STORIA, POESIA E ARTE DELLA MEMORIA€¦ · vari sensi (letterale, allegorico, morale, anagogico)....
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« IN MENSURA ET NUMERO ET PONDERE »
NELLA FUCINA DELLA « COMMEDIA »:
STORIA, POESIA E ARTE DELLA MEMORIA
1. Intertestualità, mnemotecnica e polisemia. 2. L’arte della memoria per il lettore spirituale. 2.1. La
prima terzina. 2.2. Leggere ‘topograficamente’. 2.3. Esempi di parole-chiave. 2.4. La “variatio” dei
quattro sensi della Scrittura. 2.5. Paolo e Francesca. 2.6. “In modum distinctionis”. 2.7. La ruota
nella ruota. 3. L’arte della memoria per l’autore. 4. Salmi polisensi. Avvertenze.
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ET VIDI CAELUM NOVUM ET TERRAM NOVAM
(Apocalisse 21, 1)
1. Intertestualità, mnemotecnica e polisemia
La Commedia di Dante conseguì “la gloria de la lingua” attraverso un’intensa elaborazione
intertestuale della Lectura super Apocalipsim del francescano Pietro di Giovanni Olivi, completata
(1297/1298) appena dieci anni prima dell’inizio della stesura del “poema sacro” (ca. 1307). La
ricerca in corso, che viene qui presentata, dà conto di questa straordinaria metamorfosi testuale, e
delle sue norme verificabili.
L’accostamento dei due testi non è nuovo (Ernesto Buonaiuti, Raoul Manselli), ma si trattava
di vicinanza di idee e toccava solo alcuni punti della Commedia. La nuova scoperta sta nel fatto che
si tratta di un rapporto tecnico; esso riguarda tutto il poema per ogni endecasillabo, sul quale le idee
provenienti dal primo testo vengono trasferite e trasformate.
Le norme che regolano un così intenso rispondersi intertestuale sono le seguenti:
a) Gruppi di parole ravvicinate presenti nella Lectura si ritrovano, con parole altrettanto
ravvicinate, ma liberamente collocate, nella Commedia, quasi fili tratti da altro ordito e, intrecciati
con altri, tessuti in uno nuovo. Il fenomeno della compresenza, in spazi testuali sufficientemente
stretti, di termini identici in latino e in volgare risulta troppo diffuso perché sia casuale. Non si tratta
di parole isolate, ma collocate in una rosa; gli accostamenti non sono banali o scontati. Non c’è calco
o riscrittura; il travaso non è di frasi – e non potrebbe esserlo dalla prosa in poesia – ma di elementi
semantici che sono segnali, in un’alta retorica del significante.
b) Un medesimo luogo della Lectura conduce, tramite la compresenza delle parole, a più
luoghi della Commedia. Ciò significa che la medesima esegesi di un passo del commento scritturale
è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema.
c) Più luoghi della Lectura possono essere collazionati tra loro. La scelta non è arbitraria. Vi
predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che
ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita
dallo stesso Olivi per una migliore intelligenza del significato del testo. La “mutua collatio” di parti
della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico.
d) L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto
strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio
di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine
registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i
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confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato,
che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello
che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e
contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni.
Le norme sub a), b), c) sono state esaurientemente verificate in centinaia di tabelle sinottiche
esaminate nei vari saggi pubblicati su questo sito. La norma sub d) è registrata nella Topografia
spirituale della Commedia, dove per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali
conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore”
ha fatto “la gonna”, per usare l’immagine di san Bernardo a Par. XXXII, 140-141.
Sugli aspetti generali della ricerca, si rinvia al saggio Pietro di Giovanni Olivi e Dante. Un
progetto di ricerca, pubblicato su “Collectanea Franciscana”, 82 (2012), pp. 87-156 (riprodotto e
tradotto in inglese su questo sito).
L’elaborazione intertestuale significò per Dante, come ha scritto Lino Pertile, “l’inevitabile
condizione di ogni processo di riflessione sul significato dell’esperienza umana nella storia passata,
presente e futura” (La puttana e il gigante. Dal “Cantico dei Cantici” al Paradiso Terrestre di
Dante, Ravenna 1998, p. 9). Quella che accompagnò l’intera stesura del “poema sacro”, con un
procedimento analogico su singole parti della Lectura assimilabile alle “distinctiones” dei
predicatori, costituisce anche un eccezionale esempio di arte della memoria.
Sull’arte della memoria nel Medioevo sono stati pubblicati autorevoli studi: FRANCES A.
YATES (The Art of Memory, London 1966); MARY CARRUTHERS (The Book of Memory. A Study of
Memory in Medieval Culture, Cambridge 1990, 2008; EAD.-JAN M. ZIOLKOWSKI, The Medieval
Craft of Memory. An Anthology of Texts and Pictures, University of Pennsylvania Press 2002);
ANNA MARIA BUSSE BERGER (Medieval Music and the Art of Memory, University of California
Press 2005); LINA BOLZONI (La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a
Bernardino da Siena, Torino 2002, 2009) - solo per citarne alcuni.
Dante occupa sempre un posto rilevante, e non potrebbe essere diversamente, nell’età di
Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Raimondo Lullo. Il “poema sacro” ha una struttura
‘architettonica’ che agisce sulla memoria attraverso luoghi e immagini, secondo i noti princìpi della
Rhetorica ad Herennium, la Nova (o Secunda) Rhetorica che il Medioevo attribuì a “Tullio”,
associandola all’autenticamente ciceroniano De inventione. I luoghi della Commedia rendono
visibili peccati e pene, a differenti livelli. Le similitudini di cose corporee, a noi note, sono ombra di
realtà spirituali, secondo quanto Tommaso d’Aquino afferma della Scrittura la quale usa le metafore
non “propter repraesentationem”, naturalmente dilettevole, come fanno i poeti, ma per necessità e
utilità (Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9). Si tratta però della struttura esteriore, espressa dal senso
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letterale di una poesia che vuole essere realmente Scrittura sacra, scritta dentro e fuori, soggetta a
vari sensi (letterale, allegorico, morale, anagogico).
Nella struttura interna - che solo ora, dopo sette secoli, viene alla luce -, le imagines agentes
sono le parole-chiave, che conducono il lettore alla dottrina contenuta nella Lectura super
Apocalipsim. Le singole parole si leggono, nel contesto dei versi, come segni che conducono
all’altro testo dottrinale consentendo così il passaggio dal senso letterale, che è per tutti, a quelli
mistici in esso racchiusi, riservati ai depositari della chiave di sì alta crittografia.
All’arte della memoria guarda anche il grande prologo della Lectura super Apocalipsim. I
tredici notabilia che lo compongono contengono infatti precise indicazioni al lettore affinché quanto
scritto nell’esegesi dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, che segue, possa essere smembrato e
ricomposto secondo i sette stati della storia della Chiesa. Queste categorie storiche agiscono sul
testo sacro - già diviso di per sé in sette visioni -, e sul suo grande commento trasformando, senza
aggiungere o togliere ad esso neppure una parola, quella che potrebbe sembrare un’esegesi
tradizionale in una teologia della storia.
Il modello della distinctio - un dizionario analogico per utilità omiletiche -, che Olivi utilizza
spesso nella sua esegesi facendo ricorso anche a categorie numeriche, serve molto ad avvicinarsi a
quel testo intermedio tra Lectura e Commedia che certamente è ipotizzabile sulla base degli
innumerevoli confronti fin qui eseguiti nel corso della ricerca. Tale testo doveva riorganizzare tutto
il materiale contenuto nella Lectura secondo lemmi ma anche, soprattutto, secondo i sette stati
(seguendo i princìpi stabiliti dall’Olivi nel prologo), come dimostrano le zone del poema
semanticamente ad essi dedicati.
Charles S. Singleton, nel 1965 (cfr. La poesia della Divina Commedia, trad. it., Bologna
1978, pp. 451-462), scoprì che il numero 7 - il numero della creazione - può definirsi il “numero del
poeta”; esso permea i canti XIV-XX del Purgatorio (il “centro” del poema starebbe nel verso 70 del
XVII canto). La sequenza del numero dei versi di questi canti sembra orientare il moderno lettore
verso un centro, quasi numericamente murato: 151 (XIV), 145 (XV), 145 (XVI), 139 (XVII), 145
(XVIII), 145 (XIX), 151 (XX). Ma, poiché i manoscritti non recavano il numero dei versi, il grande
studioso americano si chiedeva se Dante si aspettasse di trovare un lettore consapevole di uno
schema sapienziale “in mensura et numero et pondere”, mirabile ma occultato, e concludeva che il
poema era stato scritto non solo per la vista degli uomini, ma principalmente per Colui che tutto
vede.
In realtà un lettore umano il poeta l’aveva previsto anche per i sensi interiori. Dalla ricerca
emerge un Dante tutto ‘medievale’, che si era perduto, lì dove il senso letterale, rivolto a chiunque,
ne racchiude altri “mistici” rivolti ai pochi - gli Spirituali francescani - che con la predicazione
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avrebbero potuto riformare la Chiesa. Un gruppo di lettori privilegiato che possedeva la Lectura
super Apocalipsim, subito diffusasi in Italia dopo la morte del suo autore (1298), avrebbe potuto
leggerla, parafrasata e aggiornata in senso aristotelico e imperiale, nei versi in volgare. I riformatori
erano soprattutto predicatori. La Commedia è un viaggio per exempla. Se grazie alla Commedia
Dante fosse tornato a Firenze “con altra voce omai, con altro vello”, quanti predicatori non
l’avrebbero citata dai pergami cittadini? Dunque i signacula che rinviano alla Lectura oliviana
sarebbero stati, rinchiusi nel senso letterale alla portata di tutti, marcatori di memoria per chi, non
diversamente dai profeti dell’Antico Testamento, avrebbe dovuto ingiungere ai fedeli di convertirsi
per tempo adducendo esempi contemporanei e vicini. Il microcosmo toscano sarebbe asceso, come è
nel poema, a storia universale predicata.
