adattamento attraverso il riequilibrio delle dinamiche interne senza la necessità

di modificare la struttura di base o del sistema. L‟autorganizzazione richiede, invece, un

processo di completa ristrutturazione di sé quando alcune richieste sono costanti e intense. Le

caratteristiche del sistema non garantiscono una risposta adeguata alla richiesta e, quindi,

vengono progressivamente riadattate. I cambiamenti previsti dalla Teoria Generale dei

Sistemi necessitano di tempo per potersi verificare e realizzarsi pienamente data la

complessità del singolo sistema e dei sistemi dei quali fa parte.

La Teoria Generale dei Sistemi, all‟interno delle prassi didattiche si propone quindi come

radicale cambiamento nei termini di sviluppo di visioni sintetiche di situazioni molto

complesse, ricche di dati interdipendenti l‟una dall‟altra, che presuppone che si costruisca

all‟interno della mente uno scenario globale, che rappresenti il sistema di riferimento su cui

si debba lavorare localmente. Pertanto sembra configurarsi quale modello teorico ed

epistemologico su cui poggiare le nuove concezioni e metodologie didattiche in grado di

concepire gli alunni nella loro totalità e specificità all‟interno del sistema scolastico, e quindi

di favorire l‟adozione di prassi a sostegno dell‟integrazione educativa e didattica.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica III

Prospettive per lo sviluppo di un sistema didattico integrativo

Lezione 2. La teoria della mente nei contesti di insegnamento apprendimento

La Teoria della Mente consente di capire non solo gli stati mentali, (ossia, emozioni, desideri,

credenze) di chi entra in relazione con noi, ma anche intuire o prevedere il suo

comportamento, poiché solo se siamo in grado di prendere in considerazione ciò che l‟altro

“ha in mente”, saremo in grado di interagire con lui, entrare in relazione e capire quello che

dice, perché reagisce o si comporta in quel modo. La Teoria della Mente può essere

concepita come la capacità meta-rappresentativa di stati mentali complessi che si sviluppa in

relazione ai contesti socio-culturali a partire dal possesso innato di capacità di regolazione

delle attività a capacità di fare inferenze. È un processo concettuale che permette di elaborare

le informazioni e di produrre costrutti teorici sugli stati mentali.

Tale processo viene affinato nel tempo ed in questo processo assume un ruolo chiave la

figura del docente che nel rapporto col bambino, può giocare un ruolo importante, per lo

sviluppo della capacità di quest‟ultimo di saper cogliere e gestire i propri e gli altrui stati

cognitivi, emotivi e comportamentali. Capire che cosa c‟è dietro uno stato di agitazione o di

apparente disinteresse per le attività che si svolgono in classe, un‟aggressione o, ancora, un

isolamento, considerandoli linguaggi non verbali, permette di offrire un contenimento a tali

situazioni attraverso la vicinanza, la comprensione e il dialogo. La teoria della mente può

essere definita come l‟abilità di assumere la propria e l‟altrui prospettiva. La capacità di

interagire in modo adattivo, con le persone con le quali si viene a contatto, può essere

raggiunta solo se si sviluppa e si rende sempre più funzionale la capacità di comprendere il

loro comportamento attraverso un‟inferenza sui loro stati mentali (intenzioni, desideri,

credenze, sentimenti) ad essi sottostanti. Essa si sviluppa sin dai primissimi anni di vita, si

matura durante l‟età prescolare, e il suo sviluppo continua anche in età adulta. Ogni persona

nel rapporto con gli altri quotidianamente utilizza questa abilità. Per questo, la Teoria della

Mente è stata anche definita come psicologia del senso comune, essa, infatti, permette di

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comprendere anche il contesto sociale nel quale si vive e adattarsi ad esso. La Teoria della

Mente ha una funzione sociale che va al di là della comprensione degli altri basata

sull‟osservazione dei movimenti del corpo o sul significato letterale delle singole parole.

Essa ci permette, infatti, di attribuire stati mentali per spiegare, predire e agire sul

comportamento proprio e altrui. Per questo in ogni attività comunicativa è necessario, per

una corretta e reciproca comprensione, immergerci nel concreto uso del linguaggio,

conoscere il significato che gli interlocutori impongono ai termini usati, cogliere i segnali e i

feedback, assicurarsi che quanto è stato detto sia stato compreso correttamente specialmente

quando viene usato un linguaggio figurato. Mentre interagisce con gli altri, il bambino che

mentalizza, impara a dare senso al loro comportamento, in un certo senso lo prevede e riesce,

a mettere in atto comportamenti adattivi più consoni alla situazione che vive, per cui questa

abilità esercita, non solo una funzione sociale, ma anche una funzione adattiva. Inoltre è

proprio grazie allo sviluppo di un pensiero sul proprio pensiero che il bambino comincia a

riflettere sui propri processi mentali, cerca di capire che cosa lo spinge ad agire in un certo

modo, pensa prima di agire, mettendo in atto, tra le possibili alternative, esaminate

mentalmente, la soluzione meno problematica. Da una prospettiva più legata alla psicologia

la competenza alla mentalizzazione fa parte dell‟organizzazione del Sé, essendo essa una

delle caratteristiche che definiscono il Sé insieme alla coscienza del Sé, l‟autonomia e la

funzione riflessiva.

Se nel contesto primario della famiglia il bambino impara a relazionarsi con gli adulti

attraverso il primo sviluppo della teoria della mente, è nella scuola che egli trova uno spazio

protetto, un tempo, con i suoi ritmi ai quali adattarsi, e rapporti costanti con persone che gli

forniscono gli aiuti di cui ha bisogno per migliorare le sue già acquisite abilità di

mentlizzazione. Questo aspetto, molto importante, è sotteso al fatto che la scuola, per

istituzione, rappresenta il contesto privilegiato per la crescita cognitiva, affettiva e sociale. La

scuola, quindi, esercita un‟influenza decisiva sul bambino, in una fase in cui in lui si aprono

nuovi orizzonti, mette alla prova se stesso e gli altri, può soddisfare il desiderio di

acquisizione di nuove conoscenze, per aiutarlo a sviluppare e potenziare la teoria della

mente. Quando egli entra nella scuola, comincia a confrontarsi con i propri pensieri e quelli

degli altri e, quindi, ad affrontare più agevolmente il processo di scolarizzazione. Tale

processo richiede che il bambino trovi le modalità per inserirsi nel gruppo dei pari, valuti se e

quando partecipare ai giochi con i compagni, se e quando rispondere alle domande che gli

vengono rivolte o prendere la parola durante le lezioni. Questo tipo di decisioni vengono

prese dal bambino in base ai criteri suggeriti dalle abilità meta cognitive.

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Lo sviluppo della competenza meta cognitiva negli alunni è universalmente riconosciuta

come necessaria per migliorare le prestazioni in compiti cognitivi; quanto più una persona è

cosciente di ciò che fa e di come la propria mente lavora, tanto più ottiene risultati positivi

nelle attività che esegue. In questa prospettiva, pertanto, le difficoltà evidenziate da alcuni

studenti nel lavoro scolastico possono dipendere non da una carenza nelle abilità

metacognitve di base, che di conseguenza non permettono ad un alunno di ottenere scarsi

risultati perché organizza il proprio lavoro in modo poco funzionale agli obiettivi che si

prefigge. L‟obiettivo del lavoro didattico sulla componente metacognitiva è quello di offrire

agli alunni l‟opportunità di imparare ad interpretare, organizzare e strutturare le informazioni

ricevute dall‟ambiente, riflettere su questi processi e divenire sempre più autonomi.

L‟avvicinamento dell‟alunno alle dimensioni meta cognitive passa da operazioni semplici

relative al pensiero proprio e altrui; imparare a distinguere tra il significato di

un‟affermazione (contenuto proposizionale), individuare, nei diversi brani letti, il punto di

vista dell‟autore, le sue intenzioni, le sue credenze, qualche volta è anche richiesto di pensare

una conclusione diversa da quella offerta dall‟autore. In questo modo il bambino è

incoraggiato a sviluppare un pensiero critico che può facilmente essere collegato alla

comprensione della falsa credenza; può, cioè , riflettere sulle proprie e altrui credenze,

riconoscere i propri errori e valutare i punti di vista degli altri. La scuola, nel favorire le

attività di scolarizzazione, richiede al bambino, nello stesso tempo, capacità di

mentalizzazione, considerandola indispensabile per vivere nei diversi contesti in modo

adattivo, ma va anche tenuto conto dell‟importanza dell‟interpretazione del pensiero

dell‟altro, di chi, cioè, è nella fase di apprendimento, quando si vogliano studiare i processi di

insegnamento-apprendimento. L‟insegnante assolve il suo mandato se comprende ciò che il

bambino già sa, ciò che vuole sapere, il suo stato emotivo, utilizzando la teoria della mente

per regolare il proprio comportamento sulla base degli stati mentali di chi deve apprendere.

D‟altra parte il bambino, già all‟età di cinque anni, è in grado di mettere in relazione quello

che l‟educatore insegna con le credenze (vere o false) che egli ha sul suo conto come

discente. Pertanto, non si può considerare il rapporto tra teoria della mente e interazione

educativa solo dal punto di vista del docente, ma tale interazione dovrebbe essere osservata

anche nel discente quando la utilizza nel momento in cui fruisce dell‟intervento educativo. Si

apprende, infatti, non tanto quando l‟altro agisce su di noi, quanto attraverso l‟altro. In questo

modo si costruisce la propria conoscenza in maniera intersoggettiva attraverso la

comprensione della mente altrui.

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Sostanzialmente si posso individuare tre modi di apprendere: per imitazione, mediante

istruzione, e utilizzando la collaborazione. Queste modalità di apprendimento possono essere

correlate ai tre concetti base della teoria della mente cioè la comprensione delle intenzioni, la

falsa credenza di primo ordine e la falsa credenza di secondo ordine. L‟apprendimento per

imitazione avviene quando il bambino inferisce correttamente, osservando il comportamento

dell‟insegnante, le intenzioni di questo finalizzate al conseguimento del risultato . Gli autori

definiscono in questo caso l‟altro come “agente intenzionale” (x tenta di... ). Si apprende

tramite istruzione attraverso il confronto comunicativo dei diversi punti di vista che possono

essere esposti, spiegati, confrontati tra docente e discente nella relazione educativa.

L‟apprendimento tramite istruzione è reso possibile dal possesso del concetto dell‟altro come

“agente mentale” (x pensa che …). L‟apprendimento collaborativo (l‟idea di base è che x

pensa che y pensi che z... ) è connesso con la capacità di pensiero ricorsivo complesso. Se

l‟insegnante considera l‟alunno come agente mentale che impara attraverso il riconoscimento

e il confronto delle proprie e delle altrui credenze, ci troviamo di fronte al modello che gli

autori definiscono “scambio intersoggettivo”, in cui l‟alunno è considerato lui stesso

costruttore di conoscenza e cultura. Il dialogo e la collaborazione portano necessariamente ad

utilizzare forme linguistiche basate sul possesso di credenze che permettono ai partner di

riconoscere gli stati mentali propri e altrui e di riflettere su di essi.

Dal punto di vista educativo il ruolo della metacognizione consiste nel rilevare che il

processo educativo non deve incidere soltanto sulle abilità di base possedute o acquisite o

sulle nozioni via via apprese, ma soprattutto sulle modalità di comprensione e di utilizzazione

delle stesse. L‟approccio metacognitivo tende a formare le capacità di essere gestori diretti

dei propri processi cognitivi dirigendoli attivamente con proprie valutazioni e indicazioni

operative. Dal punto di vista educativo il ruolo della metacognizione consiste nel rilevare che

il processo educativo non deve incidere soltanto sulle abilità di base possedute o acquisite o

sulle nozioni via via apprese, ma soprattutto sulle modalità di comprensione e di utilizzazione

delle stesse.

Per favorire questo tipo di didattica il corpo docente ha a disposizione diverse e semplici

metodologie, quali:

- sollecitare momenti di meta cognizione;

- favorire l‟autoregolazione;

- percepire stati mentali;

- orientare il locus of control;

- analizzare il linguaggio, le espressioni del viso e i linguaggi non verbali;

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- favorire la lettura di testi narrativi, l‟attività autobiografica, la riflessione sulle proprie

emozioni;

- discriminare tra eventi e intenzioni, credenze e eventi;

- usare predicati mentalisti: intuire, volere, desiderare, sperare, credere, dubitare …

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica III

Prospettive per lo sviluppo di un sistema didattico integrativo

Lezione 3. Una nuova concezione dell’apprendimento: il socio costruttivismo

Negli ultimi due decenni si è sviluppata una rinnovata attenzione intorno ai processi di

apprendimento. Attualmente, anche alla luce della spinta delle proposte concettuali della

psicologia culturale e del socio-costruttivismo, vi è una pluralità di approcci e di teorie

sull‟apprendimento che vanno oltre il modello cognitivista, in tal senso è indicativo quanto

scrive Pontecorvo, nel capitolo introduttivo al diffuso e citato Manuale di Psicologia

dell‟educazione da lei curato:

“Un lettore avveduto si potrà chiedere come mai né in questo né in altro capitolo si trovi

una esposizione sistematica della prospettiva cognitivista al di là di molti accenni. Le

teorie cognitiviste, nelle loro applicazioni specifiche secondo il principio della specificità

di dominio, sono presenti come riferimento rilevante in alcuni dei capitoli che seguono

(…). Tuttavia ne manca una presentazione generale e soprattutto non vengono

riconosciute come guida per impostare un discorso psicoeducativo che vuole avere una

valenza sociale e una spendibilità formativa. La ragione profonda è che chi scrive,

insieme a molti che hanno contribuito a questa opera, non ritengono di poterla

considerare come teoria generale di riferimento, come era sembrato possibile tra gli

anni „70 e gli anni „80, quando si era pensato che il cognitivismo potesse essere la guida

per innovare profondamente l‟educazione e la psicologia dell‟educazione fino ad allora,

almeno nella vulgata angloamericana prevalente, completamente dominata dal

comportamentismo. (…) La motivazione più profonda di questa scelta è che si è preferito

un approccio psicologico quale quello esposto in questo capitolo che fosse capace di

interpretare e guidare i processi educativi complessi, tenendo conto delle dimensioni di

contesto, cultura, contenuto e metodo, e che non trascurasse la costruzione dell‟identità

dell‟individuo e le sue valenze etico-sociali.” (Pontecorvo, 1999, pp. 13-14)

In questa direzione l‟approccio socio-costruttivista si viene a delineare quale innovativo

quadro teorico di riferimento pedagogico che vede il soggetto che apprende quale reale

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protagonista di un processo di costruzione della propria conoscenza, tale concezione

sottolinea il carattere costruttivo, dialogico e quindi dominio- specifico dei processi di

apprendimento.

