STORIA, POESIA E ARTE DELLA MEMORIA€¦ · vari sensi (letterale, allegorico, morale, anagogico)....

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1 « IN MENSURA ET NUMERO ET PONDERE » NELLA FUCINA DELLA « COMMEDIA »: STORIA, POESIA E ARTE DELLA MEMORIA 1. Intertestualità, mnemotecnica e polisemia. 2. L’arte della memoria per il lettore spirituale. 2.1. La prima terzina. 2.2. Leggere ‘topograficamente’. 2.3. Esempi di parole-chiave. 2.4. La “variatio” dei quattro sensi della Scrittura. 2.5. Paolo e Francesca. 2.6. “In modum distinctionis”. 2.7. La ruota nella ruota. 3. L’arte della memoria per l’autore. 4. Salmi polisensi. Avvertenze .

Transcript of STORIA, POESIA E ARTE DELLA MEMORIA€¦ · vari sensi (letterale, allegorico, morale, anagogico)....

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    « IN MENSURA ET NUMERO ET PONDERE »

    NELLA FUCINA DELLA « COMMEDIA »:

    STORIA, POESIA E ARTE DELLA MEMORIA

    1. Intertestualità, mnemotecnica e polisemia. 2. L’arte della memoria per il lettore spirituale. 2.1. La

    prima terzina. 2.2. Leggere ‘topograficamente’. 2.3. Esempi di parole-chiave. 2.4. La “variatio” dei

    quattro sensi della Scrittura. 2.5. Paolo e Francesca. 2.6. “In modum distinctionis”. 2.7. La ruota

    nella ruota. 3. L’arte della memoria per l’autore. 4. Salmi polisensi. Avvertenze.

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    ET VIDI CAELUM NOVUM ET TERRAM NOVAM

    (Apocalisse 21, 1)

    1. Intertestualità, mnemotecnica e polisemia

    La Commedia di Dante conseguì “la gloria de la lingua” attraverso un’intensa elaborazione

    intertestuale della Lectura super Apocalipsim del francescano Pietro di Giovanni Olivi, completata

    (1297/1298) appena dieci anni prima dell’inizio della stesura del “poema sacro” (ca. 1307). La

    ricerca in corso, che viene qui presentata, dà conto di questa straordinaria metamorfosi testuale, e

    delle sue norme verificabili.

    L’accostamento dei due testi non è nuovo (Ernesto Buonaiuti, Raoul Manselli), ma si trattava

    di vicinanza di idee e toccava solo alcuni punti della Commedia. La nuova scoperta sta nel fatto che

    si tratta di un rapporto tecnico; esso riguarda tutto il poema per ogni endecasillabo, sul quale le idee

    provenienti dal primo testo vengono trasferite e trasformate.

    Le norme che regolano un così intenso rispondersi intertestuale sono le seguenti:

    a) Gruppi di parole ravvicinate presenti nella Lectura si ritrovano, con parole altrettanto

    ravvicinate, ma liberamente collocate, nella Commedia, quasi fili tratti da altro ordito e, intrecciati

    con altri, tessuti in uno nuovo. Il fenomeno della compresenza, in spazi testuali sufficientemente

    stretti, di termini identici in latino e in volgare risulta troppo diffuso perché sia casuale. Non si tratta

    di parole isolate, ma collocate in una rosa; gli accostamenti non sono banali o scontati. Non c’è calco

    o riscrittura; il travaso non è di frasi – e non potrebbe esserlo dalla prosa in poesia – ma di elementi

    semantici che sono segnali, in un’alta retorica del significante.

    b) Un medesimo luogo della Lectura conduce, tramite la compresenza delle parole, a più

    luoghi della Commedia. Ciò significa che la medesima esegesi di un passo del commento scritturale

    è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema.

    c) Più luoghi della Lectura possono essere collazionati tra loro. La scelta non è arbitraria. Vi

    predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che

    ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita

    dallo stesso Olivi per una migliore intelligenza del significato del testo. La “mutua collatio” di parti

    della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico.

    d) L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto

    strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio

    di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine

    registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i

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    confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato,

    che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello

    che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e

    contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni.

    Le norme sub a), b), c) sono state esaurientemente verificate in centinaia di tabelle sinottiche

    esaminate nei vari saggi pubblicati su questo sito. La norma sub d) è registrata nella Topografia

    spirituale della Commedia, dove per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali

    conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore”

    ha fatto “la gonna”, per usare l’immagine di san Bernardo a Par. XXXII, 140-141.

    Sugli aspetti generali della ricerca, si rinvia al saggio Pietro di Giovanni Olivi e Dante. Un

    progetto di ricerca, pubblicato su “Collectanea Franciscana”, 82 (2012), pp. 87-156 (riprodotto e

    tradotto in inglese su questo sito).

    L’elaborazione intertestuale significò per Dante, come ha scritto Lino Pertile, “l’inevitabile

    condizione di ogni processo di riflessione sul significato dell’esperienza umana nella storia passata,

    presente e futura” (La puttana e il gigante. Dal “Cantico dei Cantici” al Paradiso Terrestre di

    Dante, Ravenna 1998, p. 9). Quella che accompagnò l’intera stesura del “poema sacro”, con un

    procedimento analogico su singole parti della Lectura assimilabile alle “distinctiones” dei

    predicatori, costituisce anche un eccezionale esempio di arte della memoria.

    Sull’arte della memoria nel Medioevo sono stati pubblicati autorevoli studi: FRANCES A.

    YATES (The Art of Memory, London 1966); MARY CARRUTHERS (The Book of Memory. A Study of

    Memory in Medieval Culture, Cambridge 1990, 2008; EAD.-JAN M. ZIOLKOWSKI, The Medieval

    Craft of Memory. An Anthology of Texts and Pictures, University of Pennsylvania Press 2002);

    ANNA MARIA BUSSE BERGER (Medieval Music and the Art of Memory, University of California

    Press 2005); LINA BOLZONI (La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a

    Bernardino da Siena, Torino 2002, 2009) - solo per citarne alcuni.

    Dante occupa sempre un posto rilevante, e non potrebbe essere diversamente, nell’età di

    Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Raimondo Lullo. Il “poema sacro” ha una struttura

    ‘architettonica’ che agisce sulla memoria attraverso luoghi e immagini, secondo i noti princìpi della

    Rhetorica ad Herennium, la Nova (o Secunda) Rhetorica che il Medioevo attribuì a “Tullio”,

    associandola all’autenticamente ciceroniano De inventione. I luoghi della Commedia rendono

    visibili peccati e pene, a differenti livelli. Le similitudini di cose corporee, a noi note, sono ombra di

    realtà spirituali, secondo quanto Tommaso d’Aquino afferma della Scrittura la quale usa le metafore

    non “propter repraesentationem”, naturalmente dilettevole, come fanno i poeti, ma per necessità e

    utilità (Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9). Si tratta però della struttura esteriore, espressa dal senso

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    letterale di una poesia che vuole essere realmente Scrittura sacra, scritta dentro e fuori, soggetta a

    vari sensi (letterale, allegorico, morale, anagogico).

    Nella struttura interna - che solo ora, dopo sette secoli, viene alla luce -, le imagines agentes

    sono le parole-chiave, che conducono il lettore alla dottrina contenuta nella Lectura super

    Apocalipsim. Le singole parole si leggono, nel contesto dei versi, come segni che conducono

    all’altro testo dottrinale consentendo così il passaggio dal senso letterale, che è per tutti, a quelli

    mistici in esso racchiusi, riservati ai depositari della chiave di sì alta crittografia.

    All’arte della memoria guarda anche il grande prologo della Lectura super Apocalipsim. I

    tredici notabilia che lo compongono contengono infatti precise indicazioni al lettore affinché quanto

    scritto nell’esegesi dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, che segue, possa essere smembrato e

    ricomposto secondo i sette stati della storia della Chiesa. Queste categorie storiche agiscono sul

    testo sacro - già diviso di per sé in sette visioni -, e sul suo grande commento trasformando, senza

    aggiungere o togliere ad esso neppure una parola, quella che potrebbe sembrare un’esegesi

    tradizionale in una teologia della storia.

    Il modello della distinctio - un dizionario analogico per utilità omiletiche -, che Olivi utilizza

    spesso nella sua esegesi facendo ricorso anche a categorie numeriche, serve molto ad avvicinarsi a

    quel testo intermedio tra Lectura e Commedia che certamente è ipotizzabile sulla base degli

    innumerevoli confronti fin qui eseguiti nel corso della ricerca. Tale testo doveva riorganizzare tutto

    il materiale contenuto nella Lectura secondo lemmi ma anche, soprattutto, secondo i sette stati

    (seguendo i princìpi stabiliti dall’Olivi nel prologo), come dimostrano le zone del poema

    semanticamente ad essi dedicati.

    Charles S. Singleton, nel 1965 (cfr. La poesia della Divina Commedia, trad. it., Bologna

    1978, pp. 451-462), scoprì che il numero 7 - il numero della creazione - può definirsi il “numero del

    poeta”; esso permea i canti XIV-XX del Purgatorio (il “centro” del poema starebbe nel verso 70 del

    XVII canto). La sequenza del numero dei versi di questi canti sembra orientare il moderno lettore

    verso un centro, quasi numericamente murato: 151 (XIV), 145 (XV), 145 (XVI), 139 (XVII), 145

    (XVIII), 145 (XIX), 151 (XX). Ma, poiché i manoscritti non recavano il numero dei versi, il grande

    studioso americano si chiedeva se Dante si aspettasse di trovare un lettore consapevole di uno

    schema sapienziale “in mensura et numero et pondere”, mirabile ma occultato, e concludeva che il

    poema era stato scritto non solo per la vista degli uomini, ma principalmente per Colui che tutto

    vede.

