Storia Di Israele - Mazzinghi

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PREFAZIONE Nel leggere la Bibbia ci troviamo continuamente di fronte a nomi di località o di personaggi spesso ignoti, a narrazioni di eventi la cui portata storica ci sfugge, cosa che rende il testo biblico oscuro e non di rado incomprensibile. D’altra parte, si è spesso portati a identificare in modo molto semplicistico il racconto biblico con i dati della storia reale; più chiaramente, a leggere la Bibbia con superficialità, dando per scontato che ogni racconto che essa narra deve essere senz’altro vero: quando però si scopre che questa corrispondenza non sempre è possibile, anzi, che esiste spesso uno scarto tra ciò che la Bibbia racconta e ciò che è realmente avvenuto, il lettore prova un’impressione di grande sconcerto. Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato che la verità della Bibbia è prima di tutto di ordine salvifico, ciò che Dio ha voluto fosse scritto “per la nostra salvezza” (Dei Verbum 11). Ci troviamo perciò di fronte a una “storia sacra” che rilegge, interpreta, attualizza i dati storici reali in vista del messaggio che i diversi autori biblici intendono dare, quel messaggio che, per il credente, è Parola di Dio. Una “storia” perciò che non è sempre identica a quella che studiamo sui libri e che anzi spesso è molto diversa. Affrontare lo studio della storia di Israele è quindi necessario come strumento indispensabile, non tanto per di- mostrare che “la Bibbia aveva ragione” (per parafrasare il titolo di un noto libro) e neppure che essa aveva torto, quanto per comprendere meglio quanto essa vuole realmente comunicarci. Fin dall’inizio del nostro studio deve essere chiaro che i racconti biblici non sono stati scritti prima di tutto per “informare” il lettore (o, meglio, l’ascoltatore – visto che la Bibbia si ascoltava prima che leggerla), ma per “formarlo”, per educarlo all’accoglienza della Parola di Dio. La breve bibliografia - breve almeno in relazione alla mole dei lavori esistenti - che si trova al termine di questo lavoro mostra come attualmente siano disponibili Storie di Israele di ogni tipo, anche solo limitandosi ai testi scritti o tradotti in italiano. Si va da opere classiche come la Storia di Israele di Noth fino alla dettagliata opera di Soggin, testi, nella maggior parte dei casi, pensati per un pubblico specializzato. Come “Introduzione alla Storia di Israele” questo piccolo libro si indirizza invece a un lettore che affronti per la prima volta e senza preparazione specifica questo argomento, un “manuale di base” pensato per un primo impatto con la storia di Israele. Per questo il testo vuole essere il più possibile semplice e chiaro, 1

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Storia moderna de Israel

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PREFAZIONE

Nel leggere la Bibbia ci troviamo continuamente di fronte a nomi di località o di personaggi spesso ignoti, a narrazioni di eventi la cui portata storica ci sfugge, cosa che rende il testo biblico oscuro e non di rado incomprensibile. D’altra parte, si è spesso portati a identificare in modo molto semplicistico il racconto biblico con i dati della storia reale; più chiaramente, a leggere la Bibbia con superficialità, dando per scontato che ogni racconto che essa narra deve essere senz’altro vero: quando però si scopre che questa corrispondenza non sempre è possibile, anzi, che esiste spesso uno scarto tra ciò che la Bibbia racconta e ciò che è realmente avvenuto, il lettore prova un’impressione di grande sconcerto. Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato che la verità della Bibbia è prima di tutto di ordine salvifico, ciò che Dio ha voluto fosse scritto “per la nostra salvezza” (Dei Verbum 11). Ci troviamo perciò di fronte a una “storia sacra” che rilegge, interpreta, attualizza i dati storici reali in vista del messaggio che i diversi autori biblici intendono dare, quel messaggio che, per il credente, è Parola di Dio. Una “storia” perciò che non è sempre identica a quella che studiamo sui libri e che anzi spesso è molto diversa. Affrontare lo studio della storia di Israele è quindi necessario come strumento indispensabile, non tanto per dimostrare che “la Bibbia aveva ragione” (per parafrasare il titolo di un noto libro) e neppure che essa aveva torto, quanto per comprendere meglio quanto essa vuole realmente comunicarci. Fin dall’inizio del nostro studio deve essere chiaro che i racconti biblici non sono stati scritti prima di tutto per “informare” il lettore (o, meglio, l’ascoltatore – visto che la Bibbia si ascoltava prima che leggerla), ma per “formarlo”, per educarlo all’accoglienza della Parola di Dio.La breve bibliografia - breve almeno in relazione alla mole dei lavori esistenti

- che si trova al termine di questo lavoro mostra come attualmente siano disponibili Storie di Israele di ogni tipo, anche solo limitandosi ai testi scritti o tradotti in italiano. Si va da opere classiche come la Storia di Israele di Noth fino alla dettagliata opera di Soggin, testi, nella maggior parte dei casi, pensati per un pubblico specializzato. Come “Introduzione alla Storia di Israele” questo piccolo libro si indirizza invece a un lettore che affronti per la prima volta e senza preparazione specifica questo argomento, un “manuale di base” pensato per un primo impatto con la storia di Israele. Per questo il testo vuole essere il più possibile semplice e chiaro, rinunciando a quei necessari approfondimenti per i quali si rimanderà, volta per volta, alla bibliografia contenuta nelle note. Semplicità e chiarezza non vogliono però significare banalità e ripetizione di luoghi comuni, né rinunzia totale ad affrontare problemi più complessi e attualmente molto dibattuti come ad esempio la spinosa questione delle origini di Israele. In questo lavoro ho cercato di affrontare lo studio degli eventi e dei principali temi legati alla Storia di Israele con la maggior serietà e completezza possibile, in modo da fornire al lettore un primo semplicissimo orientamento al riguardo. Qualcuno potrà forse restare deluso di fronte a posizioni più sfumate, prudenti e talora, invece, aperte al dubbio, ma occorre ricordare come la storia di Israele sia un campo tuttora apertissimo. Un’Introduzione, dunque, che vuole essere soprattutto un modesto strumento

per comprendere meglio la Bibbia. Penso perciò a un lettore che, dopo aver iniziato a leggere la Bibbia, sente la necessità di un tipo di studio più approfondito ma pur sempre alla sua portata. Per questo non ho risparmiato

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continue citazioni, anche estese, del testo biblico.1 Per lo stesso motivo, visto che ho in mente un pubblico formato prima di tutto da lettori cristiani, mi sono fermato più a lungo sull’epoca romana, dato che essa costituisce l’ambiente storico nel quale si sviluppano i testi evangelici; così ho anche inserito brevi riferimenti al contesto storico di diversi libri dell’Antico Testamento, benché per ciascuno di essi sia sempre possibile far riferimento a opere di introduzione più specifiche.

Prefazione alla nuova edizione.

Questa nuova edizione della mia Storia di Israele esce a quindici anni di distanza dalla prima edizione, pubblicata nel 1991. Durante tutti questi anni il libro è stato più volte ristampato - fino al 2005 - e largamente utilizzato sia nelle Facoltà Teologiche che, in particolare, negli Istituti di Scienze Religiose, con un’accoglienza in genere molto favorevole. D’altra parte, il testo è ormai invecchiato, sia per le nuove scoperte (si pensi ad esempio alla stele di Tell Dan), sia per l’uscita di nuovi studi, come le importanti opere di M. Liverani e di I. Finkelstein – N. A. Silberman; ma cf. già la seconda edizione (2002) della Storia di Israele di J.A. Soggin, oltre al notevole sviluppo degli studi sulla possibilità stessa di scrivere una “storia di Israele”.2 Non erano poi assenti dalla mia prima edizione del 1991 sia qualche errore di stampa di troppo sia qualche “peccato di gioventù” che mi aveva portato a più di una imprecisione. Confesso che sono indirettamente debitore di questa revisione al prof. Paolo Sacchi, la cui frequentazione e l’ormai lunga amicizia mi hanno spinto a un ulteriore approfondimento, oltre ad offrire una presentazione anche del pensiero di Israele alla luce del suo sviluppo storico; una storia delle idee e non solo dei fatti. L’impostazione generale del libro non è tuttavia mutata; mi rendo ben conto

di rimanere nel solco piuttosto tradizionale di tante “storie di Israele” che scorrono in parallelo al testo biblico e che pure hanno la pretesa di essere scientifiche. Per questo motivo, la dimensione critica non verrà mai trascurata, anche a costo di creare più di uno sconcerto in lettori cristiani non di rado realmente ignari di problematiche storiche. D’altra parte, ho in mente un pubblico che per lo più si accosta alla storia di Israele come strumento per una più profonda conoscenza del testo biblico di entrambi i Testamenti. Spero così che il comprendere l’assoluta necessità di una solida conoscenza storica divenga un antidoto alla tentazione, ormai sin troppo diffusa, di concepire il cristianesimo e magari la stessa figura di Cristo come una dottrina teologica e morale che sussisterebbe indipendentemente dai suoi connaturali legami - e quindi anche dai suoi necessari condizionamenti! - con la storia.Questa nuova edizione esce adesso anche in italiano, sulla scia dell’edizione

francese pubblicata da Lumen Vitae … Devo infatti alla grande cortesia e alla notevole competenza di Guy Vanhoomissen l’impulso che mi ha portato a rielaborare a fondo l’edizione italiana del 1991 e a pubblicarne una nuova edizione in francese, interamente riveduta; al prof. Vanhoomissen si deve tra

1 Tutte le citazioni sono tratte dalla Bibbia di Gerusalemme.

2 Cf. l’importante raccolta di studi a c. di L.L. GRABBE, Can a “History of Israel” be written?, London-New York 20042..

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l’altro il glossario che chiude il libro, nonché molti utili suggerimenti sparsi qua e là nel testo. La bibliografia è stata completamente aggiornata, ma resta per lo più in italiano e limitata ai testi più significativi o comunque maggiormente accessibili a un pubblico più vasto. Le Edizioni Dehoniane di Bologna hanno accolto la versione italiana di questo testo, già edito in precedenza da Piemme. Nonostante la profonda revisione, questa Storia di Israele resta quel che era sin dall’inizio, ovvero un “manuale di base” pensato per un pubblico non specialistico che cerca un primo approccio a un argomento che non manca ancora di appassionare.

Bivigliano (FI), dicembre 2006

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INTRODUZIONE

LA TERRA DELLA BIBBIA

… paese fertile, paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame… (Dt 8,7 - 9).

La storia di un popolo si svolge sempre in un determinato ambiente: conoscere la geografia nella quale si collocano gli eventi che si vogliono studiare non è imparare alcune nozioni più o meno erudite ma è un mezzo vitale per comprendere più a fondo il popolo che in quei luoghi ha vissuto. La regione del Vicino Oriente Antico che ci interessa fa parte di quella vasta

zona chiamata comunemente “mezzaluna fertile”, cioè quella fascia di terre coltivabili che si estende dalla Mesopotamia ad est, ai monti dell’Anatolia a nord, fino al Mar Mediterraneo a ovest. A sud si estende una regione interamente desertica, il grande deserto arabico. Attualmente la mezzaluna fertile comprende gli stati dell’Iraq, della Siria, del Libano, della Giordania, di Israele e della Palestina. L’Israele biblico si trova al margine meridionale di tale vasta area geografica, ma in posizione chiave, un ponte con l’altra grande regione, l’Egitto. La terra che fu teatro degli avvenimenti biblici ha ricevuto vari nomi nel corso

della storia: essa fu detta in origine “terra di Canaan”, nome che ritroviamo in testi cuneiformi già verso la fine del III millennio a. C.; nel testo di Is 19,18 l’ebraico viene chiamato “lingua di Canaan”. Il nome sembra essere in relazione con la lavorazione della porpora, uno dei prodotti tipici di questa terra. La stessa regione, definita dalla Bibbia semplicemente “la terra” o la terra d’Israele,3 fu poi chiamata dai Romani Palestina, in seguito alla rivolta

3 Frequente nella letteratura rabbinica, l’espressione “terra di Israele” si incontra raramente nella Bibbia ebraica per designare l’insieme del paese: 1Sam 13,19; Ez 40,2; 47,18; 1Cr 22,2; 2Cr 2,16.

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giudaica del 135 d.C. Il nome Palestina ricorda uno dei popoli che anticamente abitavano la regione, i Filistei.

La terra della Bibbia si estende dai monti dell’Antilibano, a nord, sino al deserto del Neghev, a sud; dal Mar Mediterraneo, a ovest, sino al deserto arabico ad est. La caratteristica forse più sorprendente, per chi non ha mai visitato Israele e lo conosce solo per quanto ha letto nei testi biblici, è che si tratta di una regione relativamente piccola, dove le distanze non sono mai eccessive : appena 120 Km da Gerusalemme a Nazareth, mentre la larghezza - dal mare al Giordano - non supera mai gli 85 Km. La superficie totale dell’attuale stato di Israele e dei territori palestinesi non è superiore a quella del Belgio. Uno sguardo alla carta geografica permette di distinguere quattro fasce ben

delimitabili, da ovest verso est: la costa, la zona montuosa centrale, la fossa giordanica e l’altopiano della Transgiordania. La costa è completamente pianeggiante, ad eccezione dello sperone del monte Carmelo, che forma l’unico porto naturale del paese: ciò può spiegare il fatto che gli Israeliti non sono mai stati un popolo di marinai e che il mare, nella Bibbia, acquista spesso un valore simbolico negativo. Sulla costa passava la “via del mare” (cf. Mt 4,15), la grande arteria commerciale che collegava l’Egitto con Damasco che ancora nel medioevo sarà nota con il nome di via maris. La regione centrale comprende, da nord a sud, la zona montuosa della

Galilea, che termina nella fertile pianura di Yizreel (o Esdrelon), poi le colline della Samaria, con al centro la città di Sichem (l’odierna Nablus) e infine la Giudea, che giunge oltre i 1.000 mt. di altitudine nella zona di Hebron. Al centro, tra Samaria e Giudea, si trova la città di Gerusalemme. Le montagne della Giudea terminano nel vasto deserto del Neghev, che costituisce la parte meridionale del paese. La terza zona è costituita dalla fossa giordanica, una faglia naturale percorsa

dall’unico vero fiume del paese, il Giordano, che nasce alle pendici dell’Hermon (2.814 mt.) e scorre attraverso il lago di Tiberiade (il mare di Galilea di cui ci parlano i Vangeli) già a 120 mt. sotto il livello del mare. Il fiume sfocia, dopo un percorso estremamente tortuoso, nel Mar Morto, che, com’è noto, è la massima depressione nella crosta terrestre (circa 400 mt. sotto il livello del mare). Il Mar Morto è un grande lago dove la salinità che è sei volte superiore a quella del Mediterraneo non permette alcuna forma di vita. La quarta zona è costituita dall’altopiano transgiordanico, regione molto

fertile nella parte settentrionale (le bibliche Galaad e Basan), sempre più brulla e desertica via via che si procede verso sud. La parte centrale, a sud del fiume Yabbok (il fiume della lotta di Giacobbe con Dio, cf. Gen 32), è la regione degli Ammoniti, la cui antica capitale, Rabat Ammon, è la attuale città di Amman. Più a sud si trova la terra di Moab e, quasi ormai nel deserto, il territorio di Edom, ove si trova la celebre città nabatea di Petra.

Da un punto di vista climatico, la regione palestinese presenta due sole stagioni: un’estate calda e asciutta, praticamente senza pioggia, e un inverno freddo e piovoso, che va da fine ottobre a fine aprile: sono questi i periodi delle ‘prime’ piogge e delle piogge ‘tardive’ di cui parla la Bibbia, in assenza delle quali si rischia la perdita del raccolto. Sono anche questi i periodi in cui si fa sentire il vento caldo del deserto, il khamsin. Le zone ove la pioggia è più abbondante, e quindi le zone più fertili, sono le montagne della Galilea e del

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nord della Transgiordania; l’abbondanza delle precipitazioni diminuisce andando verso sud e verso est. A titolo di esempio, Gerusalemme riceve annualmente la stessa media di precipitazioni di Roma, circa 600 mm. di pioggia, mentre Gerico, a soli 35 Km a est, appena 120 mm. Là dove non esistevano sorgenti l’acqua veniva conservata in cisterne che per lo più non erano sufficienti a garantire, nelle zone più aride, una agricoltura molto fiorente. Solo alla fine del II millennio a.C. la tecnica costruttiva permise di realizzare cisterne impermeabili e di poter così abitare quelle zone in cui le precipitazioni estive sono pressoché assenti. Si comprende bene l’estremo contrasto di questa terra: dal clima subtropicale

della pianura costiera si passa a quello tipicamente mediterraneo della regione montuosa centrale per poi scendere alle regioni semidesertiche della fossa giordanica e risalire, dopo poche decine di chilometri, al fertile altopiano della Giordania. Il problema dell’acqua era senz’altro quello più urgente per gli abitanti di Israele: la dipendenza quasi esclusiva dall’acqua piovana trasformava i non infrequenti periodi di siccità in veri disastri per l’agricoltura; gli studiosi ritengono tuttavia che il clima palestinese, durante il II millennio a.C., fosse meno torrido e più piovoso di quello attuale. La grande varietà delle zone geografiche, dal deserto alla montagna alla

pianura fertile, unita alla grande varietà dei climi, costituisce un elemento importante per capire molte vicende politiche e sociali di Israele: ancora oggi la geografia della regione ha la sua parte nel determinare i problemi che affliggono questa parte di mondo, per esempio il problema vitale dell’acqua.

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CAPITOLO I

IL PROBLEMA DEL METODO

Ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto (Lc 1,3-4).

Nell’affrontare l’argomento “Storia di Israele” il lettore della Bibbia rischia di sentirsi subito a disagio: egli ha spesso in mente infatti non la ‘storia’ ma le ‘storie’ che la Bibbia racconta, dalla creazione ai Patriarchi, dal re David ai profeti, fino alle ‘storie’ su Gesù; si tratta di episodi che spesso si collocano su uno sfondo molto nebuloso, tanto che a volte si è tentati di pensare che si tratti quasi di favole. D’altra parte, lo stesso lettore è spesso digiuno di storia e, pensando alla storicità della Bibbia, lo fa in termini banali: questo episodio, che essa ci narra, è avvenuto realmente, sì o no? E se la risposta è ‘no’, oppure ‘forse’, tutta la Bibbia rischia per lui di essere messa in questione. In questo brevissimo capitolo non sarà affrontato il problema della verità della Bibbia - verità che, sia detto per inciso, non è principalmente di ordine storico (cioè la Bibbia è vera perchè narra fatti realmente accaduti), ma di ordine salvifico (la Bibbia è vera perché tutto ciò che è in essa è vero relativamente alla nostra salvezza, vedi quanto si legge al già ricordato numero 11 della Dei Verbum). Ci

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limiteremo qui ad indicare un metodo che ci permetta poi di presentare, in modo speriamo adeguato, i tratti fondamentali della storia di Israele.

Nel 1932 apparve in Italia la Storia di Israele dell’abate Ricciotti,4 nota ben presto anche fuori dai confini nazionali: in quest’opera l’autore si limitava a parafrasare con sapienza il testo biblico, arricchendolo, là dove possibile, di materiali, testi e documenti provenienti dal Vicino Oriente antico, dando così la rassicurante impressione che la storia di Israele si identificasse di fatto con quella narrata nella Bibbia. Questa tendenza a considerare i testi biblici come fondamentalmente storici e a confermarli con l’uso massiccio di prove ar-cheologiche, è tipica della cosiddetta “scuola americana”, sviluppatasi nell’immediato dopoguerra sulla scia degli studi dell’archeologo W. F. Albright; la Storia di Israele di J. Bright, pubblicata per la prima volta nel 19595, ne è forse l’esempio migliore. Posizioni simili sono ben note al grande pubblico attraverso testi come il libro di W. Keller, apparso in prima edizione nel 1955 con il titolo tedesco Und die Bibel hat doch recht, noto in italiano come La Bibbia aveva ragione, ancora oggi molto diffuso. Negli ultimi anni sono venute sviluppandosi posizioni molto meno ottimistiche,

come quelle diffuse in alcuni libri recenti (G. Garbini, M. Liverani, I. Finkelstein - N.A. Silberman), posizioni che minano le fondamenta, ritenute così sicure, delle scuole precedenti. Così scrive ad esempio G. Garbini: «I racconti che si trovano nella Bibbia ebraica tutto sono meno che storici, ed è pertanto ozioso cercare in essa una “idea storica”…»6. L’orientalista italiano M. Liverani e l’archeologo israeliano I. Finkelstein parlano apertamente, a proposito della storicità di molti testi biblici, di “invenzione” e di “prodotto geniale dell’immaginazione umana”. 7

Anche il più moderato J.A. Soggin, autore dell’importante Storia di Israele pubblicata in prima edizione nel 1984, pur non condividendo in pieno le posizioni estreme di Garbini, afferma, a proposito dei patriarchi, che, pur non intendendo «negare aprioristicamente la possibilità che singole tradizioni siano antiche e possano essere ricondotte a epoche prossime agli avvenimenti e alle persone narrate», quello che manca allo stato attuale delle ricerche è la possibilità di una qualunque verifica. Più drasticamente, lo stesso Soggin può affermare che «quello che sappiamo sulle origini del popolo: patriarchi, esodo, conquista, appare del tutto leggendario ed il poco che riusciamo a stabilire contraddice piuttosto che confermare i testi biblici»8. E’ invece possibile, nota Soggin, accertare quello che Israele confessava della propria fede molti secoli dopo i fatti narrati.

4 Cf. la bibliografia conclusiva.

5 J. BRIGHT, A History of Israel, Filadelfia-Londra 1981.

6 GARBINI, Storia e ideologia nell’Israele antico, 248.

7 Si veda al riguardo la mia recensione a Finkelstein e Silberman: «La Bibbia fra storia e mito. A proposito di un recente libro di Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman», Vivens Homo 14/1 (2003) 125-140.

8 Si veda SOGGIN, Storia di Israele, 86 (prima citazione) e «La storiografia israelitica più antica», in La storiografia nella Bibbia, Atti della XXVIII Settimana Biblica, Bologna 1986, 26 (seconda citazione): quest’ultimo testo è un’interessante raccolta di saggi relativi a questo tipo di problemi.

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Da un estremo all’altro, dunque; oggi non è più possibile scrivere una Storia di Israele rileggendo semplicemente la Bibbia: per tentare di uscire da questo vicolo cieco sottolineiamo adesso tre punti importanti da tenere sempre ben presenti.

1. L’uso delle fonti extrabibliche.

Per “fonti extrabiblicche” si intendono tutti i documenti scritti (papiri, tavolette, iscrizioni…) provenienti da fonti estranee alla Bibbia e relativi in qualche modo alla storia di Israele. A partire dal IX-VIII sec. a.C. cominciamo ad avere fonti di questo genere che ci informano su alcuni aspetti della storia di Israele. Il grande problema, per lo storico biblico è che prima di tali date si parla di Israele solo in due testi: la stele del faraone Merneptah che risale al XIII sec. a.C., e la stele di Mesha, re di Moab, del IX sec. a.C. 9 E’ facile concludere che, se noi non avessimo il testo della Bibbia, conosceremmo ben poco di Israele, almeno fino all’epoca monarchica. D’altra parte, quel che conosciamo dai testi biblici non è verificabile tramite altre fonti. La domanda che può venire spontanea a questo punto è “perchè allora non fidarsi semplicemente di ciò che la Bibbia dice?”. Il secondo aspetto che adesso consideriamo, i dati dell’archeologia, ci offre una prima risposta.

2. I dati dell’archeologia.

A lato delle fonti scritte, l’archeologia è anch’essa di grande importanza per la storia di Israele: essa ci permette di ricostruire e quindi di comprendere meglio l’ambiente nella quale la Bibbia nasce e di cui essa parla. Non sempre i dati archeologici sono di facile interpretazione e non è spesso agevole distinguere l’opinione dell’archeologo dai dati da lui riportati.Talvolta poi l’archeologia non dà i risultati sperati: il caso più noto e più

clamoroso è senz’altro quello di Gerico, le cui mura, allo stato attuale delle ricerche, non possono essere affatto quelle crollate al suono delle trombe di Giosué. Un tale risultato può apparire quasi scandaloso a chi è abituato a una lettura superficiale della Bibbia, ma è in realtà un aiuto per comprenderla meglio. Molte altre volte i risultati dell’archeologia contraddicono o non appoggiano il testo biblico: questo ci fa comprendere che le cose sono più complesse di quanto si pensi.

3. Storia e reinterpretazione della storia nella Bibbia.

La Bibbia non è un libro piovuto dal cielo, scritto da un solo autore in un’epoca ben precisa: ogni libro della Bibbia ha una sua - spesso complessa! - storia di composizione, che può essere anche durata secoli. Ciò può sembrare ovvio, ma non va mai dimenticato: se è vero infatti che le parti più antiche del Pentateuco possono risalire nella loro forma scritta, non più in là dell’VIII secolo a.C., ebbene, vi è una distanza di parecchi secoli con i fatti narrati10. Secondo la

9 Per questi testi cf. pp. …

10 Non ci occuperemo, in questa sede,dei problemi - spesso molto complessi - legati alla composizione e alla datazione dei testi biblici, per i quali si rimanda alla lettura di opere di introduzione generale alla Bibbia ed ai singoli libri biblici.

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cronologia più tradizionale, ad esempio, i patriarchi si collocavano nel XVIII-XVII sec. a.C., appunto almeno nove/dieci secoli prima della stesura dei primi testi scritti che ne parlano. L’esempio classico è il testo di Gen 12,6, dove si ricorda che i Cananei abitavano ‘allora’ il paese, ma che evidentemente non ci abitavano più quando, molti secoli dopo i fatti narrati, il testo fu scritto. Questa distanza tra i fatti narrati e i fatti avvenuti rende spesso del tutto impossibile una vera ricostruzione storica degli avvenimenti. A ciò si aggiunga che l’autore biblico rilegge tali avvenimenti alla luce delle condizioni sociali, politiche, religiose del suo tempo; inoltre, egli è interessato al messaggio teologico in essi contenuto, appunto alla “Parola di Dio” che quel fatto rappresenta. Siamo dunque di fronte a testi che si occupano di storia, ma si tratta di storia interpretata e non ci deve dunque meravigliare il fatto che l’interpretazione non corrisponda spesso alla realtà dei fatti.

4. Quando far iniziare una storia di Israele?

Un’ultima questione: quando fare iniziare una storia di Israele? Anche un lettore alle prime armi dovrebbe ormai sapere che l’inizio della storia biblica, il racconto della creazione contenuto in Gen 1-11, non è ‘storia’ in senso proprio. Sembrerebbe dunque opportuno iniziare con la tappa successiva, quella dei Patriarchi, come alcuni degli storici di Israele hanno fatto nel passato. In realtà, già su questo punto c’è una grande diversità di opinioni: alcuni

iniziano la storia di Israele piuttosto con l’Esodo, altri invece con l’unione delle dodici tribù e l’ingresso in Canaan, altri ancora con il periodo dei Giudici, altri con la monarchia davidica. Quest’ultima posizione, che risale agli studi di B. Stade, alla fine del secolo scorso, è difesa nella prima edizione della Storia di Israele di Soggin: «è infatti da allora che Israele comincia ad esistere come entità non soltanto etnica (…) ma anche politica, in quanto si costituisce come stato»11. Alcune Storie di Israele recenti rifiutano esplicitamente ogni tentativo di ricostruire la fase precedente la monarchia: così l’importante Storia di Miller e Hayes conclude il capitolo dedicato alle origini di Israele affermando che «si declina ogni tentativo di ricostruire la storia più antica di Israele»; la trattazione inizia con il periodo immediatamente precedente la monarchia12. Nell’ultima edizione della sua Storia di Israele, Soggin situa invece i regni di David e di Salomone nella parte intitolata “Tradizioni sulla preistoria del popolo”. Per Soggin, in effetti, l’impero di David e Salomone “presenta più problemi di quanti ne potremo mai risolvere. Le fonti che riferiscono su di esso sono tutte di origine tarda e riflettono quindi problematiche di epoche posteriori di molti secoli, quando il popolo, ormai ridotto al solo Giuda, stava passando per esperienze molto spiacevoli”.13

Tutto ciò basta a far capire come le origini di Israele siano realmente il punto più difficile e il più discusso della storia di Israele. Come già si è accennato, il grande problema che lo storico deve affrontare è la pressoché totale mancanza di fonti extrabibliche e di dati per il periodo precedente la monarchia: l’unica

11 SOGGIN, Storia di Israele (prima edizione, Brescia 1984), 54.

12 cf. MILLER-HAYES, A History of Ancient Israel and Judah, 79.

13 SOGGIN, Storia di Israele, 56.

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fonte a nostra disposizione è spesso poco più che la Bibbia stessa, e talvolta neppure quella! Il nostro punto di partenza sarà dunque una breve panoramica su questo spinoso problema delle origini di Israele, tenendo sempre presente che dobbiamo confrontarci con testi biblici ai quali non possiamo chiedere una risposta di ordine puramente storico. Gli autori biblici sono senz’altro mossi anche da un interesse storico e talora

persino ideologico, ma il loro obiettivo primario è prima di tutto teologico: ci troviamo di fronte a una “storia sacra”, per cui la storia di Israele non può coincidere con una semplice parafrasi dei testi biblici, pur se arricchita con dati storico-archeologici. Gli autori antichi, del resto, non riescono a concepire una “storia” in senso moderno, ove la presentazione dei fatti sia il più possibile sganciata dall’elemento religioso. Per la Bibbia, inoltre, a partire dall’opera dei profeti (più o meno intorno all’VIII sec. a.C.) un ulteriore problema è cercare di comprendere il senso dell’agire del Dio di Israele all’interno della storia. Ciascuno di questi elementi dovrà essere tenuto sempre presente se si vuole

in qualche modo arrivare a ricostruire un quadro soddisfacente della storia di Israele: in tal modo, il lettore della Bibbia potrà collocare ciò che legge non su uno sfondo astratto, ma concreto: la storia di un popolo, Israele.

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CAPITOLO II

LE ORIGINI DI ISRAELE

Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce… (Dt 26,5 - 7).

a. I Patriarchi.

Il libro della Genesi presenta Abramo come un migrante, proveniente dalla città di Ur, nel sud della Mesopotamia: la cronologia è molto discussa, tanto che Abramo è stato collocato dagli studiosi in un arco di tempo che spazia dal II millennio a.C addirittura fino all’epoca esilica (VI sec. a.C.). L’opinione più diffusa lo ha collocato attorno al XVIII sec. a.C., in quel periodo archeologico che viene definito «Medio Bronzo II» (tra il 1900 e il 1550 a. C. circa). Si tratta di un’epoca di discreta prosperità per la terra di Canaan14: gli

insediamenti si moltiplicano, in particolare nella regione costiera, nelle colline della Shefela, tra i monti della Giudea e il mare, e nelle valli del nord, cioè nelle zone più accessibili e fertili. La popolazione, di stirpe semitica, vive concentrata in piccole città-stato, a loro volta sotto il controllo politico dell’Egitto che, insieme all’impero babilonese e agli Hittiti, costituisce una delle grandi potenze

14 Per una panoramica della storia del Medio Oriente Antico si veda l’interessante e ricchissima opera di M. LIVERANI, Antico Oriente. Storia, Società, Economia, Bari 1988,in particolare le pagine 661-692 su Israele.

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dell’epoca. I primi documenti che parlano della terra di Canaan risalgono all’inizio del II millennio e sono i cosiddetti “testi di esecrazione” egiziani, figurine d’argilla rappresentanti i nemici fatti prigionieri sulle quali venivano scritti i nomi dei nemici stessi, accompagnati da maledizioni, insieme ai nomi delle città e dei re controllati dall’Egitto. I Cananei costituivano un popolo per lo più sedentario, la cui principale occupazione era l’agricoltura; i patriarchi, invece, ci vengono presentati come seminomadi, pastori di bestiame minuto e, occasionalmente, come piccoli agricoltori, senza dimora stabile: va comunque sfatata l’immagine tradizionale che accosta i patriarchi ai grandi nomadi del deserto, come i beduini che del resto appariranno sulla scena del Vicino Oriente Antico solo molto più tardi. Al di fuori dei testi biblici non possediamo alcuna altra testimonianza

sull’esistenza dei patriarchi e questo non deve sorprenderci, vista la scarsa rilevanza storica che essi potevano avere. Proprio a causa di tale assoluta mancanza di dati, i patriarchi sono stati considerati da alcuni storici come figure mitiche, invenzioni di un’epoca molto tardiva, come quella dell’esilio. La situazione in cui ci troviamo non ci permette neppure di stabilire l’origine

dei patriarchi: si è pensato che essi facessero parte di gruppi semitici emigrati verso ovest all’inizio del II millennio (si è parlato di migrazioni aramee o amorree), ma la questione è ben lontana dall’esser risolta. Una ipotesi molto suggestiva, ripresa oggi da molti studiosi, è quella di collegare le migrazioni patriarcali con i cosiddetti Hapirû, gruppi nomadi e banditeschi conosciuto da testi egiziani, bande che scorrazzavano per il Medio Oriente verso la metà del II millennio a.C. Ma ogni tentativo di identificare con gli ebrei (‘ibrim) questi Hapirû non è stato finora convincente. Allo stesso modo, si è tentato di identificare gli ebrei con un gruppo di seminomadi di origine semitica, gli Shashu, attestati in Egitto tra il XV e il XIII sec. a.C., ma siamo ancora nel campo delle ipotesi. Si è anche tentato, vista l’impossibilità di risolvere questo problema, di

trovare qualche corrispondenza tra le narrazioni patriarcali e il periodo storico a cui esse si riferirebbero (il già ricordato XVIII sec. a.C.). Alcune delle usanze che la Genesi attribuisce ai patriarchi potrebbero effettivamente essere poste in relazione con usanze analoghe note, all’inizio del II millennio, dai testi trovati negli archivi delle città-stato medio-orientali di Mari, Nuzi ed Ebla, archivi recentemente scoperti e ricchissimi di testi. Si citano a questo proposito l’uso di adottare il figlio avuto da una schiava (come fa Abramo con Ismaele), l’uso di avere una schiava come concubina (Abramo e Agar), oppure la cosiddetta “legge del levirato”, per cui si era tenuti a sposare la moglie del fratello morto senza figli. Queste ed altre usanze relative allo stile di vita dei patriarchi così come ci appare dai testi biblici possono trovare qualche corrispondenza con i costumi delle tribù seminomadi che vivevano, all’inizio del secondo millennio a.C., nell’ambito delle città-stato sopra ricordate, anche se questo tipo di parallelismo è tutt’altro che sicuro15.

15 Per quanto riguarda il nomadismo e lo stile di vita dei patriarchi quale ci è narrato dai testi biblici, ha ancora valore l’opera classica di DE VAUX, Istituzioni dell’Antico Testamento, 13-26. Sullo stato della questione relativa alla storicità dei racconti patriarcali cf. G. COUTURIER (ed.), Les Patriarches et l’histoire. Autour d’une article inédit du pére J.M. Lagrange o.p., Cerf-Fides, Paris-Montréal 1998.

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Secondo i racconti genesiaci la religione dei patriarchi è la stessa che avrà poi Israele: la fede in YHWH.16 Ma altri testi del Pentateuco suggeriscono un quadro differente: il noto testo di Es 3,13-15 considera Mosè come il primo cui fu rivelato il nome sacro, mentre Es 6,3 afferma esplicitamente che i Patriarchi non conoscevano YHWH, ma invocavano Dio sotto il nome piuttosto misterioso di El Shadday. A partire dagli anni Trenta si è sviluppata la tesi di A. Alt sul “Dio dei Padri”: il

Dio dei patriarchi, che successivamente verrà chiamato Yahweh, sarebbe un Dio personale, il “Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe”, che, nella Genesi riceve nomi come “il Dio di mio padre” (Gen 31,5), il “Terrore di Isacco” (Gen 31,42. 53), il “Potente di Giacobbe” (Gen 49,24); ci troviamo di fronte a un Dio di famiglia, che privilegia l’etica prima che il culto. Non è possibile discutere nei dettagli la tesi di Alt, anche se l’ipotesi del “Dio

dei Padri” appare suggestiva. In realtà, la religione dei patriarchi non sembra essere tanto quella di un particolare gruppo storico pre-mosaico, quanto piuttosto un modo di concepire Dio da sempre diffuso all’interno del popolo d’Israele. Proiettando all’indietro nel tempo le promesse divine, i testi genesiaci uniscono la religione fondata sulle promesse a quella fondata sulla Legge17. I patriarchi adorano un Dio che porta lo stesso nome del capo degli dei cananaici, El; lo venerano in santuari come Betel, Dan, Mambre, Sichem, probabilmente legati a culti cananaici. Quando molto tempo più tardi gli israeliti inizieranno ad adorare YHWH come unico Dio, lo identificheranno con lo stesso Dio El, conosciuto dai patriarchi.

Lo storico, vista la povertà di dati a sua disposizione, non può dire molto più di questo: la storia patriarcale contenuta in Gen 12-50 è essenzialmente una storia di famiglie; appena tre generazioni (Abramo-Isacco-Giacobbe) nello spazio di ben tre secoli! E’ chiaro che ci troviamo in ogni caso davanti alla semplificazione di una storia molto più complessa. Un elemento importante che non va mai dimenticato è il fatto che il testo

biblico rilegge e attualizza la storia patriarcale: nel libro della Genesi, il celebre testo di 12,1-4a è in realtà, molto probabilmente, un testo tardivo che intende rileggere l’intera vicenda di Abramo come incoraggiamento per gli esuli ebrei a Babilonia. Così non deve stupirci il fatto che l’itinerario che porta Abramo da Ur dei Caldei (popolo che nel XVIII sec. non esisteva ma che, significativamente, è presente quando il narratore scriveva, nel VI sec. a.C.) sino alla terra di Canaan è lo stesso itinerario percorso dagli esuli di Babilonia durante il loro ritorno in patria: in tal modo la storia patriarcale acquista, nel testo biblico, un valore simbolico ed educativo che va molto al di là della sua storicità.

16 Indichiamo con YHWH (il “tetragramma”) il nome di Dio connesso molto probabilmente con un forma del verbo ebraico hyh, “esserci” ed anche “divenire”; la sua pronuncia poteva essere forse Yahweh e il senso sembra essere “colui che c’è”, “che esiste”, ovvero colui che è presente. L’ebraismo successivo, come il primo cristianesimo, sostituì questo nome con Adonai, ovvero “Signore” (Kyrios, in greco). Cf. la bibliografia citata nella nota successiva.

17 La storia della religione di Israele è problema estremamente complesso, in particolare la questione relativa alla nascita e allo sviluppo dello jahwismo. Ricordo le recenti traduzioni italiane delle opere di A. LEMAIRE, La nascita del monoteismo, Brescia 2005 (originale francese del 2003) e R. ALBERTZ, Storia della religione dell’Israele antico, 2 voll., Brescia 2005 (originale tedesco del 1992).

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b. Israele in Egitto

Nel libro dell’Esodo si narra, come tutti ben sanno, l’uscita degli Israeliti dall’Egitto; il libro della Genesi termina a sua volta con i capitoli 37-50 (la cosiddetta “Storia di Giuseppe”) che hanno evidentemente la funzione di introdurre la narrazione dell’Esodo, riferendo la discesa degli Ebrei in Egitto. La “Storia di Giuseppe” sembra presentarsi, a prima vista, come ben informata relativamente all’ambiente egiziano: in Gen 41,43. 45 si usano parole e nomi egiziani abbastanza comuni (ad eccezione della misteriosa parola abrek del v. 43). La posizione assunta da Giuseppe – “maestro di palazzo” o “gran vizir” del faraone non è insolita, visto che nell’Egitto del II millennio poteva accadere che uno straniero si trovasse in posizione di grande potere. Ma il riferimento storico forse più attendibile si ritrova in Es 1,11, dove si legge che gli Israeliti furono addetti alla costruzione delle città di Pitom e Ramses: Ramses è una città del delta del Nilo ricostruita con tal nome probabilmente sotto il faraone Seti I o sotto il suo successore, Ramsete II, verso il XIII sec. a.C. Della stessa epoca possediamo alcune testimonianze - contenute nelle relazioni di guardie di frontiera egiziane - relative all’ingresso in Egitto di gruppi di pastori provenienti dal Medio Oriente, gruppi ai quali venivano concesse in uso terre egiziane come pascoli per i loro greggi. L’ingresso degli Israeliti potrebbe rientrare in questo tipo di migrazioni. Tutto questo, però, non ci dice nulla sulla reale storicità di Gen 37-50: le fonti

egiziane non dicono niente circa una venuta di “Israele” in Egitto e gli elementi sopra accennati possono far concludere al massimo che la presenza di gruppi semitici in Egitto, nel corso del XIII sec., è un fatto verosimile; tra questi gruppi potrebbe trovarsi allora la “casa di Giacobbe” cui la Genesi e l’Esodo fanno riferimento. La “storia di Giuseppe” sarebbe dunque da collocarsi non nel XVIII o XVII sec., secondo la cronologia tradizionale sui patriarchi, ma almeno quattro secoli più tardi. Il testo di Gen 37-50 è in ogni caso non tanto una narrazione a sfondo storico, ma piuttosto un’opera scritta con intenti ben precisi, per mettere cioè in luce i temi della fraternità, della paternità, del buon governo e, soprattutto, l’immagine di un Dio che guida la storia rovesciando le prospettive umane (si veda ad esempio Gen 45,5-8 e 50,24). Ciò che Gen 37-50 ci dice sull’Egitto è in realtà quel che poteva sapere uno scriba ebreo bene informato durante l’epoca monarchica.Secondo il racconto di Es 1,8 l’oppressione nasce da un cambio di dinastia:

“un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe”, dove il riferimento potrebbe essere relativo all’avvento al trono del grande faraone Ramsete II (l290-1224 a.C., secondo una delle possibili cronologie) o forse al passaggio tra la XVIII e la XIX dinastia avvenuto con Seti I, predecessore di Ramsete II. Anche in questo caso, tuttavia, le fonti egiziane tacciono e la stessa tradizione

biblica è divisa tra il ricordo dei lavori forzati (Es l,8-14), storicamente più verosimile, e il decreto del faraone che prevede la morte per tutti i figli maschi (Es l,l5-22); è evidente, in Es 1, la coesistenza di tradizioni letterarie diverse. Sia i motivi sia la vera natura dell’oppressione ci sfuggono: sappiamo però

che i lavori forzati cui stranieri, prigionieri di guerra e schiavi erano obbligati in Egitto sono realtà ben note allo storico. Possediamo documenti su papiro risalenti alla XIX dinastia relativi all’impiego di schiavi e di prigionieri di guerra, dei quali si fissa, per esempio, la razione giornaliera di cibo.

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Nel racconto dell’Esodo l’uscita dall’Egitto è strettamente legata al nome di Mosè. Il significato stesso di questo nome rimanda ancora una volta a un contesto egiziano, in questo caso molto verosimile: mosis è un suffisso egiziano che significa “figlio di”, legato frequentemente al nome di qualche divinità egiziana, come ad esempio Tut-mosis, “figlio del dio Tut”. Il testo di Es 2,l0 dà del nome ebraico Mosheh una etimologia popolare, facendolo derivare dall’ebraico mashah, cioè “trarre fuori”, in relazione ovviamente all’evento miracoloso del suo salvataggio dalle acque del Nilo. La nascita di Mosè è narrata secondo uno schema ben noto nell’antichità, schema che ritroviamo nella leggenda di Sargon I re di Akkad (vissuto nel 2334-2280 a.C. circa, ma i testi scritti della sua leggenda che sono a nostra disposizione sono molto più recenti): già nel caso di Sargon abbiamo un bambino (il re Sargon, appunto) nato in segreto e salvato dalla madre in un cestello di giunchi abbandonato sul fiume e ritrovato da un personaggio (un portatore d’acqua, nella storia di Sargon) che alleva poi il bambino, destinato a grandi imprese. Questo probabile parallelo fa pensare che al nucleo storico relativo al personaggio-Mosè si siano poi aggiunte tradizioni e riletture successive che rendono difficile metterne a fuoco il valore storico preciso. Mosè appare, in ogni caso, come una figura chiave del Pentateuco, anche se

nel resto della Bibbia ebraica è relativamente poco ricordato, almeno in proporzione all’importanza che egli ha nei primi cinque libri della Bibbia: in essi invece, oltre alla parte avuta nell’uscita dall’Egitto, Mosè appare anche come il fondatore dello yahwismo, il mediatore tra Dio e il popolo, colui al quale - secondo il racconto di Es 3,l3-l5 - Dio ha rivelato il suo nome, YHWH, e ha donato la sua Legge, la Tôrah (cf. Es l9-24).

c. Esodo e Sinai.