Per quanto concerne la nozione di carattere costruttivo dell‟apprendimento, esso non è il

risultato immediato delle informazioni proposte dall‟insegnante e più in generale veicolate

dal contesto bensì l‟alunno costruisce il proprio conoscere elaborando le informazioni nei

termini ed in funzione dei propri modelli mentali e di conoscenza (schemi, conoscenze,

sistemi di credenze, categorie). Non sono dunque i dati in se stessi ad avere potere

informativo; il ruolo preminente lo hanno i modelli che presidiano il modo con cui tali dati

sono elaborati. Tale approccio si pone come modello alternativo ad un approccio d‟istruzione

tradizionale, dove il fulcro dell‟attività didattica è rappresentato dall‟insegnante; è l‟alunno

che, spinto dai propri interessi e situato in uno specifico contesto educativo, apprende

attraverso un processo di elaborazione ed integrazione di molteplici prospettive, informazioni

ed esperienze, offerte dal confronto e dalla collaborazione con i pari o con un gruppo di

esperti. Il modello di progettazione didattica proposto dal costruttivismo è centrato quindi

sugli allievi, sui loro bisogni e sulle loro risorse, ed in senso lato la formazione diviene

interiorizzazione di una metodologia d‟apprendimento che rende progressivamente il

soggetto autonomo nei propri processi conoscitivi. In linea con questa prospettiva

l‟informazione, ovvero la conoscenza, non sta nella stimolazione ambientale, ma nel sistema

di categorie e più in generale nei dispositivi interni al soggetto attraverso cui e nei termini dei

quali la stimolazione stessa è trattata e organizzata. Il che in altri termini significa che il

soggetto costruisce l‟ambiente, attribuendogli significato in funzione delle categorie che

possiede. Nell‟ambito di questa concezione epistemologica, la conoscenza si sviluppa nei

termini di adeguatezza, piuttosto che di una rappresentazione che tenda ad avvicinarsi sempre

più al vero.

L‟altro aspetto caratterizzante l‟impostazione della didattica da una prospettiva socio

costruttivista è la nozione dialogica dell‟apprendimento. Tale prospettiva sottolinea il ruolo

intrinsecamente sociale della mente; la mente è strutturalmente sociale in quanto è il prodotto

dell‟esperienza interpersonale. Il che in altri termini significa che pensare è un atto sociale,

finalizzato, strumentale e subordinato alle esigenze di regolazione della relazione sociale. Le

opinioni, i giudizi, i significati che le persone producono nella quotidianità non sono, dunque,

proiezioni epifenomeniche di un funzionamento cognitivo, basato su procedure incapsulate,

rispondente a regole date. Al contrario, il pensiero è intrinsecamente argomentativo e

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retorico, orientato dall‟esigenza degli attori di proporre e sollecitare l‟adesione alle visioni

del mondo proposte.

Questa impostazione ha influenzato profondamente il modo di concepire i processi di

apprendimento considerato inscindibilmente legato al contesto di socializzazione entro il

quale - ed in ragione del quale - si produce. L‟apprendimento, infatti, avviene entro ed

attraverso lo scambio dialogico che si instaura nel gruppo degli allievi e nella relazione con

l‟adulto/docente. Esso, inoltre, si realizza per il tramite delle risorse cognitive e di senso

proprie del gruppo sociale. Inoltre ancora, non esiste in sé, ma in quanto processo (luogo ed

insieme strumento) di partecipazione e di appartenenza del singolo ad una comunità di

pratiche. Il costruttivismo di matrice socio-culturale,propone una visione del processo di

apprendimento entro la quale l‟accento è posto non tanto sull‟acquisizione di informazioni

predefinite, quanto sulla costruzione dialogica di nuove conoscenze. Lo stesso termine di

apprendimento viene in questa prospettiva messo in discussione. Al suo posto si propone la

nozione di apprendistato, che dà l‟immagine dell‟apprendimento come processo di

inscrizione entro una comunità attraverso la socializzazione alle pratiche - sociali, di ruolo,

discorsive, cognitive - caratteristiche di tale comunità.

L‟impostazione socio costruttivista ha avuto un influenza notevole dal punto di vista della

didattica; quanto messo in luce implica che lo sviluppo delle conoscenze avviene attraverso

traiettorie e percorsi multipli interagenti sotto l‟influenza dei contesti sociali di riferimento,

pertanto gli studenti sono forieri di “teorie ingenue” sulla realtà, cornici interpretative,

modelli mentali anche fortemente strutturati che tendono a modificarsi a fatica.

L‟apprendimento, allora si configura come un‟attività di ristrutturazione di questi schemi

rappresentativi, un adeguamento delle strutture cognitive inadeguate alle nuove esigenze. La

didattica pertanto deve volgere alla costruzione piuttosto che alla riproduzione di conoscenza,

finalizzata a rendere invece visibile la complessità della realtà e della sua poliedricità

rappresentativa. L‟attenzione si posiziona non solo sui contenuti ma sui processi attraverso i

quali essi vengono elaborati e costruiti. In questo senso, occorre progettare percorsi di

apprendimento che consentano la formazione e la ristrutturazione dell‟identità personale in

una logica orientativa, attraverso l‟esplorazione, come esperienza di nuove possibilità, e la

riflessione come autoconsapevolezza delle modalità di interpretazione della realtà. Il

costruttivismo non ha al momento una didattica “forte” da proporre piuttosto coagula

esigenze quali da un lato un‟esigenza di rifiuto d‟una figura di insegnante come fornitore di

informazioni, dall‟altro di rifiuto del distacco della scuola dalla vita e del carattere “inerte”

della conoscenza, associato ad una carica oppositiva al modello corrente di scuola. Alcuni

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orientamenti generali ricorrenti si possono sintetizzare nell‟enfasi alla costruzione della

conoscenza e non alla sua riproduzione, nell‟evitare eccessive semplificazioni

rappresentando la naturale complessità del mondo reale, nell‟offerta di ambienti di

apprendimento assunti dal mondo reale nell‟alimentazione di pratiche riflessive e nella

contestualizzazione delle conoscenze.

Per certi versi la didattica ad impronta socio costruttivista rappresenta una miscela di

elementi e di prassi che però non sono lasciate all‟attivismo del singolo insegnate, piuttosto

sono realizzate alla luce di una impostazione epistemologica che taglia radicalmente i ponti

con l‟idea di apprendimento - e di didattica - di impostazione cognitivista; in ogni progetto

costruito su tale impronta, la costruzione di uno scaffolding, in particolare il complesso di

regole comportamentali e sociali, è molto forte e strutturato. Si dà spazio allo studente

agendo più pesantemente sul contesto (norme cooperative molto precise, forte intervento di

responsabilizzazione, presenza ed impiego analitico di dispositivi e strumentazioni, ecc.).

L‟approccio didattico costruttivista, in questa direzione, si propone quindi come elemento

aggregatore e integratore di metodologie preesistenti, ricollocandole e riqualificandole

all‟interno di una visione epistemica ne valorizza ulteriormente l‟uso e ne costituisce la

legittimazione e il fondamento.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica III

Prospettive per lo sviluppo di un sistema didattico integrativo

Lezione 4. Dalla Programmazione alla Progettazione

Oggi giorno all‟interno del panorama scolastico e didattico parlare di programmazione

didattica e di progettazione didattica significa parlare di curriculo scolastico. Tale concetto

può essere visto da una duplice, ed alternativa prospettiva. Da un lato il curricolo può essere

considerato il programma di studi (le materie scolastiche), ovvero, una sequenza di corsi

all‟interno dei quali vengono definiti una serie di obiettivi in termini di risultati e che

definiscono il complesso degli apprendimenti e delle esperienze degli studenti, al contrario

può essere concepito come l‟insieme degli aspetti che caratterizzano l‟istruzione, e

l‟orientamento e i rapporti interpersonali, e che definisce il prodotto di un processo, che

coinvolge l‟alunno, l‟insegnate ed il contesto scolastico. Al di là delle diverse definizioni che

possiamo dare al curriculo esso è indissolubilmente legato ad una concezione in senso

progettuale della funzione docente. Il concetto stesso nasce entro il contesto pedagogico

anglosassone caratterizzato dalla mancanza di dimensioni uniformi di programma. Lo

sviluppo della interpretazione in senso progettuale dell‟insegnamento risponde a diversi

ordini di sollecitazioni teoriche e culturali. Il curricolo indica quindi la progettazione di una

situazione educativa, ovvero l‟insieme organicamente progettato e realizzato per far

conseguire agli alunni i traguardi di istruzione e formazione previsti. Tale concezione, d‟altra

parte, pone in primo piano la capacità di progettazione che devono avere i docenti ed i

traguardi di formazione previsti dai programmi in vigore. Il curricolo si snoda quindi tra le

prescrizioni ministeriali e l‟autonomia locale sostenuta dalle competenze didattico-

metodologiche dei docenti. In questa prospettiva , il programma non copre l‟intero spettro

delle dimensioni che intervengono a definire l‟azione dell‟insegnamento. L‟orientamento a

definire saperi essenziali, in riferimento alle competenze, e la ricerca di forme di

rappresentazione della conoscenza maggiormente coerenti sia con lo statuto epistemologico

delle discipline, sia con le caratteristiche dei processi di apprendimento, costituiscono una

parte essenziale della programmazione. Tuttavia, l‟innovazione nel campo dei modelli di

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programmazione è condizione necessaria ma non sufficiente per pensare alla funzione

docente come progettualità. Per assumere un carattere progettuale il docente deve definire sia

il che cosa che il come della pratica di insegnamento-apprendimento, facendosi carico della

messa a punto delle dimensioni del contesto curricolare che determina le condizioni di

felicità della scelta didattica. In questa direzione l‟insegnamento si qualifica come

progettuale in quanto, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, si fonda su una opzione

strategica e valoriale circa la definizione dei fini dell‟agire educativo.

Come abbiamo osservato nelle lezioni precedenti, grazi anche alla svolta socio costruttiva

della pedagogia, le pratiche di insegnamento-apprendimento sono sempre più concepite nella

loro dimensione di processo dialogico e contingente. Qualsiasi contenuto di comunicazione

tra insegnante ed allievo non ha valore informativo in se stesso, ma si traduce in senso - e

quindi in informazione - in ragione di come esso viene interpretato, pertanto per quanto un

programma possa proporsi come vincolante, è sempre e comunque l‟interpretazione che di

esso fa il docente (il gruppo dei docenti) a funzionare in ultima istanza da vettore

dell‟insegnamento. È la dimensione interpretativa, operata dall‟insegnante, che permette di

concepire l‟insegnamento come una funzione teorico-pratica, e come una professionalità di

carattere riflessivo, cioè capace di incorporare al suo interno una competenza metalinguistica

volta a rintracciare le categorie che organizzano l‟azione professionale stessa.

Il curricolo pertanto diviene criterio, luogo, e momento di costruzione collettiva di senso

dell‟agire didattico. Il nesso curricolo-progettualità emerge dalla constatazione

dell‟illusorietà dei diversi tentativi, normativi e concettuali, di risolvere/saturare in termini di

razionalità tecnica la dimensione progettuale dell‟insegnamento. La letteratura ha

ampiamente registrato il fallimento dei vari tentativi di innovazione curricolare basati sulla

logica top-down dei due tempi; prima la progettazione razionale, scientificamente fondata (in

genere operata in ambiti separati dalla scuola), poi l‟attuazione (da parte dei docenti).

Pontecorvo e Fusè a tal proposito hanno sostenuto:

“la presenza di materiale didattico nuovo, di libri di testo adeguati alle innovazioni, di

sussidi diversi, non è bastata a garantire un reale cambiamento del lavoro didattico nelle

classi, dove spesso gli insegnanti continuano a insegnare quello che sanno meglio e che

ritengono più importante. (…). Anche quando non si è cercato di proposito di costruire

dei curricoli “a prova di insegnante”, cioè indipendenti dall‟insegnante, e ci si è

seriamente preoccupati della riqualificazione dei docenti, non si è data adeguata

importanza a quelle modalità di conduzione del lavoro didattico già acquisito dai

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migliori insegnanti e non si è cercato di coinvolgerli a sufficienza in una ricerca che -

pur richiedendo il contributo di diverse competenze disciplinari - non può fare a meno

della partecipazione di coloro che insegnano e deve essere strettamente collegata alle

concrete situazioni di insegnamento.” (Pontecorvo, Fusè, 1981, pag. 17)

D‟altra parte, l‟implicazione dei docenti nei processi di trasformazione non va intesa come

mera esigenza tattica, finalizzata all‟acquisizione di consenso. Il punto è più profondo,

riguardando l‟impossibilità di dare fondamento universale alle scelte curricolari. La

riflessione epistemologica ha infatti chiarito che l‟agire educativo non può essere pensato

come una risposta conseguente ad un‟analisi razionale e neutrale dei suoi compiti e dei suoi

oggetti. Ciò in quanto l‟oggetto dell‟agire educativo non precede l‟agire stesso, ma è da

questo costruito; la pedagogia non può assumere come proprio ancoraggio il discente, i suoi

bisogni, in quanto questi sono comunque definiti dalla pedagogia pur non fondandola.

Tuttavia non è sufficiente affermare che la progettazione formativa oggi è importante perché

incidere concretamente sul buon funzionamento delle scuole; i modelli progettuali, infatti

devono essere valutati alla luce dei risultati di apprendimento che essi sono in grado di

garantire. Oggi la scuola ha il compito di fornire a tutti i soggetti gli strumenti necessari per

l‟esercizio di una cittadinanza attiva e consapevole, ed è in questa prospettiva che

progettazione curricolare e formativa devono interagire quali dimensioni in grado di offrire

sia la possibilità di permettere ad ogni individuo una autonoma costruzione di conoscenze e

competenze sia di formarsi come persona in tutte le molteplici articolazioni.

La prospettiva di sviluppo progettuale delle pratiche di insegnamento apprendimento diviene

pertanto una metodologia di lavoro per perseguire il fine didattico in chiave integrativa

poiché l‟attuazione di un‟attività progettuale sugli alunni da parte dell‟insegnate implica lo

sviluppo di un pensiero riflessivo sugli alunni e sulla classe stessa, che funga da base per

l‟attuazione di prassi didattica in grado di permettere l‟interazione tra di ogni individualità

nella propria peculiarità e specificità. In questa direzione ogni attività didattica intesa in una

prospettiva progettuale diviene intrinsecamente integrativa, volta cioè a permettere

contemporaneamente la realizzazione del singolo ed il raggiungimento di specifici standard

formativi predefiniti in sede programmatica. L‟azione progettuale viene inserita nel contesto

della decisionalità e, quindi, declinata attraverso la possibilità di scegliere tra più condotte

possibili quelle modalità capaci di rendere efficace l‟intervento della formazione in rapporto

alle caratteristiche degli alunni, al materiale d‟apprendimento, al contesto ai mezzi e alle

risorse didattiche e agli obiettivi del processo. Pertanto la prospettiva progettuale passa

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necessariamente dall‟attivazione di procedure logiche intenzionali precedentemente

pianificate dall‟insegnante che predispongano una condizioni di razionalizzazione del

processo di insegnamento/apprendimento, e che siano coadiuvate da un controllo/gestione

sistematica sulla complessità dell‟intervento formativo

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica III

Prospettive per lo sviluppo di un sistema didattico integrativo

Lezione 5. Prospettive di innovazione per la didattica

Il sistema scolastico negli ultimi anni è stato oggetto di numerosi cambiamenti sia dal nelle

concezioni della conoscenza e dei processi di apprendimento sia dal punto di vista epistemico

che dal punto di vista delle prassi professionali In particolare la concezione didattica

modulare sembra configurarsi quale punto di riferimento rappresentativo del quadro culturale

e metodologico che caratterizza il campo della riflessione pedagogica, e che possono essere

intese come altrettante strategie per una nuova concezione dei setting di apprendimento in

chiave integrativa e che supera la concezione tradizionale dell‟insegnamento come

trasmissione lineare di conoscenze aprendo verso una concezione di didattica integrante ed

integrativa, capace di rispondere alle esigenze di progettualità per ciascun alunno.