Dalla poesia, dunque, il lettore spirituale sarebbe risalito a un testo dottrinale da lui già
conosciuto. La poesia in volgare si poneva come “speculum clericorum”, con un fine devozionale e
di edificazione di una cerchia di lettori dotti. Ma quel lettore, rafforzando la memoria della dottrina
contenuta nella Lectura, scritta in latino, l’avrebbe trovata dotata di “e piedi e mano” per una
predicazione in volgare. “Beatus qui legit, et qui audit verba prophetiae”: il fine dell’Apocalisse (Ap
1, 3), la beatitudine, è rivolto a due categorie: i chierici e i laici. Per entrambi si aggiunge: “et qui
servat ea”. L’arte della memoria serve appunto, alla prima categoria, per fermare e conservare nella
mente. Come la struttura esteriore offre luoghi e immagini, anche quella interiore consente di
percorrere ‘zone’ del poema (non coincidenti con le divisioni letterali) nelle quali sono collocate le
parole-chiave che si riferiscono ai sette stati e alla loro esegesi. Il legame fra le parole, nel senso
letterale, descrive luoghi e vi colloca immagini impressionanti; in quello spirituale suscita alla mente
concetti dottrinali.
La Lectura super Apocalipsim, che oggi è un testo conosciuto soltanto a pochissimi
specialisti (non di Dante!), doveva essere considerata dal poeta come una “summa” di solare
sapienza. “Summa Scripturae” che indica i segni, cioè le tappe progressive, della storia della
salvezza collettiva e della conversione finale dei Gentili e d’Israele, degli infedeli e dei Giudei.
‘Finale’ non significa necessariamente alla fine del mondo, bensì all’inizio di una nuova era, di una
nuova palingenesi come quella dei tempi augustei, che l’Olivi afferma già operante nel “sesto stato”
cioè nei tempi moderni. Cristo, centro dei tempi, era venuto dapprima nella carne; il secondo
avvento - ben prima del terzo, nel giudizio - sarebbe stato nello Spirito, cioè nei discepoli spirituali
che avrebbero strettamente seguìto quanto dettato loro interiormente.
L’arte della memoria non serviva soltanto per i chierici. I confronti proposti in questo saggio
mostrano come gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia,
contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica. Tornando a Singleton e
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alla sua domanda sulla comprensione dei numeri del poema, si potrebbe dire che le parole, se
dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta
anche segni del numero dei versi, “luogo” dove collocarle in forma e contesto diversi. Anche solo
scorrendo le tabelle, ci si rende conto di un intimo e diffusissimo rispondersi fra i testi (quale altro
testo, a parte la Lectura super Apocalipsim, potrebbe consentirlo?), e di come quella che è un’arte
della memoria sia connettiva delle parti del poema e sia stata lo strumento della sua mirabile unità.
Si potrebbe pensare che la Commedia instauri con la Lectura quel tipo di corrispondenza
emblematica, finalizzata alla costruzione di un sapere universale, che tanta parte avrà poi nella
cultura del Rinascimento e del Barocco, da Bruno a Leibniz a Bach. Ciò può essere in parte vero se
si considera che dal microcosmo locale si ascende al macrocosmo della Scrittura-principio e fine di
ogni scienza, di cui l’Apocalisse è sintesi. È inoltre proprio dello spirito profetico nel linguaggio di
Isaia, di Ezechiele o di Cristo stesso passare dal particolare storico all’universale per poi di lì
ridiscendere al contingente. La mnemotecnica che unisce i due testi non è però una ricerca di
un’altra poesia, di qualcosa di occulto come avverrà nel Rinascimento, ma di altri ben precisi
significati dottrinali vestiti dalla poesia. In questo l’arte della memoria dantesca è profondamente
scolastica, come parte di una virtù cardinale, la prudenza, volta a fini missionari e devozionali.
Quando Dante iniziò a scrivere la Commedia, Raimondo Lullo componeva la sua Ars Magna (1305-
1308). In Dante non ci sono quegli artifici tipici del lullismo, non lettere alfabetiche significative di
concetti, né cerchi concentrici, figure mobili, diagrammi di alberi ecc. Tuttavia lo scopo dell’arte di
Lullo e della Commedia è il medesimo: la conversione universale. Inoltre, se si considera la
collocazione ai fini mnemonici delle parole nel poema, si può vedere come le rispondenze interne
non siano statiche, ma sempre variate in una rosa semantica e poste in luoghi differenti all’interno
degli endecasillabi. L’arte della memoria della Commedia è ispirata al medesimo dinamismo
propugnato da Lullo.
Il confronto fra i due testi consente, ancora, di percepire il passaggio, nell’ “autunno del
Medioevo”, agli ideali laici propri del Rinascimento. La direttrice da seguire non è del tipo, che pur
ha dato in passato notevoli contributi, ‘Dante e i Francescani’, o ‘Dante e il gioachimismo’, o
ancora ‘Dante e la teologia’, quasi fossero ambiti separati dalla geniale e troppo diversa poesia. Lo
storico deve infatti volgersi a cercare i modi con cui Dante appropriò le prerogative, che la teologia
riservava alla Chiesa e alla sua storia, all’intero mondo umano con le sue esigenze: lingua, filosofia,
monarchia. Deve, se vuole comprendere realmente Dante, porsi dalla parte dei lettori, non di oggi,
ma di allora.
Dante [...] non si sarebbe mai sognato di non poter essere compreso. Che sia tanto difficile
farlo, non dovrebbe condurci a rinunciarvi in favore di un arbitrio tutto calato nel punto di vista del
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lector. L’ermeneutica non può prescindere da un’ontologia della creazione poetica: se ne prescinde,
è lettura del nulla. Questo è l’unico ma grandioso mistero, con cui ha a che fare ogni lettore di
Dante (incomparabile con quei misteriucci da quattro soldi, con cui si sono misurati gli Aroux e i
Guénon): il mistero del segno, o di quel sistema di segni, che ha racchiuso un mondo intero in un
insieme d’immagini plurisense. Con questo mistero dobbiamo fare i conti (A. ASOR ROSA,
postfazione a L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante, a cura di M. P. Pozzato, Milano
1989, p. 316).
Questo mistero, una vera “Pompei dei segni”, è racchiuso nella Lectura super Apocalipsim.
La Lectura non è una nuova fonte di Dante che si mostra come principale rispetto a quelle già
conosciute, è il libro della storia delle illuminazioni sapienziali con cui tutto deve concordare.
Virgilio, Ovidio o Lucano, Boezio, Aristotele, Alberto Magno o Tommaso d’Aquino, la stessa
Scrittura in quanto tale, le più svariate esperienze poetiche o le conoscenze di astronomia sono, nel
poema, tutte fonti ordinate alla Lectura. Punti filosofici come l’ordinamento morale dell’inferno e
del purgatorio, la creazione, i cieli, gli angeli, la redenzione non dipendono dalla dottrina dell’Olivi,
ma dalla Lectura vengono armati di parole e di significati. Il carattere polisemico che l’autore volle
attribuire alla sua opera non viene meno, si arricchisce anzi di nuovi significati non arbitrari. Per
rendersene conto si scorra il saggio sull’uso dei Salmi, che spesso non sono citati dalla Lectura ma
dalla Bibbia, e si veda come siano però cuciti con l’esegesi oliviana e in essa incastonati.
Ci si può chiedere perché nessun contemporaneo di Dante, non i figli commentatori, ebbe
alcun sentore di questo singolarissimo rapporto rivelato dall’esame dei testi. La risposta la dà la
storia. Gli Spirituali scomparvero, con il loro libro-vessillo, ancora prima che la Commedia venisse
completata. Essi, nel primo decennio del Trecento, lottavano per la riforma e non erano ancora
sconfitti, tanto che Dante li ritenne essenziali al suo progetto, tanto da abbandonare la stesura del
Convivio. Il poeta, con ogni probabilità, ebbe la Lectura da Ubertino da Casale che l’aveva
utilizzata a La Verna nel 1305, al momento della redazione dell’Arbor vitae, e che nel 1307 era in
Toscana come cappellano del cardinale Napoleone Orsini nel tentativo di far rientrare a Firenze gli
esiliati. Poi, le note vicissitudini seguite al Concilio di Vienne (1311-1312) portarono, nei due
decenni successivi, alla persecuzione degli Spirituali e quasi cancellarono il loro libro-vessillo,
definitivamente condannato da Giovanni XXII nel 1326. Inoltre Dante, inizialmente tanto vicino a
quel gruppo riformatore, ne prese poi le distanze, come dimostrano le dure parole di san
Bonaventura (Par. XII, 124-126) contro le opposte fazioni estreme, i rigoristi (rappresentati da
Ubertino da Casale) e i rilassati (rappresentati da Matteo d’Acquasparta). Ma a quello stadio il
poema era troppo avanzato per modificarne l’intima struttura. L’arte della memoria, la vera chiave
per la comprensione interiore del poema, non venne probabilmente mai messa in pratica.
Per quanto gravi siano le conseguenze storiche (va riconsiderato il ruolo degli Spirituali
nella riforma della Chiesa e sottolineata l’eccezionale importanza della Lectura dell’Olivi),
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filologiche (qui non si tratta della trasmissione del poema, ma della sua formazione), letterarie
(circa i destinatari della Commedia e la doppia lettura di essa) di questa ricerca, esse devono
comunque fondarsi sull’esame dei testi, del loro rispondersi o meno; ciò deve sempre precedere
ogni considerazione delle idee che essi suggeriscono.