Nel libro dell’Esodo, il racconto dell’uscita dall’Egitto inizia con la celebre descrizione delle piaghe, che comprende quasi ben cinque capitoli, da Es 7,l4 fino a Es 11,10. In un passato non troppo lontano molti esegeti si sono sforzati di darne una spiegazione scientifica, cercando di collegare le piaghe con fenomeni naturali più o meno comuni in Egitto18. Questo tipo di concordismo è ormai superato e il motivo di questo superamento sta nello stesso testo biblico. Nel lungo racconto sulle piaghe emergono infatti almeno tre tradizioni diverse, con numerose contraddizioni interne. Le piaghe sono poi menzionate in due altri testi della Bibbia ebraica, con numeri diversi: sono infatti nove in Sal 78,43-51 e otto in Sal 105,27-36. Inoltre, si può facilmente notare come ogni piaga viene narrata secondo uno schema letterario ben preciso che, andando al di là del semplice fatto storico, ne mette in risalto piuttosto il valore teologico di “segno”.19 Nel preludio al racconto delle piaghe (Es 7,l-5) esse sono

18 In questo modo, ad esempio, la prima piaga, le acque del Nilo cambiate in sangue farebbe riferimento al fenomeno naturale che durante la grande piena di Luglio-Agosto colorerebbe di rosso l’acqua del fiume a causa della presenza di un micro-organismo chiamato Euglana sanguinea. Il più completo tentativo di ricostruzione scientifica in tal senso resta quello di G.HORT, «The Plagues of Egypt», ZAW 69 (1957) 84-103; 70 (1958) 48-59, studio ripreso in molti commenti successivi.

19 Cf. le chiavi di lettura presentate da G. VANHOOMISSEN, Cominciando da Mosè. Dall’Egitto alla Terra Promessa, EDB, Bologna 2004, 131-140.

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chiamate proprio “segni e prodigi” (v. 3) mediante i quali gli Egiziani “sapranno che io sono il Signore” (v. 5). Così, dietro il ricordo di fatti che, ancora una volta, non ci è più possibile precisare, si colloca il chiaro intento teologico dei narratori, che scoprono in quei lontani eventi la presenza di Dio nella storia del popolo e a questa luce li trasmettono agli uomini del loro tempo. La stessa cosa avviene anche per il passaggio del Mar Rosso (il celebre e

bellissimo testo di Es 14): bisogna intanto ricordare che il testo dell’Esodo non parla in realtà di “mar Rosso”, ma piuttosto di “mare delle Canne” o “dei Giunchi”, che non corrisponde al Mar Rosso che noi conosciamo oggi. I tentativi di identificare il punto esatto del passaggio degli Israeliti si sono moltiplicati: si è pensato ai Laghi Amari, nella zona a est del Delta, dove oggi passa il Canale di Suez; si è pensato anche alla zona costiera presso il Mediterraneo, zona paludosa che ben spiegherebbe l’espressione “Mare delle Canne”. Ma ancora una volta siamo nel campo delle ipotesi, più o meno discutibili. La redazione sacerdotale dell’Esodo fa del passaggio del mare un corteo

trionfale tra due muraglie d’acqua (cf. Es 14,22), mentre in una tradizione parallela, forse più antica, il “miracolo” è, più semplicemente, il vento d’oriente che prosciuga l’acqua del mare permettendone il guado (cf. Es l4,21). Esiste almeno un’altra versione dell’accaduto, in Es 14,24-25, che parla più semplicemente della fuga degli Egiziani, bloccati dal Signore nel loro campo e impossibilitati a inseguire gli Israeliti. Per spiegare questo tipo di contraddizioni, dovute all’esistenza di versioni divergenti e spesso contraddittorie, è nata la nota teoria di R. De Vaux20 secondo il quale non siamo di fronte ad uno ma a due differenti esodi dall’Egitto, un “esodo-fuga” e un “esodo-espulsione”. Così, l’uscita dall’Egitto sarebbe avvenuta in tempi e modi diversi da parte di almeno due gruppi di Israeliti, uno fuggito, l’altro espulso: ciò risolverebbe il problema della diversità di tradizioni. Cronologicamente tutto ciò si collocherebbe intorno al 1250 a.C., cioè all’epoca di Ramsete II21. Accettando o meno questa teoria, del resto molto discussa, ci possiamo rendere conto di come le motivazioni teologiche che sottostanno al testo biblico abbiano anche in questo caso la preminenza sulla esattezza storica che in casi come questo sarà impossibile ottenere. Le fonti egiziane ignorano questo avvenimento (pur se nel papiro Anastasi V abbiamo la relazione di un ufficiale di frontiera che insegue un gruppo di schiavi fuggitivi) il cui ricordo resta più nella memoria teologica di Israele che in quella tramandata dai documenti storici.

Il racconto dell’uscita dall’Egitto prosegue con un altro evento chiave nel racconto del Pentateuco, l’arrivo al monte Sinai (chiamato anche Horeb), l’alleanza con Dio e il dono della Legge, una lunghissima sezione che va da Es

20 R. De Vaux, celebre domenicano, biblista e archeologo francese morto nel 1971, membro dell’Ecole Biblique di Gerusalemme, è stato il direttore della traduzione biblica a tutti nota come la Bibbia di Gerusalemme, uscita nella sua prima edizione francese nel 1955 (l’ultima edizione è del 1998). Per la teoria del doppio esodo, si vedano ancora le note a Es 11,1 e 13,17 nell’ultima edizione francese della Bible de Jérusalem.

21 Con ciò la teoria di De Vaux servirebbe molto bene a spiegare anche la diversità di itinerari che il testo biblico attribuisce agli Israeliti in fuga: mentre in Es 14,2-9 gli Israeliti sembrano passare dal nord, la strada “dei Filistei”, sulla costa mediterranea, il testo di Es 13,l7 afferma esplicitamente che tale strada fu evitata.

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19, attraverso il libro del Levitico, fino a Nm 10,33, quando gli Israeliti ripartono dal Sinai. Tradizionalmente si identifica il monte Sinai con l’attuale Jebel Mussa (2244

mt. di altezza, nella parte meridionale della penisola sinaitica) ove oggi si trova il celebre monastero greco-ortodosso di Santa Caterina. L’identificazione è stata più volte messa in dubbio, esattamente come nel caso del passaggio del mare e si è pensato addirittura ai monti dell’Arabia22: anche in questo caso il lettore moderno non vedrà soddisfatta la sua curiosità. Sul monte Sinai/Horeb il testo di Es 20,1-17 colloca la celebre tradizione sul “decalogo” che il Signore avrebbe donato a Mosè; gli studi attuali hanno ormai messo in luce come il testo del decalogo vada considerato parte di una tradizione di epoca monarchica la cui origine è senz’altro indipendente da quella sinaitica (v. la chiara frattura tra la fine del c. 19 e Es 20,1). Il periodo passato dagli Israeliti nel deserto è calcolato secondo la cifra

convenzionale di 40 anni (cf. Num 14,34): si tratta in realtà di un periodo di tempo molto indefinito in cui quel gruppo (o quei gruppi, se volessimo accettare la teoria di De Vaux) di Israeliti usciti dall’Egitto inizia ad avere una fisionomia più precisa e comincia ad esistere come popolo. Ma tutto ciò ci rimanda ad un problema ben più complesso, quello cioè delle origini di Israele come popolo e della sua presenza nella terra di Canaan.

d. L’installazione in Canaan: il problema delle origini.

Al Museo Egiziano del Cairo è ben visibile la stele del faraone Merneptah, scoperta dall’archeologo inglese Flinders Petrie nel 1895 e databile, seppur con una certa approssimazione, intorno al 1220 a.C.. La stele riporta un’iscrizione di 28 righe con l’elenco delle vittorie ottenute dal faraone. Alle righe 26 e 27 il testo parla della sottomissione delle popolazioni dell’Asia: si nominano gli Hittiti, i Cananei, le città di Ascalon, Ghezer e Yanoam e si aggiunge - almeno secondo l’interpretazione corrente - “Israele è annientato, non ha più seme”.23 Va sottolineato come studi recenti abbiano contribuito a minimizzare le

conquiste del faraone vantate nella stele; oggi dovremmo parlare al riguardo di letteratura di propaganda. Si tratta comunque di un testo molto importante, perché, per la prima volta, viene attestata l’esistenza di una entità “Israele”, preceduta, secondo l’uso egiziano, dal determinativo che non indica una città, ma un “gruppo”, il che potrebbe indicare una popolazione non ancora sedentarizzata. Geograficamente Israele viene collocato nella stele a lato delle città-stato della terra di Canaan, senza che tuttavia possiamo conoscerne con più precisione l’esatta localizzazione. La versione che potremmo definire “canonica” dell’ingresso di Israele in

Canaan è ben nota: secondo il libro di Giosuè si è trattato di una vera e propria

22 L’archeologo E. Anati ha proposto di identificare il Sinai con lo Har Kharkom, un monte nel deserto del Neghev, presso l’oasi di Qadesh, una delle tappe del cammino nel deserto: oltre alla fragilità delle prove archeologiche riportate da Anati, resta del tutto discutibile la sua pretesa di voler datare l’esodo addirittura nel III° millennio a.C. Cf. E. ANATI, Har Kharkom. Montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Milano 1984.

23 Una parte del testo della stele è disponibile in traduzione italiana in L’Antico Testamento e le culture del tempo, 151.

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conquista militare, una città dopo l’altra. Secondo il racconto biblico, il popolo di Israele, dopo la morte di Mosè, sotto la guida del suo successore Giosuè, passa il Giordano che miracolosamente arresta il suo corso (Gs 3,14-17), entrando in Canaan e conquistando tutto il paese a partire dalla città di Gerico, dove avviene il celebre prodigio del crollo delle mura al suono delle trombe (Gs 6). In questa azione, tutte e dodici le tribù agiscono concordi, come un vero e proprio esercito, con l’accompagnamento di altri prodigi e miracoli: si ricordi ancora un altro episodio, il sole che si arresta su Gabaon (Gs 10,10-15), testo che per molto tempo verrà preso alla lettera, quasi come un’affermazione scientifica circa il sole che gira attorno alla terra.24 L’inizio del libro dei Giudici ci presenta invece una versione della conquista

piuttosto diversa: il testo di Gdc 1,1-2,5 mostra le singole tribù in azione l’una indipendentemente dall’altra, non tutte unite come nel racconto del libro di Giosuè. Inoltre Gdc 3,l-6 è un lungo elenco di popolazioni locali che Israele non avrebbe scacciato: a ben guardare, la “conquista” si sarebbe limitata a zone scarsamente popolate, mentre le potenti città-stato della pianura sarebbero rimaste intatte: «Il Signore fu con Giuda, che scacciò gli abitanti delle montagne, ma non potè espellere gli abitanti della pianura, perchè muniti di carri di ferro» (Gdc 1,19). L’inizio del cap. 2 del libro dei Giudici legge questa mancata conquista in chiave teologica: Israele non ha ascoltato la voce di Dio, perciò Dio non ha scacciato del tutto i popoli di Canaan dalla loro terra (Gdc 2,l-5). E’ interessante vedere, infine, come in almeno un caso lo stesso libro di Giosuè sia testimone del fatto che la conquista avvenne in realtà in modo pacifico (v. Gs 8,30-35, a proposito della presa di Sichem). A proposito delle tribù, il libro dei Giudici fa comprendere come esse fossero ben lontane dall’essere unite: le tribù del nord agiscono sempre in modo indipendente (l’antico “canto di Debora” in Gdc 5 ne nomina soltanto sei); Beniamino appare escluso e addirittura nemico delle altre tribù (Gdc 19-21), mentre le tribù transgiordaniche (Gad e Manasse) e quelle del sud (Giuda) appaiono del tutto autonome dalle altre. Il testo biblico ci presenta dunque un evidente contrasto tra la descrizione di

una conquista unitaria e militare del paese (Gs) e una conquista più lenta e frammentaria (Gdc): è uno degli scogli che lo storico deve affrontare, se vuole dare una risposta plausibile al problema delle origini di Israele. Si tratta di una questione che è stata molto studiata in questi ultimi anni, dando vita a diverse teorie in proposito; dobbiamo subito confessare che una soluzione accolta da tutti è ancora lontana e la discussione resta aperta.

1) La soluzione apparentemente più ovvia è seguire il racconto del libro di Giosuè: Israele cioè entra in Canaan, come insieme di tribù unite, provenienti dall’Egitto e conquista militarmente il paese25. L’obiezione principale a questa posizione viene dai risultati della archeologia: è senz’altro vero che diverse città che Giosuè avrebbe distrutto intorno al 1250-1200 a.C. risultano in rovina, ma è altrettanto vero che i motivi di tali distruzioni possono essere fatti risalire

24 Si ricordi l’opposizione che la chiesa fece all’ipotesi eliocentrica di Galileo Galilei 1564-1642), che sembrava negare tali supposte verità bibliche!

25 La teoria della singola invasione militare è sostenuta in particolare da quella che possiamo chiamare la “scuola americana”, a partire dagli scavi di W.F. Albright (1920-1930) in poi (cf. p. …).

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a incursioni filistee, a campagne militari egiziane, tutt’altro che infrequenti, o perfino a cause naturali come incendi o terremoti. Inoltre, alcune delle città che Giosuè avrebbe conquistato e distrutto risultano semplicemente disabitate, durante quel periodo: è il caso di Arad, Ai e, più noto, il caso di Gerico. Quest’ultimo è per noi un esempio molto istruttivo: una campagna di scavi,

condotta a Gerico nel 1930-1936, fece pensare - con grande entusiasmo degli archeologi - di aver ritrovato quelle mura in rovina che sarebbero crollate al suono delle trombe israelite. Gli scavi successivi, a vent’anni di distanza, dimostrarono che tali mura, ancora oggi ben visibili, risalgono in realtà al periodo del Bronzo Antico, ovvero più di un millennio prima della usuale datazione della conquista; intorno al 1250-1200 a.C. la città appare, almeno allo stato attuale delle ricerche, semplicemente abbandonata; non vi sono tracce di mura né di una loro eventuale distruzione.26 E’ evidente come basti questo dato archeologico a mettere in crisi tutta la

teoria relativa ad una conquista militare, i cui sostenitori si rifugiano a volte nella affermazione che i resti della Gerico di Giosuè sarebbero stati asportati dall’erosione, cosa che naturalmente non può essere provata. Alla base del racconto della conquista di Gerico come lo leggiamo in Gs 6 bisogna allora leggere un racconto cultuale, che trasforma un episodio di conquista in un atto liturgico, un gesto sacro celebrato dai sacerdoti. L’intento del libro di Giosuè, prima di essere storiografico, è del resto teologico, quello cioè di esortare gli israeliti alla fiducia in YHWH e all’osservanza della sua Legge (cf. ciò che Dio chiede a Giosuè in Gs 1,1-9).

2) Fallito il tentativo di giustificare storicamente la visione della conquista quale il libro di Giosuè ci presenta, si è pensato ad elaborare un modello diverso che parte dall’idea di una infiltrazione graduale e pacifica almeno nella fase iniziale, da parte di singoli gruppi di Israeliti27. “Israele” sarebbe dunque costituito da una serie di tribù seminomadi che, all’inizio dell’età del ferro (1200-1150), si sarebbero insediate, prima pacificamente e, solo in seguito, anche con la forza, sulle montagne della regione centrale, cioè nelle regioni meno popolate. Un tentativo di accordare questa teoria con la precedente, operato ancora

una volta da R. De Vaux, parla piuttosto di “insediamento”, cercando di mostrare come l’installazione degli Israeliti in Canaan sarebbe avvenuta in parte in modo graduale (delle enclaves cananaiche sarebbero esistite sino al tempo di David) e pacifica, almeno in un primo tempo, per conoscere poi lotte durante il periodo dei Giudici.

3) Negli anni Sessanta e Settanta si è tentata un’altra via, un tentativo di spiegazione da un punto di vista sociologico: due autori (G.E. Mendenhall e

26 Cf. l’eccellente dossier «Gerico» pubblicato nel Mondo della Bibbia, ElleDiCi, Leumann (TO) 18 (1993).

27 La teoria nasce in ambito tedesco con gli studi di A. Alt alla fine degli anni Trenta, studi ripresi poi da M. Noth (+1968): quest’ultimo elaborò l’idea della “lega delle dodici tribù” (da lui chiamata con termine greco di anfizonia). Israele sarebbe nato, secondo Noth, come unione delle dodici tribù attorno a un unico luogo di culto, scelto per la presenza dell’Arca della Alleanza. Benché la teoria, senz’altro suggestiva, abbia trovato in partenza molti sostenitori, è stata successivamente messa in discussione: in particolare non esistono prove certe relative all’esistenza di dodici tribù unite in una simile lega sacra.

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N.K. Gottwald) hanno proposto una visione del tutto nuova, circa la nascita di Israele. Non ci sarebbe stata alcuna conquista, né alcuna infiltrazione o insediamento: Israele sarebbe sempre stato in Canaan e si sarebbe formato come popolo soltanto in seguito alla rivolta delle classi contadine contro la potenza delle città-stato cananee. Sotto l’influsso di gruppi di leviti provenienti dall’Egitto si sarebbe anche sviluppato il culto di YHWH, da quei gruppi sperimentato nel deserto. L’idea di una rivolta contadina chiarisce come mai questa teoria abbia avuto

fortuna nell’epoca in cui è apparsa: si tratta purtroppo di un presupposto finora non suffragato da prove sufficienti, che ha tuttavia il pregio di sottolineare l’aspetto sociale, fino ad allora poco considerato, delle origini di Israele. Inoltre, secondo questa teoria, non ci sarebbe stato alcun arrivo di Israele “da fuori”; gli israeliti nascono dall’interno stesso della terra di Canaan. Su questo punto dobbiamo ancora riflettere alla luce di una teoria ancora più recente.

4) Quale soluzione dunque? Si deve onestamente ammettere che una risposta certa non è stata ancora data. Sulla base delle conoscenze attuali si possono raggiungere come già si è accennato conclusioni solo probabili, che cercheremo adesso di esporre alla luce di una teoria oggi accolta da molti studiosi. Alla fine dell’età del Bronzo, tra il 1400 e il 1200 a.C. circa, la terra di Canaan

si presenta abitata da popolazioni di origine semitica (i cananei, appunto), raggruppati, come si è visto, in città-stato sotto il controllo egiziano. Proprio queste città attraversano, in tale periodo, un momento di crisi. Con una certa approssimazione, gli archeologi calcolano che la popolazione di Canaan sia scesa, nel Tardo Bronzo, a soli 60-70.000 abitanti, dai circa 140.000 del Bronzo Medio; cifre così basse non ci devono stupire; solo le successive innovazioni tecniche e l’introduzione del ferro, infatti, consentiranno un miglioramento dell’agricoltura e la crescita della popolazione anche in zone sino ad allora disabitate. Siamo così di fronte a una sorta di “collasso” del quale ancora non conosciamo le cause. Molte località risultano abbandonate, altre distrutte e, tra queste, le città di Betel, Debir, Lachish, Meghiddo, Hazor, località tutte ricordate nel libro di Giosuè. Inoltre, all’inizio dell’età del Ferro, si nota un rapido incremento della popolazione, con un aumento del numero degli insediamenti, in particolare nelle già ricordate zone montuose centrali, sino ad allora le più spopolate. Ciò si può in parte spiegare con l’introduzione dell’uso del ferro, che permette il disboscamento delle zone collinari e l’uso dei terrazzamenti. Abbiamo perciò indizi che, a cavallo tra l’età del Bronzo e quella del Ferro I, cioè più o meno attorno al 1200 a.C., il periodo tradizionale della “conquista”, nella terra di Canaan si passa da un periodo di crisi ad uno di maggior prosperità e di nuovi insediamenti; circa duecentocinquanta nuove piccole comunità rurali, non fortificate, nelle regioni montuose di Canaan, attestanti l’esistenza una popolazione a carattere agro-pastorale, organizzata non come le città-stato, ma su basi etnico-tribali: tra questi nuovi insediamenti potremmo collocare quelli degli Israeliti. 28 Se la presenza degli Israeliti in questo periodo appare quanto meno

verosimile, resta il dilemma della loro provenienza: un notevole problema è costituito dal fatto che questi nuovi insediamenti non rivelano affatto la 28 O dei “proto-israeliti”, cf. LIVERANI, Oltre la Bibbia, 58-87, specialmente per la descrizione degli insediamenti in questione.

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presenza di una nuova popolazione: gli abitanti di queste località non sembrano differenziarsi dalle locali popolazioni cananaiche né per le tecniche edilizie o agricole usate né per la ceramica né, più in generale, per la cultura. Ciò si spiega solo affermando che tra Israeliti e popolazioni cananaiche non vi sarebbero vere e proprie differenze etniche: Israele non avrebbe soppiantato d’un colpo le altre popolazioni cananaiche, anch’esse di origine semitica, ma si sarebbe gradualmente affiancato ad esse, differenziandosi da loro soprattutto sul piano religioso. Se ciò fosse vero, gli Israeliti sarebbero il prodotto, e non la causa del collasso delle città-stato cananaiche. Già su questo piano tuttavia, si possono osservare notevoli parentele tra gli

Israeliti e le altre popolazioni cananaiche: per esempio, il Dio El, adorato dai patriarchi (cf. Gen 33,20), porta lo stesso nome del capo degli dei cananaici. Portando all’estremo le conseguenze di simili affermazioni si è oggi arrivati a sostenere la tesi di un “Israele cananeo”29. Solo dopo molto tempo YHWH si imporrà su Baal, uno dei più importanti dèi del paese di Canaan (si ricordi la sfida di Elia con i sacerdoti di Baal narrata in 1 Re l8), un processo che si completerà finalmente in epoca esilica (VI sec. a.C.). Quella che noi chiamiamo “conquista” va dunque riconsiderata come un

processo molto più complesso che i testi biblici, sia il libro di Giosuè che quello dei Giudici, hanno successivamente riletto alla luce della loro peculiare visione religiosa: si ritiene oggi, ad esempio, che la concezione relativa all’esistenza delle dodici tribù unite nasca solo dopo l’istituzione della monarchia. Il libro di Giosuè ha conservato e amplificato una tradizione militare che deve essere stata minima, mentre la versione del libro dei Giudici appare storicamente più verosimile; i singoli gruppi tribali vivono separati tra loro e si uniscono per ragioni di difesa o in base a una fede religiosa comune. Nella varietà delle teorie proposte, e a proposito di quest’ultima in modo

particolare, resta da risolvere la contraddizione esistente tra questi elementi: la coscienza biblica di un Israele “straniero” (il soggiorno in Egitto e il cammino nel deserto), che appare difficilmente conciliabile con la teoria della rivolta contadina; la presenza dell’influsso cananaico (si potrebbe più esattamente parlare di identità etnica con i Cananei); il sorgere di una forma di monoteismo del tutto diversa dalla religione cananaica; i dati archeologici, infine, spesso essi stessi contraddittori. Il problema resta più che mai aperto: l’unico elemento oggi acquisito sembra essere soltanto il rifiuto della visione tradizionale della “conquista”, almeno quella narrata da Giosuè in una chiave che in ogni caso indulge senza alcun dubbio più al genere epico che alla storia. Tutto ciò ci conduce a rivalutare almeno in parte il racconto dei Giudici e a

vedere le origini di Israele come un fenomeno lento e complesso nel quale non possiamo escludere azioni militari su scala ridotta, infiltrazioni graduali, parentele strette tra “israeliti” e “cananei”. Queste considerazioni hanno infine una grande importanza sul nostro modo di leggere i racconti biblici, più che come cronaca di fatti, come ciò che Israele pensava, teologicamente e persino politicamente, riguardo a questi eventi.

29 Si vedano a questo proposito gli studi di P. ARATA MANTOVANI, «La conquista di Israele», Rivista Biblica Italiana, 36 (1988) 47-60. «Israele, come entità religiosa distinta dal circondario non emerge fino all’età persiana ed è addirittura molto difficile da scorgere fino a quella ellenistica» (p. 58). L’affermazione, se potrebbe trovare qualche appoggio su un piano rigidamente archeologico, appare una proclamazione di principio che non tiene conto,tra l’altro, della tradizione biblica che risale certamente al di là dell’epoca persiana.

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e. Verso la monarchia: i Giudici.

«In quel tempo non c’era un re in Israele: ognuno faceva quello che gli pareva meglio» (Gdc l7,6): così il libro dei Giudici presenta il periodo che segue l’ingresso in Canaan, periodo noto appunto con questo termine, i “Giudici”. Tradizionalmente lo si è fatto estendere dal 1200 sino al 1050 a.C. circa. Con la parola “giudice” non si deve pensare al giudice di un tribunale quanto

piuttosto a un leader carismatico, un capo militare con poteri precisi nel momento del bisogno. Il “giudice” israelita ha qualche analogia con i magistrati fenici che a Cartagine venivano chiamati “suffeti”: in ebraico “giudice” si dice appunto shophet, dal verbo shaphat che indica sia “esercitare un potere” che “giudicare” in senso giudiziario. Di questi giudici il testo biblico ne ricorda dodici, numero chiaramente simbolico: ben noti sono i nomi di Gedeone e Sansone le cui gesta occupano una larga parte del libro dei Giudici (Gedeone, da Gdc 6,l fino a 8,35; Sansone, da 13,l fino a 16,31). Le tribù di Israele appaiono, in questo periodo, ancora slegate tra loro (v. il

paragrafo precedente) e circondate da popolazioni ostili: il libro dei Giudici interpreta in chiave teologica ogni guerra o semplice scaramuccia sostenuta dalle varie tribù. La storia di Gedeone inizia con un’affermazione che, nel libro dei Giudici, è come un ritornello: «gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e il Signore li mise nelle mani di Madian per sette anni» (Gdc 6,l). La chiamata di Gedeone e la sua vittoriosa campagna militare sono il segno della salvezza che Dio nonostante tutto continua ad accordare al popolo servendosi di un uomo appositamente scelto e chiamato, il giudice, appunto:

«Quando il Signore suscitava loro dei giudici, il Signore era con il giudice e li liberava dalla mano dei loro nemici durante tutta la vita del giudice; perché il Signore si lasciava commuovere dai loro gemiti sotto il giogo dei loro oppressori» (Gdc 2,l8).

Ogni giudice dunque, è una figura animata dallo Spirito del Signore mandata da Dio a liberare il suo popolo, secondo un ben preciso schema ancora una volta chiaramente teologico piuttosto che storico, che mette in luce la precisa finalità dell’autore. Oltre ai nemici materiali i giudici sono presentati anche nell’atto di combattere i culti cananaici, culti agricoli legati alla fertilità: chi ha letto il libro dei Giudici si ricorderà come si nominano spesso gli dei di Canaan, Baal e Ashera, e i luoghi di culto legati ai ‘pali sacri’ e alle colline sacre, gli “alti luoghi”. C’è da chiedersi quanto questa polemica anti-idolatrica sia realmente una eco del tempo dei giudici o piuttosto una proiezione nel passato di problemi molto più vivi al tempo in cui il libro dei Giudici è stato scritto.

Da un punto di vista sociale, la base della società del tempo sembra essere la famiglia, la bet-’ab, cioè in ebraico la “casa del padre”, intesa come famiglia patriarcale, composta dal nonno, dai figli, dai nipoti, tutti a loro volta con le rispettive famiglie, cui si devono ancora aggiungere gli altri parenti stretti e i servi. Questa famiglia allargata, unita ad altre famiglie, spesso imparentate fra loro, forma un clan, cui si può far corrispondere, con qualche approssimazione, un intero villaggio. I clan viventi in un dato territorio, legati tra loro da tradizioni comuni, si considerano una “tribù”, un’entità indipendente, legata

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solo occasionalmente, come già si è accennato, ad altre tribù, spesso per motivi religiosi (pellegrinaggi ad un unico santuario) o militari (difesa contro un nemico comune). Le tribù che si troveranno riunite, oltre che da legami etnici, economici e politici, dalla fede in uno stesso Dio, YHWH, formeranno quello che poi diventerà il popolo di Israele. Del periodo dei giudici, al di là delle tradizioni popolari su personaggi come

Gedeone e Sansone, resta l’immagine di un Israele in corso di sedentarizzazione, ancora non unito come un solo popolo e insediato soltanto in alcune zone del paese di Canaan. Le battaglie di cui anche il libro dei Giudici, come già quello di Giosuè, è costellato, conservano il ricordo delle tensioni con le popolazioni locali e confinanti, generate verosimilmente in scontri di varia entità che, come vedremo, porteranno le tribù a unirsi e saranno una delle cause principali della nascita della monarchia.

***

CAPITOLO III

GLI INIZI DELLA MONARCHIA

Ho trovato Davide, mio servo,con il mio santo olio l’ho consacrato;la mia mano è il suo sostegno,il mio braccio, la sua forza… (Sal 89, 21-22).

a. Saul: il popolo si dà un re.

La causa principale che ha portato Israele a crearsi una monarchia, in analogia con gli altri popoli del Medio Oriente antico, è senz’altro rappresentata da uno stimolo esterno, ben identificabile nella pressione esercitata dai Filistei. Solo da poco tempo si è cominciato a conoscere più a fondo questo popolo, forse di origine indoeuropea, arrivato all’inizio dell’età del Ferro nell’area del Mediterraneo Orientale, proveniente dall’Egeo, parte di quella ondata conosciuta come i “popoli del mare”, che tentò anche, pare senza successo, di invadere l’Egitto, sotto il regno di Ramsete III (1190 a.C. circa). I Filistei si stabilirono in quella striscia costiera che si trova a sud dell’attuale

Tel Aviv, la cosiddetta “Pentapoli” filistea, cioè le cinque città di Asqelon, Gat, Ekron, Ashdod e Gaza (Gs 13,3). L’influenza filistea era tuttavia molto più rilevante di quanto la piccolezza del territorio occupato possa far pensare. La presenza dei filistei è documentata infatti fin sulle colline della Giudea e persino nella Galilea; insediamenti filistei sono stati trovati addirittura al di là del Giordano. La superiorità militare dei Filistei è ricordata dalla Bibbia stessa: il testo di 1 Sam 13,19-22 annota come essi possedevano il monopolio del ferro, il che garantiva loro una ovvia posizione di vantaggio, non solo sul piano militare (di fronte a soldati forniti ancora di armi in bronzo) ma anche sul piano economico.30 La pressione militare filistea è del resto ben comprensibile: si 30 L’introduzione del ferro nel panorama del Vicino Oriente Antico è uno dei principali fattori del mutamento politico e culturale che caratterizza il XII sec.; sull’importanza di questa

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tratta infatti di una popolazione appena arrivata e dunque in fase di espansione, in conflitto con le popolazioni locali e, tra queste, gli Israeliti. Ben noti alla Bibbia, i Filistei diventeranno il nemico di Israele per eccellenza, almeno per tutta la prima parte dell’epoca monarchica.

Il testo biblico di 1 Sam 4 introduce la serie di avvenimenti che portarono alla nascita della monarchia con una sconfitta interpretata dal testo stesso come catastrofe nazionale: la disfatta subita dagli Israeliti da parte dei Filistei, presso la località di Afek, non lontano dall’attuale Tel Aviv. Il segno più tragico di questa sconfitta è la cattura dell’Arca dell’Alleanza, simbolo della presenza del Dio di Israele. Al di là del possibile valore storico di un tale episodio - in particolare il fatto stesso dell’esistenza dell’Arca - il racconto della battaglia di Afek va visto come uno degli indizi che mostrano come la monarchia israelita può esser nata in seguito a una situazione politica di estrema difficoltà. Subito dopo la battaglia di Afek, infatti, il testo biblico introduce il personaggio di Saul, della tribù di Beniamino. Egli è visto da un lato come la continuazione di quei capi carismatici di cui si è parlato a proposito dell’epoca dei Giudici; Saul viene scelto da un profeta, Samuele, e considerato come il consacrato di Dio (si veda 1Sam 10,1). E’ significativa al riguardo proprio la presenza di Samuele; il re ha bisogno di essere legittimato dal profeta, che a sua volta è presentato nel testo biblico un po’ come l’ultimo dei giudici. Ma allo stesso tempo Saul appare come il primo re di Israele, la cui autorità esce rafforzata da un paio di vittorie che egli riesce ad ottenere sui filistei e gli ammoniti (si vedano gli episodi narrati in 1 Sam 11 e 13-14). Ben poco conosciamo di Saul, nulla più, in realtà, di ciò che il testo biblico ci

riferisce, in assoluta mancanza di altre fonti a nostra disposizione. Il problematico testo di 1 Sam 13,1 ci fa capire come si trattò di un regno brevissimo, forse neppure due anni. Paragonato ai regni successivi quello di Saul non può neppure essere considerato veramente tale: manca una capitale, manca un governo, manca un vero e proprio esercito di professione e, soprattutto, è assente una anche minima organizzazione statale. Il territorio, inoltre, è limitato alla piccolissima zona centrale montuosa a cavallo tra Giudea e Samaria.La prima vera battaglia contro i Filistei, uno scontro sui monti di Gelboe, tra la

Samaria e la Galilea, databile verso il 1010 a.C. circa, vede la fine di Saul. Il testo biblico la anticipa in chiave teologica: nel racconto di 1Sam 28, lo spirito del profeta Samuele appare a Saul che lo aveva evocato tramite una negromante, predicendone la rovina: «Il Signore abbandonerà Israele insieme con te nelle mani dei Filistei. Domani tu e i tuoi figli sarete con me« (1 Sam 28,l9). Il centro dell’attenzione non è dunque tanto sul dato storico, quanto piuttosto su quello teologico. Il motivo del rigetto di Saul è visto infatti, già in 1 Sam 15, nel suo peccato, il rifiuto di riconoscere l’autorità del Signore e quella del suo profeta, Samuele. Va ricordato a questo punto come nella storia di Saul appaiono alcuni testi esplicitamente antimonarchici, che ci fanno pensare all’esistenza, all’interno della Bibbia stessa, di correnti ostili alla monarchia. Ci occuperemo di questo aspetto al termine del capitolo. La storia di Saul, così come la leggiamo adesso nel testo biblico, appare tutta

orientata in funzione di quella di David ed è frutto di riflessioni posteriori; Saul

innovazione tecnologica che caratterizza buona parte del Vicino Oriente Antico e non soltanto i filistei o i “popoli del mare”, cf. LIVERANI, Antico Oriente, 643-645 (cf. nota 14).

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è il re malvagio, presentato quasi come un uomo afflitto da turbe mentali che insidia la vita del suo giovane e valoroso scudiero David, del quale è follemente geloso:

«ma tutto questo non è storiografia, è romanzo storico, tragedia letteraria. Quel poco che è storicamente accettabile ci mostra un Saul ben diverso: il comandante che, con alcune poche, ma ben condotte operazioni militari sembra essere riuscito a respingere prima di tutto la minaccia ammonita a est, poi a liberare l’altopiano dall’occupazione filistea e a neutralizzare le popolazioni nemiche qui residenti»31.

L’opposizione tra Saul e David, anch’essa fortemente teologizzata dal redattore del primo libro di Samuele, esprime il contrasto tra il prescelto di Dio, David, e il suo antagonista. Storicamente questo contrasto si inserisce in ovvie tensioni e scontri scatenatisi intorno a Saul, prima e subito dopo la sua morte, per garantirsi la successione.

b. David (1010 - 970 a.C.).

David è una delle figure centrali dell’Antico Testamento, presentato come il personaggio intorno al quale nasce Israele come nazione. Il nome “David”, che significa, sembra, il “prediletto”, ricorre nella sola Bibbia ebraica32 ben 1085 volte, secondo solo ad altri due nomi propri, significativamente YHWH e Israele. Nel 1993 è stata scoperta a Tel Dan, nel nord d’Israele, una stele in aramaico che riporta un’iscrizione attribuita a Cazaèl, re di Damasco (cf. 1Re 19,15) e databile circa nell’anno 853 a.C., dove Cazaèl si vanta di aver ucciso dei re della “casa di David”: questo discusso testo potrebbe essere forse la prima conferma storica, fuori dai testi biblici, dell’esistenza di David qui ricordato a poco più di un secolo dalla morte.Di fronte al grande spazio che David ha nel testo biblico, nell’Antico ma anche

nel Nuovo Testamento, le fonti extrabibliche e l’archeologia sorprendentemente tacciono. Ancora una volta, se noi non avessimo il testo biblico a disposizione, di David sapremmo ben poco. Su di lui possiamo leggere nella Bibbia due cicli importanti di narrazioni: la cosiddetta “storia dell’ascesa di David al trono” (1Sam 16 - 2Sam 4) e la “storia della successione al trono di David” (2Sam 9 - 1Re 2)33. La prima raccolta narra come David sia riuscito a diventare re, attraverso il conflitto con Saul, fino alla morte di lui in battaglia contro i Filistei. Il secondo testo è centrato sulla rivolta del figlio Assalonne e, nella parte finale, sugli intrighi che portano al potere l’altro figlio, Salomone.

31 SOGGIN, Storia di Israele, 201.

32 Per Bibbia Ebraica si intende quella parte dell’Antico Testamento scritta in ebraico che forma il canone delle Scritture Sacre per l’ebraismo. La Chiesa cattolica aggiunge al canone dell’Antico Testamento altri testi, per lo più scritti in greco, noti come ‘deuterocanonici’. Si veda anche la nota ….

33 L’esistenza di una tale “storia della successione” è in realtà oggi molto discussa; si può pensare all’unità narrativa di 2Sam 10-20 come a una sorta di “biografia teologica” relativa alla storia del re David e delle conseguenze del suo peccato (2Sam 11-12).

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Nel mezzo alle due serie di racconti, una sezione più piccola con storie legate all’Arca della Alleanza (in particolare 2Sam 6) e, in 2Sam 7, la ben nota profezia fatta a David da Natan concernente il futuro della dinastia davidica. Questi capitoli sono come piccoli “romanzi storici” che incorporano tuttavia elementi provenienti probabilmente da annali ed archivi regali e, da questo punto di vista, costituiscono un vero e proprio testo di propaganda politica. A più riprese si nota l’interesse teologico del redattore, interesse ancora più evidente nella storia di David contenuta in 1 Cr 10-29, testo composto tardivamente, in epoca postesilica. E’ interessante vedere come la figura di David nei racconti di 1 e 2 Samuele non venga affatto idealizzata; i suoi difetti e le sue colpe vengono narrate con grande chiarezza (ad es. la storia di Betsabea in 2Sam 11–12 e il racconto del censimento in 2Sam 24), senza che vi sia alcuna esaltazione del personaggio.

La situazione storica presente all’epoca dell’ascesa di David al trono vede un momentaneo indebolimento dell’Egitto, a partire dalla fine del regno di Ramsete III (1206-1175 a.C. circa), mentre l’impero assiro è ancora lontano dall’aver raggiunto la sua massima potenza. Il contesto appare dunque favorevole alla nascita di un regno come quello di David, quasi uno Stato cuscinetto tra la superpotenza egiziana e quella assira. L’origine di David appare legata alla città di Betlemme, un piccolo villaggio 13

km a sud di Gerusalemme, sui monti della Giudea: il primo libro di Samuele ce lo presenta come un giovane pastore, scelto dal profeta Samuele, che entra al servizio del re Saul, come suo scudiero. Il ben noto racconto popolare sull’uccisione di Golia, il gigante filisteo, dipinge un David eroico che, da amico di Saul, diventa suo nemico, costretto a fuggire a causa della gelosia suscitata nel re, nevrotico e sospettoso. Non siamo assolutamente in grado di valutare la portata storica di questi episodi che risentono di amplificazioni popolari e successive riletture di carattere sia ideologico che teologico: appare invece più verosimile la presentazione di un David capobanda, un capo militare che cerca di soppiantare Saul (cf. 1Sam 27). David, con l’appoggio dei Filistei, dei quali è vassallo, riesce ben presto a crearsi una posizione di potere al sud, fino a diventare re di Giuda ad Hebron (2Sam 2,4). Alla morte di Saul si creano le condizioni politiche favorevoli perchè David, ancora appoggiato dai Filistei, possa prendere il potere anche sul resto di Israele, le tribù del nord. Per la prima volta Giuda (il sud) e Israele (le tribù del nord) si trovano uniti, unione che, come vedremo, durerà ben poco.

Una delle prime imprese di David, verso l’anno 1000 a.C., è la conquista di Gerusalemme, una delle tante città-stato cananee, che David crea subito capitale del suo nuovo regno (2Sam 5). L’arrivo dell’Arca dell’Alleanza, segno della presenza del Dio di Israele, (2Sam 6) è il segno più chiaro della consacrazione di Gerusalemme a capitale del regno. Il motivo è evidente: Gerusalemme è una città in posizione neutrale, a metà strada tra il nord e il sud, una chiara scelta di compromesso, cui si aggiunge la favorevole posizione strategica di cui la città gode. L’archeologia non rivela nessun particolare ampliamento della città in questo periodo: Gerusalemme aveva dimensioni estremamente ridotte, limitate alla parte meridionale della collina dell’Ofel (v. cartina n°2). L’ascesa di David crea, com’è naturale, un forte contrasto con i vecchi

sostenitori, i Filistei, che tuttavia vengono battuti nelle due campagne narrate

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in 2 Sam 5,l7-21.23-25. Altre campagne militari condotte da David dentro e fuori il suo piccolo regno ne consolidano la posizione e gli permettono di assumere posizioni di forza anche nei confronti degli stati vicini (moabiti, ammoniti, edomiti, aramei…). E’ molto dubbio che il regno davidico si sia realmente esteso a spese di tali regni confinanti: in ogni caso non ne abbiamo nessuna traccia. E’ molto più probabile invece pensare a campagne mirate alla sicurezza delle frontiere, che non si estendevano al di là della Galilea a nord, dell’altopiano transgiordanico a est e del deserto del Neghev a sud. L’estensione reale del regno di David non superava probabilmente di molto i confini della montuosa Giudea.

Con l’espandersi del regno nasce anche una struttura amministrativa centralizzata: si vedano a questo proposito le liste di funzionari contenute in 2Sam 8,15-18 e 20,23-26. Questa è senz’altro una grossa novità per un popolo abituato a una struttura tribale ben diversa: un insieme di tribù si trova per la prima volta a formare un regno. La cosiddetta “storia della successione”, l’altra grande raccolta di narrazioni

relativa a David, testimonia un aspetto meno pacifico del suo regno, l’esistenza di tensioni e di conflitti interni (in particolare il testo biblico si ferma a lungo sulla ribellione del figlio Assalonne, cf. 2Sam 13-20). Tali tensioni, talora riducibili a semplici ribellioni locali, possono tuttavia far pensare all’esistenza di vere e proprie correnti antimonarchiche (cf. 1 Sam 8). Un altro motivo alla base di questo tipo di conflitti è l’esistenza di un forte contrasto tra le tribù del nord e quelle del sud, contrasto che, dopo Salomone, si trasformerà in aperta rottura.

