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«Opus magistri Iocti» La datazione agli inizi degli anni novanta del Duecento pro- posta per le Storie di san Francesco spiega meglio le cose in rap- porto al grande interrogativo sulla loro paternit. ¨ ben noto come la letteratura giottesca sia divisa da quando il Rintelen pubblic, nel 1912, la sua monografia sul pittore italiano 1 , di cui si negava la paternit delle Storie di san Francesco. Larea dei «separatisti» - come credo possiamo chiamare i sostenitori di que- sta idea, per affinit con la celebre questione omerica - si spost dal campo tedesco a quello angloamericano dopo la pubblicazione da parte dellOffner, nel 1939, del celebre saggio Giotto - non Giotto 2 . Coloro che sono rimasti fedeli allidea giottesca hanno quasi sempre evitato un confronto sistematico con i separatisti, sicchØ si sono formati come due circoli chiusi, che hanno dialogato allinterno di se stessi, dando luogo a due letterature parallele su Giotto, a «due verit» giottesche. I separatisti. La pretesa di questo lavoro L invece di affrontare la questione senza dare niente per scontato e di tenere ben presenti le idee dei separatisti. Parto, naturalmente, dalla considerazione preliminare che ad essi viene a mancare un forte argomento, se L vero che le Storie di san Francesco si possono datare agli inizi degli anni novanta del Duecento. Il punto piø debole della tradizione critica che sostiene la paternit giottesca degli affreschi di Assisi era proprio laspetto cronologico per cui ci si appoggiava alla testimo- © 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

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«Opus magistri Iocti»

La datazione agli inizi degli anni novanta del Duecento pro-posta per le Storie di san Francesco spiega meglio le cose in rap-porto al grande interrogativo sulla loro paternità.

È ben noto come la letteratura giottesca sia divisa da quando il Rintelen pubblicò, nel 1912, la sua monografia sul pittore italiano1, di cui si negava la paternità delle Storie di san Francesco. L�area dei «separatisti» - come credo possiamo chiamare i sostenitori di que-sta idea, per affinità con la celebre questione omerica - si spostò dal campo tedesco a quello angloamericano dopo la pubblicazione da parte dell�Offner, nel 1939, del celebre saggio Giotto - non Giotto2. Coloro che sono rimasti fedeli all�idea giottesca hanno quasi sempre evitato un confronto sistematico con i separatisti, sicché si sono formati come due circoli chiusi, che hanno dialogato all�interno di se stessi, dando luogo a due letterature parallele su Giotto, a «due verità» giottesche.

I separatisti.

La pretesa di questo lavoro è invece di affrontare la questione senza dare niente per scontato e di tenere ben presenti le idee dei separatisti. Parto, naturalmente, dalla considerazione preliminare che ad essi viene a mancare un forte argomento, se è vero che le Storie di san Francesco si possono datare agli inizi degli anni novanta del Duecento. Il punto più debole della tradizione critica che sostiene la paternità giottesca degli affreschi di Assisi era proprio l�aspetto cronologico per cui ci si appoggiava alla testimo-

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nianza del Vasari che pone le Storie di san Francesco al tempo di Giovanni da Murro, generale dei francescani a partire dal 12963. Ma con questo terminus post quem le Storie di san Francesco ven-ivano a cadere in un tempo così vicino agli affreschi Scrovegni da far dubitare seriamente dell�idea di una paternità unica per i due cicli. Se invece gli affreschi di Assisi sono riferibili agli inizi degli anni novanta del Duecento, possiamo contare su più di dieci anni per una evoluzione dei modi di Giotto da Assisi a Padova: un arco di tempo che lascia respiro anche per altri problemi altrimenti dif-ficilmente collocabili, come il soggiorno riminese del pittore.

Altra considerazione preliminare è che, indipendentemente da tutto il resto, gli interventi dei separatisti rimangono all�interno del contesto giottesco. Dal 1912 in qua - e sono passati più di set-tant�anni - una seria alternativa all�attribuzione a Giotto non si è mai fatta strada; è rimasta solo l�ipotesi «non-Giotto», di puro e semplice segno negativo. Come nel caso del serpente che si morde la coda, tutti gli interventi dei separatisti hanno ruotato intorno a Giotto, sono tutti dedicati al problema giottesco. E questa circo-stanza, anche da sola, vorrà ben dire qualcosa, e non a favore delle tesi dei separatisti.

Col passare degli anni, un�ipotesi, se è buona, trova sempre delle conferme, porta a degli sbocchi positivi, non fosse che per le cose che fa andare a posto. Questo non è certo avvenuto nel caso dell�ipotesi separatista per la quale, col passare degli anni, le cose si sono fatte più problematiche e il saggio Meiss doveva rico-noscere che il fardello delle prove era un grave peso sulle spalle di chi nega la paternità giottesca del ciclo francescano di Assisi e che tale fardello si andava ancora appesantendo col seguito delle ri-cerche4. Il Meiss si riferiva in particolare ai termini ante quem del 1307 e del 1308 che il White ed egli stesso, rispettivamente, aveva-no potuto stabilire per la datazione del ciclo francescano5; ma quella coscienziosa considerazione si può riferire ad altro ancora.

Il fatto è che l�ipotesi separatista nasceva in un clima culturale particolare, che non è più quello attuale; nasceva, inoltre, entro

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un contesto di conoscenze abbastanza diverse da quelle odierne; si presentava, infine, con dei contorni assai netti e perentori: gli affreschi di Assisi si sarebbero differenziati da Giotto non solo per alcuni singoli aspetti di tipo morelliano, ma soprattutto per ra-gioni più profonde, riguardanti la stessa concezione artistica. Non solo non sarebbero stati opera di Giotto, ma nemmeno della sua cerchia immediata: un tardivo riflesso; per il Rintelen, sarebbero stati di scuola umbra; per l�Offner, di scuola romana6. La loro ese-cuzione sarebbe caduta intorno al 1320 e comunque molto più tardi di quella che veniva considerata la prima opera di Giotto arrivata fino a noi, e cioè gli affreschi Scrovegni. Successivamente, questa idea si è allontanata da quella perentoria formulazione per adattarsi alle nuove conoscenze, dando l�impressione di essere pronta ad addivenire a notevoli compromessi pur di restare in vita. Così, per un separatista non del tutto convinto come Millard Meiss gli affreschi di Assisi diventavano pressoché contemporanei a quelli di Padova e ad eseguirli sarebbero stati degli scolari di Giotto, forse su qualche indicazione lasciata dal maestro7.

Non si può negare che anche in campo avverso cambiava qual-cosa, soprattutto quando si prendeva coscienza del fatto che era difficile parlare del ciclo assisiate come di un�opera giottesca in senso stretto e si era sempre più pronti a riconoscere l�ampiezza dell�intervento degli aiuti, fino ad arrivare al concetto di «bottega giottesca» (come è stato formulato dal Previtali nella sua mono-grafia su Giotto e la sua bottega), che va oltre quello romantico di personalità o di autografìa, meno adatto a rispecchiare la situa-zione operativa dell�artista del Trecento8.

Ma osserviamo come si modifica il contesto di convinzioni e dì conoscenze su cui era maturata l�ipotesi separatista. Se il ciclo francescano non poteva essere opera di Giotto, non lo erano nem-meno il Crocifisso di Santa Maria Novella (fig. 104) e la Madonna di San Giorgio alla Costa, nonostante le illustri testimonianze a favo-re; anzi, queste due opere non potevano riferirsi nemmeno allo stesso artista. L�Offner attribuiva la Madonna di San Giorgio alla Costa al Maestro della Santa Cecilia; ma più tardi egli rivedeva le

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proprie idee ed era pronto ad ammettere che i due dipinti fossero opera di uno stesso pittore e che il Crocifisso di Santa Maria No-vella mostrava indubbie affinità col ciclo francescano di Assisi9.

Nel momento in cui l�Offner conquistava l�area angloamericana all�ipotesi separatista col celebre Giotto - non Giotto, proprio nella roccaforte dei separatisti, la Germania, si levava la voce dissidente di Oertel10 e da allora gli storici dell�arte tedeschi diventavano molto più inclini ad ammettere la responsabilità di Giotto nel ciclo francescano di Assisi.

I separatisti tendevano a sorvolare sugli affreschi dei registri alti della navata di Assisi, dalle Storie di Isacco in avanti, intorno ai quali spirava un�aura romana (gli affreschi erano stati attribuiti perfino al Cavallini)11, mentre Oertel li riconduce decisamente en-tro l�opera prepadovana di Giotto, insieme al ciclo francescano, al Crocifisso di Santa Maria Novella e alla Madonna di San Giorgio alla Costa, così come facevano in Italia il Toesca e il Longhi.

Escludere qualsiasi intervento di Giotto ad Assisi prima della sua attività a Padova sembrò al separatista Millard Meiss andare contro ogni plausibilità storica («general historical plausibility»)12 e fu a seguito di una riflessione su questo punto che propose di identificare l�autore delle Storie di Isacco (fig. 48) con il giovane Giotto. Alle stesse conclusioni arrivò lo Smart, un altro separa-tista13. Il seguito della decorazione dei registri alti non si man-teneva, secondo il Meiss, allo stesso altissimo livello ed assumeva dei caratteri che già annunciavano il ciclo francescano, opera di uno scolaro di Giotto. Nella bottega del pittore fiorentino sarebbe nato anche il Crocifisso di Santa Maria Novella14. Come si vede, il contesto separatista è profondamente mutato rispetto a quello del Rintelen e dell�Offner e oggi anche in America c�è chi da per si-curo che la Madonna di San Giorgio alla Costa e il Crocifisso di Santa Maria Novella siano opera di Giotto15.

Un punto di riferimento per le tesi separatiste era l�aspetto ro-maneggiante delle Storie di san Francesco. Ma in proposito si doveva essere disponibili a non guardare troppo per il sottile; perché, in realtà, si faceva equivalere romaneggiante a cavallinia-

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no, con una semplificazione indebita dal momento che romano non era solo il Cavallini ma anche un pittore ben noto come il Tor-riti, attivo nell�ultimo decennio del Duecento e presente di sicuro ad Assisi con una cultura pittorica che non presenta aspetti stret-tamente cavalliniani. Ma Pietro Cavallini era il genio rilanciato da quell�evento clamoroso che fu, all�inizio di questo secolo, la sco-perta dei suoi affreschi di Santa Cecilia in Trastevere16. La loro datazione intorno al 1293, che da presunta si incominciò presto a considerare sicura, la loro cultura artistica e la loro alta qualità fecero convergere verso il Cavallini tutte quelle manifestazioni pittoriche innovatrici (ivi compreso il ciclo francescano di Assisi) che tra la fine del Due e gli inizi del Trecento andavano diffon-dendosi in Italia secondo una formulazione che non sembrava coincidere con quella degli affreschi Scrovegni, cioè della prima opera sicura di Giotto, ma piuttosto con quella degli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere. Nacque così un vero e proprio feno-meno di «pancavallinismo»17. Le Storie di Isacco ad Assisi, la deco-razione della sala dei Notai a Perugia, il Maestro di Cesi, gli affreschi romani di Vescovio e di Subiaco, la pittura riminese del primo Trecento, la pittura romana, la pittura campana e perfino quella fiorentina: tutto rientrava nell�orbita del Cavallini. L�Of-fner, così severo con la testimonianza vasariana sulla paternità giottesca delle Storie di san Francesco, arriva fino a dar credito allo storico aretino quando, nella seconda edizione delle Vite, parla di un�attività del Cavallini a Firenze, grazie alla quale si poteva risolvere il problema fiorentino del Maestro della Santa Cecilia, che non sarebbe stato giottesco ma cavalliniano e «romanizing»18.

È evidente la forzatura di un simile modo di vedere le cose. Nella città di Giotto, in tempi in cui Giotto doveva essere già attivo, è molto più credibile che il Maestro della Santa Cecilia sia un giottesco. La fioritura della civiltà pittorica riminese di primo Trecento è molto più probabile che sia avvenuta sotto lo stimolo di Giotto, del quale sappiamo che ha lavorato a Rimini, mentre non c�è nessuna testimonianza di una presenza riminese del Cavallini. La forza del buon senso è bastata a sgonfiare tali eccessi

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di «pancavallinismo», mentre altri aspetti di questo fenomeno sono andati ridimensionandosi. E avremo modo di riparlarne nel capitolo successivo.

Un altro punto che non ha avvantaggiato i separatisti è quello della cronologia. Essi consideravano gli affreschi di Assisi più tardi di quelli padovani; per il Rintelen, come abbiamo già detto, erano da collocare verso il 1320. Una sensatissima osservazione del Bracaloni, ripresa dal Kleinschmidt19, secondo cui il ciclo as-sisiate sarebbe anteriore al 1305 perché la torre del Palazzo Comu-nale di Assisi raffigurata nell�Omaggio dell�uomo semplice (fig. 45) manca ancora del rialzamento realizzato in quell�anno, fu ingiu-stamente bistrattata20: in realtà essa rimane valida anche oggi. Furono, comunque, proprio i separatisti a scoprire dei termini ante quem per il ciclo assisiate che diventavano molto imbarazzanti per chi doveva continuare a sostenere la precedenza cronologica del ciclo padovano. White trovò che la scena con la Stigmatizzazione di san Francesco era stata tenuta presente da Giuliano da Rimini nel polittico di Boston, firmato e datato 1307; il Meiss scopri delle citazioni da Assisi nel dossale di Cesi del 130821. La proposta cronologica del Rintelen subiva così un notevole ridimensiona-mento e con essa l�idea che quanto di giottesco si poteva scorgere nel ciclo assisiate fosse solo un tardivo riflesso.

La tesi dei separatisti che rifiutavano di riconoscere nel ciclo di Assisi e nelle tavole fiorentine di San Giorgio alla Costa e di Santa Maria Novella l�attività giovanile, prepadovana di Giotto, subi-vano un altro colpo dalla riscoperta del polittico di Badia22. Citato dal Ghiberti, esso costituisce un anello di congiunzione tra quelle opere e gli affreschi padovani, tra quelle opere e la Madonna di Ognissanti: per alcuni aspetti ancora «scritto», disegnato e dili-gentemente modellato come ad Assisi, per altri già pittorico come a Padova.

Il ripensamento dell�Offner sui rapporti stilistici tra il Crocifisso di Santa Maria Novella e la Madonna di San Giorgio alla Costa, il ridimensionamento del «pancavallinismo», la scoperta del polittico di Badia, l�ingresso sempre più consistente nel problema giottesco degli affreschi dei registri alti della Basilica Superiore di

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Assisi, dalle Storie di Isacco in avanti, e la scoperta dei termini ante quem al 1307-308 per le Storie di san Francesco hanno mutato note-volmente il contesto delle conoscenze e delle certezze sulle quali i separatisti fondavano le loro idee, sicché il Meiss deve riconoscere la difficoltà della loro situazione. Ma bisogna dire che anche il clima culturale è assai mutato. Oggi nessuno direbbe, come faceva il Rintelen, che negli affreschi di Assisi è presente «in luogo del fantasioso indefinito di Giotto, una fredda naturalezza, spinta ad una volgare tangibilità»23. Non si nega che nella rappresentazione delle cose il ciclo Scrovegni sia più indefinito e quello di Assisi più naturalistico, oltre a dare l�impressione di una maggiore tangi-bilità. Ciò che non si può accettare è che a tali caratterizzazioni debbano essere riferiti dei valori positivi o negativi; che, cioè, l�indefinitezza di Padova debba significare una qualità superiore e che la tangibilità di Assisi debba essere invece tacciata di vol-garità. Tutto ciò rappresenta un atteggiamento mentale in linea con l�idealismo della cultura del momento, ma non può costituire un criterio di giudizio. L�Offner è meno esplicito, ma anche la sua caratterizzazione degli affreschi di Padova pecca di eccessivo idealismo: in essi, scrive, «l�essere è messo in risalto sul fare, l�e-ternità sul momento, l�idea sul fenomeno»; «l�uomo è distaccato dagli interessi del mondo», «rappresenta l�essenza della virtù in modo ideale»; il suo sguardo «non è mai occupato da un soggetto estraneo ma riflette sempre uno stato interiore». Le scene di Padova «mantengono una distanza ideale e indeterminata dallo spettatore, come visioni di sogno»; «le architetture, le rocce, gli alberi [...] sono [...] innanzitutto delle astrazioni cubiche». Ed ecco il confronto svantaggioso con Assisi, dove appare un tipo di umanità dalla coscienza refrattaria, mentre a Padova «diventiamo coscienti [...] di uno spirito vivente che dirige il corpo e lo mette in movimento, piuttosto che della sua irriducibile materialità come ad Assisi»24.

Se possiamo essere d�accordo sul tono più distaccato e idealizzante del racconto negli affreschi padovani, di contro alla maggiore vivacità naturalistica delle Storie di san Francesco, non possiamo fare a meno di notare una tendenza ad enfatizzare e

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radicalizzare le differenze tra i due cicli da parte dell�Offner, che lo portano a qualche sfallo. Così, quando celebra l�apice idealistico della plasticità giottesca nel Crocifìsso della cappella Scrovegni, dove questa plasticità sarebbe «sentita essenzialmente come una manifestazione dell�immateriale»25, sembra non accorgersi che gran parte di questa immaterialità è dovuta al labile stato di con-servazione del dipinto, come si è visto chiaramente in occasione della mostra Da Giotto al Mantegna26. Egli afferma che a Padova «l�architettura è sostanzialmente ideale ed astratta»27, ma con una significativa dimenticanza, non ricorda mai in tutto il suo lungo saggio i due finti ceretti in prospettiva (fig. 40), un apice di con-cretezza in ordine alla rappresentazione dello spazio che rimarrà insuperato in tutto il Trecento28. Un esperimento singolare e così chiaramente rapportabile, anch�esso, a ragioni di concretezza «spaziosa» come quello delle aureole in scorcio usate per le figure di profilo o di tre quarti (figg. 44, 49, 89) diventa per l�Offner un espediente compositivo e formalistico, «un mezzo sia per far risaltare che per differenziare i personaggi, con l�intenzione di realizzare una più chiara organizzazione nella singola scena e una fluidità ritmica nella narrazione»29; e rappresenta per lui un elemento differenziante tra il ciclo padovano e quello assisiate.

Gli angeli-gnomi: Assisi prima di Padova.