Il docente oggi è chiamato a una progettualità nuova all‟interno del quadro di riferimento

generale dell‟ordinamento, una progettualità che ha la sua massima rappresentatività nella

strutturazione di moduli originali. Il modulo non deve presentarsi come un nucleo chiuso ma

come un nodo di una rete di relazione e interferenze interdisciplinari o tecnico-professionale.

Esso rappresenta una parte significativa, altamente omogenea e unitaria rispetto al suo

impianto concettuale, di un più ampio percorso formativo, facilmente suddivisibile in

ulteriori segmenti unitari; le unità didattiche.

Il principio fondamentale della didattica modulare è la flessibilità del curricolo. Si rompe

l‟assetto rigido, determinato dall‟accoppiamento gruppo classe/corpo docente/insegnamenti

disciplinari incapsulati, operanti in parallelo lungo tutto l‟arco dell‟anno. Le attività

didattiche vengono ricomposte in unità temporali e spaziali di forma e periodizzazione

variabile, secondo le esigenze, le caratteristiche e possibilmente le preferenze degli allievi.

“(…) la modularità - che rappresenta una particolare forma di adattamento dell‟azione

didattica ai contesti educativi - è una strategia formativa flessibile, ma altamente

strutturata, in cui l‟organizzazione del curricolo, delle risorse materiali, del tempo e

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dello spazio prevede l‟impiego opportunamente modellabile di segmenti di itinerari

non lineari di insegnamento-apprendimento - i moduli - che hanno struttura, funzioni

ed estensione variabili, ma formalmente e unitariamente definite. Ciascun modulo

viene a costituire una parte significativa, altamente omogenea ed unitaria (in termini di

contenuti informativi offerti, di categorie e schemi concettuali proposti, nonché di

processi cognitivi attivabili) di un più esteso percorso formativo, disciplinare o pluri,

multi, interdisciplinare programmato o programmabile, una parte del tutto, ma in

grado di assolvere ben specifiche funzioni educative e didattiche, e di far perseguire

ben precisi obiettivi cognitivi verificabili, documentabili (quando necessario

certificabili) e capitalizzabili (cumulabili).” (Domenici, 1999, pp. 128-129)

La dimensione modulare nella prassi pedagogica ridefinisce la pratica didattica sia da punto

di vista temporale permettendo di definire il monte ore sulla base degli obiettivi formativi sia

dal punto di vista spaziale. I moduli non essendo vincolati al gruppo classe permettono una

logica innovativa di cooperazione tra docenti, non solo gli insegnanti sono chiamati ad

aggregarsi in team sulla base delle discipline implicate nel modulo ma soprattutto, essi si

ritrovano a dover orientare la propria azione non più sulla base dei contenuti di competenza e

di conoscenza disciplinari di cui sono individualmente portatori e insieme garanti, ma in

ragione dell‟obiettivo sovraordinato e negoziato posto a scopo del modulo.

L‟idea di modulo quindi si propone da un lato come rottura dell‟autoreferzialità

dell‟insegnamento, e dall‟altro come possibilità di progettazione di interventi integrativi

verso studenti con bisogni educativi speciali o certificati in grado di considerare le reali

esigenze del singolo in ragione delle diverse domande e necessità di istruzione, in concerto

con le esigenze formative dell‟intera classe; l‟agire educativo diviene pertanto una azione

collettiva organizzata.

Complementarmente la didattica modulare permette di differenziare l‟offerta didattica,

articolandola in termini di contenuti e/o obiettivi e/o metodi di insegnamento. È bene

ricordare, però, che la realizzazione di una didattica modulare non si realizza in termini di un

“calderone” formativo, al contrario la sua realizzazione esige il costante monitoraggio delle

variabili in gioco (contenuti culturali, funzioni e dispositivi didattici, risorse didattiche;

caratteristiche degli allievi).

I moduli sono appositamente studiati in luce di una logica di programmazione curricolare

centrata sulle competenze, che non prescrive percorsi, contenuti e modalità rigide ed

uniformi, ma individua il bagaglio essenziale di saperi e abilità, attese come risultato in

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uscita. L‟apprendimento modulare si realizza pertanto nei termini di nuclei di conoscenze in

grado di organizzare le conoscenze, configurandosi come una strategia didattica che propone

al contempo un metodo di progettazione e di organizzazione dei contesti di insegnamento-

apprendimento.

Tale prospettiva risponde, d‟altra parte all‟esigenza delle prassi didattiche integrative di

individuare una sintesi entro la dialettica tra il riconoscimento del carattere scarso e vincolato

delle risorse e l‟esigenza di diversificare l‟offerta formativa, in modo da renderla appropriata

alle esigenze, alle attitudini e agli interessi dell‟utenza, anzi delle utenze ed impegna la

scuola a favorire un‟integrazione che non poggi sull‟omogeneizzazione coatta o sulla perdita

di identità, ma che trovi basi comuni e valori condivisi per rispondere alle esigenze formative

di allievi provenienti da esperienze e culture molto diversificate.

Se i principi alla base della didattica modulare hanno trovato grossi favori tra i riformisti

della pedagogia e della didattica tuttavia trovano difficoltà a innervarsi pragmaticamente

all‟interno dell‟istituzione scolastica italiana per svariati motivi, alcuni, infatti, ritengono che

l‟organizzazione modulare della didattica implichi, in ragione della sua formalizzazione, un

carico di lavoro non sostenibile piuttosto che di potenziamento dell‟azione didattica.

Un‟ulteriore critica a questo modello didattico, che assume una prospettiva epistemologica

forte, viene da chi sostiene che una didattica fortemente modulare condivide un‟idea di

formazione che rinuncia a porsi come obiettivo l‟apprendimento di conoscenze, per puntare

sulla promozione di abilità funzionali; la didattica modulare parte dalla premessa

fondamentale che i contenuti non sono il fine del processo educativo, e da questo deriva che i

moduli devono servire allo scopo non di approfondire la conoscenza, ma di sviluppare delle

competenze.

Al di là dell‟acceso dibattito, nel quale per ovvie ragioni di spazio non ci dilungheremo, la

rottura dell‟assetto univoco dei percorsi di apprendimento, con la conseguente

trasformazione dei percorsi didattici in una sorta di reticolo, apre ad una riflessione sul ruolo

della didattica modulare nel contesto formativo ed integrativo odierno. Infatti, la

pluralizzazione dei percorsi modulari, la loro costruzione e segmentazione, trova la sua

ragion d‟essere, ed insieme il suo vincolo, nel riferimento al fruitore. Si provi ad immaginare

cosa possa essere la modularità priva di questo criterio di ancoraggio; un gioco

potenzialmente infinito di composizione e scomposizione dei saperi, in percorsi che

rispondono di volta in volta alle dinamiche interne di organizzazione delle discipline, così

come possono venir interpretate e veicolate entro i processi di negoziazione del gruppo

docente. D‟altra parte il curricolo modulare quando svuota il momento didattico dalla sua

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uniformità prescrittiva, implica per definizione un allievo che si faccia almeno in parte

compartecipe della costruzione del percorso. In altri termini, la modularità non è compatibile

con una posizione di assoluta adempitività da parte del discente. Questi è chiamato a

scegliere, ad operare una selezione, sia tra i nodi del reticolo, sia all‟interno del singolo nodo,

tra la massa di informazioni e di potenziali connessioni che gli si apre dinanzi. Insomma: il

modulo implica un allievo che in qualche modo, naturalmente dalla posizione di discente,

interviene come co-costruttore del curricolo.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica IV

Prospettive per una didattica integrativa nella scuola

Lezione 1. Prospettive per l’integrazione degli alunni con ADHD

L‟Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD) indica la sindrome da deficit di attenzione

e iperattività, tale disturbo si manifesta fin dall‟infanzia poiché legato a un‟origine

neurobiologica. Tale sindrome identifica un disturbo dello sviluppo che colpisce primariamente

le aree dell‟attenzione e della concentrazione, sebbene tutte le sfere del vivere; i bambini che

ne sono affetti non riescono a controllare le loro risposte all‟ambiente, sono disattenti, iperattivi

e impulsivi, fino a compromettere la loro vita di relazione e scolastica.

L‟ADHD è un disturbo pervasivo di tutto l‟arco di vita della persona. Non è solamente

pediatrico, sebbene sia proprio la fase scolastica che mette in luce chiaramente le sue diverse

manifestazioni poiché le difficoltà comportamentali e di concentrazione, insite nella malattia, si

traducono in scarso rendimento scolastico, intollerabilità verso i compagni, aggressività e

impulsività. Tutte manifestazioni che vengono percepite dai genitori e dagli insegnanti ma che

sono spesso misconosciute o diagnosticate tardivamente dai clinici. È invece importante

diagnosticare quanto prima possibile l‟ADHD e iniziare tempestivamente una terapia poiché

solo con l‟ausilio di adeguati supporti i bambini e le loro famiglie potranno finalmente cogliere

la bellezza di una vita “normale”.

Secondo i criteri diagnosti internazionali (DSM-IV), l‟ADHD è caratterizzato da due gruppi di

sintomi o dimensioni; l‟inattenzione e l‟impulsività/iperattività.

La dimensione inattentiva si manifesta molto precocemente nel contesto scolastico attraverso

alcuni chiari indicatori quali la scarsa cura per i dettagli, la difficoltà a mantenere l‟attenzione a

lungo. I bambini con ADHD, infatti, appaiono distratti, hanno forti difficoltà a svolgere attività

che richiedano attenzione, perdono frequentemente gli oggetti e dimenticano attività

importanti. É importante che tali dimensioni non vengano attribuite semplicemente ad aspetti

di sbadataggine, piuttosto essi sono connessi a un rapido raggiungimento del livello di

“stanchezza” che spingono il bambino a frequenti spostamenti da un‟attività, non completata,

ad un‟altra per poter ricostruire la dimensione attentiva. L‟impulsività si manifesta attraverso

un controllo inadeguato della componente impulsiva; questi bambini faticano a fermarsi a

pensare prima di agire, hanno difficoltà ad aspettare il proprio turno, a lavorare per un premio

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consistente ma lontano nel tempo. É questa dimensione che nella maggior parte delle situazioni

viene associata all‟iperattività descritta nei termini di agitazione irrequietezza ecc.

Compito essenziale dell‟insegnante è quello di gestire, controllare e incanalare le doti del

bambino, per far emergere tutte le sue straordinarie potenzialità. La gravità e la persistenza dei

sintomi dell‟ADHD sono fortemente influenzate dalle variabili ambientali. L‟accettazione del

bambino da parte degli altri, l‟incoraggiamento e l‟aiuto di fronte alle difficoltà sono

determinanti nel miglioramento delle sue condizioni, tenendo presente che la sensibilità dei

bambini con ADHD può essere particolarmente sviluppata, e che d‟altra parte la loro irruenza

rischia di allontanarli dalle amicizie; questi bambini avvertono in modo particolarmente

accentuato l‟emarginazione sociale e scolastica a cui spesso sono costretti dal loro carattere

impetuoso e prepotente.

Uno dei compiti principali dell‟insegnante consiste nel favorire l‟accettazione e l‟integrazione

del bambino con ADHD tra i compagni e permettere che s‟instaurino rapporti di cooperazione

e amicizie; la partecipazione attiva dell‟alunno con ADHD può aumentare gli scambi

relazionali e la condivisione delle esperienze didattiche ed emotive nonché determinare un

clima ottimale per l‟impegno e la motivazione. Alcuni accorgimenti che possono essere di

aiuto in questa direzione sono non creare situazioni di competizione, incoraggiare il bambino a

esprimere le sue abilità di leader e non fraintendete la sua incapacità di attendere come

impazienza o prepotenza, insegnare ai bambini che interrompono con frequenza come

riconoscere le pause nella conversazione e a non rendersi elementi di disturbo per i propri

compagni, mantenere le convenzioni sociali (ad esempio, buongiorno, ciao, per favore, grazie),

permettere al bambino di dimostrare, ogni giorno o ogni settimana, le proprie capacità,

insegnare a prevedere le conseguenze del proprio comportamento. È utile invitarlo a riflettere

in anticipo sugli eventi futuri e a immaginare quali conseguenze il suo comportamento

potrebbe generare.

L‟intervento nei casi di alunni affetti da ADHD non può prescindere da un approccio sistemico

in grado di implicare nell‟intervento educativo i genitori, gli insegnanti e lo stesso bambino.

Indubbiamente bambini con ADHD all‟interno di un sistema come quello scolastico

necessitano di una programmazione individualizzata sulla base dei sintomi più severi e dei

punti di forza identificabili. Se da un lato i sintomi cardine di impulsività e inattenzione sono

gestibili anche alla luce di un‟accurata terapia farmacologica, i disturbi della condotta, di

apprendimento e di interazione sociale richiedono invece interventi psicosociali ambientali e

psicoeducativi centrati sulla famiglia, sulla scuola e sulla collaborazione attiva con i compagni

di classe. Dato che i bambini con ADHD traggono beneficio da una programmazione abituale e

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di routine, la gestione del comportamento può essere parte integrante di una strategia globale

che consideri l‟intera giornata in modo adeguato e finalizzato all‟integrazione del bambino nel

contesto classe. Occorre puntare sull‟integrazione di interventi tesi a fare leva sulle componenti

comportamentali, cognitive e metacognitive, messe in atto sia in situazioni di gioco che in

attività di insegnamento-apprendimento e in questa prospettiva sembrano molto utili le attività

di:

- problem solving: riconoscere il problema, generare soluzioni alternative, pianificare la

procedura per risolvere il problema, etc.;

- autoistruzioni verbali al fine di acquisire un dialogo interno che guidi alla soluzione delle

situazioni problematiche;

- stress inoculation training: indurre il ragazzino ad auto-osservare le proprie esperienze e le

proprie emozioni, soprattutto in coincidenza di eventi stressanti e, successivamente, aiutarlo ad

esprimere una serie di risposte alternative adeguate al contesto.

In generale bisogna tenere presente che I bambini con ADHD sono bambini con i quali è

necessario avere pazienza, ovvero riconoscere che ci vorrà tempo prima che il comportamento

cambi e ottenere risultati richiede molto impegno. Le scuole di norma usano già dei sistemi di

ricompensa nelle varie attività di classe per tutti i bambini, tuttavia l‟inserimento di bambini

con ADHD si rivela sempre difficile a causa della difficoltà a permettere al bambino con

ADHD di partecipare al sistema di tutta la classe. A tal fine si è dimostrato molto utile un

atteggiamento da parte dell‟insegnante teso a non confrontare i comportamenti con quelli degli

altri, combinato all‟uso di un sistema di ricompensa differente. L‟insegnante dovrebbe fare

attenzione a non farlo sentire diverso dagli altri bambini, evitando di dare attenzione eccessiva

ai comportamenti.