Il testo biblico insiste molto, parlando di David, sull’aspetto religioso: David sarebbe l’iniziatore di quell’opera di centralizzazione del culto che avrà il suo punto culminante nella costruzione del Tempio di Gerusalemme, portata a termine dal figlio Salomone. Occorre guardarsi a questo riguardo da due opposti estremismi: da un lato l’idea fondamentalista che la religione di Israele fosse una realtà ben definita fin dai tempi dell’Esodo, dall’altro l’affermazione che solo con l’esilio nascerà uno yahwismo puro. A questo proposito occorre prima di tutto rinunciare alla visione di un David fedelissimo difensore dell’unicità di YHWH: un semplice sguardo all’elenco dei figli di David in 2Sam 3,2-5 e 5,14-16 ci rivela come buona parte dei diciassette nomi siano di origine cananaica e come molti di essi contengano il prefisso El, il dio principale dei cananei; una situazione analoga la ritroveremo poi con Salomone. Solo due figli, Adonia (“Il mio Signore è YAH”) e Shefatia (“YAH giudica”), portano nomi esplicitamente yahwistici. Più che di un “sincretismo di stato”34 dovremmo parlare di un David che senza alcun problema di carattere teologico affianca al Dio nazionale YHWH anche altri dèi. L’archeologia dimostra infatti come il culto di YHWH ha convissuto a lungo in Israele con quello degli dèi di Canaan; la 34 Di “sincretismo di stato” parla Soggin nella prima edizione della sua Storia di Israele (pp. 112-116); nella seconda edizione (pp. 222-223) si mostra più negativo circa la possibilità di risalire ai contenuti della religione israelita prima dell’esilio e in particolare circa la tesi di una religione israelita originariamente pura, in senso monoteistico. Un particolare rivelatore: perchè David porta l’Arca a Gerusalemme ma non vi costruisce un tempio? Il testo di 2 Sam 7 motiva tutto ciò in chiave teologica: da un punto di vista storico è molto più verosimile che David non costruisca nessun tempio visto che certamente nella Gerusalemme gebusea ce n’era già uno, dedicato a un qualche dio cananaico.

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visione di un David rigorosamente monoteista è frutto della teologia deuteronomista nata durante il VII sec. a.C. (v. oltre, a proposito di Giosia). L’importanza della figura di David va in ogni caso molto al di là della sua

portata storica: a lui saranno attribuiti molti salmi, così da farne un modello di fede; egli diventa poi il fondatore di una dinastia cui la Bibbia vede legata la promessa divina di fedeltà contenuta in 2Sam 7,l6: «la tua casa e il tuo regno dureranno per sempre alla mia presenza. Il tuo trono sarà saldo in eterno». David diventa così una figura messianica (cf. Sal 2; 110), così che Gesù stesso potrà essere definito “Figlio di David” (Mt 9,27; Rom 1,3).

c. Salomone o l’ideale monarchico(970-931 a.C. ca.).

Il testo di 1Re 1-11 ci descrive il regno di Salomone come la vera “età dell’oro” del regno di Israele. Salomone viene presentato come l’uomo più saggio mai esistito sulla terra, come il più ricco e il più grande di ogni altro re prima e dopo di lui; così dice il Signore al giovane re:

«Ecco, ti concedo un cuore saggio e intelligente come te non ci fu alcuno prima di te nè sorgerà dopo di te. Ti concedo anche quanto non hai domandato, ricchezza e gloria come nessun re ebbe mai» (1Re 3,13)35.

«Il re Salomone superò dunque, per ricchezza e saggezza, tutti i re della terra» (1Re 10,23).

Il regno di Salomone si sarebbe esteso addirittura dal fiume Eufrate sino alla frontiera egiziana, almeno secondo il testo di 1Re 5,1-4 che tuttavia riferisce confini ideali, che Israele non ha mai avuto, in alcun momento della sua storia. Per quanto riguarda la fama relativa alla sua sapienza, infine, al re Salomone sono stati attribuiti dall’antica tradizione ebraica i libri biblici del Cantico dei Cantici, del Qohelet, dei Proverbi e persino della Sapienza, benché in ogni caso si tratti di opere scritte da autori diversi in epoche molto posteriori (il libro della Sapienza addirittura alla fine del I° sec. a.C.). Tutti questi dati assumono nel testo del Primo libro dei Re una veste

autorevole, dato che in 1Re 11,41 viene menzionato un “Libro delle gesta di Salomone” che, se è davvero esistito, doveva essere una sorta di cronaca uffi-ciale del suo regno, probabilmente una delle fonti primarie del testo biblico attuale. In realtà, tale presentazione di Salomone non sembra corrispondere molto alla realtà storica; i dati reali sono stati notevolmente amplificati e teologizzati dal narratore e molti indizi ci portano a ridimensionare parecchio l’immagine di un Salomone “ideale”. Salomone non era il vero erede al trono, figlio per di più della relazione

illegittima di David con Betsabea, decimo figlio del re: l’inizio della sua storia, in 1Re 1-2, ce lo mostra intento all’eliminazione progressiva e sanguinosa di tutti i possibili pretendenti al trono del padre. Il testo biblico cerca di giustificare moralmente una serie di assassinii politici (Adonia, Ioab, Simei) al termine dei quali, in 1Re 3, Salomone riceve addirittura l’approvazione divina,

35 Si vedano anche testi del Nuovo Testamento come Lc 12,27.

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durante la notte passata nel santuario di Gabaon. Si tratta dunque di una legittimazione teologica dell’ascesa al trono di Salomone, nata, com’è facile pensare, solo a cose fatte.

Gran parte del racconto biblico relativo a Salomone (1Re 5,15-9,25) è dedicato alla costruzione del Tempio di Gerusalemme che resterà il massimo monumento di Israele sino alla sua distruzione, operata dai Babilonesi al tempo dell’esilio. Non ci è possibile conoscere nei dettagli la struttura dell’edificio salomonico: esso doveva avere un carattere essenzialmente tripartito, con un recinto esterno che delimitava un grande cortile scoperto, luogo ove si offrivano i sacrifici e un edificio centrale, il santuario, che al suo interno racchiudeva probabilmente il “santo dei santi”, la cella contenente l’Arca della Alleanza. Il modello non è dunque molto diverso da quello di templi analoghi ben conosciuti in ambiente cananaico e siro-fenicio. Lo stesso libro dei Re ricorda del resto come la costruzione del Tempio di Gerusalemme non fu portata a termine da architetti e operai israeliti, ma da personale fenicio, as-soldato direttamente dal re di Tiro (si veda 1Re 5,15-31; 7,13-14).

Nel Tempio, Salomone appare come vero e proprio sacerdote, che offre sacrifici (1Re 9,25) e che prega per tutto il popolo (1Re 8). Il Tempio diventerà poco per volta il centro del culto per tutto Israele, soppiantando poco per volta i santuari locali. Testi come quello di Dt 12,2-12 dimostrano però che anche in avanzata epoca monarchica il culto in altri santuari non era ancora del tutto cessato. Come nel caso di David, anche per Salomone non bisogna perciò pensare ad un campione del monoteismo yahwista:

«Salomone seguì Astarte, dea di quelli di Sidone, e Milcom, obbrobrio degli Ammoniti. Salomone commise quanto è male agli occhi del Signore e non fu fedele al Signore come lo era stato David suo padre. Salomone costruì un’altura in onore di Camos, obbrobrio dei Moabiti, sul monte che è di fronte a Gerusalemme e anche in onore di Milcom, obbrobrio degli Ammoniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere, che offrivano incenso e sacrifici ai loro dei» (1Re 11,5-8).

Il testo biblico è già abbastanza chiaro: anche in questo caso non si deve tanto pensare, storicamente parlando, a una deviazione morale del vecchio Salomone, trascinato all’idolatria dalle sue molte mogli, quasi tutte pagane: Salomone rispecchia in realtà la situazione religiosa tutt’altro che stabile del suo tempo.

Accanto al Tempio, Salomone costruisce il palazzo regale, intorno al quale si sviluppa una amministrazione ben più complessa di quella di David (si vedano anche in questo caso le liste di funzionari riportate in 1Re 4,1-19). E’ interessante notare che il tempo impiegato da Salomone per la costruzione del palazzo sarebbe stato di ben tredici anni (1Re 6,38-7,1), tempo ben superiore a quello impiegato per la costruzione del Tempio (cf. 1Re 9,10). La creazione di una vera e propria classe di funzionari addetti alla corte e al

governo del paese portò come ulteriore conseguenza alla creazione di una scuola per la formazione delle nuove leve della pubblica amministrazione e del governo: forse proprio da scuole come questa, la cui esistenza non è

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comunque del tutto certa, nasceranno più avanti le prime opere sapienziali di Israele, come ad esempio le parti più antiche del libro dei Proverbi.36 Due caratteristiche dell’amministrazione salomonica costituiscono una novità

per Israele: l’istituzione di un sistema di tassazione (1Re 4,7), base di ogni governo forte, sulla base di una suddivisione del regno in dodici distretti e la creazione di un servizio di lavori pubblici forzati. Quest’ultima istituzione è particolarmente interessante: si tratta di lavori destinati ad opere pubbliche (le cosiddette corvées) cui anche i liberi cittadini, e non solo gli schiavi e i prigionieri, erano obbligati gratuitamente per conto del re (si veda 1Re 5,27-30). In tutto questo, Salomone apparve forse agli occhi del popolo troppo simile agli altri monarchi del tempo, a cominciare dai faraoni; il malcontento creato dall’introduzione di una simile usanza ha potuto così costituire una delle cause scatenanti la rivolta e la divisione del regno alla sua morte (1Re 12,1-19).

Altra caratteristica della monarchia salomonica ampiamente ricordata dai testi biblici è l’opera di Salomone come costruttore di edifici e di città. Qui gli studiosi moderni si sono rivolti all’archeologia, il cui apporto inizia ad essere di qualche interesse. Resti di mura trovati a Gerusalemme potrebbero forse risalire all’epoca salomonica. Edifici della stessa epoca sarebbero stati scoperti nelle città di Ghezer, Hazor e Meghiddo, anche se una datazione salomonica resta molto discussa. Il testo di 1Re 9,15 afferma che Salomone “costruì” queste città, ma va inteso nel senso che le ricostruì o le rafforzò. Una caratteristica architettonica particolare dell’epoca salomonica sarebbe secondo alcuni archeologi la cosiddetta “porta a tenaglia”, un tipo di porta costruita all’ingresso principale delle mura cittadine comprendente all’interno lo spazio per il corpo di guardia. Le prove archeologiche non sono tuttavia decisive e ci orientano comunque a pensare a un regno che non superava di molto in ampiezza i confini di quello davidico, dunque, relativamente piccolo. Ma per la prima volta, abbiamo a disposizione dei dati, il che costituisce una differenza notevole con il precedente periodo, così oscuro, della storia di Israele.

Salomone viene presentato ancora dal testo biblico come un re dedito ai commerci, persino a quelli marittimi, cosa molto singolare per un israelita. Non siamo certo in grado di precisare dove esattamente Salomone avrebbe mandato la sua flotta commerciale, nata in società con il re di Tiro, secondo il testo di 1Re 9,26-27. Si parla ancora di carovane (1Re 10,1-2), di scambi commerciali con la Fenicia, consistenti in prodotti agricoli (grano, vino, olio), legname pregiato, prodotti dell’artigianato (1Re 5,24-25), commercio di carri da guerra e di cavalli (1Re 10,26-28). Ciò testimonierebbe l’ampiezza di oriz-zonti del piccolo regno e il contatto stabilito con altri popoli ed altre culture. I saggi d’Israele, in particolare, iniziano probabilmente a sviluppare le loro

concezioni proprio in questo periodo specialmente in seguito al contatto con la

36 Oggi si tende sempre più pensare che una vera e propria attività letteraria in Israele sia impensabile prima dell’VIII sec. a.C.; d’altra parte, scoperte recenti come l’abecedario di Tel Zayit (ostracon del X sec. a.C.) attestano che una qualche attività scrittoria era diffusa in Israele anche a livelli più popolari, fin dall’epoca salomonica. Cf. R.H. HESS, «Literacy in Iron Age Israel», in V.P. LONG, D.W. BAKER, G.J. WENHAM (edd.), Windows in Old Testament History. Evidence, Argument, and the Crisis of “Biblical Israel”, Grand Rapids – Cambridge 2002. 82-102.

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sapienza di altri popoli ed altre culture, in particolare Babilonia e l’Egitto. Tale contatto è amplificato dal testo biblico nell’episodio del matrimonio di Salomone con la figlia di un non meglio identificato faraone (1Re 3,1). Questo episodio appare davvero molto strano, specialmente per chi si interessa di storia egiziana: nessuna altra fonte ne parla, tacciono in special modo le fonti egiziane e una tale prassi appare del tutto estranea alle usanze faraoniche. Comunque sia, il racconto vuole mostrare come Salomone si sia costruito una posizione di potere e relativo prestigio, al contrario di David, più con la diplomazia ed i contatti commerciali che con le guerre; le narrazioni di episodi militari infatti, nel testo di 1Re 1-11 hanno una parte insignificante.

Gli ultimi anni del regno ci presentano un quadro molto meno idilliaco: il testo di 1Re 9,10-14 parla di un Salomone in difficoltà economiche, costretto a cedere al re di Tiro ben venti città della Galilea settentrionale, come pagamento di debiti insoluti. I confini del regno appaiono sempre più insicuri, mentre gli Stati prima amici e alleati iniziano a ribellarsi. Anche l’ascesa della potenza egiziana, a partire dal faraone Sheshonq I (945-921 ca.) va annoverata tra le cause del declino del regno. Un ultimo motivo è rappresentato dalle tensioni interne, causate dalla tassazione eccessiva e dall’obbligo delle corvées, tensioni che sfoceranno, subito dopo la morte del re, nella rivolta delle tribù del nord, guidate da Geroboamo (1Re 11,26-40) e nello sfaldamento del regno, che da allora, fino all’epoca maccabaica, non sarà più unito.

d. Caratteri della monarchia israelita.

La monarchia israelita si presenta, se guardiamo al quadro generale della storia di Israele, come un fenomeno secondario.37 La monarchia unita infatti è durata poco più di un secolo (Saul - David - Salomone); il regno del nord ha resistito circa due secoli (fino al 721 a.C.) mentre quello del sud è durato per un altro secolo e mezzo, sino all’esilio babilonese del 586 a.C.. In tutto il Pentateuco un solo testo, nell’insieme di tutte le leggi che regolano la vita di Israele, si riferisce al re: si tratta di Dt 17,14-20 che, significativamente, non prescrive i doveri dei sudditi nei confronti del loro re quanto piuttosto quelli del re nei confronti dei suoi sudditi. Il potere dei re di Israele e Giuda è inoltre poca cosa in paragone alle altre monarchie del tempo. I caratteri della monarchia israelita non differiscono molto, almeno da un

punto di vista esteriore, da quelli delle altre monarchie del Vicino Oriente Antico, dove da un lato il re è il vertice di una spesso complessa organizzazione statale, dall’altro è considerato come una figura divina o semidivina, il “padre” scelto da Dio per il popolo. Questo carattere sacrale della monarchia è comune in tutto il Medio Oriente antico: più che evidente per i faraoni egiziani, lo è un po’ meno nel mondo babilonese, dove il re è il “re dell’intero mondo” scelto da Dio. Così il re di Israele è anch’egli scelto dalla divinità: ciò vale esplicitamente per Saul e David, entrambi scelti da un profeta, Samuele, e anche per

37 Una buona descrizione dei compiti del re si trova in DE VAUX, Istituzioni dell’Antico Testamento, 107-149. Cf., sulla più complessa questione del potere politico in Israele, E. MANICARDI – L. MAZZINGHI (edd.), Il potere politico: bisogno e rifiuto dell’autorità. Atti della XXXVIII Settimana Biblica Nazionale, Ricerche Storico Bibliche XVII (2006).

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Salomone, che prende il potere solo dopo la legittimazione divina a Gabaon (1Re 3). Il carattere sacrale dei re israeliti sarà più evidente per il regno di Giuda,

piuttosto che per il regno del nord. Ciò si può spiegare più semplicemente pensando alla instabilità politica che caratterizzerà il nord, in confronto al principio dinastico che sembra regolare la successione al trono di Giuda. Nel testo che sta alla base della ideologia monarchica, la profezia di Natan (2Sam 7), il re è considerato “figlio adottivo” di Dio (si vedano anche Sal 2,7 e 89,27), pur non venendo mai deificato, come nel caso del faraone. Il re è dunque il “servo” del Signore (2Sam 7,4.8; Sal 18,1; 36,1 etc.), il “consacrato” di Dio, che viene unto con olio in segno di tale consacrazione (cf. 1Re 1,39): la parola ebraica mashiach significa appunto “unto”, cioè “consacrato”; riferita in origine al re indicherà poi il re futuro, il Messia appunto; in Sal 45,7 il termine “Dio” è addirittura accostato al re.La sacralità della monarchia israelita è qualcosa di ancora più profondo: il re è

scelto da Dio come garante del benessere del popolo (v. anche sotto); perciò era ritenuto molto importante il legame che il re doveva avere con Dio e soprattutto il fatto che egli ubbidisse per primo alla parola divina. Per questo motivo in Israele acquista grande valore la parola del profeta, inteso proprio come il “portavoce” di Dio prima di tutto presso il re. Questo dualismo tra il potere regale e la sua coscienza critica, il profeta, pur non essendo esclusivo di Israele ne costituisce una delle caratteristiche più significative.Va ricordato che quando il movimento profetico attaccherà con forza la

monarchia, la sua critica non sarà rivolta all’istituzione in quanto tale, ma in quanto essa si è distaccata da questo ideale religioso, anche se profeti come Osea sembrano guardare al re come a una figura negativa, quasi voluta da Dio per la punizione del popolo (cf. Os 13,11). In realtà, la storia del re David in 2Sam 10-20, nonostante non cerchi mai di nascondere difetti e peccati del re, anche molto gravi, non mette mai in questione l’esistenza dell’istituzione monarchica.

La figura del re israelita è in buona parte simile alle immagini regali che ben conosciamo nel Medio Oriente antico. Il principio dinastico, l’intronizzazione del nuovo re hanno buoni paralleli tra i popoli confinanti: il “protocollo” regale, il documento ufficiale della intronizzazione del faraone Tutmosi III (1468-1436 a.C. ca.) presenta somiglianze con il rituale israelita di incoronazione (cf. 2Re 11,12) e con un testo analogo come il noto Sal 110, salmo di intronizzazione. Le caratteristiche sacrali sopra accennate, per cui il re è in un rapporto particolare con Dio, ne fanno il tramite della salvezza tra Dio e il popolo. Il re è garante “del diritto e della giustizia”, cioè di quella situazione di amicizia tra Dio e Israele che permette di vivere nello shalom, parola dal significato molto ampio, che richiama la pace, il benessere, la tranquillità, l’ordine, uno stato di corrette relazioni tra l’uomo e l’uomo e tra questi e Dio. Il re è visto allora come il difensore e il salvatore del popolo, il garante della giustizia (si vedano i Sal 72 e 101). Il re è poi capo militare, come ci appare già Saul. David e Salomone creeranno

un vero esercito, introducendo il primo i mercenari, il secondo la forza d’urto dell’epoca, i carri da guerra. Tutte le altre prerogative regali, la corte, l’harem (noto quello di Salomone, 1Re 11,1), l’amministrazione del regno… non sono realtà diverse da quelle che conosciamo fuori da Israele. Così anche il fatto che

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le scuole di sapienza nascano in ambito monarchico è perfettamente in linea con gli usi che conosciamo relativi alla formazione di nuovi funzionari di corte.

Come spiegare allora la presenza di testi fortemente antimonarchici come quelli che si leggono in Gdc 8,22-23; 1Sam 8,7; 10,17-19; 12,20 etc.? Si tratta di un punto sul quale Israele si distingue dai popoli vicini. Si legga ad esempio 1Sam 8,6-7:

«Agli occhi di Samuele era cattiva la proposta perchè avevano detto: “Dacci un re che ci governi”. Perciò Samuele pregò il Signore. Il Signore rispose a Samuele: “Ascolta la voce del popolo,per quanto ti hanno detto, perchè costoro non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perchè io non regni più su di essi…” «.

Molti di questi testi appartenenti alla cosiddetta “storia deuteronomista” sono stati composti o riletti dopo il crollo del regno del nord nel 721 a.C.; altri ancora addirittura dopo l’esilio babilonese, cioè dopo la fine della monarchia. Essa, vista a posteriori, si è dunque rivelata un fallimento, avendo portato il popolo alla rovina. L’opera del Cronista (1-2 Cr), qualche tempo dopo il ritorno dall’esilio, rilegge la storia passata di Israele dall’inizio della monarchia sino al suo crollo in composta chiave principalmente teologica, giudicando i vari re solo in base al fatto che essi hanno o non hanno “cercato il Signore”. La maggior parte dei sovrani di Giuda (il Cronista ignora il regno del nord, considerato apostata!), ad eccezione di David, Ezechia, Giosia e, in parte, Salomone, sono stati causa, con il loro comportamento, della rovina di Israele. Il Cronista non ha più dubbi nel vedere il comportamento della maggioranza dei re di Giuda come la causa principale del disastro finale del regno (cf. 2Cr 36,11-21).Un altro elemento alla base di questi testi antimonarchici lo ricaviamo da Gdc

8,22-23: alla proposta di diventare re, Gedeone risponde che “il Signore regnerà su di voi”. Si può scorgere in questo testo - come nel testo citato di 1Sam 8 - il contrasto avvertito tra la regalità attribuita a YHWH e una monarchia in cui si notava troppo l’influsso dell’ideologia regale dei popoli vicini. L’idea di un regno di YHWH, già presente in Isaia (Is 6,5) si sviluppa in seguito alla catastrofe dell’esilio quando, scomparsa appunto la monarchia, si inizia a pensare che è YHWH il vero Re di Israele (Sal 47; 93, 96-98), il solo salvatore (Is 44,6; 52,7). Anche in questo caso dunque, la corrente antimonarchica affonda le sue radici in una prospettiva religiosa. Sul piano strettamente politico, i regni di Israele e Giuda non sono molto diversi dai regni circostanti; parlare di Israele come “teocrazia”, cioè come comunità dominata da YHWH-Re potrebbe essere corretto solo a partire dall’epoca persiana.38 La storia della monarchia israelita si conclude con un paradosso: una volta

scomparso per sempre il re, dopo l’esilio, non sparisce invece l’ideologia monarchica, ma sopravvive, proiettata nel futuro, in chiave escatologica e messianica. Il testo di Is 11, ad esempio, parla di un re ideale discendente di David, che sarà re giusto e pacifico, idea messianica molto viva ai tempi di Gesù, descritto anche come il “Figlio di David”, il re che deve venire (cf. Mc

38 Cf. più avanti pp. …

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11,9-10; Lc 19,38). Se esiste un aspetto che caratterizza i re di Israele rispetto alle altre monarchie, esso non si colloca sul piano politico, ma piuttosto su quello religioso.

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CAPITOLO IV

I DUE REGNI FINO ALLA CADUTA DI SAMARIA.

All’inizio del mio regno (...) assediai e conquistati la città dei Samaritani (...). Deportai come prigionieri 27.290 abitanti e requisii 50 carri per il mio esercito reale (...). Ricostruii la città meglio di quanto non lo fosse prima e la ripopolai con genti delle terre che avevo conquistato. Misi a capo di esse uno dei miei ufficiali e imposi loro tributi e tasse come agli Assiri (Annali del re assiro Sargon II).

a. La divisione del regno (931 a.C.).

La principale fonte sulla storia della monarchia israelita dopo Salomone e fino all’esilio a Babilonia è il racconto che si estende da 1Re 12 fino a 2Re 25. Ad esso si possono aggiungere le molte notizie contenute nei testi profetici, in particolare quelli di Isaia, Geremia, in parte anche Ezechiele, nonché il testo parallelo, ma tardivo, di 2Cr 10-36. Si è già potuto osservare come la prospettiva del testo di 1-2Re sia senz’altro più teologica che storica: tra i tanti esempi che si potrebbero portare, si pensi al breve spazio dedicato a re politicamente importanti sul piano internazionale, come Omri, re di Israele, al quale il testo biblico dedica appena cinque versetti (1Re 16,23-28). Al contrario, a un re come Giosia, molto meno importante sul piano politico, morto giovane in seguito ad una folle campagna contro l’Egitto, il testo di 2Re dedica ben cinquanta versetti (2Re 22,1-23,30), perchè Giosia fu l’autore di una importante riforma religiosa che al narratore deuteronomista interessava molto più delle grandi imprese di Omri. Rispetto al periodo finora considerato siamo tuttavia in una situazione

migliore: le fonti extrabibliche ed archeologiche iniziano a parlarci di Israele e ci permettono un confronto con il dato biblico.

Per quanto riguarda il periodo immediatamente successivo alla morte di Salomone, il testo di 1Re 12 ricorda come le tensioni interne al regno davidico, in particolare quelle dovute al contrasto nord - sud si sommarono alla incapacità politica di Roboamo, figlio del re defunto, portando alla scissione del regno. Quando Roboamo rifiuta di allentare la pressione fiscale sulle tribù del nord, annunziando una politica di maggior durezza, queste tribù, guidate da Geroboamo, alto funzionario che già in precedenza si era scontrato con

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Salomone39, si separano dalla tribù di Giuda, dando vita al regno di Israele (che è noto anche come regno del nord). La secessione tra i due regni è narrata in modo molto drammatico nel quadro

di un’assemblea che Roboamo avrebbe convocato a Sichem (1Re 12): non è possibile apprezzare la portata storica di un simile testo, che rivela comunque come i contrasti nord-sud dovevano essere già piuttosto profondi, per produrre effetti così drastici. Esagerando una visione critica del testo di 1Re 12 e forzando i dati oltre misura si è giunti a ipotizzare40 che un regno unito davidico-salomonico non sarebbe mai esistito, ma sarebbe soltanto una proiezione retrospettiva nata all’epoca del re Giosia, dato che Giuda e Israele sarebbero state due realtà territoriali del tutto indipendenti. Resta pur vero il fatto che soltanto a partire dall’epoca post-salomonica lo storico inizia ad avere a disposizione una serie di dati e riscontri più sicuri con i quali poter iniziare a scrivere una vera “storia di Israele”.41

Il regno del nord appare in ogni caso molto diverso da quello di Giuda. Territorialmente si tratta di un regno molto più vasto (v. cartina n°4), comprendente la Samaria, la Galilea, parte delle regioni transgiordaniche, zone nel complesso molto più fertili e ricche della montagna di Giuda che costituisce la maggior parte del territorio del regno del sud. Inoltre, il nord è collocato sulle principali vie di comunicazione internazionali, tra le quali l’importantissima “via del mare”, frequentata arteria di collegamento tra l’Egitto e la Siria. Tale via garantiva anche, attraverso la pianura di Izreel l’accesso al mare che mancava al regno di Giuda, bloccato sulla costa dal territorio filisteo. Questa posizione geografica, da un lato davvero vantaggiosa, si trasformerà presto in uno svan-taggio, esponendo il nord a continue minacce da parte dei popoli vicini, sino all’invasione assira. Il regno del sud invece risulta costituito da un territorio molto più ridotto,

montuoso, economicamente povero e isolato sul piano internazionale. La differenza sul piano territoriale si traduce, com’è comprensibile, in una differenza anche sul piano economico e quindi su quello militare. Il tentativo che avrebbe effettuato Roboamo per riportare il nord all’obbedienza, tentativo effettuato “a caldo”, per stroncare sul nascere ogni velleità di rivolta, si scontra subito con l’insuccesso: il nord ha un esercito già abbastanza forte per imporsi sul piccolo staterello di Giuda. Altra differenza tra i due regni, forse la sola che realmente interessa al testo

biblico, è quella sul piano etnico e religioso. La popolazione del sud è più omogenea, mentre al nord vi sono ancora nuclei di abitanti di origine e di religione cananaica e l’influsso delle popolazioni circostanti (fenici, aramei, assiri) è molto forte. Ciò spiega perché Geroboamo si preoccupi di istituire un culto parallelo, alternativo a quello di Gerusalemme: il testo di 1Re 12,26 -33 narra la costruzione dei vitelli d’oro nei santuari di Dan e di Betel, vitelli rappre-

39 La rivolta di Geroboamo è già stata preparata dal testo di 1Re 11,26-43, che ne dà allo stesso tempo un’interpretazione religiosa: Geroboamo riceve la sua missione dal profeta Achia di Silo. La divisione del regno è interpretata come punizione per i peccati commessi da Salomone. Geroboamo era, secondo il testo biblico, uno degli alti ufficiali al servizio del re, probabilmente membro di una famiglia molto in vista, personaggio intorno al quale si cristallizza l’opposizione antisalomonica.

40 Cf. FINKELSTEIN – SILBERMAN, Le tracce di Mosè, 163-164.

41 Cf. il paragrafo “quando fare iniziare una storia di Israele?”; pp.

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sentanti il piedistallo della divinità, anche se non necessariamente Baal, il dio cananaico che comunque avrà molto spazio nella religione di Israele. Questo è il motivo per cui l’opera già ricordata del Cronista non si occupa del regno del nord, se non nei casi in cui le vicende si intrecciano con quelle del sud, il regno considerato “fedele” a YHWH.

Il primo quarantennio di vita dei due regni è un periodo piuttosto caotico che vede un continuo scontro tra i due stati. Si tratta di frequenti scaramucce di frontiera, che spesso assumono il carattere di piccole guerre, dall’esito incerto, che tuttavia non riescono a modificare il quadro politico che si era ormai creato. I primi quattro re di Israele (Geroboamo, Nadab, Baasa ed Elah), che regnano

dal 931 all’885 a.C. circa, dimostrano un altro dei caratteri distintivi del nord: la sua cronica instabilità politica. Geroboamo e Baasa divengono entrambi re con due diversi colpi di stato, mentre i loro rispettivi figli, Nadab ed Elah, vengono subito assassinati, dopo neppure due anni di regno. Tale instabilità viene aggravata, nei primi anni di Geroboamo, dalla minaccia egiziana. Una iscrizione in un tempio di Karnak ci ricorda la lista delle città conquistate dal faraone Sheshonq (925 a.C.),42 episodio narrato anche in 1 Re 14,25-27. La campagna del faraone fu una fulminea guerra-lampo per riaffermare l’influenza egiziana in Canaan. Il regno di Giuda non dovette subire molti danni, a causa anche della sua posizione defilata; probabilmente il re Roboamo pagò un tributo, facendo atto di vassallaggio, secondo l’uso di allora. Al nord, invece, il faraone si spinse oltre la pianura di Izreel, sino in Transgiordania, contribuendo così al peggioramento della difficile situazione interna. I re di Giuda in questo periodo sono Roboamo (931-914 a.C. ca.), Abiyah

(914-911) e Asa (911-870 a.C. ca.)43. Le lotte tra i due regni continuarono, con un certo predominio da parte del nord, fino a che, durante le guerre tra Baasa di Israele e Asa re di Giuda, quest’ultimo si alleò con Ben-Hadad re degli aramei residente a Damasco, costringendo il nord a ritornare su posizioni più pacifiche (si veda 1Re 15,16-22). Il gesto di Asa è l’inizio di una nuova linea politica, quella delle alleanze di comodo ai danni di un terzo, linea che ritroveremo spesso, sia al nord come al sud, ma che non sarà senza conseguenze negative, talora tragiche.

b. La dinastia di Omri in Israele (885-841 a.C. ca.).

Dopo l’assassinio di Elah sale al trono, nel regno del nord, il re Omri (885-874 a.C. ca.) con il quale abbiamo il primo concreto tentativo di fondare una dinastia. Cinquant’anni dopo la sua morte, la “casa di Omri” sarà ancora ricordata negli annali del re di Assiria. Il regno di Omri è narrato, nel testo biblico, in 1 Re 16,23-28: il brevissimo racconto preferisce soffermarsi piuttosto sul figlio di Omri, il re Acab, strettamente legato alle vicende del profeta Elia.

42 Chiamato Shishaq in ebraico, il primo faraone esplicitamente ricordato per nome nella Scrittura (1Re 11,40).

43 La cronologia dei re di Israele e Giuda è tutt’altro che sicura; i diversi autori forniscono date diverse. Si veda comunque la tabella finale per una visione d’insieme.

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Omri appare sulla scena come un capo militare che riesce a prendere il potere con il sostegno delle sue truppe, alla morte di Zimri - re per sette giorni! - sconfiggendo il rivale Tibni: il testo di 1Re 16,16 lo definisce esplicitamente “capo dell’esercito” ed è tutto quanto sappiamo di lui. Il suo primo atto importante è la fondazione di una nuova capitale: dalla città di Tirza l’amministrazione del regno si trasferisce nella nuova città di Samaria, da lui stesso fondata. La scelta di Omri si spiega facilmente: isolata, al centro di fertili colline, all’incrocio di strade importanti, Samaria occupa una posizione strategica. Dodici km a nord di Nablus, Samaria fu più volte distrutta e ricostruita in epoca romana con il nome di Sebaste; ancora oggi nelle rovine sono visibili i resti del muro di cinta di epoca israelita. Samaria diventa così un’importante e grande città, nonostante la Bibbia la liquidi in un solo versetto (1Re 16,24).

Per controbilanciare l’alleanza fatta dal re di Giuda con la potenza sempre più crescente degli aramei di Damasco (si ricordi la già citata stele di Tel Dan), Omri si allea a sua volta con i Fenici di Tiro: tale alleanza sarà sigillata dal matrimonio del figlio di Omri, Acab, con Gezabele, figlia del re di Tiro (cf. 1Re 16,31). Omri raggiunse una potenza ragguardevole anche in campo militare, almeno in paragone alla scarsa rilevanza di Israele sul piano internazionale. Assedia la città filistea di Ghibbethon e annette parte del territorio moabita in Transgiordania. Di questo fatto abbiamo per la prima volta una conferma sicura proveniente da una fonte estranea alla Bibbia. Nel 1868 fu casualmente scoperta in Giordania una stele in basalto nero che, pur semidistrutta dai beduini che l’avevano trovata (i quali pensavano di trovarvi all’interno un tesoro!) fu ricostruita e decifrata. L’iscrizione comprende 34 righe, risale agli anni 842-840 a.C. ed è attribuita a Mesha, re di Moab, contemporaneo di Acab. E’ molto interessante vederne, almeno in parte, il contenuto:

«Io (sono) Mesha, figlio di Kemosh, re di Moab il Dibonita. Mio padre ha regnato su Moab per trent’anni ed io ho regnato dopo mio padre. Ho innalzato quest’alto luogo per (il dio) Camos in Qarhoh; [Io] la costruii [vitt]orioso, perchè egli mi salvò da tutti i re e mi fece trionfare su tutti i miei nemici. Omri era re di Israele ed ha oppresso Moab per lunghi giorni, perchè Camos era in collera contro il suo paese. Quando suo figlio (Acab) gli succedette anch’egli disse: ‘io umilierò Moab !’. Nei miei giorni egli Ca[mos] così disse, ma io trionfai su di lui e sulla sua casa. E Israele fu distrutto per sempre. Ora Omri aveva preso possesso di tutto il paese di Madaba e (Israele) vi aveva abitato durante i suoi giorni e la metà dei giorni del suo figlio, quaranta anni. Ma Camos dimorò in essa durante i miei giorni. (…)Camos mi disse: ‘va’, strappa Nebo a Israele’. Io andai e combattei

contro di essa dallo spuntare dell’aurora fino al mezzogiorno. La presi e uccisi tutti, settemila uomini, con ragazzi, donne, giovanette e schiave, perchè io l’avevo votata allo sterminio per il dio Ashtar-Camos. Di là io presi i ‘vasi’ (?) di YHWH e li portai alla presenza di Camos...»44.

44 Il testo della stele di Mesha si può leggere in traduzione italiana CIMOSA, L’ambiente storico-culturale delle Scritture ebraiche, 286-290 (qui riportata con piccole modifiche). Le aggiunte tra parentesi quadre sono ricostruzioni di un testo perduto; quelle tra parentesi tonde sono invece esplicative: Camos (Kemosh) è il dio principale dei Moabiti; Madaba e Nebo sono due città della Transgiordania che Omri aveva conquistato. L’alto luogo di cui si parla all’inizio dell’iscrizione è

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La stele testimonia la realtà delle conquiste fatte da Omri e, allo stesso tempo, la sconfitta patita, qualche anno più tardi, da Acab, che vide Moab riguadagnare la sua indipendenza. Il testo biblico di 2Re 3 narra in modo oscuro e imbarazzato la sconfitta finale di Yoram, figlio di Acab (si veda in particolare il v. 27). La stele di Mesha si sofferma, com’è da aspettarsi, non sulle sconfitte patite dai moabiti nel passato (delle quali parla invece il testo biblico, dal punto di vista di Israele), ma sulla vittoria decisiva e sulla riconquista dell’indipendenza. Inoltre, mentre nella stele si parla della vittoria di Moab sul “figlio di Omri” che non è però Acab, ma suo figlio Yoram; ma forse “figlio” va qui inteso nel senso di “discendente”. La stele è tuttavia altrettanto importante da un punto di vista religioso perchè è una esplicita testimonianza del culto di YHWH, Dio di Israele, qui contrapposto al dio nazionale moabita, Camos.

Il successore di Omri, il figlio Acab (874-853 a.C.) si trovò a combattere un nemico ben più forte dei Moabiti, la crescente potenza assira. All’inizio del IX sec. a.C. il re Assurbanipal II (883-859 a.C.) dal cuore del regno assiro, la città di Ninive, sul fiume Tigri (nell’attuale Iraq), raggiunge e conquista la Siria e la Fenicia. Il figlio Salmanassar III (858-824 a.C.) prosegue tale politica espansionistica organizzando, nell’853, una campagna in grande stile diretta verso ovest. I re locali si organizzarono allora in una lega antiassira che compredeva il re di Damasco, il re di Israele Acab ed altri re della regione, con rinforzi provenienti fino dall’Egitto. Lo scontro con l’esercito assiro avvenne presso la località di Qarqar, sul fiume Oronte, nel nord dell’attuale Libano e fu per la lega una sconfitta che, tuttavia, riuscì a frenare almeno in parte, per il momento, l’espansione assira. Di questa importante battaglia, che tuttavia la Bibbia neppure ricorda, abbiamo un resoconto in una iscrizione scoperta nel 1845 su un monolito datato del regno di Salmanassar III: in tale iscrizione si attribuiscono ad “Acab del paese di Sir’ila (“Israele?)” - se tale lettura è corretta - ben 2.000 carri da guerra e 10.000 fanti, una forza militare notevole, per l’epoca, che faceva di Acab il capo indiscusso della coalizione antiassira. L’archeologia ha dimostrato che sotto il regno di Acab furono fortificate importanti città in posizione chiave, come la stessa Samaria, Hazor e Meghiddo.

Sotto la dinastia di Omri la stabilità politica porta, insieme alle vittorie militari, anche un miglioramento delle condizioni economiche e sociali. Nascono tuttavia in Israele i primi contrasti dovuti a disparità sociali e soprusi della classe dirigente, contrasti che col passar del tempo si faranno sempre più acuti. La storia della vigna di Nabot, fatto assassinare con l’inganno dal re Acab che voleva impadronirsi della sua proprietà (episodio narrato in 1Re 21) è forse un’eco di questo tipo di problemi. Da un punto di vista religioso il testo biblico dà un giudizio estremamente

negativo sul regno del nord e in modo particolare su Acab:

«Acab, figlio di Omri, fece ciò che è male agli occhi del Signore, peggio di tutti i suoi predecessori (…) Eresse un altare a Baal nel

un luogo di culto della religione moabita. I ‘vasi’ sacri di YHWH non sono ancora qualcosa di pienamente identificato.

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tempio di Baal che aveva costruito in Samaria. Acab eresse anche un palo sacro e compì ancora altre cose irritando il Signore Dio di Israele più di tutti i suoi predecessori» (1Re 16,30-33).

Collegato a questo aspetto del regno di Acab e all’interno delle vicende politiche rigurdanti la dinastia omride, il racconto della Bibbia è piuttosto interessato alle vicende di due grandi profeti, Elia ed Eliseo, cui gran parte dei libri dei Re è dedicata: il ciclo di Elia si estende da 1Re 17 a 2Re 2 e quello di Eliseo da 2Re 3 a 2Re13. Cronologicamente Elia si colloca durante il regno di Acab, mentre l’azione di Eliseo arriva sino al regno di Ioas. E’ molto difficile ricostruire il nucleo storico originale riguardo alle tradizioni sui due profeti e dire quanto esse siano state rilette ed amplificate in seguito. I due cicli di Elia ed Eliseo testimoniano l’esistenza di uno scontro violento tra il culto di Baal e quello di YHWH, scontro che ha la sua punta drammatica nel racconto di 1 Re 18,20-40, la sfida sul monte Carmelo tra Elia e i sacerdoti di Baal. Probabilmente l’esistenza di un simile conflitto deve essere stata accentuata da un redattore di fede yahwista che scrive forse all’epoca di Manasse (v. oltre); le due figure profetiche tuttavia sono testimoni del fatto che, almeno nel regno del nord, il culto di Baal trovava ampia cittadinanza accanto a quello di YHWH. Non si tratta dunque di un’apostasia religiosa - Baal preferito a YHWH - ma di un culto yahwista non esclusivo: i due figli di Acab portano entrambi nomi yahwisti (cioè nomi composti con il nome sacro, in ebraico Ahaziah, “YHWH ha preso”, e Jehoram, “YHWH è elevato”). Evidentemente, per i re di Israele e per gli stessi Israeliti un simile sincretismo (o forse un simile pluralismo!) era molto più pacifico che non per le correnti profetiche rigidamente yahwiste, per le quali le forme con le quali si eprimeva la religiosità popolare dovevano rappresentare un vero scandalo.

Durante il periodo della dinastia di Omri, il regno del sud è eclissato dalla potenza del nord. I rapporti tra i due regni dovevano essere comunque migliorati, se in 2Re 3,4 vediamo Giuda combattere accanto a Israele. Dei successori di Asa, Giosafat e Yoram, sappiamo ben poco. Di Giosafat, il

testo di 1 Re 22,48-50 riferisce un tentativo di spedizione marittima andato a vuoto, tentativo la cui reale storicità ci sfugge. Secondo 2Cr 17,1-9 e 2Cr19,1-11, Giosafat appartiene a quei pochi re “giusti” che intrapresero riforme, soprattutto di tipo religioso: di tentativi del genere non rimangono tuttavia tracce, al di là del testo tardivo del Secondo Libro delle Cronache. Alla morte del successore di Giosafat, Yoram (842), sale al trono Ahazia, che

viene subito ucciso, dopo neppure un anno di regno, mentre la regina-madre Atalia, figlia di Acab e Gezabele (84 -835 a.C.), che aveva assunto la reggenza dopo aver ucciso tutti i possibili pretendenti, viene a sua volta detronizzata da un colpo di stato, probabilmente ad opera delle classi sacerdotali e nobiliari, che porta al potere il giovane Yoash, figlio di Ahazia.

c. L’apogeo del regno del nord (841-743 a.C. ca.).

Un sanguinoso colpo di stato mette fine alla dinastia degli Omridi: con l’appoggio dei circoli profetici - il testo biblico parla di Eliseo - un alto ufficiale dell’esercito, di nome Yehu (841-814 a.C.), stermina tutta la famiglia di Acab, a cominciare dalla moglie Gezabele e, allo stesso tempo, restaura con la forza il

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culto di YHWH, facendo massacrare tutti i profeti di Baal (l’episodio è narrato in 2Re 10,18 -28). E’ molto interessante osservare come il testo di Os 1,4 offra una visione del tutto negativa dell’opera di Yehu. Si tratta in realtà di due punti di vista diversi; mentre il testo deuteronomista esalta la riforma religiosa del nuovo re, il profeta Osea ne condanna i metodi violenti. Si comprende bene come la storiografia biblica è in ogni caso sempre guidata da intenti teologici. La rivolta di Yehu si inserisce in un movimento più vasto di destabilizzazione che coinvolge l’intera regione; nello stesso periodo, infatti, un analogo colpo di stato ha luogo tra gli aramei di Damasco, dove un certo Cazael prende il po-tere, assassinando il re legittimo. E’ interessante notare come anche in questo caso ciò sembra avvenire con l’appoggio indiretto di Eliseo, almeno secondo il testo di 2 Re 8,7-15. A partire da questa data tuttavia (841 a.C.) la potenza di Israele comincia a

declinare: il cosiddetto obelisco nero, un’iscrizione assira del tempo di Salmanassar III, ricorda il tributo pagato da “Yehu, figlio di Omri” al re assiro; si tratta della prima raffigurazione di un re d’Israele che noi possediamo. In realtà Yehu non era affatto figlio di Omri, ma questa è un’ulteriore testimonianza della notorietà della dinastia omride in campo internazionale. Ciò ci fa poi sospettare che il colpo di stato di Yehu non fosse avvenuto senza l’appoggio o quanto meno l’approvazione dell’Assiria: in questo caso, le motivazioni religiose passerebbero in secondo piano. Pochi anni più tardi, il re di Israele Yoash (tra il 798 e il 783 a.C. ca.) appare ormai come semplice vassallo dell’Assiria, come ci testimonia un altro documento, la stele assira di Adad-Nidari trovata a Tell Rimah, risalente a circa il 797 a.C. E’ significativo che il testo biblico non menzioni né la sottomissione di Yehu né quella di Yoash; mentre gli assiri ci hanno comprensibilmente tramandato le loro vittorie, i narratori biblici hanno evitato di raccontarci episodi meno favorevoli a Israele.