    In realtà un lettore umano il poeta l’aveva previsto anche per i sensi interiori. Dalla ricerca

    emerge un Dante tutto ‘medievale’, che si era perduto, lì dove il senso letterale, rivolto a chiunque,

    ne racchiude altri “mistici” rivolti ai pochi - gli Spirituali francescani - che con la predicazione

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    avrebbero potuto riformare la Chiesa. Un gruppo di lettori privilegiato che possedeva la Lectura

    super Apocalipsim, subito diffusasi in Italia dopo la morte del suo autore (1298), avrebbe potuto

    leggerla, parafrasata e aggiornata in senso aristotelico e imperiale, nei versi in volgare. I riformatori

    erano soprattutto predicatori. La Commedia è un viaggio per exempla. Se grazie alla Commedia

    Dante fosse tornato a Firenze “con altra voce omai, con altro vello”, quanti predicatori non

    l’avrebbero citata dai pergami cittadini? Dunque i signacula che rinviano alla Lectura oliviana

    sarebbero stati, rinchiusi nel senso letterale alla portata di tutti, marcatori di memoria per chi, non

    diversamente dai profeti dell’Antico Testamento, avrebbe dovuto ingiungere ai fedeli di convertirsi

    per tempo adducendo esempi contemporanei e vicini. Il microcosmo toscano sarebbe asceso, come è

    nel poema, a storia universale predicata.

    Dalla poesia, dunque, il lettore spirituale sarebbe risalito a un testo dottrinale da lui già

    conosciuto. La poesia in volgare si poneva come “speculum clericorum”, con un fine devozionale e

    di edificazione di una cerchia di lettori dotti. Ma quel lettore, rafforzando la memoria della dottrina

    contenuta nella Lectura, scritta in latino, l’avrebbe trovata dotata di “e piedi e mano” per una

    predicazione in volgare. “Beatus qui legit, et qui audit verba prophetiae”: il fine dell’Apocalisse (Ap

    1, 3), la beatitudine, è rivolto a due categorie: i chierici e i laici. Per entrambi si aggiunge: “et qui

    servat ea”. L’arte della memoria serve appunto, alla prima categoria, per fermare e conservare nella

    mente. Come la struttura esteriore offre luoghi e immagini, anche quella interiore consente di

    percorrere ‘zone’ del poema (non coincidenti con le divisioni letterali) nelle quali sono collocate le

    parole-chiave che si riferiscono ai sette stati e alla loro esegesi. Il legame fra le parole, nel senso

    letterale, descrive luoghi e vi colloca immagini impressionanti; in quello spirituale suscita alla mente

    concetti dottrinali.

    La Lectura super Apocalipsim, che oggi è un testo conosciuto soltanto a pochissimi

    specialisti (non di Dante!), doveva essere considerata dal poeta come una “summa” di solare

    sapienza. “Summa Scripturae” che indica i segni, cioè le tappe progressive, della storia della

    salvezza collettiva e della conversione finale dei Gentili e d’Israele, degli infedeli e dei Giudei.

    ‘Finale’ non significa necessariamente alla fine del mondo, bensì all’inizio di una nuova era, di una

    nuova palingenesi come quella dei tempi augustei, che l’Olivi afferma già operante nel “sesto stato”

    cioè nei tempi moderni. Cristo, centro dei tempi, era venuto dapprima nella carne; il secondo

    avvento - ben prima del terzo, nel giudizio - sarebbe stato nello Spirito, cioè nei discepoli spirituali

    che avrebbero strettamente seguìto quanto dettato loro interiormente.

    L’arte della memoria non serviva soltanto per i chierici. I confronti proposti in questo saggio

    mostrano come gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia,

    contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica. Tornando a Singleton e

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    alla sua domanda sulla comprensione dei numeri del poema, si potrebbe dire che le parole, se

    dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta

    anche segni del numero dei versi, “luogo” dove collocarle in forma e contesto diversi. Anche solo

    scorrendo le tabelle, ci si rende conto di un intimo e diffusissimo rispondersi fra i testi (quale altro

    testo, a parte la Lectura super Apocalipsim, potrebbe consentirlo?), e di come quella che è un’arte

    della memoria sia connettiva delle parti del poema e sia stata lo strumento della sua mirabile unità.

    Si potrebbe pensare che la Commedia instauri con la Lectura quel tipo di corrispondenza

    emblematica, finalizzata alla costruzione di un sapere universale, che tanta parte avrà poi nella

    cultura del Rinascimento e del Barocco, da Bruno a Leibniz a Bach. Ciò può essere in parte vero se

    si considera che dal microcosmo locale si ascende al macrocosmo della Scrittura-principio e fine di

    ogni scienza, di cui l’Apocalisse è sintesi. È inoltre proprio dello spirito profetico nel linguaggio di

    Isaia, di Ezechiele o di Cristo stesso passare dal particolare storico all’universale per poi di lì

    ridiscendere al contingente. La mnemotecnica che unisce i due testi non è però una ricerca di

    un’altra poesia, di qualcosa di occulto come avverrà nel Rinascimento, ma di altri ben precisi

    significati dottrinali vestiti dalla poesia. In questo l’arte della memoria dantesca è profondamente

    scolastica, come parte di una virtù cardinale, la prudenza, volta a fini missionari e devozionali.

    Quando Dante iniziò a scrivere la Commedia, Raimondo Lullo componeva la sua Ars Magna (1305-

    1308). In Dante non ci sono quegli artifici tipici del lullismo, non lettere alfabetiche significative di

    concetti, né cerchi concentrici, figure mobili, diagrammi di alberi ecc. Tuttavia lo scopo dell’arte di

    Lullo e della Commedia è il medesimo: la conversione universale. Inoltre, se si considera la

    collocazione ai fini mnemonici delle parole nel poema, si può vedere come le rispondenze interne

    non siano statiche, ma sempre variate in una rosa semantica e poste in luoghi differenti all’interno

    degli endecasillabi. L’arte della memoria della Commedia è ispirata al medesimo dinamismo

    propugnato da Lullo.

    Il confronto fra i due testi consente, ancora, di percepire il passaggio, nell’ “autunno del

    Medioevo”, agli ideali laici propri del Rinascimento. La direttrice da seguire non è del tipo, che pur

    ha dato in passato notevoli contributi, ‘Dante e i Francescani’, o ‘Dante e il gioachimismo’, o

    ancora ‘Dante e la teologia’, quasi fossero ambiti separati dalla geniale e troppo diversa poesia. Lo

    storico deve infatti volgersi a cercare i modi con cui Dante appropriò le prerogative, che la teologia

    riservava alla Chiesa e alla sua storia, all’intero mondo umano con le sue esigenze: lingua, filosofia,

    monarchia. Deve, se vuole comprendere realmente Dante, porsi dalla parte dei lettori, non di oggi,

    ma di allora.

    Dante [...] non si sarebbe mai sognato di non poter essere compreso. Che sia tanto difficile

    farlo, non dovrebbe condurci a rinunciarvi in favore di un arbitrio tutto calato nel punto di vista del

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    lector. L’ermeneutica non può prescindere da un’ontologia della creazione poetica: se ne prescinde,

    è lettura del nulla. Questo è l’unico ma grandioso mistero, con cui ha a che fare ogni lettore di

    Dante (incomparabile con quei misteriucci da quattro soldi, con cui si sono misurati gli Aroux e i

    Guénon): il mistero del segno, o di quel sistema di segni, che ha racchiuso un mondo intero in un

    insieme d’immagini plurisense. Con questo mistero dobbiamo fare i conti (A. ASOR ROSA,

    postfazione a L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante, a cura di M. P. Pozzato, Milano

    1989, p. 316).

    Questo mistero, una vera “Pompei dei segni”, è racchiuso nella Lectura super Apocalipsim.

    La Lectura non è una nuova fonte di Dante che si mostra come principale rispetto a quelle già

    conosciute, è il libro della storia delle illuminazioni sapienziali con cui tutto deve concordare.

    Virgilio, Ovidio o Lucano, Boezio, Aristotele, Alberto Magno o Tommaso d’Aquino, la stessa

    Scrittura in quanto tale, le più svariate esperienze poetiche o le conoscenze di astronomia sono, nel

    poema, tutte fonti ordinate alla Lectura. Punti filosofici come l’ordinamento morale dell’inferno e

    del purgatorio, la creazione, i cieli, gli angeli, la redenzione non dipendono dalla dottrina dell’Olivi,

    ma dalla Lectura vengono armati di parole e di significati. Il carattere polisemico che l’autore volle

    attribuire alla sua opera non viene meno, si arricchisce anzi di nuovi significati non arbitrari. Per

    rendersene conto si scorra il saggio sull’uso dei Salmi, che spesso non sono citati dalla Lectura ma

    dalla Bibbia, e si veda come siano però cuciti con l’esegesi oliviana e in essa incastonati.

    Ci si può chiedere perché nessun contemporaneo di Dante, non i figli commentatori, ebbe

    alcun sentore di questo singolarissimo rapporto rivelato dall’esame dei testi. La risposta la dà la

    storia. Gli Spirituali scomparvero, con il loro libro-vessillo, ancora prima che la Commedia venisse

    completata. Essi, nel primo decennio del Trecento, lottavano per la riforma e non erano ancora

    sconfitti, tanto che Dante li ritenne essenziali al suo progetto, tanto da abbandonare la stesura del

    Convivio. Il poeta, con ogni probabilità, ebbe la Lectura da Ubertino da Casale che l’aveva

    utilizzata a La Verna nel 1305, al momento della redazione dell’Arbor vitae, e che nel 1307 era in

    Toscana come cappellano del cardinale Napoleone Orsini nel tentativo di far rientrare a Firenze gli

    esiliati. Poi, le note vicissitudini seguite al Concilio di Vienne (1311-1312) portarono, nei due

    decenni successivi, alla persecuzione degli Spirituali e quasi cancellarono il loro libro-vessillo,

    definitivamente condannato da Giovanni XXII nel 1326. Inoltre Dante, inizialmente tanto vicino a

    quel gruppo riformatore, ne prese poi le distanze, come dimostrano le dure parole di san

    Bonaventura (Par. XII, 124-126) contro le opposte fazioni estreme, i rigoristi (rappresentati da

    Ubertino da Casale) e i rilassati (rappresentati da Matteo d’Acquasparta). Ma a quello stadio il

    poema era troppo avanzato per modificarne l’intima struttura. L’arte della memoria, la vera chiave

    per la comprensione interiore del poema, non venne probabilmente mai messa in pratica.