Un altro evidente travisamento dell�Offner è quello relativo alla raffigurazione degli angeli. «Ad Assisi - egli osserva - gli angeli sono concepiti come abitanti della terra a figura intera, diffe-renziati dall�umanità soltanto dalle loro ali. A Padova essi sono piccoli, simili a gnomi [...] la parte bassa dei loro corpi svanisce in una nuvola, sicché ci meravigliamo di trovarli occasionalmente posati nella loro figura intera su piedi umani. Ma gli angeli di Assisi mantengono il loro corpo intero anche in volo»30. Sembra che l�Offner non si sia accorto che era molto comune in que-st�epoca raffigurare gli angeli sotto un duplice aspetto: a figura in-tera, con i piedi per terra ma anche volanti, oppure a mezza figura

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sempre volanti. Cimabue, ad esempio, usa tutti e due i tipi. Non so quale sia l�origine di questa duplice figurazione e quale ne fosse il significato, ma sta di fatto che anche le Storie di san France-sco non fanno eccezione a questa regola, perché, se in due delle tre scene dove compaiono degli angeli essi sono rappresentati a fi-gura intera, nella terza, la Confessione della donna di Benevento, è presente proprio uno di quegli angeli «piccoli e simili a gnomi» in volo a mezza figura (fig. 38) che l�Offner credeva di aver visto sol-tanto negli affreschi padovani. Ed essi compaiono anche nella Deposizione del registro alto della navata di Assisi. E vero, tuttavia, che a Padova gli angeli-gnomi sono un po� diversi (fig. 39): il loro corpo non è tagliato a metà come ad Assisi, ma è interrotto da una nuvoletta che sembra nascondere l�altra metà; inoltre le loro ali non sono, come ad Assisi, formate da lunghe scaglie coloratissime ed astratte ma simili a quelle di un uccello vero. Ma che significa questa differenza? Una cosa sola, mi pare: significa che gli angeli-gnomi di Assisi sono ancora quelli duecenteschi, che si vedono anche - per fare un esempio molto vicino - negli affreschi di Cimabue (fig. 37), mentre gli angeli di Padova sono già quelli che compariranno nelle figurazioni trecentesche. Insomma, significa che gli affreschi di Assisi sono più antichi di quelli di Padova. E bisogna anche riconoscere che l�innovazione di Padova ha un si-gnificato squisitamente naturalistico e che, in questo caso, la bi-lancia di una maggiore astrattezza pende decisamente in favore di Assisi.

Assisi prima di Padova: schemi compositivi.

Per ora, comunque, concentriamoci sulla circostanza che, come dimostra anche il caso degli angeli-gnomi, gli affreschi di Assisi sono più antichi di quelli di Padova. Questa circostanza giustifica - mi sembra - molte delle differenze innegabili che l�Offner enu-clea tra i due cicli. Egli nota, per esempio, che «in contrasto con Padova, dove l�occhio dell�osservatore è costantemente pensato al livello delle teste in primo piano [...] ad Assisi la composizione è vista spesso da sopra»31. Ma di un simile modo

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di comporre le figure si potrebbero citare moltissimi esempi dal-l�epoca tardoantica alla fine del Duecento, a dimostrazione del fatto che si tratta di una prassi arcaica; ma, per non andare troppo lontano, basta soffermarsi nella stessa Basilica Superiore davanti agli affreschi di Cimabue, come l�Assunzione, le due Crocifissioni, la Visione del trono, il Cristo apocalittico, la Crocifissione di san Pietro, ecc. (figg. 118, 211). E tuttavia, in confronto a queste composizioni, quelle francescane come - ad esempio - la Conferma della Regola (fig. 27) mostrano già un�intenzione «spaziosa», perché le figure si dispongono, è vero, una più in alto dell�altra, ma soprattutto una dietro l�altra, schierandosi lungo linee di fuga che si dirigono ver-so il centro della scena e dando così l�impressione di degradare nella profondità dello spazio. È un criterio che a Padova viene se-guito in scene come l�Ultima Cena, la Lavanda dei piedi o la Pente-coste, ma soprattutto nel Giudizio Finale, dove le schiere degli eletti (figg. 10, 15) si dispongono come il piccolo manipolo di frati ingi-nocchiati dietro san Francesco che presenta la Regola.

Anche molte altre differenze tra Assisi e Padova fatte notare dall�Offner in ordine alla disposizione compositiva e «spaziosa» della scena sono spiegabili col fatto che gli affreschi assisiati, es-sendo più antichi, conservano un maggior numero di elementi tradizionali che le opere giottesche più mature. È evidente che una tradizione figurativa quasi millenaria non poteva essere spazzata via da un giorno all�altro. Così, se in certi affreschi come la Cac-ciata dei diavoli da Arezzo (fig. 50), diversamente da quanto accade a Padova, «l�azione è spostata su un lato senza alcun elemento figu-rativo dall�altro lato»32, è perché la tradizione figurativa medie-vale, insieme a composizioni rigidamente simmetriche, accoglie - soprattutto nelle scene narrative - composizioni molto libere da preoccupazioni di bilanciamenti compositivi. Si potrebbero citare molti casi al riguardo, tra affreschi, mosaici, miniature, smalti, rilievi, ecc.; ma basterà ricordare gli esempi più vicini nel tempo di molte scene musive della cupola del Battistero fiorentino, della Predica agli uccelli di Bonaventura Berlinghieri nel dossale di San Francesco a Pescia, di Gioacchino tra i pastori del Maestro di San Martino nella tavola eponima del Museo di

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Pisa, ecc. E un pittore più anziano di Giotto come Duccio di Bo-ninsegna si ricorda di un simile procedimento compositivo ancora nel 1308-11 in alcune storiette della Maestà del Duomo di Siena, come l�Andata ad Emmaus.

Del resto, nemmeno a Padova Giotto si era sganciato del tutto da certe consuetudini figurative medievali, come saprà fare poi nelle opere successive. Vorrei segnalare almeno due casi di com-promesso (se non di resa) con tradizioni che venivano da molto lontano. Uno è quello delle acque del Giordano nel Battesimo di Cristo. Non che Giotto le raffiguri secondo lo schema della «mon-tagna d�acqua» in cui si era trasformato lo scorcio del Giordano nelle rappresentazioni medievali del Battesimo33, ma resta evi-dente che nell�affresco di Padova l�acqua forma almeno una leg-gera altura e che se davvero arrivasse a coprire, come si vede, me-tà della figura di Cristo, anche parte delle rocce e dei corpi degli altri personaggi ne dovrebbero essere sommersi.

Il secondo caso riguarda la rappresentazione della folla nel Ba-cio di Giuda. Come in tante figurazioni più antiche, da Sant�An-gelo in Formis agli affreschi di Cimabue (fig. 211), il vocabolo folla è sempre stato rappresentato da alcune figure in primo piano e da un monticello di teste svettanti dietro queste, a formare un blocco compatto e chiuso. Negli affreschi di Santa Croce Giotto eviterà sistematicamente questo arcaismo, ma a Padova esso è ancora pre-sente, come si vede nel Bacio di Giuda, appunto.

Meno generiche e più direttamente implicanti le origini del-l�arte di Giotto sono le osservazioni fatte dall�Offner sulla materia pittorica, che, ad Assisi, ha nel panneggio una «lucentezza metal-lica», nelle rocce «una luce fredda», negli incarnati un tratteggio a striature distinte, molto diverso dal soffice pittoricismo di Pado-va34. La lucentezza metallica, la luce fredda sono ancora quelle che caratterizzano molte opere di Cimabue o di artisti a lui molto prossimi, come il Crocifisso di Santa Croce, la Madonna dei Servi di Bologna (figg. 209, 228), alcune scene dei mosaici del Battistero di Firenze, la Madonna Rucellai di Duccio (figg. 204, 229) e soprattutto la Madonna di Castelfiorentino (figg. 223, 225). Questo fatto sta a indicare come la formazione di Giotto si svolse probabilmente nella bottega di Cimabue e in

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qualche rapporto col giovane Duccio negli anni intorno al 1285, data della Madonna Rucellai. Ma su questo punto torneremo più avanti35. Qui è importante far notare come questi effetti di lucen-tezza metallica che caratterizzano ancora le Storie di san Francesco siano anch�essi spiegabili come segni di maggiore arcaismo nei confronti degli affreschi Scrovegni.

Anche il modellato a tratteggio si riallaccia direttamente ad una prassi cimabuesca (figg. 145-47), vistosamente denunciata da-gli stessi suoi affreschi assisiati. E vedremo più avanti l�impor-tanza che la constatazione di questa filiazione diretta ha nel consi-derare il problema del Cavallini36. Contrariamente a quanto sem-bra voler dire l�Offner, Giotto rimarrà sostanzialmente fedele a questo procedimento, come si vede ancora nel tardo Santo Stefano Horne.

Altro segno arcaico delle Storie di san Francesco nei confronti degli affreschi Scrovegni è la presenza di una finta tenda nella parte più bassa della parete, sotto le scene figurate (fig. 234). Essa riprende il motivo utilizzato da Cimabue nel transetto della stessa Basilica Superiore (fig. 170), mentre a Padova troviamo un finto zoccolo marmoreo entro cui sono inseriti i finti rilievi dei Vizi e delle Virtù (fig. 40), secondo un�idea più progredita e più siste-maticamente architettonica; insomma più trecentesca e così mo-derna da porsi come il precedente più diretto per un genere di decorazione ad affresco che avrà grande fortuna nel Quattro e Cinquecento: il Chiostro Verde di Santa Maria Novella e il Chio-stro dello Scalzo a Firenze ne sono gli esempi più illustri. Ma si pensi anche a tutte le finte statue che i fiamminghi dipingeranno negli sportelli delle loro tavole d�altare, dal Polittico dell�Agnello mistico in poi; si pensi, infine, alle specchiature di marmi mischi così amate dai pittori italiani di metà Quattrocento.

Assisi prima di Padova: la riscoperta del profilo.

È singolare che non si sia mai messo l�accento su una evidente disparità figurativa tra Assisi e Padova, che riguarda la rappre-sentazione del profilo. I due cicli si inseriscono, infatti, nella stra-

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ordinaria storia della scomparsa del profilo nell�arte del Medio-evo, che una volta dovrà essere raccontata e che, come la storia della guarigione delle scrofole ricostruita da Marc Bloch come miracolo della sacra regalità medievale, potrebbe diventare una piccola porta di servizio per penetrare qualche aspetto della men-talità dell�uomo medievale dal IV fino al XIV secolo. Dai rilievi della base dell�obelisco di Teodosio a Costantinopoli alla Madonna di Santa Trinità di Cimabue (fig. 203) esiste un filo conduttore nel quale è implicato il concetto di «maestà», che si trasferisce sulle raffigurazioni di monumentali Madonne in trono e sul quale getta qualche luce l�inciso del Cennini: «... in faccia, o vero in maestà»37. Come le figure di Teodosio e dei suoi dignitari, così le immagini sacre e i personaggi positivi esigono sempre la frontalità, e quan-do, come gli angeli che fanno corona ai troni delle Madonne di fine Duecento, si devono rivolgere verso un�altra figura, lo fanno rimanendo frontali e piegando la testa nella direzione della figura verso cui si volgono. Con Giotto, tutto ciò scompare e già nella Madonna di Ognissanti, ora agli Uffizi, gli angeli si rivolgono alla Vergine disponendosi di profilo. Ma questo è uno dei tanti aspetti della riappropriazione del visibile in termini più mondani e natu-rali, per non dire naturalistici, operata da Giotto e attuata a Pado-va con tanta conseguenza da implicare anche l�esperimento delle aureole in scorcio (figg. 44, 89). Alcuni profili, non dico di figure minori ma dello stesso Cristo e della Vergine (figg. 15, 15), sono tra i più puri e solenni di tutto il Trecento e la loro «maestà» è tutta interiore, affidata alla capacità di rappresentarla per forza di espressione e nobiltà di atteggiamento, nonostante la mancanza di frontalità, cioè di quella consuetudine iconografica, durata un mil-lennio, attraverso cui si indicava la dignità e l�importanza del per-sonaggio raffigurato. Una simile consuetudine non aveva mancato di provocare un vero e proprio impoverimento della capacità di vedere un profilo e quando, nelle Storie di san Francesco (figg. 12, 31) ci si prova per la prima volta dopo tanto tempo a reimpiegarlo sistematicamente, esso appare curiosamente irrealizzato e man-cante (figg. 99,101). Quelli dei frati dietro san Francesco nella Con-ferma della Regola (fig. 27), quello del signore di Celano, quello del-lo stesso san Fran-

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cesco nel Miracolo dell�assetato e tanti altri che si vedono ad Assisi lasciano molto a desiderare sotto l�aspetto naturalistico e in con-fronto a quelli purissimi e pienamente realizzati di Padova costi-tuiscono un momento più arcaico nella storia del recupero di questo aspetto del visibile. Né si può imputare questo «difetto» a mancanza di qualità. Si può ricorrere a un esempio qualsiasi per spiegare un simile fenomeno. Consideriamo - che so? - gli affre-schi intorno all�arco trionfale di San Zeno a Verona38, assai belli e interessanti ma non certo paragonabili con quelli di Assisi per altezza di risultati. Essendo esemplati sulle figurazioni padovane di Giotto, essi contengono profili straordinari e perfettamente svolti. Invece, in opere di cultura più arcaica e ancora soltanto protogiottesca come quelle di un Maestro di San Gaggio o di un Maestro della Santa Cecilia, si ritrovano nella raffigurazione dei profili gli stessi impacci delle Storie di san Francesco ad Assisi.

Lo stesso accade a Siena, al tempo di Duccio i cui profili nelle storiette della Maestà sono ancora del tipo assisiate, quando invece Simone Martini e i Lorenzetti, formatisi qualche decennio più tar-di, arrivano perfino ai virtuosismi del profilo in scorcio dall�alto o dal basso. Il ritrovare nella pittura riminese di primo Trecento dei profili del tipo assisiate fa pensare che Giotto abbia soggiornato a Rimini in un periodo intermedio fra Assisi e Padova, come qual-cuno ha già suggerito per altre ragioni39.

Illusionismo architettonico ad Assisi e a Padova.

Se alcune differenze tra Assisi e Padova, come quelle relative alla raffigurazione degli angeli, alla collocazione del punto di vista, alle asimmetrie compositive, alla materia pittorica, alla tenda nella zoccolatura o alla realizzazione delle teste in profilo, sono imputabili al fatto che le Storie di san Francesco, in confronto agli affreschi Scrovegni, rappresentano un momento più arcaico in quel processo di reinvenzione e di riorganizzazione del visibile in termini più mondani e meno simbolici (che nemmeno a Padova è del tutto compiuto, come dimostrano i casi della raffigurazione

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delle acque del Giordano nel Battesimo di Cristo e della folla nel Bacio di Giuda), al punto che esse possono considerarsi quasi a metà strada fra Cimabue e il Giotto padovano, altri elementi di diversità sottolineati dall�Offner si giustificano per altre ragioni.

Egli considera inconciliabile il sistema di incorniciatura archi-tettonica di Assisi con quello di Padova, il primo realizzato in un vistoso trompe-l�oeil che interferirebbe con le scene figurate di- straendo l�osservatore (fig. 234), il secondo molto più discreto, piatto ed esclusivamente decorativo. Ma, intanto, non bisogna di-menticarsi di osservare che tutto l�impianto decorativo di Padova è pure esso organizzato fingendo una ben tangibile intelaiatura architettonica i cui elementi portanti sono costituiti dal finto zoc-colo marmoreo e da quattro solidi pilastri, con capitelli e tutto, dipinti ai quattro angoli della cappella e più precisamente alle estremità della parete dell�arco trionfale e della parete di fondo. Qui, tutto il Giudizio Finale è incorniciato, «come se fosse visto attraverso una finestra» (per usare l�espressione con cui l�Offner caratterizza gli affreschi di Assisi differenziandoli da quelli di Padova)40, da un�impalcatura architettonica tanto solida che alcuni dannati dell�Inferno vi camminano sopra. Più ancora impressionanti come puro trompe-l�oeil architettonico sono i due finti coretti in prospettiva sulla parete dell�arco trionfale, che, occupando due spazi in cui avrebbero dovuto trovar posto due storie figurate, interferiscono con gli affreschi e rappresentano la più esplicita dichiarazione che anche a Padova, come ad Assisi, la cornice architettonica finge di far parte dell�architettura reale, gio-cando su questa idea fino a creare un caso di puro illusionismo architettonico senza precedenti nella storia della pittura italiana.

Dell�intelaiatura architettonica della cappella Scrovegni l�Offner sembra aver guardato soltanto alle larghe e piatte fasce verticali: «lungi dal creare un passaggio dallo spazio reale a quello dipinto, come fa la cornice del ciclo di San Francesco, la rete di fasce incor-nicianti che si vede a Padova rimane sostanzialmente ornamentale ed astratta»41. In realtà, come ha già osservato il Gioseffi, nessuna delle finte membrature architettoniche della cappella Scrovegni, anche le più piatte, manca di un suo spessore.

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Anzi, gli «scorniciamenti» orizzontali sono «scorciati secondo un sott�in su tanto più pronunciato quanto più siano collocati alti»42, al punto che l�ultimo nasconde le parti basse della decorazione dei tre arconi che cerchiano la volta.

Diversità di condizioni ambientali fra Assisi e Padova.

Astratto in una disamina puramente stilistica, l�Offner non ha considerato nemmeno la profonda diversità di situazione con cui il pittore doveva fare i conti. Ad Assisi, operava nell�ampio spazio di una basilica destinata ad accogliere folle di visitatori e di pel-legrini ed aveva a che fare con una sorta di zoccolo orizzontale fortemente aggettante rispetto alle pareti alte su cui si aprono le finestre; a Padova, si trovava invece ad operare in una piccola cappella voluta da un committente che, per quanto ricco e ambi- zioso, rimaneva pur sempre un privato (fig. 234). Le Storie di san Francesco si svolgevano su un�unica fascia orizzontale e il forte ag-getto della parete e l�ampio spazio della navata davano la possi-bilità di giocare su più ampi aggetti architettonici. Che il sistema decorativo qui messo in opera non fosse un semplice gioco illusio-nistico vistosamente sottolineato, ma avesse una potenzialità per-fettamente funzionale è dimostrato dal fatto che esso riproduce in parte quello che è il reale sviluppo architettonico riscontrabile nel transetto della vicina basilica di Santa Chiara, dove lo stesso alto zoccolo aggettante è coronato da una scorniciatura reale sorretta da una fila di mensole vere.

A Padova, invece, il pittore aveva a che fare con pareti lisce da terra fino al sommo della volta (fig. 40). Per di più, vi erano delle buone ragioni contingenti a vietargli di fingere degli aggetti ar-chitettonici troppo pronunziati. La più evidente consisteva nella circostanza che aveva a che fare con uno spazio reale molto ridot-to in confronto a quello della Basilica di Assisi e fìnti aggetti trop-po pronunciati avrebbero dato l�impressione di uno spazio ancora più ristretto; non per nulla il suo grande exploit di illusio-nismo spazioso, i «coretti», non finge un aggetto ma un «recesso» ar-

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chitettonico, che crea uno spazio al di là della parete non al di qua di essa.

Di un�altra diversità oggettiva di situazione bisogna poi tener conto: quella delle dimensioni dei riquadri destinati alle storie dipinte, che sono di 270 centimetri di altezza ad Assisi e di 200 a Padova43. Se si considera che la pittura ad affresco aveva come unità di misura la figura umana a grandezza naturale, si può im-maginare quali conseguenze diversificanti potesse avere sull�as-setto compositivo delle storie dei due cicli una simile differenza di formato44. Essa spiega il maggiore sviluppo architettonico dei ri-quadri di Assisi, così come la maggiore concentrazione ed orga-nicità di rapporto tra figura e architettura che si è sempre sotto-lineata negli affreschi padovani, ma che è anche frutto di una for-zata riduzione al minimo delle presenze architettoniche: a Padova, le scene sono sempre caratterizzate dalla presenza di un solo ele-mento architettonico, con l�unica eccezione della Strage degli inno-centi dove ne compaiono due.