Con il successore di Yoash, il regno del nord gode del suo ultimo periodo di splendore. Il re Geroboamo II, infatti,) riesce a restaurare la situazione di relativa pace e sicurezza del tempo di Omri. Geroboamo (783-743 a.C. circa, tra l’altro, è il primo re israelita di cui esista un reperto archeologico sicuro: si tratta di un sigillo ritrovato a Meghiddo, importante città in posizione strategica, lungo la via del mare, alle pendici del monte Carmelo, sigillo che porta la firma di “Shema, servo (cioè probabilmente ‘ministro’) di Geroboamo”. In questo periodo, molto vitale come si è visto, abbiamo altre testimonianze scritte: negli scavi di Samaria furono trovati, nel 1910 numerosi ostraka, parola greca con la quale gli archeologi chiamano i “cocci” usati come tavolette per scrivere. Si tratta di bollette di accompagnamento per olio e vino destinati al palazzo reale di Samaria, databili tra il 778 e il 770 a.C.. Questi preziosi reperti testimoniano tra l’altro la prosperità e il benessere del regno di Geroboamo, o almeno quello della sua corte. L’ascesa di Geroboamo è senz’altro favorita da una causa esterna, il crollo del regno arameo di Damasco, distrutto dagli assiri, ormai in costante espansione. Il testo di 2Re 14,25 (v. anche Am 6,13) ci ricorda anche come Geroboamo sia riuscito a riconquistare una parte della Transgiordania, cioè quelle regioni già sottomesse da Omri. Il regno di Geroboamo è per noi importante perchè è proprio in questo

periodo che si colloca l’opera dei primi due profeti scrittori, Amos e Osea (cf. Am 1,1 e Os 1,1). Questa coincidenza ci spinge a soffermarci sulle condizioni sociali allora esistenti. Alcuni testi di Osea sembrano far riferimento all’anarchia politica precedente il regno di Geroboamo: si vedano ad esempio

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Os 7,6-7 e 13,10-11. Ancora sul piano politico, Osea denunzia la politica di compromesso dei sovrani Israeliti, che concludono alleanze ora con l’Egitto, ora con l’Assiria, a seconda delle circostanze:

«Efraim è come una ingenua colomba,priva di intelligenza; ora chiamano l’Egitto, ora invece l’Assiria. Dovunque si rivolgerannostenderò la mia rete contro di loroe li abbatterò come gli uccelli dell’aria,li punirò nelle loro assemblee» (Os 7,11-12).

I testi di Os 5,13 e 12,1-2 sono riferimenti ai tributi pagati dai re di Israele ai

sovrani assiri. La situazione di disordine internazionale propria di tutta la regione è infine ben stigmatizzata nel lungo passaggio di Am 1,3-2,3. Amos si sofferma in modo particolare a denunziare la situazione di ingiustizia in cui gli abitanti di Israele si trovano a vivere: secondo il quadro che egli dipinge, i capi del popolo opprimono la gente (cf. Am 2,6-7), i commercianti frodano (Am 8,4-6), i giudici non esercitano la giustizia e i sacerdoti offrono un culto solo esteriore (cf. Am 5,21-27; Os 5,1-2). In particolare, viene preso di mira il lusso in cui vive la classe dominante: gli ‘avori’ di Samaria ricordati nel duro testo di Am 6,1-7 sono quei raffinati manufatti di avorio proprio là scoperti e che ancora oggi si possono ammirare nel museo Rockfeller a Gerusalemme. Infine, sia Amos che Osea pongono come vertice della loro denunzia sociale l’oppressione del povero condannata con grande forza ricordando coloro che “hanno venduto il giusto per denaro” e “calpestano come polvere della terra la testa dei poveri” (Am 2,6.7), cioè plausibilmente di quelle classi di piccoli agricoltori e di salariati già rovinati dalle ripetute guerre e da calamità naturali come terremoti, frequenti carestie, pestilenze, invasioni di cavallette, disgrazie interpretate dai profeti in chiave esplicitamente teologica (si veda a questo riguardo il passo di Am 4,6-12). Siamo davanti a un altro caso in cui un periodo storicamente florido e

politicamente più solido dei precedenti, ovvero il regno di Geroboamo II, viene interpretato dal testo biblico, in questo caso dal messaggio profetico di Amos e di Osea, come un periodo del tutto negativo, proprio a motivo dell’esistenza di queste forti disparità e ingiustizie sociali, a lato di un diffuso benessere, privilegio però di pochi.

Durante questo periodo il regno del sud si trova ancora una volta oscurato dall’influsso del nord, in particolare durante il regno di Geroboamo. Suo contemporaneo fu il re Azaria chiamato anche Ozia o Uzzia (781-740 a.C., ma in questo caso la datazione è molto incerta), personaggio poco conosciuto, del quale il testo di 2 Re 15,5 afferma che era lebbroso. Sotto Azaria-Ozia il regno del sud sembra godere di una relativa prosperità, anche se non nella misura di quella che abbiamo visto a proposito del nord: il testo di 2Cr26-27 parla a lungo di questo re, in termini piuttosto entusiastici, che contrastano con le stringate notizie forniteci dal racconto più antico di 2Re 15,l-7. La situazione descrittaci da Isaia nel capitolo 2 rispecchia, sembra, la ricchezza, ma anche l’ingiustizia sociale, dell’epoca di Ozia:

«Tu hai rigettato il tuo popolo,

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la casa di Giacobbe,perchè rigurgitano di maghi orientali,e di indovini come i Filistei;agli stranieri battono le mani. Il suo paese è pieno di argento e di oro,senza fine sono i suoi tesori;il suo paese è pieno di cavalli,senza numero sono i suoi carri». (Is 2,6-7).

E’ nell’anno della morte del re Ozia che Isaia colloca l’inizio della sua missione (Is 6,l). Durante il regno di Ozia le relazioni con il nord dovevano essere state buone; i confini dei due regni messi insieme non sono diversi da quelli raggiunti molto tempo prima in epoca salomonica. Questo periodo vede dunque i momenti migliori sia per Israele che per Giuda - pur ricordando la denunzia profetica. Si tratta tuttavia di una prosperità molto più apparente che reale, che prelude infatti a un veloce declino.

d. Il crollo del regno del nord (743-722 a.C.).

Dopo la morte di Geroboamo II, il regno del nord piomba ben presto in un nuovo e ben più grave periodo di anarchia. Due re vengono assassinati uno dopo l’altro: si tratta di Zaccaria e Sallum, uccisi nello stesso anno (743 a.C.). Il fattore decisivo per la caduta di Israele viene tuttavia dalla nuova ondata assira. Probabilmente intorno al 745 a.C. sale al trono dell’Assiria il re Tiglat-Pileser III che mette in atto un ambizioso programma di conquiste e di espansionismo che lo conduce a una politica estremamente aggressiva. In breve tempo, la potenza assira si estenderà dal Tigri e dall’Eufrate, sino al Mediterraneo; dai confini dell’Asia Minore sino al deserto del Neghev, giungendo a minacciare lo stesso Egitto. La forza dell’Assiria è prima di tutto sul piano militare: per la prima volta viene usata la cavalleria come forza d’assalto, accanto all’uso, ormai diffuso, dei carri da guerra. La ferocia e la crudeltà dell’esercito assiro erano ben note nell’antichità tanto che un testo di Isaia può descrivere gli assiri come bestie feroci lanciate all’assalto:

«Nessuno fra essi è stanco o inciampa,nessuno sonnecchia o dorme,non scioglie la cintura dai suoi fianchie non si slaccia il legaccio dei suoi sandali. Le sue frecce sono tutte acuminate e ben tesi tutti i suoi archi;gli zoccoli dei suoi cavalli sono come pietree le ruote dei suoi carri come un turbine. Il suo ruggito è come quello della leonessa,ruggisce come un leoncello,freme e afferra la preda,la pone al sicuro, nessuno gliela strappa. Fremerà su di lui in quel giornocome freme il mare;si guarderà la terra: ecco, saranno tenebre, angoscia

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e la luce sarà oscurata dalla caligine». (Is 5,27-30).

Alcuni regni, specie i più piccoli, si sottomisero volontariamente, per evitare la distruzione, divenendo così vassalli dell’Assiria; altri furono costretti a cedere territori e pagare pesanti tributi. Al minimo cenno di ribellione l’Assiria interveniva con durezza, annettendo la regione e insediando al potere propri funzionari. Una novità in questo genere di politica di conquista è l’uso sistematico della deportazione: di fronte a un serio tentativo di ribellione, l’Assiria deportava tutta la classe dirigente del paese, decapitando così ogni possibile futuro tentativo. L’Assiria governa così con il terrore, unendo deportazioni di massa a politiche di “pulizia etnica” e assimilazione forzata delle popolazioni alla lingua, cultura e religione assira.Il regno del nord in questi anni (siamo attorno al 734-3 a.C.) tenta un’ultima,

disperata mossa per frenare la potenza assira, una coalizione insieme a Rezin re di Damasco, cui viene chiesto di partecipare anche al re di Giuda Acaz (736-716 a.C.). Questi rifiuta di intervenire, così che Rezin di Damasco e Pekakh, re di Israele tentano di deporlo con la forza. Si tratta di quella che è stata in seguito chiamata la “guerra siro-efraimita”, l’ultimo scontro tra il regno del nord e quello del sud. La guerra, in realtà poco importante sul piano militare, assume un valore rilevante nel testo biblico, dove costituisce il sottofondo storico necessario per poter comprendere i capitoli 7-8 di Isaia, ove è collocato il celebre oracolo sulla nascita dell’Emmanuele (Is 7,14). Acaz viene preso dal panico e, stretto tra due minacce, quella immediata proveniente dal regno del nord e quella più lontana, ma più terribile, degli assiri, decide di sottomettersi a questi ultimi, nonostante i consigli contrari di Isaia. Acaz si rivolge direttamente a Tiglat-Pileser, offrendogli spontaneamente un tributo (2Re 16,7) e giungendo sino ad accogliere usi religiosi assiri all’interno del Tempio di Gerusalemme (2Re 16,10); il nome di Acaz è ricordato negli annali di corte assiri all’interno delle liste dei vassalli tributari del re. Tiglat-Pileser non si lascia sfuggire l’occasione propizia e, nello stesso anno,

intraprende una campagna militare diretta prima contro Damasco e successivamente contro Israele (v. cartina n°5). Damasco viene conquistata mentre Israele è ridotto a uno stato vassallo, dove Tiglat-Pileser insedia un re di suo gradimento, un certo Osea (732-724 a.C.). Questi, per motivi a noi ignoti, dopo aver regnato per nove anni come un fedele vassallo, decise di ribellarsi a Salamanassar V, nuovo re assiro, forse tentando un’improbabile alleanza con l’Egitto. L’Assiria risponde ancora una volta con durezza e, sotto Sargon II, successore a sua volta di Salmanassar V, nel 722 a.C., dopo due anni di assedio, Samaria fu catturata e quindi distrutta. Gran parte della popolazione (27.290 persone, se si deve dar credito ad una iscrizione di Sargon II) viene deportata in Assiria (2Re 17,5-6). Il nord diviene così di fatto una provincia assira, ora chiamata “Samaria”, con

nuovi abitanti, non israeliti e conseguentemente con nuovi costumi ed usi religiosi, ponendo così le basi di quella che, molto tempo dopo, diventerà la separazione tra Giudei e Samaritani, anche se il culto di YHWH non scomparirà mai totalmente. La fine del nord è dovuta a fattori prevalentemente politici, non ultimo la continua e cronica instabilità politica (si contano almeno otto colpi di stato) unita alle lotte con il sud, eccetto pochi periodi di pace, ed alla posizione strategica molto più centrale rispetto al piccolo e internazionalmente poco importante regno di Giuda. Il lungo testo di 2Re 17,6-23 è un’ampia

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riflessione che a posteriori tenta di giustificare teologicamente tali eventi, richiamandosi al sincretismo religioso esistente fin dai tempi di Geroboamo I: “ciò avvenne perchè gli Israeliti avevano peccato contro il Signore loro Dio…”. Ancora una volta il testo biblico appare molto più interessato al senso teologico di ciò che è accaduto piuttosto che all’esattezza storica dei fatti; ma si tratta in realtà di una tendenza ben diffusa nel modo del Vicino Oriente Antico.

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CAPITOLO V

IL REGNO DI GIUDA DAL 722 ALL’ESILIO BABILONESE

«Se si eccettuano Davide, Ezechia e Giosia, tutti commisero peccati; poiché avevano abbandonato la legge dell’Altissimo, i re di Giuda scomparvero. Lasciarono infatti la loro potenza ad altri, la loro gloria a una nazione straniera...» (Sir 49,4-5).

a. Ezechia (716-687 a.C.)

Dopo il crollo del regno del nord, Giuda è ridotto a un piccolissimo Stato, del tutto insignificante nel panorama storico internazionale, uno dei pochi regni rimasti ancora indipendenti e non soggetti direttamente all’Assiria, di cui tuttavia è vassallo, in seguito al tributo pagato da Acaz a Tiglat Pileser. La Giudea costituisce in questo periodo una sorta di stato cuscinetto tra l’Assiria e l’Egitto. Unico erede poi delle tradizioni religiose israelite, il regno del sud diviene il centro di elaborazione di testi biblici come probabilmente già quelli della scuola deuteronomista e dei profeti “scrittori” come Isaia e Michea.

La cronologia del regno di Ezechia è discussa; probabilmente associato al trono del padre Acaz fin dal 728, egli diviene re nel 716 a.C., dunque pochissimo tempo dopo la caduta del nord. Il testo biblico si occupa ampiamente di Ezechia: oltre ai capitoli 18-20 del secondo libro dei Re, abbiamo il testo di Isaia 36-39 e la versione fornitaci dal Cronista in 2Cr 29-32. Il quadro che ci viene fornito è ampiamente positivo:

«Egli confidò nel Signore, Dio di Israele. Fra tutti i re di Giuda, nessuno fu simile a lui, né fra i suoi successori né fra i suoi predecessori. Attaccato al Signore non se ne allontanò; osservò i decreti che il Signore aveva dati a Mosè. Il Signore fu con Ezechia e questi riuscì in tutte le sue iniziative» (2Re 18,5-7).

E’ evidente come non si tratti di un giudizio sul piano politico, ma su quello religioso: Ezechia, al contrario dell’ ‘empio’ padre Acaz, viene ricordato soprattutto per la sua opera di riforma religiosa. Il Cronista fa di Ezechia addirittura un precursore di qualcosa che somiglia al nostro ecumenismo: in occasione della grande festa di Pasqua da lui celebrata quasi a suggello della

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sua opera riformatrice, Ezechia avrebbe invitato a partecipare anche le odiate tribù del nord (2Cr 30). La riforma di Ezechia sarebbe consistita in una restaurazione del culto di YHWH, di pari passo con il tentativo di eliminare i culti cananaici e i luoghi sacri loro consacrati. In particolare, Ezechia avrebbe insistito sul ruolo centrale del Tempio di Gerusalemme. E’ molto difficile dare un giudizio sulla attendibilità di questi dati; è difficile

separare nel testo biblico ciò che Ezechia potrebbe aver fatto dalla idealizzazione che il redattore deuteronomista fa della sua opera. Si può tuttavia ritenere probabile una azione riformatrice di Ezechia tesa ad affermare con più forza l’unicità del culto di YHWH, azione supportata da gruppi profetici (Isaia).

A questo programma religioso, Ezechia ne fa seguire anche uno politico: riesce a sconfiggere i Filistei, rientrando in possesso di una parte del territorio perduto dai suoi predecessori e, verso il 705 a.C., si allea con l’Egitto per contrastare la potenza assira. Questo avviene al momento della morte di Sargon, il re assiro, assassinato improvvisamente: Ezechia approfitta così del momento di difficoltà incontrato dal successore di Sargon, il re Sennacherib. Sia il testo biblico sia l’archeologia ci testimoniano i preparativi di Ezechia per resistere ad una eventuale invasione. I testi assiri relativi all’invasione che poi verrà effettivamente effettuata parlano di ben quarantasei fortezze conquistate, fortezze evidentemente costruite o completamente restaurate da Ezechia. Così, nonostante tutto, Gerusalemme e la Giudea conoscono un breve periodo di relativo benessere. L’opera edilizia più celebre, ben visibile ancora oggi, resta il tunnel di Siloam, una conduttura d’acqua sotterranea usata per rifornire la città di Gerusalemme in caso d’assedio. Il tunnel parte dalla sorgente di Ghihon, appena fuori delle mura, e porta l’acqua fino alla piscina di Siloam, all’interno della città. Si tratta di una notevole opera di ingegneria, tuttora percorribile a piedi. All’ingresso del tunnel fu ritrovata, nel 1880, un’iscrizione in ebraico, risalente probabilmente a Ezechia stesso, nella quale gli operai narrano in modo dettagliato e appassionante la fase finale della costruzione del tunnel.45 Il progetto di Ezechia appare dunque chiaro: i preparativi per la guerra e la

sua alleanza con l’Egitto testimoniano della volontà di liberarsi dall’Assiria. Questa politica trovò, secondo testi come Is 18,1-7; 20,1-6; 30,1-3, la decisa opposizione di Isaia, che vedeva nell’azione di Ezechia un tradimento della fiducia nel Signore. Detto in termini politici, i circoli profetici più realisticamente si rendevano conto dell’illusorietà di un tale tentativo. In risposta alle azioni di Ezechia, il re assiro Sennacherib nel 701 a.C. invade

la Giudea. Gli annali del regno di Assiria, il testo biblico e la testimonianza dell’archeologia ci permettono una ricostruzione abbastanza precisa di questa campagna. Dopo aver sottomesso il re di Tiro, in Fenicia, Sennacherib si dirige verso la costa, nella regione dei Filistei. Nel frattempo manda ambasciatori a Gerusalemme ad intimare la resa. La discesa dell’esercito assiro è narrata in modo molto drammatico in 2Re 18,17-37 e 19,9-13. Non conosciamo quale fu la risposta ufficiale di Ezechia; oltre al partito favorevole alla resa o alla trattativa, il testo biblico testimonia l’esistenza di gruppi che invitavano alla resistenza. L’avanzata assira fu molto rapida ed è ancora oggi apprezzabile la

45 Il testo dell’iscrizione si può leggere in CIMOSA, L’ambiente storico-culturale, 307.

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potenza delle truppe assire in un celebre bassorilievo, ritrovato nel palazzo di Ninive, oggi al British Museum di Londra. In quest’opera stupenda, che occupa una intera parete, possiamo osservare la presa da parte dell’esercito assiro della città di Lakish, una delle roccaforti di Giuda (2Re 19,8). Sennacherib pose l’assedio a Gerusalemme, fatto del quale si vanterà poi nei suoi annali, affermando di avervi rinchiuso Ezechia “come un uccello in gabbia”. Improvvisamente però, Sennacherib tolse l’assedio, facendo ritorno a Ninive.

Non conosciamo i motivi reali di questo gesto: si può pensare ad una epidemia scoppiata nell’esercito assiro, all’arrivo di un forte contingente egiziano in soccorso di Ezechia, oppure a motivi politici interni (poco tempo dopo Sennacherib finirà assassinato da parte dei suoi stessi figli); si può anche pensare alla riuscita di trattative che prevedevano un atto di sottomissione da parte di Ezechia il quale, ad ogni buon conto, invia a Ninive una grande quantità d’oro e d’argento come tributo. Comunque sia, il testo di 2Re 18,13-19,36 (cf. anche Is 36-39) interpreta l’avvenimento come un chiaro segno dell’aiuto divino per Ezechia: ancora una volta la Bibbia legge i fatti in chiave teologica, dando in tal modo un giudizio positivo su Ezechia. Egli, in realtà, lasciò un regno ancor più indebolito, semidistrutto, come anche l’archeologia ci testimonia, territorialmente ridotto quasi soltanto a Gerusalemme e i suoi immediati dintorni:

«Il vostro paese è devastato,le vostre città sono arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi,la divorano gli stranieri;è una desolazione come Sodoma distrutta. E’ rimasta sola la figlia di Sion (Gerusalemme)come una capanna in una vigna,come un casotto in un campo di cocomeri,come una città assediata». (Is 1,7-8).

b. Manasse e Amon (687-640 a.C.)

Con Manasse, figlio di Ezechia, siamo di fronte al regno più lungo di tutta la storia di Israele: ben 45 anni (dal 687 al 642 a.C. circa), secondo le fonti bibliche, ancora una volta le uniche disponibili a questo riguardo. Il regno di Manasse coincide con il periodo di massima potenza dell’impero

assiro: gli Assiri controllano ormai tutta la regione che va dalla Siria fino al Sinai, dall’Anatolia sino all’Arabia. A partire dal 671 a.C. il re Asshardon e il suo successore Assurbanipal arrivano persino a conquistare l’Egitto, raggiungendo così l’apogeo dell’impero. Della conquista assira dell’Egitto abbiamo una eco in Na 3,8-10: qui il profeta ricorda con sarcasmo le vittorie passate degli assiri - ormai in decadenza, al tempo in cui Nahum scriveva, ovvero nella seconda metà del VII sec. a.C.:

«Sei forse più forte di Tebe,46

46 Tebe, nel delta del Nilo, fu saccheggiata dalle armate di Assurbanipal nel 663 a.C.

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seduta tra i canali del Nilo,circondata dalle acque ? Per baluardo aveva il mare,per bastione le acque. L’Etiopia e l’Egitto erano la sua forza,che non aveva limiti (…). Eppure anch’essa fu deportata,andò schiava in esilio. Anche i suoi bambini furono sfracellatiai crocicchi di tutte le strade. Sopra i suoi nobili si gettarono le sortie tutti i suoi grandi furono messi in catene».

(Na 3,8-10).

Anche Manasse appare tra i tanti vassalli dell’Assiria: un’iscrizione dell’epoca ce lo mostra a Ninive, nel 667, nell’atto di pagare l’annuale tributo al re Assurbanipal, insieme ad altri ventidue re vassalli. Il racconto di 2Re 21,1-18 è ancora una volta testimone dell’interesse primario del redattore deuteronomista: del lunghissimo regno di Manasse si ricorda solo l’aspetto religioso. Manasse, come segno della sua sottomissione all’Assiria, ne avrebbe introdotto anche gli usi cultuali, a lato del culto di YHWH. La cosa è verosimile, se si pensa anche al fatto che difficilmente Manasse avrebbe potuto salire al trono senza il gradimento dell’Assiria e che egli si comportava in tutto da perfetto vassallo. In uno dei trattati di vassallaggio di Asshardon, il cui testo è giunto sino a noi, si legge che il vassallo deve onorare il dio Assur, riverirlo, amarlo e rispettarlo come fosse il proprio dio. Il testo di 2Re 21,16, secondo il quale Manasse avrebbe “versato in quantità sangue innocente”, si riferisce probabilmente alla persecuzione di gruppi di fedeli di YHWH, forse anche politicamente ostili all’Assiria; riferimenti alla dominazione assira è possibile scorgerli nel testo di Is 33,18-19 dove viene menzionato un popolo insolente, dalla strana lingua, che opprime la Giudea. Ma da un altro punto di vista, potremmo dire che Manasse ha restaurato la situazione di pluralismo religioso precedente al regno di Ezechia. L’interesse teologico circa il regno di Manasse è ancora più forte nel testo di

2Cr 33,11-17: qui il Cronista cerca di dare una spiegazione teologica al fatto che un re così empio e apostata abbia potuto regnare così a lungo. Manasse, secondo il testo delle Cronache, si sarebbe convertito nella sua vecchiaia, dopo aver tentato di ribellarsi a Babilonia ed esservi stato deportato. Sulla base di questa tradizione, storicamente davvero poco verosimile, nascerà successivamente una “Preghiera di Manasse”, entrata a far parte della traduzione greca della Bibbia nota come la Settanta (v. oltre, p. …), ma esclusa dal canone delle Scritture sacre sia giudaiche che cristiane e catalogata tra i li-bri apocrifi. Alla morte di Manasse gli succede il figlio Amon, il quale viene ucciso, dopo

soli due anni di regno, nel corso di una congiura non meglio precisata. La congiura non sembra andata a buon fine, perchè la nobiltà giudea - chiamata nel testo di 2Re il “popolo del paese” - mette a morte i congiurati e nomina il nuovo re, il giovanissimo Giosia, di appena otto anni. Dietro questo complotto si può forse vedere la lotta tra il partito filoassiro e quello filoegiziano, che cerca appunto di eliminare Amon, anch’egli evidentemente re devoto all’Assiria, come il padre Manasse. Ancora una volta siamo davanti ad uno dei

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tentativi di Israele per riconquistare la libertà, ma l’impero assiro e la paura che esso incute sono molto più forti.

c. Giosia e la riforma religiosa (640-609 a.C.).

Nel corso di questi anni assistiamo a un cambiamento radicale della situazione internazionale. L’Assiria inizia progressivamente, ma ine-sorabilmente un periodo di decadenza che terminerà solo con la sua scomparsa, minacciata dalla nascente potenza di Babilonia e dalle incursioni dei popoli seminomadi confinanti con il vasto impero. Nel 627 a.C. Babilonia riacquista la sua indipendenza e nel 612 i Babilonesi arriveranno addirittura a conquistare Ninive, distruggendo così definitivamente l’impero assiro, evento di grande portata, ricordato nella Bibbia dal libro di Nahum (Na 3,1-7; cf. anche Sof 2,13-15). Il crollo assiro porta come immediata conseguenza la rinascita egiziana e quindi il passaggio della Giudea sotto un nuovo dominatore, il faraone. Politicamente, dunque, la situazione non è cambiata: Israele è sempre sottomesso a un’altra potenza, anche se solo come vassallo. L’autonomia di cui il regno di Giuda gode è dunque relativa, pur se forse più ampia di quella goduta all’ombra dell’Assiria. Documenti provenienti dalla fortezza di Mesad Hashavyahu, località sulla costa mediterranea presso Yavne, sembra attestare la presenza, almeno in quella zona, di un avamposto egiziano con truppe composte da mercenari greci e giudei. Anche l’Egitto, tuttavia, dovrà uscire sconfitto dallo scontro con la nuova potenza babilonese: il faraone Necao, nel tentativo di respingere Babilonia, subirà (605 a.C.) una dura sconfitta nella battaglia di Karkemish, nell’alto Eufrate (presso l’attuale confine tra Siria e Turchia), segnando così la consacrazione di Babilonia come nuova grande potenza nel panorama del Medio Oriente Antico. E’ in questo contesto storico che si situa il regno di Giosia: il fatto che egli sia

salito al trono ancora bambino (otto anni) fa ovviamente pensare a un lungo periodo di reggenza. E’ anche l’epoca dei profeti Sofonia e Geremia e, verso la fine del regno, l’inizio dell’attività di Ezechiele. Geremia, in particolare, afferma di avere inziato la sua attività profetica (Ger 1,1) nel tredicesimo anno di regno di Giosia, cioè più o meno nel 627 a.C..

Il testo di 2 Re 22-23 ricorda come l’avvenimento principale del regno di Giosia una importante riforma religiosa (622 a.C.). Punto di partenza di tale riforma sarebbe stata la “scoperta”, nel Tempio di Gerusalemme, di un “libro della Legge”, che in passato molti studiosi hanno voluto identificare con l’attuale libro del Deuteronomio. E’ estremamente improbabile che il Deuteronomio risalga all’epoca di Giosia, almeno nella sua redazione finale. Ancora oggi si discute quale esattamente fosse questo libro e se ci sia

davvero stata quella “scoperta” di cui parla il testo di 2Re. Si può pensare che il libro in questione corrispondesse alla parte centrale dell’attuale Deuteronomio (i capitoli 12-26 ovvero il “codice deuteronomico”) sezione che, composta al tempo di Ezechia, originaria probabilmente del regno del nord, andata in disuso e dimenticata durante il regno di Manasse, fu appunto “riscoperta” durante il regno di Giosia e da lui usata come base per la sua riforma politico-religiosa. E’ forse in questo periodo che si iniziano a scrivere quei testi che, durante l’esilio o subito dopo, confluiranno nella cosiddetta

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grande “storia deuteronomistica”, che dal libro di Giosuè si estende attraverso il libro dei Giudici, i due libri di Samuele e i due libri dei Re. La riforma religiosa di Giosia ricorda quella già vista a proposito di Ezechia,

ma è senz’altro molto più radicale. Il re si dedica, secondo il testo biblico, a una eliminazione sistematica dei culti non yahwisti: fa bruciare statue e altari, distrugge santuari e accentua ancora di più il carattere di centralità che già il Tempio di Gerusalemme aveva: un solo Dio, YHWH, un solo popolo, un solo Tempio. Il testo di Dt 12-26 riflette questa situazione; il testo di 2Re 23,21-23 ci ricorda l’importanza della celebrazione pasquale nel quadro della riforma giosiana. Il primo periodo di predicazione di Geremia presenta qualche relazione con questa riforma, anche se la portata dei rapporti tra Geremia e Giosia resta a ancor oggi un problema aperto. La riforma deve aver incontrato notevoli resistenze e ancora molto tempo dopo Giosia vediamo il permanere di luoghi di culto israeliti all’interno della Giudea, segno che almeno parte della popolazione non era molto sensibile alle esigenze di una assoluta fedeltà allo yahwismo, così come voleva la riforma di Giosia.

Il regno di Giosia ebbe una fine improvvisa: dopo il 612, sparita dalla scena l’Assiria, il faraone Necao intraprende una campagna verso il nord di Israele, forse nel tentativo di contrastare l’avanzata babilonese. Giosia tentò forse di disturbarne i piani, oppure si illuse, nel mutato panorama internazionale, di riconquistare un minimo di indipendenza, giocando sul contrasto tra Egitto e Babilonia in seguito al crollo assiro. Il tentativo sfocerà in un fallimento: il faraone Necao fece uccidere Giosia nel 609, nella città di Meghiddo, in circostanze oscure. In 2 Re 23,29 si legge solo che Giosia andò incontro a Necao a Meghiddo, ma questi “lo uccise appena lo vide”. La reticenza di questo testo si può forse spiegare col fatto che la morte di Giosia fu certamente un evento tragico per i promotori della riforma, che vedevano in lui il difensore della fede yahwista; l’opera del re, di cui la scuola deuteronomista si farà portavoce, tuttavia sopravviverà alla sua morte e troverà un proseguimento ideale nel periodo dell’esilio e subito dopo il ritorno.

d. La fine del regno di Giuda.

Gli ultimi anni del regno di Giuda si caratterizzano come un periodo di crisi e di grande confusione. Alla morte di Giosia, il partito riformatore tentò di proseguire la politica del re defunto, nominando come successore il figlio maggiore di Giosia, Yoachaz. Questi si presentò a Necao, di ritorno dalla campagna condotta nel nord della terra di Israele, facendo atto di sottomissione, ma il faraone lo depose e lo esiliò in Egitto, nominando un re di suo gradimento, un altro figlio di Giosia, Eliakim, cambiandogli il nome in Yoaqim. Yoaqim (609-598 a.C.) fu, secondo il racconto di 2Re 23,36-24,7, un

personaggio debole e tirannico, legato al faraone che lo aveva messo al potere. Una delle sue imprese fu l’istituzione di nuove forme di tassazione in un paese già duramente provato dalla povertà (cf. 2Re 23,35). Il libro di Geremia insiste sugli scontri che il profeta avrebbe avuto con questo re: è all’inizio del regno di Yoaqim che Geremia avrebbe tenuto il suo noto discorso contro la fiducia quasi magica riposta dagli Israeliti nel loro Tempio, simbolo della protezione divina sulla città (Ger 7 e 26). Dietro queste prese di posizione

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occorre vedere anche la critica di Geremia alla politica filoegiziana del re, critica che raggiunge toni molto espliciti in testi come Ger 22,13-17 e so-prattutto 36,27-31:

«Contro Yoaqim re di Giuda dichiarerai: “(…) dice il Signore contro Yoaqim re di Giuda: egli non avrà un erede sul trono di Davide; il suo cadavere sarà esposto al calore del giorno e al freddo della notte. Io punirò lui, la sua discendenza e i suoi ministri per le loro iniquità…”«.

La reazione del re, che fa arrestare il profeta, alla luce di queste parole è certamente ben comprensibile. Un caso analogo è quello dell’uccisione del profeta Uria, ricordato in Ger 26,20-23. La posizione di Geremia è dettata da motivi religiosi, ma anche politici. Il

profeta si fa portavoce di un partito non propriamente filobabilonese, ma piuttosto attento a un realismo politico che vedeva la sottomissione a Babilonia come il minore dei mali per il piccolo regno di Giuda e la ribellione come preludio ad una inevitabile distruzione. E’ chiaro tuttavia come una tale posizione può essere facilmente intesa come collaborazionismo; in effetti, dopo la morte di Sedecia, Geremia sarà trattato dai Babilonesi come un loro amico (Ger 39,11-14; 40,1-6).

Nel 605 a.C. il faraone Necao subì come si è detto una pesante disfatta nella battaglia di Karkhemish, presso l’Eufrate, ad opera del re babilonese Nabucodonosor. Tutta la regione siro-palestinese, e quindi anche il regno di Giuda, cadono sotto la dominazione babilonese. Il re Nabucodonosor non riuscì tuttavia a sfruttare sino in fondo il successo ottenuto, a causa di disordini interni al suo regno e si accontentò di ricevere da Yoaqim, che nel frattempo aveva prontamente cambiato bandiera, il solito tributo. Nel 601, però, l’Egitto riesce a riprendersi e a sconfiggere o quanto meno a contenere, l’avanzata dell’esercito babilonese. Yoaqim cercò nuovamente di approfittare della situazione e di ritornare alla precedente alleanza con l’Egitto, ma questa volta Giuda è ormai soltanto una pedina di un gioco molto più vasto. Per reprimere quella che considera la rivolta di un modesto vassallo,

Nabucodonosor, nel 598 a.C., marcia su Gerusalemme e la assedia. L’episodio, riportato in 2Re 24,10-17 ci è noto anche dalle Cronache Babilonesi:

«L’anno 7 del mese di Kislew il re di Akkad mosse il suo esercito nella terra di Hatti, pose l’assedio alla città di Giuda ed il secondo giorno del mese di Adar catturò la città e prese prigioniero il re. Vi mise un re di suo gradimento, prese molto bottino e lo inviò a Babilonia»47.

Durante l’assedio il re Yoaqim muore ed è il figlio Yoakhin ad arrendersi ed essere subito esiliato a Babilonia, dove tuttavia verrà trattato più da ospite che da vero e proprio prigioniero.48 Insieme a lui vengono esiliate alcune migliaia di

47 Le date corrispondono al dicembre-gennaio 598-597 a.C. e al 15 o 16 marzo 597. Il re di Akkad è Nabucodonosor e la “città di Giuda” è Gerusalemme; il “re di suo gradimento” è Sedecia. Il testo si può leggere in CIMOSA, L’ambiente storico-culturale, 319-321.

48 Possediamo le cosiddette “tavolette Weidner”, testi babilonesi uno dei quali è databile nel 592, che menzionano Yoakhin alla corte di Babilonia come “re di Giuda”, oppure come “figlio

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persone, membri in gran parte della classe dirigente, nobili e sacerdoti, tra i quali anche il profeta Ezechiele: si tratta della prima deportazione. Come le Cronache Babilonesi ci riferiscono, insieme al testo di 2Re 24,17, Nabucodonosor nominò un re di suo gradimento, un altro figlio di Giosia, cui diede il nome di Sedecia, che sarà l’ultimo re di un regno di Giuda indipendente. La politica vacillante e compromissoria di Sedecia ci è nota dai capitoli 32-38

di Geremia. La Giudea si trova ormai a un passo dalla rovina e Geremia denuncia la irresponsabilità di coloro che ancora vorrebbero migliorare la situazione alleandosi ora con l’Egitto ora con Babilonia, secondo un uso ormai consolidato ma, come si è visto, fallimentare. Spinto forse dall’Egitto che, con il successore di Necao, Psammettico II, cercava un’ulteriore rivincita sui Babilonesi, Sedecia si ribella in due occasioni contro Nabucodonosor; nel 594/3 tenta di formare una prima coalizione antibabilonese, nel 589/588 un’illusoria alleanza con l’Egitto.Nabucodonosor, nel 587 a.C., torna nuovamente in Giudea per reprimere la

nuova rivolta e assedia per la seconda volta Gerusalemme. Nei resti bruciati di Lakish, una delle ultime città israelite a cadere (cf. Ger 34,7), sono state ritro-vate alcune lettere, scritte su frammenti di coccio, reperti emozionanti che testimoniano in modo drammatico dell’avanzata inarrestabile dell’esercito babilonese. Dopo due anni di assedio, Gerusalemme viene costretta alla fame e quindi conquistata; siamo nel giugno/luglio del 587: «nel quarto mese, il nove del mese, mentre la fame dominava nella città e non c’era più pane per la popolazione, fu aperta una breccia nella città» (Ger 52,6-7). Tutto questo accade senza che nel frattempo si sia visto nessun tipo d’intervento da parte dell’alleato egiziano (Ger 37,5.11 e Lam 4,17). Sedecia cercò di fuggire dalla città assediata, ma venne catturato e gli fu riservata la sorte dei vassalli ribelli: Nabucodonosor ne fa massacrare l’intera famiglia, lo fa accecare e lo conduce in catene a Babilonia (Ger 39,1-10; 2Re 25, 1-7). La città viene saccheggiata, il tempio di Salomone distrutto e gran parte della popolazione esiliata: «Giuda va in esilio, è deportata, soffre per la sua schiavitù e la sua miseria» (Lam 1,3)49.

e. Sacerdozio e profetismo.

Tra le istituzioni dell’Antico Testamento sono ben conosciute, oltre a quella della monarchia, l’istituzione sacerdotale e la figura dei profeti; entrambe assumono una importanza notevole durante il periodo monarchico50.

del re (vassallo) di Giuda”, cioè di Sedecia.

49 Il libro delle Lamentazioni è costituito da 5 poemi che hanno al centro il dolore per la distruzione di Gerusalemme, dovuta, secondo l’autore, al peccato del popolo cui si contrappone però la speranza nel perdono divino (si veda ad esempio Lam 5). Il testo, composto poco tempo dopo i fatti, probabilmente da qualcuno che ne era stato diretto testimone, fa ben comprendere lo stato d’animo degli abitanti della Giudea di fronte a questa terribile catastrofe nazionale.

50 A questo proposito si può ancora utilmente consultare DE VAUX, Istituzioni dell’Antico Testamento, 342-378.

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Prima dell’avvento della monarchia non esisteva in Israele un’istituzione sacerdotale ben delineata. Nel libro della Genesi le tradizioni patriarcali ci presentano i diversi personaggi, Abramo, Isacco, Giacobbe, esercitare uffici cultuali come ad esempio offrire un sacrificio (Gen 22; 31,54; 46,1). Ancora nel periodo dei Giudici solo occasionalmente si parla di sacerdoti in relazione a santuari locali (Gdc 17,5-12) né sembra esistesse un particolare rito religioso di “ordinazione”. Il sacerdote era dunque una persona scelta per il servizio in un determinato santuario, del quale diventava il custode. Una delle sue funzioni principali sembra essere in questo primo periodo della storia di Israele, quella di pronunciare oracoli in nome del Signore. Le tradizioni del Pentateuco parlano di una usanza descritta come “cercare” il Signore (Es 33,7), cioè consultare il sacerdote per conoscere la volontà di Dio. Dt 33,8 e altri testi riferiscono che il sacerdote proclamava la decisione divina tirando a sorte per mezzo di due oggetti sacri, chiamati gli Urim e i Tummim, i cui particolari ci restano sconosciuti. A partire dall’epoca monarchica la funzione oracolare dei sacerdoti viene

sempre più messa in ombra, a vantaggio di quella dell’insegnamento. Ancora il testo di Dt 33,10 affida ai sacerdoti l’incarico di “insegnare” le tôrôt (plurale di tôrah, la Legge), ossia le “istruzioni” al popolo (cf. Mi 3,11; Ger 18,18; Ez 7,26). L’accusa profetica contro i sacerdoti, che hanno tradito la Legge che dovevano insegnare, riflette bene l’importanza di questo compito che, dopo l’esilio, passerà, sembra, ai leviti e in seguito agli scribi e ai dottori della Legge (v. oltre). In epoca monarchica il compito primario dei sacerdoti diventa offrire i

sacrifici: Saul, David e Salomone esercitavano questa funzione, che come si è detto, almeno in un primo tempo, non era una prerogativa strettamente sacerdotale. Così l’uccisione della vittima, nel caso di sacrifici cruenti, veniva fatta, anche in epoche successive, dallo stesso offerente o dal clero inferiore. Al sacerdote spetterà invece, almeno a partire dall’VIII secolo a.C., il privilegio dell’offerta della vittima, in particolare l’offerta del sangue e quella dell’incenso, gesti che mettono in diretto contatto con l’altare. In tal senso il sacerdote è considerato come un mediatore tra Dio e l’uomo. Verso la fine dell’epoca monarchica, iniziando dai testi di Ezechiele, diviene

sempre più esplicita la distinzione tra sacerdoti e leviti (Ez 44,6-31), che dopo l’esilio verranno a costituire un vero e proprio secondo grado sacerdotale. Caratteristica fondamentale del sacerdozio in epoca monarchica è la sua

subordinazione al potere regale. Sia il Tempio di Gerusalemme che i santuari del nord erano santuari del re e il sacerdote ne era il funzionario. In Am 7,10-13 il sacerdote Amazia contesta al profeta Amos il diritto di parlare nel “santuario del re e nel tempio del regno”. In 1Re 4,2 e 2Re 12,5-17 si possono vedere esempi relativi al controllo esercitato dal re sui sacerdoti. La stessa figura del “sommo sacerdote” o “sacerdote capo”, per quanto riguarda il regno di Giuda, non doveva avere gran peso e appare comunque di gran lunga inferiore al re, almeno sino all’epoca dell’esilio.

A lato del sacerdozio appare un’altra istituzione, quella profetica.51 La polemica di profeti come Isaia o Geremia contro la classe sacerdotale ha fatto pensare che tra sacerdozio e profetismo dovesse esistere un’opposizione

51 Cf. J. BLENKINSOPP, Storia della profezia in Israele, Queriniana, Brescia 1997.

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radicale. In realtà abbiamo testi, come il vivace capitolo 22 di 1Re, che testimoniano l’esistenza di gruppi profetici legati alla monarchia, i “profeti cultuali”, che il re consultava prima di compiere qualche passo importante. Sembra allora che ai profeti sia passato il compito oracolare proprio dei sacerdoti in epoca premonarchica. E’ estremamente difficile descrivere i rapporti esistenti tra questi profeti di

corte e i profeti dei quali conserviamo gli scritti. I testi di Mi 3,5.11, Ger 23,16-17.25.28 e altri testi ancora lanciano accuse contro queste persone, considerate “falsi profeti”, professionisti che agivano per denaro. Ciò che accomuna i profeti scrittori, invece, è la coscienza della propria

vocazione, la consapevolezza di annunziare un messaggio che non è proprio, ma divino, ricevuto e proclamato anche contro la propria volontà (cf. Ger 20,7-9). Inoltre, i profeti del preesilio sono caratterizzati dalla fede incrollabile in YHWH e nel rapporto privilegiato che Egli ha con Israele; i profeti si propongono come interpreti autentici della parola di YHWH nella storia degli uomini, annunziatori allo stesso tempo di condanna e di speranza. L’infedeltà del popolo, in modo particolare, trasforma il messaggio profetico nell’annunzio del giudizio divino sulla storia. I profeti non sono di per sé ostili alla monarchia in quanto tale (è il caso di

Amos e Osea), ma solo in quanto il re è venuto meno alla fedeltà a Dio. Non si può dunque parlare dei profeti come di semplici agitatori politici, come talora si è fatto in passato. Si deve pensare piuttosto ad uomini profondamente interessati alla storia del loro tempo, che essi giudicano in base a quella “parola di Dio” che affermano di aver ricevuto; in tal senso i profeti costituiscono una sorta di “coscienza critica” della monarchia e dell’intero popolo d’Israele.