    Per quanto gravi siano le conseguenze storiche (va riconsiderato il ruolo degli Spirituali

    nella riforma della Chiesa e sottolineata l’eccezionale importanza della Lectura dell’Olivi),

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    filologiche (qui non si tratta della trasmissione del poema, ma della sua formazione), letterarie

    (circa i destinatari della Commedia e la doppia lettura di essa) di questa ricerca, esse devono

    comunque fondarsi sull’esame dei testi, del loro rispondersi o meno; ciò deve sempre precedere

    ogni considerazione delle idee che essi suggeriscono.

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    2. L’arte della memoria per il lettore spirituale

    2. 1. La prima terzina

    ■ Leggendo «Nel mezzo del cammin di nostra vita», un lettore comune avrebbe forse pensato

    alla metà di un arco di settant’anni (secondo quanto scritto in Convivio, IV, xxiii, 9-11); un lettore

    spirituale si sarebbe ricordato di Cristo mediatore, che mostra il cammino, la cui vita deve essere

    dalla nostra imitata1:

    «(prologus, notabile VII) Huius autem vite perfecta imitatio et participatio est et debet esse finis

    totius nostre actionis et vite; (Ap 1, 13) ... propter quod apparuit “in medio septem candelabrorum”

    ... sicut centrum, in medio spere existens, exhibet se toti spere; (Ap 2, 1) “Hec dicit qui tenet septem

    stellas in dextera sua, qui ambulat in medio septem candelabrorum aureorum” ... tamquam infra se

    immediate vos omnes tenens et tamquam in medio vestrum existens et omnia vestra continue

    perambulans et perscrutans et immediate percurrens seu conspiciens ...; (Ap 5, 6) ... ipse est totius

    ecclesie mediator et quasi centrale medium ad quod tota spera ecclesie et omnes linee electorum

    suorum aspiciunt sicut ad medium centrum. ... “et in medio quattuor animalium”, id est vite et

    doctrine evangelice ...; (Ap 7, 17) “Quoniam Agnus, qui in medio troni est”... vel in intimo ecclesie

    quasi centrum ipsius; (Ap 14, 14) ... ad quos Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos

    deducit».

    Scorrendo il poema, avrebbe più volte ritrovato i medesimi signacula variamente incorporati

    nella lettera. In un luogo geografico deputato alla cura pastorale:

    Inf. XX, 67-69: «Loco è nel mezzo là dove ’l trentino / pastore e quel di Brescia e ’l veronese /

    segnar poria, s’e’ fesse quel cammino».│«(Ap 2, 1) “Hec dicit qui tenet septem stellas in dextera

    sua, qui ambulat in medio septem candelabrorum aureorum” ... Ipse etiam est pius pastor eos

    protegens et custodiens, et pro eorum custodia eos semper tenens et visitans ... ; (Ap 5, 6) Vel “in

    medio troni”, id est in medio sancte Trinitatis ...».

    Oppure appropriati a Virgilio:

    Purg. XIII, 13-21: «Poi fisamente al sole li occhi porse; / fece del destro lato a muover centro, / e la

    sinistra parte di sé torse. / “O dolce lume a cui fidanza i’ entro / per lo novo cammin, tu ne conduci”,

    / dicea, “come condur si vuol quinc’ entro. / Tu scaldi il mondo, tu sovr’ esso luci; / s’altra ragione

    in contrario non ponta, / esser dien sempre li tuoi raggi duci”».│«(Ap 1, 13) ... propter quod

    apparuit “in medio septem candelabrorum”, iuxta quod sacerdos legalis debebat semper sollicitam

    curam habere de septem lucernis et luminibus candelabri sanctuarii. Dicitur autem esse “in medio”,

    quia omnibus suis exhibet se intime et communissime sicut centrum, in medio spere existens,

    exhibet se toti spere...; (Ap 2, 1) “Hec dicit qui tenet septem stellas in dextera sua, qui ambulat in

    medio septem candelabrorum aureorum” ... ille qui bene scit omnes vestros actus et cogitatus,

    1 I testi qui di seguito citati sono presentati sinotticamente e discussi in Il sesto sigillo [= III], 4, tab. XXIX, XXX, XXX

    bis.

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    tamquam infra se immediate vos omnes tenens et tamquam in medio vestrum existens et omnia

    vestra continue perambulans et perscrutans et immediate percurrens seu conspiciens, dicit vobis hec

    que sequuntur. ... et etiam quod habent ipsum amare et in ipso sperare et ex eius amore et spe

    omnia verba eius servare, quia ipse est eorum iudex et dominus ipsos prepotenter tenens et

    circumspectissime examinans. Ipse etiam est pius pastor eos protegens et custodiens, et pro eorum

    custodia eos semper tenens et visitans...; (Ap 14, 4) ... “hii sequuntur Agnum quocumque ierit”, id

    est ad omnes actus perfectionum et meritorum ac premiorum eis correspondentium, ad quos

    Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos deducit».

    O a Tommaso d’Aquino:

    Par. XIII, 49-51: «Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo, / e vedräi il tuo credere e ’l mio dire / nel

    vero farsi come centro in tondo».│«(Ap 5, 6) ... ipse est totius ecclesie mediator et quasi centrale

    medium ad quod tota spera ecclesie et omnes linee electorum suorum aspiciunt sicut ad medium

    centrum ... Numquam enim recessit a medio alicuius virtutis aut veritatis, immo stetit semper in

    intimo medio».

    O a Beatrice:

    Par. XIV, 1-3: «Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro / movesi l’acqua in un ritondo vaso,

    / secondo ch’è percosso fuori o dentro»│«(Ap 5, 6) ... ipse est totius ecclesie mediator et quasi

    centrale medium ad quod tota spera ecclesie et omnes linee electorum suorum aspiciunt sicut ad

    medium centrum».

    O a Pier Damiani:

    Par. XXI, 79-82: «Né venni prima a l’ultima parola, / che del suo mezzo fece il lume centro, /

    girando sé come veloce mola; / poi rispuose l’amor che v’era dentro»│«(Ap 1, 13) ... propter quod

    apparuit “in medio septem candelabrorum”, iuxta quod sacerdos legalis debebat semper sollicitam

    curam habere de septem lucernis et luminibus candelabri sanctuarii. Dicitur autem esse “in medio”,

    quia omnibus suis exhibet se intime et communissime sicut centrum, in medio spere existens,

    exhibet se toti spere».

    ■ Tornando all’inizio del poema, il lettore comune avrebbe forse considerato il «mi ritrovai»

    del secondo verso come un capitare per caso in qualche luogo; quello spirituale sarebbe andato con

    la mente ad Ap 2, 5, allorché al vescovo di Efeso (la prima delle sette chiese d’Asia alle quali

    Giovanni scrive nella prima visione apocalittica) viene detto di ritrovare il grado della prima aurea

    carità perduta2:

    «Sed Dominus eum consulendo admonet ut penitendo gradum amissum recuperet, dicens (Ap 2, 5):

    “Memor esto itaque unde excideris, et age penitentiam et prima opera fac”. Quasi dicat: attende

    2 L’esegesi oliviana dell’istruzione data a Efeso, profondamente influenzata da Riccardo di San Vittore ma con punti di

    assoluta originalità, è esposta in“Lectura super Apocalipsim” e “Commedia”. Le norme del rispondersi [= IV], 2.

  • 11

    quod de fastigio tue perfectionis excideris et ad infimum perfectionis decideris, et age penitentiam

    de negligentia, et prima opera faciendo recupera primam gratiam».

    Questo discendere all’infimo grado per poi risalire al grado supremo, ritrovando il principio,

    secondo l’esegesi di Ap 2, 5 che cita Riccardo di San Vittore, segna il movimento del viaggio. In

    questo senso dovevano essere lette alcune parole nella terzina successiva:

    Inf. I, 4-6: «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel

    pensier rinova la paura!»│(Ap 2, 5) Item Ricardus, super Danielem, in expositione sompnii

    Nabucodonosor, ostendit quod sicut statua Nabucodonosor gradatim descendebat ab auro in

    argentum, deinde in es ac deinde in ferrum et ultimo in testam luteam, sic aliquando gradatim

    descenditur a supremo virtutum ad ima. ... talis casus, scilicet a maiori bono in minus bonum et cum

    multis bonis adhuc restantibus, solet parvipendi. Per hanc autem comminationem ostendit quod non

    est parvipendendus, immo valde formidandus ... Sicque es sonorum mutatur in ferrum asperum et

    durum».

    Dunque ben prima che arrivasse al Veglio di Creta (Inf. XIV, 106-111), dove l’esegesi di

    Riccardo di San Vittore, incastonata in quella propria di Olivi, si dispiegherà per intero, all’accorto

    lettore erano dati signacula mnemonici vòlti all’istruzione indirizzata alla prima chiesa (Efeso). Egli

    leggeva dell’esperienza personale del poeta. Nella discesa graduale e assai temibile del precipizio

    dall’aurea carità iniziale, a un certo punto il rame sonoro si trasforma nel ferro aspro e duro. Tale è

    «esta selva selvaggia e aspra e forte», dire della quale «è cosa dura» e «che nel pensier rinova la

    paura». Un sentimento che Dante prova anche allorché si trova «giù nel pozzo scuro», nel fondo

    dell’inferno, «dove Cocito la freddura serra», «nel loco onde parlare è duro», a meno di non

    possedere «le rime aspre e chiocce», adatte «al tristo buco / sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce».

    Il poeta dichiara di non possederle, e confessa il proprio timore di non riuscire a esprimersi

    chiaramente: «non sanza tema a dicer mi conduco; / ché non è impresa da pigliare a gabbo /

    discriver fondo a tutto l’universo, / né da lingua che chiami mamma o babbo» (Inf. XXXII, 1-15).

    Che si tratti della «selva selvaggia» o di Cocito, il poeta teme di non essere adeguato alla materia

    che impone una caduta di stile, e non sottovaluta il pericolo, come il vescovo di Efeso non deve

    prendere alla leggera la caduta verso un bene minore, dall’aurea carità al suo farsi ferro.