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2. L’arte della memoria per il lettore spirituale
2. 1. La prima terzina
■ Leggendo «Nel mezzo del cammin di nostra vita», un lettore comune avrebbe forse pensato
alla metà di un arco di settant’anni (secondo quanto scritto in Convivio, IV, xxiii, 9-11); un lettore
spirituale si sarebbe ricordato di Cristo mediatore, che mostra il cammino, la cui vita deve essere
dalla nostra imitata1:
«(prologus, notabile VII) Huius autem vite perfecta imitatio et participatio est et debet esse finis
totius nostre actionis et vite; (Ap 1, 13) ... propter quod apparuit “in medio septem candelabrorum”
... sicut centrum, in medio spere existens, exhibet se toti spere; (Ap 2, 1) “Hec dicit qui tenet septem
stellas in dextera sua, qui ambulat in medio septem candelabrorum aureorum” ... tamquam infra se
immediate vos omnes tenens et tamquam in medio vestrum existens et omnia vestra continue
perambulans et perscrutans et immediate percurrens seu conspiciens ...; (Ap 5, 6) ... ipse est totius
ecclesie mediator et quasi centrale medium ad quod tota spera ecclesie et omnes linee electorum
suorum aspiciunt sicut ad medium centrum. ... “et in medio quattuor animalium”, id est vite et
doctrine evangelice ...; (Ap 7, 17) “Quoniam Agnus, qui in medio troni est”... vel in intimo ecclesie
quasi centrum ipsius; (Ap 14, 14) ... ad quos Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos
deducit».
Scorrendo il poema, avrebbe più volte ritrovato i medesimi signacula variamente incorporati
nella lettera. In un luogo geografico deputato alla cura pastorale:
Inf. XX, 67-69: «Loco è nel mezzo là dove ’l trentino / pastore e quel di Brescia e ’l veronese /
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino».│«(Ap 2, 1) “Hec dicit qui tenet septem stellas in dextera
sua, qui ambulat in medio septem candelabrorum aureorum” ... Ipse etiam est pius pastor eos
protegens et custodiens, et pro eorum custodia eos semper tenens et visitans ... ; (Ap 5, 6) Vel “in
medio troni”, id est in medio sancte Trinitatis ...».
Oppure appropriati a Virgilio:
Purg. XIII, 13-21: «Poi fisamente al sole li occhi porse; / fece del destro lato a muover centro, / e la
sinistra parte di sé torse. / “O dolce lume a cui fidanza i’ entro / per lo novo cammin, tu ne conduci”,
/ dicea, “come condur si vuol quinc’ entro. / Tu scaldi il mondo, tu sovr’ esso luci; / s’altra ragione
in contrario non ponta, / esser dien sempre li tuoi raggi duci”».│«(Ap 1, 13) ... propter quod
apparuit “in medio septem candelabrorum”, iuxta quod sacerdos legalis debebat semper sollicitam
curam habere de septem lucernis et luminibus candelabri sanctuarii. Dicitur autem esse “in medio”,
quia omnibus suis exhibet se intime et communissime sicut centrum, in medio spere existens,
exhibet se toti spere...; (Ap 2, 1) “Hec dicit qui tenet septem stellas in dextera sua, qui ambulat in
medio septem candelabrorum aureorum” ... ille qui bene scit omnes vestros actus et cogitatus,
1 I testi qui di seguito citati sono presentati sinotticamente e discussi in Il sesto sigillo [= III], 4, tab. XXIX, XXX, XXX
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tamquam infra se immediate vos omnes tenens et tamquam in medio vestrum existens et omnia
vestra continue perambulans et perscrutans et immediate percurrens seu conspiciens, dicit vobis hec
que sequuntur. ... et etiam quod habent ipsum amare et in ipso sperare et ex eius amore et spe
omnia verba eius servare, quia ipse est eorum iudex et dominus ipsos prepotenter tenens et
circumspectissime examinans. Ipse etiam est pius pastor eos protegens et custodiens, et pro eorum
custodia eos semper tenens et visitans...; (Ap 14, 4) ... “hii sequuntur Agnum quocumque ierit”, id
est ad omnes actus perfectionum et meritorum ac premiorum eis correspondentium, ad quos
Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos deducit».
O a Tommaso d’Aquino:
Par. XIII, 49-51: «Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo, / e vedräi il tuo credere e ’l mio dire / nel
vero farsi come centro in tondo».│«(Ap 5, 6) ... ipse est totius ecclesie mediator et quasi centrale
medium ad quod tota spera ecclesie et omnes linee electorum suorum aspiciunt sicut ad medium
centrum ... Numquam enim recessit a medio alicuius virtutis aut veritatis, immo stetit semper in
intimo medio».
O a Beatrice:
Par. XIV, 1-3: «Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro / movesi l’acqua in un ritondo vaso,
/ secondo ch’è percosso fuori o dentro»│«(Ap 5, 6) ... ipse est totius ecclesie mediator et quasi
centrale medium ad quod tota spera ecclesie et omnes linee electorum suorum aspiciunt sicut ad
medium centrum».
O a Pier Damiani:
Par. XXI, 79-82: «Né venni prima a l’ultima parola, / che del suo mezzo fece il lume centro, /
girando sé come veloce mola; / poi rispuose l’amor che v’era dentro»│«(Ap 1, 13) ... propter quod
apparuit “in medio septem candelabrorum”, iuxta quod sacerdos legalis debebat semper sollicitam
curam habere de septem lucernis et luminibus candelabri sanctuarii. Dicitur autem esse “in medio”,
quia omnibus suis exhibet se intime et communissime sicut centrum, in medio spere existens,
exhibet se toti spere».
■ Tornando all’inizio del poema, il lettore comune avrebbe forse considerato il «mi ritrovai»
del secondo verso come un capitare per caso in qualche luogo; quello spirituale sarebbe andato con
la mente ad Ap 2, 5, allorché al vescovo di Efeso (la prima delle sette chiese d’Asia alle quali
Giovanni scrive nella prima visione apocalittica) viene detto di ritrovare il grado della prima aurea
carità perduta2:
«Sed Dominus eum consulendo admonet ut penitendo gradum amissum recuperet, dicens (Ap 2, 5):
“Memor esto itaque unde excideris, et age penitentiam et prima opera fac”. Quasi dicat: attende
2 L’esegesi oliviana dell’istruzione data a Efeso, profondamente influenzata da Riccardo di San Vittore ma con punti di
assoluta originalità, è esposta in“Lectura super Apocalipsim” e “Commedia”. Le norme del rispondersi [= IV], 2.
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quod de fastigio tue perfectionis excideris et ad infimum perfectionis decideris, et age penitentiam
de negligentia, et prima opera faciendo recupera primam gratiam».
Questo discendere all’infimo grado per poi risalire al grado supremo, ritrovando il principio,
secondo l’esegesi di Ap 2, 5 che cita Riccardo di San Vittore, segna il movimento del viaggio. In
questo senso dovevano essere lette alcune parole nella terzina successiva:
Inf. I, 4-6: «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel
pensier rinova la paura!»│(Ap 2, 5) Item Ricardus, super Danielem, in expositione sompnii
Nabucodonosor, ostendit quod sicut statua Nabucodonosor gradatim descendebat ab auro in
argentum, deinde in es ac deinde in ferrum et ultimo in testam luteam, sic aliquando gradatim
descenditur a supremo virtutum ad ima. ... talis casus, scilicet a maiori bono in minus bonum et cum
multis bonis adhuc restantibus, solet parvipendi. Per hanc autem comminationem ostendit quod non
est parvipendendus, immo valde formidandus ... Sicque es sonorum mutatur in ferrum asperum et
durum».
Dunque ben prima che arrivasse al Veglio di Creta (Inf. XIV, 106-111), dove l’esegesi di
Riccardo di San Vittore, incastonata in quella propria di Olivi, si dispiegherà per intero, all’accorto
lettore erano dati signacula mnemonici vòlti all’istruzione indirizzata alla prima chiesa (Efeso). Egli
leggeva dell’esperienza personale del poeta. Nella discesa graduale e assai temibile del precipizio
dall’aurea carità iniziale, a un certo punto il rame sonoro si trasforma nel ferro aspro e duro. Tale è
«esta selva selvaggia e aspra e forte», dire della quale «è cosa dura» e «che nel pensier rinova la
paura». Un sentimento che Dante prova anche allorché si trova «giù nel pozzo scuro», nel fondo
dell’inferno, «dove Cocito la freddura serra», «nel loco onde parlare è duro», a meno di non
possedere «le rime aspre e chiocce», adatte «al tristo buco / sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce».
Il poeta dichiara di non possederle, e confessa il proprio timore di non riuscire a esprimersi
chiaramente: «non sanza tema a dicer mi conduco; / ché non è impresa da pigliare a gabbo /
discriver fondo a tutto l’universo, / né da lingua che chiami mamma o babbo» (Inf. XXXII, 1-15).
Che si tratti della «selva selvaggia» o di Cocito, il poeta teme di non essere adeguato alla materia
che impone una caduta di stile, e non sottovaluta il pericolo, come il vescovo di Efeso non deve
prendere alla leggera la caduta verso un bene minore, dall’aurea carità al suo farsi ferro.
Ancora, sarebbe stato condotto all’esegesi di Riccardo di San Vittore al momento di leggere,
nei versi seguenti:
Inf. I, 58-61: «tal mi fece la bestia sanza pace, / che, venendomi ’ncontro, a poco a poco / mi
ripigneva là dove ’l sol tace. / Mentre ch’i’ rovinava in basso loco ...»│ «(Ap 2, 5) Unde ibidem ait
(Ricardus): ‘Puto quod nemo repente fit turpissimus, sed qui minima negligit paulatim defluit. Sicut
enim quibusdam profectuum gradibus ad alta conscenditur, sic rursus gradatim ad ima
descenditur’».