***

CAPITOLO VI

SOTTO L’IMPERO PERSIANO

«Io dico a Ciro: Mio pastore; ed egli soddisferà tutti i miei desideri, dicendo a Gerusalemme: Sarai riedificata; e al tempio: Sarai riedificato dalle fondamenta« (Is 44,28).

a. La Giudea durante l’esilio.

I risultati immediati della caduta di Gerusalemme sono molto chiari: il libro delle Lamentazioni descrive in maniera estremamente drammatica la situazione di distruzione e abbandono di Gerusalemme, in seguito all’invasione babilonese e alla deportazione. L’archeologia, da parte sua, è testimone della distruzione pressoché completa di molte città (sono particolarmente noti i casi di Lakish52 e Arad).

52 Per alcuni degli interessantissimi ostraka trovati negli scavi di Lakish cf. CIMOSA, L’ambiente storico-culturale, 322-323.

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Nella Giudea restarono, dopo le due deportazioni, solo le classi più povere della popolazione: se possiamo dar credito al testo di 2Re 25,12 si trattava soltanto “vignaioli e contadini”, cioè le classi sociali più basse. L’economia è in ogni caso ridotta a pura e semplice economia di sussistenza. Il comportamento dei Babilonesi fu comunque diverso da quello, ben più duro, che gli Assiri avevano tenuto nei confronti del regno del nord, un secolo e mezzo prima. Non tutta la popolazione, infatti, fu deportata e soprattutto non sembra che i Babilonesi abbiano favorito nuovi insediamenti di popolazioni straniere all’interno del regno di Giuda, così come era stato fatto dagli Assiri nel caso di Samaria. Le autorità di Babilonia, appoggiandosi al partito filobabilonese, del quale,

come si è visto, lo stesso profeta Geremia era un rappresentante, nominano una specie di vicerè del deportato Yohakin, un certo Godolia. In realtà non sappiamo quale esattamente fosse la posizione di questo Godolia: un sigillo trovato con il suo nome lo definisce come “colui che (è) sul palazzo”, qualcosa che ci fa pensare ad una specie di governatore generale, rappresentante di Nabucodonosor in Giudea o forse facente funzioni di Yohakin, al quale, benché in esilio, i babilonesi riconoscevano ancora il ruolo di re della Giudea. In ogni caso, Godolia si preoccupa subito di attuare un programma di ricostruzione e di normalizzazione, un tentativo di salvare il salvabile, appoggiato ancora una volta dal profeta Geremia che, a più riprese, invita gli abitanti di Gerusalemme a sottomettersi al re di Babilonia, riconoscendo così l’autorità di Godolia (Ger 40,10-12). Il tentativo di Godolia fu tuttavia frustrato dalla rivolta di un ufficiale israelita,

un certo Ismaele, discendente della famiglia di David, comandante di qualche contingente militare sbandato, sopravvissuto in qualche modo all’invasione babilonese. Egli pensava forse di poter restaurare la monarchia e fece assassinare Godolia. Ma la situazione era ormai troppo compromessa per un simile tentativo. Babilonia prese ulteriori misure repressive (il testo di Ger 52,30 sembra parlare di una terza deportazione di 745 persone) che costrinsero i ribelli alla fuga. Con essi, molti altri capi militari, temendo la reazione babilonese, fuggono in Egitto, portando con sé il profeta Geremia, che si era rifiutato di appoggiare il tentativo di ribellione, riconoscendone, forse l’inutilità (Ger 42-43). Con la morte di Godolia, la Giudea diventa una semplice provincia dell’impero babilonese, amministrata dalle autorità residenti in Samaria e progressivamente occupata dagli edomiti nella sua parte meridionale, perdendo anche l’ultima parvenza di autonomia.

Il tempio di Gerusalemme era stato distrutto e la maggior parte dei sacerdoti esiliata: ciò non significa necessariamente la fine del culto israelita, che in qualche modo deve essere continuato in Giudea anche durante l’esilio. Tuttavia l’asse spirituale di Israele si sposta a Babilonia e la catastrofe nazionale diventa un motivo di profonda riflessione teologica. I profeti avevano posto una stretta equivalenza tra le sorti del popolo e la fedeltà a Dio così che la rovina di Gerusalemme può essere letta come punizione per le ripetute infedeltà di Israele:

«voi avete visto tutte le sventure che ho mandate su Gerusalemme e su tutte le città di Giuda: eccole oggi una desolazione senza

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abitanti, a causa delle iniquità che commisero per provocarmi (…) Perciò la mia ira e il mio furore divamparono come fuoco nelle città di Giuda e nelle strade di Gerusalemme ed esse divennero un deserto ed una desolazione, come sono ancor oggi». (Ger 44,2-6).

Di fronte a questa situazione disperata saranno proprio gli esiliati a non perdere la speranza: essi inizieranno a considerare se stessi come la parte scelta del popolo, quel ‘resto’ di cui parlano i profeti, che avrà il compito di ricostruire Israele.

b. La situazione degli esiliati.

L’esilio babilonese continua quel movimento di dispersione degli Israeliti al di fuori da Israele iniziato già a partire dalla deportazione assira del 721 a.C.. Gruppi di israeliti, inoltre, si erano già da tempo stabiliti in Egitto, facendovi nascere fiorenti comunità. La deportazione babilonese costituisce tuttavia un avvenimento di grande portata. Stando a testi come 2Re 24,14.16 il numero complessivo dei deportati si avvicinava alle 10.000 unità (anche se il testo di Ger 52,28-30 fornisce numeri diversi), un numero tutto sommato consi-derevole. Tutte queste persone furono raggruppate in villaggi presso Babilonia, come quello ricordato in Ez 3,15, Tel Aviv, la “collina della primavera”. Non si deve pensare a questi gruppi di esuli come se fossero schiavi. Il

capitolo 29 di Geremia contiene la lettera che il profeta avrebbe scritto ai deportati per incoraggiarli e testimonia come essi godessero di una relativa libertà, se non altro quella di lavorare, conservare le proprie tradizioni, acquistare case e terreni, continuare a riunirsi, celebrando le proprie feste e i propri usi religiosi. Un secolo dopo l’esilio la posizione di alcuni dei deportati doveva essere davvero molto buona: gli archivi della famiglia Murashû, una sorta di banca a Nippur, in Mesopotamia, risalenti al 450-400 a.C. testimoniano che alcuni dei ricchi possidenti locali erano di origine giudaica, come forse lo era almeno il fondatore della “banca” degli Egibi, attiva proprio negli anni dell’esilio. Il libro di Esdra (Esd 2,68-69) è un ulteriore testimone di questa situ-azione di benessere. Lo stesso re Yoakhin, esiliato nel corso della prima deportazione, viene graziato, probabilmente intorno al 561-560 a.C. e trattato con benevolenza dal re babilonese Evil-Merodach. Il Secondo libro dei Re si chiude proprio con il ricordo della grazia concessa a Yoakhin, segno di speranza per il futuro (2Re 25,27-30); la monarchia davidica non è ancora finita. La situazione degli esiliati non è dunque insopportabile.

c. Lo sviluppo del pensiero ebraico e della sua teologia durante l’esilio.

Il sesto secolo costituisce quella che M. Liverani definisce “età assiale”, secolo di svolta non solo per Israele, ma per gran parte del mondo antico (cf. Confucio, Budda, Zoroastro, la nascita della filosofia greca).53 In particolare emerge l’importanza della razionalità e la conseguente nascita di una religione etica che, per Israele, si traduce appunto nell’affermarsi di un monoteismo a base etica (v. sotto). Per di più questo movimento culturale globale coincide

53 Cf. LIVERANI, Oltre la Bibbia, 223-234.

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per Israele con l’esilio babilonese, che invece di distruggere il popolo lo porta a inattesi sviluppi di pensiero.Negli anni dell’esilio, tra il 593 e il 571 a.C, si colloca l’opera del profeta

Ezechiele, sacerdote di Gerusalemme arrivato con la prima ondata di deportati. Come Geremia già si era posto con lucidità il problema della sofferenza e della giustizia di Dio (cf. Ger 12,1-6), così anche Ezechiele affronta il problema della responsabilità personale davanti a Dio (cf. Ez 18,1-4), aprendo in tal modo un’importante riflessione sullo spinoso problema della retribuzione. L’esilio è stato provocato dall’infedeltà degli israeliti, in particolare dalla loro infedeltà religiosa; allo stesso tempo Ezechiele annunzia un messaggio di speranza. Nella prospettiva di Ezechiele, il ritorno è condizionato da una rinnovata fedeltà a YHWH che, vista la precedente infedeltà del popolo, non potrà essere altro che un dono di Dio stesso:

«vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri: voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio» (Ez 36,24-28).

Il libro di Ezechiele si apre con la visione della Gloria di Dio (Ez 1) e si chiude con la visione ideale della nuova Gerusalemme e del nuovo Tempio, come esso dovrà essere dopo l’esilio (Ez 40-48). La storia è ormai vista con gli occhi del veggente e il futuro non potrà più essere semplicemente una restaurazione del passato.

L’altro grande profeta dell’esilio è stato chiamato dai moderni il “Secondo” o il “Deuteroisaia”, il probabile autore della sezione del libro di Isaia costituita dai capitoli 40-55, che avrebbe composto la sua opera subito dopo l’avvento di Ciro il grande, a partire dal 550 a.C. Egli apre il suo libro annunziando con gioia la fine dell’esilio:

«Consolate, consolate il mio popolo,dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemmee gridatele che è finita la sua schiavitù…» (Is 40,1-2).

La predicazione di Ezechiele e quella del cosiddetto Secondo Isaia ci permettono di comprendere il valore teologico che assume per Israele l’esilio babilonese. Il fatto di trovarsi in un paese straniero, esposti al pericolo di assumerne gli usi, specie quelli religiosi, porta gli esuli a rafforzare i legami interni al popolo giudaico. Questo è il periodo in cui le usanze come la circoncisione, l’osservanza del sabato, le leggi di purità rituale, assumono una rilevanza tutta particolare, come segno distintivo dell’appartenenza al popolo di Israele, com’è evidente dai testi di Gen 2,1-4a; 17; l’intero libro del Levitico, tutti testi risalenti all’epoca esilica e di matrice sacerdotale. L’atmosfera triste e nostalgica, ma allo stesso tempo fortemente nazionalistica e insieme piena di

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speranza per il futuro è ben rispecchiata nel celebre e tuttavia duro Salmo 137, “lungo i fiumi di Babilonia”. L’esilio può essere considerato allora una tappa fondamentale nella vita di

Israele: l’esperienza della distruzione del Tempio, della deportazione, della catastrofe nazionale, avrebbero potuto condurre alla fine dell’ebraismo. La cosiddetta “storia deuteronomistica” (Gs-2Re), la cui composizione è iniziata probabilmente come già abbiamo accennato all’epoca di Giosia è stata completata proprio in epoca esilica. Lo storiografo deuteronomista rilegge tutta la storia di Israele alla luce dell’idea del “patto” o “alleanza” come la storia della fedeltà di Dio e della infedeltà del popolo. Così, anche durante l’esilio, il popolo può continuare a sperare nonostante le sue colpe, come il redattore deuteronomista si esprime nella grande preghiera messa in bocca al re Salomone, al momento della consacrazione del Tempio ormai distrutto nel momento in cui il testo di 1Re è stato completato (1Re 8,46-51).

L’opera di riflessione degli esiliati dovette condensarsi poi in questi anni in un’altra serie di testi, in quella che è oggi chiamata la tradizione sacerdotale del Pentateuco: i sacerdoti ebrei, divenuti le guide spirituali del popolo in esilio, iniziano a scrivere una raccolta delle più antiche tradizioni sul passato di Israele, dalla creazione del mondo al cammino nel deserto, rileggendole alla luce della loro situazione di esiliati. Il passato diventa allo stesso tempo modello per il presente e segno di speranza per il futuro: è in questa chiave che devono essere letti molti dei testi del Pentateuco, di cui la redazione sacerdotale costituisce la base più importante54. Con la tradizione sacerdotale al tema della Legge e del Patto tipici della tradizione deuteronomista si aggiunge la grande importanza data al culto e alle leggi di purità (cf. ad esempio il testo immediatamente postesilico di Lev 17-26, il cosiddetto “codice di santità”).

Un altro aspetto che caratterizza il periodo dell’esilio è il contatto diretto che gli Israeliti hanno con la cultura e la religione babilonese. Un tale influsso si fece sentire già nella lingua: l’ebraico viene pian piano abbandonato a favore dell’aramaico, la lingua internazionale dell’epoca. La tradizione sacerdotale intende rispondere anche a questo problema: si può ricordare, come unico esempio, che il primo capitolo della Genesi, il poema sulla creazione, è stato scritto anche come risposta ai miti babilonesi sull’origine del mondo. Ancora, è durante l’esilio che la tendenza al monoteismo, già forte durante la riforma giosiana, si afferma in maniera definitiva. Di fronte alle religioni dei conquistatori, Israele passa ormai dalla monolatria (il culto di un solo Dio) e dall’enoteismo (ci sono tanti dèi, ma uno solo è per noi) a un deciso monoteismo, che assume tratti etici sempre più marcati; cf. ad esempio il celebre testo di Dt 6,4-5, dove la fede d’Israele è strettamente connessa con l’amore dovuto a Dio. Specialmente il Secondo Isaia insiste con grande decisione sulla unicità di YHWH e la sua assoluta superiorità su ogni altro falso

54Anche in questo caso non entriamo in merito ai dettagli relativi agli aspetti storico-letterari della tradizione sacerdotale, comunemente indicata con la lettera P (dal tedesco Priesterkodex, “codice sacerdotale”). Si ritiene che vi sia stata una prima redazione sacerdotale durante l’esilio e almeno una successiva rilettura dopo il ritorno; rinvio al testo di J.L. SKA, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia, Edizioni Dehoniane, Roma 20002.

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dio: «Così dice il re di Israele, il suo redentore, il Signore degli eserciti: Io sono il primo ed io l’ultimo; fuori di me non vi sono altri dei!» (Is 44,6; cf. anche 43,10-12; 45,5). Anche in questo caso l’esilio segna una tappa fondamentale nella storia di Israele.

d. Il ritorno a Gerusalemme.

Negli anni compresi tra il 559 e il 539 a.C. avviene un nuovo, importante mutamento nel panorama internazionale. Re di Babilonia diventa Nabonedo, un sovrano piuttosto indifferente verso i problemi legati al governo della nazione. La nostra storia ha origine, probabilmente, da un problema di carattere

religioso: Nabonedo preferisce dedicarsi al culto della dea lunare Sin, inimicandosi i potenti sacerdoti di Marduk, il dio nazionale di Babilonia. Nabonedo rinuncia anche al governo effettivo della città, dove lascia il figlio Belshazzar, il Baltassar protagonista dei racconti di Dan 5. Nasce nel frattempo una nuova potenza, quella dei Medi, che inizia a

minacciare Babilonia. I Medi vivevano a est dell’Eufrate, più o meno nell’attuale parte occidentale dell’Iran, ed erano stati un tempo alleati di Babilonia nelle campagne contro l’Assiria. Il re Nabonedo credette di poter fermare l’ascesa della Media alleandosi con il re persiano Ciro II, detto il Grande. Quest’ultimo rovesciò effettivamente Astiage, re dei Medi, impadronendosi del suo regno (550 a.C.). Forte di questa vittoria, tuttavia, Ciro continuò la sua politica espansionistica, conquistando, quattro anni più tardi, anche il regno della Lidia, del celebre re Creso e minacciando da vicino le città greche dell’Asia Minore. Ciro diventò così, da alleato che era, una minaccia costante per Babilonia: nel 539 sconfigge Nabonedo che è costretto a fuggire e può così entrare nella città di Babilonia. Sorprendentemente, Ciro non si considera un conquistatore, ma un liberatore. Il governo di Nabonedo, infatti, aveva trovato forti opposizioni interne, non ultime quella fortissima dei sacerdoti di Marduk. Ciro può così autoproclamarsi l’inviato di Marduk, per restaurarne il culto. Allo stesso modo, il Secondo Isaia descrive arditamente Ciro come il liberatore, il “Messia”, il consacrato mandato da Dio a salvare il popolo d’Israele in esilio:

«Dice il Signore del suo eletto, di Ciro:Io l’ho preso per la destra,per abbattere davanti a lui le nazioni,per sciogliere le cinture ai fianchi dei re,per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso (…).Per amore di Giacobbe mio servoe di Israele mio elettoio ti ho chiamato per nome,io ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca» (Is 45,1-7).

Dopo la conquista di Babilonia, il nuovo impero persiano sarà il più vasto impero dell’Antico Oriente, estendendosi dal fiume Indo sino al mare Egeo e dall’Egitto sino ai monti del Caucaso. Con Ciro si apre anche una nuova fase politica: invece di un governo dispotico e dittatoriale, Ciro permette ai vari esuli presenti a Babilonia, risultato delle molte conquiste del defunto impero

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babilonese, di rientrare in patria, di restaurare le proprie città e templi e di mantenere o riprendere, là dove interrotte, le proprie tradizioni religiose. Questo tipo di atteggiamento rientra in un progetto globale di Ciro che usa in

modo efficace l’arma della propaganda, proponendosi come liberatore, sia religiosamente, restaurando il culto di Marduk, sia economicamente, dando nuova vita ai commerci e agli scambi, resi insicuri dalle troppe guerre, sia mettendosi dalla parte di quei popoli prima umiliati dai Babilonesi, restituendoli ai loro dèi e ai loro territori, e ottenendone così l’appoggio. Abbiamo a disposizione il testo di quello che può essere chiamato il suo

documento programmatico, conservato nel cosiddetto “cilindro di Ciro”:

«Marduk esaminò tutti i paesi in modo approfondito alla ricerca di un principe retto, conforme al suo cuore. Prese per mano Ciro, re di Anshan, lo distinse, ne pronunciò il nome perché esercitasse il dominio sul mondo intero… (…).Io sono Ciro, re dell’universo, re grande, re forte, re di Babilonia, re del

paese di Sumer ed Akkad (…). Quando io entrai pacificamente in Babilonia stabilii nella gioia e nel

giubilo la sede regale nel palazzo del principe. Marduk, il grande Signore, si acquistò in me un cuore largo che ama Babilonia ed io ogni giorno faccio sì che egli sia temuto. Le mie innumerevoli truppe avanzarono in pace nel paese di Babilonia; in tutto il paese di Sumer e di Akkad non permisi che ci fosse qualcuno che mettesse paura; ho vegliato senza posa al benessere di Babilonia e di tutti i luoghi santi. (…)Dalle città di Ninive, di Assur (…), località sacre al di là del Tigri la cui

sede era fondata da sempre, io riportai al loro posto gli dèi che vi avevano abitato e feci risiedere questi dèi in una dimora eterna; radunai tutte le loro popolazioni e le ricondussi nei loro luoghi…”.55

E’ difficile stabilire quanto la politica di Ciro fosse dettata da motivazioni umanitarie o quanto piuttosto da motivazioni di convenienza politica: la tolleranza, specie sul piano religioso, servì in effetti a Ciro meglio della forza dei suoi eserciti. Nel libro di Esdra il decreto di Ciro è visto come diretto esplicitamente agli ebrei (Esd l,1-4; 6,1-1256), benchè il Cilindro di Ciro non faccia menzione nè degli ebrei nè di alcun popolo specifico al di qua dell’Eufrate: il ritorno a Gerusalemme va visto in realtà non come un privilegio particolare concesso agli Israeliti, quanto piuttosto un atto rientrante in un piano imperiale più vasto.

55 Il testo completo si può leggere in L’Antico Testamento e le culture del tempo, 212-213.

56 Il secondo dei testi citati sarebbe una copia della lettera di Ciro che autorizza esplicitamente gli esuli a ricostruire il Tempio di Gerusalemme. La lettera è riportata in aramaico, la lingua internazionale dell’epoca nella quale è stata scritta una parte del libro di Esdra. L’autenticità di questi testi è molto discussa: in particolare sembra strano che Ciro si sia occupato dei giudei addirittura nel primo anno del suo regno,come ricorda Esd l,1. Si può tuttavia pensare all’esistenza di formulari già pronti per i vari decreti promulgati da Ciro per diversi gruppi etnici, decreti che l’autore di Esdra potrebbe aver conosciuto e riadattato alla situazione degli ebrei. I testi di Esd 1,2-4 e 6,3-5 non sono perciò da considerarsi del tutto inventati, anche se evidentemente la loro redazione è da collocarsi almeno un secolo e mezzo dopo i fatti.

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In seguito a questo mutamento di situazione, un piccolo gruppo di esuli ritorna in patria, dopo il 538 a.C., sotto la guida di un certo Sheshbassar (Esd 1,8). Chi fosse realmente questo personaggio e quale carica avesse non ci è del tutto chiaro: si può pensare a un israelita, membro della famiglia regale, incaricato da Ciro di guidare un piccolo gruppo di esuli con il compito di ricostruire il Tempio di Gerusalemme, secondo la politica da lui intrapresa. Il numero dei rimpatriati non doveva essere molto grande, almeno stando alle liste di Esd 2 e di Ne 7, benché si tratti di due fonti discordanti. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio affermerà in seguito che gran parte degli ebrei preferì restare a Babilonia, per non dover lasciare la posizione che si era ormai fatta. I rimpatriati intrapresero, tra molte difficoltà, l’opera di ricostruzione del

Tempio, incontrando in particolare l’opposizione delle popolazioni locali, quella parte di israeliti che non aveva conosciuto l’esilio, forse sconcertati dal radicalismo religioso dei nuovi arrivati e certamente non molto propensi a dividere il poco che avevano con gente che evidentemente accampava diritti su precedenti proprietà. Teologicamente, i rimpatriati considerano se stessi come il “resto di Israele”,

i reali depositari dei veri valori dell’ebraismo. Alcuni autori recenti (M. Liverani, I. Finkelstein) arrivano a parlare di questo “resto” come del responsabile dell’invenzione delle grandi storie relative al passato di Israele, le cui radici, contrariamente a ciò che pensano tali autori, esistevano già ben prima dell’esilio.57 Solo nel 515 a.C., in seguito anche alla predicazione congiunta dei profeti Aggeo e Zaccaria e all’appoggio imperiale, il Tempio viene nuovamente consacrato. La terza parte del libro di Isaia (Is 56-66) si riferisce verosimilmente a quest’epoca di difficoltà relative alla ricostruzione del Tempio e della società israelita, al ritorno dall’esilio; siamo probabilmente durante il regno di Cambise, successore di Ciro (529-522 a.C.).

Successore di Cambise fu il re Dario (522-485 a.C.), un’altra figura importante nella storia dell’epoca: egli riuscì a sedare le rivolte e i disordini che erano scoppiati sotto Cambise e intraprese una completa riforma amministrativa del suo vasto impero, che si rifletterà anche sulla Giudea. Qui, continuando la politica di Ciro, Dario nomina come governatore un certo Zorobabele, israelita della famiglia di David, cui viene affiancata l’autorità religiosa del sommo sacerdote Giosuè, di stirpe sadocita. In Ag 2,20-23 e Zac 6,9-l4 si parla di Zorobabele in termini quasi messianici: il profeta Aggeo annunzia poi la venuta del regno di Dio, proprio sulla base di queste speranze; in ogni caso la speranza di una restaurazione della monarchia davidica non sembra affatto scomparsa. Il momento storico in cui cade questo annunzio è la morte di Cambise,

seguita dalla lotta per la successione, dalla quale Dario uscirà vincitore. Forse furono proprio le mai sopite speranze di restaurare la monarchia davidica, speranze riposte dagli esuli nella persona di Zorobabele, che spinsero Dario a toglierlo improvvisamente dalla scena. L’autorità politica non scompare, perchè al posto di Zorobabele vi sarà sempre un governatore, rappresentante del re persiano; tuttavia, agli occhi degli Israeliti, la vera autorità rimane quella religiosa: è da questo momento infatti che il potere del sommo sacerdote inizia ad essere sempre più importante, caratterizzando la vita della comunità

57 Cf. la discussione sulle origini di Israele, p…

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giudaica, sempre più stretta intorno alla sua fede e alle sue osservanze cultuali. Negli anni del successore di Dario, il re Serse (485-465 a.C.), l’impero

persiano entra anch’esso in una fase di crisi. Dario stesso era già uscito sconfitto dalla campagna condotta contro la Grecia (la ben nota battaglia di Maratona) e dopo di lui anche Serse viene sconfitto dai greci, in mare a Salamina e in terra a Platea; il tentativo persiano di sottomettere la Grecia fallisce mentre anche l’Egitto cerca di ritrovare la perduta indipendenza. Ciò che avvenne nel corso di questi anni nella piccola provincia persiana della

Giudea, che probabilmente non contava all’epoca più di 50.000 abitanti, ci è largamente ignoto: neppure i testi biblici, infatti, ci sono di aiuto. Si può pensare che è questo il tempo in cui in Israele nasce una visione più universalistica, più aperta cioè agli altri popoli. La terza parte di Isaia (i già ricordati capitoli 56-66) annunzia per il futuro la conversione dei pagani e l’avvento di un regno universale di Dio, dopo più di un secolo di esperienze fatte come vassalli di questa o quest’altra potenza. Una forte critica al particolarismo e al nazionalismo giudaico, che si farà

sentire soprattutto all’epoca di Neemia ed Esdra, è contenuta nei due piccoli ma preziosi libretti di Rut e di Giona, racconti edificanti composti forse proprio in questo periodo e rappresentanti di un altro tipo di giudaismo: il libro di Rut presenta la splendida figura dell’omonima protagonista, una straniera proveniente dall’odiato paese di Moab, sposa dell’israelita Booz, antenata del re David; Giona è il recalcitrante profeta israelita mandato a predicare ai pagani di Ninive, i nemici storici di Israele, i quali, con suo grande disappunto, si convertono. In entrambi i casi il messaggio è chiaro: anche stranieri e pagani (e persino le loro donne!) possono convertirsi ed entrare così in relazione con il popolo eletto.

e. Neemia ed Esdra: la nascita del giudaismo.

Il problema cronologico.

Il periodo che va dagli inizi del regno di Dario sino alla metà del regno di Artaserse è un periodo oscuro sul quale sappiamo in realtà molto poco. Le due missioni riformatrici di Esdra e di Neemia ci fanno intuire che doveva trattarsi di un periodo di difficoltà, sia sul piano politico-sociale che su quello religioso. Il libro del profeta Malachia, composto probabilmente proprio verso la fine di questo periodo, parla di gravi carenze nel comportamento dei sacerdoti, di prevaricazioni in campo morale, esprimendo allo stesso tempo l’attesa di un mutamento radicale. L’impero persiano, intanto, è riuscito, almeno in parte, a riprendersi dalla sua

crisi; l’opposizione esistente tra le città greche di Sparta e Atene, infatti, fa-vorisce Artaserse, il successore di Serse (465-424 a.C.) che riesce ad assorbire le precedenti sconfitte patite contro i greci. Ulteriori segni di cedimento dell’impero si avranno comunque qualche anno più tardi, sotto Artaserse II (405-359 a.C. ca.) quando l’Egitto riuscirà a recuperare la sua indipendenza. E’ in questo contesto storico che si colloca la missione di due personaggi, Esdra e Neemia, ricordati nei due libri che ne portano il nome.

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Secondo la cronologia tradizionale, quella cioè riportata dai testi biblici in questione, Esdra, un giudeo anch’egli esule a Babilonia, si reca nel 458 a Gerusalemme, come incaricato del re Artaserse I (Esd 7,7). Nel 445 verrà seguito da un secondo personaggio, il governatore Neemia, anch’egli un incaricato del re (Ne 2,1). Il vero riformatore della vita sociale, politica e soprattutto religiosa dei giudei appare, come vedremo, Esdra. La missione di Neemia sembra inoltre ignorare l’opera da lui compiuta. Inoltre, la missione di Esdra sembra presupporre una Gerusalemme già ricostruita, cosa che di fatto non avviene se non sotto Neemia. Queste difficoltà sono state risolte in vari modi: c’è chi ha tentato di

difendere in vari modi la cronologia biblica tradizionale e c’è chi è arrivato sino a negare ogni fondamento storico all’esistenza stessa di un personaggio di nome Esdra. La soluzione forse più semplice, oggi seguita da molti storici, sta nell’ammettere che l’Artaserse di cui si parla a proposito di Esdra sia in realtà Artaserse II. Così la missione di Esdra viene a collocarsi dopo quella di Neemia, di cui costituisce il logico completamento. Avremmo allora una cronologia rovesciata, rispetto all’ordine biblico: non dunque Esdra – Neemia, ma Neemia - Esdra. Nel 445, sotto Artaserse I, si colloca l’arrivo di Neemia a Gerusalemme, che si trova di fronte a una situazione di crisi e ad una città ancora non completamente ricostruita. Questa missione sarà seguita, nel 398, da quella di Esdra, sotto il regno di Artaserse II.

Neemia.

Il libro di Neemia ci presenta questo personaggio come un giudeo, uomo di corte del re Artaserse, che riceve da Gerusalemme un messaggio relativo a gravi difficoltà incontrate dagli esuli che, quasi un secolo prima, erano tornati in patria in seguito all’editto di Ciro:

«Essi mi dissero: I superstiti della deportazione sono là, nella provincia, in grande miseria e abbattimento; le mura di Gerusalemme restano piene di brecce e le sue porte consumate dal fuoco» (Ne 1,3).

Non abbiamo nessuna notizia precisa su quali fossero esattamente queste difficoltà. Si può pensare prima di tutto ai contrasti con le popolazioni locali, cui si è accennato, oppure ad un appello degli esuli tornati in patria rivolto al re persiano perché desse compimento alle promesse fatte dai suoi predecessori. Si può anche pensare a una mossa politica del re Artaserse per sottrarre la Giudea - regione strategicamente importante in relazione alla sua vicinanza con l’Egitto - al controllo del satrapo della provincia dell’Oltrefiume58, un personaggio che evidentemente stava diventando troppo potente. Negli scavi condotti in Giudea, in località abitate in questo periodo, sono state ritrovate monete con l’iscrizione yhwd (Yehûd), cioè “Giudea”, prova del fatto che la provincia doveva godere di una relativa autonomia almeno rispetto alle altre regioni della satrapìa. La ricostruzione delle mura di Gerusalemme può infine rientrare nel quadro di un rafforzamento di questa parte dell’impero, ai

58 Il “satrapo” designa il governatore delle province (le “satrapìe”) nelle quali era diviso l’impero persiano; la Giudea faceva parte della cosiddetta satrapia transeufratena, o dell’oltrefiume.

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confini con l’Egitto, in vista di tempi difficili. Tutti questi motivi possono servire a spiegare le difficoltà incontrate da Neemia soprattutto da parte delle autorità locali residenti in Samaria che vedevano nella sua missione un attentato al loro potere. Il libro di Neemia contiene il racconto, non sappiamo quanto amplificato ed

epicizzato, della ricostruzione delle mura di Gerusalemme che, superando le varie difficoltà, vengono ultimate nel 444 a.C.

Dopo dodici anni di permanenza a Gerusalemme Neemia fa ritorno a Babilonia, ma nel 432 lo rivediamo nuovamente in Giudea (Ne 5,14), dove si impegna a dare attuazione ad alcune riforme, sia sul piano sociale che su quello religioso. Sul piano sociale, Neemia si trova di fronte a una situazione di diffusa

povertà:

«i governatori che mi avevano preceduto, avevano gravato il popolo, ricevendone pane e vino, oltre a quaranta sicli d’argento; perfino i loro servi angariavano il popolo, ma io non ho fatto così, perchè ho il timore di Dio» (Ne 5,15).

L’eccessiva fiscalizzazione e le difficoltà economiche in cui gli esuli si dibattevano li costringevano a vendere le loro proprietà e anche a vendere i propri figli come schiavi (Ne 5,1-5). Neemia cerca di combattere questa situazione obbligando i proprietari a restituire le proprietà ipotecate di cui si erano impadroniti e a liberare gli israeliti venduti come schiavi per pagare i loro debiti, riducendo poi l’eccessiva gravosità del sistema fiscale persiano. Sul piano religioso, Neemia tentò di restaurare il sacerdozio contrap-

ponendosi a quei sacerdoti e leviti che evidentemente abusavano o si disinteressavano del loro ministero (Ne 13,4-13; cf. anche Ne 7,64 – i sacerdoti sospesi dal servizio, e 7,6-4, la ricerca delle genealogie autentiche): ciò è in linea con gli ammonimenti contenuti nel libro del profeta Malachia; in ogni caso, Malachia riserva ai soli sacerdoti l’interpretazione della Legge (cf. Mal 2,7), sancendone così l’autorità anche in campo civile. Neemia si batte ancora per il rispetto dell’osservanza della legge del sabato, adottando una misura drastica, cioè la chiusura, in giorno di sabato, delle porte della città (Ne 13,15-22). Egli proibisce poi i matrimoni misti con donne pagane (13,23-27), problema che si farà sentire ancora con Esdra. L’azione di Neemia è descritta nel libro omonimo con tratti piuttosto energici,

talora drammatici, il che fa pensare all’esistenza di un contrasto molto forte tra gli esuli tornati in patria, animati da una fede rigidamente yahwista, spinti dall’idea della missione di cui si sentivano investiti, e la popolazione locale, che sul piano religioso doveva essere molto più aperta, forse anche più incline al sincretismo. Il problema, nell’ottica di Neemia, è stabilire chi appartenga o meno alla comunità di Israele; nel libro omonimo i seguaci di Neemia sono definiti come “quanti si erano separati dai popoli dei paesi stranieri per aderire alla Legge di Dio” (cf. Ne 10,29).

Esdra.

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Il periodo che va dalla seconda missione di Neemia a quella di Esdra ci è del tutto ignoto. Esdra (forma greca dell’ebraico Ezra, “Dio aiuta”) viene presentato, nel libro

omonimo, che del resto è anche l’unica fonte a nostra disposizione, come un sacerdote, esperto nella “legge di Mosè” (Esd 7,1-6) che si sarebbe recato a Gerusalemme, nel 398 a.C., alla testa di un nuovo gruppo di esuli, come una sorta di incaricato del re per gli affari religiosi. Esdra riprende alcuni elementi dell’opera di Neemia, come le leggi relative al

culto e la proibizione dei matrimoni misti. Quest’ultimo problema doveva essere molto forte: le prescrizioni di Esdra (Esd 9-10) sono molto radicali e vanno nel senso di una separazione totale nei confronti degli stranieri. Tali prescrizioni, tuttavia, non vanno intese esclusivamente in senso xenofobo, un divieto quasi razzista di mescolarsi con altre popolazioni, ma occorre vedervi dietro una preoccupazione di ordine religioso, già presente nel libro del Deuteronomio (Dt 31,16). I matrimoni con donne straniere possono essere un pericolo per la purezza della fede yahwista, elemento, che come si è visto, caratterizza in modo particolare coloro che sono tornati dall’esilio.59 Inoltre, si tratta, come si è detto, di decidere chi fa parte della comunità israelita: il gruppo degli esiliati rientrati in patria o coloro che sono rimasti sulla terra?L’aspetto più importante della missione di Esdra è senz’altro il fatto che la

Tôrah, la Legge mosaica, diviene ormai la legge che regola l’intera vita d’Israele. Il testo di Esd 7,12-26 riporta un decreto di Artaserse (probabilmente si intende Artaserse II) con il quale la legge israelita viene considerata come legge del re. Questo non vuol dire che la Giudea sia divenuta indipendente; significa piuttosto il riconoscimento, da parte del re Artaserse, del diritto del giudei di potersi regolare, per i loro affari interni e le usanze religiose, secondo la propria legge, quella di Mosè. Ci è noto il fatto che i re persiani spesso si interessavano delle legislazioni locali, fino ad entrare nei dettagli del culto: quanto un simile decreto possa essere autentico è un’altra questione; in ogni caso non abbiamo altre notizie, al di fuori di quelle riportate nel libro di Esdra. Si discute se la legge alla quale allude il decreto di Artaserse riportato nel libro di Esdra sia il Pentateuco, oppure no. Probabilmente si tratta della sola legislazione cultuale legata al Tempio; tuttavia è proprio questo il periodo nel quale il Pentateuco acquista la sua forma attuale, grazie alla situazione favorevole creata dalla monarchia persiana e grazie alla fusione delle due grandi tradizioni, quella deuteronomista (laica) e quella sacerdotale.

La nascita del giudaismo

Con la riforma di Esdra nasce una realtà nuova, il giudaismo: una comunità basata non più su fattori unicamente politici, una comunità sempre più separata rispetto agli altri popoli. Alcuni storici hanno valutato molto negativamente questo periodo; secondo Liverani ci troviamo di fronte a “una comunità diventata chiusa non solo per religione, ma anche per razza”. Ciò sarebbe il risultato della preminenza del sacerdozio instauratasi dopo Esdra: “il

59 Alcuni studi tendono oggi a reintepretare questi testi di Esd-Ne relativi ai matrimoni misti piuttosto come un riflesso di problemi dell’epoca maccabaica; cf. F. BIANCHI, La donna del tuo popolo, Roma 2005.

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sacerdozio sosteneva la strategia della chiusura, preoccupato com’era di mantenere il nuovo Israele incontaminato rispetto all’ambiente circostante”.60 In realtà la situazione è più sfumata di come Liverani la dipinge; senza alcun

dubbio l’autorità del clero divenne sempre più importante, tanto che fino alla fine del XIX secolo si è parlato di governo teocratico o ierocratico (= governo dei sacerdoti). Ma che cosa si intendeva con queste parole? Un aspetto importante dell’epoca persiana è la possibile concezione

teocratica dello stato israelita cui si è accennato a proposito delle riforme di Esdra. La parola ‘teocrazia’ si trova per la prima volta in Flavio Giuseppe, il quale vuole così descrivere la forma costituzionale di Israele in paragone con le forme costituzionali classiche del mondo greco-romano: democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia. Israele sarebbe stato, fin dalle origini, una comunità religiosa governata direttamente da Dio (da qui il termine ‘teo-crazia’) dove il potere sarebbe stato di fatto in mano ai sacerdoti (‘iero-crazia’). In realtà, non si può parlare di teocrazia durante l’epoca monarchica, epoca in cui il sacerdozio appare, come si è detto, subordinato al re, del quale si sottolinea il carattere sacrale. Alla fine dell’epoca persiana invece, scomparsa la monarchia, affievolitosi

gradualmente il movimento profetico, il potere del sommo sacerdote diventa sempre più ampio fino a comprendere, nel successivo periodo ellenistico, un effettivo potere politico; tale compenetrazione di potere religioso e politico caratterizzerà in modo del tutto singolare la storia di Israele a partire da questo periodo61. Il punto culminante di questo processo si avrà con la dinastia asmonea, dove il sommo sacerdote è allo stesso tempo il re; solo a questo punto sarebbe forse possibile parlare di “teocrazia”, ma l’accento sarà posto così fortemente sull’aspetto politico che i giudei più fedeli vedranno negli asmonei piuttosto un tradimento dell’ideale teocratico. In epoca romana, mentre i farisei si rifugeranno nell’obbedienza della Legge, espressione della volontà di YHWH-Re, gruppi più estremisti come gli zeloti cercheranno di instaurare una teocrazia effettiva, attraverso la rivolta e la lotta armata contro i romani e la proclamazione della regalità di YHWH, unico Signore di Israele. In conclusione, la comunità giudaica che emerge dalle riforme di Neemia e

Esdra non è tanto uno Stato retto da principi religiosi (uno Stato governato dalla religione) quanto piuttosto una comunità unita da legami religiosi. Non esiste più una nazione giudaica, ma esiste un popolo, radunato attorno alla sua fede. La Legge e il culto, prima ancora che le preoccupazioni razziali (cf. l’importante libro di Rut!), divengono infatti i pilastri su cui si costruisce la vita di Israele, mentre senza dubbio aumenta sempre più l’autorità del sacerdozio, tanto che fin dal secolo scorso si è spesso parlato a questo proposito di governo teocratico o anche ierocratico, cioè un governo di sacerdoti (v. su questo aspetto il precedente paragrafo). La Legge è considerata la diretta

60 Cf. LIVERANI, Oltre la Bibbia, pp. 391 (prima citazione) e 341 (seconda citazione). Quella che Liverani descrive come la “invenzione della Legge” sarebbe perciò il frutto di queste posizioni intransigenti.

61 Non è allora pienamente condivisibile l’affermazione di De Vaux riguardo a una «concezione del potere che è fondamentale per il pensiero israelitico, la teocrazia: Israele è il popolo di Yahvé e non ha altro signore che lui. Per questo Israele,da un capo all’altro della sua storia, resta una comunità religiosa...» (Istituzioni dell’Antico Testamento, 106). Ciò può essere vero solo a partire dall’epoca persiana; si veda a questo proposito SOGGIN, Storia di Israele, 48.356-358, che preferisce piuttosto parlare di “ierocrazia”.

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espressione della volontà di Dio che regola la vita quotidiana dell’uomo, in ogni suo aspetto; il culto diventa l’aspetto più elevato della vita religiosa, il mezzo per entrare in rapporto con Dio. Ma la chiusura di fronte all’ambiente circostante non è totale; Rut e Giona, ad esempio, suggeriscono la possibilità dell’accoglienza e della conversione.

A lato di queste idee di fondo, troviamo in questo periodo lo svilupparsi di attese escatologiche e messianiche riscontrabili già nei testi di Is 56-66, di Aggeo, di Malachia, della seconda parte di Zaccaria (Zac 9-14); come più avanti vedremo si gettano i germi dell’importante tradizione apocalittica. Sempre in questo momento storico si colloca il grande sviluppo della

letteratura sapienziale: la sapienza israelita, nata già all’epoca monarchica attraverso il contatto con la sapienza dei popoli vicini, diventa una proposta di vita in una società da ricostruire, un tentativo di armonizzare l’esperienza umana e la riflessione critica sulla realtà con la fede nel Dio di Israele. Il saggio israelita cerca una via per una educazione integrale dell’uomo, un “saper vivere” e un “saper fare” che tocchi ogni aspetto della vita. Verso la fine del V o più probabilmente durante il IV secolo a.C., si colloca la redazione finale del libro dei Proverbi, con la quale un ignoto autore raccoglie e pubblica una raccolta di detti (i ‘proverbi’ appunto) appartenenti alla sapienza antica, a partire dalla fine dell’epoca salomonica. Di datazione più incerta, ma sempre riferibile a questo periodo del post-esilio, è poi il libro di Giobbe, impostato sul problema del rapporto che il fedele può avere con un Dio che permette il dolore, in polemica con la visione tradizionale (deuteronomica!) della retribuzione. Difficile è dire se anche la composizione del Cantico dei Cantici, il bellissimo poema biblico sull’amore sponsale, possa essere collocata in questo periodo; altri pensano piuttosto all’inizio dell’epoca ellenistica, tra il IV e il III secolo a.C. Il giudaismo che nasce in seguito alle riforme di Neemia ed Esdra non è

dunque riducibile soltanto a un movimento integralista, una società rigidamente governata e controllata dai sacerdoti. L’esistenza di una forte spinta legalista è innegabile e, con il passare del tempo, sarà sempre più forte. D’altro canto, l’esistenza della corrente sapienziale e di quella profetica è testimonianza di una mentalità più aperta (si ricordi la spinta universalistica di cui si è parlato): la stessa Tôrah non è soltanto Legge, ma anche Rivelazione della volontà divina. La tendenza al legalismo e alla chiusura può essere più positivamente compresa come la conseguenza di un atteggiamento necessario per preservare la propria identità nazionale e religiosa in seguito alla catastrofe dell’esilio.