Questa differenza di proporzioni ha condizionato perfino le dimensioni delle figure, che a Padova sono eccezionalmente rac-orciate in confronto a quelle che si vedono non solo ad Assisi ma in tutto il resto della produzione giottesca.

Dunque, per quanto riguarda la diversità di comportamento tra Padova ed Assisi nei confronti della concezione dell�incorni-ciatura architettonica, essa si spiega in gran parte con la profonda diversità di situazione in cui il pittore si è trovato ad operare.

Assisi: nascita della concezione figurativa del secolo di Giotto.

Del resto, possiamo guardare le cose anche un po� più da lonta-no. Se facciamo un confronto tra i sistemi di incorniciatura dell�af-fresco medievale fino alla fine del Duecento e quelli trecenteschi si notano subito le profonde differenze di concezione: grafici e decorativi i primi, come se si trattasse di una miniatura ingrandita o di una stoffa appoggiata alla parete; solidi e architettonici

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i secondi, come se fingessero di far parte integrante dell�archi-tettura reale dell�ambiente in cui sono dipinti. Sembra che questa nuova concezione, che si diffonde sistematicamente nella pittura italiana insieme alle novità giottesche, sia particolarmente orga-nica e razionale negli ambienti più vicini a Giotto, tanto da far supporre che essa fosse parte integrante di quelle novità, come la sostituzione del trono di legno tutto elaborato da intagli e torniture e tramato d�oro, in uso fino al tempo di Cimabue e del giovane Duccio, con un trono architettonico in uso da Giotto in poi. In questa prospettiva, la cornice architettonica di Assisi apparirà soltanto come più vistosamente architettonica di quella di Padova, ma ugualmente architettonica e giottesca, e non dissimile da quelle usate dai pittori più vicini a Giotto quando hanno a disposizione spazi che lo permettano. In particolare, l�uso di solide colonne ai lati delle figurazioni ad affresco si ritrova nella cappella di San Nicola e in quella della Maddalena nella Basilica Inferiore di Assisi, nella cappella Baroncelli e in quella Rinuccini a Santa Croce, ecc.

San Francesco, personaggio da «comedia».

Riflettiamo ora su un�altra delle differenze che, secondo l�Off-ner, renderebbero inconciliabili le Storie di san Francesco e gli affreschi Scrovegni o quelle che egli considera le opere autografe di Giotto. A dire dell�Offner, ad Assisi l�azione è resa in modo naturalistico; le figure umane hanno un�esistenza fisica e rispon- dono a tutte le sollecitazioni del mondo fisico, «sono presentate come felicemente consapevoli dei loro corpi e dei loro gesti, occupate nei propri pensieri, essendo scopertamente coscienti di quanto sta accadendo»; è imitata la mutevole varietà del mondo reale. In Giotto, invece, è l�atemporale e il generico; «l�espressione non risponde mai ad un momento ma è rapportata all�eternità»45. Sono osservazioni bellissime, ma caratterizzano davvero l�intero campionario umano figurato da Giotto a Padova? Esse si attagliano perfettamente alle figure di Cristo, di Maria, di Gioac-

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chino, di Anna, degli angeli, degli Apostoli, insomma dei più venerandi e solenni personaggi che agiscono in questi affreschi. Ma se spostiamo lo sguardo sui personaggi minori, sulle «com-parse» di queste storie, ci troviamo di fronte ad un�umanità più feriale, ordinaria e segnata perfino da caratterizzazioni comiche o grottesche. I pastori intorno a Gioacchino, alcune comari di Anna che ridono presso la Porta Aurea (fig. 100), i servi nelle Nozze di Cana (fig. 102), molti dei soldati e dei seviziatori nelle scene della Passione, alcuni fra gli Eletti e quasi tutti i Dannati del Giudizio Finale, alcune delle personificazioni dei Vizi e delle Virtù nei finti rilievi marmorei dello zoccolo, ecc., sono figure per le quali le os-servazioni dell�Offner sull�umanità giottesca cadrebbero nel vuo-to, mettendo in evidenza, per contro, la potenzialità di Giotto in ordine alla congrua raffigurazione di un tipo di umanità più umile. Questa intenzionale diversificazione di livelli di umanità apre dei problemi estremamente affascinanti, soprattutto per i riscontri e le affinità con la letteratura teatrale. Dalle sacre rappre-sentazioni medievali - in particolare modo quelle tedesche - alle tragedie di Shakespeare è viva la tradizione di un doppio livello di dignità delle situazioni e dei personaggi (i tragici protagonisti e le comiche comparse; gli episodi seri e quelli grotteschi; le Pie Donne, Rubino e la medichessa nel Mistero pasquale di Eriau; Macbeth e il portiere del castello di Inverness, ecc.) che inter-agiscono, dando coloriture diversificate ad un�opera che rimane comunque unitaria.

Ai personaggi minori degli affreschi Scrovegni sembrano atta-gliarsi perfettamente le osservazioni che l�Offner fa a proposito del tipo di umanità figurata nelle Storie di san Francesco: «uomini dall�animo semplice che vivono strappando alla terra le loro necessità corporee», «la loro coscienza è refrattaria se paragonata alle creature di Padova, spiritualmente più evolute», in cui «tutto l�uomo appartiene ad un più alto ordine di sensibilità»46. Se Giotto ha potuto concepire a Padova un�umanità minore che agisce intorno a personaggi esprimenti un più alto grado di consa-pevolezza e di dignità, bisognerà chiedersi se non sia possibile che ad Assisi si fosse posto - per qualche ragione - il problema di

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caratterizzare intenzionalmente tutte le Storie di san Francesco con questo tipo «inferiore» di umanità.

Nel mosaico absidale di Santa Maria Maggiore a Roma, compiuto dal Torriti nel 1296, san Francesco e sant�Antonio da Padova sono presenti alla Incoronazione della Vergine insieme ai santi Pietro, Paolo, Giovanni Battista e Giovanni Evangelista (fig. 4). Le figure di questi ultimi quattro santi stanno erette, impas-sibili, solennemente ammantate; quelle di san Francesco e di sant�Antonio, poste alle due estremità, sono un po� ripiegate su se stesse, più pateticamente caratterizzate e perfino più piccole di statura, come figure minori in quell�alto consesso. Essi compa-rivano in una situazione simile anche nel mosaico absidale di San Giovanni in Laterano (fig. 3), dove, a giudicare dalle condizioni attuali, questa differenza di caratterizzazione doveva essere ancora più marcata, non fosse altro che per le loro proporzioni ancora più ridotte. Che le figure dei due moderni santi francescani (evidentemente volute dal committente dei due mosaici, Niccolò IV, il primo francescano arrivato a diventare papa) fossero sentite quasi come delle intrusioni in questi contesti ne è una riprova indiretta la notizia, significativa anche se leggendaria, che Bonifacio VIII avrebbe voluto farle togliere dall�abside di San Giovanni in Laterano47. Ma se alla fine del Duecento si percepiva questa differenza tra un santo moderno, sia pure popolarissimo come san Francesco, e i protagonisti dei fatti più solenni e importanti della storia del cristianesimo, sembra molto conse-guente che tale differenza diversifichi le Storie di san Francesco ad Assisi da quelle di Maria e di Cristo a Padova.

Che fosse messa in atto una intenzionale differenziazione di livelli di stile non sembrerà impossibile, se si pensa che siamo nella stessa epoca in cui Dante stava dando forma sistematica ad un simile comportamento in letteratura, basato su una differen-ziazione di stile e di linguaggio a seconda degli argomenti trattati. La sua teoria dei diversi livelli di stile è chiaramente formulata nel De vulgari eloquentia: «Per tragediam superiorem stilum indu-cimus, per comediam inferiorem, per elegiam stilum intelligimus miserorum». Il linguaggio stesso deve differenziarsi: «si tragica

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canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre [...] si vero comice, tunc quandoque mediocre quandoque humile vulgare sumatur [...] si autem elegiace, solum humile oportet nos sumere»48. Ed è tanto importante questa concezione che Dante chiamò Comedia il suo grande poema. È in questa prospettiva di un san Francesco personaggio da «commedia», per esprimersi in termini danteschi, che si può ridurre ad unità il diverso com-portamento artistico e la diversa caratterizzazione umana delle Storie di san Francesco ad Assisi e delle Storie di Maria e di Cristo a Padova.

Tutto fa credere che questa intenzionale differenziazione nasca da una concezione gerarchica dei diversi gradi di santità, se non addirittura da una volontà di diminuire la dignità della figura di san Francesco per farla regredire al livello di un�umanità reale, meglio confrontabile con quella con cui l�uomo comune si trova normalmente in contatto. Negli affreschi di Assisi, il santo non è il campione di una umanità superiore, ma piuttosto caratterizzato come un frate particolarmente pio, protagonista di scene edifi-canti. La sua figura rivoluzionaria è così rimessa in riga fra i tanti santi che la Chiesa aveva avuto. Ricordo un breve passaggio di Poesia informa di rosa in cui Pier Paolo Pasolini accenna a «quei memorabili affreschi pieni di devoti | che fanno i devoti, col santo marroncino, slavato | che contro colate di blu di prussia, | fa il santo...»49: vi è tutta la delusione di fronte a questa interpreta-zione curiale delle Storie di san Francesco nella Basilica Superiore di Assisi.

Modernità rivoluzionaria delle «Storie di san Francesco».

Ma se alla base di questa concezione appare trasparente quello che il Belting chiama il «compito» assegnato agli artisti dalla committenza della decorazione assisiate50, la parte avuta dal pittore in questo «compito» sta nell�aver ribaltato il significato conservatore di una simile interpretazione di san Francesco, così chiaramente segnata dall�ottica di parte «conventuale», in una vi-

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sione realistica e concreta del mondo, che si esprime in termini di contemporaneità.

Cosa c�è di più moderno in tutta l�arte occidentale, verso il 1290-95, di queste Storie di san Francesco? E non si tratta soltanto della riappropriazione del mondo visibile in termini di volume e di spazio: questo aspetto, pur fondamentale, che significava ritor-nare a dar valore dopo quasi un millennio alla realtà fenomenica che l�uomo controlla con la propria esperienza (di contro al cosid-detto «realismo» medievale che concepiva la realtà sensibile come simbolo della «vera» realtà, quella oltremondana), rientrava in una più vasta riconsiderazione del mondo e dell�uomo in termini più naturali e terreni. Dalla figura umana scomparivano quelle deformazioni grafiche astrattive, di formulazione bizantina, che con Cimabue e col giovane Duccio si erano soltanto addolcite: gli occhi-occhiali, il naso a becco, le mani a forchetta, l�anatomia segnata da righe simboliche, il ventre a tre pance, ecc. Le fisiono-mie tornano a differenziarsi fin quasi a rasentare il ritratto, in un�epoca in cui soltanto la scultura poteva già vantare delle espe-rienze in questa direzione e soltanto la riflessione filosofica di Duns Scoto tornava a mettere l�accento sull�importanza delle real-tà individuali (hecceitas). L�anatomia umana si normalizza, conqui-stando una verità prima sconosciuta; ne è un esempio il nudo parziale del giovane san Francesco nella Rinuncia ai beni, che, pur nell�impaccio come di crisalide che rimarrà sempre nei nudi tre-centeschi, mostra una verità straordinaria nella descrizione delle scapole e delle costole che deve aver sbalordito i contemporanei. Il profilo di un volto ritorna ad assumere quel valore positivo che gli era stato negato per quasi un millennio, o almeno la neutralità e la normalità che gli attribuisce l�esperienza visiva. Per la prima volta, in pittura, la gente ritorna a sorridere, di un sorriso che è qualcosa di più di quello della scultura francese della seconda metà del Duecento, perché rappresenta solo uno dei tanti «affetti» che tornano a segnare il volto, il gesto e l�atteggiamento delle figure, dopo tanti secoli di compassata etichetta gestuale. Che impressione doveva fare sui contemporanei la figura del padre di san Francesco nella Rinuncia ai beni (fig. 29), che esprime

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la propria ira contraendo il volto, avanzando contro il figlio, stringendo il pugno e tendendo il braccio trattenuto saldamente da un amico! Gli occhi, il volto, l�atteggiamento, il gesto ritornano ad essere parlanti ed espressivi. Qualcuno, assumendo lo stesso atteggiamento di chi sgrida un bambino perché si mette le dita nel naso, ha criticato il modo di gestire dei personaggi delle Storie francescane di Assisi51; per esempio, il moto quasi da autostoppista di san Francesco nella Predica ad Onorio (fig. 41). Ma evidente-mente esso era perfettamente in linea con le regole di buona creanza dell�epoca di Giotto, dato che quel gesto, oltre a compa-rire in una delle scene della Passione (fig. 42) tra gli affreschi Scrovegni (come è stato già notato)52, ha fatto scuola ed è stato riutilizzato in tanti capolavori della pittura italiana del Trecento; per esempio, nella celebre Madonna dei tramonti di Pietro Loren-zetti nella Basilica Inferiore di Assisi, dove a compierlo è la Ma-donna in persona; oppure nell�Annunciazione del 1344 del fratello Ambrogio, dove quel gesto è compiuto dall�angelo. Ma l�intera scena della Predica ad Onorio offre un vasto campionario di bellissimi gesti di meditazione a tutta la pittura del Trecento, uti-lizzati in modo stupendo soprattutto dai fratelli Lorenzetti; e basterà ricordare l�affresco di Ambrogio in San Francesco a Siena con la Vestizione di san Ludovico da Tolosa.

Insieme all�attenzione per gli aspetti individualizzanti e concre-ti del visibile, con le Storie di san Francesco entra sistematicamente nella pittura italiana una concezione positiva del contemporaneo. Scompaiono, così, le anacronistiche toghe, clamidi e tuniche del vestiario tardoromano e orientale: quella di san Francesco era una storia moderna ed era assurdo continuare a figurarla in panni an-tichi come avevano fatto Bonaventura Berlinghieri e gli altri artisti duecenteschi che si erano trovati a dipingere dossali con san Fran-cesco e gli episodi della sua vita. Dagli affreschi di Assisi in avanti la rivalutazione del contemporaneo diventerà uno degli aspetti ca-ratterizzanti della pittura italiana del Tre e Quattrocento, che ve-stirà in abiti moderni perfino i personaggi di scene molto antiche, al punto che spesso si possono avere dei precisi punti di riferi-mento cronologico istituendo

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dei confronti con l�evoluzione della moda53. Anche per questo aspetto qualche precedente si era avuto in scultura; per esempio nei rilievi dell�arca di San Domenico a Bologna (fig. 11), commis-sionati a Nicola Pisano, o nella Fontana Maggiore di Perugia ese-guita congiuntamente da Nicola e Giovanni Pisano. E perfino la pittura presenta qualche caso più antico delle Storie di san Fran-cesco, come la tavola della Santa Chiara del 1283 nella vicina basi-lica di Santa Chiara ad Assisi (figg. 13, 16), dove, come abbiamo visto, le storie della santa sono figurate in abiti contemporanei.

Ma assolutamente inedita era la rappresentazione sistematica degli ambienti, dalle architetture alle suppellettili, in termini di contemporaneità; perfino il Maestro della Santa Chiara aveva continuato ad ambientare le storie della santa entro le tradizionali architetture orientaleggianti di formula bizantina (fig. 13): colon-ne, finestre, archi, cupole come non si usavano più in Italia da tempo immemorabile e che invece ricordavano il Palazzo di Teo-dorico nei mosaici di Sant�Apollinare Nuovo a Ravenna, i pae-saggi della Moschea di Damasco, le architetture che si vedevano nelle illustrazioni dei Menologi e delle Omelie orientali, palazzi di basilei e basilisse ridotti a cifre grafiche, le muraglie divenute trine. Invece, nelle Storie di san Francesco della Basilica Superiore di Assisi (figg. 43, 45, 50) vengono ritratte per la prima volta delle strutture architettoniche moderne, non necessariamente gotiche (anche se nella Predica ad Onorio troviamo le prime volte gotiche messe in prospettiva della pittura italiana), ma certo quelle in funzione nell�Italia centrale di allora, paragonabili con cibori arnolfiani (come quelli di San Paolo fuori le Mura e di Santa Cecilia in Trastevere a Roma), con cattedre cosmatesche (come quella papale nell�abside della stessa Basilica Superiore di Assisi, fig. 172), con sale capitolari dalle tre aperture di rito, con aule riccamente voltate o cassettonate o coronate da file di archetti sorretti da mensole fortemente aggettanti, con facciate e absidi di chiese sontuosamente adorne di marmi intarsiati, di sculture, di pinnacoli, di rosoni, di bifore gotiche, di cuspidi, di gattoni rampanti, ecc. E vi si vedono tante decorazioni cosmatesche, quelle che hanno fatto parlare di influssi specifici dell�arte romana, ma che ormai, dopo due secoli che i marmorari romani

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le avevano adottate, eran diventate patrimonio comune della decorazione architettonica italiana, o almeno dell�Italia centro-meridionale54. Con la stessa intensità che sulla facciata del Duomo di Orvieto o sui monumenti sepolcrali di Arnolfo di Cambio, le piccole tessere marmoree brillano di colori vivi e diversi negli affreschi assisiati, decorando cornicioni, architravi, pinnacoli o perfino lo sgabello su cui Onorio ascolta la predica di san Francesco, così come brillavano nelle architetture e nelle ricche suppellettili ecclesiastiche della sovrastante Volta dei Dottori.

E cosa dire della ricostruzione di veri e propri ambienti, come nel Presepe di Greccio (fig. 43) l�interno di una chiesa visto dalla parte dell�abside da dietro l�iconostasi che le donne non possono oltrepassare, da dietro l�altare col suo ricco ciborio, da dietro il ba-dalone con il grande libro corale per i cantori illuminato da tante candeline, da dietro il pulpito, da dietro il crocifìsso ligneo che pende verso la navata mostrando solo il retro debitamente par-chettato: immagine sacra ridiventata semplice oggetto. Ed è pro-babile che a noi sfuggano certi ritratti di ambienti perché magari sono andati distrutti i termini di confronto, che invece potevano saltare agli occhi ai contemporanei; ma almeno uno è ancora possibile riconoscerlo, quello della piazza di Assisi nell�Omaggio dell�uomo semplice (fig. 45), con il tempio della Minerva e con il Palazzo Comunale la cui torre è oggi più alta perché nel 1305 vi fu aggiunto un piano55. Certo, non ci possiamo aspettare una fedeltà fotografica, ma anche soltanto l�idea di ricostruire almeno indica-tivamente un ambiente reale è un fatto talmente straordinario e nuovo nella storia della pittura (lo Smart definisce questo affresco la prima scena in una strada della pittura italiana)56 da porsi come un punto d�arrivo, nonostante che l�esecuzione di questo affresco sia imputabile in gran parte alla bottega57. Un punto d�arrivo che, a giudicare dalle opere giunte fino a noi, sembra non sia stato più tentato da Giotto; ma esso costituisce il più diretto precedente per quello straordinario sviluppo della rappresentazione dello spazio come ritratto topografico58 che rappresenta il più grande contributo artistico portato dalla pittura senese della prima metà

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del Trecento, lungo le tappe che vanno dal Castello dì Giuncarico recentemente scoperto nel Palazzo Pubblico (e che, a mio avviso, è uno straordinario exploit del vecchio Duccio)59, al Guidoriccio di Simone Martini al Buongovemo di Ambrogio Lorenzetti. Il seguito della sperimentazione spaziosa di Giotto e dei suoi più diretti seguaci ha raggiunto dei vertici da far pensare alla pittura pro-spettica del Quattrocento, ma in una direzione più astratta, dimo-strativa e virtuosistica di quanto non accada nella pittura senese contemporanea.