    Ancora, sarebbe stato condotto all’esegesi di Riccardo di San Vittore al momento di leggere,

    nei versi seguenti:

    Inf. I, 58-61: «tal mi fece la bestia sanza pace, / che, venendomi ’ncontro, a poco a poco / mi

    ripigneva là dove ’l sol tace. / Mentre ch’i’ rovinava in basso loco ...»│ «(Ap 2, 5) Unde ibidem ait

    (Ricardus): ‘Puto quod nemo repente fit turpissimus, sed qui minima negligit paulatim defluit. Sicut

    enim quibusdam profectuum gradibus ad alta conscenditur, sic rursus gradatim ad ima

    descenditur’».

  • 12

    Il discendere nel male è sempre graduale; sarà tale anche il volo in groppa a Gerione: «e

    disse: “Gerïon, moviti omai: / le rote larghe, e lo scender sia poco; / pensa la nova soma che tu

    hai”» (Inf. XVII, 97-99).

    L’inizio del viaggio (il tentativo primaverile di salire il «dilettoso monte», subito impedito

    dalla lonza) coincide con la conversione piena di speranza di fronte alla prima tentazione:

    Inf. I, 34-36, 41-43: «e non mi si partia dinanzi al volto, / anzi ’mpediva tanto il mio cammino, /

    ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. ... sì ch’a bene sperar m’era cagione / di quella fiera a la

    gaetta pelle / l’ora del tempo e la dolce stagione»│(Ap 2, 5) «Et (Ricardus) ibidem subdit:

    ‘Quosdam videmus in initio sue conversionis spe gaudentes, in tribulatione patientes, sollicitos in

    opere, studiosos in lectione, devotos in oratione, qui quidem in auro operantur sicut et ille cui

    dictum est a Christo: “Novi opera tua et caritatem tuam” et cetera (Ap 2, 19). Sed sunt multi qui in

    tempore temptationis recedunt, non tamen statim se in infima demergunt, sed primum de bono in

    minus bonum et dehinc de minus bono in malum et deinde de malo in deterius corruunt, secundum

    illud Iob: “Mons cadens paulatim defluit, et terra alluvione consumitur” (Jb 14, 18-19). Tales enim

    paulatim incipiunt a pristino desiderio tepescere et a priori fervore magis magisque deficere ...».

    Ritrovare il principio con l’aiuto della Grazia: il verbo recuperet, che si trova ad Ap 2, 5,

    unisce l’inizio e la fine del poema: «mi ritrovai per una selva oscura ... che nel pensier rinova la

    paura│e non ritrova, / pensando, quel principio ond’ elli indige» (Inf. I, 2, 6; Par. XXXIII, 134-

    135).

    ■ Continuando a scorrere il secondo verso del poema, il lettore più profondo avrebbe letto

    «per una selva» con la memoria ad Ap 12, 6, dove si parla della Giudea-giardino diventata deserto

    per la sua dura ostinazione a Cristo, dalla quale la donna (la Chiesa) fugge, e il riferimento gli

    sarebbe apparso confermato dalla «selva selvaggia» del verso 5, dall’«ancor fuggiva» del verso 25,

    dalla «piaggia diserta» del verso 29, dal «gran diserto» del verso 64:

    «Tertium est plebs et terra gentilium, que tunc erat a Deo et a divino cultu deserta, et ad hanc ad

    litteram tunc confugit ecclesia, fugiendo Iudeorum obstinatam incredulitatem et persecutionem. De

    hac autem solitudine dicitur Isaie XXXII° (Is 32, 15-16): “Erit desertum in Chermel”, id est [sic]

    pinguis in gratiis sicut prius fuerat Iudea, “et Chermel”, id est Iudea, “in saltum” seu silvam

    “reputabitur”, id est silvestrescet ...»3.

    Ad Ap 12, 6 - in un’esegesi colma di citazioni di Gioacchino da Fiore - avrebbe rinviato, nel

    medesimo canto, l’oscura espressione contenuta nella profezia del Veltro: «tra feltro e feltro» (Inf.

    I, 105), cioè tra tela e tela, riferita ai due Testamenti, Vecchio e Nuovo, padri e figli che Elia verrà a

    3 L’esegesi di Ap 12, 6 - per la parte relativa ai significati di ‘deserto’ - è trattata in L’agone del dubbio, ovvero il

    martirio moderno (Francesca e la «Donna Gentile») [= II], 7, tab. XXIX-2.

  • 13

    riconciliare: «Nec enim debitum est ut non liceret ei, qu[i] cuncta fecit in sapientia, ire quo vellet, et

    generalibus, ut ita dixerim, filis interserere diversos colores, qui varietate sua telarum superficiem

    multo amplius decorarent et appareret quid differat inter telam et telam»4.

    Il deserto, ad Ap 12, 6, non è solo la Giudea-giardino disfiorito. È anche la terra dei Gentili,

    ‘deserta’ di Dio e del suo culto, alla quale la donna (la Chiesa) fugge per incorporarli, rimanendovi

    per 1260 anni, fino al compimento di quella che san Paolo, nella Lettera ai Romani, definisce

    «plenitudo gentium» (Rm 11, 25-26), precedente la conversione di tutto Israele. A questa terra - la

    montagna del purgatorio - volle andare Ulisse prima della venuta di Cristo, viaggiando nel futuro

    nonostante i «riguardi» posti da Ercole alla foce stretta:

    «non vogliate negar l’esperïenza, / di retro al sol, del mondo sanza gente. ... Venimmo poi in sul lito

    diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto» (Inf. XXVI,

    116-117; Purg. I, 130-132).│«(Ap 12, 6) Tertium est plebs et terra gentilium, que tunc erat a Deo et

    a divino cultu deserta, et ad hanc ad litteram tunc confugit ecclesia, fugiendo Iudeorum obstinatam

    incredulitatem et persecutionem. De hac autem solitudine dicitur Isaie XXXII° (Is 32, 15-16): “Erit

    desertum in Chermel”, id est [sic] pinguis in gratiis sicut prius fuerat Iudea, “et Chermel”, id est

    Iudea, “in saltum” seu silvam “reputabitur”, id est silvestrescet ...».

    ■ «Per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita». L’accorto spirituale avrebbe letto

    congiuntamente oscura e diritta, rammentandosi che all’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5) il

    cavallo nero, con colui che vi siede recando in mano una bilancia, designa gli eretici e l’erronea

    interpretazione della Scrittura5:

    “Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus

    et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et

    episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et

    ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et

    infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI°

    dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba

    prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per

    falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur:

    “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in

    stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac[c]elli pondera

    dolosa” (Mic 6, 11).

    L’esegesi dell’apertura del terzo sigillo avrà grandi sviluppi6. Si considerino soltanto tre

    punti, a Inf. II, VI e XIX:

    4 Cfr. III, 12.4, tab. CXXVI.

    5 Cfr. Il terzo stato, tab. II. 8.

    6 Ibid., II.

  • 14

    Inf. II, 3-6, 8: «…e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la

    pietate, / che ritrarrà la mente che non erra. …… o mente che scrivesti ciò ch’io vidi»; Inf. VI, 49-

    50, 58-59, 70-71, 85, 91: «Ed elli a me: “La tua città, ch’è piena / d’invidia sì che già trabocca il

    sacco” ... Io li rispuosi: “Ciacco, il tuo affanno / mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita” ... Alte terrà

    lungo tempo le fronti, / tenendo l’altra sotto gravi pesi ... E quelli: “Ei son tra l’anime più nere ” ...

    Li diritti occhi torse allora in biechi»; Inf. XIX, 34-36, 52-54: «Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti

    porti / là giù per quella ripa che più giace, / da lui saprai di sé e de’ suoi torti”. ... Ed el gridò: “Se’

    tu già costì ritto, / se’ tu già costì ritto, Bonifazio? / Di parecchi anni mi mentì lo scritto.”»│(Ap 6,

    5): «“Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci

    obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet

    imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas

    ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per

    rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum

    XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba

    prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per

    falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur:

    “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in

    stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac[c]elli pondera

    dolosa” (Mic 6, 11)».

    Dal che si poteva desumere che Dante considerasse il «poema sacro» come ‘Sacra Scrittura’

    e i papi simoniaci (Niccolò III e Bonifacio VIII) alla stregua degli eretici, mendaci e ‘intorti’

    interpreti di essa. Così le divisioni di Firenze, «città partita», venivano assimilate alle scissure

    ereticali nella Chiesa.

    ■ Giunto alle ultime parole della prima terzina - era smarrita - il nostro Spirituale avrebbe

    riconosciuto l’esegesi relativa a Sardi, la quinta chiesa d’Asia (prima visione; Ap 3, 2-3)7, con il suo

    vescovo torpido e negligente, al quale viene detto di ripensare la prima grazia acquisita, esegesi

    ribadita nella seconda e nella quarta terzina («Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva

    selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura! ... Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai, /

    tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai»):

    “Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed attente sollicitus de salute tua. Ille

    enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit curare de salute anime sue. ... “In

    mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem

    gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa

    que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi

    predicantibus audivisti. ... Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non

    habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit. ...

    Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per

    negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii.

    7 Per l’esposizione sinottica dei testi cfr. III, 2b.

  • 15

    Anche in questo caso, proseguendo nella lettura avrebbe ritrovato l’esegesi più volte:

    Inf. II, 61-66: «l’amico mio, e non de la ventura, / ne la diserta piaggia è impedito / sì nel cammin,

    che vòlt’ è per paura; / e temo che non sia già sì smarrito, / ch’io mi sia tardi al soccorso levata, /

    per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito»; Inf. V, 70-72: «Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito /

    nomar le donne antiche e ’ cavalieri, / pietà mi giunse, e fui quasi smarrito»; Inf. X, 121-129: «Indi

    s’ascose; e io inver’ l’antico / poeta volsi i passi, ripensando / a quel parlar che mi parea nemico. /

    Elli si mosse; e poi, così andando, / mi disse: “Perché se’ tu sì smarrito?”. / E io li sodisfeci al suo

    dimando. / “La mente tua conservi quel ch’udito / hai contra te”, mi comandò quel saggio; / “e ora

    attendi qui”, e drizzò ’l dito»│«“Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed

    attente sollicitus de salute tua. Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit

    curare de salute anime sue. ... “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter

    acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem

    evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo

    primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et

    statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”,

    scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius

    accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages. Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et

    torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et

    quod ideo sic corruit. ... Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui

    se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Que quidem

    nimis correspondenter patent in hoc cursu novissimo quinti temporis ecclesiastici. Deinde

    comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde

    subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex

    improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad

    te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et

    exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in

    prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse

    finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini

    veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus

    interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit

    subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat;

    omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii

    simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7)».