I Samaritani.

Durante questo periodo che vedrà la fine della dominazione persiana si acuisce quel contrasto tra Giudei e Samaritani già presente da qualche tempo, contrasto che giungerà a trasformarsi in un definitivo scisma religioso. L’ostilità esistente tra Giudei e Samaritani è un motivo frequente nei testi evangelici: si pensi a brani come l’episodio della Samaritana (Gv 4,9) o la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,33). I Samaritani sono i discendenti delle popolazioni del Regno del nord

mischiatesi con i nuovi popoli insediati dagli Assiri dopo la deportazione del

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721 a.C. Il testo di 2Re 17,24 ricollega l’origine dei Samaritani proprio con questo episodio. In realtà, l’origine dei Samaritani è molto più recente. Molte delle difficoltà incontrate da Neemia e Esdra erano probabilmente causate da questi scontri con le popolazioni della Samaria che vedevano negli esuli tornati in patria un pericolo per la loro autonomia. La definitiva rottura con i Giudei, che potremmo definire un vero scisma, avvenne probabilmente intorno al 330 a.C., quando Alessandro Magno concesse ai Samaritani il permesso di edificare un proprio tempio sul monte Garizim, presso Sichem, l’odierna città di Nablus, località che resta ancora oggi il principale luogo sacro dei Samaritani. I samaritani si considerano i legittimi eredi della fede giudaica e accettano

solo il Pentateuco come unica parola di Dio, in una forma, quella appunto “samaritana”, che è ancora oggi importante per lo studio del testo del Pentateuco. I samaritani rifiuteranno tutta l’opera riformatrice del giudaismo postesilico, considerata forse come eccessivamente rigida. Ma saranno proprio la rigidità e la ferrea ortodossia di Neemia e di Esdra che permetteranno al giudaismo di sopravvivere e di svilupparsi, mentre la comunità samaritana, pur esistendo ancora oggi, resterà una gruppo religioso di importanza molto relativa. Già Ben Sira, che scrive verso il 180 a.C., è testimone dell’odio nutrito dai Giudei verso questa comunità (Sir 50,25-26); alcuni rabbini li identificavano, dal punto di vista cultuale e rituale, ai pagani, persone da evitare con ogni cura. Per Gesù, il Samaritano diventa piuttosto l’esempio del ‘prossimo’ additato come esempio d’amore (Lc 10,29-37).

La fine dell’epoca persiana.

Nel periodo che abbiamo considerato, la Giudea è ormai ridotta a una piccola regione sottoposta al grande impero persiano. Paradossalmente la maggior parte degli israeliti si trova ormai a vivere fuori dai confini di Giuda: molti giudei sono a Babilonia, molti altri in Egitto; altri ancora dispersi un po’ in tutto il Medio Oriente. Forse anche a causa di questa dispersione (talora nota come diàspora) le riforme operate da Neemia e Esdra insistono sulla centralità del culto, sul Tempio di Gerusalemme, sulla purezza della razza, proprio per conservare un’unità culturale e religiosa, visto che quella politica e nazionale era ormai irrimediabilmente distrutta. Nelle comunità della diaspora il centro dell’unità del popolo giudaico diventa,

proprio a partire da questo periodo, una istituzione ben nota al lettore del Nuovo Testamento, la synagoghé, la sinagoga, termine greco che indica una ‘assemblea’, una ‘riunione’. Per i giudei viventi all’estero, lontani dal Tempio, era necessario avere un luogo ove riunirsi a pregare e a studiare la legge: questa è appunto la sinagoga, in ebraico bet knesset, cioè “casa di riunione”, centro di aggregazione non solo religiosa ma anche sociale, come lo è ancora oggi.62

Il periodo che va dalla missione di Esdra alla conquista di Alessandro Magno ci è largamente ignoto, per quanto riguarda le sorti della Giudea. Dalla morte di Artaserse II, nel 358 a.C., l’impero persiano si trascina, tra

alterne vicende, sino al 333: in questo anno il re macedone Alessandro Magno 62 Sulla storia della sinagoga si veda L.I. LEVINE, La sinagoga antica, I-II, Paideia, Brescia 2005 (ed. inglese 2000).

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sconfigge nella celebre battaglia di Isso l’esercito persiano di Dario III ed estende il suo regno dalla Macedonia sino al fiume Indo. Nel 332 Alessandro Magno invade anche l’Egitto, passando per la Galilea, la Samaria e la Giudea, che vengono annesse quasi senza colpo ferire: inizia così un’epoca del tutto nuova, l’epoca ellenistica. Ancora una volta le sorti di Israele dipendono dal mutamento del quadro

internazionale e dal sorgere di una nuova potenza. Ma mentre in precedenza assiri, egiziani, babilonesi e persiani erano tutti popoli spesso relativamente vicini a Israele per lingua, per cultura, per usi e costumi, questa volta il giudaismo viene a contatto con un mondo totalmente nuovo, quello greco. Ne parleremo nel prossimo capitolo.

***

CAPITOLO VII

L’EPOCA ELLENISTICA.

«Tiro mi ha educato, ma Gadara fu la mia patria,la nuova Atene nella terra degli Assiri (...). Ero un siro, che conta? Il mondo è la patria dei mortali e un unico Caos partorì tutti gli uomini, amico mio». (MELEAGRO di Gadara, poeta ellenizzato della Transgiordania, 130-70 a.C. ca).

a. Da Alessandro Magno ai Tolomei.

Le intenzioni di Alessandro erano più politiche e pragmatiche che non culturali e civilizzatrici: è difficile sostenere che egli volesse ritenersi il portatore di una nuova civiltà, il “pacificatore del mondo”, che “rese civili i re barbari” e “insegnò leggi e pace a tribù ignoranti e senza ordinamenti”, come sosterrà quattro secoli più tardi lo storico greco Plutarco (de fortuna aut virtute Alexandri Magni, I,4-6). Tuttavia, con il suo impero entra nel Medio Oriente una nuova visione del mondo, la cultura, la civiltà, la filosofia greca. Si tratta del periodo che viene appunto chiamato “ellenismo”: colonie greche furono fondate un po’ in tutto l’Oriente (le varie città chiamate Alessandria, in onore del conquistatore, la più famosa delle quali fu Alessandria d’Egitto), la lingua greca subentrò all’aramaico come lingua internazionale, molte città si dettero ordinamenti e statuti greci: nascono ginnasi, teatri, terme un po’ dovunque. La paideia, l’educazione dei giovani secondo i canoni della cultura greca, diviene la porta di accesso a questo nuovo mondo. Il processo di ellenizzazione non fu uniforme: più superficiale in alcuni paesi,

come ad esempio in Mesopotamia, fu molto più profondo in Asia Minore e in Egitto; anche Israele deve confrontarsi con questa nuova visione del mondo. Va subito ricordato come in quest’epoca non si possa parlare affatto di una volontà da parte dei greci di imporre la loro cultura; sono piuttosto i popoli conquistati a cercare l’ellenizzazione. E’ dunque l’ellenismo stesso a imporsi con la sua propria forza. In particolare, in questo periodo assume grande importanza la diffusione del pensiero greco, attraverso le quattro grandi scuole filosofiche post-aristoteliche (cinici, scettici, epicurei, ma soprattutto gli stoici). Esse sono caratterizzate da una profonda riflessione sull’uomo e sulla

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possibilità per l’uomo di essere felice in un mondo divenuto improvvisamente troppo vasto e cosmopolita.Prima di Alessandro c’erano stati pochi contatti tra greci ed ebrei, soprattutto

di carattere commerciale; l’interesse dei greci verso il mondo ebraico era senz’altro minimo: si può tranquillamente affermare che «i Greci vissero felicemente, nel loro periodo classico, senza riconoscere l’esistenza degli Ebrei»63. Con il periodo ellenistico, i greci scoprono questo mondo così diverso dal loro, ma il loro atteggiamento resta di sostanziale indifferenza. Anche dopo la traduzione della Bibbia in greco (v. pag. …) non abbiamo prove che qualche autore ellenistico la abbia effettivamente conosciuta e utilizzata, almeno nel corso del II sec. a.C. Come vedremo, sarà molto più grande l’interesse di segno opposto, quello degli ebrei nei confronti dei greci.

In realtà Alessandro - che non era greco, ma macedone, di lingua greca - fu in genere molto tollerante verso gli ordinamenti sociali e le usanze religiose dei popoli conquistati. La tolleranza, soprattutto in campo religioso, è del resto uno dei nuovi valori portati dal mondo greco. Nel caso di Gerusalemme, Alessandro riconobbe l’autorità del sommo sacerdote, considerato capo e rappresentante ufficiale di una comunità regolata da una propria legge, la Tôrah. Il cambiamento di potere, almeno in un primo tempo, non portò dunque grossi mutamenti, almeno per quanto riguarda la vita quotidiana dei giudei. Gli abitanti di Gerusalemme, secondo il racconto dello storico ebreo Flavio Giuseppe, avrebbero accolto con favore l’arrivo di Alessandro.Diverso fu invece il caso di Samaria: sempre secondo Flavio Giuseppe,

Samaria, ribellatasi al governatore macedone nel 331 a.C., appena un anno dopo la conquista, fu distrutta, la rivolta fu soffocata nel sangue; la città sarà poi ricostruita come colonia macedone.Anche su questo periodo i testi biblici tacciono: i libri di Neemia ed Esdra non

si estendono oltre il periodo persiano, mentre la narrazione dei libri dei Maccabei prende inizio dagli avvenimenti avvenuti soltanto un secolo e mezzo più tardi. I due libri delle Cronache, scritti probabilmente all’inizio di questo periodo, si fermano all’epoca dell’esilio, ma sembrano presupporre una situazione abbastanza tranquilla. Il primo libro dei Maccabei, al contrario, di-pinge un’immagine fortemente negativa di Alessandro:

«(Alessandro il Macedone) intraprese molte guerre, si impadronì di fortezze e uccise i re della terra; arrivò sino ai confini della terra e raccolse le spoglie di molti popoli. La terra si ridusse al silenzio davanti a lui; il suo cuore si esaltò e si gonfiò di orgoglio». (1Mac 1,2-4).

Un simile giudizio non ci deve sorprendere: Alessandro Magno viene visto come un re che pretende di attribuirsi prerogative divine, cosa normale per l’epoca; così faranno molti sovrani ellenistici e, circa tre secoli più tardi, anche gli imperatori romani. Questo tipo di pretese era intollerabile per ogni pio giudeo: da qui il giudizio negativo su Alessandro Magno.

63 MOMIGLIANO, Saggezza straniera, 82. Sui problemi legati alla portata e al significato dell’ellenizzazione nell’oriente antico si veda l’opera divulgativa di M. HENGEL, Ebrei, Greci e Barbari, in particolare pp. 87-135, e ancora E. BICKERMANN, Gli ebrei in età greca, Il Mulino, Bologna 1990.

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Alessandro non ebbe il tempo necessario per consolidare le sue conquiste: morì infatti improvvisamente nel 323 a.C. a soli 33 anni lasciando il suo regno nel caos. I suoi generali (i cosiddetti diadochi, parola greca che significa ‘successori’) si spartirono i vari territori conquistati, frammentando irrimediabilmente il vasto impero. Tolomeo, figlio di Lago, si impossessò dell’Egitto; Antigono della Macedonia e della Grecia, mentre l’Asia Minore e la regione siro-babilonese passarono a Seleuco.Il governatore d’Egitto, Tolomeo, che fondò la dinastia dei Lagidi, dopo al-

terne vicende, riesce, nel 312 a.C., a occupare la Giudea e Gerusalemme, strappandola alla famiglia dei Seleucidi, che nel frattempo avevano preso il potere in Siria. La Giudea resterà sotto il dominio tolemaico per più di un secolo. Si deve notare come gli storici greci dell’epoca che si occupano di questo periodo non dicono praticamente nulla sulla Giudea e i suoi abitanti, segno che si trattava di una regione geograficamente isolata, politicamente ed economicamente piuttosto insignificante agli occhi dei sovrani ellenistici. La situazione della Giudea fu all’inizio difficile: tutta la regione era stata il

teatro delle guerre tra Tolomei e Seleucidi, durate molti anni. Almeno in un primo momento, il re Tolomeo I, dopo aver conquistato Gerusalemme, ne trattò la popolazione con durezza, deportandone anche una parte in Egitto. Ma con il passare del tempo, il dominio tolemaico si rivelerà un periodo di pace e relativa prosperità. A questo proposito abbiamo informazioni dirette, le uniche relative direttamente alla Giudea, attraverso i diari di viaggio di un certo Zenone, funzionario del fisco tolemaico, che visitò la regione palestinese tra il 260 e il 258 a.C. Questi diari testimoniano l’esistenza di una situazione economica piuttosto fiorente e soprattutto di un commercio molto vivo, diretto ovviamente verso l’Egitto, basato soprattutto sull’olio, il vino, i cereali, il balsamo delle piantagioni di Gerico, la vendita degli schiavi. Il rapporto dei Giudei con la monarchia tolemaica doveva essere nel complesso piuttosto buono, sia in Giudea sia nella diaspora d’Egitto, dove molti ebrei serviranno come mercenari nell’esercito tolemaico. La Giudea è una delle tante province del regno tolemaico, la cui

amministrazione fa capo ad un governatore civile, che per lungo tempo è scelto dalla potente famiglia giudaica dei Tobiadi, mentre tutto ciò che riguarda l’ordinamento interno il sommo sacerdote gode di ampia autonomia. E’ in questo ambiente che nasce il libro del Qohelet (o l’Ecclesiaste), che

presenta una società opulenta, governata da una burocrazia fortemente gerarchizzata e avida di denaro64. Allo stesso tempo, il saggio autore del libro apre un primo confronto con il pensiero greco che metteva in crisi le certezze tradizionali di Israele.

b. La Giudea sotto i Seleucidi (200-164).

64 «Se vedi nella provincia il povero oppresso e il diritto e la giustizia calpestati,non ti meravigliare di questo, poiché sopra una autorità veglia un’altra superiore e sopra di loro un’altra ancora più alta: l’interesse del paese in ogni cosa è un re che si occupa del campo» (Qo 5,7-8). Questo testo, come anche il successivo, Qo 5,9, può ben essere riferito alla situazione della Giudea nel periodo tolemaico. Per tutto questo, cf. L. MAZZINGHI, “Ho cercato e ho esplorato”. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna 2001.

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Il dominio tolemaico durò sino al 200 a.C. Tra il 201 e il 200 a.C. il re Antioco III, della famiglia dei Seleucidi, i sovrani della Siria, riesce a strappare ai Tolomei l’intera regione palestinese, Giudea compresa: ancora una volta Israele si trova a dover cambiare padrone. Le relazioni dei Giudei con il nuovo sovrano sembrano essere state inizialmente molto buone. Secondo Flavio Giuseppe, gli ebrei avrebbero addirittura aiutato Antioco III a sopraffare la guarnigione tolemaica presente a Gerusalemme. In ogni caso, la Giudea fece prontamente un completo atto di sottomissione e i Seleucidi ne mantennero in cambio lo statuto di autonomia interna, già goduto sotto i Tolomei, oltre ad una serie di non trascurabili privilegi fiscali. Flavio Giuseppe riferisce ancora di una lettera che Antioco III avrebbe indirizzato agli ebrei di Gerusalemme per ringraziarli dell’aiuto prestato e garantirne tali privilegi.65 L’influenza della cultura ellenistica, intanto, continua a farsi sentire in

maniera sempre più decisa trovando però l’opposizione degli ambienti giudaici più fedeli alla tradizione. Risale ad esempio a questo periodo un editto che vieta agli stranieri l’ingresso nel Tempio oltre l’allevamento e il commercio di animali impuri a Gerusalemme, leggi che avevano lo scopo di salvaguardare la purità rituale della città santa. Ma tali prescrizioni dovettero urtare con l’opposizione di almeno una parte delle classi ricche e degli stessi sacerdoti tra le quali la cultura ellenistica si stava sempre più progressivamente diffondendo.

Un radicale cambiamento della situazione viene anche questa volta da un mutamento della situazione politica avvenuto nel lontano Occidente: il nascente astro di Roma. Nello stesso anno in cui Antioco III conquistava la Giudea, infatti, Roma entrava in guerra con Filippo V il Macedone,di cui Antioco era alleato. Nel 197 Roma infligge a Filippo una dura sconfitta e nel 190 anche Antioco III subisce una pesante disfatta nella battaglia di Magnesia. L’esercito seleucida, rinforzato da alleati e mercenari, non regge l’urto delle legioni romane, pur inferiori di numero, guidate dal celebre Scipione l’Africano. Il trattato di pace imposto dai romani ad Antioco III (pace di Apamea, 188 a.C.), prevede condizioni durissime. Antioco deve abbandonare tutti i suoi territori in Asia Minore e pagare un tributo di 12.000 talenti, una cifra davvero enorme, che costringe lo Stato seleucida sull’orlo della bancarotta. Le conseguenze della sconfitta di Magnesia peseranno in modo decisivo sull’atteggiamento del governo seleucida nei confronti dei Giudei.

Il successore di Antioco, ucciso nel 187, il figlio Seleuco IV, pensò di ovviare alle disastrose condizioni economiche in cui versava oramai il suo regno saccheggiandone i templi più ricchi e, tra questi, anche quello di Gerusalemme. Il gesto da lui compiuto, sottrarre oro alle casse ben fornite del Tempio, era visto, nell’ottica del re, come un suo ovvio diritto, ma fu considerato dai Giudei come un autentico sacrilegio, andato a vuoto, secondo il racconto di 2Mac 3, in seguito a un intervento miracoloso di Dio. A Seleuco IV succede Antioco IV (175-164 a.C.) che si autoimpone il nome di

Epifanès, che in greco significa «(dio) rivelato», nome che il popolo muterà ironicamente in Epimanès, «pazzo», soprannome che già ci dice qualcosa sulla personalità di Antioco, o almeno su come era considerato dai suoi sudditi.

65 Antichità Giudaiche XII,138-144; cf. CIMOSA, L’ambiente storico-culturale, 388-389.

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Nei primi anni del suo regno, o forse negli ultimi di quello di Seleuco IV, viene composto il libro del Siracide (noto alla tradizione latina come Ecclesiastico), opera di Gesù figlio di Sirach (in ebraico Ben Sira), scriba di Gerusalemme66. La bella preghiera di Sir 36,1-17 può essere anche interpretata come una supplica a Dio per la liberazione di Israele dal dominio straniero: “alza la tua mano sulle nazioni straniere, perchè vedano la tua potenza!”. Sotto Antioco IV, la situazione dei Giudei muta decisamente in peggio. Nella

letteratura apocalittica, che trova proprio in quest’epoca uno dei suoi periodi più fiorenti (v. oltre), Antioco diventa il modello delle potenze del male; così ad esempio in Dan 7,25 e 11,36-39:

«Il re dunque farà ciò che vuole, s’innalzerà, si magnificherà sopra ogni dio e proferirà cose inaudite contro il Dio degli dèi e avrà successo finché non sarà colma l’ira; poiché ciò che è stato determinato, si compirà» (Dan 11,36).

Quella che poi si trasformerà in una reale persecuzione, tale da procurare ad Antioco IV una simile cattiva fama, ha inizi di ben altro tenore. Antioco, biognoso di fondi, approfitta del suo diritto di gradimento sulla

nomina del sommo sacerdote, che fino a quel momento era stato un membro della famiglia sadocita. A Gerusalemme, un tal Giasone, giudeo di famiglia sacerdotale ma fortemente ellenizzato, si spinge sino a comprare dal re la carica di sommo sacerdote. Giasone, con l’appoggio di altri membri della classe sacerdotale, inizia un deciso processo di ellenizzazione: a Gerusalemme viene aperto un ginnasio, sullo stile greco; alcuni giovani ebrei vengono inviati a partecipare ai giochi di Tiro (2Mac 4,12.18-19), mentre si propone di dare a Gerusalemme lo status di una città (pólis) ellenizzata, allo stesso modo di tante altre città del Vicino Oriente mediterraneo. Ciò avrebbe comportato di fatto l’abolizione della Tôrah come legge dello civile in vigore a Gerusalemme. Secondo il testo di 2Mac 4,13-15 molti Giudei seguirono queste nuove tendenze. Bisogna pensare che nella mentalità greca ogni altro stile di vita, come quello

degli ebrei, era di per se stesso considerato ‘barbaro’ e che l’ebraismo era troppo distante dal modo di vivere e di pensare dei greci per poter arrivare a un compromesso pacifico: era necessario scegliere e, mentre per molti ebrei la scelta di rimanere fedeli alle proprie tradizioni fu del tutto naturale, per altri – meno numerosi - la decisione fu quella di vivere al modo greco. Ciò che nell’ottica greca costituiva un atto di tolleranza, per molti ebrei rappresentava un intollerabile sincretismo; ma fino a che punto è possibile il dialogo tra opposte culture e religioni? La risposta non verrà da Gerusalemme, ma, come vedremo, da Alessandria.Nel frattempo, intorno al 172 a.C. un secondo personaggio, un certo Menelao,

riuscì a prendere il posto di Giasone, dopo aver offerto al re 300 talenti in più (2Mac 4,24). Per garantirsi la carica Menelao fece uccidere, l’anno seguente, l’ultimo sommo sacerdote legittimo, Onia III (2Mac 4,30-35), deposto in precedenza da Giasone che, tra l’altro, era suo fratello: a questo assassinio si

66 Il Siracide, scritto in ebraico, verrà tradotto in greco in Egitto nel 132 a.C. dal nipote di Ben Sira. A partire dalla fine del XIX sec. sono stati scoperti frammenti di papiri contenenti circa i due terzi dell’originale ebraico, anche se le traduzioni bibliche moderne continuano a utilizzare la versione greca che è la sola a presentare il testo completo.

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riferisce il testo di Dan 9,26: “un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui”. In questa situazione intricata e corrotta si collocano le due campagne intraprese da Antioco IV contro l’Egitto, campagne bruscamente interrotte per l’ultimatum posto da Roma al re seleucida. E’ in questi anni (169-168 a.C.) che il rapporto di Antioco con i Giudei precipita in modo irreparabile.

c. La persecuzione di Antioco IV (167-164 a.C.).

Già al ritorno dalla prima campagna militare contro l’Egitto, passando da Gerusalemme, Antioco avrebbe attinto denaro alle casse del Tempio, come aveva fatto in precedenza Seleuco IV (1Mac 1,21-24). Al termine della seconda campagna, probabilmente frustrato per il suo fallimento e l’umiliazione patita da parte dei Romani, Antioco approfitta di un tentativo di Giasone di riprendersi la carica di sommo sacerdote sottrattagli da Menelao per intervenire militarmente nella Giudea. Entrato a Gerusalemme tratta con estrema durezza la popolazione, ne saccheggia il Tempio e ordina la costruzione di un presidio militare (chiamato l’Akra) dove lascia una guarnigione. Inoltre Antioco ordina la costruzione di un altare a Zeus Olimpio, al posto dell’altare degli olocausti, nel cuore del Tempio. Questo evento, avvenuto nel dicembre del 167 a.C, è l’episodio che Dan 9,26 definisce “abominio della desolazione”. Vengono prese inoltre precise misure repressive contro il culto ebraico, proibendo la pratica della circoncisione e la celebrazione del sabato e delle altre feste giudaiche, sotto pena di morte.

«Poi il re prescrisse con decreto a tutto il suo regno, che tutti formassero un sol popolo e ciascuno abbandonasse le proprie leggi. (…) Il re spedì ancora decreti per mezzo di messaggeri a Gerusalemme e alle città di Giuda, ordinando di seguire usanze straniere al loro paese, di far cessare nel tempio gli olocausti, i sacrifici e le libazioni, di profanare i sabati e le feste (…) pena la morte a chiunque non avesse agito secondo gli ordini del re» (1Mac 1,41-50).

Non si deve tuttavia pensare ad Antioco come a un crudele persecutore che non sarebbe stato mosso da altro intento se non quello di distruggere, puramente e semplicemente, la fede giudaica. Il quadro terribile presentatoci da 1Mac - e quello ancora più drammatico dei noti racconti di 2Mac 6-7, il martirio di Eleazaro e la tortura dei sette giovani fratelli e della loro madre - non dà conto di quelle che furono probabilmente le reali intenzioni del re. Egli era spinto innanzitutto da motivazioni politiche (sopprimere il tentativo di

rivolta di Giasone e dirimere una volta per tutte la situazione caotica creatasi a Gerusalemme) ed economiche (il bisogno di denaro). Anche il fattore emotivo non va dimenticato, se si pensa che Antioco tornava da una campagna fallita per la cocente umiliazione impostagli dai romani. Persino l’imposizione di un culto greco in Giudea era, nella prospettiva di Antioco, un fatto relativamente normale, accettato in genere senza troppi drammi dagli altri popoli. A questo proposito è interessante il giudizio dello storico romano Tacito, secondo il quale l’intenzione di Antioco era quella di far progredire quella “triste genìa”

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degli ebrei “cambiandoli in meglio”, abolendo il loro fanatismo e trasmettendo loro costumi greci.67 A Gerusalemme esisteva poi, come si è visto, un partito filo-ellenistico molto

forte tra gli stessi Giudei, partito di cui lo stesso sommo sacerdote faceva parte e che certo non deve aver visto male, se non addirittura appoggiato, l’opera di ellenizzazione iniziata da Antioco. Forse proprio questa corrente interna al giudaismo deve essere stata la causa di violenze contro altri ebrei, violenze acuite dalle lotte di potere interne allo stesso sacerdozio di Gerusalemme, che segneranno la fine del sacerdozio sadocita. Come si vede, le cause della “persecuzione” di Antioco sono complesse e

molto diverse tra loro. Gran parte degli ebrei del tempo, tuttavia, caratterizzati da una fede e da uno stile di vita diverso da quello degli altri popoli, convinti della propria superiorità religiosa e morale, lessero l’azione di Antioco come un atto mirante a distruggere la comunità israelita come tale. E’ così infatti, come si è visto, che i libri dei Maccabei e quello di Daniele, tutti scritti poco dopo questi fatti, vedono la figura del re seleucida. In tal modo la sua azione, dettata da un altro ordine di motivi, appoggiata dall’interno almeno da una parte degli stessi giudei, si trasforma, probabilmente al di là delle intenzioni iniziali del re, in un atto di autentica persecuzione religiosa.

d. La rivolta maccabaica.

La persecuzione, o meglio, l’opera di ellenizzazione forzata di Antioco IV trovò, com’è logico, l’opposizione dei Giudei più fedeli alle loro tradizioni, all’inizio soltanto piccoli gruppi che presto assumeranno il nome di hasidim, i ‘pii’ (cf. 1Mac 2,42), un gruppo dal quale discendono molto probabilmente i più noti farisei. Dopo sporadici tentativi di rivolta, nasce ben presto una vera resistenza organizzata. I due libri dei Maccabei insistono soprattutto sulle motivazioni religiose che animavano questi movimenti di opposizione alla politica seleucida, motivazioni che sono ben riassunte nelle parole che l’autore di 1Mac mette in bocca a Mattatia, considerato l’iniziatore della rivolta:

«Anche se tutti i popoli nei domini del re lo ascolteranno e ognuno si staccherà dal culto dei suoi padri e vorranno aderire tutti alle sue richieste, io, i miei figli e i miei fratelli cammineremo nell’alleanza dei nostri padri; ci guardi il Signore dall’abbandonare la legge e le tradizioni; non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra» (1Mac 2,19-22).

A questo genere di argomenti si aggiungono altre ragioni di ordine sociale. I fautori dell’ellenismo, infatti, erano per lo più membri delle classi ricche: sacerdoti e nobili di Gerusalemme, dunque. Quando Gerusalemme divenne una pólis, cioè una città ellenistica con statuto uguale alle altre, la cittadinanza non dipese più dall’essere parte dello stesso popolo, attraverso la circoncisione, la pratica del sabato e delle altre leggi della Tôrah, ma piuttosto si introdusse il criterio del censo e della posizione sociale. In questo modo si

67 “Taeterrimam gentem in melius mutaret”; Historiae V,8.

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favorivano naturalmente le classi ricche, nobili, sacerdoti, proprietari terrieri, a scapito della grande massa del popolo. Contrasti esistenti con le classi più povere sono già testimoniati, come si è

visto, fin dai tempi di Neemia e Esdra. Il libro del Siracide, testimone privilegiato di questo periodo, permette di comprendere come le disparità sociali fossero tutt’altro che marginali in Israele: Ben Sira scrive stando dalla parte dei benestanti e il suo pubblico è composto di gente di condizione economica florida e di classe sociale elevata. Sir 38,24-34 presenta una visione negativa dei lavori manuali, contrapposta all’esaltazione del saggio scriba (39,1-11)68 e all’elogio della figura del sommo sacerdote Simone (50,1-21). Ben Sira ammonisce tuttavia contro l’eccessiva fiducia posta nella ricchezza (Sir 5,1-3; 8,2 etc.) ed esorta ripetutamente alla pratica dell’elemosina (Sir 4,1-10; 7,32; 29,8-13). Questo stato di cose può aiutarci a comprendere meglio l’appoggio popolare

dato alla rivolta antiseleucida. L’occasione propizia, stando al racconto biblico (1Mac 2,1-28), giunse con il sacerdote Mattatia, esiliato probabilmente per le sue precedenti tendenze antimonarchiche nel piccolo villaggio di Modiin, nella zona della Shefela, circa 25 km a ovest di Gerusalemme. Qui egli si ribellò ai messi regali che imponevano alla popolazione un atto pubblico di culto agli dèi greci e si dette alla macchia con i suoi figli e con coloro che già covavano concreti desideri di rivolta. Uno dei figli, Giuda, soprannominato Maccabeo (cioè ‘martello’) divenne subito il capo carismatico di questi gruppi di resistenza. Non è possibile seguire qui in dettaglio le alterne vicende di questo periodo,

narrate in tono epico dagli autori di 1-2 Maccabei. Il successo di Giuda Maccabeo sta soprattutto nel fatto che egli evitò uno scontro frontale con gli eserciti seleucidi, dai quali sarebbe stato subito schiacciato, dandosi invece ad azioni di guerriglia nelle quali era certamente superiore: i Seleucidi infatti erano stati colti di sorpresa - Antioco IV si trovava impegnato in una campagna in Oriente - e le tattiche di combattimento adottate dai ribelli, insieme alle motivazioni che li animavano, li portarono subito a conseguire notevoli successi. In tal modo, nel dicembre del 164 a.C. Giuda Maccabeo riuscì a riconquistare Gerusalemme, ad eccezione della fortezza dell’Akra. Come primo atto, il 25 di Kislew (18 dicembre) del 164 Giuda fece riconsacrare il Tempio profanato e riprendere il culto interrotto (1Mac 4,36-61). Ancora oggi gli ebrei celebrano la festa della Hanukkah, della ‘dedicazione’, a ricordo di questo evento, festa cui anche Gesù deve aver partecipato, come è ricordato in Gv 10,22. Nello stesso anno Antioco IV muore, nel corso della campagna in cui era impegnato69 e Giuda riesce ad ottenere dal suo successore, Antioco V,

68 Per Ben Sira, che scrive tra il 195 e il 175 a.C., il prestigio e la posizione sociale non dipendono tuttavia dalla ricchezza quanto piuttosto dalla saggezza: il testo di Sir 39,1-11 è certamente autobiografico, un’esaltazione del proprio stato, quello dello scriba, maestro di sapienza e interprete della Tôrah. In questo senso egli può considerare come inferiore ogni altri tipo di lavoro manuale. Ben Sira mostra una delle caratteristiche della società israelita, dove, a partire da questo periodo, questo tipo di personaggi acquisterà un potere e una influenza pari, se non superiore, a quello dei nobili e dei ricchi. Cf. M. GILBERT, “La sapienza di Ben Sira”, in I cinque libri dei saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005, 136-208.

69 Nel testo di 2Mac 9 la morte di Antioco viene vista come il giusto castigo di Dio per il re empio che finisce tra atroci dolori, divorato vivo dai vermi, solo, in terra straniera. In 2Mac 9,19 si attribuisce addirittura ad Antioco una lettera quasi di scuse che egli avrebbe scritto ai giudei e che in realtà è probabilmente una specie di testamento scritto agli abitanti di Antiochia.

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impegnato nei problemi legati alla successione, un editto di tolleranza per i Giudei. Nel frattempo a Gerusalemme si erano riaccesi i contrasti già visti a

proposito della carica del sommo sacerdote, detenuta sino ad allora dal filo-ellenista Menelao. La fazione ellenista fece appello a Demetrio I, successore di Antioco V, il quale, nel 161, inviò come sommo sacerdote un certo Alcimo, di tendenze ellenizzanti ma anche della stirpe di Aronne: una figura di compromesso che riuscì in effetti a dividere i Giudei, come Demetrio voleva. La parte più conciliante e pacifista del movimento maccabeo accettò Alcimo come nuovo sommo sacerdote, mentre l’ala più intransigente lo rifiutò, vedendolo come una imposizione del re Demetrio. Approfittando di questi contrasti Demetrio riprese la politica repressiva di Antioco IV, questa volta con una campagna militare condotta su larga scala. Nel corso di questa campagna, Giuda Maccabeo muore, nel 161 a.C., in uno scontro con le truppe di Bacchide, generale di Demetrio (1Mac 7,1-9,22).

Alla guida del movimento di resistenza succede Gionata (161-143 a.C.), uno dei fratelli di Giuda. Egli, approfittando delle continue lotte tra i vari pretendenti al trono di Siria, riesce, nel 152, ad ottenere da Alessandro Balas, uno dei pretendenti di turno al trono seleucide, la carica di sommo sacerdote, oltre ad una dichiarazione di autonomia pressoché totale per la Giudea (1Mac 10,15-21); Gionata fu poi il primo a far coniare monete con il suo nome, segno di una indipendenza ormai quasi effettiva. Va ricordato che Gionata non era di famiglia sadocita, la famiglia dalla quale veniva normalmente scelto il sommo sacerdote, cosa che alienò ai Maccabei gran parte delle simpatie che essi godevano presso il gruppo dei ‘pii’. Vittima delle sue stesse macchinazioni, Gionata, nel tentativo di concludere una alleanza con l’ennesimo pretendente al trono seleucida, viene ucciso a tradimento nel 143 a.C. (cf. 1Mac 12,39-53), dopo essere riuscito a concludere alleanze con Sparta e, soprattutto, con i Romani (1Mac 8,17-18).

Nella guida del movimento maccabaico succede a Gionata un terzo fratello, Simone (143-134 a.C.) che riuscì a mantenere la carica di sommo sacerdote, facendosi riconoscere dal re seleucida Demetrio II come «sommo sacerdote, stratega e capo dei Giudei» (cf. 1Mac 13,42). Ancora una volta il movimento maccabeo si appoggia alle difficoltà interne della Siria, ma questa volta il riconoscimento ottenuto da Simone è molto importante: egli può infatti concentrare nelle sue mani il potere civile, quello religioso e quello militare e ottenere per la Giudea un’indipendenza effettiva, allontanando ormai definitivamente i Seleucidi. Anche Simone finirà assassinato, questa volta da un suo parente, nel 134 a.C., ma il suo successore, il figlio Giovanni Ircano I, può essere ormai considerato come il fondatore di una vera e propria dinastia, quella degli Asmonei, la prima dopo il crollo della monarchia in seguito all’esilio babilonese. Il movimento maccabeo, nato da un desiderio di rivolta e resistenza contro il dominio seleucida, si è poco a poco trasformato a sua volta in uno strumento di dominio. Alle motivazioni religiose e sociali si sono presto sostituite motivazioni politiche molto meno gloriose. Con la morte di Simone termina il racconto del primo libro dei Maccabei, che

considera il regno di Simone, immediatamente dopo il quale il libro stesso

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deve essere stato scritto, come un’età pacifica e felice: l’elogio di Simone contenuto in 1Mac 14,4-15 ci presenta un quadro idilliaco, nel quale però i più fedeli sostenitori delle tradizioni di Israele non dovevano rispecchiarsi molto, come si vedrà dai successivi esiti del regno asmoneo, certamente sempre più lontano dagli ideali di fedeltà alla Legge che avevano dato vita al movimento maccabaico. Le ripetute guerre e gli intrighi interni non avevano certo contribuito a migliorare la situazione economica e sociale del paese. Forse proprio in questo periodo nascono le radici dei movimenti farisaici e sadducei e, in particolare, quel movimento rigorista, separato dal giudaismo ufficiale, noto come gli Esseni, di cui avremo occasione di parlare.

e. La dinastia asmonea.

Il periodo che va dall’inizio del regno di Giovanni Ircano I fino alla conquista romana, operata da Pompeo nel 63 a.C., non ha riscontro nei testi biblici, ma è ugualmente importante perchè ci permette di capire lo sfondo immediato delle vicende in cui si muoverà la storia di Israele al tempo di Cristo. Giovanni Ircano I (134-104 a.C.) si dedicò soprattutto a campagne militari di

espansione, servendosi di un esercito di professione composto da mercenari. ‘Convertì’ a forza i Samaritani, distruggendone il tempio sul monte Garizim e rendendo definitiva la separazione con i Giudei; sottomise poi gli Idumei, popolazione della Transgiordania (gli antichi Edomiti) emigrata all’epoca nella parte meridionale della Giudea, tra Hebron e Bersabea, obbligandoli alla circoncisione. I confini del regno di Ircano I, negli anni 106-107 a.C, al termine delle sue

campagne di espansione, corrispondono a quelli ricordati dal libro di Giuditta. Il libro è ambientato all’epoca di Nabucodonosor, ma è stato scritto in realtà in questi anni e riflette la lotta del popolo ebraico contro l’invasore straniero. Si sviluppano poi definitivamente in questo periodo i gruppi dei sadducei, dei

farisei e probilmente anche degli esseni. I farisei si dimostrano molto critici verso la politica di Giovanni, che accusavano soprattutto di aver voluto concentrare nelle sue mani il potere civile e quello religioso, di comportarsi in maniera tirannica e soprattutto di essere più incline all’ellenismo che fedele al giudaismo. E’ certo che Giovanni perse poco per volta il consenso popolare, giungendo a governare come gli altri sovrani ellenistici con la forza di un esercito mercenario e la ricchezza di un esoso sistema fiscale.Un aspetto illuminante di questo atteggiamento di Ircano I si riflette

all’interno dei due libri dei Maccabei, la cui composizione potrebbe esser fatta risalire proprio a questo periodo. In 1Mac 12,6-23 e 14,20-23 sono riportati scambi epistolari che sarebbero avvenuti tra i Maccabei e gli Spartani e in 12,21 si arriva ad ipotizzare un’improbabile parentela comune tra i due popoli, entrambi della “stirpe di Abramo”. Quale segno migliore dell’ammirazione provata dagli ebrei nei confronti dei greci? A ciò si aggiunga il già ricordato passo di 1Mac, che contiene uno straordinario elogio dei romani, il quale non può che stupire posto com’è in bocca a un autore giudeo (1Mac 8,1-16).

L’atteggiamento di Giovanni Ircano I è proseguito dal figlio Aristobulo (104-103 a.C.) che, nel corso del suo brevissimo regno, dopo aver fatto assassinare sua madre e suo fratello, si autoimpose il titolo di ‘re’, che ancora mancava

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agli Asmonei. Durante il suo regno riuscì ad impadronirsi della Galilea, ampliando ancor più i confini di Israele. Il successore di Aristobulo fu il fratello Alessandro Janneo (103-76 a.C.), sotto

il cui regno la dinastia asmonea raggiunge il suo periodo di splendore, ma allo stesso tempo il culmine del contrasto già esistente con i gruppi farisaici. Alessandro arrivò a compiere gesti di inaudita crudeltà, quando, per reprimere l’opposizione dei farisei ne fece crocifiggere qualche centinaio attorno alle mura di Gerusalemme, facendone poi massacrare mogli e figli davanti ai loro occhi. Questo fatto causò un profondo turbamento nel popolo - tra l’altro la pena della crocifissione era del tutto sconosciuta al diritto israelita - e gli echi di questo avvenimento si possono leggere negli scritti di Qumran (Pesher di Nahum). E’ chiaro ormai che la monarchia asmonea si è trasformata in una delle tante

piccole monarchie orientali di stampo ellenistico presenti nel Medio Oriente, del tutto simile a quella dei Seleucidi, in opposizione alla quale era parados-salmente nata: un paradossale rovesciamento di prospettiva per come le cose erano iniziate, sessanta anni prima.

Alla morte di Alessandro Janneo gli succede la vedova, Alessandra Salome (76-67 a.C.), che si riconciliò con i farisei e riuscì, nel corso del suo regno, a mantenere in pace il paese, i cui confini, grazie alle campagne espansionistiche intraprese fin da Giovanni Ircano I, ricalcavano ormai gli antichi confini attribuiti al regno davidico-salomonico (v. cartina n° 6). Nella tradizione giudaica il regno di Alessandra è rimasto come una vera età dell’oro; si trattò senz’altro di un periodo di pace e prosperità economica, ma non bisogna dimenticare che il giudizio dato su Alessandra è influenzato dal buon trattamento che essa adottò nei confronti dei farisei. Alla morte di Alessandra nasce una lotta accanita per la successione al trono

tra i suoi due figli, Ircano II, che deteneva la carica di sommo sacerdote donatagli dalla madre, e Aristobulo II, l’erede al trono. Lo scontro arrivò a un punto tale che Ircano preferì ricorrere all’aiuto di Roma, rivolgendosi a Pompeo, che ormai era arrivato a conquistare Damasco e a distruggere il regno seleucida. La lotta tra i due fratelli è un chiaro indice delle divisioni interne esistenti nel regno asmoneo. Il paese è composto ormai di territori molto diversi tra loro: si va dalla Galilea, territorio popolato sia da Giudei che da pagani, alla Samaria, ormai culturalmente e religiosamente divisa dalla Giudea, alla costa ellenizzata, alla Giudea, divisa al suo interno in fazioni politiche e movimenti religiosi. I Romani non persero la ghiotta occasione e Pompeo, nelle vesti di arbitro e paciere, poté, nel 63 a.C., entrare in Giudea con le sue legioni e conquistare Gerusalemme, le cui porte gli furono aperte dai partigiani di Ircano II, mentre quelli di Aristobulo II, rifugiatisi nel Tempio, furono massacrati dopo tre mesi di assedio.Lo storico romano Tacito ricorda lo stupore di Pompeo che, entrato nel

Tempio, lo trovò assolutamente vuoto, del tutto privo di qualunque immagine della divinità,70 luogo di culto di YHWH, Dio invisibile, incomprensibile per i Romani, i nuovi padroni, ormai, dell’intera Giudea.

70 “Vacuam sedem et inania arcana”; Hist. V,9.

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f. Il giudaismo di lingua greca in Israele e nella diaspora.