I bambini con ADHD possono essere aiutati strutturando e organizzando l‟ambiente in cui

vivono. Genitori e insegnanti possono anticipare gli eventi al posto loro, scomponendo i

compiti futuri in azioni semplici e offrendo piccoli premi e incentivi, a tal fine il lavoro

sinergico scuola-famiglia deve essere teso a sostenere il bambino nell‟analizzare ciò che

accade intorno a lui prima, durante e dopo il loro comportamento inadeguato o disturbante e a

rendere comprensibili al bambino il tempo, le regole e le conseguenze delle azioni, questo

lavoro sembra, infatti, indispensabile per permettere ai bambini iperattivi di ampliare il proprio

repertorio interno di informazioni, regole e motivazioni. A volte la comunicazione tra scuola e

famiglia non risulta efficace perchè i genitori si sentono sotto accusa dagli insegnanti e

difendono il figlio giustificando alcuni comportamenti come normale vivacità che si manifesta

anche in ambienti extrascolastici. I docenti da parte loro tendono ad accusare i genitori di non

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fornire al figlio una corretta educazione, non comprendendo la giusta causa del fenomeno. Per

creare dunque un clima favorevole compito della scuola non deve perciò essere quello di

ipotizzare le cause di tali manifestazioni, ma dev‟essere quello di ricercare strumenti adeguati

al fine di recuperare la motivazione degli alunni ADHD.

L‟ampia mole di studi in letteratura scientifica hanno messo alcune linee guida che nel lavoro

con i bambini con ADHD si sono dimostrate fortemente efficaci. Per migliorare

l‟apprendimento e il comportamento in classe occorre: cercare di individuare i problemi e le

esigenze specifiche di ciascun alunno; definire con tutti gli studenti poche e chiare regole di

comportamento da mantenere all‟interno della classe e fissate attività di routine, orari e tempi;

concordare con l‟alunno piccoli e realistici obiettivi comportamentali e didattici da raggiungere

in tempi brevi, nel corso di qualche settimana; mostrare al bambino come organizzare il

proprio banco, in modo da avere solo il materiale necessario per la lezione del momento;

insegnare qualche strategia che gli consenta di migliorare gli apprendimenti gratificandolo

regolarmente quando metterà in atto i comportamenti desiderati; mantenere un contatto

costante con i genitori del bambino, anche quotidiano, per comunicare progressi o difficoltà a

scuola e per confrontarsi sull‟andamento del piano educativo individualizzato che è stato

concordato insieme in base alle esigenze del bambino.

Partendo dal presupposto che il comportamento dei bambini con iperattività peggiora

notevolmente nelle situazioni poco motivanti e ripetitive, può essere utile creare una certa

aspettativa nei confronti della lezione successiva e quindi, rendere poi la lezione più stimolante

portando un oggetto che rappresenti concretamente il tema della lezione e che possa

incuriosire. Per lo stesso motivo durante la lezione può essere utile usare alcuni accorgimenti

come variare il tono di voce, porre frequentemente domande che richiedono risposte aperte e

muoversi all‟interno della classe. Queste linee d‟intervento se portate avanti sia all‟interno sia

all‟esterno dell‟ambiente scolastico si sono dimostrate in grado di: migliorare le relazioni

interpersonali con genitori, fratelli, insegnanti e coetanei; diminuire i comportamenti

dirompenti e inadeguati aumentando la capacità di autocontrollo verbale e motorio; migliorare

le capacità di apprendimento scolastico e recuperare i prerequisiti necessari a un buon percorso

scolastico (quantità di nozioni, accuratezza e completezza delle nozioni apprese, efficienza

delle metodologie di studio); aumentare l‟autonomia di lavoro individuale potenziando la

capacità di mantenere costante nel tempo l‟attenzione selettiva; favorire il consolidarsi di una

buona autostima personale; migliorare l‟accettabilità sociale del disturbo e la qualità della vita

dei bambini con deficit di attenzione/iperattività. Tuttavia queste modalità d‟intervento

generalmente risultano meno utili nel ridurre i sintomi cardine dell‟ADHD quali inattenzione,

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iperattività o impulsività. Il maggiore limite dei diversi programmi oggi disponibili consiste nel

fatto che, in molti bambini, si assiste alla progressiva scomparsa del miglioramento

comportamentale e alla mancata generalizzazione nei diversi contesti

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica IV

Prospettive per una didattica integrativa nella scuola

Lezione 2. Elementi per il riconoscimento del DSA e per l’intervento nel sistema classe

La scuola è il primo luogo in cui è possibile individuare il manifestarsi di Disturbi Specifici

dell‟Apprendimento nei bambini, ovvero disturbi nei quali le normali modalità di acquisizione

delle abilità scolastiche, ovvero la capacità a eseguire una sequenza di azioni connesse con la

prassi didattica in modo rapido e corretto, sono alterate già nelle prime fasi dello sviluppo. Il

docente è tenuto a conoscere la normativa (la Legge 170 dell‟8 ottobre 2010 e le Linee Guida

del 12 luglio 2011) e a identificare gli alunni nel gruppo classe; deve intervenire in modo

corretto, suggerendo – per ogni studente provvisto di diagnosi – le misure dispensative e gli

strumenti compensativi più adatti. Ai primi livelli scolastici spetta un lavoro di prevenzione. La

scuola dell‟infanzia studierà i disturbi del linguaggio, la scuola primaria, oltre a questo, potrà

attuare il riconoscimento, segnalare il caso, indirizzare al diagnosta il bambino con sospetto

DSA, accompagnandolo durante il suo cammino formativo, mentre, la scuola secondaria di

primo e secondo grado prenderà atto di quanto svolto precedentemente e a sua volta si

adopererà per l‟invio ai Servizi Sanitari dei casi sospetti di dislessia, per l‟eventuale

ottenimento di una diagnosi. L‟individuazione precoce dei DSA è assolutamente d‟interesse

primario non solo perché oggigiorno è possibile definire percorsi adeguati per il recupero del

bambino ma soprattutto perché tali disturbi incidono notevolmente anche sulle scelte future

scolastiche, universitarie e lavorative. Com‟è noto, la diagnosi di DSA può essere formulata

con certezza alla fine della seconda classe della scuola primaria. Dunque, il disturbo di

apprendimento è conclamato quando già il bambino ha superato il periodo d‟insegnamento

della letto-scrittura e dei primi elementi del calcolo. Ma è questo il periodo cruciale e più

delicato tanto per il dislessico, che per il disgrafico, il disortografico e il discalculico.

Inoltre l‟alta incidenza dei DSA nella popolazione scolastica, e l‟incidenza sulla vita futura,

deve sollecitare l‟insegnante già nel primo biennio della scuola primaria a riconoscere

l‟eventuale o possibile presenza del disturbo, qualora la famiglia non lo abbia ancora fatto, si

rischia, infatti, di creare una catena di insuccessi e frustrazioni in ambito scolastico che,

inevitabilmente, si riverberano in modo insanabile sul futuro personale e sociale dell‟individuo.

Un bambino DSA non riconosciuto può sviluppare problemi nelle aree dell‟autostima, e molto

spesso la difficoltà o il ritardo a riconoscere e diagnosticare il disturbo DSA è legato al

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soffermarsi d‟insegnanti e genitori a leggere la difficoltà del bambino in termini di causa

psicologiche inerenti un presunto conflitto con il sistema scolastico, al contrario molto spesso

la difficoltà a entrare in contatto con il mondo scolastico, osservabile in termini di mancanza di

interesse, frequenti e inattesi mal di pancia, oppure attraverso l‟esternazione di emozioni

inusuali per un bambino nei riguardi della possibilità di stare con i propri compagni

(aggressività, apatia, inadeguatezza, ansia ecc), si configurano quali dimensioni psicologiche

sintomatiche non come causa di DSA, ma al contrario, come la conseguenza e quindi

dovrebbero spingere l‟insegnante, e ovviamente la famiglia del bambino, a sospettare la

presenza di un DSA.

Accanto a queste dimensioni psicologiche e comportamentali gli insegnanti, all‟interno del loro

agire didattico, devono tenere presente essenzialmente tre criteri utili per l‟individuazione dei

DSA quali la correttezza nell‟eseguire il compito assegnato, intesa come numero e tipo di

errori, la rapidità di esecuzione del compito, ovvero il tempo impiegato e la comprensione,

intesa come conseguenza accessoria. Esistono tuttavia ulteriori segnali che si manifestano nella

scrittura quali la disgrafia, l‟omissione di lettere o la loro sostituzione con lettere dai suoni

simili, la disortografia o la difficoltà a utilizzare correttamente lo spazio del foglio, la difficoltà

a memorizzare o ricordare ecc.

Una volta acquisite certe conoscenze e che rappresentano il substrato necessario a qualsiasi

azione educativa, l‟insegnante deve capire, in un tempo ragionevolmente breve se ha davanti

un bambino con DSA o se, invece, il suo allievo ha difficoltà scolastiche derivanti da un

insieme di fattori diversi. Solitamente è proprio l‟insegnante a formulare una prima ipotesi

sulla presenza di DSA, indirizzando la famiglia verso le necessarie verifiche in sede

specialistica. Tale decisione richiede un‟osservazione non condizionata da pregiudizi ma basata

su un‟analisi sistematica, diacronica e sincronica, della situazione dell‟alunno. Alla diagnosi

clinica deve affiancarsi la funzionale multidisciplinare che, escludendo la presenza di patologie

o anomalie sensoriali, neurologiche, cognitive e di gravi psicopatologie, approfondisca le altre

abilità complementari nonché la presenza dei prerequisiti, generali e specifici,

all‟apprendimento. Una volta confermata la diagnosi, l‟insegnante può definire percorsi

individualizzati e/o personalizzati che prevedano l‟utilizzo di aiuti specifici e tecniche

riabilitavo-compensative per favorire lo svolgimento dei compiti. Altro importantissimo

elemento da non dimenticare e che incide profondamente nella pratica didattica quotidiana è il

fatto che, per l‟allievo con DSA non è prevista la presenza dell‟insegnante specializzato per il

sostegno, quindi l‟insegnante di classe si trova solo nella gestione dell‟alunno. Pertanto una

vota verificata l‟effettiva presenza di un DSA in maniera commisurata alle necessità

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individuali, stabilite dagli specialisti che seguono il bambino, e all‟entità del disturbo di

apprendimento, è importante che gli insegnanti permettano l‟uso di alcuni strumenti

dispensativi e compensativi nella prassi didattica, quali:

- dispensa dalla lettura a voce alta e dalla scrittura veloce sotto dettatura;

- garantire l‟uso del vocabolario digitale di italiano, inglese, greco, latino, ecc.;

- dispensa dallo studio mnemonico delle tabelline;

- dispensa dallo studio delle lingue straniere in forma scritta;

- garantire tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio;

- organizzazione di interrogazioni programmate;

- assegnazione di compiti a casa in misura ridotta;

- possibilità d‟uso di testi ridotti non per contenuto, ma per quantità di pagine.

Per la realizzazione di queste forme di intervento compensativo l‟autonomia scolastica si

prefigura come possibilità per agevolare e sperimentare questi percorsi individualizzati, che si

configurano quali opportunità per il riconoscimento dei bisogni specifici dell‟alunno. Al di là

degli strumenti compensativi tesi a permettere il recupero dell‟alunno con DSA è

assolutamente di primaria importanza sviluppare un processo di integrazione dell‟alunno

all‟interno del gruppo classe; nonostante siano dotati di creatività e di intuito, i dislessici

appaiono in classe lenti, svagati e poco concentrati. Inoltre, non scrivono i compiti sul diario,

dimenticano facilmente libri e quaderni, non prendono appunti, e quindi bisogna prestare

particolare attenzione a come presentare il problema nel gruppo classe, in modo che venga

confermato, nell‟ambito delle relazioni all‟interno della classe, il valore dell‟alunno DSA come

persona, a tal fine si suggerisce la possibilità di mettere in atto strategie di tutoraggio tra pari,

ad esempio per quanto riguarda gli appunti, è consigliabile che si affidi a un compagno, o

comunque si agevoli la messa in atto di atteggiamenti tra compagni di classe tesi a favorire le

dimensioni di comunicazione nonostante la difficoltà. In questo processo è di basilare

importanza l‟atteggiamento del docente che sostenga tutta la classe nel promuovere un

atteggiamento costruttivo e di collaborazione.

Accanto alla dimensione scolastica, tuttavia anche il ruolo della famiglia è fondamentale.

Genitori, figli e scuola devono stipulare un‟alleanza basata sulla consapevolezza, sulla

considerazione delle abilità e caratteristiche del bambino/ragazzo e sul rispetto dei tempi e

delle modalità di studio e apprendimento. È bene precisare che è importante che la famiglia sia

informata sui DSA ma ciò non significa che per prendersi cura del proprio figlio occorra sapere

tutto riguardo ai disturbi specifici dell‟apprendimento. Al contrario, è fondamentale trasmettere

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al proprio figlio fiducia in sé e nelle proprie potenzialità, nonostante le difficoltà che può

incontrare nel suo percorso scolastico. Genitori e insegnanti devono consentire al ragazzo di

sperimentare come affrontare lo studio, la scuola e l‟apprendimento in generale fornendo gli

strumenti necessari e il supporto quando occorre, ma allo stesso tempo incentivando

l‟autonomia. Per aiutare e affiancare i genitori nel loro ruolo educativo, forniamo informazioni

su come supportare l‟alunno a casa nello studio e nei compiti.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica IV

Prospettive per una didattica integrativa nella scuola

Lezione 3. Il ruolo delle Nuove Tecnologie nella Didattica

Le nuove tecnologie sono uno strumento fondamentale per facilitare l‟integrazione a scuola degli

alunni con disabilità e con disturbi specifici dell‟apprendimento e in generale rappresentano uno

strumento utile a favorire la didattica e a potenziare le possibilità di imparare.