Giotto ad Assisi e la plausibilità storica.

Anche limitando il nostro esame a questi soli aspetti, le Storie di san Francesco ad Assisi assumono una tale importanza nella storia della pittura italiana, soprattutto se collocati al livello cronologico che loro spetta, cioè agli inizi degli anni novanta del Duecento, da spingerci a riprendere in mano le considerazioni che il Meiss faceva a proposito dei problemi che porrebbe l�esclusione della paternità giottesca in ordine a un criterio di plausibilità storica. Il significato naturalistico che la letteratura artistica del Trecento attribuisce alla radicale innovazione operata da Giotto in pittura si coglie prima di tutto nel ciclo francescano di Assisi e anche solo in base a questa considerazione sarebbe davvero irragionevole e con-trario a ogni logica negarne la paternità giottesca. Per continuare a farlo, i separatisti, dovrebbero portare delle prove troppo più con-crete di quelle che sono state avanzate fino ad ora. Né va di-menticato che tra le ragioni di «general historical plausibility» c�è, come metteva in evidenza il Meiss, il passo di Riccobaldo Fer-rarese che nel secondo decennio del Trecento elencava la deco-razione della Basilica di Assisi come prima tra le opere di Giotto60.

Il grande storico dell�arte americano sopiva i suoi rimorsi di coscienza di separatista proponendo di vedere all�opera il giovane Giotto negli affreschi dei registri alti della navata, dalle Storie di Isacco (fig. 48) in avanti61. A questi affreschi l�Offner aveva accen-nato

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solo di sfuggita; quando egli scriveva non erano ancora entrati stabilmente nel problema giottesco. Ma se anche un separatista può accedere all�idea che essi siano opera di Giotto, allora la differenza di caratterizzazione della figura umana rimane quasi il solo aspetto che li distingue dalle Storie di san Francesco, perché gran parte delle difformità enucleate dall�Offner tra il suo Giotto e l�autore delle Storie di san Francesco vengono a cadere: il modo di drappeggiare, di modellare, di concepire gli angeli, le rocce, la flora, la fauna o le aureole sono sostanzialmente identici nei regi-stri alti della navata e nelle Storie di san Francesco. Anche qui la forma umana è espressa in termini scultorei; anche qui, «lo spazio ha un valore di vuoto tanto più esplicito quanto più densamente solida è la forma»62, come dice l�Offner per le Storie di san Fran-cesco. Anche qui è una tal quale arcaica rigidezza (l�Offner arriva a parlare di figure anchilosate per le Storie di san Francesco)63 in con-fronto alla più evoluta «flessibilità» e «suscettibilità al movimen-to» delle figure di Padova. Anche qui è una forte accentuazione della decorazione architettonica dipinta; è vero che i fregi sono an-cora perfettamente conformi a quelli vegetali e grafici di Cimabue e degli altri pittori che hanno iniziato la decorazione della Basilica Superiore; ma è innegabile che l�ultima campata, quella d�ingresso (fig. 171), tutta affrescata sotto la direzione del pittore che aveva eseguito le Storie di Isacco, è caratterizzata da un vistoso infittirsi della presenza di architetture dipinte; nell�arcone d�ingresso, le coppie di santi a figura intera sono inserite in una partitura pura-mente architettonica, che costituisce la premessa più immediata alle soluzioni adottate per l�inquadratura delle Storie di san Fran-cesco64.

Dalle «Storie di Isacco» alle «Storie di san Francesco».

Il White rileva una sostanziale differenza di modellato tra la testa di Giacobbe e quella del giovane san Francesco che dona il mantello al povero65 (figg. 58, 64); ma cosa dire delle differenze che si possono rilevare tra le varie parti di uno stesso affresco del-la Leggenda

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di san Francesco? Per esempio, nel Presepe di Greccio (fig. 43), tra la stupenda testa di uno dei cantori e quelle poverissime dei due accoliti dietro il sacerdote celebrante; o, nella Morte di san Fran-cesco, tra le bellissime teste degli angeli in alto a destra (figg. 46, 47) (che reggono bene il confronto con il gruppo della Madonna e gli angeli nel Giudizio Finale di Padova) e quelle degli angeli al centro che portano in cielo l�animula del santo, di un�esecuzione meticolosa e banale. Oppure, tra affresco e affresco: quanta diffe-renza tra il Dono del mantello e la Prova del fuoco davanti al Sultano, dove le figure raggiungono uno dei livelli di esecuzione più mo-desti di tutti i ventotto riquadri francescani!

Bisognerà dunque pensare che siamo di fronte alla tipica situa-zione tre-quattrocentesca (da Giotto a Raffaello) di una grossa impresa artistica compiuta dal «maestro» a cui è stata commis-sionata (e che, eventualmente, vi iscriverà il proprio nome) con l�aiuto di una bottega più o meno numerosa composta da persone che ne eseguono fedelmente le direttive. In altra occasione ho citato un esempio che abbiamo oggi davanti agli occhi e che può essere utile a farci capire come andavano le cose: quello delle ditte dei grandi restauratori. Quante campagne di restauro debbono essere giustamente attribuite a Tintori, nonostante che in gran parte siano state eseguite dai suoi aiutanti, che ne hanno seguito scrupolosamente le direttive, a volte senza lavorare nemmeno sotto i suoi occhi66!

Sono convinto che, tenendo presente questo esempio, si possa arrivare a giustificare differenze di esecuzione nel contesto di un vasto gruppo di affreschi che, dalle Storie di Isacco fino all�Omag-gio dell�uomo semplice, si possono attribuire alle direttive, alla men-te e parzialmente ali�esecuzione di una sola, geniale personalità. Leggendo gli interventi di separatisti come il Meiss e il White, ci imbattiamo continuamente in osservazioni che mettono in risalto la genialità degli artisti diversi che avrebbero eseguito questi affreschi, rinnovando profondamente la pittura italiana in una direzione molto simile e ognuno preludendo all�altro. Secondo il Meiss, una parte degli affreschi dei registri alti non può essere dello stesso pittore che ha eseguito le Storie di Isacco, in quanto

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sterza in direzione dei modi delle Storie di san Francesco67. Il White è convinto che «il Maestro di Isacco deve essere inserito fra i più grandi di quei pochi genii eccezionali che fondarono la nuova scuola della pittura italiana». D�altra parte, la scena della Pente-coste è il preludio immediato alle Storie di san Francesco; le quali Storie di san Francesco «rappresentano uno degli eventi più impor-tanti nella storia dell�arte non solo italiana ma europea»68.

Già questi apprezzamenti e queste ammissioni di stretti rap-porti tra gli affreschi dei registri alti e le Storie di san Francesco sono altamente significativi. Ma, nonostante alcune opinioni contrarie, fra le quali quella del Brandi69, mi pare che i rapporti tra le due zone affrescate siano talmente stretti che si possono ricoverare tranquillamente sotto l�egida di un solo pittore, come ideatore e in parte come esecutore, pur con l�aiuto determinante di alcuni colla-boratori. Ma vorrei andare oltre le dichiarazioni verbali per indi-care almeno alcuni punti di contatto che mi paiono particolar-mente rivelatori.

Dovremmo incominciare, credo, dall�aspetto tecnico. Dopo i rilevamenti del Meiss e del Tintori70, emerge chiaramente che le Storie di Isacco segnano nella decorazione della Basilica Superiore uno stacco non soltanto stilistico, ma anche tecnico. Fino a quel punto, dal transetto alla navata, gli affreschi erano stati eseguiti col sistema delle pontate, dalle Storie di Isacco a tutte le Storie di san Francesco sono eseguiti con la nuova tecnica delle «giornate». Non è ancora un dato che ci assicuri anche dell�unità di esecuzione di questo gruppo di affreschi, ma resta il fatto che essi sono unificati dal comune denominatore di un rinnovamento tecnico che inau-gura la grande avventura della pittura ad affresco italiana.

Le due Storie di Isacco (fig. 48) contengono, comunque, tutti gli elementi che caratterizzano gli affreschi successivi, dalla Volta dei Dottori alle ultime Storie di san Francesco. Converrà fermarci, in-nanzitutto, sulla rappresentazione dello spazio, senza limitarci, tuttavia, all�astratta formulazione - come si fa troppo spesso - ma facendo caso anche alle soluzioni più particolari, agli arredi, agli aspetti decorativi e ai personalissimi «tic» disegnativi.

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Le Storie di Isacco segnano l�inizio di una nuova concezione della pittura come restituzione di una realtà a tre dimensioni in cui lo spazio e il volume delle cose riacquistano tutta la loro ter-rena potenzialità. Le due composizioni sono rese razionali e nitide dal calibrato inserimento della regolarissima scatola architettonica entro la cornice dell�affresco, conformandosi ad essa per linee per-pendicolari e parallele. Questa regolarità è ottenuta anche grazie ad uno stratagemma che è stato certamente suggerito dal controllo diretto sugli aspetti del mondo visibile. Guardando il fianco di una costruzione coperta da un tetto a capanna, non al centro ma in una posizione che permetta di vedere anche un po� della facciata, si può trovare un punto in cui, per l�effetto dello scorcio, la linea orizzontale formata dalla sommità del tetto viene a coincidere con quella formata dal bordo della tettoia; si crea così un�unica linea retta che arriva fino al vertice dello spiovente del tetto, in facciata. Questo effetto, dovuto alla veduta dal basso, è messo in pratica, pur con qualche minima irregolarità, nei due edifici in cui si svol-gono le due Storie di Isacco (fig. 48) e così la loro profilatura in alto viene ad essere, quasi tutta, perfettamente parallela alla linea della cornice dell�affresco, contribuendo al senso di calcolata regolarità della composizione. È chiaro che, per osservare un effetto di que-sto genere e per tradurlo in pittura era necessaria una sensibilità visiva sviluppatissima e già rivolta verso il problema della resa della tridimensionalità dello spazio. Né il Cavallini, né Duccio, né il Maestro della Santa Cecilia, né i riminesi di primo Trecento sono ricorsi mai - almeno a giudicare dalle opere arrivate fino a noi - ad un simile stratagemma figurativo, che ha tutta l�aria di essere una trovata personale del pittore delle Storie di Isacco. Questa trovata fa di nuovo la sua comparsa nelle Storie di san Francesco (nonché ne-gli affreschi Scrovegni) ed assume un carattere particolarmente vi-stoso nell�Omaggio dell�uomo semplice (fig. 45), dove il caseggiato in alto a destra a due logge sovrapposte ha il tetto allineato lungo una unica retta, parallela alla cornice dell�affresco, dall�estremità sinistra della tettoia fino al vertice dello spiovente.

I due «oggetti architettonici» dalla squadratura così rigorosa

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in cui si svolgono le Storie di Isacco sono riccamente connotati da un sistema di decorazioni e di suppellettili che caratterizza tutti gli affreschi successivi della Basilica Superiore di Assisi, fino alle ultime Storie di san Francesco. Per esempio l�alcova di Isacco (fig. 48) è molto simile a quelle in cui si svolgono il Sogno del palazzo con le armi e il Sogno di Innocenzo III (fig. 34): identici sistemi di cortine di stoffa dai sontuosi disegni geometrici, scostate e fermate ai sostegni laterali, pendono da due aste orizzontali, una più illumi-nata e più grossa in primo piano, l�altra più in ombra e più sottile (per calcolo prospettico) sul fondo.

Negli affreschi successivi ritornano continuamente anche la sin-golare cassettonatura del soffitto e la decorazione architettonica a tarsie marmoree cosmatesche. Questi due motivi, tuttavia, non si possono considerare una novità assoluta in questa serie di affre-schi: essi comparivano già nel transetto e nell�abside della Basilica Superiore (figg. 172, 199, 233); ma vi è una differenza sostanziale, perché Cimabue li usava soltanto per decorare l�incorniciatura degli affreschi, mentre dalle Storie di Isacco in avanti essi decorano anche le architetture e le suppellettili marmoree che fanno parte delle scene affrescate (figg. 48, 34). Le generiche quinte architetto-niche orientaleggianti di Cimabue sono sostituite da architetture perfettamente confrontabili con quelle reali, in uso nell�Italia cen-trale alla fine del Duecento. Questo passo fondamentale è com-piuto con le Storie di Isacco e da allora in avanti tutti gli artisti italiani vi si atterranno. Tuttavia, i motivi cosmateschi sono usati ad Assisi con una particolare coerenza e freschezza, e diventano vivacissimi nella Volta dei Dottori, che, trovandosi nella campata successiva a quella con le Storie di Isacco, fu dipinta subito dopo. Qui le architetture sostengono, più che contenere, gli otto per-sonaggi circondati da un sistema complesso di suppellettili son-tuosamente arricchite dalla decorazione cosmatesca e ispirate evi-dentemente alle suppellettili marmoree d�uso, alle transenne, agli amboni, ai plutei e perfino ai pavimenti che si vedevano nelle più ricche chiese di allora71. Questa decorazione continua negli affre-schi successivi e alcuni passaggi delle Storie di san Francesco sono particolarmente affini, per questo aspetto, alle Storie di Isacco, così

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come molta della suppellettile che ne arreda gli ambienti (per esempio la pedana della sedia papale nella Predica ad Onorio) ri-manda immediatamente alla Volta dei Dottori.

Ma la decorazione cosmatesca non è l�unico motivo di ornato architettonico: è solo il più vistoso. Così, nella Cacciata dei diavoli da Arezzo (fig. 50), con tutte le architetture e i caseggiati che vi so-no figurati, non compare nemmeno un motivo cosmatesco. Ve ne sono, tuttavia, altri che si ritrovano in tutti gli affreschi assisiati, dalle Storie di Isacco in avanti, e che intendono caratterizzare ric-camente le architetture o le suppellettili. Sulle parti lisce delle mura e dei caseggiati della città di Arezzo si vedono delle formelle circolari, o a losanga, o di forma ancora più complessa il cui sbal-zo sul muro acquista un�evidenza da trompe-l�oeil; esse compaio-no per la prima volta nelle Storie di Isacco (fig. 54), nella parte alta della parete di fondo, sulla stessa linea delle minuscole finestre, e costituiscono un vero e proprio leitmotiv della decorazione architettonica di tutti i successivi affreschi della Basilica Superiore; così come la continua sottolineatura delle strutture architettoniche attraverso sottili ma robuste cornici, rese più vistose dalla vivace policromia72. Il balcone al centro della Cacciata dei diavoli da Arezzo, che si protende sulla porta della città, ha il muretto di recinzione a sformellature con il motivo di un grande fiore aperto visto frontalmente, come negli intagli dei plutei romanici: anche questo è un motivo decorativo che ricorre frequentemente tra gli ornati delle architetture dipinte negli affreschi assisiati; così è decorato il pozzo in cui viene gettato Giuseppe dai fratelli, o l�edificio sulla sinistra del San Francesco davanti al Sultano (fig. 57), mentre l�edificio di destra ha nella parte alta, sul fianco, una complessa formella mistilinea di carattere ormai gotico, assai simile a quelle che si vedono nei pennacchi tra gli archi a sesto acuto sulla fronte dell�edificio in cui si svolge la Predica ad Onorio. Motivi vegetali a rilievo assai lussureggianti decorano anche le suppellettili più importanti, come il letto di Isacco, il banco su cui è appoggiato il leggio di san Gregorio nella Volta dei Dottori, il carro di san Francesco nella Visione del carro di fuoco, i lacunari del soffitto nell�Apparizione a Gregorio IX, ecc. Il motivo di gusto romano dei

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girari di acanto disposti simmetricamente decora quasi allo stesso modo, bianco su fondo blu (come nell�interno a mosaico del cibo-rio arnolfiano di San Paolo fuori le Mura), le lunette dell�edifìcio in cui si svolge la Pentecoste e quelle dei portali laterali della chiesa di San Damiano nel Compianto delle Clarisse.

In quest�ultimo affresco è la stupenda ricostruzione della fac-ciata di una chiesa gotica (come nella Cacciata dei diavoli da Arezzo si poteva vedere l�abside), tutta candida di marmo e guarnita di sculture. Quello delle sculture, a tutto tondo o a rilievo, è un altro dei motivi ricorrenti per tutta la decorazione della Basilica Supe-riore, a partire dalle Storie di Isacco, dove un piccolo rilievo con un centauro è inserito nel lato in scorcio del pancale in primo piano. Ma nei registri alti è soprattutto nella Volta dei Dottori che com-paiono statuette o rilievi di angeli, di leoni, di putti alati, ecc., ri-correnti anche negli affreschi successivi e nelle Storie di san Fran-cesco, dove raggiungono degli aspetti virtuosistici nelle ultime scene. Una forma architettonica che, pur comparendo raramente, colpisce per la stretta affinità e quasi coincidenza tra la Volta dei Dottori e le Storie di san Francesco è quella ringhiera di marmo bianco a coronamento di un edificio, sulla quale, in corrispon-denza di ogni elemento verticale, è posta una palla marmorea: si può vederla sia sull�edicola nella quale è alloggiato il segretario-accolito del dottore san Gregorio, sia sull�edificio dell�Apparizione di san Francesco a frate Agostino (figg. 52, 53). Anche il fregio oriz-zontale che corre all�altezza delle teste di Giacobbe e della madre nella prima Storia di Isacco (fig. 54) è un motivo di decorazione architettonica assai raro, ma ricompare nelle Storie di san Francesco, per esempio nell�edificio della Visione del carro di fuoco (fig. 55).