Si è già avuto occasione di parlare della diaspora giudaica, cioè di quel movimento di dispersione che portò gran parte degli Israeliti a stabilirsi fuori dalla propria terra, in primo luogo a partire dal crollo del regno del nord e, successivamente, in seguito all’esilio babilonese. Una storia di Israele, anche geograficamente limitata alla regione palestinese, non può dimenticare l’esistenza di questo ‘Israele’ fuori dalla terra di Israele. L’ebraismo della diaspora è un fenomeno molto importante: ai tempi del

Nuovo Testamento gli ebrei residenti fuori dalla Terra promessa, spesso da molti secoli, erano molto più numerosi degli stessi ebrei di Israele, come del resto avviene anche oggi. Al tempo di Ottaviano Augusto si parla di una popolazione ebraica, all’interno dell’impero romano, di circa quattro milioni e mezzo di Giudei, di cui certamente non più di un milione in Israele: si tratta del 7% della popolazione dell’impero. Flavio Giuseppe può citare con orgoglio il geografo e storico greco Strabone (63 a.C. - 19 d.C.) che avrebbe detto dei Giudei: «Non è facile trovare un solo luogo nel mondo che non ospiti questa gente e in cui (essa) non abbia fatto sentire la sua autorità».71 L’ebraismo, dunque, si trovava a diretto contatto con la cultura ellenistica

che dominava il mondo di allora, contatto che, come si è visto nel caso della rivolta maccabaica, si è risolto spesso in uno scontro tra le due culture. Gli ebrei della diaspora erano tuttavia più aperti verso il mondo ellenistico, rispetto agli ebrei che vivevano in Giudea e a Gerusalemme: abitavano infatti in città ellenistiche, assumendone talora la cittadinanza, ne adottavano la lingua (cioè il greco) e i costumi, pur cercando di conservare la propria fede e le proprie tradizioni. L’influenza dello spirito greco si può notare già nei nomi, che vengono non di rado grecizzati: così ad esempio Giasone è la forma greca di Giosuè (2Mac 2,23), mentre Saulo diventa Paolo (cf. At 13,9). L’influsso della filosofia greca si fa sentire anche in campo religioso: il

giudaismo della diaspora insiste meno sugli aspetti cultuali e molto di più su quelli etici. Elementi tipicamente giudaici come il Tempio, il culto, il sacerdozio, le pratiche rituali, vedono la loro importanza molto ridotta, rispetto al contenuto morale con il quale il giudaismo si presenta ad un livello etico superiore rispetto al paganesimo. Si sviluppa in modo particolare nel giudaismo della diaspora, in special modo nel giudaismo di Alessandria d’Egitto, un metodo di interpretazione allegorica delle prescrizioni cultuali e rituali contenute nei libri biblici, metodo che in seguito avrà grande fortuna anche in campo cristiano. Un aspetto singolare del giudaismo della diaspora è il tentativo apologetico

di mostrare come la fede giudaica sia superiore alla filosofia greca, giungendo sino a parlare dei filosofi greci come discepoli di Mosè come fa ad esempio Filone di Alessandria; a questo riguardo nascono anche opere che cercano di mostrare questi pretesi contatti tra mondo ellenistico e mondo giudaico. La Lettera di Aristea e il Quarto libro dei Maccabei sono per molti aspetti scritti apologetici che, pur molto diversi tra loro, vogliono entrambi mostrare al mondo ellenizzato la superiorità morale e persino filosofica del giudaismo. Lo storico giudeo Eupolemo, per alcuni quel personaggio che Giuda Maccabeo invia a Roma (cf. 1Mac 8,17) pare scrisse in lingua greca una storia degli ebrei

71 Antichità Giudaiche XIV,7,2; Flavio Giuseppe cita probabilmente i perduti Ypomnemata di Strabone.

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nella quale sosteneva che i Fenici e i Greci avevano appreso la scrittura da Mosè. La grande forza morale del giudaismo esercitava effettivamente un certo

influsso sul paganesimo. Molti pagani chiedevano di entrare nel giudaismo: benché non circoncisi e quindi non del tutto incorporati al popolo ebraico come lo erano invece i rari “proseliti”; questi “timorati di Dio” osservavano i precetti fondamentali della Tôrah e partecipavano alla vita della sinagoga. Il centurione Cornelio, protagonista di At 10, è certamente uno di essi. Il singolare modo di vivere giudaico, tuttavia, provocava spesso tensioni e

scontri, che potevano anche risolversi in vere persecuzioni. Il fatto di considerarsi in qualche modo separati dal resto della società, di proclamare una fede superiore alle altre, di vivere secondo leggi rigidamente osservate e in fondo strane, almeno agli occhi di un pagano, facevano nascere non di rado sentimenti di sospetto e di ostilità, fino a poter parlare di un vero e proprio antisemitismo. Specialmente ad Alessandria d’Egitto, ove esisteva una delle più fiorenti comunità giudaiche della diaspora (si parla di almeno 40.000 giudei, forse un quinto dell’intera popolazione), la lotta dei giudei per ottenere il pieno godimento dei diritti civili ha caratterizzato il periodo a cavallo tra il I° sec. a.C. e il I° sec. d.C.; ne fa fede il libro della Sapienza, composto proprio durante l’impero di Ottaviano Augusto (v. oltre).72 Sotto l’impero romano, i giudei godevano tuttavia di una autonomia abbastanza ampia, specialmente in campo religioso, anche se a livello popolare non godevano di buona fama, come testimoniano le persecuzioni avvenute durante il breve regno di Caligola (37-41 d.C.). L’editto dell’imperatore Claudio, diretto ai cittadini di Alessandria nel 41 d.C. esorta a non mettere in questione il diritto degli ebrei alla loro libertà religiosa, al mantenimento delle loro usanze ed invita alla “comprensione e amicizia reciproche”. Ma nel 49 lo stesso Claudio espulse gli Ebrei da Roma, in seguito a sommosse antigiudaiche (il fatto è ricordato in At 18,1-4).

Presenze giudaiche in Egitto sono ben documentate fin dal V° sec. a.C., come si è visto a proposito della colonia giudaica di Elefantina. A partire dalla metà del II° secolo a.C. in poi il giudaismo alessandrino è caratterizzato da un’intensa produzione letteraria, che interessa anche la Bibbia. E’ in questo periodo che, proprio ad Alessandria, giudaismo ed ellenismo iniziano ad incontrarsi in maniera feconda. Dobbiamo qui ricordare, allargando lo sguardo anche fuori dal giudaismo di

lingua greca, come non manchino correnti di pensiero interne al giudaismo stesso che considerano il processo di ellenizzazione in modo del tutto negativo; ne fanno fede nel II sec. a.C. testi come il libro dei Sogni, composto intorno all’epoca della rivolta maccabaica e che entrerà a far parte del libro di Enoc (i capitoli 83-90; cf. p. ...) e il libro dei Giubilei, composto forse all’epoca di Giovanni Ircano I (cf. nota 82).

Verso il 132 a.C. il nipote di Ben Sira, arrivato ad Alessandria, vi traduce l’opera del nonno, ovvero il libro del Siracide, arrivato completo sino a noi proprio in questa traduzione (cf. n. 66). Nella prefazione l’anonimo nipote

72 Cf. L. MAZZINGHI, «Sap 19,13-17 e i diritti civili dei Giudei di Alessandria», in G. BELLIA – A. PASSARO (edd.), Il libro della Sapienza. Tradizione, redazione, teologia, Città Nuova, Roma 2004, 67-98.

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afferma di aver compiuto il suo lavoro pensando a coloro che, vivendo all’estero, intendono vivere conformemente alla Legge. L’opera di Ben Sira dimostra come l’ellenizzazione del giudaismo, di cui spesso si è parlato e che fu molto forte soprattutto con la dinastia asmonea, non fu mai realmente profonda. Se Ben Sira adotta idee provenienti dal mondo greco il suo pensiero resta nondimeno giudaico e al centro del suo libro, al capitolo 24, troviamo l’esaltazione della Tôrah, la Legge divina accostata, pur se non del tutto identificata, alla sapienza, della quale costituisce l’espressione concreta. Anche nel caso dell’ellenismo, come già era successo durante l’esilio

babilonese e come succederà ancora dopo la conquista romana, l’ebraismo si coagulerà intorno alla propria fede e sarà proprio questo fatto a garantirne la sopravvivenza. Alla fine del I° sec. a.C., durante l’impero di Augusto (31 a.C. - 14 d.C.), nascerà un’altra opera analoga, il libro della Sapienza, che entrerà poi nel canone cattolico delle Scritture, libro destinato alla formazione dei giovani giudei di Alessandria, spesso tentati di abbandonare la fede giudaica. Il libro della Sapienza tenterà arditamente di annunziare al suo tempo il messaggio biblico usando categorie persino filosofiche e linguaggio mutuati dalla cultura ellenistica, una operazione dialogica e coraggiosa che segnerà di lì a poco anche gli inizi del cristianesimo.73

L’opera di maggior rilievo del giudaismo alessandrino di lingua greca resta però la traduzione in greco della Bibbia ebraica, nota come la Settanta (Lxx).74

Nella già ricordata Lettera di Aristea, scritta probabilmente durante il I° secolo a.C., viene narrata la leggenda relativa alla nascita di tale traduzione, che comprendeva originariamente solo il Pentateuco, fatta da 70 saggi giudei, chiamati ad Alessandria dal re Tolomeo II Filadelfo (284-247 a.C.), opera portata a termine, sempre secondo la Lettera di Aristea, con l’aiuto di fenomeni miracolosi e prodigi di varia natura. La realtà storica è molto più semplice: nel periodo tolemaico le comunità

giudaiche presenti in Egitto sentirono il bisogno di una traduzione che permettesse loro di leggere la Bibbia nella lingua da loro usata quotidianamente, il greco, come già testimonia il prologo di Ben Sira. Tale traduzione, limitata in un primo tempo al solo Pentateuco e compiuta certamente sotto il patronato regale tolemaico, fu successivamente, in un arco di tempo che arriva sino al I° sec. a.C., estesa anche agli altri libri della Bibbia ebraica e vi furono aggiunti altri testi redatti in quel periodo, come il libro di Ben Sira (Siracide), i Maccabei, la Sapienza e altri testi, alcuni dei quali non sono poi entrati neppure nel canone delle Chiese cristiane75.

73 Cf. L. MAZZINGHI, «Il libro della Sapienza: elementi culturali», Il confronto tra le diverse culture nella Bibbia da Esdra a Paolo, XXXIV Settimana Biblica Nazionale (Roma 9-13 Settembre 1996), ed. R. FABRIS, Ricerche Storico Bibliche, 1-2 (1998) 179-198. 74 Sulla versione dei Lxx cf. una buona introduzione in N. FERNÁNDEZ MARCOS, La Bibbia dei Settanta, Paideia, Brescia 1998.

75 L’ebraismo si rifiuterà di riconoscere la canonicità dei libri contenuti solo nella Settanta, limitando l’elenco dei testi ispirati solo a quelli contenuti nella Bibbia ebraica, eliminando cioè 1-2 Mac, Gdt, Tb, Sap, Sir, Bar più alcune addizioni a Est e a Dan. Il canone cattolico accoglierà tutti questi testi, rifiutando però riconoscere l’ispirazione di altri testi presenti nella Settanta come i Salmi di Salomone, le Odi di Salomone e il Terzo e Quarto libro dei Maccabei.

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A lato della Settanta esistono anche altre traduzioni greche fatte in seguito da giudei, intorno al II sec. d.C., ovvero le traduzioni di Aquila, Simmaco e Teodozione, rispetto alle quali però resta enorme l’importanza della Settanta: oltre ad averci conservato libri assenti dalla Bibbia ebraica vi si trovano molto spesso varianti diverse dal testo masoretico, cioè il testo ebraico dell’Antico Testamento codificato dai cosiddetti masoreti, i dotti ebrei dell’VIII-IX sec. d.C.). Il traduttore greco aveva probabilmente di fronte un testo ebraico diverso dal nostro; da esso comunque si distacca di frequente per numerose ragioni, comprese motivazioni di carattere teologico. La versione greca dei Lxx è poi quella che gli autori del Nuovo Testamento utilizzano quando citano testi dell’Antico. La Settanta costituì così il testo biblico usato nella prima predicazione cristiana nel momento in cui si rivolgeva al mondo greco.

La letteratura del giudaismo della diaspora comprende poi due nomi importanti che non possono essere dimenticati: Filone e Flavio Giuseppe, entrambi, a diverso titolo, importanti non solo per la storia di Israele ma anche, Filone in modo tutto particolare, per la stessa storia del cristianesimo.76

Filone, nato tra il 25 e il 13 a.C. e morto certamente dopo il 40 d.C. vive ed opera ad Alessandria d’Egitto. Restano di lui molte opere, scritte in greco, rivolte ai giudei alessandrini più colti. L’interesse di Filone è prima di tutto quello di commentare e spiegare la Bibbia, dall’altro il tentativo di collegare il giudaismo con la filosofia greca, dandogli un fondamento razionale. La proposta di Filone è rivolta verso il mondo ellenistico, cercando di rendere accettabile la fede giudaica, ma soprattutto è rivolta al giudaismo, che viene invitato a non considerarsi affatto inferiore alla grecità. La filosofia di Filone e il suo metodo allegorico di interpretazione della Bibbia avranno un grandissimo influsso anche nel cristianesimo, in particolare nei fondatori di quella che sarà chiamata proprio la scuola alessandrina (Clemente e Origene). Verso il 37 d.C. nasce in Giudea Giuseppe, sacerdote e fariseo di

Gerusalemme, capo militare durante la rivolta del 66 d.C. Catturato dai romani, riesce ad entrare nelle grazie di Vespasiano fingendosi pazzo e poi profeta; una volta giunto a Roma verrà liberato e prenderà il nome di Flavio Giuseppe, in onore dell’imperatore. Giuseppe è uno storico di capitale importanza per noi: la sua Storia della guerra giudaica, composta tra il 76 e il 79 d.C., è la fonte principale per la ricostruzione degli avvenimenti relativi alla seconda rivolta giudaica, di cui egli fu testimone oculare e diretto pro-tagonista. Giuseppe compose poi, insieme ad altre opere polemiche, i monu-mentali 20 libri delle Antichità giudaiche, ultimate nel 94 d.C., una storia di Israele dalla creazione del mondo fino allo scoppio della guerra giudaica presentate a un pubblico colto. Giuseppe spesso usa le sue fonti con libertà e talvolta con tendenziosità.

Riguardo alla guerra giudaica è chiaro infatti come egli tenti di giustificare se stesso e il partito fariseo attribuendo ai gruppi più estremisti la responsabilità della disfatta. L’opera di Giuseppe resta comunque molto spesso la fonte principale a nostra disposizione. Per un giudizio complessivo sul giudaismo della diaspora di lingua greca è

necessario ritornare ad Alessandria che è, tra il III ed il I secolo a.C., la vera capitale culturale del Mediterraneo, con la sua biblioteca traboccante di opere 76 Una semplice introduzione alla figura di Giuseppe Flavio si trova nel fascicolo 65 (ElleDiCi, Leumann – TO, 2002) de Il mondo della Bibbia.

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uniche al mondo (si parla di 200.000 volumi) e con il suo museo, centro educativo paragonabile ai nostri centri universitari. La ricerca di una integrazione con il mondo greco non è tuttavia pacifica: il giudaismo alessandrino oscilla infatti tra la tentazione dell’apostasia, la ricerca di un dialogo con la cultura ellenistica e il desiderio di difendere e conservare la propria identità. La letteratura alessandrina, e, per certi aspetti, lo stesso libro della Sapienza, sono testimoni di questa tensione certamente feconda, ma mai del tutto risolta.

***

CAPITOLO VIII

SOTTO IL DOMINIO DI ROMA

«Alcuni andarono dai farisei e riferirono loro quel che Gesù aveva fatto. Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: “Che facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione”» (Gv 11,46-48).

a. Dalla conquista romana al regno di Erode il Grande (37-4 a.C.)

Pompeo non perse molto tempo per regolare la situazione interna del regno asmoneo: Aristobulo fu fatto prigioniero ed esiliato a Roma, mentre Ircano II fu confermato nella carica di sommo sacerdote. Pompeo si preoccupò poi di ridimensionare il potere della dinastia asmonea: la Samaria divenne indipendente, mentre le città ellenistiche della Transgiordania furono raggruppate in una confederazione detta la Decapoli (in greco le “dieci città”), nome ricordato anche nel Nuovo Testamento (cf. Mt 4,25). Al sommo sacerdote Ircano II non restò che la Giudea con l’Idumea e la Perea e parte della Galilea e il regno asmoneo fu così ridotto di fatto a uno dei tanti stati vassalli di Roma. In questi anni le vicende della Palestina sono strettamente legate a quelle di

Roma, in particolare alla lotta di potere tra Pompeo, ucciso in Egitto nel 48 a.C., e Giulio Cesare e, dopo la morte di quest’ultimo nel 44 a.C., alla lotta tra Ottaviano e Antonio, che si concluderà con la battaglia di Azio nel 31 a.C. e con la vittoria di Ottaviano che diventerà così il primo imperatore, assumendo nel 27 a.C. il titolo divino di Augusto. Ircano II riuscì a conservare il potere e in piccola parte anche ad accrescerlo

schierandosi dalla parte di Cesare, mentre questi era impegnato nella guerra contro Pompeo in Egitto. Alleato di Ircano II appare un certo Antipatro, in precedenza governatore dell’Idumea, che ottiene da Cesare la nomina a governatore della Giudea mentre Ircano rimane etnarca e sommo sacerdote. Uno dei figli di Antipatro, Erode, proseguendo questa politica di equilibrio tra le opposte fazioni romane, riesce, nel 37 a.C., ad ottenere da Antonio la nomina a re dei Giudei. La situazione in questi anni è estremamente confusa, peggiorata anche

dall’invasione della Palestina ad opera dei Parti, popolo proveniente da

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Oriente, e dal tentativo di Antigono, figlio di Aristobulo, di riprendere il potere. Antigono riesce a conquistare Gerusalemme e a prendere prigioniero Ircano II, al quale fa tagliare un orecchio, rendendolo così inabile ad esercitare la sua carica di sommo sacerdote, che richiedeva tra l’altro l’integrità fisica (cf. Lev 21,16-23). Erode, appoggiato a sua volta da Roma, riesce a sconfiggere i Parti e fa uccidere Antigono, l’ultimo degli Asmonei. Con grande abilità, dopo la sconfitta di Antonio, Erode fa atto di sottomissione a Ottaviano, il quale lo conferma nella regalità, concedendogli anche privilegi ed ampliamenti territoriali. Il regno di Erode riuscirà così a raggiungere dimensioni considerevoli (v. cartina n° 7).

Nei primi anni del suo regno Erode, che sarà poi detto il Grande,77 è preoccupato soprattutto di eliminare ogni possibile avversario interno: fece in-fatti uccidere tutti i suoi possibili oppositori, qualche decina di membri del Sinedrio in aggiunta alla moglie Mariamme, i figli Alessandro e Aristobulo e, più tardi, il primogenito Antipatro. Erode ci appare dunque come un tiranno diffidente e sospettoso, pronto a sopprimere chiunque gli facesse ombra. Gli storici dell’epoca, Flavio Giuseppe in particolare, danno di lui un giudizio del tutto negativo; la figura di Erode, che alcuni storici contemporanei hanno definito addirittura uno psicopatico, ben si accorderebbe dunque con quella che ci tramanda il vangelo di Matteo (Mt 2,13-18) a proposito della “strage degli innocenti”. Da un punto di vista politico, tuttavia, Erode mostrò grande abilità e iniziativa,

facendo buon uso delle sue enormi ricchezze, accresciute da una crescente pressione fiscale. Ancor oggi è possibile ammirare il risultato del suo grande progetto di costruzioni pubbliche: fece ricostruire la città di Samaria, ricostruì l’antica Torre di Stratone come una nuova città, Cesarea Marittima, così chiamata in onore dell’imperatore, città che diventerà poi la sede del procuratore romano e dell’amministrazione imperiale. L’opera di Erode è soprattutto apprezzabile nella serie di fortezze da lui costruite per rafforzare i confini del regno: tra queste l’Herodium, a Betlemme, la fortezza di Macheronte e quella di Massada, sul Mar Morto. Si possono ricordare ancora i suoi palazzi, come quello di Gerico, la fortezza Antonia a Gerusalemme, le torri della cittadella, una delle quali resiste ancora oggi e persino un anfiteatro e un ippodromo. L’opera più importante resta però l’ampliamento del Tempio di Gerusalemme,

un’impresa monumentale iniziata nel 19 a.C., i cui lavori erano ancora in corso ai tempi di Gesù (cf. Gv 2,20). Saranno terminati solo nel 63 d.C., appena sette anni prima della definitiva distruzione da parte delle legioni romane. Erode riuscì dunque a creare un regno politicamente sicuro ed

economicamente stabile, ma non riuscì mai ad ottenere il favore popolare, almeno non quello dei Giudei. Erode infatti non era realmente ebreo, ma idumeo e, per di più, si trovava a governare una popolazione mista in cui gli ebrei, pur essendo la maggioranza, erano mescolati con greci e altri abitanti di diverse culture e religioni. Erode cercò da un lato di apparire come un benefattore del giudaismo, come dimostrano i lavori di ricostruzione del Tempio, l’osservanza formale della Legge mosaica e in particolare l’intensa opera diplomatica a favore dei diritti dei giudei della diaspora nei quali egli

77 Il titolo è già conosciuto da Flavio Giuseppe.

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cercava un appoggio che non trovava tra i giudei legati alla vecchia dinastia asmonea. In realtà, Erode abolì il principio di successione nella carica di sommo sacerdote, che subordinò alla sua nomina, comportandosi anche in questo campo come un despota assoluto. Inoltre Erode favorì molto il processo di ellenizzazione, inviando due suoi figli a studiare a Roma, costruendo a Gerusalemme un teatro e un anfiteatro e altrove perfino templi pagani, dando alle nuove città da lui fondate una impronta tipicamente greca, dimostrandosi grande amico dei Romani. Erode si conformava in realtà alle usanze politico-religiose tipiche dell’impero romano, ma questi fatti non mancarono di scandalizzare i giudei più pii che lo considerarono sempre come uno straniero. Due o tre anni prima della sua morte (4 a.C.) si colloca la nascita di Gesù

Cristo78.

b. Movimenti religiosi, partiti e correnti.

Leggendo il Nuovo Testamento si incontrano a più riprese nomi come i farisei, i sadducei, gli erodiani, gli zeloti, gli scribi. Fin dall’epoca maccabaica il giudaismo appare suddiviso in vari gruppi sociali, politici, religiosi, spesso molto diversi gli uni dagli altri, testimonianza dell’esistenza di un reale pluralismo all’interno del giudaismo del tempo. Il giudaismo presenta dunque una realtà molto più varia di quanto non si sia molto spesso creduto; gruppi di pensiero e diverse correnti religiose, veri e propri partiti in buona parte già esistenti sin dal II secolo a.C. e non di rado in contrasto tra loro; si pensi ad esempio al caso degli esseni e della frattura con il giudaismo del Tempio prima e all’interno dell’essenismo poi (v. oltre). In questo paragrafo il lettore potrà trovare una descrizione, forzatamente

sommaria, di queste realtà che caratterizzano lo sfondo su cui si muove la narrazione evangelica79.

I Farisei.

Flavio Giuseppe parla dell’esistenza di tre grandi correnti all’interno del giudaismo, che egli tenta di paragonare alle scuole filosofiche greche: i farisei, i sadducei e gli esseni; Flavio Giuseppe menziona un quarto gruppo a parte, gli zeloti; dovremmo parlare meglio di orientamenti o di tendenze, piuttosto che di

78 Oggi è ben noto come la data della nascita di Gesù non coincida con il nostro calendario. Esso fu fissato infatti dal monaco Dionigi il Piccolo (VI sec. d.C.) sulla base di un’interpretazione errata dei dati cronologici forniti in Lc 3,1.23. Luca afferma in realtà che nel 15° anno di Tiberio (una data che può andare dal 27 al 29 d.C., a seconda dei vari calendari allora in uso) Gesù aveva circa trent’anni (Lc 3,23). Matteo, da parte sua, colloca la nascita di Gesù prima della morte di Erode che avvenne il 4 a.C. e d’altra parte Luca menziona Erode a proposito della nascita del Battista (Lc 1,5), il che fa pensare che Gesù sia nato quando Erode era ancora vivo. Tutto questo porta normalmente a collocare la nascita di Gesù intorno al 6-7 a.C.

79 Per una trattazione più esauriente di questo argomento rimando a testi specializzati come LOHSE, L’ambiente del Nuovo Testamento; PENNA, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane, e soprattutto all’opera fondamentale di SCHÜRER, la Storia del popolo giudaico (v. la bibliografia conclusiva). Molto più semplice, ma di grandissimo interesse, è invece il bel testo di P. SACCHI, Gesù e la sua gente, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003.

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gruppi chiusi in se stessi; Giuseppe usa il termine greco hairesis che solo impropriamente si può tradurre con “sette” (cf. At 5,17; 15,5 etc.). Giuseppe - che apparteneva proprio al gruppo dei farisei - parla di essi come

di coloro che cercavano di vivere in piena conformità con la Tôrah, cioè coloro che erano più fedeli alle tradizioni del giudaismo codificate nella Legge mosaica. Il nome stesso di ‘farisei’ viene forse (ma su questo punto c’è ancora molta incertezza) dall’ebraico pherushim, in aramaico pherisshayya, da una radice che significa ‘separare’, espressione di un aspetto caratteristico del movimento farisaico. Tra loro si chiamavano piuttosto haberim, cioè ‘compagni’, o anche hakhamim, ‘saggi’, espressioni che ricordano la compattezza e l’unità del gruppo che essi formavano.80 Le origini del fariseismo sono ancora oggi discusse, ma si possono tuttavia

porre in epoca maccabaica, forse con i già ricordati Hasidim, i ‘pii’ cui fa riferimento 1Mac 2,42. Questo gruppo di fedeli alla Legge che avevano contribuito a dar vita alla rivolta maccabaica si staccò ben presto dalla politica asmonea, probabilmente già con Giovanni Ircano I e soprattutto con Alessandro Janneo, i quali, dal punto di vista dei farisei, si erano ormai allontanati dall’ideale di fedeltà alla Legge e di purezza che essi invece perseguivano, ideale che aveva animato gli inizi della rivolta maccabaica. Ai tempi del Nuovo Testamento i farisei erano per lo più di estrazione sociale

medio-alta, pochi di numero (appena 6.000 secondo Flavio Giuseppe) e non appartenenti alle classi sacerdotali, eppure estremamente influenti nella società. Essi costituivano una comunità relativamente chiusa, caratterizzata dalla preghiera e dalla fedeltà minuziosa ai precetti della Legge, tramandati e interpretati dalla tradizione orale. Questo è un elemento caratteristico dei Farisei, accettare cioè, accanto alla Scrittura anche tutto il complesso di tradizioni non scritte tramandate oralmente dai maestri della Legge, gli scribi. Il testo di Mc 7,3 ricorda il valore che i farisei attribuivano alla “tradizione dei Padri”. La molteplicità di prescrizioni cui il fariseo stava estremamente attento, in

primo luogo l’osservanza del sabato, le leggi di purità rituale e alimentare e il pagamento delle decime per il Tempio, non va visto come puro legalismo. Questo tipo di atteggiamento nasce da motivazioni profondamente religiose che vedevano nella Tôrah lo specchio della volontà di Dio nei confronti dell’uomo. Il Nuovo Testamento riporta diversi esempi di queste norme legali che essi seguivano, norme che avevano anche lo scopo di tenersi lontano dai peccatori e dai pagani e che proprio per questo sconfinavano talora nel disprezzo verso il “popolo della Terra”, cioè la massa della gente che non osservava pienamente la Legge. A questo proposito si possono ricordare i testi di Gv 7,49 e la nota parabola del fariseo e del pubblicano in Lc 18,9-14: in quest’ultimo testo il fariseo non esagera nel ricordare i suoi atti quotidiani (preghiera, digiuno, elemosina), ma parla semplicemente di ciò che ogni buon fariseo effettivamente faceva. Una ben nota preghiera farisaica, attribuita a rabbi Nehunya b. ha-Qana

quando lasciava la scuola sinagogale, esprime questa coscienza di essere la parte scelta di Israele:

80 Cf. G. STEMBERGER, Farisei, sadducei, esseni, Paideia, Brescia 1993.

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«Ti ringrazio, Signore mio Dio, perché mi hai dato la mia parte fra coloro che siedono nella casa dell’insegnamento (= la scuola sinagogale) e non tra coloro che siedono agli angoli delle strade. Io infatti mi alzo di buon’ora; anch’essi si alzano di buon’ora. Io mi alzo di buon’ora per le parole della Legge; essi si alzano di buon’ora per cose futili. Io mi affatico e ricevo ricompensa; anch’essi si affaticano, ma non ricevono nessuna ricompensa. Io corro; anch’essi corrono; io corro verso la vita del mondo futuro, ma essi corrono verso la fossa della perdizione» (Talmud bab., Ber. 28b).

Da un punto di vista dottrinale i farisei furono in realtà molto aperti, ac-cogliendo posizioni teologiche spesso nuove per il giudaismo, posizioni rifiutate dagli stessi sadducei. Tra queste la fede nella resurrezione (si veda la controversia di Gesù con i sadducei in Mc 12,18-28, dove la risposta di Gesù è apprezzata dai farisei, v. 28), la fede nell’esistenza di angeli e spiriti, la difesa della libertà umana accanto alla fiducia nella provvidenza di Dio. Nel testo di At 23,6-9 Paolo si dichiara fariseo e viene da essi difeso in polemica contro i sadducei. Da un punto di vista politico i farisei erano tutto sommato neutrali, ma di una

neutralità che nasceva dalla politica da loro vista in una prospettiva esplicitamente religiosa. Così, al contrario dei sadducei, essi rifiutarono di essere fedeli agli Asmonei e successivamente a Erode, perché vedevano in tali re un tradimento della fede giudaica. D’altra parte, sotto il dominio romano che pure essi non accettavano, i farisei rifiutarono la politica oltranzista degli zeloti, che condusse alla doppia tragica rivolta contro Roma.

Il gruppo dei farisei assume all’interno del Nuovo Testamento, e dei Vangeli in particolare, una connotazione del tutto negativa, così che ‘fariseo’ diventa molto semplicemente sinonimo di ‘ipocrita’. Le accuse lanciate da Gesù ai farisei sono molto decise:

«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perchè così voi non vi entrate e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci. (…)Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri

imbiancati: essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità. (…) Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare alla condanna della Geenna?» (Mt 23,13. 27-28. 33).

Le accuse di ipocrisia si riferiscono soprattutto all’atteggiamento farisaico di separazione dal profano che, come si è detto, poteva trasformarsi in un atteggiamento di superiorità confinante non di rado con il disprezzo, come si può osservare nella preghiera sopra ricordata. Tuttavia, occorre sottolineare come su questo punto i Vangeli riflettano anche le successive controversie tra giudaismo e cristianesimo, che molto hanno contribuito ad inasprire i contrasti e calcare la mano sugli aspetti negativi dei farisei. Essi, comunque, dopo la seconda rivolta giudaica che, come vedremo, segnerà la fine politica di Israele come nazione, resteranno le uniche guide spirituali del popolo e ne prenderanno in mano le sorti, gettando così le basi del giudaismo attuale.

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Gli scribi.

A lato dei farisei è necessario ricordare un gruppo più ristretto che non può essere considerato un vero movimento al pari di quello farisaico, ma che nondimeno costituiva un gruppo di grande influenza: quello degli scribi. Gli scribi, noti nel Nuovo Testamento anche con l’appellativo di “maestri” (Lc 2,46; Gv 3,10) o “dottori della Legge” (Lc 5,17; At 5,34), non erano normalmente sacerdoti e avevano come compito primario lo studio, l’interpretazione e l’insegnamento della Legge mosaica. Nel giudaismo postesilico l’osservanza della Tôrah diventa sempre più

importante nella vita del popolo, a partire soprattutto dalle riforme di Neemia e Esdra. La Tôrah indica, strettamente parlando, l’insieme dei primi cinque libri della Bibbia ebraica, chiamato dai cristiani con il termine greco di “Pentateuco”. In senso più largo, il termine ebraico Tôrah esprime la Legge, intesa come volontà e rivelazione di Dio, nella sua duplice espressione scritta - la Sacra Scrittura - e orale - la Tradizione. I farisei, come si è visto, difendevano la fedeltà alla Tôrah e alla tradizione non scritta dei Padri come criterio basilare per il fedele giudeo. Gli scribi sono allora necessari prima di tutto come interpreti autorevoli della Legge. Essi nascono già in epoca ellenistica ed erano senz’altro una classe molto influente al tempo di Ben Sira, probabilmente già egli stesso uno scriba. Si diventava scribi non per nascita, ma in seguito allo studio in scuole tenute da maestri famosi, scuole al termine delle quali si diventava “dottori della Legge”, personaggi illustri e influenti ai quali il popolo si rivolgeva con il titolo di Rabbi, “mio signore”. Furono proprio i rabbini, durante l’epoca ellenistica, a salvare il giudaismo da una possibile scomparsa, preservandone le tradizioni nel momento di maggior influsso della cultura greca. I rabbini costituivano all’epoca di Gesù le vere guide spirituali del popolo, le

persone più considerate nella società giudaica, spesso con il ruolo di giudice o di insegnante: Gesù stesso viene spesso chiamato Rabbi nei testi evangelici (si vedano le osservazioni polemiche contenute in testi come Mt 23,6-7, Mc 12,38-39; Lc 11,43). Molti dibattiti riportati nei testi evangelici sono delle vere dispute rabbiniche, quali si potevano udire nelle due grandi scuole dell’epoca, quelle dei celebri Rabbi Hillel e Rabbi Shammay. Paolo afferma da parte sua di essere stato educato alla scuola del notissimo Rabbi Gamaliel (At 22,3; cf. At 5,34). Dai rabbini, a partire dall’inizio dell’era cristiana, nasceranno in seguito i grandi testi che ancora oggi regolano la vita degli ebrei, la Mishnà e il Talmud. In queste opere si raccolgono le tradizioni rabbiniche precedenti, le decisioni giuridiche, morali, religiose che regolano la vita degli ebrei e soprattutto i commenti e le interpretazioni rabbiniche della Scrittura che avranno un notevole influsso anche nel cristianesimo.

I sadducei.

Il nome di ‘sadduceo’ deriva probabilmente da Sadoq, capo di una famiglia sacerdotale e sommo sacerdote in epoca salomonica (1Re 2,35). I Sadociti erano, nel periodo successivo all’esilio, la famiglia sacerdotale più importante, dalla quale, almeno fino all’epoca maccabaica, veniva scelto il sommo

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sacerdote. Sotto gli asmonei la famiglia sadocita fu esclusa dal sommo sacerdozio, a vantaggio degli asmonei stessi che pure si preoccuparono di rimanere sempre in buoni rapporti con la classe sacerdotale, la quale, poco per volta, venne a costituirsi in un vero e proprio partito. I sadducei formavano un gruppo ristretto costituito per lo più dall’aristocrazia

sacerdotale di Gerusalemme, politicamente molto più influente dei farisei. Contrariamente a quanto spesso si crede, i sadducei erano di tendenza fortemente tradizionalista; appellandosi alla sola autorità della Scrittura, rifiutavano la tradizione orale accettata invece dai farisei. In particolare, i sadducei rifiutavano quelle concezioni teologiche nuove che abbiamo visto ac-colte dai farisei, come ad esempio la resurrezione: l’eco di questi dibattiti è presente anche nei Vangeli (Mc 12,18-28; cf. At 23,6-10). Da un punto di vista politico, il conservatorismo che li caratterizzava in campo

religioso portò i sadducei ad assumere posizioni di potere, conservato poi con compromessi, accordi e concessioni fatte al governo in carica, prima con gli asmonei, poi con Erode, poi con i romani. Durante la dominazione romana, infatti, i sommi sacerdoti venivano scelti in ambito sadduceo. Ma a questa influenza politica non fa riscontro una vera e propria influenza sul popolo, al contrario dei farisei. Dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C. i sadducei e con loro l’intera classe sacerdotale scompariranno definitivamente dalla scena del giudaismo. E’ possibile che l’opinione del sommo sacerdote Caifa sulla necessità di far

morire Gesù per non rischiare di essere distrutti dai Romani, opinione riportata in Gv 11,48 rispecchi il punto di vista sadduceo nei confronti di Gesù: il suo movimento era considerato pericoloso da un punto di vista politico, perché poteva scatenare la repressione dei romani, con i quali i sadducei cercavano piuttosto un accordo. La presenza dei “capi dei sacerdoti”, quasi certamente sadducei, nel quadro del processo a Gesù, mette in luce anche questo aspetto politico delle accuse che a lui venivano mosse.

Gli zeloti e i sicari.

Flavio Giuseppe affianca a farisei, esseni e sadducei un quarto gruppo, che egli definisce come coloro che erano animati da una grande passione per la libertà, convinti che solo Dio è guida e Signore di Israele. Si tratterebbe dell’ala più estremistica del partito farisaico, influenzato anche da tendenze apocalittiche. Secondo Giuseppe, questa “scuola filosofica” sarebbe nata dopo il 6 d.C., anno in cui i romani assumono il controllo diretto della Giudea dopo aver deposto Archelao. In quest’anno i romani avrebbero ordinato un censimento per l’esazione delle tasse, censimento che avrebbe incontrato la feroce opposizione di molti giudei, guidati, secondo Flavio Giuseppe, da un certo Giuda di Gamala, detto Giuda il Galileo (At 5,37), la cui “filosofia” – usando le espressioni di Flavio Giuseppe - era molto semplice: il rifiuto puro e semplice della dominazione straniera usando come metodo la lotta armata. Da un punto di vista religioso, gli zeloti, cioè coloro che avevano zelo per la Legge, consideravano l’occupazione romana come frutto del peccato di Israele, aggravato dalla posizione neutrale o addirittura favorevole di farisei e sadducei. La lotta fino alla liberazione del popolo o fino alla propria morte è l’unico mezzo per restaurare la signoria divina. In realtà, le informazioni forniteci da Flavio Giuseppe non sono così precise: gli “zeloti” nasceranno

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come gruppo organizzato solo al momento della prima rivolta contro i romani, intorno al 66 d. C. e non è neppure certa l’identificazione degli zeloti con la “quarta filosofia” citata da Giuseppe.Accanto a loro va collocato il movimento dei “sicari” cioè coloro che

portavano la sica, il nome latino del pugnale con il quale uccidevano le loro vittime, in genere funzionari romani e giudei considerati collaborazionisti. Sicari e zeloti, malvisti dagli stessi farisei, consideravano se stessi come la vera anima di Israele e saranno di fatto i promotori delle ripetute rivolte antiromane. Benché, come si è detto, la loro attività si collochi soprattutto dopo la metà del primo secolo d.C., tendenze zelote sono senz’altro presenti fin dall’inizio del secolo. In Lc 6,15 e At 1,13 uno dei discepoli di Gesù è chiamato Simone lo zelota81; la nota controversia sul tributo dovuto all’imperatore (Mc 12,13-17 e paralleli) risente di questa dualità di posizioni, pro o contro l’occupazione romana.

La letteratura enochica e l’apocalittica.

A partire dalle riforme di Neemia e Esdra si produce in Israele quel mutamento radicale che porta alla nascita di ciò che abbiamo chiamato giudaismo. La società appare organizzata intorno a un doppio punto di riferimento, la Legge e il Tempio; la Legge, espressione della volontà di Dio, il Tempio, simbolo dell’unità del popolo. La preoccupazione maggiore per il pio israelita, come sarà più tardi per il movimento farisaico, è appunto relativa all’osservanza della Legge, al culto e alla separazione da ciò che è profano, in primo luogo il contatto con gli altri popoli. In particolare, si sottolineano le pratiche distintive del sabato e della circoncisione. La perdita della libertà politica ha certamente contribuito all’accentuazione di questi atteggiamenti di separazione. E’ in questo periodo, tra il IV e il V secolo a.C., che inizia a svilupparsi nel

giudaismo un movimento di pensiero che i moderni tenteranno poi di definire con il nome di “apocalittica”, dal termine che in greco significa “rivelazione” (cf. Ap 1,1); ma ormai è chiaro che la parola “apocalittica” è poco più di una etichetta creata a posteriori che tenta di definire una realtà molto più complessa. Dovremmo ben distinguere tra movimenti apocalittici e “apocalissi” intese come genere letterario. Ad ogni modo, ciò che noi chiamiamo genericamente “apocalittica” è qualcosa di molto diverso dalla profezia classica. Mentre i profeti denunziavano l’infedeltà del popolo nel tempo presente, annunciando di pari passo un intervento di Dio per il futuro, che avrebbe rinnovato il corso della storia, il movimento apocalittico vede la storia presente come una realtà del tutto negativa, un mondo perverso e corrotto, che Dio farà scomparire creando qualcosa di totalmente nuovo e instaurando il suo Regno. Le radici di questo nuovo modo di pensare si trovano già all’interno della Bibbia, nella seconda parte di Zaccaria (Zac 9-14) e nel 81 Se questo Simone fosse davvero un membro del partito zelota è un fatto molto discusso: alcuni pensano che egli fosse chiamato così perchè zelante seguace della Legge, come Paolo dice di se stesso in Gal 1,14 e Fil 3,6. Un altro caso discusso riguarda la figura di Barabba, che alcuni hanno considerato uno zelota o un sicario: egli infatti viene definito in Gv 18,40 un “brigante”, termine comunemente usato dai romani, e anche da Flavio Giuseppe, per definire gli zeloti; Mc 15,7 connette Barabba con una sommossa nella quale era avvenuto un omicidio. Sugli zeloti si può consultare l’opera di M. HENGEL, Gli zeloti, Paideia, Brescia 1996 (l’originale tedesco è del 1976).

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libro di Gioele. Gioele, con toni drammatici, annunzia l’arrivo del “giorno del Signore”, giorno insieme di giudizio e di salvezza:

«Suonate la tromba in Sione date l’allarme sul mio santo monte!Tremino tutti gli abitanti della regioneperchè viene il giorno del Signore,perchè è vicino,giorno di tenebra e di caligine,giorno di nube e di oscurità. Come l’aurora, si spande sui monti un popolo grande e forte;come questo non ce n’è stato maie non ce ne sarà dopo,e per gli anni futuri di età in età» (Gl 2,1-2).

Ci troviamo dunque di fronte ad una viva attesa di un’ormai imminente venuta del Regno di Dio che cambierà e distruggerà questo mondo irrimediabilmente perduto. Ma l’idea generatrice del pensiero apocalittico va cercata piuttosto in un

grande testo che segnerà la storia del giudaismo del tempo, pur non entrando nel canone delle Scritture sacre, il Libro di Enoc, la cui lunga storia della composizione inizia forse già nel V secolo a.C., per concludersi alle soglie dell’era cristiana. Il Libro di Enoc è ricordato anche nel Nuovo Testamento, all’interno della

Lettera di Giuda (vv. 14-16). Nelle parti più antiche del Libro di Enoc (il cosiddetto Libro dei Vigilanti, capitoli 6-36) il problema di fondo è quello dell’origine male e la soluzione è che il male presente in questo mondo non dipende dalle trasgressioni umane, ma dal peccato di un gruppo di angeli, grazie al quale la corruzione è definitivamente entrata nella storia. La salvezza, pertanto, non potrà venire dall’osservanza della Legge, che nel pensiero enochico non ha più grande importanza, così come il culto celebrato nel Tempio di Gerusalemme, bensì da un atto divino che porterà alla distruzione del male, al giudizio finale delle anime, il tutto all’interno di una visione della storia interamente predeterminata da Dio. Nella Bibbia è probabile che già il libro del Qohelet e poco più tardi quello di

Ben Sira si confrontino negativamente con questo nuovo modo di pensare.Il Libro di Enoc inaugura un nuovo stile letterario, quello delle “apocalissi”,

che caratterizzerà molti altri testi almeno fino al II sec. d.C. Ricordiamo ad esempio l’Ascensione di Mosè, Enoc slavo, l’Apocalisse di Sofonia, l’Apocalisse siriaca di Baruc, il Quarto Libro di Esdra, l’Apocalisse greca di Baruc…, testi non accolti né dal canone ebraico né da quello cristiano, a parte Daniele, per la Bibbia ebraica, e, nella Bibbia cristiana, l’Apocalisse di Giovanni, due testi che tuttavia sono apocalittici più per il loro stile che per il contenuto. 82 Tutti questi testi sono esteriormente caratterizzati dall’uso della pseudoepigrafia, ovvero dall’attribuzione delle rivelazioni concernenti il mondo celeste a personaggi illustri del passato come Enoc, Baruc o Mosè, dall’uso massiccio di

82 La traduzione italiana di molti di questi testi si può trovare in Apocrifi dell’Antico Testamento (a c. di P. SACCHI), 1-5, Paideia, Brescia 1981-2000. Per una introduzione generale si può consultare P. SACCHI, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, Brescia 1990.