La prima utilizzazione sistematica del computer in campo educativo è legata all‟istruzione

programmata. I software di istruzione programmata scandiscono percorsi didattici lineari,

articolati in fasi, ciascuna corrispondente a un sottobiettivo, il cui raggiungimento, verificato

tramite test, è propedeutico al passaggio alla fase successiva. Sono dunque predisposti da un lato

per strutturare le sequenze didattiche dall‟altro per verificare i sottoapprendimenti. Inoltre,

vengono utilizzati per rinforzare la risposta corretta dell‟allievo (elogio e/o possibilità di

proseguire nel percorso). Questo tipo di programmi è concepito come strumento che supporta e

potenzia l‟attività didattica, permettendone un‟organizzazione più efficiente (ad esempio, velocità

nella correzione delle risposte, possibilità di operare in parallelo con diversi allievi

simultaneamente) e rigorosa (ad esempio, aumento della precisione e riproducibilità delle

sequenze risposte). Il modello di attività didattica in gioco è quello di una relazione di

insegnamento apprendimento di tipo asimmetrico e prescrittiva, entro la quale non vi è spazio per

l‟iniziativa autonoma dell‟allievo, che è chiamato a seguire il percorso di apprendimento

prefissato, di volta in volta rispondendo alle richieste di prestazione del software. Lo sviluppo del

cognitivismo e degli studi nel campo dell‟Intelligenza Artificiale ha favorito l‟affermarsi di un

altro tipo di software didattico i cosiddetti programmi ITS (Intelligent Tutoring System). A

differenza dei programmi dell‟istruzione programmata, i software ITS sono maggiormente

dinamici, in grado di evolversi, di apprendere in ragione delle informazioni raccolte durante il

loro funzionamento, dunque di differenziare le loro prestazioni in relazione alle caratteristiche

degli allievi utilizzatori. Essi, tuttavia, condividono con le applicazioni di matrice

comportamentista dell‟istruzione programmatica sia la funzione di tipo tutoriale (fungono cioè da

guide per l‟allievo impegnato nel compito di istruzione), sia la concezione dell‟apprendimento

come processo lineare e individuale. Il programma LOGO, elaborato verso la fine degli anni „70

da Seymour Papert, già collaboratore di Piaget, rappresentò la prima svolta nel campo, segnando

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in questo senso il passaggio alle Nuove Tecnologie (NT). Il programma LOGO è un linguaggio di

programmazione di facile utilizzabilità, che offre al gruppo degli allievi un ambiente di

apprendimento suscettibile di essere da essi sviluppato. Questo programma rovescia la logica

d‟uso educativo della tecnologia non è più il computer che programma il bambino, ma il bambino

che programma il computer. Programmi quali LOGO sono pensati per favorire l‟apprendimento di

abilità metacognitive e metalinguistiche; impegnare l‟allievo nel compito di programmare la

macchina, ad esempio per insegnarle a produrre frasi corrette, significa proiettarlo sul piano di

riflessione relativo alle regole che sovrintendono il ragionamento e il linguaggio. Le NT possono

essere considerate lo sviluppo di questa logica; dispositivi progettati per creare ambienti di

apprendimento che permettano ai discenti di attivare percorsi di esplorazione, di ricerca di

informazione, di autoapprendimento, di costruzione negoziata di conoscenza. In questo senso, essi

s‟inscrivono in modo naturale entro una prospettiva psicopedagogica di matrice

sociocostruzionista, secondo la quale la conoscenza non si realizza per mera trasmissione, in

quanto passaggio di saperi già definiti da una persona esperta al novizio, ma in quanto prodotto

conseguente dell‟attività dell‟allievo (del gruppo di allievi) impegnato nell‟attribuzione di

significato, insieme personale e negoziato, alle informazioni. Entro questa epistemologia, le

tecnologie hanno trovato una diversa concettualizzazione. Esse non sono strumenti con i quali gli

allievi operano, ma contesti di apprendimento entro i quali lavorano. In altri termini, esse si

propongono non solo e non tanto come dispositivi che potenziano - senza tuttavia modificarle

nella loro logica interna - le attività di insegnamento, ma come forme nuove di insegnamento-

apprendimento (attivanti le valenze distribuite, situate, collaborative, costruttive delle dinamiche

di conoscenza), in quanto tali - secondo la prospettiva vygotskiana - capaci di promuovere

peculiari modalità di funzionamento mentale. All‟interno di questa prospettiva, trovano posto e si

intrecciano due linee di lettura, in definitiva tra loro più complementari che antagoniste. Una

chiave interpretativa, che riflette un orientamento di tipo cognitivista costruttivista, evidenzia il

significato delle NT nella costruzione della conoscenza e della metaconoscenza. L‟allievo esplora

dati e situazioni, elabora significati, manipola e costruisce la realtà (ovviamente quella mediata

dal supporto tecnologico) e i saperi che a essa attengono. Inoltre, l‟allievo ha l‟opportunità di

confrontarsi con i prodotti ostensibili di questo suo fare-pensare e nel far ciò, ha modo di

sperimentare il “farsi” della conoscenza, in questo modo accedendo al piano metacognitivo della

riflessione, sulle regole di funzionamento dei processi cognitivi e semantici, sulla natura delle

conoscenze e sui metodi richiesti per acquisirle. In modo complementare, si sottolinea come le

NT offrano la possibilità di istituire contesti di apprendimento variabili, capaci in questo senso di

valorizzare didatticamente la diversità interna al gruppo degli allievi, inerente le diverse forme del

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modo di essere della mente. Un‟altra possibilità che viene offerta da un uso consapevole e

meditato della multimedialità richiama la distinzione bruneriana fra pensiero narrativo e pensiero

paradigmatico. J. Bruner afferma che possiamo ordinare e costruire la realtà attraverso due

metodi, due modi di pensare quali il pensiero narrativo e il pensiero paradigmatico (logico-

scientifico). Ognuno di questi tipi di pensiero opera e determina criteri di validità e di verifica

profondamente diversi e “qualsiasi tentativo di ricondurli l‟uno all‟altro o di ignorare l‟uno a

vantaggio dell‟altro produce inevitabilmente l‟effetto di farci perdere di vista la ricchezza e la

varietà del pensiero”.

Come superare questa contrapposizione a scuola dove generalmente la prevalenza del pensiero

paradigmatico impoverisce gli aspetti e affettivi e cognitivi dell‟apprendimento? È dimostrato che

la costruzione di un prodotto multimediale prevede momenti di lavoro in cui si privilegia ciò che è

figurativo, sintetico, intuitivo, fantasioso, unificante e concreto (pensiero narrativo), ma anche

altri in cui si agisce attraverso operazioni logiche, analitiche, simboliche e astratte (pensiero

paradigmatico). L‟altra ottica esprime la sensibilità sociocostruzionista per il nesso tra pratiche di

scambio sociale e apprendimento. Essa individua la funzione psicopedagogica delle NT nella

definizione di contesti di comunicazione e di collaborazione tra i discenti; gli spazi di discorso e

di pratica condivisa entro i quali si realizza la costruzione negoziata degli apprendimenti. In

quest‟ottica, le NT attualizzano il carattere distribuito dell‟apprendimento; la partecipazione a un

contesto di apprendimento mediato dalle NT, infatti, permette all‟allievo di sperimentare come la

costruzione del sapere, la risoluzione di problemi, la realizzazione di un artefatto risieda nella

capacità di integrare il bagaglio di competenze possedute con ciò che gli altri fanno, sanno e

dicono. In questo modo, gli allievi accedono a un contesto entro il quale trova tendenziale

ricomposizione la tradizionale divaricazione, propria nel mondo scolastico, tra i percorsi

individuali e formalizzati di apprendimento e il possesso condiviso di competenze non codificate,

legate alla partecipazione dei soggetti ai contesti informali di vita quotidiana. Entro questa

prospettiva, come evidenzia Caravita (2003), le NT sono interpretate e utilizzate entro una visione

dell‟apprendimento come attività collettiva, portata avanti da un gruppo che ripropone le

caratteristiche del funzionamento distribuito proprio delle comunità scientifiche. La riflessione

teorica sulle NT e sulle sue funzioni in campo educativo ha messo dunque bene in evidenza la

densità di implicazioni didattiche in gioco. Allo stesso tempo, tuttavia, va detto che lo stato di

avanzamento del dibattito permette più di comprendere la discontinuità del paradigma didattico

implicato nell‟uso delle NT che di qualificarne in modo sistematico i contenuti. Non si è infatti

ancora coagulato un modello formativo unitario capace di precisare analiticamente (e di

connettere) da un lato le dinamiche psicopedagogiche implicate nell‟uso delle NT (le modalità

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microsociali di lavoro, le caratteristiche dei processi sociocognitivi implicati…), dall‟altro le

variabili metodologiche implicate nella costruzione e finalizzazione dei setting di apprendimento

mediati da tali dispositivi (i fattori di successo e critici a essi connessi). Allo stato attuale, questa

indisponibilità di un modello metodologico di interfaccia tra la teoria e le pratiche d‟uso didattico

delle NT costituisce un ostacolo significativo per il radicamento e la diffusione sistemica

dell‟innovazione entro il mondo scolastico. Lo scollamento tra la teoria psicopedagogica e la

pratica didattica impedisce lo sviluppo entro il mondo scolastico di una cultura d‟uso delle NT

capace di cogliere e valorizzare la carica trasformativa, le valenze di rottura epistemologica e le

potenzialità metodologiche che le NT posseggono. Di conseguenza, la proposta innovativa

subisce, senza possibilità di dialettizzarlo, il processo - tipico di ogni grande struttura, soprattutto -

di assimilazione del nuovo/ignoto alle pratiche istituzionali consolidate. Il che si traduce nella

semplificazione, spesso di sapore tecnicistico, e nella neutralizzazione dell‟innovazione.

“A nostro giudizio si è spesso fornita una distorta interpretazione del contributo formativo delle

tecnologie informatiche, distorsione che ha enfatizzato e, per molti aspetti falsato, l’effettivo

risultato dell’innovazione, soprattutto se considerato sotto l’aspetto della possibile

ristrutturazione del sapere e del mutamento culturale che i media possono produrre in quanto

elementi fortemente significativi della contemporaneità. Benché la ricerca nel campo delle

tecnologie didattiche vanti ormai qualche decennio di storia ed abbia prodotto significativi

cambiamenti, tanto nel modo di intendere, quanto nella modalità di offerta e d’uso degli

strumenti tecnologici, raramente sul piano operativo si è raggiunto un risultato qualitativo atteso.

Se è vero che un rilevante cambiamento di paradigma ha segnato la riflessione psico-pedagogica

del ventesimo secolo con il passaggio da un approccio alla realtà e alla conoscenza di tipo

comportamentista ad uno di tipo costruttivista, è anche vero che al variare del paradigma di

riferimento sono cambiati gli obiettivi dell’apprendimento e la concezione della progettazione

didattica. La qual cosa avrebbe richiesto, sul piano della prassi, corrispondenti mutamenti

effettivi dell’azione didattica, in coerenza con i cambiamenti della prospettiva epistemologica”.

(Pinnelli, 2007, pp. 343-344)

In definitiva, è difficile evitare l‟impressione che le NT, più che cambiare la scuola, siano state da

questa “cambiate”. Non che siano mancate esperienze significative di utilizzo. Tuttavia, esse

rappresentano casi specifici, frutto della particolare (e idiosincratica) competenza e

dell‟investimento del docente e dei ricercatori, in quanto tali difficilmente generalizzabili sul

piano del sistema, dove nella maggior parte dei casi i media quando hanno consolidato la loro

presenza, lo hanno fatto in termini di nicchia, come attività di laboratorio e/o di tipo extra o para

didattico. La crescente consapevolezza di questo scenario ha nei tempi più recenti portato i

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ricercatori a relativizzare la fiducia assoluta inizialmente riposta nella capacità delle NT di

funzionare da fattore trasformativo, da volano del cambiamento di paradigma epistemologico, in

favore di una posizione più prudente e articolata che se da un lato continua a evidenziare la carica

innovativa delle NT, dall‟altro si interroga sulle condizioni istituzionali, culturali e metodologiche

che il contesto educativo e organizzativo deve preventivamente possedere per rendere possibile,

entro la scuola, la prospettiva di un loro utilizzo.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica IV

Prospettive per una didattica integrativa nella scuola

Lezione 4. Il ruolo della dimensione emozionale nella didattica

I nuovi approcci didattici e le diverse forme di didattica integrativa hanno spinto il pensiero

pedagogico contemporaneo a ripensare la funzione e il ruolo del docente all‟interno dei

contesti di apprendimento, di insegnamenti nei termini di diatriba contenuti vs competenze.

La discussione intorno alla definizione dei programmi accompagna come una costante la storia

della scuola italiana, muovendosi in ragione di due interrogativi di fondo, tra loro strettamente

connessi. Da un lato, la riflessione investe la definizione dello scopo dell‟istruzione, se si vuole

il progetto di allievo assunto come obiettivo terminale (e fonte di senso) del processo di

insegnamento apprendimento. Dall‟altro, un tale progetto implica un modello della

conoscenza, un‟idea, cioè, del sapere. La dialettica contenuti-competenze costituisce un primo

fondamentale asse del dibattito. Come si sa, il tradizionale approccio “enciclopedico” ai

curricoli vede le discipline come repertori di nozioni e dati discreti che l‟insegnante è chiamato

a trasmettere agli allievi. Rispetto a questa impostazione, il riferimento alle competenze

implica lo spostamento di attenzione dai contenuti proposti in quanto obiettivi

dell‟insegnamento, all‟uso che gli allievi fanno di tali conoscenze. In quest‟ottica, che risente

significativamente della proposta culturalista di matrice vygotskiana e bruneriana, le

competenze sono intese come capacità di utilizzare gli strumenti simbolici, le conoscenze

procedurali, i codici, i linguaggi che ogni cultura mette a disposizione dei suoi membri. Il

possesso di tali capacità implica processi costruttivi di elaborazione e si traduce in forme di

organizzazione del pensiero e di attribuzione di significato all‟esperienza, sostanzianti il senso

critico e la capacità da parte dei soggetti di orientarsi entro i contesti. La disaffezione per il

carattere enciclopedico e per certi versi astratto-nozionistico dei programmi, il riconoscimento

della rapida obsolescenza che molti contenuti subiscono nel loro impatto con la variabilità

crescente dei contesti socio-culturali, hanno accreditato l‟idea della necessità, non solo nella

scuola superiore, di ridefinire i curricoli nel senso della formulazione dell‟essenziale; i saperi

“irrinunciabili”, i nuclei culturali di base, tali in quanto fondamento dell‟identità sociale e

civica del discente. In questa sede non ci dilungheremo oltre sulle implicazioni

epistemologiche legate a tale dialettica, piuttosto siamo interessati a delineare quali dimensioni

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ha attivato nella riflessione didattica. Pensiamo ad esempio alla riflessione che ha attivato in

ambito pedagogico in merito ai mediatori più significativi e incisivi sull‟allievo e al

riconoscimento del ruolo principale del clima, del tono educativo e della qualità dei rapporti

interpersonali nella pratica didattica. La prima e fondamentale mediazione è quella offerta dalla

relazione perché essa crea il contesto di accettazione che consente di fruire positivamente

anche delle strategie didattiche attivate. Tale riflessione si sviluppa parallelamente alla

consapevolezza che un‟idea trasmissiva di didattica, centrata sull‟insegnamento dell‟insegnante

e la restituzione di quanto recepito da parte dell‟alunno, non corrisponda alla dinamica

dell‟apprendimento dell‟alunno. La ricerca didattica si sposta perciò dal focalizzare il solo atto

dell‟insegnamento all‟allargare la sua attenzione all‟intero processo d‟insegnamento/

apprendimento ponendo la centratura sull‟alunno non solo in termini di individuali sue

modalità e strategie di apprendimento ma anche in termini di dimensioni emozionali attivate

nella pratica didattica.