Abbiamo parlato più volte della fila di mensole che corre lungo l�architrave dipinto al di sopra delle Storie di san Francesco, la cui idea era già nata negli affreschi cimabueschi del transetto dove la realizzazione andava però contro le regole prospettiche. Abbiamo pure già osservato che anche nella decorazione della navata la raffigurazione delle mensole segue lo stesso criterio otticamente errato, perfino nella Volta dei Dottori, in zona ormai giottesca. La correzione avviene nella fase delle Storie di san Fran-

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cesco. Ci sono tuttavia due brevissimi passaggi dei registri alti della navata in cui le mensole sono già messe in fila come nelle Storie di san Francesco. Si tratta del punto in cui si imposta l�arcone d�ingresso, immediatamente al di sopra della trifora, in una zona dei registri alti tra le ultime ad essere stata decorata. Guardando la figura 51, in cui è riprodotta la trifora a sinistra entrando e in cui si vedono sia la fila di mensole che sta sopra di essa sia alcune mensole che stanno sopra la Morte del signore di Celano, probabil-mente nessuno sospetterebbe (a meno che non ricordi bene come è sistemata questa zona della Basilica Superiore) che le prime fac-ciano ancora parte della decorazione del registro alto e che le se-conde facciano già parte delle Storie di san Francesco; a nessuno poi verrebbe da dubitare che chi ha dipinto le prime abbia dipinto anche le seconde. Si può notare, fra l�altro, che le mensole creano un�ombra sul piano da cui aggettano, come accade sistema-ticamente nella raffigurazione delle architetture dalle Storie di Isac-co in avanti; non è propriamente un effetto di intenzione natura-listica, perché non si tratta di una vera e propria ombra portata ma di un espediente per aumentare l�illusione dell�aggetto della men-sola o di qualsiasi altro elemento architettonico. Questo effetto procede da un criterio molto empirico di resa del visibile, per cui tutto ciò che sta più avanti è più in luce di ciò che sta più dietro. Chi vuole controllare, si accorgerà che si tratta di un criterio a cui si attengono sistematicamente gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi dalle Storie di Isacco in avanti. Ma per quanto riguarda, più specificamente, l�effetto di ombra prodotto da un elemento aggettante, vorrei proporre un confronto tra l�architettura della Pentecoste e l�edicola del Sultano nella Prova del fuoco (figg. 56, 57), anche per l�evidente consonanza della decorazione e della confor-mazione architettonica tra un affresco dei registri alti e una delle Storie di san Francesco. Che non si tratti di un�ombra naturalistica è dimostrato dal fatto che a volte sta in opposizione alla fonte luminosa immaginata per gli altri elementi figurati di uno stesso affresco, come nel caso dell�Apparizione nel capitolo di Arles dove la luce viene da sinistra, dalla stessa parte, cioè, verso cui i semiarchi che sostengono le volte sembrano get-

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tare ombra sulla parete di fondo. Ciò non toglie, comunque, che questi singoli nidi d�ombra diano luogo nel loro ambito circo-scritto a stupende osservazioni naturalistiche come l�effetto di lu-stro che fa brillare in quell�ombra le tessere dorate dell�opus co-smatesco.

A cominciare dalle Storie di Isacco (fig. 48), le architetture dipin-te negli affreschi assisiati sono spesso sorrette da sottili ma robu-ste colonne (fig. 34), non solo di semplice marmo bianco, ma anche di un più sontuoso marmo mischio. I capitelli, sempre fo-gliati e di solito con delle volute nella parte più alta, sono raccor-dati agli architravi da un abaco i cui lati sono sistematicamente curvi verso l�interno. Le basi, invece, hanno delle modanature la cui circolarltà è resa incurvandole e rialzandole alle estremità, con una curiosa deformazione, come a ventosa, che caratterizza tutti gli affreschi successivi, comprese le Storie di san Francesco. Questo singolare modo di rendere lo scorcio di una forma circolare ada-giata su un piano si ritrova anche in altri oggetti o parti di archi-tetture; per esempio, in quella sorta di piccola pigna posta ai due angoli estremi del basso parapetto-divano collocato davanti al letto di Isacco (figg. 48, 227). Qualcosa di simile si vede nel sin-golare banco su cui sta leggendo Gregorio nella Volta dei Dottori; è, in particolare, la base del leggio ad attaccarsi al piano di marmo come una ventosa. La stessa caratteristica si ritrova nelle Storie di san Francesco, come nel bellissimo badalone ligneo del Presepe di Greccio (fig. 31), dove la descrizione della complessa tornitura del-l�oggetto fornisce ulteriori termini di confronto col leggio di san Gregorio.

Ciò introduce il discorso a proposito di un altro aspetto che caratterizza tutti gli affreschi dalle Storie di Isacco in avanti: l�at-tenzione continua per gli oggetti, descritti nella loro funzionalità. Nelle Storie di Isacco si tratterà di quel parapetto-divano collocato in basso, in primo piano, o delle campanelle che sostengono la tenda alle aste orizzontali in alto; nella Volta dei Dottori di tutte quelle attrezzature cancelleresche che servono per uno scripto-rium, come la scrivania lignea stupendamente oggettualizzata dell�accolito-segretario di san Gregorio, o la pergamena su cui sta scrivendo, della quale vengono descritte perfino le guarnizioni

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dei due fori dove passa la cordicella che servirà a chiudere e a si-gillare la lettera. Nelle Storie di san Francesco questo aspetto rag-giunge degli esiti straordinari; si può citare la lumiera appesa al soffitto del tabernacolo nella Visione dei Troni (fig. 23), con la sua corda che passa attraverso una carrucola ed è poi fermata di lato per farla funzionare come un saliscendi; oppure lo straordinario crocifisso-oggetto visto da dietro nel Presepe di Greccio (fig. 43), con la sua parchettatura e il cavalletto di legno che serve a tenerlo inclinato in avanti verso la navata per mezzo di una corda doppia di cui si vedono anche i nodi: straordinario esempio di una atten-zione in progress per le forme più concrete del reale, oltre che do-cumento diretto del «funzionamento» di una suppellettile eccle-siastica73.

Le osservazioni fatte sulle architetture, sugli oggetti e sulla loro decorazione legano gli affreschi dei registri alti della navata (dalle Storie di Isacco in avanti) e le Storie di san Francesco in una sostan-ziale unità di concezione. Lo stesso si può dire delle figure, ove si tenga conto della larga collaborazione di aiuti più o meno dotati e si ammetta una intenzionale diversificazione di livelli di stile tra l�intonazione «tragica» delle Storie del Vecchio e del Nuovo Testa-mento e quella «comica» delle storie di un santo quasi contempo-raneo come san Francesco (ma già la Volta dei Dottori, costituisce un trait d�union fra questi due livelli).

Certo, se ci limitiamo, come fa J. White74, a mettere una accanto all�altra le teste di Giacobbe e del giovane Francesco nel Dono del mantello (figg. 58, 64), possiamo anche rimanere indecisi. Ma guar-diamo qualche altro personaggio delle prime Storie di san Fran-cesco come - ad esempio - i due ecclesiastici alle spalle del vescovo di Assisi nella Rinuncia ai beni: qui il volto è formulato in modo tanto simile a quello di Isacco da farci sospettare che sia stato uti-lizzato lo stesso disegno (figg. 58, 59). La linea verticale della fron-te sulla quale sporge la zazzera dei capelli, l�incavo in ombra degli occhi, il gonfiore della palpebra inferiore, il naso della canna spia-nata che con il lato in discesa verso la guancia forma uno spigolo vivo, come fosse cesellato in un metallo rilucente, l�ombra che il naso sembra gettare sulla guancia destra, la luce che modella l�ar-ticolazione tra le narici e il labbro superiore o che segna la pro-minenza del men-

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to, il disegno della bocca e, più ancora, il movimento del pennello in sottili curve parallele che assecondano il modellato: sono tutti aspetti che rendono le due figurazioni quasi sovrapponibili. Certo, vi è una leggera differenza di esecuzione: i contorni sono più se-gnati nei due ecclesiastici assisiati, il tratteggio è più graffiante, marcato e meticoloso. Inoltre, queste due figure non hanno il con-tegno sublime del giovane Giacobbe, il loro sguardo non è altret-tanto distante dalle cose, la loro umanità è più piccola. Ma è, que-sta, una differenza da mettere in conto tra i meriti del pittore, che ha certamente voluto distinguere la superiore dignità di un pa-triarca dell�Antico Testamento da quella di due preti assisiati qua-si contemporanei. E per far questo è bastato inclinare un poco gli occhi, storcere appena la bocca, tirare un po� di più la pelle. Sono differenze che si ritrovano pure nella Volta dei Dottori, dove ca-ratterizzano la testa del san Gregorio, che rappresenta anch�essa una stupenda variazione del modulo usato per la testa di Giacob-be. Qui l�esecuzione è molto alta di qualità, mentre in altre parti della Volta dei Dottori dobbiamo evidentemente fare i conti con l�intervento esecutivo di aiuti, come nella testa dell�accolito-segre-tario di sant�Agostino (fig. 61), dove la formulazione del model-lato è meno raffinata, soprattutto nell�esagerato spigolo lungo la canna nasale, che è un tratto riscontrabile anche nel Cristo dell�A-scensione (fig. 60), nella controfacciata, o in alcune teste delle Storie di san Francesco, come quelle degli accoliti sulla sinistra della Veri-fica delle Stimmate (fig. 62). Infatti, l�unità stilistica fra gli affreschi dei registri alti e le Storie di san Francesco è testimoniata perfino dalla presenza degli stessi aiuti. Ma su questo punto si veda più avanti, nel quarto capitolo.

Meglio che col Giacobbe, la testa del giovane san Francesco nel Dono del mantello andrebbe confrontata con quella di Cristo fan-ciullo nella Disputa coi Dottori (figg. 63, 64), dove è impressionante l�affinità del gonfiore della guancia. E vero che, anche qui, l�e-spressione consapevole di Cristo contrasta con quella quasi inge-nua di Francesco; ma di fronte a una concezione così affine del modellato di una testa giovanile, che si esprime con una qualità egualmente su-

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perba, è difficile pensare che abbiamo a che fare con due artisti diversi.

Le Storie di san Francesco ci offrono la possibilità di controllare anche l�adeguamento ad una caratterizzazione da «comedia» del sublime tipo di vecchio rappresentato dall�Isacco cieco (fig. 67), con la sua bellissima barba bianca pettinata accuratamente, le cui ciocche terminano in ricciolini uncinati, come - ad esempio - in uno degli ecclesiastici dietro Innocenzo III nella Conferma della Regola (fig. 68). Anche la straordinaria testa del san Francesco nel Sogno di Innocenzo III (fig. 66), tanto intensa da far già prevedere cose a venire come la celebre figura al centro del Concerto di Pitti del giovane Tiziano, non è senza precedenti nei registri alti della navata della Basilica Superiore. In una «maria» del Compianto sul Cristo morto (fig. 65) è lo stesso fortissimo modellato dello zigomo reso turgido dall�ombra intensa che incava la guancia e che tra-passa di nuovo in luce per rilevare la robusta e ben tornita ma-scella. L�idea di un san Francesco robusto, così contraria alle im-magini di smunto asceta che ce ne avevano date un Bonaventura Berlinghieri o un Margarito d�Arezzo, è del resto già presente nei registri alti della navata, dove compare tra i santi a figura intera dell�arcone d�ingresso, solido e ben piantato come si vedrà nelle sottostanti scene della Leggenda75.

Le mani: pensando a quelle a forchetta che ancora usava Cima-bue, articolandole in modo puramente bidimensionale, si rimane sbalorditi di fronte alla superba naturalezza, alla squisita elegan-za, alla varietà di posizione con cui vengono figurate nelle Storie di Isacco (fig. 97), come fossero uno straordinario congegno del corpo umano. Solide, agili, dalle dita affusolate, esse si muovono e si articolano nello spazio con aristocratica eleganza e levità. Vi rimane, certo, qualche tratto che ricorda le stilizzazioni di fonte bizantina, come la strozzatura che segna il polso usata ancora da Cimabue e presente fino nelle ultime Storie di san Francesco; ma ciò va di nuovo nel conto dell�arcaicità di questi affreschi. In compenso, vi sono aspetti di un naturalismo stupefacente, come il trasparire dell�azzurro delle vene sul dorso della mano destra della donna alle spalle di Esaù. Probabilmente, per quasi tutto il

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seguito degli affreschi l�esecuzione delle mani è lasciata agli aiuti, cui qualche volta (come nei fratelli inginocchiati davanti a Giu-seppe o nei santi a mezzo busto dei sottarchi) sembra difficile dimenticare le vecchie formulazioni stilizzate di tipo bizantino; ma a idearle è sempre il pittore delle Storie di Isacco. Così, la mano destra del segretario-accolito di sant�Agostino nella Volta dei Dottori, nell�arco disegnato dal polso alla punta dell�indice, nel pollice lungo, sottile e diritto, ripete la destra di Esaù; la sinistra di Cristo nell�Ascensione, con le dita gentilmente scalate nella pro-fondità dello spazio, ripete la sinistra di Isacco che respinge Esaù (figg. 69, 70; mentre la destra si rifa alla formulazione elegan-tissima di una mano vista dalla parte del dorso, come quella della donna alle spalle di Esaù, che è molto simile, del resto, alla sinistra del vescovo di Assisi nella Rinuncia ai beni (fig. 71). Superbamente articolata è la mano destra sollevata dal frate al centro della Visio-ne del carro di fuoco (fig. 73), ancora più impressionante per com-plessità e forza di modellato della mano di Isacco che respinge Esaù (fig. 72). Bellissime le mani della Madonna nel tondo sopra la porta d�ingresso (che fa parte del ciclo delle Storie di san Francesco), soprattutto la sinistra che tiene saldamente il Bambino, dove un nitido filo di luce rialza la carne intorno alle unghie, che è un tratto caratteristico del pittore, dalle Storie di Isacco in avanti. Mol-to belle, ancora, le mani che si vedono nella Predica ad Onorio e che inaugurano gesti nuovi nella pittura italiana, come abbiamo già osservato.

Non mi pare che sia il caso di insistere oltre nell�evidenziare le strettissime affinità esistenti fra tutti questi affreschi; esse sono più che sufficienti a dimostrare - io credo - la presenza di una unica personalità che dirige e in parte esegue i lavori, sia pure all�in-terno di una evoluzione continua, che finisce per diversificare no-tevolmente i risultati delle ultime Storie di san Francesco dalle due Storie di Isacco, che sono il punto di partenza. Ma di questo aspetto avremo modo di riparlare più avanti.

È arrivato, invece, il momento di porsi l�interrogativo basilare, quello della compatibilita degli affreschi di Assisi con l�opera di Giotto.

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La «riprova inoppugnabile»: il «San Francesco» del Louvre.

Nonostante che i separatisti lo abbiano sempre scansato, esiste un dipinto che costituisce il primo termine di confronto con le Storie di san Francesco. Si tratta della grande tavola con le Stimmate di san Francesco da tempo sotto gli occhi di tutti, esposta com�è nella Grande Galerie del Louvre (fig. 75): quella che il Toesca chiamava la «riprova inoppugnabile»76. Proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pisa, essa è firmata «Opus Iocti Florentini» ed è chiaramente in rapporto col ciclo francescano di Assisi (fig. 74), da cui ripete, con liberissime varianti, la scena delle Stimmate nel campo principale e, nella predella, il Sogno di Innocenzo III, la Con-ferma della Regola e la Predica agli uccelli.

Il maggiore rimprovero che si possa rivolgere ai separatisti è di aver fatto scomparire quest�opera dal dossier giottesco, inizial-mente per un�intima convinzione che non fosse all�altezza dei dipinti più memorabili del grande pittore fiorentino (come gli affreschi Scrovegni o la Madonna di Ognissanti), ma poi perché de-ve aver costituito una presenza sempre più imbarazzante77.

Uno degli aspetti più sconcertanti degli studi su Giotto è il fatto che si è venuto affermando un singolare luogo comune: che i dipinti firmati da Giotto non sono opera di Giotto. L�Offner, quando stabilisce il catalogo del pittore, non fa cenno neppure ad una delle tre opere firmate: le Stimmate di san Francesco del Louvre, il polittico della Pinacoteca di Bologna e l�Incoronazione Baroncelli in Santa Croce a Firenze78. E un modo di procedere davvero curio-so! La Maestà del Duomo di Siena firmata da Duccio è opera di Duccio; la Maestà di Palazzo Pubblico firmata da Simone Martini è opera di Simone Martini; ma i dipinti firmati da Giotto non sono opera di Giotto! Del Cavallini non esiste un dipinto firmato o datato; quello che sappiamo su di lui è basato esclusivamente sulla testimonianza del Ghiberti78; eppure gli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere e i mosaici di Santa Maria in Trastevere vengono considerati da tutti - giustamente - ope-

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re sicure del pittore romano. Ma i dipinti firmati da Giotto non sono opera di Giotto!

Siamo d�accordo che il nome di un pittore iscritto sotto un dipinto del Trecento non ha lo stesso valore di una firma di Picas-so; ma almeno si dovrà convenire che il nome di Giotto iscritto sotto un dipinto avrà lo stesso valore del nome di Duccio apposto alla Maestà del Duomo di Siena o del nome di Simone Martini apposto alla Maestà di Palazzo Pubblico. Oppure, del nome del Ghiberti apposto alla Porta Nord del Battistero fiorentino. E que-sto un caso particolarmente significativo, perché nessuno ha mai pensato di togliere dal catalogo ghibertiano la Porta Nord o una sua parte, nonostante si sappia con certezza che la esegui con un nutrito gruppo di aiutanti di cui conosciamo anche i nomi.

Con gli stessi criteri andrà considerato il caso delle tre opere fir-mate da Giotto. Esse saranno state dipinte nella bottega di Giotto, da Giotto e dai suoi aiutanti, i quali si attenevano tanto scrupo-losamente alle sue direttive che se egli avesse scritto qualcosa di simile al secondo Commentario del Ghiberti le avrebbero elencate fra le opere eseguite da lui.

Per quanto riguarda le Storie francescane di Assisi, il punto sarà, dunque, di stabilire se, come Giotto ha firmato le Stimmate di san Francesco del Louvre, avrebbe potuto firmare anche gli affreschi di Assisi. Per uno storico, questo rimane l�interrogativo essenziale.

Parlando delle Stimmate di san Francesco del Louvre si è sempre privilegiato il rapporto iconografico con gli affreschi di Assisi, che è quello che salta subito agli occhi e che nessuno si sognerebbe di negare. E questo è già un fatto molto importante, perché sarà difficile sostenere che Giotto, il pittore che si conquistò per tempo un posto nella letteratura contemporanea come il più grande innovatore della pittura, si sia assoggettato a ripetere delle composizioni inventate da un altro artista80. È più logico pensare alla riutilizzazione degli stessi schemi da parte di uno stesso pittore, a quella che si chiama la replica d�autore; tanto più che non mancano delle varianti sostanziali, come l�abolizione del fra-

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te compagno nella scena principale o l�aggiunta di san Pietro nel Sogno di Innocenzo III.

Tuttavia, preme ancora di più sottolineare la sostanziale iden-tità di stile81. Data l�eccessiva diversità di formato tra le scene della predella e i corrispondenti affreschi assisiati, mi limiterò a prendere in considerazione nella tavola del Louvre la grande scena delle Stimmate (fig. 75), dove le figure sono grosso modo a grandezza naturale, come nell�affresco corrispondente di Assisi (fig. 74).