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Il discendere nel male è sempre graduale; sarà tale anche il volo in groppa a Gerione: «e
disse: “Gerïon, moviti omai: / le rote larghe, e lo scender sia poco; / pensa la nova soma che tu
hai”» (Inf. XVII, 97-99).
L’inizio del viaggio (il tentativo primaverile di salire il «dilettoso monte», subito impedito
dalla lonza) coincide con la conversione piena di speranza di fronte alla prima tentazione:
Inf. I, 34-36, 41-43: «e non mi si partia dinanzi al volto, / anzi ’mpediva tanto il mio cammino, /
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. ... sì ch’a bene sperar m’era cagione / di quella fiera a la
gaetta pelle / l’ora del tempo e la dolce stagione»│(Ap 2, 5) «Et (Ricardus) ibidem subdit:
‘Quosdam videmus in initio sue conversionis spe gaudentes, in tribulatione patientes, sollicitos in
opere, studiosos in lectione, devotos in oratione, qui quidem in auro operantur sicut et ille cui
dictum est a Christo: “Novi opera tua et caritatem tuam” et cetera (Ap 2, 19). Sed sunt multi qui in
tempore temptationis recedunt, non tamen statim se in infima demergunt, sed primum de bono in
minus bonum et dehinc de minus bono in malum et deinde de malo in deterius corruunt, secundum
illud Iob: “Mons cadens paulatim defluit, et terra alluvione consumitur” (Jb 14, 18-19). Tales enim
paulatim incipiunt a pristino desiderio tepescere et a priori fervore magis magisque deficere ...».
Ritrovare il principio con l’aiuto della Grazia: il verbo recuperet, che si trova ad Ap 2, 5,
unisce l’inizio e la fine del poema: «mi ritrovai per una selva oscura ... che nel pensier rinova la
paura│e non ritrova, / pensando, quel principio ond’ elli indige» (Inf. I, 2, 6; Par. XXXIII, 134-
135).
■ Continuando a scorrere il secondo verso del poema, il lettore più profondo avrebbe letto
«per una selva» con la memoria ad Ap 12, 6, dove si parla della Giudea-giardino diventata deserto
per la sua dura ostinazione a Cristo, dalla quale la donna (la Chiesa) fugge, e il riferimento gli
sarebbe apparso confermato dalla «selva selvaggia» del verso 5, dall’«ancor fuggiva» del verso 25,
dalla «piaggia diserta» del verso 29, dal «gran diserto» del verso 64:
«Tertium est plebs et terra gentilium, que tunc erat a Deo et a divino cultu deserta, et ad hanc ad
litteram tunc confugit ecclesia, fugiendo Iudeorum obstinatam incredulitatem et persecutionem. De
hac autem solitudine dicitur Isaie XXXII° (Is 32, 15-16): “Erit desertum in Chermel”, id est [sic]
pinguis in gratiis sicut prius fuerat Iudea, “et Chermel”, id est Iudea, “in saltum” seu silvam
“reputabitur”, id est silvestrescet ...»3.
Ad Ap 12, 6 - in un’esegesi colma di citazioni di Gioacchino da Fiore - avrebbe rinviato, nel
medesimo canto, l’oscura espressione contenuta nella profezia del Veltro: «tra feltro e feltro» (Inf.
I, 105), cioè tra tela e tela, riferita ai due Testamenti, Vecchio e Nuovo, padri e figli che Elia verrà a
3 L’esegesi di Ap 12, 6 - per la parte relativa ai significati di ‘deserto’ - è trattata in L’agone del dubbio, ovvero il
martirio moderno (Francesca e la «Donna Gentile») [= II], 7, tab. XXIX-2.
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riconciliare: «Nec enim debitum est ut non liceret ei, qu[i] cuncta fecit in sapientia, ire quo vellet, et
generalibus, ut ita dixerim, filis interserere diversos colores, qui varietate sua telarum superficiem
multo amplius decorarent et appareret quid differat inter telam et telam»4.
Il deserto, ad Ap 12, 6, non è solo la Giudea-giardino disfiorito. È anche la terra dei Gentili,
‘deserta’ di Dio e del suo culto, alla quale la donna (la Chiesa) fugge per incorporarli, rimanendovi
per 1260 anni, fino al compimento di quella che san Paolo, nella Lettera ai Romani, definisce
«plenitudo gentium» (Rm 11, 25-26), precedente la conversione di tutto Israele. A questa terra - la
montagna del purgatorio - volle andare Ulisse prima della venuta di Cristo, viaggiando nel futuro
nonostante i «riguardi» posti da Ercole alla foce stretta:
«non vogliate negar l’esperïenza, / di retro al sol, del mondo sanza gente. ... Venimmo poi in sul lito
diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto» (Inf. XXVI,
116-117; Purg. I, 130-132).│«(Ap 12, 6) Tertium est plebs et terra gentilium, que tunc erat a Deo et
a divino cultu deserta, et ad hanc ad litteram tunc confugit ecclesia, fugiendo Iudeorum obstinatam
incredulitatem et persecutionem. De hac autem solitudine dicitur Isaie XXXII° (Is 32, 15-16): “Erit
desertum in Chermel”, id est [sic] pinguis in gratiis sicut prius fuerat Iudea, “et Chermel”, id est
Iudea, “in saltum” seu silvam “reputabitur”, id est silvestrescet ...».
■ «Per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita». L’accorto spirituale avrebbe letto
congiuntamente oscura e diritta, rammentandosi che all’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5) il
cavallo nero, con colui che vi siede recando in mano una bilancia, designa gli eretici e l’erronea
interpretazione della Scrittura5:
“Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus
et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et
episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et
ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et
infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI°
dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba
prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per
falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur:
“Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in
stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac[c]elli pondera
dolosa” (Mic 6, 11).
L’esegesi dell’apertura del terzo sigillo avrà grandi sviluppi6. Si considerino soltanto tre
punti, a Inf. II, VI e XIX:
4 Cfr. III, 12.4, tab. CXXVI.
5 Cfr. Il terzo stato, tab. II. 8.
6 Ibid., II.
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Inf. II, 3-6, 8: «…e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la
pietate, / che ritrarrà la mente che non erra. …… o mente che scrivesti ciò ch’io vidi»; Inf. VI, 49-
50, 58-59, 70-71, 85, 91: «Ed elli a me: “La tua città, ch’è piena / d’invidia sì che già trabocca il
sacco” ... Io li rispuosi: “Ciacco, il tuo affanno / mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita” ... Alte terrà
lungo tempo le fronti, / tenendo l’altra sotto gravi pesi ... E quelli: “Ei son tra l’anime più nere ” ...
Li diritti occhi torse allora in biechi»; Inf. XIX, 34-36, 52-54: «Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti
porti / là giù per quella ripa che più giace, / da lui saprai di sé e de’ suoi torti”. ... Ed el gridò: “Se’
tu già costì ritto, / se’ tu già costì ritto, Bonifazio? / Di parecchi anni mi mentì lo scritto.”»│(Ap 6,
5): «“Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci
obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet
imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas
ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per
rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum
XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba
prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per
falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur:
“Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in
stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac[c]elli pondera
dolosa” (Mic 6, 11)».
Dal che si poteva desumere che Dante considerasse il «poema sacro» come ‘Sacra Scrittura’
e i papi simoniaci (Niccolò III e Bonifacio VIII) alla stregua degli eretici, mendaci e ‘intorti’
interpreti di essa. Così le divisioni di Firenze, «città partita», venivano assimilate alle scissure
ereticali nella Chiesa.
■ Giunto alle ultime parole della prima terzina - era smarrita - il nostro Spirituale avrebbe
riconosciuto l’esegesi relativa a Sardi, la quinta chiesa d’Asia (prima visione; Ap 3, 2-3)7, con il suo
vescovo torpido e negligente, al quale viene detto di ripensare la prima grazia acquisita, esegesi
ribadita nella seconda e nella quarta terzina («Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva
selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura! ... Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai, /
tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai»):
“Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed attente sollicitus de salute tua. Ille
enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit curare de salute anime sue. ... “In
mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem
gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa
que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi
predicantibus audivisti. ... Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non
habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit. ...
Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per
negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii.
7 Per l’esposizione sinottica dei testi cfr. III, 2b.
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Anche in questo caso, proseguendo nella lettura avrebbe ritrovato l’esegesi più volte:
Inf. II, 61-66: «l’amico mio, e non de la ventura, / ne la diserta piaggia è impedito / sì nel cammin,
che vòlt’ è per paura; / e temo che non sia già sì smarrito, / ch’io mi sia tardi al soccorso levata, /
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito»; Inf. V, 70-72: «Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito /
nomar le donne antiche e ’ cavalieri, / pietà mi giunse, e fui quasi smarrito»; Inf. X, 121-129: «Indi
s’ascose; e io inver’ l’antico / poeta volsi i passi, ripensando / a quel parlar che mi parea nemico. /
Elli si mosse; e poi, così andando, / mi disse: “Perché se’ tu sì smarrito?”. / E io li sodisfeci al suo
dimando. / “La mente tua conservi quel ch’udito / hai contra te”, mi comandò quel saggio; / “e ora
attendi qui”, e drizzò ’l dito»│«“Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed
attente sollicitus de salute tua. Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit
curare de salute anime sue. ... “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter
acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem
evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo
primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et
statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”,
scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius
accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages. Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et
torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et
quod ideo sic corruit. ... Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui
se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Que quidem
nimis correspondenter patent in hoc cursu novissimo quinti temporis ecclesiastici. Deinde
comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde
subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex
improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad
te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et
exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in
prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse
finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini
veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus
interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit
subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat;
omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii
simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7)».