    2. 2. Leggere ‘topograficamente’

    La Lectura super Apocalipsim non è una sovrastruttura applicata successivamente a un

    poema già redatto; l’esegesi è elaborata contestualmente ai versi, il «panno» viene via via cucito.

    Ciò esclude ogni possibilità che il suo uso sia intervenuto in una fase di revisione dell’Inferno prima

    che questo fosse pubblicato, nella seconda metà del 13148. L’ars memorandi e l’ars poetica

    coincisero fin dall’inizio. Il poema fu scritto contemporaneamente dentro e fuori, il linguaggio

    interiore non fu mai separato dalla lettera. Di ciò rende conto l’estensione dei riferimenti alla

    Lectura fin dal primo canto, come mostra la serie delle tabelle allegate. Inf. I rinvia a tutti i ventidue

    8 Cfr. G. PETROCCHI, Itinerari danteschi, Bari 1969 (Biblioteca di critica e letteratura, III), pp. 83-118: p. 113.

  • 16

    capitoli della Lectura con l’eccezione del XVI e del XXI e ad almeno cinque dei tredici notabili del

    prologo. Se in Inf. II mancano signacula di otto capitoli, vi si registrano molti rinvii all’esegesi di

    versetti degli altri capitoli diversi rispetto a quelli già utilizzati nel primo.

    Fra le norme che regolano il rapporto fra i due testi c’è dunque quella per cui un medesimo

    luogo della Lectura conduce, tramite la compresenza delle parole, a più luoghi della Commedia, nei

    quali la memoria del lettore spirituale veniva sollecitata verso la dottrina contenuta nel testo di

    esegesi scritturale. Ciò significa che la medesima esegesi è stata utilizzata in momenti diversi della

    stesura del poema. La persistenza di un altro testo da cui trarre i significati del senso spirituale,

    materialmente elaborati e sempre variati attraverso le parole, è servita anche a mantenere l’unità e la

    coerenza interna della Commedia.

    Ma non è solo il variato rinvio mnemonico al notabile del prologo, al capitolo e al versetto

    della Lectura ad accompagnare la stesura del poema. Secondo un’altra delle norme che presiedono

    ai rapporti fra i due testi, la Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al

    lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati

    oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un

    singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per

    cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per «concurrentia», come le

    maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una

    grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli

    intrecci e variazioni.

    L’Olivi, nella sua esegesi, segue l’ordine dei ventidue capitoli del testo giovanneo. Nel

    grande prologo (definito «generale principium»), dà però indicazioni precise per una diversa

    distribuzione del materiale esegetico. L’Apocalisse si divide in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i

    sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette

    coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei

    visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei

    sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba,

    guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si

    ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a

    ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima

    visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi,

    introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che l’Olivi definisce

    «radicalia» o «fontalia». Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette

  • 17

    assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici

    notabilia, può essere anch’esso riaggregato secondo i sette stati.

    La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti

    agli stati della Chiesa descritti dall’Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. I primi due canti

    dell’Inferno, di carattere introduttivo, registrano una tematica a sé (in particolare riferibile al sesto

    stato); il terzo, anch’esso autonomo, è profondamente segnato dai temi del settimo stato, e in

    particolare di Laodicea, la settima chiesa d’Asia (gli ignavi) e del quinto (Caronte). A partire dal

    quarto canto, il primo ciclo si sviluppa in questo modo:

    canti I ciclo stati cerchi

    IV Limbo Radici, I (I snodo) I

    V lussuriosi II II

    VI golosi III III

    VII avari e prodighi, Palude Stigia

    (iracondi e accidiosi)

    III-IV-V IV-V

    VIII Palude Stigia, Città di Dite V V

    IX apertura della porta della Città di Dite V-VI

    I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno sono preceduti da cinque zone che

    possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati

    insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto

    (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione

    letterale del poema.

    La maglia dei lemmi allotri, delle parole la cui lettera altro significa, si estende su tutto il

    primo ciclo attraverso variazioni della rosa alla quale appartengono. Si consideri, ad esempio, l’uso

    di Ap 7, 1 (seconda visione, apertura del sesto sigillo)9. Ivi quattro angeli stanno sopra i quattro

    angoli della terra: designano i demoni e gli uomini empi che, dopo il giudizio e lo sterminio della

    Chiesa carnale intervenuti con il terremoto nell’apertura del sigillo (Ap 6, 12-17), cercano di

    impedire ai quattro venti di soffiare, cioè di impedire la predicazione della fede, la conversione

    delle genti e anche il conservarsi dei fedeli nella fede già accolta. L’angelo del sesto sigillo (Ap 7,

    9 Cfr. III, 2a, tab. X.

  • 18

    2-3) rimuove l’impedimento di cui si dice al versetto precedente (Ap 7, 1). Gli angeli che

    trattengono i venti (la ‘predicazione’ e la conversione operate tramite il poema di Dante, frutto del

    suo viaggio) sono quattro, e corrispondono ai quattro Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, riassunti

    nelle tre fiere che il poeta ha precedentemente incontrato. Virgilio, che rimuove l’impedimento,

    svolge in questo caso (perché molti altri ruoli gli spettano) la funzione dell’angelo del sesto sigillo:

    «anzi ’mpediva tanto il mio cammino» (Inf. I, 35); «ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide» (Inf. I, 96);

    «ne la diserta piaggia è impedito» (Inf. II, 62); «Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo

    ’mpedimento ov’ io ti mando» (Inf. II, 94-95); «Quinci fuor quete le lanose gote / al nocchier de la

    livida palude» (Inf. III, 97-98)1; «Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia ... E ’l duca mio a lui:

    “Perché pur gride? / Non impedir lo suo fatale andare ...”» (Inf. V, 4, 21-22)2; «Qual è quel cane

    ch’abbaiando agogna, / e si racqueta poi che ’l pasto morde» (Inf. VI, 28-29)3; «quivi trovammo

    Pluto, il gran nemico ... e quel savio gentil, che tutto seppe, / disse per confortarmi: “Non ti noccia /

    la tua paura; ché, poder ch’elli abbia, / non ci torrà lo scender questa roccia”» (Inf. VI, 115; VII, 3-

    6)4 │ «... nitentur demones et homines impii impedire predicationem fidei et conversionem gentium

    ad fidem ... Secundum Ricardum, isti quattuor angeli sunt universi demones totum mundum in suis

    quattuor angulis tempore illo possidere cupientes, suntque “stantes” quia sunt in hoc immorantes et

    fixe considerantes quos in tota latitudine mundi possint devorare. ... (Ap 7, 1); Sequitur tertia pars,

    scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta: “Et vidi alterum angelum”,

    alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et

    officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis ... ad cuius clamoris

    virtutem adversarie potestates quiescent ... (Ap 7, 2); “Nolite ... nocere” (Ap 7, 3)».

    Diverse sono le appropriazioni: lì dove l’esegesi si concentra su due soggetti (i quattro

    angeli e l’altro che rimuove l’impedimento), nei versi intervengono altri protagonisti dall’una e

    dall’altra parte: la lonza e la lupa impediscono anch’esse, il “Nolite nocere” di Ap 7, 3 è detto da

    Virgilio-angelo del sesto sigillo non a Pluto bensì a Dante-predicatore («Non ti noccia / la tua

    paura»).

    È da notare anche la coincidenza dei lemmi, nelle varie flessioni, che rinviano agli stessi

    luoghi della Lectura (Ap 7, 1-3) nel numero delle terzine: Inf. I, 94-96 («lo ’mpedisce»: v. 96) / II,

    94-96 («di questo ’mpedimento»: v. 95); Inf. V, 4-6 («Stavvi Minòs»: v. 4) / VII, 4-6 («Non ti

    noccia»: v. 4): un fenomeno che si verifica anche altrove, per tutto il poema (cfr. qui di seguito, cap.

    3).

    Ancora, Ap 7, 3-410. L’angelo del sesto sigillo (7, 2) rimuove un impedimento (7, 1), dopo

    di che il segno è posto sulla fronte, non vergognosa ma liberamente magnanima, degli eletti amici di

    Dio, difensori della fede fino al martirio da lui conosciuti per nome e ascritti alla più alta milizia dei

    baroni, dei decurioni, dei cavalieri che si distingue da quella volgare dei fanti. Questa esegesi della

    sacra milizia percorre tutto il poema. Consideriamo i primi signacula:

    10

    Cfr. III, 1c, tab. VI, 1-3; VII, 1-2.

  • 19

    «rispuos’ io lui con vergognosa fronte ... oh felice colui cu’ ivi elegge!» (Inf. I, 81, 129); «“S’i’ ho

    ben la parola tua intesa”, / rispuose del magnanimo quell’ ombra, / “l’anima tua è da viltade offesa”

    ... l’amico mio, e non de la ventura, / ne la diserta piaggia è impedito / sì nel cammin, che vòlt’ è per

    paura ... Disse: - Beatrice, loda di Dio vera, / ché non soccorri quei che t’amò tanto, / ch’uscì per te

    de la volgare schiera? ... Dunque: che è? perché, perché restai, / perché tanta viltà nel core allette, /

    perché ardire e franchezza non hai, / poscia che tai tre donne benedette / curan di te ne la corte del

    cielo» (Inf. II, 43-45, 61-63, 103-105, 121-125); «E io, che riguardai, vidi una ’nsegna ... Poscia

    ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, / vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran

    rifiuto. ... Allor con li occhi vergognosi e bassi» (Inf. III, 52, 58-60, 79); «e più d’onore ancora assai

    mi fenno, / ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera, / sì ch’io fui sesto tra cotanto senno» (Inf. IV, 100-

    102); «cotali uscir de la schiera ov’ è Dido, / a noi venendo per l’aere maligno, / sì forte fu

    l’affettüoso grido. ... se fosse amico il re de l’universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi

    c’hai pietà del nostro mal perverso» (Inf. V, 85-87, 91-93); «ed el s’ergea col petto e con la fronte ...

    Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta / restato m’era ... colui che la difesi a viso aperto» (Inf. X,

    35, 73-74, 93)│«Signatio ... fit autem “in frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis

    libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In

    fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum

    gloriationis vel erubescentie ... Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in

    constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc

    sub sexta apertione ordo sanctorum martirum consumationem accipiet ... Hii enim, qui sub certo

    nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona

    ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem

    militiam vel familiam eliguntur ... sic per hanc specialem et prefixam numerationem et

    consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum» (Ap 7, 3-4).

    La tematica della «signatio» affiora dunque nei primi cinque canti dell’Inferno, è assente nei

    quattro successivi per poi riemergere con Farinata. Da notare, ancora, l’uso insistente di Ap 7, 13

    (cfr. infra le coincidenze numeriche). Dei primi nove canti, solo Inf. I, VI e X non sembrano

    registrare questa tematica:

    «Però, se l’avversario d’ogne male / cortese i fu, pensando l’alto effetto / ch’uscir dovea di lui, e ’l

    chi e ’l quale» (Inf. II, 16-18); «E io ch’avea d’error la testa cinta, / dissi: “Maestro, che è quel ch’i’

    odo? / e che gent’ è che par nel duol sì vinta?”. ... per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi / ch’i’

    sappia quali sono, e qual costume / le fa di trapassar parer sì pronte ...”» (Inf. III, 31-33, 72-74);

    «Lo buon maestro a me: “Tu non dimandi / che spiriti son questi che tu vedi?” ... “Dimmi, maestro

    mio, dimmi segnore” ... “O tu ch’onori scïenzïa e arte, / questi chi son c’hanno cotanta onranza, /

    che dal modo de li altri li diparte?”» (Inf. IV, 31-32, 46, 73-75); «per ch’i’ dissi: “Maestro, chi son

    quelle / genti che l’aura nera sì gastiga?” ... E quella a me: “Nessun maggior dolore / che ricordarsi

    del tempo felice / ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.”» (Inf. V, 50-51, 121-123); «dissi: “Maestro mio, or mi dimostra / che gente è questa, e se tutti fuor cherci / questi chercuti a la sinistra nostra”»

    (Inf. VII, 37-39); «E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; / dissi: “Questo che dice? e che risponde /

    quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?”» (Inf. VIII, 7-9); «Questa question fec’ io; e quei:

    “Di rado / incontra”, mi rispuose, “che di noi / faccia il cammino alcun per qual io vado.” ... E io:

    “Maestro, quai son quelle genti / che, seppellite dentro da quell’ arche, / si fan sentir coi sospiri

    dolenti?”» (Inf. IX, 19-21, 124-126)│« ... “ex omnibus gentibus et tribubus et populis et linguis

    stantes ante tronum” (Ap 7, 9) ... “Et respondit” (Ap 7, 13), id est prolocutus est, “unus de

    senioribus” ... “Et dixit michi: Hii, qui amicti sunt stolis albis, qui sunt”, id est quales et quante

  • 20

    dignitatis, “et unde venerunt”, id est ex quibus meritis et per quam viam sanctitatis ad tantam

    gloriam pervenerunt? Nota quod sicut nos per magistrales interrogationes excitamur ad

    inquirendum veritatem ... “Et dixi illi: Domine mi, tu scis” (7, 14), quasi dicat: ego nescio, sed tu

    doce me, quia tu hoc scis».

    Ap 7, 13 si ritrova poi a Inf. XIV, 103-105, 130-135. Questa disamina, qui sopra effettuata,

    dell’esegesi di tre versetti di Ap 7 (di fondamentale importanza per i riferimenti all’apertura del

    sesto sigillo) - 7, 1/3/13 - può essere estesa non solo agli altri quattordici versetti del medesimo

    capitolo, ma anche a molti altri luoghi della Lectura super Apocalipsim.

    Si prenda ad esempio la prima parte dell’esegesi di Ap 4, 1-2 (le visioni di Giovanni sono

    sempre nuove, più alte e più ardue)11

    :

    «Al tornar de la mente ... novi tormenti e novi tormentati / mi veggio intorno ... » (Inf. VI, 1, 4-5);

    «Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa / nove travaglie e pene quant’ io viddi?» (Inf. VII, 19-20)│«...

    ab excessu mentis ad se reductus ... designat quamlibet visionum cum suis obiectis habere propriam

    et novam arduitatem, et quod ad quamlibet videndam indigebat superelevari a Deo ad illam» (Ap 4,

    1-2).

    Subito dopo viene proposta l’immagine, derivata da Gioacchino da Fiore, della porta del

    sepolcro di Cristo chiusa e gravata dalla lapidea durezza del senso letterale, aperta con la

    resurrezione ai significati spirituali12. A questa esegesi rinviano sia la porta dell’inferno come le

    arche degli eresiarchi:

    «Queste parole di colore oscuro / vid’ ïo scritte al sommo d’una porta; / per ch’io: “Maestro, il

    senso lor m’è duro”» (Inf. III, 10-12); «Tutti li lor coperchi eran sospesi, / e fuor n’uscivan sì duri

    lamenti, / che ben parean di miseri e d’offesi ... e i monimenti son più e men caldi. ... “La gente che

    per li sepolcri giace / potrebbesi veder? già son levati / tutt’ i coperchi, e nessun guardia face”. / E

    quelli a me: “Tutti saran serrati / quando di Iosafàt qui torneranno / coi corpi che là sù hanno

    lasciati”. ... Allor surse a la vista scoperchiata / un’ombra, lungo questa, infino al mento: / credo che

    s’era in ginocchie levata. ... Però comprender puoi che tutta morta / fia nostra conoscenza da quel

    punto / che del futuro fia chiusa la porta» (Inf. IX, 121-123, 131; X, 7-12, 52-54, 106-108) │«Sicut

    autem in hostio monumenti Christi erat superpositus magnus lapis et ponderosus, qui Christo

    resurgente et de sepulcro exeunte est inde amotus, sic in scriptura erat durus cortex littere, pondere

    sensibilium et carnalium figurarum gravatus, claudens hostium, id est [ad]itum intelligentie

    spiritalis. In humanis etiam cordibus erat lapidea durities sensus obtusi, claudens introitum

    divinarum illuminationum. ... Primus autem apertor huius hostii et prima vox nos in celum

    ascendere faciens est Christus et eius illuminatio et doctrina. Nam vox priorum prophetarum potius

    clausit hostium sub figuris, et sub terrenis promissionibus carnalem sensum Iudeorum depressit

    potius quam levavit» (Ap 4, 2).

    Più avanti, questi temi da Ap 4, 1-2 segneranno il fondo dell’inferno:

    11

    Cfr. IV, 2, tab. 2.8. 12

    Cfr. IV, 2, tab. 2.9.

  • 21

    «Ma quelle donne aiutino il mio verso / ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe, / sì che dal fatto il dir

    non sia diverso. / Oh sovra tutte mal creata plebe / che stai nel loco onde parlare è duro ...» (Inf.

    XXXII, 10-14: notare la parziale coincidenza nel numero dei versi con Inf. III).

    Si consideri, ancora, la tematica della settima visione. All’esegesi di Ap 21, 12 («Et habebat

    murum magnum et altum»: si tratta della disposizione delle parti della Gerusalemme celeste) rinvia

    il «nobile castello» del Limbo (Inf. IV, 106-111) e ancor più la descrizione della Città di Dite (Inf.

    VIII, 67-83). Ma già la porta dell’inferno ne mostra una cellula (Inf. III, 1, 11: «Per me ... vid’ ïo

    scritte al sommo d’una porta»│«Nam Christus est fundamentum secundum Apostolum, Ia ad

    Corinthios III° [1 Cor 3, 10-11]; et porta seu hostium et etiam hostiarius, prout dicitur Iohannis X°

    [Jo 10, 9: Ego sum ostium. Per me, si quis introierit, salvabitur et ingredietur et egredietur])». Come

    accade di frequente, nei versi polisèmi le parole muovono la memoria in più direzioni: «Per me»

    verso il Vangelo giovanneo; «porta» verso questo e verso la città celeste dell’Apocalisse, nella sua

    veste più difforme da Dio; «senso ... duro» verso il sepolcro di Cristo gravato dalla lapidea durezza

    del senso letterale, proprio dell’Antico Testamento. Ap 21, 12 si ritrova in fine di Inf. IX (v. 133) e

    in principio di Inf. X (v. 2). Segnerà ancora altri luoghi dell’Inferno, a cominciare dalla descrizione

    iniziale di Malebolge (Inf. XVIII, 1-18)13

    .

    La porta dell’Inferno presenta molte altre parole-chiave14

    . Quelle forse spiritualmente più

    pregnanti conducono il lettore verso il pianto doloroso - il veh ripetuto tre volte -, per la caduta di

    Babylon da parte di quanti, re o mercanti, avevano commerci con la grande città. «Lasciate ogne

    speranza, voi ch’intrate», da parte della «perduta gente», è ammonimento rivolto a quanti hanno

    sperato di lucrare commerciando con Babylon. Ciò è tanto più significativo in quanto espresso in un

    poema-speculum clericorum da parte di colui che voleva povera tutta la Chiesa e non solo i figli di

    san Francesco, ma intanto la ricchezza, dentro o fuori la Chiesa, era indotta da traffici e commerci

    che inesorabilmente permeavano l’economia europea, con buona pace della sobria e pudica Firenze

    antica rimpianta da Cacciaguida. Come al solito, le parole modificano il loro significato,

    appropriandosi a diverse persone e situazioni senza perdere il tema fondamentale. Così i signacula

    si diffondono su Dante, che perde la speranza di salire il «dilettoso monte», o su Virgilio, al quale

    non bastano «mercedi», ma sta anch’egli con la gente perduta «sanza speme ... in disio»15

    :

    13

    Cfr. La settima visione, I.2. 14

    Ibid., pp. 171-176 (La porta dell’Inferno). 15

    Cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare. Postilla alle ricerche di Gustavo Vinay sul De vulgari eloquentia [=

    I], 2.3, tab. IV.