Si noterà, innanzitutto, la straordinaria affinità della messa in scena, che è tanto più significativa in quanto non vi è nemmeno un particolare nella tavola che possa dirsi copiato dall�affresco. Anzi, la piattaforma di roccia su cui è genuflesso san Francesco si confronta meglio con quella nel Miracolo dell�assetato o nel Dono del mantello, conformandosi perfettamente con la caratterizzazione che ne dà l�Offner: «II deserto petroso degli affreschi di Assisi sale in piattaforme stratificate a piani di un bianco splendente, che rimanda una luce fredda, e scende con spigoli di una lacerante durezza in scuri declivi perpendicolari»82. Come si vede, nono-stante sia ripetuta l�idea di uno spuntone roccioso a piramide tronca che si innalza sopra la figura di san Francesco, la roccia si modella in articolazioni completamente diverse nell�affresco e nella tavola (nel dipinto del Louvre, essa si divide addirittura in due blocchi), pur mantenendo la stessa identica natura di fram-mento di pietra ingrandita. Perfino gli alberelli hanno posizioni molto differenti, anche se mantengono le stesse dimensioni nei confronti della roccia e la stessa fattura con i tronchi irregolari, segnati talvolta dalla rottura o potatura di un grosso ramo, e l�ombrello frondoso di foglie botanicamente differenziate ma esa-geratamente ingrandite. Vi è la stessa idea delle due cappelle, una dietro le spalle e l�altra davanti al santo, la prima più in alto e la seconda più in basso; ma la loro descrizione è assai differenziata nell�affresco e nella tavola. E si veda, tuttavia, come in questa dif-ferenziazione faccia spicco l�identità di risultato ottico nell�oc-chieggiare del paliotto ricamato dell�altare, che sembra brilli nella penembra dell�interno della cappella sulla sinistra.

Il Cristo crocifisso con le sue ali di serafino è identico e insie-

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me diverso nei due casi: ad Assisi ha le ali mediane abbassate, nella tavola del Louvre le ha sollevate come se le mani di Cristo vi fossero inchiodate sopra. Le piume sono più astratte ad Assisi, come lunghe squame iridescenti, mentre a Parigi sono più simili a quelle di un uccello; inoltre, si vede svolazzare il perizoma, che manca ad Assisi. Altre affinità-diversità ognuno può controllarle per proprio conto nell�impostazione della figura del santo e negli episodi del panneggio o del cordone che pende dalla vita (figg. 74, 75).

È il caso, invece, di soffermarsi sulle affinità stilistiche che la tavola parigina mostra con gli altri affreschi assisiati. La testa del santo si confronta bene con quella che si vede nei Funerali e nel Compianto delle Clarisse ad Assisi (figg. 76, 77, 79): si osservino, in particolare, le pieghe della pelle tra le sopracciglia, aggrottate per la sofferenza; la conformazione della zazzera dei capelli, tagliati con l�immensa tonsura e recisi di netto sul davanti, ma che sono molto folti come dimostra il filo d�ombra che gettano sulla fronte. Si veda l�occhiaia delimitata in basso da una sporgenza della pelle, come se tirasse perché le è venuta a mancare la carne sottostante; si veda il modellato delle narici e della bocca semiaperta, la pe-luria dei baffi o la barba, assai folta ma resa leggera e soffice dalle filature del pennello che si fondono con l�ombreggiatura del mo-dellato. Nonostante un�esecuzione più metallica e arrotata e la diversità di illuminazione, anche la testa del san Francesco nella Morte del signore di Celano (fig. 78) si presta bene ad un confronto con quella del Louvre: le rughe della fronte e, di nuovo, l�ag-grottare delle ciglia, l�occhio sinistro in scorcio, la peluria dei baffi e della barba, l�elegantissima delineazione dell�orecchio, l�accenno al modellato del cranio sotto la pelle tra la fronte, la tempia e la mascella, la forma triangolare del volto di tre quarti sono aspetti quasi sovrapponibili.

La testa del Cristo-serafino di Parigi (fig. 81), dallo sguardo profondamente serio, dalla folta massa di capelli che si raccoglie serpeggiando dietro la nuca è pressoché gemella di quella del Cristo che compare in un episodio marginale, ma intensissimo, nella Confesssione della donna di Benevento nell�angolo di cielo in alto a sinistra dove si svolge il dialogo fra Cristo e san Francesco (fig. 80): è uno degli

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affreschi considerati di solito opera del Maestro della Santa Ce-cilia83, ma dove alcune parti - fra cui questa - sono del migliore livello dell�intero ciclo. Si veda, ad esempio, l�articolazione della mano sinistra di Cristo, elegante e solida insieme, con la falange ripiegata dell�indice che scorcia stupendamente nella presa del rotule. Quale delle mani del Cavallini che si vedono numerose negli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere arriva mai all�altezza di un particolare minimo come questo di Assisi?

Invece, le mani del san Francesco che riceve le stimmate del Louvre, per l�intensità del modellato, la solidità plastica e, insie-me, l�eleganza e la gentilezza di sagomatura sono paragonabili alle parti di più alta qualità degli affreschi assisiati, dalle Storie di Isacco ai più belli fra i riquadri francescani. Tra i tanti che si po-trebbero fare, mi limito qui a proporre un confronto tra la mano destra del san Francesco del Louvre (fig. 94) e la mano di un cardinale nella Predica ad Onorio (fig. 92), che, a dir la verità, ha un significato molto diverso in quanto è sollevata in un gesto di meraviglia, ma che è molto simile nel modellato del palmo, nelle dita stupendamente affusolate, nel pollice lungo e sottile, ener-gicamente teso.

Ci sarebbe da fare, poi, un lungo discorso sulle immagini decorative che adornano le architetture, secondo un gusto che è tipicamente assisiate. Bellissima la Madonna col Bambino a mezza figura nella lunetta sopra la porta d�ingresso della cappelletta di destra, come una riduzione in miniatura della Madonna di San Giorgio alla Costa; riduzione non solo nel taglio e nel formato, ma anche nella formulazione dell�immagine, più diminutiva nella tavola di Parigi, nonostante ripeta il motivo del velo e il gonfiante arco cupoliforme delle spalle. Sulla facciata del San Giovanni in Laterano sostenuto da san Francesco nel Sogno di Innocenzo III nella predella della tavola del Louvre (fig. 83) sono dipinti il Salvatore e due angeli a figura intera, come era nella realtà e come doveva essere anche nel corrispondente affresco di Assisi, pur-troppo lacunoso proprio in questa zona84. Le tre immagini sono realizzate con una pittura morbida, quasi cavalliniana. Risultati molto simili si possono leggere in certe parti di decorazione archi-tettonica degli affreschi assisiati; mi riferisco, in particolare, ai rilievi che si

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vedono dipinti nella parte absidale della chiesa sulla sinistra del san Francesco che caccia i diavoli da Arezzo (fig. 82). Nonostante l�iconografia più profana, vi si leggono effetti pittorici quasi iden-tici; ognuno può controllarli per proprio conto, ma mi sembra par-ticolarmente indicativo il confronto tra la testa al centro in mezzo a volute di acanto e quella del Cristo nella predella parigina (figg. 82, 83).

Gli stretti rapporti tra la tavola e gli affreschi assisiati presup-pongono evidentemente una cronologia ravvicinata, che, ove non bastassero gli aspetti stilistici, chiaramente prepadovani delle Stimmate del Louvre, è confermata a puntino da una circostanza minima, ma significativa. L�aureola del san Francesco è bordata da una fila di punti scuri (fig. 76), che sembrano alludere all�inca-stonatura di pietre preziose: è una foggia dell�aureola in uso a Firenze tra la fine del Due e gli inizi del Trecento, di cui parte-cipano non solo la Madonna di San Giorgio alla Costa e il polittico di Badia (fig. 107) ma perfino la Madonna di Santa Trinita di Cima-bue85 (fig. 205). Ne è ancora segnato il Crocifìsso della cappella Scrovegni, ma non più la Madonna di Ognissanti di Giotto o il San Pietro in trono di San Simone, del 1307. La foggia dell�aureola co-stituisce dunque un indizio preciso per una datazione alta delle Stimmate del Louvre, lasciando ampio spazio alla possibilità di un aggancio cronologico assai ravvicinato con le Storie francescane di Assisi.

Considerati tutti questi dati, mi sembra evidente che la risposta all�interrogativo che ci siamo posti sia affermativa: se Giotto ha firmato le Stimmate dì san Francesco del Louvre, avrebbe potuto firmare anche gli affreschi di Assisi.

Da Assisi a Padova.

Resta, naturalmente, il problema della compatibilita fra gli affreschi di Assisi - soprattutto le Storie di san Francesco - e il ciclo Scrovegni di Padova e le altre opere di Giotto. La poca comu-nicabilità tra i separatisti e gli altri, convinti ognuno della propria verità giottesca, ha fatto sì che non si sentisse seriamente il biso-gno di verificare le rispettive posizioni. I separatisti hanno conti-

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nuato ad accusare gli altri di dogmatismo, ma nemmeno loro si sono posti il problema di valutare criticamente le osservazioni dell�Offner, considerate come Vangelo. Non appena si è scoperto un caso di stretta parentela tra il fanciullo sull�albero nel Com-pianto delle Clarisse ad Assisi e quello nell�Ingresso a Gerusalemme di Padova86 (figg. 84, 85), quasi una citazione l�uno dall�altro, è scoppiata una lite interminabile sulla priorità cronologica dell�una o dell�altra figurazione. La sicurezza che abbiamo raggiunto a pro-posito della precedenza di Assisi su Padova risolve questa disputa nella sola direzione ragionevole, quella che ci indicano le affinità tra le Storie di san Francesco e le Stimmate del Louvre firmate da Giotto.

Ma le parti direttamente confrontabili del ciclo padovano e di quello assisiate non si limitano al caso del fanciullo sull�albero, che ha solo un valore emblematico. Esse sono infinitamente più numerose87, anche se, nel segnalarle, bisogna tener conto di uno sviluppo notevole verso una pittura più soffice e disinvolta. Di un�evoluzione in questa direzione si coglieva già qualche segno nel procedere del ciclo assisiate. È evidente che ogni confronto con Padova e le altre opere più tarde di Giotto non può prescindere dalla considerazione di questa maturazione sopravvenuta.

Incominciamo, anche in questo caso, col considerare un com-portamento figurativo di carattere generale come quello della rap-presentazione dello spazio.

Abbiamo già accennato alle implicazioni diversificanti che ha certamente avuto la differenza di formato tra gli affreschi assisiati e quelli padovani in ordine alla rappresentazione dello spazio, sempre più articolato nelle Storie di san Francesco. La maggiore genericità dei vani spaziali e delle architetture nella capella Scro-vegni è certamente legata alla volontà di rendere più distanti e «tragiche» le Storie di Maria e di Cristo da quelle moderne di san Francesco e trova un perfetto corrispondente ad Assisi nelle Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento dei registri alti della navata, do-ve la «casa» di Isacco è più generica e meno moderna di qualsiasi vano architettonico delle Storie dì san Francesco. Semplificate ed essenziali, le architetture padovane; eppure, guardando le improvvise articolazioni di mensole e di balconi aggettanti nel-

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le parti alte delle due architetture gemelle che accolgono i pro-tagonisti dell�Annunciazione, è difficile non pensare a tanti passi di architettura figurata che si vedono ad Assisi, dalla scena dei Fra-telli inginocchiati davanti a Giuseppe a molte Storie di san Francesco; mentre i drappi annodati allo stenditoio con i lembi tirati sul da-vanti richiamano invincibilmente quello che si vede alle finestre del Palazzo Comunale di Assisi nell�Omaggio dell�uomo semplice (fig. 43).

Non meno in linea con le idee di architettura figurata di Assisi è il continuo arricchimento con marmi mischi, con fregi intaglia- ti, con decorazioni vegetali, con rilievi figurati, con acroterii a forma di efflorescenze o di statuette (figg. 42, 44). Particolarmente evocativi di Assisi sono, a Padova, i cavalli e i leoni sul portico antistante il Tempio di Gerusalemme, nella Cacciata dei mercanti; o le efflorescenze vegetali sul fastigio dei vani in cui si svolgono le Nozze di Cana e la Flagellazione, che richiamano quelli che si vedo-no nella Predica ad Onorio; o le aquile marmoree sul cornicione del vano in cui si svolgono l�Ultima Cena e la Lavanda dei piedi, memori di quella in cima alla cuspide centrale della chiesa di San Damiano nel Compianto delle Clarisse. Né vanno dimenticati i finti rilievi del-le Virtù e dei Vizi nello zoccolo, sulle cui affinità con i finti rilievi di cui sono ricche le architetture negli affreschi di Assisi ha già attirato l�attenzione il Previtali, proponendo dei confronti che par-lano da soli88.

Emblematicamente, il primo affresco giottesco di Assisi, la Benedizione di Isacco (fig. 48), e l�ultimo di Padova, la Discesa dello Spirito Santo (fig. 40), si richiamano con forza per la somiglianza di impostazione della «scatola» architettonica, anche se nell�affresco padovano è intervenuto un sottile mutamento, che è un segno di evoluzione in direzione naturalistica: la linea retta della base dell�edificio e quella del tetto sono diventate leggermente conver-genti, accennando così all�effetto, otticamente più giusto, di uno scorcio del lato lungo del vano architettonico, che non potrà mai apparire in perfetta frontalità (come accadeva nelle Storie di Isacco) se il punto di vista è laterale, come indica il fatto che si vede, sia pure fortemente scorciata, anche la facciata dell�edificio.

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Si noterà che nell�affresco padovano il punto di vista è appena un po� più alto e resta visibile una sottilissima striscia di tetto oltre il cornicione; questo cornicione non si allinea perfettamente con la cornice di facciata dello spiovente più vicino, come accadeva inve-ce nelle Storie di Isacco; ma il risultato rimane molto simile. Per assicurarci che, comunque, quell�espediente assisiate è usato an-che a Padova, basterà guardare il tetto della capanna di legno che compare nella Natività e nell�Adorazione dei Magi (figg. 48, 49).

Abbiamo visto come uno dei risultati più straordinari in ordine alla rappresentazione dello spazio - o sarebbe meglio dire, meno astrattamente, in ordine alla raffigurazione di un ambiente - sia, tra le Storie francescane, il Presepe di Greccio (fig. 43), per via della sua presentazione dell�interno di una chiesa visto dalla parte del-l�abside, nella zona presbiteriale. Sia pure nei termini di una archi-tettura più generica e più parca di allusioni a quella contem-poranea, a Padova troviamo idee consimili, soprattutto nelle raffigurazioni del Tempio di Gerusalemme quali si vedono nella Cacciata di Gioacchino e nelle due Presentazioni, quella di Maria e quella di Cristo (fig. 44). L�interno del Tempio viene, anche in queste scene, enucleato nel settore presbiteriale e definito da un sistema di arredo liturgico costituito dall�altare con ciborio sovrastante, dall�ambone con la sua scala d�accesso e da un�arti-colazione di transenne di marmo liscio ma variegato che recinta il tutto89. La cosa straordinaria sta nel fatto che questo complesso è presentato ogni volta da un punto di vista diverso e mai fron-talmente. Nella Cacciata di Gioacchino lo spettatore è collocato nella zona absidale e questo complesso risulta sollevato dal pavimento solo da una pedana marmorea; nella Presentazione della Vergine, ci si colloca dalla parte della navata dove il complesso appare sollevato su uno zoccolo ben più alto e per accedervi bisogna salire una gradinata. Nella Presentazione di Cristo si è immessi direttamente dentro il recinto e rimane in vista solo l�altare sovrastato dal ciborio. È questa capacità di visualizzare con tanta precisione e coerenza un ambiente - fino a poterne rendere più di un punto di vista - che rimanda direttamente agli esperimenti assisiati tentati nel Presepe di Greccio o in altre scene come i Fune-

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rali di san Francesco (qui, l�apparizione azzurra, sul fondo, della conca absidale cassettonata rimanda a sua volta a Padova, dove ne compare una identica nello Sposalizio della Vergine e nei due affre-schi che lo precedono immediatamente).

Ma un accordo ancora più profondo tra questi interni di chiese ad Assisi e quelli del Tempio negli affreschi padovani è da vedere nell�idea stessa di concepire un interno raffigurando solo ciò che contiene e non il suo contenitore. Il modo più diffuso di raffi-gurare un interno ad Assisi, a Padova e poi in tutta la pittura del Trecento è quello del tipo casa-di-bambola: una sorta di scatola cubica aperta sul davanti, che rappresenta il vano spaziale. Invece, nel caso delle scene qui considerate il vano spaziale non compare (figg. 43, 44); si vedono solo gli arredi che stanno dentro di esso, campiti sul fondo blu, come se l�occhio dell�osservatore fosse tanto addentrato nell�interno dell�edificio da rendere superflua ogni allusione ad esso. Questa eccezione ad una regola trecen-tesca, che rende tanto più ricche le possibilità della raffigurazione dello spazio, avvicina ulteriormente gli affreschi di Assisi a quelli di Padova90.

Che, nonostante le differenze enucleate dall�Offner, perfino nelle idee relative all�incorniciatura architettonica non vi sia una irriducibile incompatibilità tra i due cicli lo abbiamo già osservato e sta a indicarlo emblematicamente la fila ininterrotta di piccolis-sime mensole usate per la sottile cornice orizzontale in aggetto che corona lo zoccolo, subito al di sotto delle scene affrescate, sia nella cappella Scrovegni che nella Leggenda di san Francesco.

Le considerazioni che si facevano a proposito del ruolo più ampio giocato dalle architetture nell�economia compositiva degli affreschi di Assisi valgono pure per il paesaggio, giudicato an-ch�esso dall�Offner come troppo sviluppato in confronto a Padova. In particolare, le rocce gli sembravano troppo invadenti e diverse da quelle di Padova. Ma, se anche in questo caso teniamo presenti le differenze di formato e di cronologia fra i due cicli, nemmeno le rocce sembreranno tanto difformi. Come sempre, la materia pittorica apparirà a Padova, più soffice in confronto a quella tagliente, metallica e «cimabuesca» di Assisi; ma si note-

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ranno anche delle affinità fondamentali, soprattutto nelle profila-ture dei contorni che si articolano in denti e spuntoni.

Nel considerare le figure, possiamo incominciare da confronti che, anche se non sono così immediatamente stringenti come quel-lo già ricordato tra i due fanciulli sull�albero, si presentano an-ch�essi come molto indicativi.

L�Offner, nell�evidenziare le differenze tra gli angeli assisiati e quelli padovani, sembra non si sia accorto di quanto erano simili le loro controparti, cioè i diavoli (figg. 86, 87). Ad Assisi, vi sono quelli cacciati dalla città di Arezzo; a Padova, se ne vedono molti nell�Inferno, sulla destra del Giudizio Finale. Si tratta di creature grottesche e ferine, comiche più che terrificanti, tanto da prestarsi - soprattutto a Padova - ad un divertimento quasi da caricaturista, come nelle dróleries di un codice miniato. Neri e irsuti, col corpo a metà strada fra un lupo, una scimmia e un orso, le zampe ad artigli come in un uccello rapace, il pelame arruffato, la testa da caricatura grottesca, sono concepiti in modo talmente simile ad Assisi e a Padova, persino nelle pose rampanti con cui si dispon-gono, da sembrare quasi intercambiabili, ove non fosse per un che di più metallico nei primi.

Immagini eccezionali come quelle dei diavoli potrebbero trova-re ragioni di una oggettiva somiglianza proprio nella loro eccezio-nalità. Dai diavoli, passiamo allora a considerare le figure umane.