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un linguaggio allegorico, da una fortissima tensione escatologica. Questi testi si presentano inoltre come destinati a gruppi di eletti ai quali viene rivelato un “mistero” che solo il veggente è in grado di decifrare (cf. ad esempio Ap 10,7).83

L’apocalittica conosce il suo primo, importante sviluppo, a partire dal II° sec. a.C., in seguito alla persecuzione religiosa di Antioco IV. Questo evento viene interpretato come un elemento della crisi che precede la fine di questo mondo: l’apocalittica diventa così il tentativo di dare una risposta a questi momenti sconvolgenti della storia di Israele, una risposta che, visto il radicale pessimismo sul momento presente, non può che essere attesa per un futuro diverso. L’apocalittica è stata quindi a buon diritto definita una letteratura per un tempo di crisi. Può essere questo il caso del libro di Daniele, composto probabilmente proprio alla fine dell’epoca maccabaica, un testo nel quale, tuttavia, il pessimismo tipico del Libro di Enoc è assente, nonché la visione deterministica della storia. Il libro di Daniele offre comunque una visione della storia del tutto opposta al pragmatismo e al realismo politico dei Maccabei: nell’ideologia maccabaica la salvezza viene da Dio, attraverso però l’azione eroica degli Israeliti fedeli e mediante la forza delle loro armi; in Daniele, invece, si attende con fiducia l’intervento finale di Dio che non può tardare. Si vedano come esempi il celebre sogno della statua contenuto nel secondo capitolo e i calcoli accurati sulla cronologia relativa agli eventi futuri (Dan 7,25; 12,7), elementi, questi ultimi, tipici dell’apocalittica. A partire da questo periodo le opere di carattere apocalittico si moltiplicano

(v. sopra), dando vita a una corrente molto ricca e variegata. Tra le molte caratteristiche che questi testi hanno in comune, la più importante è quella di essere portatori di una certezza assoluta: la fine di questo mondo radicalmente corrotto e la nascita di un mondo nuovo. A lato di questa idea occorre ricordare la fede nell’immortalità dell’anima, la resurrezione dei morti, il giudizio di Dio e, in molti casi, la venuta del Messia, quello che già Daniele (cf. 7,13-14) definisce il “Figlio dell’uomo”. Il giudaismo ufficiale cercherà di sopprimere queste tendenze apocalittiche,

che invece entreranno, almeno in parte, nel cristianesimo: il libro dell’Apocalisse, che per molti aspetti si distacca dal pensiero enochico - manca ad esempio l’idea di una origine preterumana del male ed è assente la visione deterministica della storia - è la prova più evidente di questo influsso. L’apocalittica non è, come talvolta è stato detto, un movimento di pensiero

che incita gli uomini al disimpegno nei confronti della storia, lasciata al giudizio di Dio. L’attesa del Regno di Dio ha piuttosto costituito una spinta importante all’interno del cristianesimo, una tensione attiva verso il futuro che ha caratterizzato gran parte della storia dell’Occidente.

Gli esseni e la comunità di Qumran.

Due storici del I° sec. d.C., un giudeo, Flavio Giuseppe, e un romano, Plinio il Vecchio, insieme a un loro contemporaneo, il filosofo giudeo di Alessandria d’Egitto, Filone, ci hanno lasciato notizia dell’esistenza all’interno del

83 Cf. L. MAZZINGHI, «I misteri di Dio: dal libro della Sapienza all’Apocalisse», in Apokalypsis. Percorsi nell’Apocalisse in onore di Ugo Vanni, edd. E. BOSETTI – A. COLACRAI, Assisi 2005, 147-182.

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giudaismo di un altro gruppo religioso dalle caratteristiche molto particolari stimato da Flavio Giuseppe e Filone nell’ordine di circa 4.000 membri e chiamato “esseni”84. Tali autori ricordano lo stile di vita di questi esseni, caratterizzati dalla loro vita al di fuori della società, in villaggi isolati ove vivevano in comunità molto ben organizzate ma allo stesso tempo molto chiuse, legate da una ferrea disciplina interna e dalla usanza della comunione dei beni, tanto che si è parlato, benchè impropriamente, di un vero e proprio movimento “monastico” all’interno del giudaismo. Plinio il Vecchio, morto nel 79 d.C., ne sottolinea con forza l’ascetismo e la

forte esigenza morale, che costituiscono la prima evidente caratteristica di questo gruppo:

«E’ un popolo unico nel suo genere e ammirevole nel mondo intero, più di tutti gli altri: non ha donne, ha rinunziato interamente all’amore, è senza denaro, amico delle palme. Di giorno in giorno rinasce in ugual numero grazie alla folla dei nuovi venuti. Affluiscono infatti in gran numero coloro che, stanchi delle vicissitudini della fortuna, la vita indirizza all’adozione dei loro costumi». (Naturalis historia, V,71-73).

In particolare colpisce per il romano Plinio l’uso esseno del celibato, un uso che, anche se non così esclusivo, costituisce certamente una novità all’interno dello stesso giudaismo.85 Altra caratteristica della vita degli esseni è l’osservanza rigida e minuziosa

delle prescrizioni rituali di purità; la veste bianca, il pasto in comune secondo precise regole alimentari, il bagno rituale costituivano alcune delle pratiche più importanti. La vita stessa della comunità, condotta in perfetta adesione alla Legge, prendeva il posto dei sacrifici del Tempio. Ma una idea ben radicata del movimento essendo, che troverà spazio anche nel nascente cristianesimo, è la fiducia in un intervento futuro di Dio tramite la venuta di un Unto (o Messia; in alcuni casi di due Messia) che porterà la pace ai suoi eletti.

Da dove provengono gli esseni? Una nuova luce su questo movimento ci è venuta a partire dal 1947, anno che vide uno straordinario evento archeologico: la scoperta dei reperti e dei documenti di Khirbet Qumran, lo-calità sulla sponda nord-occidentale del Mar Morto. Il sito appare abitato a partire dal 140-130 a.C. circa, almeno fino al 68 d.C., con una interruzione di pochi anni in seguito a un terremoto. Qumran fu poi distrutta dalle legioni di Vespasiano, durante la prima rivolta giudaica. Nelle grotte circostanti, intorno

84 La parola è tuttora di etimologia incerta; il nome stesso è discusso: mentre Flavio Giuseppe parla di essènoi, Filone usa il termine essaioi. Una buona introduzione al movimento esseno e, allo stesso tempo, ai documenti scoperti a Qumran e al loro rapporto con l’essenismo si trova nell’innovativo studio di G. BOCCACCINI, Oltre l’ipotesi essenica. Lo scisma tra Qumran e il giudaismo enochico, Morcelliana, Brescia 2003. Cf. anche J.A. FITZMYER, Qumran. Le domande e le risposte essenziali sui Manoscritti del Mar Morto, GdT 30, Queriniana, Brescia 1994. Buone presentazioni di carattere divulgativo sono quelle di F. MÉBARKI - E. PUECH, I Manoscritti del Mar Morto, Jaca Book, Milano 2003 e ancora I manoscritti del Mar Morto. Ultime notizie, Il mondo della Bibbia, ElleDiCi, Leumann (TO) 5/2004. Sulla teologia della comunità qumranica segnaliamo G. IBBA, La teologia di Qumran, EDB, Bologna 2002.

85 Studi recenti hanno dimostrato l’esistenza di esseni coniugati.

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al wadi Qumran, sono state scoperti numerosissimi manoscritti, chiusi in anfore e nascosti forse per sottrarli all’invasione romana. Tra i moltissimi testi ivi ritrovati figurano prima di tutto le copie di testi biblici,

come l’importantissimo rotolo di Isaia.86 Questi manoscritti costituiscono i testi biblici tra i più antichi in nostro possesso che ci permettono di conoscere meglio il testo della Bibbia ebraica, sinora letto sulla base di manoscritti medievali. Vi sono inoltre commenti a vari libri della Bibbia ebraica, copie di testi giudaici non canonici (come il Libro dei Giubilei), raccolte di inni e preghiere e testi relativi alla vita interna ed all’organizzazione della comunità, tra i quali spicca la cosiddetta Regola della Comunità.87 La questione dell’origine degli esseni e della comunità di Qumran non è stata

ancora pienamente risolta, ma è forse sintetizzabile così: dal movimento enochico (v. sopra) si sviluppa ben presto un gruppo di giudei animato da un’opposizione sempre più radicale alla dinastia asmonea e al sacerdozio non sadocita da essa instaurato; in tal modo, il gruppo degli esseni risulta figlio diretto della tradizione teologica riflessa nelle parti più antiche del Libro di Enoc. L’opposizione al giudaismo del Tempio portò ben presto gli esseni ad atteggiamenti di separazione sempre più netta dal giudaismo ufficiale. Guidati da un “Maestro di giustizia” molti esseni decisero di ritirarsi nel deserto per dedicarsi a una vita di assoluto distacco e purità: nasce così, verosimilmente da una scissione interna allo stesso essenismo, la comunità di Qumran. I qumranici sono dunque da vedersi come una derivazione radicale del ben più vasto movimento essenico. Nei testi di Qumran il sommo sacerdote di Gerusalemme viene definito il “Sacerdote empio”, in contrapposizione al “Maestro di Giustizia”, il capo spirituale della comunità. Nel linguaggio dei testi qumranici, i membri della comunità si definiscono i “figli della luce” in lotta con i “figli delle tenebre”, una lotta che vedrà la sua conclusione solo nel futuro, ma di cui la comunità essena costituisce l’inizio. L’esigenza di separazione dal mondo, la forte disciplina e l’alta moralità vissuta dai qumranici si comprendono meglio in questa prospettiva tutta protesa all’avvento messianico del futuro regno di Dio. Spesso sono stati messi in relazione con gli esseni e con i membri della

comunità di Qumran l’attività di Giovanni il Battista e alcuni aspetti dell’opera di Gesù. E’ certo che esistono notevoli affinità verbali tra gli scritti di Qumran e diversi testi del Nuovo Testamento, in particolare gli scritti giovannei, mentre non è stata ancora sufficientemente provata l’esistenza di reali rapporti tra cristianesimo ed essenismo, nonostante la presenza di temi comuni. In particolare, l’entusiasmo seguito alla scoperta degli scritti di Qumran ha portato talora ad affrettate identificazioni tra l’opera di Gesù e il movimento qumranico. In ogni caso, lo studio di questi movimenti può portare a capire meglio lo sfondo sul quale si muovono Gesù e i primi cristiani: così ad esempio

86 Si tratta di un rotolo lungo ben 7,34 mt e alto 26 cm, conservato al Museo di Israele a Gerusalemme, insieme a molti altri dei manoscritti ritrovati.

87 L’edizione completa dei testi di Qumran è adesso disponibile in The Dead Sea Scrolls Study Edition a cura di F. GARCÍA MARTÍNEZ e E. TIGCHELAAR, Leiden, Brill, 1997-98, 2 volumi Leiden, Brill/Grand Rapids: Eerdmans, 2000 (include sostanzialmente tutti i testi extrabiblici di Qumran in lingua originale, con traduzione inglese a fronte). La traduzione italiana di questi testi si trova in Testi di Qumran, a c. di Florentino GARCÌA MARTÌNEZ, ed. it. a c. di C. MARTONE, Paideia, Brescia 1996. Per la Regola della comunità cf. P. SACCHI, Regola della comunità, Paideia, Brescia 2006.

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l’aspirazione escatologica e messianica, il desiderio di un nuovo tipo di religiosità, le esigenze morali che caratterizzano il più vasto movimento esseno sono elementi presenti anche nel cristianesimo. Inoltre alcuni aspetti del cristianesimo primitivo, come il celibato, la comunione dei beni, la vita comune, possono essere meglio compresi alla luce di analoghe usanze essene.88

c. La vita quotidiana ai tempi del Nuovo Testamento.

Al di là dei gruppi di cui si è appena parlato, resta la gran massa del popolo, che a tali gruppi non apparteneva. Non è possibile, in questa sede, descrivere nei dettagli lo stile di vita, le usanze, le caratteristiche della popolazione giudaica nel primo secolo d. C.; ci limiteremo qui a un quadro più che generale.89

La situazione socio-economica.

All’inizio della dominazione romana la popolazione giudaica viveva concentrata soprattutto in tre regioni: la Giudea, ove costituiva la maggioranza, la Galilea, dove i Giudei si trovavano a vivere accanto ai pagani, e la Perea, ovvero la regione transgiordanica. Mentre la popolazione di origine giudaica parlava l’aramaico, lingua affine all’ebraico che aveva soppiantato durante l’era persiana, la lingua più usata nel Mediterraneo Orientale restava il greco, i cui influssi si fanno sentire anche nella lingua parlata in Israele. Politicamente parlando, la perdita dell’indipendenza avvenuta dopo il 6 d.C.,

quando la Giudea diventa provincia romana, non ebbe grosse ripercussioni nella vita di tutti i giorni. I Romani, infatti, secondo una prassi consolidata, lasciarono alle autorità locali una autonomia relativamente ampia per tutte le questioni interne e rispettarono in genere le usanze locali, specialmente quelle religiose. La massima autorità restò dunque il sommo sacerdote, affiancato da quell’organo noto come Sinedrio, un consiglio composto da 71 membri, sacerdoti, notabili (gli “anziani del popolo” di cui parla il Nuovo Testamento), per lo più di tendenze sadducee, affiancati a loro volta dagli scribi, per lo più di provenienza farisaica. Il sinedrio era un’istituzione che serviva non solo da organo di governo, ma che rivestiva anche funzioni giuridiche. I sacerdoti del Tempio erano suddivisi in ventiquattro ordini o classi (cf. Lc 1,5.8) ed erano affiancati dai leviti, che esercitavano funzioni non direttamente sacerdotali, ma comunque connesse con il culto, come quelle di portinai o cantori. A parte la classe sacerdotale di Gerusalemme e alcuni grandi proprietari

terrieri, la massa del popolo versava in condizioni economiche piuttosto modeste: la maggior parte degli abitanti, spesso disprezzati dalle classi dirigenti come “il popolo della terra” (cf. Gv 7,49) era dedita all’agricoltura o all’allevamento, spesso come salariati, al piccolo artigianato, al commercio al

88 Cf. ad esempio H. STEGEMANN, Gli esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù, Dehoniane, Bologna 1995 e P. SACCHI, «Qumran e Gesù», in Qumran e le origini cristiane, Ricerche Storico Bibliche 9 (1997/2) 97-115.

89 La già più volte rivista Il mondo della Bibbia offre ottimi fascicoli dedicati a questi argomenti. Cf. P. SACCHI, Gesù e la sua gente, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003.

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dettaglio. Agricoltura e allevamento erano diffuse soprattutto al nord, ove si praticava anche la pesca, sul lago di Galilea, e nella valle del Giordano, mentre la Giudea, più arida, permetteva poco più che una semplice economia di so-pravvivenza. Molti mestieri erano considerati impuri, perché rendevano impossibile l’osservanza delle norme rituali, come il pastore, oppure erano ritenuti occasione di peccato, come per gli esattori delle tasse. Nel Nuovo Testamento tali barriere vengono abbattute: esattori delle tasse e peccatori entrano al seguito di Gesù; Pietro dimora tranquillamente da un conciatore di pelli, mestiere decisamente impuro (At 9,43). La barriera rituale tra puro e impuro è decisamente infranta da Gesù; l’impurità non nasce dall’esterno, ma dall’interno dell’uomo (Mc 7,1-23). Gerusalemme, centro religioso del giudaismo, specialmente dopo l’opera di

ricostruzione del Tempio intrapresa da Erode, godeva di una maggior prosperità, anche se la povertà, che spesso conduceva o all’accattonaggio o al brigantaggio, doveva essere molto diffusa, come anche le malattie, la lebbra in particolare, come risulta anche dal quadro presentatoci dal Nuovo Testamento. Una delle principali cause della povertà è la forte pressione fiscale che, a partire dalla dominazione romana, si farà sempre più dura. La riscossione delle imposte era data in appalto a privati, i cosiddetti “pubblicani”, i quali non di rado approfittavano della loro situazione per rubare ed opprimere ancora di più le classi più povere. Da qui l’ostilità che i giudei nutrivano per i pubblicani, che tuttavia appaiono tra coloro che seguono Gesù, come Matteo (Mt 9,9-13) e vengono paradossalmente additati come esempio di conversione (Lc 18,9-14).

La vita religiosa.

Da un punto di vista religioso il Tempio di Gerusalemme è divenuto, dopo i grandi lavori voluti da Erode, il centro di attrazione di ogni attività cultuale giudaica; il pellegrinaggio annuale dei giudei d’Israele e della diaspora a Gerusalemme è, in epoca romana, una tradizione ormai stabilita: si pensa che in occasione della Pasqua la popolazione di Gerusalemme, circa 25.000 abitanti in tempi normali, giungesse fino a triplicarsi. L’area del Tempio occupava buona parte della città (v. cartina n°8): il cortile esterno, detto anche “cortile dei pagani”, dove cioè anche i pagani potevano essere ammessi, era un luogo di mercato, come nei Vangeli si ricorda (Mt 21,13-13 e paralleli) ove si vendevano gli animali per i sacrifici e si cambiavano monete per le offerte e gli acquisti legati al culto. Nel centro del grande cortile si trovava lo spazio sacro propriamente riservato al culto, cui i pagani non potevano avere accesso: vi erano apposite iscrizioni - due delle quali giunte sino a noi - che ripetevano ai pagani, in latino e in greco, l’avviso di non oltrepassare il recinto sacro, pena la morte. Nell’area centrale del Tempio si trovavano in realtà due diversi cortili, uno

detto delle donne, l’altro degli israeliti, ove le donne non potevano entrare, il luogo in cui si trovava l’altare degli olocausti, sul quale si svolgevano i sacrifici quotidiani, una delle espressioni più importanti del culto giudaico. All’interno di quest’ultimo cortile si trovava il santuario, diviso a sua volta in due parti. Nella parte più esterna, rivolta verso est, erano collocati il candelabro a sette braccia, la tavola dei pani che ogni sabato venivano offerti al Signore e l’altare sul quale il sacerdote due volte al giorno compiva l’offerta dell’incenso (cf. Lc

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1,9). La stanza più interna, separata da una apposita cortina 90, era il Santo dei Santi, interamente vuoto, il luogo che, nel Tempio salomonico avrebbe contenuto l’Arca dell’Alleanza, nel quale poteva entrare una sola volta all’anno il Sommo Sacerdote, nel giorno del Kippur, la grande festa della Espiazione. Intorno al Tempio si svolgevano le principali feste del calendario giudaico:

prima di tutto la Pasqua (Pesach), che cadeva il 14 del mese di Nisan, corrispondente al nostro marzo-aprile, festa di famiglia, che iniziava però con l’immolazione dell’agnello fatta proprio nel cortile del Tempio. L’altra grande festa era quella di Shavu‘ot, o delle Settimane, festa della

mietitura che cadeva cinquanta giorni dopo la Pasqua, chiamata con nome greco la festa di Pentecoste cioè “cinquantesimo” (giorno), e che ricordava la rivelazione di Dio sul Sinai: la Pentecoste cristiana narrata da Luca in At 2 avviene proprio in occasione di questa festività. La festa più gioiosa era senz’altro quella di Sukkôt, o delle Capanne, celebrata

in settembre-ottobre, festa anch’essa di origine agricola, trasformata poi nel ricordo del soggiorno degli Israeliti nel deserto: in questa festa ci si radunava a Gerusalemme, vivendo per sette giorni in capanne di frasche, prescrizione già contenuta nella Bibbia (Lev 23,42-43), a ricordo del cammino dell’Esodo. Durante la festa si svolgevano al Tempio le cerimonie dell’acqua e della luce; è probabilmente proprio in questa occasione che avvengono i fatti narrati in Gv 7,1-10,21: in particolare Gv 7,37-39 può essere un riferimento al rito dell’acqua e Gv 10,12 a quello della luce. Altre due feste importanti, ma di origine più recente, celebrate verso l’inizio di

settembre, erano il Capodanno, la festa di Rosh-hashanah, ricordo della creazione del mondo e del giudizio finale, e poco più avanti il grande giorno del Kippur, la festa della Espiazione, giorno di digiuno e di preghiera (cf. Lev 16). Gesù partecipò anche alla festa della Hanukkah o della Dedicazione (Gv 10,22), durante il mese di dicembre, festa che ricordava la riconsacrazione del Tempio fatta da Giuda Maccabeo dopo la profanazione di Antioco IV (cf. 2Mac 10,1-8)91. E’ ben noto a tutti, infine, come alla base del calendario giudaico sta

l’osservanza del sabato, giorno di assoluto riposo e di preghiera, regolato da minuziosi precetti: contro il rischio di ridurre il sabato a un puro legalismo sono dirette le accuse di Gesù (cf. Mc 2,27), non tanto dunque contro il sabato in se stesso.

Fuori da Gerusalemme si diffondono sempre più le sinagoghe, che sono ormai divenute il cuore della vita giudaica nelle comunità della diaspora. Nelle sinagoghe si svolgeva la preghiera quotidiana, la lettura, l’insegnamento e lo studio della Scrittura. Cuore del servizio liturgico sinagogale e della vita religiosa di ogni pio giudeo era la lettura della Scrittura: si leggevano in genere due brani biblici, un passo della Tôrah, il Pentateuco, che nel corso dell’anno veniva letto con ordine e per intero, affiancato da un testo dei Profeti.

90 Si tratta probabilmente del “velo del Tempio” che secondo il racconto evangelico (Mc 15,38; Mt 27,51; Lc 23,45) si sarebbe squarciato in due alla morte di Cristo dopo la quale, secondo un’ interpretazione tradizionale della teologia degli evangelisti, non esiste più separazione rituale tra Dio e l’uomo.

91 Per approfondire l’argomento delle feste giudaiche ai tempi di Cristo si può leggere il libretto di J.J. PETUCHOWSKI, Le feste del Signore, EDB, Napoli 1987.

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Dal momento che l’ebraico non era più la lingua parlata, alla lettura del testo biblico venivano affiancate parafrasi aramaiche, i cosiddetti targumîm, plurale di targum, parola aramaica che significa appunto “traduzione”. Alcuni targumîm sono giunti sino a noi e ci permettono di conoscere il modo in cui la Bibbia era interpretata ai tempi di Cristo. Alla lettura della Scrittura si aggiungevano la preghiera personale e

soprattutto l’osservanza dei precetti relativi alla purità rituale, al comportamento morale, alle usanze alimentari che regolavano la vita quotidiana del fedele. Questa vita di preghiera e questi atteggiamenti religiosi spesso davvero profondi e sinceri permetteranno la sopravvivenza del giudaismo anche dopo le grandi catastrofi nazionali sopravvenute in seguito alla duplice rivolta antiromana.92

d. I successori di Erode e l’amministrazione romana (4 a.C. - 66 d.C.).

La Giudea sino al 41 d.C.

Alla morte di Erode scoppiarono gravi disordini tra il popolo che non voleva accettare un figlio di Erode come re: una delegazione giudaica si rivolse ad Augusto, chiedendo la sottomissione ai romani in cambio dell’autonomia interna, ma Augusto confermò sostanzialmente il testamento di Erode che divideva il regno tra i suoi figli superstiti. Archelao ebbe la Giudea, la Samria e l’Idumea, Filippo ricevette la regione a nord-est del lago di Tiberiade mentre il terzo figlio, Erode Antipa, divenne tetrarca della Galilea e della Perea (v. cartina n° 9).In seguito alla decisione di Augusto, Archelao potè assumere il potere in

Giudea, anche se non con il titolo di re, ma con quello, inferiore, di etnarca. Il suo carattere crudele e dispotico ricalcava quello del padre: «avendo saputo che era re della Giudea Archelao, al posto di suo padre Erode, (Giuseppe) ebbe paura di andarci» (Mt 2,22). Le lagnanze sul suo conto furono così gravi che Augusto fu costretto a richiamarlo a Roma e, nel 6 d.C., ad esiliarlo in Gallia. La Giudea diventa così parte della provincia romana di Siria, sotto l’amministrazione diretta di un governatore militare romano con il titolo di praefectus, talora chiamato anche procurator, con sede a Cesarea Marittima93. Al sommo sacerdote viene lasciato il potere religioso e un minimo di potere civile, ma i governatori romani non mancarono mai di far sentire tutto il peso dell’occupazione, preoccupati soprattutto dell’ordine pubblico e della riscossione dei tributi. A ciò si aggiungeva la grande incomprensione, da parte romana, degli usi religiosi e della mentalità giudaica, che considerava come un autentico sacrilegio ogni disposizione amministrativa anche la più semplice,

92 Per approfondire cf. C. DI SANTE, La preghiera di Israele, Marietti, Torino 1986.

93 Lc 2,2 ricorda un certo Quirinio governatore (“legato”) della Siria al quale il governatore romano di Cesarea doveva rivolgersi per le questioni più importanti. Sulpicio Quirinio rivestì effettivamente questa carica, anche se il censimento che ebbe luogo sotto di lui va collocato verso il 6 d.C., troppo tardi dunque per essere quello cui Luca si riferisce. Si è pensato che Luca si riferisca a un censimento precedente di cui non abbiamo notizia o che abbia voluto stabilire un sincronismo tra la nascita di Gesù e un censimento generale ordinato da Ottaviano.

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come un censimento, l’uso di monete con l’effige imperiale, i trionfi e le accoglienze tributate ai vari procuratori e soprattutto il culto dell’imperatore. Per tutti questi motivi, a partire dal 6 d.C., la Giudea si troverà in una situazione quasi costante di ribellione e di disordine, mentre il sentimento antiromano crescerà sempre più. Dei vari governatori romani succedutisi al governo della Giudea è ben noto ad

ogni lettore del Nuovo Testamento Ponzio Pilato (26-36 d.C.). Una lapide rinvenuta a Cesarea, ora conservata al museo di Israele a Gerusalemme, ne attesta l’esistenza e la carica; vi si legge infatti

[PO]NTIVS PILATVS [PRAEF]ECTVS IVDA[EA]E

cioè «Ponzio Pilato prefetto (ovvero governatore) della Giudea». Filone di Alessandria, suo contemporaneo, lo descrive come un personaggio violento, venale, autore di innumerevoli brutalità, di omicidi senza processo e crudeltà abominevoli. Del tutto insensibile alla sensibilità religiosa dei giudei provocò almeno in due occasioni dei veri e propri massacri, uno dei quali è ricordato in Lc 13,1. Duro e spietato, Ponzio Pilato non è certo il piccolo burocrate debole e spaventato, incline al compromesso, che il lettore dei Vangeli può avere in mente. La morte di uno sconosciuto Galileo, di nome Gesù di Nazareth, era per lui una questione di importanza molto relativa, forse solo una pedina da giocare nel quadro dei suoi rapporti con le autorità giudaiche. Si può allora comprendere meglio la polemica di Pilato con il sinedrio quale ci è presentata da Giovanni (Gv 19,19-22). La fine del mandato di Pilato fu ingloriosa: in seguito al suo atteggiamento egli fu richiamato a Roma e probabilmente deposto dalla sua carica, anche se su questo le fonti a nostra disposizione sono incerte. Su Ponzio Pilato è ben noto il passo di Tacito, il grande storico romano vissuto

a cavallo tra il I e il II sec.d.C. e relativo alla persecuzione di Nerone del 64 d.C., in seguito al famoso (e discusso) incendio di Roma:

«Nerone, per troncare quelle voci94 fece passare per colpevoli e sottopose a raffinatissimi tormenti coloro che il popolo chiamava Chrestiani e odiava per le loro azioni nefande. Cristo, il fondatore della setta, dalla quale avevano preso il nome, era stato giustiziato dal procuratore Ponzio Pilato sotto il regno di Tiberio. Ma la rovinosa superstizione, repressa per il momento, dilagava di nuovo, non solo per la Giudea, luogo d’origine di quel male, ma anche per Roma,dove confluiscono e trovano seguito tutte le atrocità e le vergogne del mondo» (Annales, XV,44).

Galilea e Transgiordania sotto i regni di Filippo ed Erode Antipa.

Il secondo figlio di Erode, Filippo (4 a.C.-34 d.C.), fu senz’altro il migliore dei suoi fratelli. Di tendenze apertamente filo-ellenistiche e filo-romane fu il primo governante giudeo a far incidere sulle sue monete l’effige dell’imperatore. Di carattere generoso e pacifico governò senza incidenti una poplazione

94 Che fosse lui, cioè, l’autore dell’incendio.

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composta di giudei e pagani. Filippo ricostruì due città: Betsaida, sulle sponde del lago di Galilea, che chiamò Julia, in onore della figlia di Augusto, e abbellì Panias, o Cesarea di Filippo, ai piedi del monte Hermon; entrambe sono ricor-date nei racconti evangelici: Betsaida è la patria di Pietro, Andrea e Filippo (Gv 1,44), mentre secondo Mt 16,13 si colloca nella regione di Cesarea l’episodio del primato di Pietro. Il terzo figlio di Erode, Erode Antipa (4 a.C.-39 d.C.) divenne, come si è detto,

tetrarca della Galilea, facendo costruire la sua splendida capitale sulle rive del lago, la città di Tiberiade, così chiamata in onore dell’imperatore Tiberio, del quale Erode Antipa si mostrò sempre fedele vassallo. Si tratta di quell’Erode - da non confondersi con il padre! - sotto la cui giurisdizione si trovava anche Nazareth e di cui dunque lo stesso Gesù era suddito. Egli ereditò il carattere del padre, indolente, amante del lusso ma, allo stesso tempo, violento e tiran-nico: in Lc 13,32 Gesù lo definisce appropriatamente “quella volpe”. Il testo di Lc 23,6-12 ce lo mostra in visita a Gerusalemme durante la Pasqua e afferma che non era in buoni rapporti con il procuratore romano, inimicizia di cui siamo al corrente anche da altre fonti. Nel Nuovo Testamento Erode è ricordato anche per aver sposato Erodiade, la moglie del suo fratellastro Erode Filippo (un altro dei figli di Erode il Grande); di questo fatto fu accusato da Giovanni il Battista, che Erode fece poi decapitare (cf. Mc 6,17-29), secondo Flavio Giuseppe nella fortezza di Macheronte. Spinto dalla moglie, Erode Antipa tentò, alla morte di Filippo, di assumere il controllo del suo territorio e prendere il titolo di re. Accusato presso l’imperatore finirà esiliato dall’imperatore Caligola in Gallia, nel 39 d. C. dove morirà poco tempo dopo.

La Giudea dal 41 al 66 d.C.

Dopo la morte di Filippo, l’imperatore Caligola nel 37 d.C. aveva nominato al suo posto un nipote di Erode il Grande, Erode Agrippa I, il quale, una volta esiliato Erode Antipa, divenne governante anche della Galilea e della Perea. Nel 41 d.C. l’imperatore Claudio gli assegnerà anche la Giudea, la Samaria e l’Idumea, così da ricostituire il regno di Erode il Grande. Sarà questa l’ultima volta - se si eccettuano le due ribellioni che seguiranno - che Israele si troverà riunito e indipendente. L’inizio del suo regno fu turbato da un momento di grave crisi: l’imperatore

Caligola impose agli ebrei di costruirgli una statua nel Tempio di Gerusalemme tributandogli onori divini. Nonostante la mediazione di Agrippa si era ormai sull’orlo di una rivolta o di una dura repressione da parte imperiale, che non ebbe luogo solo per l’improvviso assassinio di Caligola, avvenuto nel 41 d.C. da parte della guardia pretoriana. I contemporanei parlano di Agrippa come di un uomo di carattere mite e pacifico, vicino ai farisei e amico del giudaismo. E’ tuttavia difficile affermare quanta parte di sincerità ci fosse in questo suo atteggiamento: una iscrizione greca ce lo mostra come “re grande, amico di Cesare, pio, amico dei romani”. Egli non faceva un mistero della sua cultura e delle sue simpatie filoellenistiche: in questo caso sarebbe stato un degno parente di Erode. Nel Nuovo Testamento è ricordato come l’Erode che fece uccidere, nel 44 d.C., l’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, e imprigionare Pietro (At 12,1-11). La sua morte, avvenuta improvvisamente a Cesarea nel 44 d.C., è ricordata in chiave teologica nel testo di At 12,19-23.

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Alla morte di Erode Agrippa I la Giudea tornò ad essere provincia romana: l’ex-territorio di Filippo venne concesso al figlio Erode Agrippa II (ricordato in At 25,13-26,32 insieme alla sorella Berenice). La serie dei procuratori romani che si succedettero al governo della Giudea fu, se possibile, ancora peggiore di quelli che li avevano preceduti. La loro opera di repressione e la loro rapacità scavarono un solco sempre più grande con la popolazione, che vedeva ormai la dominazione romana come un’oppressione intollerabile. Tutti gli incidenti e le rivolte scoppiate in questi anni hanno per lo più matrici religiose: le insurrezioni ricordate in At 5,36-37 nel discorso di Rabbi Gamaliel, benché di datazione molto incerta, si possono inquadrare in questo contesto storico. Dei vari procuratori ricordiamo soltanto Marco Antonio Felice (52-60 d.C.), sotto il quale avvenne il primo processo di Paolo (At 24,24-26): lo storico romano Tacito dice di lui che “con ogni crudeltà e avidità esercitò del diritto regale con la mentalità di uno schiavo” e che “credeva di poter commettere impunenemente ogni scelleratezza”95. Successore di Felice fu Porcio Festo (60-62 d.C.) sotto il cui governo Paolo fu

inviato prigioniero a Roma (At 24,27-32). Sia sotto il governo di Felice che sotto quello di Festo almeno due personaggi - uno dei quali deve essere quell’egiziano ricordato in At 21,38 - guidarono violente rivolte antiromane, autoproclamandosi inviati da Dio per la liberazione di Israele.

e. La prima rivolta giudaica (66-74).

Il comportamento del procuratore romano Gessio Floro (64-66 d.C.) fu la goccia che fece traboccare il vaso. Egli si comportò in maniera estremamente dura e provocatoria, osando attingere denaro al tesoro del Tempio e costringendo la popolazione di Gerusalemme ad accogliere con solennità le sue truppe, abbandonando poi la città al saccheggio. In seguito a queste continue provocazioni, nel maggio del 66 d.C., una delle tante sommosse popolari si trasformò ben presto in una vera guerra di liberazione contro i romani, nonostante il tentativo di mediazione del re Agrippa, recatosi personalmente a Gerusalemme per tentare di placare gli animi. Ma il partito zelota riuscì ad avere ben presto ragione dell’ala pacifista, rappresentata soprattutto dai farisei, che vedevano l’inutilità di un tale tentativo, e dai sacerdoti timorosi forse di perdere i propri privilegi. Il sommo sacerdote Anania, considerato troppo moderato, fu però ucciso e il popolo dette l’assalto alla piccola guarnigione romana, una sola coorte, che Gessio Floro aveva lasciato trincerata nel palazzo di Erode, massacrandola fino all’ultimo uomo dopo che i soldati si erano arresi con la promessa di aver salva la vita. I romani, colti di sopresa dal divampare improvviso della rivolta subirono dure

sconfitte e ben presto quasi tutta la regione fu in mano dei rivoltosi, che tuttavia, a causa delle loro divisioni interne, non riuscirono a sfruttare adeguatamente i successi iniziali. Iniziarono comunque i preparativi alla guerra, messo definitivamente a tacere il partito pacifista, che certemente proclamava l’assurdità di una guerra contro Roma. Forse in questo periodo la prima comunità cristiana di Gerusalemme, già provata da scontri con le

95 «Per omnem saevitiam ac libidinem ius regium servili ingenio exercuit»; «cuncta malefacta sibi impune ratus…»; Tacito, Historiae 5,9; Annales 12,54.

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autorità giudaiche, abbandona la città, per rifugiarsi probabilmente nella Transgiordania, a Pella, secondo alcune fonti cristiane. Appena l’anno dopo, le legioni romane poterono passare al contrattacco,

sbarcando a Tolemaide con circa 60.000 uomini al comando del legato imperiale Vespasiano; la Galilea fu rapidamente sottomessa. Alla morte di Nerone le operazioni militari furono temporaneamente sospese, il che diede agli insorti una falsa speranza. Nel 69 le legioni orientali acclamarono Vespasiano come imperatore, il quale affidò al figlio Tito il comando dell’esercito. La campagna condotta prima da Vespasiano e poi da Tito, a causa dello

strapotere militare romano, ebbe successo nonostante l’accanita resistenza giudaica. Così, nella primavera del 70 d.C. Tito poteva iniziare l’assedio di Gerusalemme. La città era colma di pellegrini arrivati per celebrare la Pasqua, che rimasero là intrappolati, tanto che ben presto la città fu ridotta alla fame. Flavio Giuseppe è testimone di una serie di atrocità avvenute durante l’assedio, dall’una e dall’altra parte mentre all’interno della città assediata continuavano assurdamente le lotte tra le varie fazioni giudaiche. Durante il mese di luglio, le truppe romane riuscirono a penetrare la triplice cerchia di mura che circondava la città e finalmente a spezzare l’ultima resistenza concentrata attorno al Tempio, che fu interamente distrutto e che non sarà mai più ricostruito. La città fu incendiata e saccheggiata; gli abitanti in parte furono massacrati, in parte venduti come schiavi. I due capi della rivolta, Giovanni di Ghiscala e Simone Bar-Ghiora furono l’uno imprigionato, l’altro usato per il trionfo di Tito e poi giustiziato. A testimonianza del terribile assedio resta, nel Foro di Roma, l’arco di Tito, che celebra il trionfo del futuro imperatore, seguito dagli oggetti sacri presi nel Tempio di Gerusalemme. Le monete romane dell’epoca portano l’iscrizione IVDAEA CAPTA, “(essendo stata) catturata la Giudea”. Anche il testo evangelico ricorda questo evento, visto, in prospettiva cristiana, come l’inizio di una nuova era per la Chiesa, ormai lontana dalla città dove era nata:

«Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina. Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tornino in città; saranno infatti giorni di vendetta, perchè tutto ciò che è stato scritto si compia (...). Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finchè i tempi dei pagani siano compiuti» (Lc 21,20-24).

L’assedio di Gerusalemme non spezzò del tutto la resistenza giudaica: solo nel 74 d.C. cadrà l’ultimo baluardo, la fortezza di Massada, dopo più di due anni e mezzo di assedio: qui più di 900 sicari, rifugiatisi con le loro famiglie in questa fortezza apparentemente imprendibile, preferirono darsi la morte piuttosto che cadere vivi in mano dei romani. Ancora oggi è possibile osservare dall’alto delle rovine della fortezza le tracce degli accampamenti romani e la gigantesca rampa d’assedio da loro costruita per arrivare alla sommità della montagna. Come risultato della rivolta, metà della popolazione giudaica in Palestina

risulta sterminata (sia Tacito che Flavio Giuseppe riportano la cifra enorme di 600.000 morti); una autorità giudaica non esisteva più e la situazione

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economica è disperata. Solo la Legge rimane l’unico punto di riferimento per i Giudei, che hanno perduto anche il Tempio; sarà proprio la fede e l’osservanza della Legge uno degli elementi più importanti per la sopravvivenza del giudaismo.

f. Dalla caduta di Gerusalemme alla seconda rivolta giudaica (132-135).

Il quadro politico della Palestina, al termine della rivolta, è molto chiaro: tutta la regione è sotto stretto controllo militare romano e, come segno dell’autorità imperiale, l’imposta che ogni Israelita pagava annualmente per il Tempio viene riscossa come contributo per il Tempio di Giove Capitolino, a Roma, un vero insulto per ogni pio giudeo. I Romani non vollero tuttavia distruggere il giudaismo limitandosi alle misure

necessarie alla soppressione di ogni tentativo di rivolta. La fede giudaica, anche nel resto dell’impero, fu lasciata sussistere come religio licita, religione lecita, nella speranza che potesse servire da elemento di aggregazione e pacificazione almeno per le parti più moderate del popolo. In questi anni i farisei ne divengono le guide spirituali e la vita religiosa dei Giudei, una volta distrutto il Tempio ed eliminata la possibilità di offrire sacrifici, viene intera-mente centrata sullo studio e l’osservanza della Tôrah. Nella città di Iabne (o Iamnia) sulle sponde del Mediterraneo un gruppo di saggi riunito attorno a Yohanan ben Zakkai proverà a definire, con successo, la nuova identità di un giudaismo senza Tempio. L’ostilità dei Giudei contro i romani continuò fuori dalla Palestina, nelle

comunità della diaspora. Siamo a conoscenza di rivolte degli ebrei di Cirene, di Alessandria d’Egitto, di Cipro, avvenute durante il regno di Traiano (98-117), rivolte presto domate con estrema durezza e legate talora a movimenti e persecuzioni antigiudaiche. L’occasione di una nuova ribellione giunse infine anche in Giudea;

probabilmente del 130 d.C. è la decisione dell’imperatore Adriano (117-138) di trasformare Gerusalemme in una città romana, costruendovi un tempio dedicato a Giove Capitolino. Capo carismatico di questa nuova rivolta, che come intensità non ha niente da invidiare alla prima, fu un certo Simone, che Rabbi Aqiba, uno dei maestri più prestigiosi di Israele, soprannominò Bar Kokhba, in aramaico “Figlio della stella”, in riferimento al testo di Nm 24,17 (“Una stella si leva da Giacobbe….”); si tratta di un personaggio che molti considerarono realmente come il Messia. Sono giunti sino a noi frammenti di lettere scritte da Simone e monete con la sua effige e l’iscrizione “anno della liberazione di Gerusalemme” oppure “anno I della liberazione di Gerusalemme”. Come nel caso della prima rivolta, i Romani furono colti di sorpresa e ciò

garantì notevoli successi iniziali. La rivolta si estese ben presto a tutta la Palestina e fu da una gran parte dei Giudei considerata l’inizio di una nuova era. Anche in questo caso però, la repressione romana fu immediata e durissima. Adriano stesso sembra aver guidato le sue truppe nella riconquista della Palestina, che fu completata, dopo ulteriori massacri, nel 135 d.C., tre anni e mezzo dopo l’inizio della rivolta. Nel frattempo Simone Bar Kohkba fu abbandonato dai rabbini che inizialmente lo avevano sostenuto e il suo nome mutato in Bar Koziba, cioè il “Figlio della menzogna”. Lo stesso Rabbi Aqiba,

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pur avendo sconfessato Simone, fu catturato, torturato e ucciso dai Romani, morendo, come narra la leggenda, pronunciando sino all’ultimo respirto l’ultima parola dello Shema‘ (Dt 6,4), la parola ’ehad in ebraico ‘Uno’, diventando così un simbolo dell’israelita che proclama, nonostante tutto, la sua fede nell’unicità di Dio. La repressione romana fu ancor più terribile della precedente: si parla questa

volta, forse con una certa esagerazione, di ben 850.000 morti, senza contare coloro che furono ridotti in schiavitù. Gerusalemme fu trasformata in colonia romana, con il nome di Aelia Capitolina e l’accesso dei Giudei alla città fu proibito. Solo nel IV secolo l’imperatore Costantino concederà ai Giudei di recarsi a Gerusalemme una sola volta all’anno, il 9 del mese di Ab (luglio-agosto) giorno in cui si commemora ancor oggi la rovina della città, giorno in cui si piange sulle rovine del Tempio, in quel luogo che oggi è noto come il Muro Occidentale, impropriamente chiamato dai cristiani “muro del pianto”. La Giudea mutò nome e fu chiamata Palestina e quei pochi ebrei rimasti si trovarono questa volta stranieri nella loro patria. Da allora il giudaismo conti-nuerà a svilupparsi soprattutto nella diaspora, in particolare a Babilonia. Il giudaismo tuttavia sopravviverà anche a questa ulteriore catastrofe,

separandosi ancor più dal mondo greco-romano e stringendosi intorno alla Legge ed alla fede in YHWH.

Parallelamente a tutti questi eventi scorre la storia delle prime comunità cristiane: già la prima rivolta giudaica segnò l’inizio di una separazione anche geografica, benché comunità di giudeo-cristiani continueranno ad esistere ancora per qualche tempo. A partire dal 46 d.C. i viaggi di Paolo inizieranno a portare il cristianesimo fuori dai confini di Israele; nel 48 d.C. si colloca quel “concilio di Gerusalemme” ricordato in At 15, dopo il quale la Chiesa si apre definitivamente alla missione verso il mondo pagano. Negli anni della seconda rivolta giudaica il cristianesimo è ormai in continua

espansione: questo però è l’inizio di un altro capitolo e di un’altra storia.

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