  • 22

    «questa mi porse tanto di gravezza / con la paura ch’uscia di sua vista, / ch’io perdei la speranza de

    l’altezza. / E qual è quei che volontieri acquista, / e giugne ’l tempo che perder lo face, / che ’n tutti

    suoi pensier piange e s’attrista» (Inf. I, 52-57); «‘Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne

    l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente. ... Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’. ...

    Noi siam venuti al loco ov’ i’ t’ho detto / che tu vedrai le genti dolorose / c’hanno perduto il ben de

    l’intelletto» (Inf. III, 1-3, 9, 16-18); «“E tu che se’ costì, anima viva, / pàrtiti da cotesti che son

    morti”. / Ma poi che vide ch’io non mi partiva, / disse: “Per altra via, per altri porti / verrai a

    piaggia, non qui, per passare: / più lieve legno convien che ti porti”» (Inf. III, 88-93); «ch’ei non

    peccaro; e s’elli hanno mercedi, / non basta, perché non ebber battesmo, / ch’è porta de la fede che

    tu credi ... Per tai difetti, non per altro rio, / semo perduti, e sol di tanto offesi / che sanza speme

    vivemo in disio» (Inf. IV, 34-36, 40-42); «dirò come colui che piange e dice ... Mentre che l’uno

    spirto questo disse, / l’altro piangëa ... » (Inf. V, 126, 139-140); «cortesia e valor dì se dimora / ne

    la nostra città sì come suole, / o se del tutto se n’è gita fora ... La gente nuova e i sùbiti guadagni /

    orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» (Inf. XVI, 67-69, 73-

    75); «parlare e lagrimar vedrai insieme» (Inf. XXXIII, 9); «Per lor maladizion sì non si perde, / che

    non possa tornar, l’etterno amore, / mentre che la speranza ha fior del verde» (Purg. III, 133-135);

    «Quivi si vive e gode del tesoro / che s’acquistò piangendo ne lo essilio / di Babillòn, ove si lasciò

    l’oro» (Par. XXIII, 133-135); «Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di

    Cleto, / per essere ad acquisto d’oro usata» (Par. XXVII, 40-42).│«Et ideo convertentur ad luctum

    “dicentes”, scilicet plangendo: “Ve, ve, ve” (Ap 18, 10), id est summa et summe stupenda et

    lugenda maledictio et dampnatio est ista, scilicet “civitas illa magna Babilon, civitas illa fortis,

    quoniam una hora venit iudicium tuum”, id est tota dampnatio tua! Loquuntur autem primo de ea in

    tertia persona et postea in secunda secundum modum plangentium et stupentium, qui primo stupent

    secum et mox vertunt considerationem suam quasi ad personam quam plangunt. Triplicatio autem

    dolorose interiectionis, scilicet ipsius “ve”, significat vehementiam stuporis et planctus et casus

    quem plangunt et etiam consuetum modum graviter plangentium. Et potest legi: Ve, ve, ve, civitas

    illa magna, quomodo sic cecidit vel cecidisti! ... Sicut autem reges eius plangent, quia in casu eius

    amiserunt gloriam sue regie dignitatis et potestatis et voluptatis, sic negotiatores, per quos

    intelliguntur non solum hii qui in civilibus negotiantur, sed etiam hii qui in ecclesiasticis per

    symonias et ambitiones et adulationes et per ypocrisim et per questus varios varia lucra sectantur.

    Hii, inquam, plangent, quia in casu eius perdiderunt omnia lucra predicta et omnem spem ipsorum.

    Unde subdit (Ap 18, 11): “Et negotiatores terre flebunt et lugebunt super illam, quoniam mercedes

    eorum nemo emet amplius”. Quarum aliquas specificat subdens (Ap 18, 12): “Mercedem auri et

    argenti et lapidis pretiosi et margariti”, id est margarite ... Libri moderni habent “merces” pro

    “mercedes”, quia mercedes proprie significant premia vel munera; merx vero mercis, cuius plurale

    est merces, est idem quod lucrum vel emolumentum, et ideo significat res quas vendendo lucramur,

    et forte apud antiquos, qui habent hic “mercedes”, idem significat “merces” et “mercedes”. ... Unde

    subdit (Ap 18, 14): “Et poma tua desiderii anime”, id est valde desiderabilia appetitui animali vel,

    secundum Ricardum, id est minora bona tua que desiderabiliter dilexisti, “discesserunt a te”, scilicet

    o Babilon. ... Deinde subdit de planctu aliorum qui per mare seu per vias graviores negotiabantur:

    “Et omnis gubernator et omn[es] qui in l[o]cum”, scilicet aliquem, puta ad urbem vel portum

    maritimum, “navigant” (Ap 18, 17). ... (Ap 18, 19) “Et miserunt pulverem super capita sua et

    clamaverunt flentes et lugentes et dicentes: Ve, ve civitas illa magna, in qua divites facti sunt

    omnes, qui habebant naves in mari, de pretiis eius”, que scilicet acquirebant pro mercibus quas in

    ea vendebant. “Ve”, inquam, “civitas” sic “magna”, “quoniam una hora desolata est!”».

  • 23

    2. 3. Esempi di parole-chiave

    Anche singole parole avrebbero sollecitato la memoria dello spirituale lettore, che le

    avrebbe collocate nei luoghi dei quali esse sono segno, luoghi ripieni di esegesi dottrinale.

    «Campo», ad esempio, è un signaculum del primo stato, e precisamente dell’apertura del primo

    sigillo (seconda visione)16

    . Uscire in campo apparendo vittorioso, non pavido o infermo, è tema

    proprio di Cristo all’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2). Il tema del «campo» assume molteplici

    forme, tanto numerose da richiedere una trattazione a sé. Qui si menziona, perché emblematico, il

    momento in cui Brunetto Latini lascia la compagnia del suo discepolo: «Poi si rivolse, e parve di

    coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che

    vince, non colui che perde» (Inf. XV, 121-124). La poesia suggerisce la prosa: «apparuit in ipso

    exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset [...] exivit in campum totius orbis non quasi pavidus

    aut infirmus». Nella celebre terzina, anche «coloro che corrono» è strumento di reminiscenza, in

    quanto indirizza la mente a quanto scrive san Paolo ai Corinzi: «Non sapete che tutti corrono nello

    stadio, ma di costoro uno solo prende il premio?» (1 Cor 9, 24). Si tratta dell’esegesi di Ap 21, 16

    (settima visione), dove si tratta della misura della Gerusalemme celeste, che è di 12.000 stadi. Lo

    stadio è lo spazio al cui termine si sosta o «si posa» per respirare e lungo il quale si corre per

    conseguire il premio. Esso designa il percorso del merito che ottiene il premio in modo trionfale.

    Ciò concorda con il fatto che lo stadio è l’ottava parte del miglio, e in questo senso designa l’ottavo

    giorno di resurrezione. L’ottava parte del miglio corrisponde a 125 passi, che rappresentano lo stato

    di perfezione apostolica adempiente i precetti del decalogo (12 apostoli x 10 comandamenti), cui si

    aggiunge la pienezza dei cinque sensi e delle cinque chiese patriarcali. Ma quale premio consegue

    Brunetto? Più che lo sfuggire alla pena di giacere cent’anni sotto la pioggia di fuoco senza potersi

    far schermo con le mani in quanto correndo riesce a raggiungere la sua schiera, il premio che egli

    consegue è la fama del suo Tesoro che ha raccomandato a Dante. Il paragone con il palio di Verona

    (la corsa a piedi nella prima domenica di quaresima), che chiude il canto, contiene il riferimento alla

    vittoria nel 124° verso, uno in meno dello stadio paolino. Ma quel che vi è di più notabile è

    l’appropriazione a Brunetto, che è un dannato, di motivi propri di Cristo. Non è questo l’unico

    momento, perché proprio al suo maestro, come avverrà poi per Guinizzelli (Purg. XXVI, 97-102),

    Dante attribuisce quell’essere abate di una prole spirituale il cui insegnamento si imprime nella

    mente come l’immagine di Dio padre, cioè uno dei conseguimenti più alti della sesta vittoria, la più

    cristiforme fra tutte (Inf. XV, 82-85; Ap 3, 12). Nel finale di Inf. XV non viene assegnata a Brunetto

    16

    Cfr. III, Appendice, tab. 1.

  • 24

    una vittoria postuma17

    . Il suo correre non è degradante18

    , è però solo parvenza di vittoria,

    un’imitazione di Cristo non riuscita, una corsa senza vero premio. Chi prenderà quel premio - «la

    gloria de la lingua» - sarà Dante, il quale, come dice lo stesso Latini, è «sementa santa» dei Romani,

    vero loro erede nell’universalità dell’eloquio19

    .

    Se poi il nostro lettore si fosse inoltrato di molto fino alla terza cantica, avrebbe ritrovato le

    medesime parole-chiave con san Domenico, una delle due ruote, insieme a san Francesco, della

    biga della Chiesa, per cui questa «si difese / e vinse in campo la sua civil briga», ossia la lotta contro

    gli eretici (Par. XII, 106-108), altra variazione di Cristo che esce vittorioso nel campo del mondo.

    Oppure nell’«uscir del campo» (Par. XXV, 84) di san Giacomo, una volta conseguita la «palma»

    del martirio: questa fu vera vittoria, non sua parvenza come nel caso di Brunetto (ad Ap 6, 2, Cristo

    esce vittorioso nel campo del mondo; san Giacomo, invece, esce da esso). Il «ch’io respiri» di Par.

    XXV, 85 gli avrebbe ancora ricordato il passo paolino sul correre e vincere nello stadio.

    L’arrivo al cielo della Luna è tanto veloce quanto il ‘posarsi’ di una freccia («un quadrel»),

    la quale vola dopo essersi staccata dalla balestra (Par. II, 23-25). Dal momento in cui inizia la

    descrizione dell’ascesa al cielo (con il verso 43 del primo canto del Paradiso), fino al congiungersi

    «con la prima stella» (che coincide - «giunto mi vidi» - con il 25° verso del secondo canto), sono

    esattamente 125 versi (100 nel primo canto, 25 nel secondo), come i passi dello stadio. La

    navigazione, della quale il poeta ha premesso in principio di Par. II, è dunque un correre al premio

    paolino («L’acqua ch’io prendo già mai non si corse»), un solcare «l’acqua che ritorna equale» (la

    Scrittura) verso Dio, «la prima equalità» (Par. XV, 74). Un modo di leggere, contando le terzine,

    che non sarebbe dispiaciuto a Singleton.