Se ci soffermiamo sulle loro pose, sui loro gesti, sulle mani, sui panneggi, sulle stoffe di cui si coprono, troveremo ad Assisi molti precedenti diretti per Padova. È particolarmente impressionante l�affinità nel modo di concepire le stoffe, evidenziandone il peso fisico o rendendone le cavità in maniera così convincente che sem-bra di potervi mettere dentro le mani. Così, nelle Storie di Isacco, i piedi del vecchio patriarca puntano contro la coperta del letto, rilevandosi con un�intensità straordinaria, in un effetto molto simile a quello provocato dal premere del ginocchio nello stupendo brano di panneggio della veste della comare che fila presso la porta, nell�Annuncio ad Anna. Così, le pieghe tubolari che danno un�evidenza quasi tangibile alla veste donata al povero

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dal giovane san Francesco (fig. 12) preludono invincibilmente all�altrettanto straordinario «pezzo» padovano della veste che un fanciullo si sfila dal capo nell�Ingresso a Gerusalemme: unica diffe-renza, l�effetto più tagliente e arrotato di Assisi. Anche a confron-tare il panneggio di uno degli angeli che tengono le vesti di Cristo nel Battesimo di Padova e del padre irato di san Francesco che tiene le vesti del figlio nella Rinuncia ai beni (figg. 88, 89), si osser-verà come gli episodi in cui si articolano le pieghe raggiungano in qualche tratto la sovrapponibilità.

E le celebrate «prefiche» viste di spalle nella Deposizione sono il formidabile sviluppo di un�idea che era nata ad Assisi non già nella Deposizione dei registri alti ma proprio nelle Storie di san Francesco, e precisamente nella Morte del santo. Si dirà che questi fraticelli, seduti a terra e visti di spalle, sono inconfrontabili con la monumentalità delle «pie donne» padovane, ma bisogna tener conto del fatto che esse partecipano di quella concezione sempli-ficata ed essenziale del corpo umano coperto dalle vesti che è una delle caratteristiche più specifiche del Giotto padovano e che ha il suo momento più impressionante nel Giuda che bacia Cristo: poche pieghe semplici e grandiose drappeggiano la veste che per un ampio tratto rimane quasi completamente liscia per far risal-tare unicamente il turgore tondeggiante del corpo. Nelle opere successive Giotto non tenterà più effetti così spettacolari in questa direzione; non sarebbe, dunque, corretto pretendere di trovare effetti identici ad Assisi, dove il panneggio è ancora molto legato alle soluzioni cimabuesche di pieghe fitte, a taglienti sottosquadri. Tuttavia va segnalato anche in questa direzione un preciso precedente assisiate, nell�Omaggio dell�uomo semplice. Qui, la figura sulla destra si può confrontare bene con uno dei personaggi visti di spalle sulla destra della Presentazione della Vergine al Tempio (figg. 90, 91) o col san Giovanni Battista nel Battesimo di Cristo a Padova: vi è la stessa identica idea che le spalle rappresentano un�unica, intatta massa gonfiante, dalla quale ricadono verso terra rade pieghe verticali. È questo un caso che sta a indicare come il procedere della decorazione assisiate vada proprio in direzione di Padova, dal momento che l�Omaggio dell�uomo semplice è cer-

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tamente uno degli ultimi - e probabilmente l�ultimo - in ordine di esecuzione tra gli affreschi assisiati91. Se nella Deposizione di Assisi (fig. 149) non è ancora presente l�idea delle «pie donne» in primo piano viste di spalle - idea che sembra anch�essa maturare piut-tosto col procedere della decorazione nella fase delle Storie di san Francesco - vi compare già quella straordinaria gestualità come solenne recitazione del cordoglio che caratterizza anche la Deposi-zione di Padova. E il passo che più avvicina le due scene è il gesto dell�apostolo che tiene le mani intrecciate sul grembo, probabil-mente studiato dall�antico92.

In generale, è proprio nei gesti e nelle mani che si possono cogliere le affinità più stringenti fra le figure di Padova e quelle di Assisi: gesti di meditazione o di indicazione, di disponibilità o di meraviglia (figg. 92, 93); mani disegnate nello stesso identico modo, con le dita articolate elegantemente (figg. 95, 96), ma ugualmente modellate e tornite in tutta la loro solidità, energia e consistenza voluminosa (figg. 97, 98).

Ad indicare le affinità fra Padova e Assisi nel modo di dar forma ai volti delle figure - nonostante i «progressi» compiuti nella definizione dei profili - basteranno pochi confronti; per esempio, quello tra il profilo del Bambino in braccio alla Madonna nella controfacciata di Assisi e il profilo di una comare di Anna nell�Incontro alla Porta Aurea a Padova (figg. 99, 100). A farli asso-migliare tanto è innanzitutto il modo di sorridere aprendo la bocca e tenendo le labbra serrate intorno ai denti; ma è, anche, la piega ad arco dei muscoli della faccia che partendo dalle pinne delle narici gira intorno all�angolo della bocca e viene a raggiun-gere la linea che inizia la profilatura del mento. E l�articolazione del chiaroscuro tra le guance, il naso e gli occhi, fino alle «zampe di gallina» che si formano ai bordi degli occhi stessi, così come il collo robusto cerchiato da un leggero solco della pelle, sono tratti quasi sovrapponibili.

Particolarmente evidenti sono, poi, le somiglianze tra i profili di Assisi e quelli di certi personaggi minori di Padova (figg. 101, 102) in cui sembra che il pittore abbia sfruttato la vecchia difficoltà nella definizione del profilo stesso per raggiungere una caratteriz-zazione quasi comica.

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II confronto che parla da sé tra la testa della Madonna nella controfacciata di Assisi e quella della Giustizia di Padova (figg. 103, 105) coinvoile anche altre figurazioni giottesche, come la Madonna del Crocifisso di Santa Maria Novella, che ha la stessa contrazione, la stessa schiacciatura della guancia all�altezza della piega che parte dalle narici (fig. 104); nei confronti della Madonna di Assisi, ha anche la stessa canna nasale spianata, di ricordo due-centesco. La Madonna del polittico di Badia è più fusa di quella assisiate, ma appare costruita secondo moduli proporzionali in tutto simili e identici nell�idea di far trasparire sotto il velo i capel-li raccolti nella cuffia, o nelle pieghe verticali del velo stesso.

Non è senza significato, nello stesso polittico di Badia, il ri-chiamo del san Pietro a quello dipinto in uno dei tondi della con- trofacciata di Assisi (figg. 106, 107), ugualmente frontale, anzi - si direbbe - costruito sullo stesso disegno, a giudicare da molti par-ticolari, coma l�identica posizione leggermente asimmetrica degli orecchi, il nesso capelli-orecchi-barba-zigomi, ecc. Nel polittico di Badia, il chiaroscuro più fuso o gli occhi più socchiusi e allungati rappresentano differenze che ne denunciano la seriorità: anche tra la Madonna di San Giorgio alla Costa e la Madonna di Ognissanti corrono queste stesse differenze-affinità, che hanno lo stesso signi-ficato.

Nonostante l�ancora più evidente diversità di esecuzione, è im-pressionante anche la stretta parentela figurativa tra la stupenda testa in scorcio di uno dei soldati che dormono presso il sepolcro nella Resurrezione dei registri alti della navata di Assisi e il frate che si china a baciare la mano a san Francesco nelle Esequie del santo della cappella Bardi in Santa Croce (figg. 108, 109). Tra la Leggenda di Assisi e le grandiose Storie di san Francesco della cap-pella Bardi corre una distanza di molti anni, forse trenta o qua-ranta, e non si ripete il caso delle Stimmate del Louvre in cui, a brevissima distanza di tempo, sono replicate quasi alla lettera quattro scene di Assisi. Nessuno degli affreschi Bardi è una re-plica di quelli di Assisi e tuttavia alcuni passaggi li richiamano in modo impressionante, come le figure del vescovo, del giovane san Francesco e del

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padre irato nella Rinuncia ai beni (figg. 112, 113), o la robusta figura di sant�Antonio, sulla destra dell�Apparizione nel capitolo di Arles (figg. 110, 111).

I punti di contatto fra il ciclo assisiate, il ciclo padovano e le altre opere di Giotto si presentano, dunque, come un complesso organico e sistematico e testimoniano, allo stesso tempo, di una profonda maturazione che, nell�arco di un decennio, è avvenuta nella mente di un artista dapprima tutto teso nella polemica con la pittura duecentesca, ma anche pressato da vicino dal peso della sua tradizione, e poi approdato ad una visione pittorica più sere-na, soffice e disinvolta. Ma il viaggio verso questo approdo era cominciato molto per tempo, nel corso stesso dei lavori assisiati, la cui parte iniziale, le Storie di Isacco, si differenzia notevolmente dalla parte finale, le ultime Storie di san Francesco e l�Omaggio dell�uomo semplice. A questo proposito, si noterà che è maggiore la distanza tra le prime e le ultime Storie di san Francesco che non tra le Storie di Isacco e le prime Storie di san Francesco. Non per nulla, passando in rassegna i casi di più stretta affinità stilistica tra gli affreschi dei registri alti e quelli francescani, abbiamo fatto rife-rimento soprattutto ai dipinti iniziali di questo secondo ciclo: il Dono del mantello, il Sogno di Innocenzo III, la Rinuncia ai beni, ecc. Che il procedere delle Storie di san Francesco segni dei grandi avanzamenti artistici è stato messo in evidenza con molta enfasi anche dal White: «una dimostrazione della statura del Maestro della Leggenda di san Francesco è la velocità meteorica della sua evoluzione artistica»93. E non si tratta solo di avanzamenti negli schemi della rappresentazione dello spazio, ma anche nella sco-perta degli ambienti concreti, degli oggetti e della decorazione moderna da cui questo spazio è connotato. Si tratta, inoltre, di un sottile affinamento figurativo che ha fatto pensare, per gli ultimi affreschi, all�intervento del Maestro della Santa Cecilia94 e perfino, sia pure marginalmente, del giovane Simone Martini95; o ha in-dotto a configurare la possibilità di una fase gotica di Giotto stes-so, di cui è testimonianza anche la predella delle Stimmate di san Francesco al Louvre96. Si tratta, infine, di un sensibile addolcimento della materia pittorica, proprio in direzione degli affreschi di Padova (figg. 146, 147); tanto è vero che qualcuno ha voluto vedere ne-

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gli ultimi riquadri francescani e nell�Omaggio dell�uomo semplice dei riflessi degli affreschi Scrovegni. In effetti, rispetto alla superficie metallica, ai taglienti sottosquadri del panneggio che ancora carat-terizzano le prime storie francescane, le ultime si differenziano per un effetto più morbido e fuso della materia pittorica. È proba-bile che qui sia da vedere l�inizio di una svolta da parte del pitto-re, di un superamento dell�asprezza petrosa e metallica che carat-terizza gran parte degli affreschi di Assisi.

Di questa direzione di tendenza è esempio emblematico il mo-do di realizzare le nubi. Nella Volta dei Dottori, quelle che compaiono nei quattro vertici a sostenere una mezza figura di Cri-sto sembrano piuttosto dei cristalli di quarzo; quelle che nascon-dono Cristo nell�Ascensione della controfacciata sono già più sfran-giate e lanose; nell�Estasi di san Francesco, infine, la nube che sostie-ne il santo è diventata un morbido nido di bambagia.

Ma nelle ultime Storie francescane l�addolcimento della materia pittorica si fa più generale. Si guardi, ad esempio, la Liberazione di Pietro d�Assisi: nella figura del carceriere, la stoffa della veste è più soffice, gli angoli delle pieghe assai più smussati di quanto non accada mai nei panneggi delle figure che compaiono nelle prime storie francescane, dal Dono del mantello in avanti.

Il Toesca aveva messo l�accento su alcune zone degli affreschi, come nella Morte di san Francesco, dove, essendo caduta la pellicola cromatica superficiale, si vedevano parti del disegno preparatorio di una libertà e di una morbidezza impressionanti, certo dovute alla mano del pittore che dirigeva i lavori e che poi lasciava gran parte del meticoloso lavoro di esecuzione ai suoi aiuti97. Insomma, tutto sta ad indicare che il cammino verso il più soffice pittori-cismo di Padova era già iniziato ad Assisi e che quella di una pittura più dolce dovette diventare ben presto la preoccupazione maggiore di Giotto e raggiungere probabilmente il suo culmine al tempo del soggiorno a Rimini, se la pittura riminese ne rimase segnata indelebilmente, fino a risultati di una tenerezza quasi bacata, mentre per gli aspetti di organizzazione dello spazio restò sempre più vicina ai modi assisiati che a quelli padovani98.

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1 F. Rintelen, Giotto una die Giotto-Apokryphen, München-Leipzig 1912, 2a ed. Basel 1923; della fortuna che arrise, almeno negli ambienti culturali tedeschi, alle tesi del Rintelen è prova che proprio a lui sia stata affidata la voce su Giotto nel prestigioso Künstlerlexikon di U. Thieme e F. Becker (XIV, Leipzig 1921, pp. 94-100). Precursori ottocenteschi dei «separatisti» sono W. [K. Witte], Der Sacro Convento in Assisi, in «Kunst Blatt», 1821, che ripartì le Storie di san Francesco fra tre artisti tutti diversi da Giotto, e il ben più noto K. F. von Rumohr, Über Giotto, in Italienische Forschungen, II, Berlin-Stettin 1827, pp. 39-75, la cui attribuzione del ciclo a Spinello Aretino e a Parri Spinelli (p. 67) rimanda gli affreschi ad una data talmente inaccettabile da non aver trovato seguito. Ma, per la storia del problema, si vedano, su fronti opposti, P. Toesca, II Trecento, Torino 1951, pp. 446-54, note; A. Smart, The Assisi Problem and the Art of Giotto. A Study of the �Legend of St. Francis� in the Upper Church of San Francesco, Assisi, Oxford 1971, pp. 46-62.

2 R. Offner, Giotto - non Giotto, in «The Burlington Magazine», I, LXXIV, 1939, pp. 259-68; II, LXXV, 1939, pp. 96-113. Si veda sopra, p. 36, nota 39.

3 M. Meiss, Giotto and Assisi, New York 1960, p. 2 («The burden of the proof lies - or at least should lie - heavily upon those who deny the cycle to Giotto»). Si veda anche quanto ammette J. White, Art and Architecture in Italy, 1250-1400, Harmondsworth 1966, p. 137. Si veda sopra, p. 34, nota 23.

4 Rintelen, Giotto cit., p. 179; Offner, Giotto cit., che indica la sua attribuzione nelle didascalie alle foto degli affreschi delle Storie di san Francesco.

7 Meiss, Giotto cit., pp. 11-25. 8 Un approccio del tutto opposto, e per me assai poco costruttivo, è quello di certi studiosi

americani pronti a distinguere con puntiglio il ruolo dei vari collaboratori di un�impresa: esempi tipici la proliferazione di alter ego di Ambrogio Lorenzetti e di Duccio nelle monografie dedicate loro rispettivamente da G. Rowley, Ambrogio Lorenzetti, Princeton 1958 e J. H. Stubblebine, Duccio di Buoninsegna and His School, Princeton 1979.

9 Dall�attribuzione al Maestro della Santa Cecilia (Studies in Florentine Painting, New York 1927, p. 21, nota 22; A Corpus of Fiorentine Painting, sez. III, I, Berlin 1931, p. 32) l�Offner è passato alla proposta di un «Master of the Santa Maria Novella Cross», considerato autore anche della Madonna di San Giorgio alla Costa (A Corpus, VI, New York 1956, pp. 3-7, 9-18).

10 R. Oertel, Die Frühzeit der italienischen Malerei, Stuttgart 1953, 2a ed. 1966, pp. 70-71. Si vedano anche l�edizione inglese (Early Italian Painting to 1400, London 1968, pp. 64-82) e la breve monografìa su Giotto, in Meilensteine Europäischer Kunst, a cura di E. Steingräber, München 1965, pp. 173-98.

11 Si veda in particolare R. Van Marle, The Development of Italian Schools of Painting, I, The Hague 1923, p. 521 e passim.

12 Meiss, Giotto cit., p. 2.

13 A. Smart, The Santa Cecilia Master and His School in Assisi, in «The Burlington Magazine», CII, 1960, pp. 405-13, 431-37.

14 Meiss, Giotto cit., pp. 23-24.

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15 B. Cole, Giotto and Florentine Painting, New York - Evanston - San Francisco 1976, pp. 40-52. 16 F. Hermanin, Un affresco di Pietro Cavallini a S. Cecilia in Trastevere, in «Archivio della Società

Romana di Storia Patria», 1900, pp. 397-410; Id., Nuovi affreschi di Pietro Cavallini in Santa Cecilia in Trastevere, in «L�Arte», 1901, pp. 239-44; Id., Gli affreschi di Pietro Cavallini a Santa Cecilia in Trastevere, in «Le gallerie nazionali italiane», 1902.

17 Per una rassegna più approfondita del «pancavallinismo» si vedano le note 12 e 13 a p. 12 del mio scritto La rappresentazione dello spazio, in Storia dell�arte italiana, IV, Torino 1980, pp. 5-39.

18 Offner, A Corpus cit., I, pp. XIX-XXVII.

19 L. Bracaloni, Assisi Medioevale. Studio topografico, in «Archivum Franciscanum Historicum», VII, 1914, p. 19; B. Kleinschmidt, Die Basilika San Francesco in Assisi, II, Berlin 1926, p. 157. Toesca, Il Trecento cit., p. 468, nota 14, riprende questa osservazione, pur con qualche riserva.

20 Si veda, per esempio, White, Art and Architecture cit., p. 143. Egli pensa che, data la reinter- pretazione del Tempio di Minerva di Assisi col rosone e gli angeli volanti del timpano e con una colonna centrale invece di un intercolumnio centrale, non ci si può fidare del fatto che alla torre del Palazzo del Comune manchi un piano per dedurne che esso rispecchi la sua forma precedente al rialzamento del 1305 e che questa data costituisca un ragionevole terminus ante quem per l�affresco. In realtà, mentre sarebbe troppo chiedere a un�arte che si sta appena ponendo il problema di ritrarre un ambiente una fedeltà fotografica (come sarebbe quella di riprodurre l�esatto numero delle colonne dell�atrio di un tempio antico), ben differente mi pare il caso della sopraelevazione di un piano di una torre. Quanto alla concretezza della raffigurazione, è stato notato che la presenza di finestre inferriate documenta l�uso del Tempio di Minerva come carcere (P. Scarpellini, Assisi e i suoi monumenti nella pittura dei secoli XIII-XIV, in Assisi ai tempi di San Francesco, Assisi 1978, pp. 97-100), con un riferimento diretto alla situazione reale.

21 Vedi sopra, p. 34, nota 23.

22 Fu U. Procacci, La tavola di Giotto sull�altar maggiore della chiesa della Badia fiorentina, in Scritti di storia dell�arte in onore di Mario Salmi, II, Roma 1962, pp. 9-45, ad identificare il polittico già allora ben noto e conservato nel Museo dell�Opera di Santa Croce (restaurato nel 1957 ed in seguito trasferito agli Uffizi) con la «tavola» nella Badia fiorentina ricordata dal Ghiberti (Lorenzo Ghibertis Denkwürdigkeiten - I Commentarii, a cura di J. von Schlosser, Berlin 1912, I, p. 36).