Se l‟obiettivo ultimo della formazione è di produrre dei cambiamenti nei comportamenti

organizzativi delle persone e il ruolo del docente diventa quello di un mediatore tra saperi,

valori, emozioni, di qualità e di tipi diversi, come regista di scenari cognitivi, come creatore di

contesti, allora la pratica formativa dal punto di vista del docente deve evolversi nei termini di

messa in atto di azioni competenti, iterative e metodologicamente fondate, volte a promuovere

tale cambiamento. Il passaggio dalla prospettiva di didattica come trasmissione di contenuti a

una nozione di didattica nei termini di sviluppo di competenze si fonda sull‟attuazione di un

contatto continuo e di un dialogo riflessivo dell‟alunno con le situazioni e con gli strumenti a

disposizione, e che con la sua azione sia in grado di fornire risposte adeguate ai

bisogni/desideri di ciascuno, per uno sviluppo personale/professionale armonico e orientato.

Nella scuola, infatti, non si può non orientare in modo indiretto, involontario, casuale e spesso

eccezionale attraverso l‟attrazione (docente significativo che trasfonde la sua passione per la

disciplina e la rende intelligibile e interessante, anche se astrusa), oppure attraverso la

repulsione (docente che non facilita l‟approccio alla disciplina, non stimola curiosità e non

induce la motivazione all‟apprendimento), oppure in modo diretto e consapevole, attraverso

un‟attività mirata di attribuzione di senso a ciò che si fa nell‟attività didattica. Occorre, perciò,

riflettere su questo, chiedendosi in che modo sia possibile per i docenti giocare in positivo il

loro ruolo significativo in termini professionali, usando le loro competenze intenzionalmente

per individuare come operare nel lavoro in classe per dotare i giovani della capacità di auto-

orientarsi e come realizzare attività che, se costruite consapevolmente, possono essere di

grande potenza ed evitare il rischio di produrre, magari in buona fede, risultati anche devastanti

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o di lasciare spazio all‟orientamento quotidiano silenzioso, pervasivo e suadente, che può

essere anche molto deviante.

Progettare la didattica vuol dire, infatti, predisporre alcuni operazioni basilari e indispensabili

perché i percorsi formativi siano adeguati e ben costruiti, guidati da intenzionalità consapevole.

In questa prospettiva Rosati afferma:

“In primo luogo occorre individuare, con le potenzialità individuali, le risorse di cui

ognuno dispone; in secondo luogo occorre stabilire dei traguardi, immediatamente

raggiungibili a conclusione dell’intervento, perché certe domande abbiano una risposta

congruente e i bisogni emersi siano soddisfatti; in terzo luogo occorre un piano

programmato d’intervento che aiuti la persona a prendere coscienza di certe necessità in

modo che possano tramutarsi in esperienze solide di comportamento e di vita; in quarto

luogo occorre valutare i cambiamenti registrati a conclusione dell’azione formativa al fine

di accreditare la valenza del mutato atteggiamento davanti ai problemi e alle attività da

compiere” (Rosati, 2004).

Analizzando in profondità la sequenza delle operazioni e le implicazioni che ciascuna di esse

ha nello sviluppo della persona e nel considerarla al centro del processo, ecco che ci torna

facile accreditare ancora una volta quanto possa essere deleterio non considerare le emozioni

nella progettualità didattica, che vorrebbe dire non considerare quella dimensione umana che ci

mette in relazione con gli altri e con il mondo, e quindi anche con i contenuti, le attività, gli

interventi, le persone della formazione.

Nel concepire un utilizzo delle emozioni nella formazione l‟equilibrio è la cosa più importante,

ovvero mettere insieme da una parte il fatto che occorre logica, occorre struttura, e anche

finalizzazione dell‟apprendimento, ma dall‟altra parte bisogna fare in modo di operare con le

competenze metodologiche che lavorano sull‟esperienzialità; pertanto la principale competenza

non è tanto l‟uso delle attività, quanto lo sviluppo del pensiero critico, cioè il riuscire ad

esempio, a vedere le contraddizioni, le domande implicite dietro le domande evidenti. Lo

sviluppo del pensiero critico, la comprensione della complessità ci rammentano che non si

possono mai dare risposte semplici e lineari a problemi complessi e quando ci sono di mezzo le

emozioni questo è ancor più vero. La didattica come sviluppo di competenze individuali in

grado di favorire un reale processo di integrazione passa dunque dall‟individuazione di

percorsi didattici trasversali in cui le competenze apprese si generalizzano in contesti e tempi

sempre più ampi, incidendo profondamente sul clima emotivo di classe e favorendo azioni

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orientate all‟integrazione e alla più ampia inclusione sociale dei bambini con bisogni speciali.

L‟alfabetizzazione emotiva contribuisce a potenziare negli allievi processi metacognitivi e di

problem solving interpersonale che facilitano la costruzione di interazioni sociali positive

anche nel contatto con la “diversità”, spesso, purtroppo, percepita e vissuta come elemento di

rifiuto, esclusione ed emarginazione sociale.

La programmazione didattica pertanto, al fine di favorire la dimensione integrativa dovrebbe

riuscire a integrare in un‟unica strategia sistemica educativa la componente didattica con quella

emozionale in un percorso formativo integrato, in una correlazione dialettica perché non c‟è

alcuna conoscenza, alcuna esperienza nella vita che non sia accompagnata da una tensione

emozionale premessa a ogni utilizzazione della conoscenza acquisita razionalmente. Tale

prospettiva educazione in grado di farsi carico della componente emotiva favorisce una crescita

affettiva armonica nel bambino, mettendolo in grado di realizzare in pieno le proprie

potenzialità e il proprio benessere.

La prospettiva delineata assume la centralità dell‟educazione sociale ed emotiva come compito

doveroso, oltre che necessario, se vogliamo dare alle politiche della scuola e dell‟educazione

una svolta che vada con consapevolezza e sistematicità nella direzione dell‟innovazione

“possibile” e insieme promuovere lo sviluppo di un percorso integrato di formazione a scuola

per alunni capaci di costruire un sé in grado di auto-orientarsi. Abbattere la tradizionale

barriera fra i processi cognitivi e le emozioni, facendo emergere un‟idea di persona come

sistema integrato, alla cui formazione e al cui equilibrio dinamico concorrono la componente

percettivo-motoria, quella logico-razionale e quella affettivo-sociale comporta un‟impostazione

della didattica volta a favorire l‟integrazione tra le diverse matrici di cui si compone

l‟esperienza quotidiana, riconoscendo pari dignità al segno di scrittura, all‟immagine, al suono,

al colore, all‟animazione. La realizzazione del progetto educativo comporta dunque una

particolare attenzione al contesto in cui provengono gli apprendimenti, e quindi una particolare

cura va rivolta ad alcuni elementi quali: lo spazio relazionale, il tempo vissuto, la strutturazione

flessibile e funzionale degli spazi scolastici, l‟organizzazione dei gruppi, il gioco nelle sue

varie forme, la cultura della comunicazione, la capacità di utilizzare mediatori non solo verbali,

l‟attenzione a non separare gli aspetti cognitivi da quelli socio-affettivi o corporei, l‟importanza

attribuita al fare, l‟apprendimento cooperativo, il “ricorso“ ai saperi per conferire significato

alle molteplici attività che caratterizzano la vita quotidiana della scuola dell‟infanzia.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica IV

Prospettive per una didattica integrativa nella scuola

Lezione 5. La didattica laboratoriale

La didattica laboratoriale rappresenta uno degli argomenti più dibattuti nelle riflessioni

pedagogiche e nello sviluppo di prassi di insegnamento-apprendimento. Nonostante il diffuso

riconoscimento di validità della pratica laboratoriale come strategia didattica in risposta alle

esigenze diversificate degli alunni, da parte dell‟utenza, oltre che tra alcuni soggetti che

operano nella scuola stessa, serpeggiano ancora delle perplessità sul valore educativo-didattico

delle attività di laboratorio, e persiste la difficoltà di ritenere, ad esempio, un laboratorio di tipo

teatrale equivalente a una lezione frontale di grammatica. Tuttavia è ancora poco chiaro che

tipo di didattica offra l‟approccio laboratoriale, quale differenza presenti rispetto la didattica

tradizionali, e quali siano i suoi vantaggi per gli alunni, ovvero in quali casi essa trovi

maggiore condizione di felicitazione. Solitamente si tende a concettualizzare la didattica

tradizionale come caratterizzata da una modalità di tipo trasmissivo-verticale, in cui

l‟insegnante trasmette determinate conoscenze all‟allievo, il quale è chiamato a ripetere i

concetti presentati nei diversi contesti in cui si trova ad agire. D‟altra parte, la didattica

laboratoriale viene vista come una partecipazione attiva dell‟alunno alla costruzione della

conoscenza attraverso un coinvolgimento diretto e quindi come metodologia più idonea per lo

sviluppo di prassi didattiche integrative. Tuttavia, esiste un limite anche nella didattica

laboratoriale, infatti, l‟adozione cieca di un approccio laboratoriale trasforma la didattica in

prassi, in una forma di acquisizione di regole pragmatiche ed contestuali che non permettono la

generalizzazione e la creazione di modelli interpretativi autonomi per gli allievi. Al contrario,

un uso competente da parte del corpo insegnante dell‟approccio laboratoriale presuppone

l‟adozione di una chiara metodologia della ricerca, cha guarda al laboratorio non solo come

uno spazio fisico attrezzato in maniera specifica ai fini di una determinata produzione, ma

come situazione, come modalità di lavoro, dove docenti e allievi progettano, sperimentano e

ricercano. L‟approccio laboratoriale, infatti, si configura quale setting formativo in grado di

affinare diverse capacità e abilità personali e sociali e quindi quale situazione in grado di

intervenire sia su un piano didattico sia su un piano educativo. Dal punto di vista didattico,

infatti, il laboratorio permette all‟alunno di affinare:

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- la capacità di cogliere e organizzare informazioni ricavate dall‟ambiente;

- la competenza agentiva di ricercare e individuare materiali e strumenti necessari agli scopi;

- la capacità di mettere in relazione, di ordinare, individuare relazioni, i nessi logici e le tappe

evolutive;

- la capacità di spiegare gli eventi e di argomentare in modo logico;

- la capacità di superare le resistenze alla partecipazione a esperienze.

Dal punto di vista degli obiettivi educativi, invece, la didattica laboratoriale aiuta gli alunni ad

apprezzare i propri progressi e trovare gratificazione dal proprio lavoro; a giudicare

oggettivamente il proprio lavoro e individuare le modalità utili a migliorarlo; a comprendere la

necessità di esercitarsi per ottenere risultati soddisfacenti.

In altre parole l‟approccio laboratoriale coniuga dimensioni educative, motivazionali e

partecipative permettendo ai singoli alunni di sviluppare un apprendimento personalizzato in

base ai propri stili cognitivi e al proprio metodo della ricerca, rinforzando le dimensioni di

socializzazione. La metodologia dei laboratori è dunque l‟occasione per ridisegnare stili di

insegnamento e di apprendimento, in quanto costringe l‟insegnante a padroneggiare le

procedure per guidare gli allievi a scoprire e padroneggiare, a loro volta, stili, modi, strategie di

apprendimento. Essa vede, secondo le necessità, il docente come facilitatore, negoziatore,

propositore, risorsa in grado di garantire la tenuta del processo di apprendimento del singolo e

del gruppo e che progetta l‟attività in funzione del processo educativo e formativo dei suoi

allievi. In ogni caso una didattica di tipo laboratoriale, centrata sul “fare” operazioni materiali e

immateriali, non implica una rinuncia alle dimensioni tradizionali del curricolo, piuttosto

permette la rivalutazione di aspetti fondamentali delle discipline, che non sono né possono

ridursi a somma di contenuti. Ovvero, l‟approccio laboratoriale non sostituisce la didattica

trasmissiva ma la affianca, senza sostituirla, utilizzando le informazioni come uno strumento in

grado di offrire una valenza pragmatica alla conoscenza: “Cosa so fare con quello che so?”.

Poiché non esiste pensare teorico senza fare tecnico, non esiste esercizio che non abbia la

possibilità di essere vissuto e pensato come problema, la circolarità di questo processo è, come

dice Dewey, ineludibile, quando afferma che “L‟intelligenza ha bisogno di certe condizioni per

affermarsi e svilupparsi; ha bisogno di essere nutrita di eventi e di affrontare prove che la

fortifichino; ha bisogno di auto -mantenersi nell‟esercizio di sé ”.

Tuttavia, affinché ciò si realizzi, è indispensabile la dimensione di mediazione degli insegnanti;

gli alunni nella didattica laboratoriale partecipano a un‟esperienza diretta, ma senza la

mediazione culturale dell‟adulto, difficilmente questa partecipazione sarà in grado di produrre

apprendimento. È indispensabile che il docente sappia scegliere gli aspetti del sapere intorno ai

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quali gli allievi possano costruire le proprie rappresentazioni della realtà dotandole di senso.

L‟attività di progettazione di un‟attività di laboratorio, pertanto, consiste in una vera e propria

unità di apprendimento in cui il docente dichiara gli obiettivi formativi che intende perseguire,

incrociandoli con gli obiettivi generali del processo formativo e quelli specifici di

apprendimento, adeguandoli al contesto, e coniugando le strategie, le metodologie più idonee,

analizzando e ripensando ad alcuni aspetti progettuali quando non funzionali agli alunni.

Affinché „intervento sia efficace, esso deve assumere il carattere di intenzionalità, infatti, solo

se il laboratorio non si configura come occasionale ed estemporaneo esso assume un valore

trascendente la contingenza del prodotto immediato configurandosi quale mezzo per raggi

ungere un obiettivo più generale, e quindi come esperienza significativa connotata da un

significato educativo e motivazionale. L‟insegnamento laboratoriale nasce come risultato di

un‟attività progettuale che richiede negli alunni la condivisione di conoscenze di base

necessarie a comprendere schemi più complessi; e negli insegnanti la conoscenza delle

caratteristiche cognitive dei singoli per permettere modalità flessibili di accesso alle nuove

conoscenze attraverso una diversificazione delle metodologie di insegnamento e di valutazione.

Attivare una didattica laboratoriale in questa direzione non significa accompagnare gli studenti

in un percorso alternativo ed estemporaneo condotto in un‟aula differente da quella usuale, la

pratica laboratoriale rappresenta un setting, una pratica del fare che valorizza la centralità

dell‟allievo, pone l‟enfasi sul processo di apprendimento e mette in stretta relazione l‟attività

sperimentale degli allievi con le competenze dei docenti. In esso viene praticato

l‟insegnamento-apprendimento attraverso il confronto concettuale con la problematicità dei

processi: le attività laboratoriali devono essere: progettate, concrete, aperte all‟interpretazione e

orientate ai risultati.

Al riguardo non è secondario sottolineare che conoscenze e contenuti si rivalutano, acquistano

nuovo valore e dignità anche dal punto di vista dello studente: non più solo passaggio

obbligato, lasciapassare per una verifica, ma elemento indispensabile per portare a termine un

compito di cui si è assunta la responsabilità, per sviluppare una competenza, per dimostrare

padronanza. In una situazione di apprendimento laboratoriale, tra sensate esperienze e

necessarie dimostrazioni, è più facile far crescere la consapevolezza di cosa si fa e perché si fa,

far crescere il desiderio, la curiosità per lo studio e l‟apprendimento.