    Cristo, all’apertura del primo sigillo, esce vittorioso in campo su un cavallo bianco. Anche il

    bianco diventa segno di altro. Ad esempio, il colore bianco connesso all’«uscire» è proprio

    dell’angelo nocchiero che conduce le anime dalla foce del Tevere al lido del Purgatorio, del quale

    Dante vede prima un bianco indistinto, che si precisa in seguito essere le ali, e poi, a poco a poco,

    un altro bianco che ‘esce’ di sotto al primo, che è la veste (Purg. II, 22-26). Gli spiriti seduti entro la

    navicella cantano il salmo 113, il cui primo versetto è «In exitu Isräel de Aegypto» (Purg. II, 46-

    48): come affermato in Convivio II, i, 7, significa, nel senso anagogico, l’uscita dell’anima dal

    peccato «santa e libera in sua potestate»; oppure allegoricamente, come detto nell’Epistola XIII, 21

    17

    Cfr. A. M. CHIAVACCI LEONARDI, in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno (Milano 2007), pp. 474-475

    (XV, 124): «... forse vuole anche ricordare Brunetto, in questa ultima immagine, come un vincitore, e non come un

    perdente, pur in quella suprema miseria». 18

    Cfr. G. INGLESE, in Dante Alighieri, Commedia. Revisione del testo e commento. Inferno, Roma 2007, p. 185 (XV,

    121-124): «... l’atto in sé - questa corsa a perdifiato - è degradante ... appartiene tutto all’anima infamata e dannata, in

    cui l’antica immagine paterna è ormai svanita per sempre». 19

    Cfr. I, 3.2, tab. XXXIII-1; III, 2d.3, tab. XX-1; 3, tab. XXII. La «gloria de la lingua» è questione ben presente già

    negli ermetici versi relativi all’incontro con Cavalcante: cfr. III, 7e; LECTURA DANTIS: Inferno X.

  • 25

    [7], significa la nostra redenzione per opera di Cristo; moralmente designa la conversione

    dell’anima dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia, anagogicamente l’uscita

    dell’anima santificata dalla schiavitù della presente corruzione alla libertà dell’eterna gloria. Ma il

    Salmo 113, 1 - «In exitu Isräel de Aegypto» - contiene la chiave che apre i significati offerti

    dall’esegesi di Ap 6, 2 (primo sigillo: l’uscita vittoriosa di Cristo nel campo del mondo per

    convertire genti e Giudei) e di Ap 2, 7 (la prima vittoria: la vittoriosa uscita dal mondo) e di altri

    luoghi relativi al primo stato della storia della Chiesa. È questo esempio di citazione polisemica,

    cioè di più significati («polisemos» è il termine con cui Dante definisce la Commedia nell’Epistola

    XIII, 20). Ciò avviene in più luoghi del poema, dove le citazioni scritturali, palesi o coperte, sono

    incastonate in quelle della Lectura super Apocalipsim, che le circoscrivono e le armano con diversa

    armatura semantica (cfr. infra, cap. 4).

    Quel che si è detto per campo o bianco, o per posare, può continuare per molte altre parole-

    chiave. Stare conduce al quarto stato degli anacoreti o contemplativi, stabile, fermo e pertinace

    come l’età virile, contro il cui stare, se eccessivo, si appunta lo zelo reprensivo (prologo, notabile

    III: «et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem ... stans»; cfr.

    Inf. VII, 99: «e ’l troppo star si vieta»). Il procedimento analogico che associa per collazione parti

    della Lectura accosta lo stare fermo del quarto stato (notabile III) ai piedi simili all’oricalco con cui

    Cristo si propone a Tiàtira, la quarta chiesa d’Asia (Ap 2, 18: «proponitur habere pedes similes

    auricalco»). Di qui «’l piè fermo» di Inf. I, 30 e «li frati miei», dei quali dice san Benedetto, «che

    dentro ai chiostri / fermar li piedi e tennero il cor saldo» (Par. XXII, 50-51; nel cielo di Saturno si

    manifestano gli spiriti contemplativi). Ancora, lo stare fisso come una colonna è proprio della sesta

    vittoria, conseguita dall’uomo evangelico del sesto stato configurato in Cristo (Ap 3, 12:

    «Columpna ... sic stans et firmiter fixa ... Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus

    Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia»; cfr. Inf. XVIII, 43-44: «Per

    ch’ïo a figurarlo i piedi affissi; / e ’l dolce duca meco si ristette»). Ciò significa che al quarto stato è

    data, come afferma Olivi, la perfezione del sesto e del settimo, cioè degli stati di maggiore

    illuminazione. I piedi di Ap 2, 18 possono poi essere accostati a quelli (sempre di Cristo e simili ad

    oricalco) di Ap 1, 15 e a quelli dell’angelo di Ap 10, 1.

    La costa e lo scendere sono temi del quinto stato, il declinante momento della pia

    condescensione verso la vita associata che frange l’ardua, ripida e solitaria altezza dello stato

    precedente degli anacoreti. Nel notabile VII del prologo della Lectura super Apocalipsim si recano

    gli esempi di Cristo che condiscese agli infermi e di Adamo al quale venne sottratta una forte

    «costa» (simbolo della solitudine austera degli anacoreti del quarto stato), che Dio nel creare Eva

    riempì di pietas. Più volte nel poema la «costa» della ripa infernale, o della montagna del

  • 26

    purgatorio, che giace o che è corta o che cala o che pende, si abbina allo «scendere» in modo da far

    via in giù o in su, indicando la rottura della solitaria arditezza, del luogo «alpestro» a vantaggio del

    condiscendere pietoso, del dar via.

    Ne è esempio la scesa dal «loco ... alpestro» verso il settimo cerchio infernale, nella fossa

    del Flegetonte (Inf. XII, 1-10). Viene paragonata a «quella ruina che nel fianco (equivalente alla

    «costa») / di qua da Trento l’Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco»; ivi «è sì la

    roccia discoscesa, / ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse» («ut nequeuntibus in arduis perdurare

    daretur locus gratie in mediocri statu»: prologo, notabile V); tale è quella che consente a Virgilio e

    Dante il passaggio dal monte al piano. Altro caso è la fuga dei due poeti i quali, inseguiti dai

    Malebranche, grazie alla «costa» che giace riescono a scendere dalla quinta alla sesta bolgia (Inf.

    XXIII, 31-33); oppure il passaggio dalla sesta bolgia alla successiva, facilitato dal fatto che il

    pendere, cioè l’inclinare, di Malebolge verso il pozzo centrale fa sì «che l’una costa surge e l’altra

    scende» (Inf. XXIV, 34-42). Nel dipartirsi dal male dell’inferno, Virgilio «appigliò sé a le vellute

    coste» di Lucifero facendo scala del pelo e scendendo in giù «di vello in vello» (Inf. XXXIV, 73-

    75).

    Altrove è la montagna del Purgatorio, «roccia sì erta», a calare nella «costa» e a rompere la

    propria arditezza per consentire l’erta salita, impossibile a chi va senz’ali (Purg. III, 46-54; IV, 19-

    33) o, allentando la ripa che precipita, a fare scale come quelle che consentono di mitigare «l’ardita

    foga» della salita di San Miniato, «la chiesa che soggioga / la ben guidata sopra Rubaconte» (Purg.

    XII, 100-108). La valletta dei prìncipi si apre «dove la costa face di sé grembo … in fianco de la

    lacca» e ivi, condotti da Sordello «tra erto e piano» (che corrisponde allo stato mediocre) per «un

    sentiero schembo» (tema dell’essere inclinato), Virgilio e Dante scendono (‘avvallano’) e attendono

    il nuovo giorno (tema del quinto sigillo, da Ap 6, 9-11, ove ai santi si dice di aspettare fino al

    completamento del numero degli eletti; Purg. VII, 67-72; VIII, 43-44, 46).

    Trovarsi in uno stato mediocre (il quinto) viene appropriato sul piano politico a Cesena in

    Inf. XXVII, 52-54, nella risposta che il poeta dà a Guido da Montefeltro sulla sua Romagna: «E

    quella cu’ il Savio bagna il fianco (la costa), / così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte, / tra tirannia

    si vive e stato franco», dove la tirannia è assimilata all’ardua e oltre una certa misura insostenibile

    vita degli anacoreti (il quarto stato). Del quarto stato, «stans» (prologo, notabile III), è proprio il

    fermo governare le genti «in virga ferrea», il «victoriosus effectus» che deriva dalle res gestae degli

    operosi. Nel quinto stato, «declinans» (notabile III), limitato alla Chiesa latina, si provvede a

    ricevere le moltitudini - «post tam altos status expedit multitudinem condescensive recipi et primos

    secundum proportionem suarum virium sequi» (prologo, notabile V) - e si apprestano le medicine

    che ne curino i morbi. Così la cascata del Flegetonte rimbomba verso Malebolge come quella di San

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    Benedetto dell’Alpe «per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto» (Inf. XVI, 100-

    102), si tratti del mai realizzato castello dei conti Guidi per riunirvi i villaggi circostanti, o della

    grande badia camaldolese vuota di monaci. Così, nella nona bolgia, l’oscuro Pier da Medicina, che

    vissuto «in su terra latina» concorda perfino nel nome con il ‘medicinale’ quinto stato, ricorda con

    nostalgia la pianura padana: «se mai torni a veder lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò

    dichina» (Inf. XXVIII, 70-75).

    La successione tematica tra quarto, quinto e sesto stato forma l’ossatura dei versi con cui

    Tommaso d’Aquino inizia in Par. XI l’elogio di san Francesco (vv. 43-54): al motivo dell’«alto

    monte» (quarto stato) si contrappongono quelli dell’acqua «che discende / del colle eletto dal beato

    Ubaldo» (il Chiascio) e della «fertile costa» che pende e spezza l