2. 2. Leggere ‘topograficamente’
La Lectura super Apocalipsim non è una sovrastruttura applicata successivamente a un
poema già redatto; l’esegesi è elaborata contestualmente ai versi, il «panno» viene via via cucito.
Ciò esclude ogni possibilità che il suo uso sia intervenuto in una fase di revisione dell’Inferno prima
che questo fosse pubblicato, nella seconda metà del 13148. L’ars memorandi e l’ars poetica
coincisero fin dall’inizio. Il poema fu scritto contemporaneamente dentro e fuori, il linguaggio
interiore non fu mai separato dalla lettera. Di ciò rende conto l’estensione dei riferimenti alla
Lectura fin dal primo canto, come mostra la serie delle tabelle allegate. Inf. I rinvia a tutti i ventidue
8 Cfr. G. PETROCCHI, Itinerari danteschi, Bari 1969 (Biblioteca di critica e letteratura, III), pp. 83-118: p. 113.
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capitoli della Lectura con l’eccezione del XVI e del XXI e ad almeno cinque dei tredici notabili del
prologo. Se in Inf. II mancano signacula di otto capitoli, vi si registrano molti rinvii all’esegesi di
versetti degli altri capitoli diversi rispetto a quelli già utilizzati nel primo.
Fra le norme che regolano il rapporto fra i due testi c’è dunque quella per cui un medesimo
luogo della Lectura conduce, tramite la compresenza delle parole, a più luoghi della Commedia, nei
quali la memoria del lettore spirituale veniva sollecitata verso la dottrina contenuta nel testo di
esegesi scritturale. Ciò significa che la medesima esegesi è stata utilizzata in momenti diversi della
stesura del poema. La persistenza di un altro testo da cui trarre i significati del senso spirituale,
materialmente elaborati e sempre variati attraverso le parole, è servita anche a mantenere l’unità e la
coerenza interna della Commedia.
Ma non è solo il variato rinvio mnemonico al notabile del prologo, al capitolo e al versetto
della Lectura ad accompagnare la stesura del poema. Secondo un’altra delle norme che presiedono
ai rapporti fra i due testi, la Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al
lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati
oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un
singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per
cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per «concurrentia», come le
maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una
grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli
intrecci e variazioni.
L’Olivi, nella sua esegesi, segue l’ordine dei ventidue capitoli del testo giovanneo. Nel
grande prologo (definito «generale principium»), dà però indicazioni precise per una diversa
distribuzione del materiale esegetico. L’Apocalisse si divide in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i
sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette
coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei
visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei
sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba,
guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si
ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a
ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima
visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi,
introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che l’Olivi definisce
«radicalia» o «fontalia». Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette
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assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici
notabilia, può essere anch’esso riaggregato secondo i sette stati.
La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti
agli stati della Chiesa descritti dall’Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. I primi due canti
dell’Inferno, di carattere introduttivo, registrano una tematica a sé (in particolare riferibile al sesto
stato); il terzo, anch’esso autonomo, è profondamente segnato dai temi del settimo stato, e in
particolare di Laodicea, la settima chiesa d’Asia (gli ignavi) e del quinto (Caronte). A partire dal
quarto canto, il primo ciclo si sviluppa in questo modo:
canti I ciclo stati cerchi
IV Limbo Radici, I (I snodo) I
V lussuriosi II II
VI golosi III III
VII avari e prodighi, Palude Stigia
(iracondi e accidiosi)
III-IV-V IV-V
VIII Palude Stigia, Città di Dite V V
IX apertura della porta della Città di Dite V-VI
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno sono preceduti da cinque zone che
possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati
insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto
(Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione
letterale del poema.
La maglia dei lemmi allotri, delle parole la cui lettera altro significa, si estende su tutto il
primo ciclo attraverso variazioni della rosa alla quale appartengono. Si consideri, ad esempio, l’uso
di Ap 7, 1 (seconda visione, apertura del sesto sigillo)9. Ivi quattro angeli stanno sopra i quattro
angoli della terra: designano i demoni e gli uomini empi che, dopo il giudizio e lo sterminio della
Chiesa carnale intervenuti con il terremoto nell’apertura del sigillo (Ap 6, 12-17), cercano di
impedire ai quattro venti di soffiare, cioè di impedire la predicazione della fede, la conversione
delle genti e anche il conservarsi dei fedeli nella fede già accolta. L’angelo del sesto sigillo (Ap 7,
9 Cfr. III, 2a, tab. X.
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2-3) rimuove l’impedimento di cui si dice al versetto precedente (Ap 7, 1). Gli angeli che
trattengono i venti (la ‘predicazione’ e la conversione operate tramite il poema di Dante, frutto del
suo viaggio) sono quattro, e corrispondono ai quattro Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, riassunti
nelle tre fiere che il poeta ha precedentemente incontrato. Virgilio, che rimuove l’impedimento,
svolge in questo caso (perché molti altri ruoli gli spettano) la funzione dell’angelo del sesto sigillo:
«anzi ’mpediva tanto il mio cammino» (Inf. I, 35); «ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide» (Inf. I, 96);
«ne la diserta piaggia è impedito» (Inf. II, 62); «Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo
’mpedimento ov’ io ti mando» (Inf. II, 94-95); «Quinci fuor quete le lanose gote / al nocchier de la
livida palude» (Inf. III, 97-98)1; «Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia ... E ’l duca mio a lui:
“Perché pur gride? / Non impedir lo suo fatale andare ...”» (Inf. V, 4, 21-22)2; «Qual è quel cane
ch’abbaiando agogna, / e si racqueta poi che ’l pasto morde» (Inf. VI, 28-29)3; «quivi trovammo
Pluto, il gran nemico ... e quel savio gentil, che tutto seppe, / disse per confortarmi: “Non ti noccia /
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia, / non ci torrà lo scender questa roccia”» (Inf. VI, 115; VII, 3-
6)4 │ «... nitentur demones et homines impii impedire predicationem fidei et conversionem gentium
ad fidem ... Secundum Ricardum, isti quattuor angeli sunt universi demones totum mundum in suis
quattuor angulis tempore illo possidere cupientes, suntque “stantes” quia sunt in hoc immorantes et
fixe considerantes quos in tota latitudine mundi possint devorare. ... (Ap 7, 1); Sequitur tertia pars,
scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta: “Et vidi alterum angelum”,
alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et
officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis ... ad cuius clamoris
virtutem adversarie potestates quiescent ... (Ap 7, 2); “Nolite ... nocere” (Ap 7, 3)».
Diverse sono le appropriazioni: lì dove l’esegesi si concentra su due soggetti (i quattro
angeli e l’altro che rimuove l’impedimento), nei versi intervengono altri protagonisti dall’una e
dall’altra parte: la lonza e la lupa impediscono anch’esse, il “Nolite nocere” di Ap 7, 3 è detto da
Virgilio-angelo del sesto sigillo non a Pluto bensì a Dante-predicatore («Non ti noccia / la tua
paura»).
È da notare anche la coincidenza dei lemmi, nelle varie flessioni, che rinviano agli stessi
luoghi della Lectura (Ap 7, 1-3) nel numero delle terzine: Inf. I, 94-96 («lo ’mpedisce»: v. 96) / II,
94-96 («di questo ’mpedimento»: v. 95); Inf. V, 4-6 («Stavvi Minòs»: v. 4) / VII, 4-6 («Non ti
noccia»: v. 4): un fenomeno che si verifica anche altrove, per tutto il poema (cfr. qui di seguito, cap.
3).
Ancora, Ap 7, 3-410. L’angelo del sesto sigillo (7, 2) rimuove un impedimento (7, 1), dopo
di che il segno è posto sulla fronte, non vergognosa ma liberamente magnanima, degli eletti amici di
Dio, difensori della fede fino al martirio da lui conosciuti per nome e ascritti alla più alta milizia dei
baroni, dei decurioni, dei cavalieri che si distingue da quella volgare dei fanti. Questa esegesi della
sacra milizia percorre tutto il poema. Consideriamo i primi signacula:
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Cfr. III, 1c, tab. VI, 1-3; VII, 1-2.
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«rispuos’ io lui con vergognosa fronte ... oh felice colui cu’ ivi elegge!» (Inf. I, 81, 129); «“S’i’ ho
ben la parola tua intesa”, / rispuose del magnanimo quell’ ombra, / “l’anima tua è da viltade offesa”
... l’amico mio, e non de la ventura, / ne la diserta piaggia è impedito / sì nel cammin, che vòlt’ è per
paura ... Disse: - Beatrice, loda di Dio vera, / ché non soccorri quei che t’amò tanto, / ch’uscì per te
de la volgare schiera? ... Dunque: che è? perché, perché restai, / perché tanta viltà nel core allette, /
perché ardire e franchezza non hai, / poscia che tai tre donne benedette / curan di te ne la corte del
cielo» (Inf. II, 43-45, 61-63, 103-105, 121-125); «E io, che riguardai, vidi una ’nsegna ... Poscia
ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, / vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran
rifiuto. ... Allor con li occhi vergognosi e bassi» (Inf. III, 52, 58-60, 79); «e più d’onore ancora assai
mi fenno, / ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera, / sì ch’io fui sesto tra cotanto senno» (Inf. IV, 100-
102); «cotali uscir de la schiera ov’ è Dido, / a noi venendo per l’aere maligno, / sì forte fu
l’affettüoso grido. ... se fosse amico il re de l’universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi
c’hai pietà del nostro mal perverso» (Inf. V, 85-87, 91-93); «ed el s’ergea col petto e con la fronte ...
Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta / restato m’era ... colui che la difesi a viso aperto» (Inf. X,
35, 73-74, 93)│«Signatio ... fit autem “in frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis
libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In
fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum
gloriationis vel erubescentie ... Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in
constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc
sub sexta apertione ordo sanctorum martirum consumationem accipiet ... Hii enim, qui sub certo
nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona
ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem
militiam vel familiam eliguntur ... sic per hanc specialem et prefixam numerationem et
consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum» (Ap 7, 3-4).