Solo se attivata nei termini descritti la didattica laboratoriale assume una funzione integrativa,

poiché configura il laboratorio stesso nei termini di spazio di comunicazione a disposizione

delle competenze dello studente, uno spazio di personalizzazione per sviluppare

autosufficienza, autostima, autonomia culturale ed emotiva, partecipazione. Il laboratorio è uno

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spazio di esplorazione e di creatività, di socializzazione, di valorizzazione delle attività

strutturali individuali, di peer-tutoring, di cooperazione attraverso intenzionali momenti

interattivi che ritrovano la cooperazione, di impegno, di solidarietà tra generi, età, etnie

diverse. Quando la metodologia dei laboratori diventa il motivo regolatore di una scuola, la

progettazione organizzativa deve trovare il proprio fondamento nelle scelte didattico-educative

conseguenti l‟analisi delle esigenze formative dell‟utenza. La didattica laboratoriale è un

percorso che rende possibile l‟offerta di contesti che considerino i vissuti degli studenti, le loro

esperienze, la storia con gli altri attraverso forme di lavoro che valorizzano potenzialità,

capacità e competenze per imparare la complessità dell‟odierna società, attraverso lo studio

delle discipline, la risoluzione dei problemi, la previsione di argomentazioni, la comunicazione.

Realizzare percorsi in forma di laboratorio, favorisce l‟operatività e allo stesso tempo il dialogo

e la riflessione su quello che si fa. Il laboratorio è una modalità di lavoro che incoraggia la

sperimentazione e la progettualità, coinvolge gli alunni nel pensare-realizzare-valutare le

attività vissute in modo condiviso e partecipato con altri, e che può essere attivata sia

all‟interno che all‟esterno della scuola, valorizzando il territorio come risorsa per

l‟apprendimento.

Se il laboratorio viene inteso come una pratica del fare, allora lo studente diventa protagonista

di un processo di costruzione di conoscenze che gli permettono di essere coinvolto in una

situazione collettiva di scambio comunicativo tra pari; di rielaborare conoscenza attraverso

l‟esperienza diretta; di costruire un apprendimento significativo, dovendo trovare soluzioni a

situazioni problematiche; di vivere la vicenda scolastica attraverso l‟esperienza di emozioni

positive; di essere consapevole del proprio modo di imparare attraverso il confronto e la

valutazione delle proprie idee.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Glossario

Adattamento: processo attraverso cui un individuo o un gruppo stabiliscono con il proprio

ambiente naturale o sociale una condizione di equilibrio o per lo meno di assenza di conflitto. Il

processo avviene attraverso la combinazione di manovre alloplastiche, volte a modificare

l’ambiente, e autoplastiche, tese a modificare se stessi in vista di un accettabile equilibrio. Quando

il risultato di queste manovre non sortisce l’effetto si parla di disadattamento, solitamente riferito

all’ambiente sociale.

Ambiente: complesso degli elementi che costituiscono la realtà in cui un determinato evento si

verifica e che influisce sulla vita dell’organismo o dell’individuo. Il concetto ha rilevanza sul piano

fisico, biologico, psicologico, sociologico, pedagogico. Infatti, come l’ambiente fisico subisce tutte

le trasformazioni che l’uomo per vivere vi compie, così l’uomo, talvolta, è costretto ad adattarsi a

quelle condizioni naturali e culturali che risultano immodificabili o che richiederebbero per la loro

trasformazione un intervento eccessivo di lavoro. In psicologia si è soliti distinguere l’ambiente

come luogo ove si attua una crescita, e l’ambiente come fattore di crescita. Nella prima eccezione

rientra la descrizione di tutte le variabili che caratterizzano un determinato ambiente, nella seconda

si va alla ricerca della forza di condizionamento e di influenza che le caratteristiche ambientali

determinano nell’individuo.

Apprendimento: in psicologia l’apprendimento può essere designa le modificazioni piuttosto

durevoli delle possibilità di comportamento che si basano sull’esperienza. Se l’apprendimento è una

“modificazione” del comportamento, allora è possibile individuare, analizzare o quantificare il

comportamento precedente l’apprendimento e quello successivo, e riscontrare precise differenze fra

i due. Questi cambiamenti inoltre devono essere “piuttosto durevoli”, altrimenti la loro comparsa

potrebbe essere dovuta al caso o ad altri fattori che non hanno nulla a che vedere con

l’apprendimento. Naturalmente ciò che si è appreso può essere modificato o dimenticato, per cui la

sua durata può variare nel tempo. L’apprendimento inoltre riguarda non soltanto le modificazioni

effettive del comportamento, ma anche le modificazioni delle possibilità di comportamento. Questo

vuol dire che c’è una differenza fra apprendimento e prestazione: ad esempio, un italiano che

conosce perfettamente l’inglese non parlerà sempre in questa lingua, ma lo farà soltanto nelle

circostanze opportune. Tuttavia la locuzione “possibilità di comportamento” possiede anche

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un’altra accezione: e cioè che il comportamento in questione deve essere “possibile” per il soggetto

che apprende. Ad esempio, un ratto può imparare il percorso corretto in un labirinto estremamente

complesso, ma non potrà mai imparare il linguaggio umano. Le possibilità di apprendimento

variano dunque a seconda delle caratteristiche fisiche e mentali dei soggetti considerati.

Cooperazione: la cooperazione in relazione all’apprendimento è una metodologia in cui si ritiene

che sia fondamentale inserire gli allievi in contesti sociali in cui essi possano apprendere con e dagli

altri. Scommette sull'idea che la dimensione sociale dell'apprendimento possa positivamente

influenzare le altre componenti. La metodologia dell'apprendimento fa parte dei cosiddetti sistemi

didattici ad "anello aperto". Secondo Kaye della Open University, perché ci sia un'efficace

collaborazione o cooperazione ci deve essere una reale interdipendenza tra i membri di un gruppo

nella realizzazione di un compito, un impegno nel mutuo aiuto, un senso di responsabilità per il

gruppo e i suoi obiettivi e deve essere posta attenzione alle abilità sociali e interpersonali nello

sviluppo dei processi di gruppo. Consiste nell’assegnare a gruppi di lavoro la realizzazione di uno

specifico progetto, sotto la guida di un tutor. Questa metodologia sfrutta al massimo le potenzialità

dei singoli e l’apporto che ognuno di loro dà al gruppo, mettendo a disposizione dei compagni le

proprie conoscenze e competenze. I membri del gruppo, condividendo idee, esperienze e

conoscenze, cooperano nella costruzione di nuovo sapere e riescono a risolvere i problemi che il

compito presenta, nel più breve tempo possibile. Internet e gli strumenti della telematica consentono

di sfruttare al massimo le potenzialità dell’apprendimento cooperativo.

Attenzione: capacità di selezionare gli stimoli e di mettere in azione i meccanismi che provvedono

ad immagazzinare le informazioni nei depositi di memoria a breve e a lungo termine con influenza

diretta sull’efficienza delle prestazioni nei compiti di vigilanza.

Attività (professionale): termine generale che designa un lavoro svolto dal personale per

raggiungere un determinato obiettivo. Le attività possono essere a loro volta frazionate in atti più

specifici che possono essere chiamati compiti o azioni. Le attività corrispondono, nel processo

educativo, alla definizione degli obiettivi educativi intermedi.

Compito: lavoro determinato che si deve eseguire, classificabile in tre campi - gestuale, intellettivo,

comunicativo - non sempre necessariamente contemporaneamente presenti.

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Comportamento: insieme delle reazioni (di un soggetto) accessibili all’osservazione esterna; il

pensiero, la comprensione, sono componenti implicite che non sono osservabili direttamente, ma

soltanto per deduzione da altri comportamenti osservabili. Modo di apparire o reagire di un soggetto

in una determinata situazione; manifestazione globale dell’intero organismo, è costituito (il

comportamento), da elementi descrivibili in termini oggettivi ed è uniforme.

Competenza: il bagaglio di conoscenze, capacità ed atteggiamenti che la persona possiede ed alle

quali fa ricorso per l’efficace svolgimento di un compito. In ambito lavorativo: le qualità

professionali e personali possedute da un individuo, che lo mettono in grado di assolvere

adeguatamente alle esigenze rappresentate dal ruolo.

Comunicazione: la comunicazione è un processo di trasmissione di informazioni che riguardano un

mittente ed un destinatario, i quali scambiano i propri ruoli, in ragione di un feedback continuo

che si instaura tra gli attori della comunicazione. Nella comunicazione succede che un soggetto

(mittente) trasmetta un messaggio ad un altro soggetto (destinatario), il quale, in base al messaggio

ricevuto, dà a sua volta un altro messaggio; quindi si innesca un processo in forma di feed-back, nel

senso che il messaggio che viene trasmesso da parte di uno dei partner della relazione è in funzione

del messaggio ricevuto dall'altro e così via. La comunicazione può essere asincrona o sincrona.

Nella prima gli attori della comunicazione hanno un margine di libertà nei tempi e nei modi

dell’interazione nell’invio dei messaggi e nella loro lettura. Situazioni di comunicazione asincrona

sono:

Mailing-Lists;

Forum;

Bacheche Elettroniche.

La comunicazione sincrona richiede che tutti gli interlocutori siano collegati nello stesso tempo.

Tipiche forme di comunicazione sincrona sono:

- Chatting

- Videoconferenza.

Gruppo/Comunità: la conoscenza più efficace, più “significativa” è quella che nasce da un

processo di costruzione sociale. Quando sul lavoro si incontra un problema, la prima cosa che ci

viene in mente è interpellare coloro che ne sanno più di noi o che hanno comunque un bagaglio di

esperienze da mettere in comune. Le comunità di pratica sono gruppi informali di persone che

condividono le stesse mansioni lavorative o gli stessi interessi, e che nascono, spesso in maniera

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spontanea, per scambiarsi esperienze, consigli o pratiche quotidiane di lavoro. Gli attuali strumenti

di comunicazione on-line consento di poter pensare a comunità di pratica che prosperano grazie alla

rete e in virtù del ruolo di animazione della comunità assunto da un formatore. Il formatore non

deve far altro che predisporre il terreno migliore per la vita delle comunità, mettendo a disposizione

gli strumenti di collaborazione e l’infrastruttura tecnologica che permetteranno alle comunità di

nascere e prosperare anche in rete. Generalmente le comunità di pratica nascono come prosecuzione

di attività formative volte ad aggiornare le competenze di un gruppo. Iniziate durante il corso

proseguono e si incrementano nel corso dei mesi successivi. Le comunità di pratica sono spesso

utilizzate nell’ambito del Knowledge Management. Alla comunità di pratica si ispira il metodo della

Learning Community e dell'Authonomy Laboratory. Nella Learning Community i soggetti che

apprendono scelgono obiettivi di apprendimento e il gruppo con cui collaborare per la loro

realizzazione. Si basano sul principio della massima responsabilizzazione degli utenti e hanno per

fine lo sviluppo dell'autonomia personale e della creatività. Nell'Autonomy Laboratory autonomia

individuale e sviluppo della creatività costituiscono l'essenza stessa delle attività di apprendimento,

che mirano alla attivazione delle risorse personali dei soggetti che apprendono. Learning

Community e Authonomy Laboratory privilegiano, sopra ad ogni altra cosa, la capacità di

apprendere ad apprendere.

Gruppi di lavoro o comunità di apprendimento: luoghi di apprendimento (learning community),

dove è possibile scambiare con altri utenti, idee, opinioni, esperienze e informazioni utili. Nelle

comunità di apprendimento, grazie all’interazioni all’interno del gruppo, si possono accrescere le

conoscenze di ognuno Queste comunità hanno come fine precipuo l'apprendimento. Appaiono

orientate a costruire cooperativamente i significati con cui si lavora.

Attivano flussi comunicativi caratterizzati da movimenti circolari. Grazie a tali movimenti gli

allievi apprendono più uno dall'altro che non dall'insegnante. La divisione dei compiti è funzionale

al raggiungimento dell'obiettivo che la comunità s'è posta; nella comunità di apprendimento vigono

sistemi ecologici di autoregolazione. Il docente che vi partecipa, non avendo compiti trasmissivi,

che sono banditi, supporta gli allievi in ragione dei bisogni che essi esplicitamente ed

implicitamente esprimono. Le comunità di apprendimento realizzano non solo obiettivi di

conoscenza, ma anche condivisione di valori e di atteggiamenti. Attraverso le interazioni stabilite è

possibile creare un sistema condiviso di conoscenze e significati.

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Cooperative Learning: il Cooperative Learning è prima ancora che un metodo didattico un ampio

movimento educativo che pone attenzione alla integrazione tra gli studenti per la realizzazione di

obiettivi sia di tipo educativo che didattico. In quanto metodo il Cooperative Learning ha le seguenti

specifiche caratteristiche:

a. interdipendenza positiva;

b. interazione faccia a faccia;

c. insegnamento diretto delle abilità sociali;

d. lavoro in piccoli gruppi eterogenei;

c. revisione e valutazione individuale e di gruppo.

I principali studiosi del Cooperative Learning sono: Johnson e Johnson; Svlavin; Kagan;

Sharan,Cohen.

Formatore: il formatore ha per scopo quello di produrre, attraverso opportune azioni, sempre

maggiore integrazione dell’identità dei soggetti che apprendono, affinché si verifichi un

miglioramento della qualità della loro vita. Il formatore prevede, in sede di progettazione, i risultati

attesi con l’intervento formativo e definiti sotto forma di obiettivi educativi, in base ai quali

pianifica le esperienze di apprendimento e i metodi didattici e valutativi.

Facilitatore dell’apprendimento: è il docente che, attraverso una serie di azioni, insegna al

discente a migliorare le sue prestazioni, facilitando il raggiungimento degli obiettivi professionali.

Tale rapporto è detto anche Coaching.