23 Rintelen, Giotto cit., p. 158: «an die Stelle der phantasievollen Unbestimmtheit Giottos tritt kalte, bis zum grob Handgreiflichen gehende Natürlichkeit».

24 Offner, Giotto cit., I, p. 261 («being is emphasized over doing, eternity over the moment, idea over fact»); ibid. («man stands detached from earthly things and interests»); ibid. («Man represents the essence of virtue in an ideai worid»); II, p. 102 («Giotto�s eye is never pre-occupied with an outer object, but always reflects an inner state»); ibid. («The expression accordingly never responds to a moment, but is related to eternity»); I, p. 268 («the scenes, by contrast with Assisi, mantain an ideal and indeterminate distance from the spectator, like pictures in a dream»); II, p. 101 («[At Assisi] the buildings, the rocks, the trees are not, as in Giotto, primarily cubie abstractions»); II, p. 102 («But the conscience within them, like their type, is stolid and impenetrable»); ibid. («we become aware of an ultimate indwelling meaning, as of a living spirit that di-

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rects the body and sets it in motion, rather than of its irreducible materiality as in Assisi»).

25 Ibid., I, p. 261 («[Plasticity] attains to a pitch of refìnement in the Paduan Cross that makes it felt essentially as a manifestation of the immaterial»).

26 Si veda la scheda n. 1 del catalogo, a cura di L. Grossato, Padova 1974. Il dipinto ha subito un intervento di pulitura da parte di Mauro Pelliccioli nel 1955.

27 Offner, Giotto cit., II, p. 107 («In Giotto the architecture is consistently ideal and abstract»).

28 Un ben più alto apprezzamento dei due coretti è stato dato da R. Longhi, Giotto spazioso, in «Paragone», 1952, n. 131,pp. 18-24, ora in «Giudizio sul Duecento» e ricerche sul Trecento nell�Italia centrale, Firenze 1974, pp. 59-64, che traccia anche una storia della loro limitata fortuna, e da Gioseffi, Giotto cit., pp. 52-54, 118-20.

29 Offner, Giotto cit., II, p. 107 («[the aureole] is foreshortened as a mean of both accenting and differentiating the personages with the intention of achieving a clearer organization within the single scene and a rhythmic fluidity in the narrative»).

30 Ibid. («In Assisi the angels are conceived as full-sized earth-inhabitants differentiated from humanity solely by their wings. In Padua they are small and gnome-like and haunt the free space like creatures of the air, from which they seem to watch over the fortunes of men below with the friendly solicitude of familiar spirits. In flying, the lower part of their bodies vanishes in cloud, so that we are astonished to find them occasionally alight in their tuli height on human feet. But the Assisan angels retain their entire bodies even in flight»).

31 Ibid., p. 101 («In contrast to Padua where the spectator�s eye is uniformly assumed to be at the height of the foreground heads - a device that provides a sharper foreshortening and a completer overlapping to the end of achieving a more ideal space-illusion - in Assisi the composition is often sighted from above»).

32 Ibid. («the action is shifted to one side with no figural elements on the other»).

33 E. Panofsky, Die Perspektive als �symbolische Form� (1924-25), ed. it. a cura di G. D. Neri, con una nota di M. Dalai, Milano 1966, p. 53.

34 Offner, Giotto cit., II, pp. 107-8.

35 Si veda oltre, pp. 175-79.

36 Si veda oltre, pp. 125-26.

37 C. Cennini, II libro dell�Arte o Trattato della Pittura, ed. a cura di F. Tempesti, Milano 1975, cap. IX, p. 34.

38 Si veda ad esempio M.T. Cuppini, La pittura e la scultura in Verona al tempo di Dante, nel catalogo della mostra Dante e Verona, Verona 1965, pp. 175-98, figg. 25-26.

39 La notizia del soggiorno riminese di Giotto si fonda su un passo della Compilatio Chronologica di Riccobaldo Ferrarese (in L. A. Muratori, RIS, IX, p. 325a); «Zotus pictor eximius agnoscitur; qualis in arte fuerit testantur opera facta per eum in Ecclesiis Minorum Assisii, Arimini, Padue et in ecclesia Arene Padue». I dubbi sull�autenticità del passo sono stati risolti in senso positivo da C. Gnudi, II passo di Riccobaldo ferrarese relativo a Giotto e il problema della sua autenticità, in Studies in the History of� Art dedicated to William E. Suida, London 1957, pp. 26-30, che ne ha stabilito la data al 1312-13. Per la data di questo soggiorno si veda G. Previtali, Giotto e la sua bottega, Milano 1967, 2a ed. cit. 1974, pp. 70-72, 135-36, note 119-25, che riferisce concisamente delle varie opinioni in merito. Si veda anche oltre, p. 138, nota 1.

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«Opus magistri Iocti» 99

40 Offner, Giotto cit., I, p. 267 («as it were seen through a window»).

41 Ibid., pp. 267-68 («far from creating a transition from the actual to the painted space as does the framework of the St. Francis cycle, the network of enframing bands in Padua remains largely ornamental and abstract»).

42 Gioseffi, Giotto cit., p. 52. 43 Si fa qui riferimento alle misure date da E. Baccheschi, in L�opera completa di Giotto dei «Classici

dell�arte» Rizzoli, Milano 1966, che sono misure medie, considerate senza contare le cornici né le strisce riquadranti.

44 Già F. Mather, Giotto�s St. Francis Series at Assisi Historically Considered, in «Art Bulletin», 1943, pp. 47-111, indicava nell�eccezionalità iconografica del ciclo francescano e nella diversità di formato le ragioni delle differenze degli affreschi Scrovegni che erano state osservate. Si veda, a questo proposito, anche Gioseffi, Giotto cit., p. 102. Un ragguaglio delle misure dei riquadri padovani, che, tra l�altro, sono differenziate a seconda dell�altezza per un sottile calcolo dell�effetto visivo, è dato da A. Prosdocimi, Osservazioni sulla partitura delle scene affrescate da Giotto nella cappella degli Scrovegni, negli Atti del congresso su Giotto e il suo tempo cit., pp. 135-42.

45 Offner, Giotto cit., II, p. 102 («the figures are presented simply as contentedly aware of their embodied selves or their gestures, busy with their own thoughts as they are barely mindful of what�s going on»).

46 Ibid. («simple-souled men who live by forcing their bodily needs from the earth. But the conscience within them, like their type, is stolid and impenetrable compared to the spiritually evolved creatures of Padua. Here the whole man belongs to a higher order of sentiency»).

47 Si veda sopra, pp. 28 e 38, nota 47. 48 De vulgari eloquentia, lib. II, IV, 5-6. 49 Poema per un verso di Shakespeare, in Poesia in forma di rosa, Milano 1964, p. 104. 50 Belting, Die Oberkirche cit. 51 Meiss, Giotto cit., p. 21: «the more tentative, rather petty, gestures often apparent in the Legend,

such as a pointing thumb, or fingers to lips or check, or chin in hand». 52 Gioseffi, Giotto cit., pp. 107-8. Il Gioseffi nota anche che il gesto di papa Onorio di tenersi il

mento con la mano (cioè uno dei gesti «beccati» dal Meiss nelle Storie di san Francesco di cui non ci sarebbe la minima traccia nelle Storie di Isacco e negli affreschi di Padova) è ripetuto da uno degli astanti nella Resurrezione di Lazzaro nella cappella Scrovegni.

53 Si veda quanto ho affermato in Buffalmacco e il Trionfo della Morte, Torino 1974, pp. 41-43; si veda anche il primo capitolo di questo volume, pp. 9-14. Della novità introdotta nelle Storie di san Francesco sembra cosciente anche il Vasari (Le vite de� più eccellenti pittori scultori e architettori cit., p. 305): «fa bellissimo vedere la diversità degl�abiti di que� tempi».

54 É. Bertaux, Les arts de l�Orient musulman dans l�Italie meridionale, in «Mélanges d�Archéologie et d�Histoire», 1895, pp. 419-57, metteva in rapporto la diffusione dei motivi decorativi cosmateschi nell�Italia meridionale con influssi arabi.

55 Si veda sopra, p. 97, nota 19.

56 Smart, The Assisi Problem cit., p. 152 («the first modern street-scene in Italian art»).

57 A proposito dell�attribuzione corrente al Maestro della Santa Cecilia di questo e degli ultimi riquadri delle Storie francescane di Assisi, si veda oltre, p. 102, nota 94.

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58 Riprendo qui la felice formulazione di U. Feldges, Landschaft als topographisches Porträt. Der Wiederbeginn der europäischen Landschaftsmalerei in Siena, Bern 1980.

59 M. Seidel e L. Bellosi, Castrum pingatur in palatio, in «Prospettiva», 1982, n. 28, pp. 17-65.

60 Meiss, Giotto cit., p. 2. Per il passo di Riccobaldo Ferrarese, si veda sopra, p. 98, nota 39.

61 Ibid., pp. 11-15.

62 Offner, Giotto cit., II, p. 101 («The space thereby acquires a more explicit emptiness in proportion as the form is more densely solid»).

63 Ibid., p.102.

64 È un�osservazione che hanno fatto in molti, anche chi non ammette che gli affreschi dei registri alti e le Storie di san Francesco siano da ricondurre a uno stesso artista. Si veda, ad esempio, J. White, The Birth and Rebirth of Pictorial Space, London 1957, ed. cit. 1972 (meno attendibile è la traduzione italiana, Milano 1971), p. 33. «The clearest evidence that the master responsible, for the main body, of �The Legend of St. Francis� starts from that vision of reality shared by the painters of the middle register and vaults of the two entrance bays is to be seen in �The Vision of the Thrones�».

65 Id., Art and Architecture cit., pp. 143-44 e tavv. 57a-b.

66 Bellosi, Buffalmacco cit., p. 120.

67 Meiss, Giotto cit., p. 23.

68 White, Art and Architecture cit., p. 135 («the Isaac Master must be counted among the greatest of those few, exceptional geniuses who founded the new school of Italian painting»); p. 136 («The painting of the Legend of St. Francis [...] is one of the supremely important events in the history not only of Italian but of European art»).

69 C. Brandi, Sulla cronologia degli affreschi della chiesa superiore di Assisi, in Giotto e il suo tempo cit., pp. 61-66, e, più recentemente, Giotto, Milano 1983.

70 L. Tintori e M. Meiss, The Painting of the Life of St. Francis in Assisi, New York 1962, 2a ed. 1967.

71 Per la ricchezza di suppellettili liturgiche marmoree decorate alla cosmatesca presenti nella Basilica di Assisi (a cui Giotto avrebbe potuto ispirarsi direttamente per la Volta dei Dottori e per le Storie di san Francesco) si veda ora anche I. Hueck, Der Lettner der Unterkirche von San Francesco in Assisi, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 1984, pp. 173-202.

72 Queste cornici sono spesso di un colore rosso rosato, come quelle del trono della Madonna di San Giorgio alla Costa.

73 Quanto ho affermato in queste pagine va nello stesso senso di alcune osservazioni, neces-sariamente più rapide, di Previtali, Giotto cit., p. 55 sull�«analitica penetrazione delle sottigliezze del vero» e sulla «stupefacente simulazione delle più difficili operazioni dell�uomo e della natura» che caratterizzarono Giotto agli occhi dei suoi contemporanei.

74 Si veda sopra, p. 67 e nota 65.

75 A proposito delle strette affinità tra gli affreschi dei registri alti e le Storie di san Francesco, si vedano anche le osservazioni di Belting, Die Oberkirche cit., pp. 241-42. Particolarmente significativo è il confronto che Belting propone tra il San Pietro nel clipeo della controfacciata e la testa di san Francesco nella Prova del fuoco davanti al Sultano (tav. 88).

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76 P. Toesca, La pittura fiorentina del Trecento, Verona 1929, pp. 16-20; si vedano anche Id., Giotto,

Torino 1941, pp. 59-61; Id., Il Trecento cit., p. 454, nota.

77 Fra i separatisti, solo Smart, The Assisi Problem cit., pp. 109-17, affronta il problema posto dalla tavola del Louvre.

78 Le opere considerate da Offner autografe di Giotto («So secure, indeed is this combined testimony as to justify the confident assumption that he had none other painted») sono soltanto gli affreschi e il Crocifisso Scrovegni, le cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce e la Madonna di Ognissanti (Offner, Giotto cit., I, p. 260).

79 Ghiberti, I Commentari, ed. cit., I, p. 39.

80 A proposito della tavola del Louvre si vedano anche le osservazioni di Previtali, Giotto cit., pp. 45, 64, 367.

81 Su questo punto si veda già Gioseffi, Giotto cit., p. 107.

82 Offner, Giotto cit., II, p. 108 («The stony waste of Assisi frescoes climbs in stratified stages of shining white levels, flashing back a cold light, and drops at edges of a lacerating sharpness into sheer dark declivities»).

83 Per il problema dell�attribuzione al Maestro della Santa Cecilia della prima e delle ultime scene della Leggenda di san Francesco, si veda oltre, p. 102, nota 94.

84 Si veda sopra, pp. 25-26 e 37, nota 41.

85 Si veda oltre, pp. 164-67.

86 M. R. Fisher, Assisi, Padua and the Boy in the Tree, in «Art Bulletin», 1954, pp. 47-52. Egli pensava a una ripresa immediata da Padova entro il 1307, in quanto il bambino nell�albero dell�affresco assisiate gli sembrava un�indebita estensione di un motivo pensato per Padova, dove si inserirebbe più appropriatamente nella scena dell�Ingresso di Cristo a Gerusalemme. Va tuttavia notato che il riferimento all�ingresso a Gerusalemme è già configurato nel testo della Legenda maior di san Bonaventura, come si può controllare perfino dalla scritta sotto l�affresco assisiate dove si parla di «turbae quae convenerant [...] cum ramis arborum».

87 Si vedano, a questo proposito, le serrate e convincenti argomentazioni di Gioseffi, Giotto cit., pp. 104-8, e i confronti già proposti da Previtali, Giotto cit., pp. 74-83. Si considerino anche certe osservazioni di Belting, Die Oberkirche cit., p. 242, come quelle relative all�Ascensione, la cui composizione è simile ad Assisi e a Padova, ma sembra nata ad Assisi, dove è più congrua alla situazione della superficie da affrescare.

88 Previtali, Giotto cit.; si vedano le illustrazioni alle pp. 80-81.

89 Sembra di aggirarsi all�interno di una delle basiliche minori romane arricchite di arredi liturgici marmorei, come San Lorenzo fuori le Mura o San Clemente. All�interno di quest�ultima chiesa fa riferimento anche J. White, Giotto�s Use of Architecture in �The Expulsion of Joachim� and �The Etry into ]erusalem� at Padua, in «The Burlington Magazine», cxv, 1983, pp. 439-47, che considera l�architettura della Cacciata di Gioacchino dal Tempio come «the only surviving example of Giotto�s use of a portrayal of an existing building in a narrative context». È un aspetto che non manca di riconnettersi strettamente, anch�esso, con le ricostruzioni di ambienti architettonici negli affreschi di Assisi.

90 Id., The Birth and Rebirth cit., pp. 37-39, dedica molta attenzione a questo fenomeno, riferendosi però soltanto agli affreschi di Assisi e segnatamente al Presepe di Greccio e ai Funerali di san Francesco. Egli lo considera ancora in rapporto con la tradizione medievale (testimoniata, ad esempio, da alcune miniature del Menologio di Basilio II, databili al X secolo) e pone, così, le due composizioni assisiati alla fine di una lunga evolu-

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102 La pecora di Giotto

zione piuttosto che all�inizio di un�altra. In questo senso, la libertà spaziale delle due composizioni non può essere considerata più evoluta - e quindi più tarda - rispetto alle soluzioni padovane, come pensava il Rintelen. Tuttavia, il White non ha osservato che alcune scene padovane, come quelle che abbiamo qui esaminate, presentano ancora lo stesso fenomeno.

91 C. Gnudi, Giotto, Milano 1958, p. 66, ritiene, in maniera assai plausibile, che l�affresco sia stato eseguito per ultimo perché, al momento in cui si dette inizio alla Leggenda di san Francesco, si stava impostando la trave dell�iconostasi. Soltanto verso la conclusione dei lavori si sarebbe deciso di affrescare il primo e l�ultimo riquadro, con l�avvertenza di impostare la trave in una zona del fondo blu. La seriorità di questo affresco rispetto agli altri è stata confermata dai rilievi di Tintori e Meiss, The Painting cit. Per l�attribuzione al Maestro della Santa Cecilia, si veda oltre, nota 94.

92 S. Settis, Immagini della meditazione, dell�incertezza e del pentimento nell�arte antica, in «Prospettiva», 1975, n. 2, pp. 4-18, ha notato come il gesto dell�apostolo all�estrema destra della Deposizione di Padova derivi dal Demostene di Polyeuktos, noto dalla copia romana della gliptoteca Ny Carlsberg di Copenaghen; lo stesso Settis ricorda che «l�ingresso del gesto di Demostene nell�arte cristiana comincia già nel sarcofago di Giunio Basso, per la figura di san Pietro imprigionato» (p. 8). Il gesto studiato da Settis è anticipato dalla figura in piedi seconda da destra nella Deposizione di Assisi.

93 White, Art and Architecture cit., p. 144 («one demonstration of the stature of the Master of the St. Francis Cycle is the meteoric speed of bis artistic development»).

94 Per l�attribuzione della prima e delle ultime Storie di san Francesco al Maestro della Santa Cecilia, che è opinione prevalente della critica, si veda soprattutto Offner, A Corpus cit., I, pp. 18-23, tavv. I-IV. L�intervento di questo maestro è stato talvolta sopravvalutato, fino ad arrivare alla posizione estrema di Smart, The Santa Cecilia Master cit. Per i dubbi su questa attribuzione si veda soprattutto Toesca, II Trecento cit., p. 606, nota 127. R. Longhi, In traccia di alcuni anonimi trecentisti, in «Paragone», 1963, n. 167, pp. 3-16, ora in «Giudizio» cit., p. 166, ha espresso delle riserve a mio avviso giustissime, mettendo in dubbio la compresenza del Maestro della Santa Cecilia nelle Storie di san Francesco ad Assisi. Si veda infine Previtali, Giotto cit., pp. 55-59.

95 I. Hueck, Frühe Arbeiten des Simone Martini, in «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst», XIX, 1968, pp. 29-60.

96 R. Longhi, Giudizio sul Duecento, in «Proporzioni», 1948, pp. 5-54, ora in «Giudizio» cit., p. 49; C. Volpe, Un momento di Giotto e il «Maestro di Vicchio a Rimaggio», in «Paragone», 1963, n. 157, pp. 3-14; Previtali, Giotto cit., p. 64.

97 P. Toesca, Una postilla alla «Vita di san Francesco» nella chiesa superiore di Assisi, in Studies ... to W. E. Suida cit., pp. 21-25; si veda in particolare la fig. 1. Il contributo di Toesca (alcune considerazioni del quale si trovano anticipate in II Trecento cit., p. 455, nota 9) è molto importante anche per le precisazioni sullo stato di conservazione e sull�entità delle ridipinture nel ciclo francescano.

98 Sul problema del soggiorno riminese di Giotto tra Assisi e Padova si veda anche oltre, pp. 103 e 138, nota 1.

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