La tematica della «signatio» affiora dunque nei primi cinque canti dell’Inferno, è assente nei
quattro successivi per poi riemergere con Farinata. Da notare, ancora, l’uso insistente di Ap 7, 13
(cfr. infra le coincidenze numeriche). Dei primi nove canti, solo Inf. I, VI e X non sembrano
registrare questa tematica:
«Però, se l’avversario d’ogne male / cortese i fu, pensando l’alto effetto / ch’uscir dovea di lui, e ’l
chi e ’l quale» (Inf. II, 16-18); «E io ch’avea d’error la testa cinta, / dissi: “Maestro, che è quel ch’i’
odo? / e che gent’ è che par nel duol sì vinta?”. ... per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi / ch’i’
sappia quali sono, e qual costume / le fa di trapassar parer sì pronte ...”» (Inf. III, 31-33, 72-74);
«Lo buon maestro a me: “Tu non dimandi / che spiriti son questi che tu vedi?” ... “Dimmi, maestro
mio, dimmi segnore” ... “O tu ch’onori scïenzïa e arte, / questi chi son c’hanno cotanta onranza, /
che dal modo de li altri li diparte?”» (Inf. IV, 31-32, 46, 73-75); «per ch’i’ dissi: “Maestro, chi son
quelle / genti che l’aura nera sì gastiga?” ... E quella a me: “Nessun maggior dolore / che ricordarsi
del tempo felice / ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.”» (Inf. V, 50-51, 121-123); «dissi: “Maestro mio, or mi dimostra / che gente è questa, e se tutti fuor cherci / questi chercuti a la sinistra nostra”»
(Inf. VII, 37-39); «E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; / dissi: “Questo che dice? e che risponde /
quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?”» (Inf. VIII, 7-9); «Questa question fec’ io; e quei:
“Di rado / incontra”, mi rispuose, “che di noi / faccia il cammino alcun per qual io vado.” ... E io:
“Maestro, quai son quelle genti / che, seppellite dentro da quell’ arche, / si fan sentir coi sospiri
dolenti?”» (Inf. IX, 19-21, 124-126)│« ... “ex omnibus gentibus et tribubus et populis et linguis
stantes ante tronum” (Ap 7, 9) ... “Et respondit” (Ap 7, 13), id est prolocutus est, “unus de
senioribus” ... “Et dixit michi: Hii, qui amicti sunt stolis albis, qui sunt”, id est quales et quante
-
20
dignitatis, “et unde venerunt”, id est ex quibus meritis et per quam viam sanctitatis ad tantam
gloriam pervenerunt? Nota quod sicut nos per magistrales interrogationes excitamur ad
inquirendum veritatem ... “Et dixi illi: Domine mi, tu scis” (7, 14), quasi dicat: ego nescio, sed tu
doce me, quia tu hoc scis».
Ap 7, 13 si ritrova poi a Inf. XIV, 103-105, 130-135. Questa disamina, qui sopra effettuata,
dell’esegesi di tre versetti di Ap 7 (di fondamentale importanza per i riferimenti all’apertura del
sesto sigillo) - 7, 1/3/13 - può essere estesa non solo agli altri quattordici versetti del medesimo
capitolo, ma anche a molti altri luoghi della Lectura super Apocalipsim.
Si prenda ad esempio la prima parte dell’esegesi di Ap 4, 1-2 (le visioni di Giovanni sono
sempre nuove, più alte e più ardue)11
:
«Al tornar de la mente ... novi tormenti e novi tormentati / mi veggio intorno ... » (Inf. VI, 1, 4-5);
«Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa / nove travaglie e pene quant’ io viddi?» (Inf. VII, 19-20)│«...
ab excessu mentis ad se reductus ... designat quamlibet visionum cum suis obiectis habere propriam
et novam arduitatem, et quod ad quamlibet videndam indigebat superelevari a Deo ad illam» (Ap 4,
1-2).
Subito dopo viene proposta l’immagine, derivata da Gioacchino da Fiore, della porta del
sepolcro di Cristo chiusa e gravata dalla lapidea durezza del senso letterale, aperta con la
resurrezione ai significati spirituali12. A questa esegesi rinviano sia la porta dell’inferno come le
arche degli eresiarchi:
«Queste parole di colore oscuro / vid’ ïo scritte al sommo d’una porta; / per ch’io: “Maestro, il
senso lor m’è duro”» (Inf. III, 10-12); «Tutti li lor coperchi eran sospesi, / e fuor n’uscivan sì duri
lamenti, / che ben parean di miseri e d’offesi ... e i monimenti son più e men caldi. ... “La gente che
per li sepolcri giace / potrebbesi veder? già son levati / tutt’ i coperchi, e nessun guardia face”. / E
quelli a me: “Tutti saran serrati / quando di Iosafàt qui torneranno / coi corpi che là sù hanno
lasciati”. ... Allor surse a la vista scoperchiata / un’ombra, lungo questa, infino al mento: / credo che
s’era in ginocchie levata. ... Però comprender puoi che tutta morta / fia nostra conoscenza da quel
punto / che del futuro fia chiusa la porta» (Inf. IX, 121-123, 131; X, 7-12, 52-54, 106-108) │«Sicut
autem in hostio monumenti Christi erat superpositus magnus lapis et ponderosus, qui Christo
resurgente et de sepulcro exeunte est inde amotus, sic in scriptura erat durus cortex littere, pondere
sensibilium et carnalium figurarum gravatus, claudens hostium, id est [ad]itum intelligentie
spiritalis. In humanis etiam cordibus erat lapidea durities sensus obtusi, claudens introitum
divinarum illuminationum. ... Primus autem apertor huius hostii et prima vox nos in celum
ascendere faciens est Christus et eius illuminatio et doctrina. Nam vox priorum prophetarum potius
clausit hostium sub figuris, et sub terrenis promissionibus carnalem sensum Iudeorum depressit
potius quam levavit» (Ap 4, 2).
Più avanti, questi temi da Ap 4, 1-2 segneranno il fondo dell’inferno:
11
Cfr. IV, 2, tab. 2.8. 12
Cfr. IV, 2, tab. 2.9.
-
21
«Ma quelle donne aiutino il mio verso / ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe, / sì che dal fatto il dir
non sia diverso. / Oh sovra tutte mal creata plebe / che stai nel loco onde parlare è duro ...» (Inf.
XXXII, 10-14: notare la parziale coincidenza nel numero dei versi con Inf. III).
Si consideri, ancora, la tematica della settima visione. All’esegesi di Ap 21, 12 («Et habebat
murum magnum et altum»: si tratta della disposizione delle parti della Gerusalemme celeste) rinvia
il «nobile castello» del Limbo (Inf. IV, 106-111) e ancor più la descrizione della Città di Dite (Inf.
VIII, 67-83). Ma già la porta dell’inferno ne mostra una cellula (Inf. III, 1, 11: «Per me ... vid’ ïo
scritte al sommo d’una porta»│«Nam Christus est fundamentum secundum Apostolum, Ia ad
Corinthios III° [1 Cor 3, 10-11]; et porta seu hostium et etiam hostiarius, prout dicitur Iohannis X°
[Jo 10, 9: Ego sum ostium. Per me, si quis introierit, salvabitur et ingredietur et egredietur])». Come
accade di frequente, nei versi polisèmi le parole muovono la memoria in più direzioni: «Per me»
verso il Vangelo giovanneo; «porta» verso questo e verso la città celeste dell’Apocalisse, nella sua
veste più difforme da Dio; «senso ... duro» verso il sepolcro di Cristo gravato dalla lapidea durezza
del senso letterale, proprio dell’Antico Testamento. Ap 21, 12 si ritrova in fine di Inf. IX (v. 133) e
in principio di Inf. X (v. 2). Segnerà ancora altri luoghi dell’Inferno, a cominciare dalla descrizione
iniziale di Malebolge (Inf. XVIII, 1-18)13
.
La porta dell’Inferno presenta molte altre parole-chiave14
. Quelle forse spiritualmente più
pregnanti conducono il lettore verso il pianto doloroso - il veh ripetuto tre volte -, per la caduta di
Babylon da parte di quanti, re o mercanti, avevano commerci con la grande città. «Lasciate ogne
speranza, voi ch’intrate», da parte della «perduta gente», è ammonimento rivolto a quanti hanno
sperato di lucrare commerciando con Babylon. Ciò è tanto più significativo in quanto espresso in un
poema-speculum clericorum da parte di colui che voleva povera tutta la Chiesa e non solo i figli di
san Francesco, ma intanto la ricchezza, dentro o fuori la Chiesa, era indotta da traffici e commerci
che inesorabilmente permeavano l’economia europea, con buona pace della sobria e pudica Firenze
antica rimpianta da Cacciaguida. Come al solito, le parole modificano il loro significato,
appropriandosi a diverse persone e situazioni senza perdere il tema fondamentale. Così i signacula
si diffondono su Dante, che perde la speranza di salire il «dilettoso monte», o su Virgilio, al quale
non bastano «mercedi», ma sta anch’egli con la gente perduta «sanza speme ... in disio»15
:
13
Cfr. La settima visione, I.2. 14
Ibid., pp. 171-176 (La porta dell’Inferno). 15
Cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare. Postilla alle ricerche di Gustavo Vinay sul De vulgari eloquentia [=
I], 2.3, tab. IV.
-
22
«questa mi porse tanto di gravezza / con la paura ch’uscia di sua vista, / ch’io perdei la speranza de
l’altezza. / E qual è quei che volontieri acquista, / e giugne ’l tempo che perder lo face, / che ’n tutti
suoi pensier piange e s’attrista» (Inf. I, 52-57); «‘Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne
l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente. ... Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’. ...