Formazione: la Formazione è una azione complessa, motivata ed intenzionata, in virtù della quale

si producono effetti di apprendimento su dei soggetti nell’ambito di una situazione, generalmente di

tipo lavorativo, che si viene, in ragione di ciò, a modificare. Questa definizione tuttavia soddisfa

solo parzialmente le molte accezioni annesse al termine. Il quale è usato, in taluni contesti, come

sinonimo di educazione, ovvero, in altri, come il complesso delle azioni e dei fatti educativi che

riguardano la dimensione dell’esercizio delle professioni ovvero, ancora, per designare attività di

addestramento, aggiornamento e perfezionamento erogate nei confronti di soggetti che necessitano

di esse per entrare nel mondo del lavoro o per permanervi. Probabilmente per cogliere la specificità

del termine “formazione” è indispensabile riuscire a distinguerlo da altri termini contigui:

“educare”, “istruire”, “insegnare”, “animare”. Formare significa trasmettere delle cognizioni e nel

contempo modellare un certo comportamento, attraverso l’esercizio e il fare. Attraverso la

formazione si ottengono delle modificazioni strutturali della dimensione cognitiva ed emotiva del

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soggetto. Accanto a questa definizione bisogna mettere quella per la quale formazione è bagaglio di

conoscenze teoriche e pratiche indispensabili per l’esercizio di una professione o di un ruolo. La

formazione, intesa come modificazione profonda della struttura cognitiva ed emotiva del soggetto, è

vicina alla nozione di Bildung, che prevedeva lo sviluppo interiore delle capacità umane nella

prospettiva della unitarietà della cultura e della integrazione della persona. Tale nozione, come si sa,

è diventata obsoleta a causa della crisi degli universalismi etici e culturali del Novecento. La

formazione si trova a dover fare oggi i conti con la complessità del sociale e la molteplicità dei

valori umani, con le istanze di flessibilità, competitività ed efficienza che caratterizzano il lavoro

nella fase della post-modernità. La formazione appare disponibile a sperimentare nuove modalità di

insegnamento/apprendimento orientate al compito, nonché ad avvalersi di metodologie “non

direttive” che tengono conto delle dimensioni relazionali sottese all’apprendimento e del desiderio

di espressione dei singoli, impegnati in processi di acquisizione delle conoscenze. Tende a superare

la separazione tra luoghi formativi e luoghi sociali. Piuttosto che sospendere i soggetti dagli usuali

luoghi di lavoro e di vita per inserirli in contesti formativi pensati ad hoc, preferisce esperienze

cognitive che si realizzano “in situazione”: tali sono le tecniche di problem finding, come l’Action

Learning, o le comunità di pratica, che vogliono valorizzare l’esperienza degli individui e dei

gruppi, le loro capacità costruttive di conoscenza. La formazione in tal modo tende ad incontro le

problematiche dell’educazione permamenente. Essa infatti si pone la questione di come fare

dell’apprendimento un’esperienza integrata con la vita dei soggetti, grazie al costituirsi di una

attitudine alla riflessività e una disponibilità al cambiamento, stimolate da specifici momenti

formativi ricorrenti, a carattere intensivo, capaci di rimotivare i soggetti e di offrire loro nuove

opportunità di conoscenza. Rispetto alla pedagogia e alla didattica scolastiche, la formazione

sembra accettare la sfida posta dagli attuali assetti socio-economici, che, avendo necessità di un

apprendimento continuo, quale fattore intrinseco di sviluppo dinamico dei processi produttivi, sotto

la spinta della concorrenza dei mercati divenuti globali, spingono verso il superamento della

separazione fra sapere e fare, fra momento della costituzione delle conoscenze (istituzioni

formative) e momento di applicazione delle stesse (lavoro). La formazione dà per acquisito il

superamento dell’aula quale luogo di realizzazione degli apprendimenti, della lezione quale

strumento per veicolare il sapere, assume come importanti gli apprendimenti che si realizzano per le

vie non-formali e informali. Essa appare disponibile a concepire le proprie azioni come integrate

agli obiettivi gestionali della qualità totale, del miglioramento continuo, dello sviluppo

organizzativo. Pertanto la formazione appare configurarsi come azione di stimolo e supporto di

processi di apprendimento che si sviluppano all’interno dei processi produttivi, in una prospettiva di

sviluppo del potenziale dei soggetti. La formazione aspira ad innescare reali processi trasformativi,

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che incidano sui processi di soggettivazione, avendo essa l’esigenza di distinguersi da interventi di

natura differente, che hanno carattere comunicativo, informativo, di marketing, ecc. Il formatore ha

per scopo quello di produrre, attraverso opportune azioni, sempre maggiore integrazione

dell’identità dei soggetti che apprendono, affinché si verifichi un miglioramento della qualità della

loro vita. Nella formazione c’è inevitabilmente un qualcosa che eccede il dispositivo tecnico-

professionale messo in atto. Con ciò la formazione condivide la natura utopica del gesto

pedagogico.

Intelligenza: non esiste una definizione univoca, ogni definizione risente dell’orientamento di

pensiero che la formula. Schematicamente le varie definizioni possono essere suddivise nei seguenti

gruppi: a. definizioni generali, in cui l’intelligenza è vista come quel processo che consente

all’uomo o all’animale dotato di struttura cerebrale evoluta di risolvere nuovi problemi che

implicano una ristrutturazione del rapporto di adattamento con l’ambiente; b, definizioni specifiche,

che considerano l’intelligenza come un insieme di processi mentali specificatamente umani che

investono il ragionamento logico; c. definizioni operative, nate dalla difficoltà di approdare a una

definizione univoca di intelligenza, per cui si preferisce sottoporre alcuni aspetti a determinati test

la cui soluzione definisce di volta in volta il comportamento intelligente.

Mediazione: è la capacità di rendere accessibile, attraverso una facilitazione, un compito che

altrimenti non potrebbe essere affrontato: questa facilitazione avviene attraverso la presenza di un

mediatore, che si interpone tra il soggetto e la realtà, interpretandola e dando modo all’individuo di

apprendere.

Motivazione: le motivazioni sono i moventi del comportamento, consci e inconsci. Per quanto

riguarda l’apprendimento si suole distinguere una motivazione intrinseca da una motivazione

estrinseca: la motivazione intrinseca è sorretta dal bisogno di conoscere ed apprendere, dal bisogno

di sentirsi competenti ed efficaci, dal piacere che deriva dal controllo e dalla realizzazione del

compito; la motivazione estrinseca è costituita dal rinforzo che viene dato al soggetto dall'esterno

per aumentare, mantenere o ridurre la frequenza di un dato comportamento. Variabili della

motivazione estrinseca sono: l'autorità della persona che rinforza e la fiducia che l'allievo ripone in

questa fiducia. Costituiscono motivazioni estrinseche nel caso degli apprendimenti il bisogno di

realizzazione personale, il bisogno di approvazione.

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Percezione: la percezione è ciò che ci consente di accedere a qualche cosa, a ciò che “c’è”: è

apertura all’effettività, conoscenza delle esistenze. Questa prima definizione, apparentemente

evidente, permette di cominciare a caratterizzare la percezione per differenza rispetto a ciò che non

è. La percezione si distingue anzitutto dal pensiero in senso stretto proprio per il suo carattere

sensibile, a cui corrisponde la presenza concreta di qualcosa. Si distingue in secondo luogo dal

sentimento, in quanto apre a un’esteriorità invece di ridursi all’esperienza di uno stato dell’io: La

percezione è dunque caratterizzata da una doppia dimensione. Da un lato è un modo di accesso alla

realtà quale è in se stessa; nella percezione in nessun momento ho la sensazione di avere a che fare

con un doppione, con una immagine della cosa: ho, al contrario la convinzione di scoprire una realtà

che precede il mio sguardo, così come esisteva prima ancora che la percepissi. Dall’altro la

percezione è sensibile, vale a dire mia: è l’esperienza che io ho della realtà. Si traduce in questo

modo il fatto incontestabile che, senza soggetto percepente, precisamente senza organi di senso,

niente apparirebbe. È sufficiente distogliere lo sguardo o chiudere gli occhi perché scompaia un

pezzo intero dello spettacolo, oppure spostarsi perché il paesaggio cominci a muoversi: proprio

mentre si dà a noi come precedente la nostra esperienza, il percepito sembra allo stesso tempo

totalmente tributario della nostra soggettività sensibile. Nell’esperienza immediata coesistono,

dunque, due evidenze opposte; la percezione si fa laggiù, nel mondo, e si fa in me, raggiunge la

cosa così come è in sé e coglie questa stessa cosa attraverso degli stati del soggetto. Se queste due

dimensioni sono conciliabili agli occhi dell’esperienza esse si rivelano al contrario incompatibili

non appena si tenti di nominarle, non appena la riflessione tenti di impadronirsene. Ora, come è

possibile partire da stati soggettivi, immanenti, e dunque relativi, e accedere a ciò che risposa in sé e

non è relativo che a se stesso? Come può il vissuto raggiungere una cosa spaziale che gli è

profondamente estranea? Questo è il problema della percezione, così come è posto essenzialmente

dalla tradizione filosofica. Così formulato il problema riposa interamente sull’assimilazione,

considerata come ovvia e pacifica tra le due caratterizzazioni della percezione: il “qualcosa” non

può designare che la cosa estesa nello spazio e la percezione uno stato soggettivo. Non ci sarà in

questo ragionamento una grave incoerenza? Si conferisce in prima istanza un senso determinato

all’essere del percepito così come a quello del percepente, si comincia con il sottomettere la

percezione a delle categorie disponibili, quelle del soggetto vissuto e dell’oggetto esteso – categorie

edificate dal cartesianesimo – e si sfocia allora nella problematica questione della relazione fra il

soggetto e l’oggetto. Se è vero che nella percezione qualcuno percepisce qualche cosa, niente ci

autorizza a definire questo “qualcuno” come un insieme di stati soggettivi e questo “qualche cosa”

come un oggetto esteso. Si può al limite affermare che un soggetto raggiunga un oggetto, senza con

ciò pregiudicare il senso stesso di queste nozioni. L’incoerenza consiste nella subordinazione

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aprioristica della percezione, è la percezione stessa, in quanto originario accesso alla realtà, che può

liberarcene il senso.

Progetto: il progetto può essere definito come «un’impresa complessa, unica e di durata

determinata, rivolta al raggiungimento di un obiettivo chiaro e predefinito mediante un processo

continuo di pianificazione e controllo di risorse differenziate e con vincoli interdipendenti di costi-

tempi-qualità»1.

È in altre parole l’anticipazione delle possibilità, cioè qualsiasi previsione, predizione,

predisposizione, piano, ordinamento nonché il modo d’essere o d’agire che è proprio di chi fa

ricorso a possibilità. In questo senso nella filosofia esistenzialistica il progetto è il modo d’essere

costitutivo dell’uomo, o come dice Heidegger, che per primo ha introdotto la nozione, è la sua

“costituzione ontologico-esistenziale”2.

Valutazione: la valutazione è uno degli elementi del dialogo didattico tra soggetti, insegnante/i e

studente/i, in una precisa, ma cangiante, dinamica di poteri, attraverso cui l’insegnante misura

qualcosa - e si sottopone così alla contro-valutazione degli studenti - dando implicitamente o

esplicitamente indicazioni operative e di valore attraverso le quali, sia l’insegnante, che gli studenti

elaborano le proprie risposte e la propria immagine di sé, e mettono a punto le regole del loro

lavoro, in termini operativi e di valore, stimolando così o inibendo lo sviluppo di determinate

potenzialità. La valutazione è fondamentale per la formazione dell’immagine di sé e per il rapporto

con l’insegnante. In essa anche l’insegnante forma una immagine di sé esercitando il potere della

valutazione, e questa immagine ha una influenza sulla valutazione stessa. Poiché la valutazione

avviene nel contesto della classe, essa ha un’influenza nella immagine di sé dello studente, mediata

dall’immagine degli altri. Per tutte queste ragioni la valutazione è quindi, a pieno titolo, parte del

rapporto di formazione. In nessun modo può essere considerata soltanto una semplice “misura”,

anche se, sempre, in qualche modo, la valutazione misura qualcosa. Ma guardare al “voto”, vuol

dire aprire lo spazio intenzionale come un simbolo, che si dà solo nell’atto di quell’uso munito di

senso, che apre il gioco linguistico. Con il mero uso di griglie, tassonomie, test e apparati

multimediali resta inevaso il pensiero pedagogico.

La pedagogia non è la parata dei valori come non è il repertorio delle tecniche.

1 F. CAPPA, Progetto senza Soggetto, in ID., a cura di, Intenzionalità e progetto, Franco Angeli, Milano 2007, p. 199. 2 M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, Utet, Torino 1969, § 37.

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Il “dar voti” è quindi soltanto uno dei momenti che compongono l’atto della valutazione, ma

costituisce spesso il punto di incrocio, reale e simbolico, in quest’ultimo caso soprattutto per gli

studenti, delle linee di forza delle relazioni legate al potere e all’immagine di sé che sono messe in

gioco dall’atto della valutazione. Dunque, l’intenzionalità del valutare risulta essere un momento

costitutivo fondamentale per l’azione formativa, in quanto processo interpretativo, di attribuzione di

significato alla realtà osservata. Una realtà mai assoluta, ma una realtà commistione di significati

assegnati all’evento educativo. Il percorso fenomenologico consente di ridisegnare questa serie di

discorsi e delineare i nuovi campi da pensare. Pertanto l’intenzionalità del valutare non è rivolta al

raggiungimento di una presunta obiettività, né ad una “verità sull’evento”, bensì è finalizzata a

fornire una informazione aggiuntiva su di esso, utile a prendere decisioni e a modificare l’evento

stesso. La valutazione deve tener conto delle prospettive di valore dei soggetti coinvolti e della

valorizzazione e confronto di tale pluralità. L’assegnazione di un valore dipende dalla progettualità.

Il progetto diviene la cornice entro la quale leggere l’evento e definire i criteri di giudizio. Ma il

lavoro dell’educatore spesso si sintetizza in uno stilare, eseguire e valutare progetti. L’educatore,

che credesse di realizzare davvero quello che si propone, quasi a dominare con i suoi progetti la

realtà, sarebbe cieco alla possibilità stessa dell’educazione come esperienza e novità. E ancor più

dannoso sarebbe intendere il valutare, come il sancire quantitativamente il successo della

realizzazione dello stesso progetto. La progettualità propria dell’educatore e l’attività del valutare

non sono la culla sulla quale ci addormentiamo sicuri, ma il pungolo che rende rischiosa ogni

mossa, che può portare all’inautenticità del nostro educare, come condizione esistenziale. Leggere il

passato, il presente per proiettare il futuro, è uno studiare per agire più consapevolmente. È

importante, pertanto, distinguere la valutazione dalla verifica e dal controllo. La valutazione non si

limita a ratificare l’esistente, ad individuare gli errori, - l’obiettività viene sostituita dall’imparzialità

– ma, in quanto processo di ricerca, si pone in un ottica strategica, cerca quanto non era a priori

prevedibile, e leggendo l’evento a posteriori, ne direziona l’intervento, al fine di realizzare un

apprendimento per il miglioramento.

La validità della valutazione dipende non solo dalla possibilità di confrontare i dati raccolti nella

valutazione con analoghi dati raccolti prima dell’intervento effettuato, o dalla possibilità di

confrontare ciò che si ritiene essere un “risultato” con ciò che si prefiggeva di raggiungere come

risultato, quindi dalla definizione degli obiettivi di partenza, ma, anche e soprattutto, dalla ricaduta

formativa, offrendo un feedback per l’azione, per generare cambiamento all’interno del contesto in

cui si svolge.

La valutazione può essere certificativa, procedura di valutazione che ha come scopo quello di

classificare gli studenti e giustificare le decisioni circa la promozione all’anno seguente o al

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conseguimento di un titolo di studio; si effettua periodicamente o alla fine di un insegnamento (o

di un gruppo di insegnamenti) o di un certo periodo di apprendimento; può essere formativa,

valutazione del progresso, del profitto del discente dal momento in cui comincia un programma fino

a quello in cui lo conclude; mette a disposizione del discente la possibilità di rendersi conto dei suoi

progressi e del cammino che gli resta da fare per il conseguimento degli obiettivi educativi;

permette di adattare le attività di apprendimento al progresso ottenuto o alla sua mancanza e procura

all’insegnante dei dati qualitativi e quantitativi per modificare il suo insegnamento; ha carattere di

continuità e non deve essere usata come sanzione né apparire in documenti ufficiali; la sua

utilizzazione è controllata dal discente.

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