Noi siam venuti al loco ov’ i’ t’ho detto / che tu vedrai le genti dolorose / c’hanno perduto il ben de
l’intelletto» (Inf. III, 1-3, 9, 16-18); «“E tu che se’ costì, anima viva, / pàrtiti da cotesti che son
morti”. / Ma poi che vide ch’io non mi partiva, / disse: “Per altra via, per altri porti / verrai a
piaggia, non qui, per passare: / più lieve legno convien che ti porti”» (Inf. III, 88-93); «ch’ei non
peccaro; e s’elli hanno mercedi, / non basta, perché non ebber battesmo, / ch’è porta de la fede che
tu credi ... Per tai difetti, non per altro rio, / semo perduti, e sol di tanto offesi / che sanza speme
vivemo in disio» (Inf. IV, 34-36, 40-42); «dirò come colui che piange e dice ... Mentre che l’uno
spirto questo disse, / l’altro piangëa ... » (Inf. V, 126, 139-140); «cortesia e valor dì se dimora / ne
la nostra città sì come suole, / o se del tutto se n’è gita fora ... La gente nuova e i sùbiti guadagni /
orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» (Inf. XVI, 67-69, 73-
75); «parlare e lagrimar vedrai insieme» (Inf. XXXIII, 9); «Per lor maladizion sì non si perde, / che
non possa tornar, l’etterno amore, / mentre che la speranza ha fior del verde» (Purg. III, 133-135);
«Quivi si vive e gode del tesoro / che s’acquistò piangendo ne lo essilio / di Babillòn, ove si lasciò
l’oro» (Par. XXIII, 133-135); «Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di
Cleto, / per essere ad acquisto d’oro usata» (Par. XXVII, 40-42).│«Et ideo convertentur ad luctum
“dicentes”, scilicet plangendo: “Ve, ve, ve” (Ap 18, 10), id est summa et summe stupenda et
lugenda maledictio et dampnatio est ista, scilicet “civitas illa magna Babilon, civitas illa fortis,
quoniam una hora venit iudicium tuum”, id est tota dampnatio tua! Loquuntur autem primo de ea in
tertia persona et postea in secunda secundum modum plangentium et stupentium, qui primo stupent
secum et mox vertunt considerationem suam quasi ad personam quam plangunt. Triplicatio autem
dolorose interiectionis, scilicet ipsius “ve”, significat vehementiam stuporis et planctus et casus
quem plangunt et etiam consuetum modum graviter plangentium. Et potest legi: Ve, ve, ve, civitas
illa magna, quomodo sic cecidit vel cecidisti! ... Sicut autem reges eius plangent, quia in casu eius
amiserunt gloriam sue regie dignitatis et potestatis et voluptatis, sic negotiatores, per quos
intelliguntur non solum hii qui in civilibus negotiantur, sed etiam hii qui in ecclesiasticis per
symonias et ambitiones et adulationes et per ypocrisim et per questus varios varia lucra sectantur.
Hii, inquam, plangent, quia in casu eius perdiderunt omnia lucra predicta et omnem spem ipsorum.
Unde subdit (Ap 18, 11): “Et negotiatores terre flebunt et lugebunt super illam, quoniam mercedes
eorum nemo emet amplius”. Quarum aliquas specificat subdens (Ap 18, 12): “Mercedem auri et
argenti et lapidis pretiosi et margariti”, id est margarite ... Libri moderni habent “merces” pro
“mercedes”, quia mercedes proprie significant premia vel munera; merx vero mercis, cuius plurale
est merces, est idem quod lucrum vel emolumentum, et ideo significat res quas vendendo lucramur,
et forte apud antiquos, qui habent hic “mercedes”, idem significat “merces” et “mercedes”. ... Unde
subdit (Ap 18, 14): “Et poma tua desiderii anime”, id est valde desiderabilia appetitui animali vel,
secundum Ricardum, id est minora bona tua que desiderabiliter dilexisti, “discesserunt a te”, scilicet
o Babilon. ... Deinde subdit de planctu aliorum qui per mare seu per vias graviores negotiabantur:
“Et omnis gubernator et omn[es] qui in l[o]cum”, scilicet aliquem, puta ad urbem vel portum
maritimum, “navigant” (Ap 18, 17). ... (Ap 18, 19) “Et miserunt pulverem super capita sua et
clamaverunt flentes et lugentes et dicentes: Ve, ve civitas illa magna, in qua divites facti sunt
omnes, qui habebant naves in mari, de pretiis eius”, que scilicet acquirebant pro mercibus quas in
ea vendebant. “Ve”, inquam, “civitas” sic “magna”, “quoniam una hora desolata est!”».
-
23
2. 3. Esempi di parole-chiave
Anche singole parole avrebbero sollecitato la memoria dello spirituale lettore, che le
avrebbe collocate nei luoghi dei quali esse sono segno, luoghi ripieni di esegesi dottrinale.
«Campo», ad esempio, è un signaculum del primo stato, e precisamente dell’apertura del primo
sigillo (seconda visione)16
. Uscire in campo apparendo vittorioso, non pavido o infermo, è tema
proprio di Cristo all’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2). Il tema del «campo» assume molteplici
forme, tanto numerose da richiedere una trattazione a sé. Qui si menziona, perché emblematico, il
momento in cui Brunetto Latini lascia la compagnia del suo discepolo: «Poi si rivolse, e parve di
coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che
vince, non colui che perde» (Inf. XV, 121-124). La poesia suggerisce la prosa: «apparuit in ipso
exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset [...] exivit in campum totius orbis non quasi pavidus
aut infirmus». Nella celebre terzina, anche «coloro che corrono» è strumento di reminiscenza, in
quanto indirizza la mente a quanto scrive san Paolo ai Corinzi: «Non sapete che tutti corrono nello
stadio, ma di costoro uno solo prende il premio?» (1 Cor 9, 24). Si tratta dell’esegesi di Ap 21, 16
(settima visione), dove si tratta della misura della Gerusalemme celeste, che è di 12.000 stadi. Lo
stadio è lo spazio al cui termine si sosta o «si posa» per respirare e lungo il quale si corre per
conseguire il premio. Esso designa il percorso del merito che ottiene il premio in modo trionfale.
Ciò concorda con il fatto che lo stadio è l’ottava parte del miglio, e in questo senso designa l’ottavo
giorno di resurrezione. L’ottava parte del miglio corrisponde a 125 passi, che rappresentano lo stato
di perfezione apostolica adempiente i precetti del decalogo (12 apostoli x 10 comandamenti), cui si
aggiunge la pienezza dei cinque sensi e delle cinque chiese patriarcali. Ma quale premio consegue
Brunetto? Più che lo sfuggire alla pena di giacere cent’anni sotto la pioggia di fuoco senza potersi
far schermo con le mani in quanto correndo riesce a raggiungere la sua schiera, il premio che egli
consegue è la fama del suo Tesoro che ha raccomandato a Dante. Il paragone con il palio di Verona
(la corsa a piedi nella prima domenica di quaresima), che chiude il canto, contiene il riferimento alla
vittoria nel 124° verso, uno in meno dello stadio paolino. Ma quel che vi è di più notabile è
l’appropriazione a Brunetto, che è un dannato, di motivi propri di Cristo. Non è questo l’unico
momento, perché proprio al suo maestro, come avverrà poi per Guinizzelli (Purg. XXVI, 97-102),
Dante attribuisce quell’essere abate di una prole spirituale il cui insegnamento si imprime nella
mente come l’immagine di Dio padre, cioè uno dei conseguimenti più alti della sesta vittoria, la più
cristiforme fra tutte (Inf. XV, 82-85; Ap 3, 12). Nel finale di Inf. XV non viene assegnata a Brunetto
16
Cfr. III, Appendice, tab. 1.
-
24
una vittoria postuma17
. Il suo correre non è degradante18
, è però solo parvenza di vittoria,
un’imitazione di Cristo non riuscita, una corsa senza vero premio. Chi prenderà quel premio - «la
gloria de la lingua» - sarà Dante, il quale, come dice lo stesso Latini, è «sementa santa» dei Romani,
vero loro erede nell’universalità dell’eloquio19
.
Se poi il nostro lettore si fosse inoltrato di molto fino alla terza cantica, avrebbe ritrovato le
medesime parole-chiave con san Domenico, una delle due ruote, insieme a san Francesco, della
biga della Chiesa, per cui questa «si difese / e vinse in campo la sua civil briga», ossia la lotta contro
gli eretici (Par. XII, 106-108), altra variazione di Cristo che esce vittorioso nel campo del mondo.
Oppure nell’«uscir del campo» (Par. XXV, 84) di san Giacomo, una volta conseguita la «palma»
del martirio: questa fu vera vittoria, non sua parvenza come nel caso di Brunetto (ad Ap 6, 2, Cristo
esce vittorioso nel campo del mondo; san Giacomo, invece, esce da esso). Il «ch’io respiri» di Par.
XXV, 85 gli avrebbe ancora ricordato il passo paolino sul correre e vincere nello stadio.
L’arrivo al cielo della Luna è tanto veloce quanto il ‘posarsi’ di una freccia («un quadrel»),
la quale vola dopo essersi staccata dalla balestra (Par. II, 23-25). Dal momento in cui inizia la
descrizione dell’ascesa al cielo (con il verso 43 del primo canto del Paradiso), fino al congiungersi
«con la prima stella» (che coincide - «giunto mi vidi» - con il 25° verso del secondo canto), sono
esattamente 125 versi (100 nel primo canto, 25 nel secondo), come i passi dello stadio. La
navigazione, della quale il poeta ha premesso in principio di Par. II, è dunque un correre al premio
paolino («L’acqua ch’io prendo già mai non si corse»), un solcare «l’acqua che ritorna equale» (la
Scrittura) verso Dio, «la prima equalità» (Par. XV, 74). Un modo di leggere, contando le terzine,
che non sarebbe dispiaciuto a Singleton.
Cristo, all’apertura del primo sigillo, esce vittorioso in campo su un cavallo bianco. Anche il
bianco diventa segno di altro. Ad esempio, il colore bianco connesso all’«uscire» è proprio
dell’angelo nocchiero che conduce le anime dalla foce del Tevere al lido del Purgatorio, del quale
Dante vede prima un bianco indistinto, che si precisa in seguito essere le ali, e poi, a poco a poco,
un altro bianco che ‘esce’ di sotto al primo, che è la veste (Purg. II, 22-26). Gli spiriti seduti entro la
navicella cantano il salmo 113, il cui primo versetto è «In exitu Isräel de Aegypto» (Purg. II, 46-
48): come affermato in Convivio II, i, 7, significa, nel senso anagogico, l’uscita dell’anima dal
peccato «santa e libera in sua potestate»; oppure allegoricamente, come detto nell’Epistola XIII, 21
17
Cfr. A. M. CHIAVACCI LEONARDI, in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno (Milano 2007), pp. 474-475
(XV, 124): «... forse vuole anche ricordare Brunetto, in questa ultima immagine, come un vincitore, e non come un
perdente, pur in quella suprema miseria». 18
Cfr. G. INGLESE, in Dante Alighieri, Commedia. Revisione del testo e commento. Inferno, Roma 2007, p. 185 (XV,
121-124): «... l’atto in sé - questa corsa a perdifiato - è degradante ... appartiene tutto all’anima infamata e dannata, in
cui l’antica immagine paterna è ormai svanita per sempre». 19
Cfr. I, 3.2, tab. XXXIII-1; III, 2d.3, tab. XX-1; 3, tab. XXII. La «gloria de la lingua» è questione ben presente già
negli ermetici versi relativi all’incontro con Cavalcante: cfr. III, 7e; LECTURA DANTIS: Inferno X.
-
25
[7], significa la nostra redenzione per opera di Cristo; moralmente designa la conversione
dell’anima dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia, anagogicamente l’uscita
dell’anima santificata dalla schiavitù della presente corruzione alla libertà dell’eterna gloria. Ma il
Salmo 113, 1 - «In exitu Isräel de Aegypto» - contiene la chiave che apre i significati offerti
dall’esegesi di Ap 6, 2 (primo sigillo: l’uscita vittoriosa di Cristo nel campo del mondo per
convertire genti e Giudei) e di Ap 2, 7 (la prima vittoria: la vittoriosa uscita dal mondo) e di altri
luoghi relativi al primo stato della storia della Chiesa. È questo esempio di citazione polisemica,
cioè di più significati («polisemos» è il termine con cui Dante definisce la Commedia nell’Epistola
XIII, 20). Ciò avviene in più luoghi del poema, dove le citazioni scritturali, palesi o coperte, sono
incastonate in quelle della Lectura super Apocalipsim, che le circoscrivono e le armano con diversa
armatura semantica (cfr. infra, cap. 4).
Quel che si è detto per campo o bianco, o per posare, può continuare per molte altre parole-
chiave. Stare conduce al quarto stato degli anacoreti o contemplativi, stabile, fermo e pertinace
come l’età virile, contro il cui stare, se eccessivo, si appunta lo zelo reprensivo (prologo, notabile
III: «et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem ... stans»; cfr.
Inf. VII, 99: «e ’l troppo star si vieta»). Il procedimento analogico che associa per collazione parti
della Lectura accosta lo stare fermo del quarto stato (notabile III) ai piedi simili all’oricalco con cui
Cristo si propone a Tiàtira, la quarta chiesa d’Asia (Ap 2, 18: «proponitur habere pedes similes
auricalco»). Di qui «’l piè fermo» di Inf. I, 30 e «li frati miei», dei quali dice san Benedetto, «che
dentro ai chiostri / fermar li piedi e tennero il cor saldo» (Par. XXII, 50-51; nel cielo di Saturno si
manifestano gli spiriti contemplativi). Ancora, lo stare fisso come una colonna è proprio della sesta
vittoria, conseguita dall’uomo evangelico del sesto stato configurato in Cristo (Ap 3, 12:
«Columpna ... sic stans et firmiter fixa ... Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus
Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia»; cfr. Inf. XVIII, 43-44: «Per
ch’ïo a figurarlo i piedi affissi; / e ’l dolce duca meco si ristette»). Ciò significa che al quarto stato è
data, come afferma Olivi, la perfezione del sesto e del settimo, cioè degli stati di maggiore
illuminazione. I piedi di Ap 2, 18 possono poi essere accostati a quelli (sempre di Cristo e simili ad
oricalco) di Ap 1, 15 e a quelli dell’angelo di Ap 10, 1.
La costa e lo scendere sono temi del quinto stato, il declinante momento della pia
condescensione verso la vita associata che frange l’ardua, ripida e solitaria altezza dello stato
precedente degli anacoreti. Nel notabile VII del prologo della Lectura super Apocalipsim si recano
gli esempi di Cristo che condiscese agli infermi e di Adamo al quale venne sottratta una forte
«costa» (simbolo della solitudine austera degli anacoreti del quarto stato), che Dio nel creare Eva
riempì di pietas. Più volte nel poema la «costa» della ripa infernale, o della montagna del
-
26
purgatorio, che giace o che è corta o che cala o che pende, si abbina allo «scendere» in modo da far
via in giù o in su, indicando la rottura della solitaria arditezza, del luogo «alpestro» a vantaggio del
condiscendere pietoso, del dar via.
Ne è esempio la scesa dal «loco ... alpestro» verso il settimo cerchio infernale, nella fossa
del Flegetonte (Inf. XII, 1-10). Viene paragonata a «quella ruina che nel fianco (equivalente alla
«costa») / di qua da Trento l’Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco»; ivi «è sì la
roccia discoscesa, / ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse» («ut nequeuntibus in arduis perdurare
daretur locus gratie in mediocri statu»: prologo, notabile V); tale è quella che consente a Virgilio e
Dante il passaggio dal monte al piano. Altro caso è la fuga dei due poeti i quali, inseguiti dai
Malebranche, grazie alla «costa» che giace riescono a scendere dalla quinta alla sesta bolgia (Inf.
XXIII, 31-33); oppure il passaggio dalla sesta bolgia alla successiva, facilitato dal fatto che il
pendere, cioè l’inclinare, di Malebolge verso il pozzo centrale fa sì «che l’una costa surge e l’altra
scende» (Inf. XXIV, 34-42). Nel dipartirsi dal male dell’inferno, Virgilio «appigliò sé a le vellute
coste» di Lucifero facendo scala del pelo e scendendo in giù «di vello in vello» (Inf. XXXIV, 73-
75).
Altrove è la montagna del Purgatorio, «roccia sì erta», a calare nella «costa» e a rompere la
propria arditezza per consentire l’erta salita, impossibile a chi va senz’ali (Purg. III, 46-54; IV, 19-
33) o, allentando la ripa che precipita, a fare scale come quelle che consentono di mitigare «l’ardita
foga» della salita di San Miniato, «la chiesa che soggioga / la ben guidata sopra Rubaconte» (Purg.
XII, 100-108). La valletta dei prìncipi si apre «dove la costa face di sé grembo … in fianco de la
lacca» e ivi, condotti da Sordello «tra erto e piano» (che corrisponde allo stato mediocre) per «un
sentiero schembo» (tema dell’essere inclinato), Virgilio e Dante scendono (‘avvallano’) e attendono
il nuovo giorno (tema del quinto sigillo, da Ap 6, 9-11, ove ai santi si dice di aspettare fino al
completamento del numero degli eletti; Purg. VII, 67-72; VIII, 43-44, 46).
Trovarsi in uno stato mediocre (il quinto) viene appropriato sul piano politico a Cesena in
Inf. XXVII, 52-54, nella risposta che il poeta dà a Guido da Montefeltro sulla sua Romagna: «E
quella cu’ il Savio bagna il fianco (la costa), / così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte, / tra tirannia
si vive e stato franco», dove la tirannia è assimilata all’ardua e oltre una certa misura insostenibile
vita degli anacoreti (il quarto stato). Del quarto stato, «stans» (prologo, notabile III), è proprio il
fermo governare le genti «in virga ferrea», il «victoriosus effectus» che deriva dalle res gestae degli
operosi. Nel quinto stato, «declinans» (notabile III), limitato alla Chiesa latina, si provvede a
ricevere le moltitudini - «post tam altos status expedit multitudinem condescensive recipi et primos
secundum proportionem suarum virium sequi» (prologo, notabile V) - e si apprestano le medicine
che ne curino i morbi. Così la cascata del Flegetonte rimbomba verso Malebolge come quella di San
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Benedetto dell’Alpe «per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto» (Inf. XVI, 100-
102), si tratti del mai realizzato castello dei conti Guidi per riunirvi i villaggi circostanti, o della
grande badia camaldolese vuota di monaci. Così, nella nona bolgia, l’oscuro Pier da Medicina, che
vissuto «in su terra latina» concorda perfino nel nome con il ‘medicinale’ quinto stato, ricorda con
nostalgia la pianura padana: «se mai torni a veder lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò
dichina» (Inf. XXVIII, 70-75).
La successione tematica tra quarto, quinto e sesto stato forma l’ossatura dei versi con cui
Tommaso d’Aquino inizia in Par. XI l’elogio di san Francesco (vv. 43-54): al motivo dell’«alto
monte» (quarto stato) si contrappongono quelli dell’acqua «che discende / del colle eletto dal beato
Ubaldo» (il Chiascio) e della «fertile costa» che pende e spezza l