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Angelo Attardo Francesco Versace Francesca Zanetti Università Cattolica del Sacro Cuore Facoltà di Scienze politiche Corso di laurea in Scienze politiche e delle relazioni internazionali anno accademico 2003-2004 Le origini e l’evoluzione del conflitto arabo- israeliano Ricerca svolta nell’ambito del Corso di Storia contemporanea tenuto dal prof. Paolo Colombo

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Angelo Attardo Francesco Versace Francesca Zanetti

Università Cattolica del Sacro Cuore

Facoltà di Scienze politiche Corso di laurea in Scienze politiche e delle relazioni internazionali

anno accademico 2003-2004

Le origini e l’evoluzione del conflitto arabo-israeliano

Ricerca svolta nell’ambito del Corso di Storia contemporanea tenuto dal prof. Paolo

Colombo

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INDICE 1. L’ascesa del sionismo e la nascita del nazionalismo arabo-palestinese p. 1 2. Dalla spartizione al 1967: i primi vent’anni di vita dello Stato d’Israele p. 11 3. Dalla Guerra dei Sei giorni alla Guerra del Kippur p. 21 4. Dal 1979 ai giorni nostri: il difficile processo di pace p. 32 Riferimenti bibliografici p. 46

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1. L’ ascesa del sionismo e la nascita del nazionalismo arabo-palestinese

“... ci sarà un re sopra di noi, e anche noi saremo come tutte le nazioni” (I Sam 8,20)

“[I palestinesi] guardano la Palestina con lo stesso istintivo amore e la stessa sincera dedizione con cui ogni azteco guardava il Messico e ogni sioux la prateria. Per i palestinesi la Palestina sarà sempre non una qualunque regione di confine, ma la terra dove sono nati, fulcro e fondamento della loro esistenza nazionale.”

(Zeev Jabotinsky, fondatore dell’ala destra “revisionista” del sionismo, 1923)

Le radici del sionismo

“Il sionismo - il movimento mirante a riportare gli ebrei in Erez Yisrael (la Palestina in ebraico) e a conferire loro la sovranità sul paese – affondava le radici in antichi aneliti millenaristici della tradizione religiosa ebraica, nonché nella fioritura di ideologie nazionaliste tipica dell’ Europa dell’ Ottocento. Il suo emergere come forza politica di massa fu d’altra parte innescato dalle esplosioni di antisemitismo che in queste ideologie trovarono un terreno fertile. Il medio e tardo XIX secolo videro la rapida secolarizzazione del millenarismo sionista in una popolazione ebraica anch’essa sempre più secolarizzata. Il ritorno a Sion era inteso come un atto sociale e politico che avrebbe messo fine all’innaturale condizione di minoranza oppressa degli ebrei della Diaspora. (...) Nessuna comprensione del comportamento degli israeliti in Palestina, o del conflitto arabo-sionista, potrà mai prescindere dalle radici messianiche, ma anche dal retroterra e dalle energie tipicamente europee, dai quali il sionismo prese le mosse.”1

E’ così che Benny Morris, uno dei più autorevoli studiosi della storia del conflitto arabo-israeliano, delinea i tratti principali del movimento sionista e, in particolare, del sionismo politico; idea, quest’ ultima che, a partire dalla seconda metà dell’ Ottocento iniziò a fiorire in Europa e fu coltivata con dedizione dai propri sostenitori, fino a diventare a cavallo tra XIX e XX secolo una sorta di “scelta obbligata” per la maggioranza degli ebrei d’ Europa. Come si può evincere dal passo di Morris sopra citato, il sionismo si compone di due elementi fondamentali. Il primo, sostanzialmente idealistico, ha il suo fondamento nella visione del ritorno alla terra dei padri e si lega, nella mentalità ebraica, a un tema cosmico-messianico di redenzione e salvezza collettive. Il secondo consiste nella chiara presa di coscienza di una situazione politico-culturale che verso la fine dell’ Ottocento gravava sempre di più sulle esistenze di gran parte degli ebrei residenti in Europa. La posizione degli ebrei nel vecchio continente (che per lungo tempo furono accusati, fra le altre cose, di aver assassinato Cristo) era sembrata in miglioramento dopo che la Rivoluzione francese aveva diffuso nuove idee di tolleranza, ma, citando le parole di Thomas

1 Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, Bur, 2003, pp.25-26

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Fraser, “nell’Europa di fine Ottocento stavano sorgendo nuove dottrine antisemite e nazionaliste che avrebbero contraddetto quelle speranze e condotto alla tragedia più terribile della storia ebraica”.2 Intorno alla metà del XIX secolo la maggioranza degli ebrei viveva nella Russia europea, in una fascia di terra chiamata “Regione degli insediamenti” che si estendeva dal Mar Baltico alla Crimea, sul Mar Nero. La vita di questa fetta di popolazione ebraica era segnata da frequenti discriminazioni ed episodi di violenza e, soprattutto, da una sostanziale restrizione delle libertà fondamentali. In questo clima iniziò a formarsi l’ idea del sionismo-politico, avvallata da rabbi Yehuda Alkalai (1798-1878), rabbi Zvi Hirsch Kalischer (1795-1874) e Moshes Hess (1812-1875). I tre fondatori-profeti vedevano il ritorno alla Terra d’Israele come una tappa necessaria del riscatto del popolo ebraico. Hess, in particolare, sosteneva che l’antisemitismo moderno avrebbe precluso agli ebrei la piena integrazione all’interno delle società cristiane europee, e che uno stato ebraico nel Medio Oriente avrebbe contemporaneamente favorito gli interessi imperiali europei e la diffusione della civiltà occidentale nel Levante. Il movimento aveva ancora carattere e diffusione elitari, ma nel giro di tredici anni, due avvenimenti decisivi avrebbero sconvolto l’Europa e fatto del sionismo un’ ideologia di massa: i pogrom avvenuti nell’ Impero Russo tra 1881 e 1882 e lo scandalo scoppiato in Francia nel 1894, noto come l’”affaire Dreyfus”. Il 13 marzo 1881 un manipolo di giovani rivoluzionari russi assassinò lo zar Alessandro II. Gli antisemiti diffusero la voce che gli assassini fossero ebrei (in realtà solo uno di loro lo era), la notizia si sparse in fretta e una serie di pogrom (tumulti popolari culminanti con razzie e violenze nei confronti delle minoranze ebraiche) sconvolse l’Impero russo, colpendo duramente la maggioranza della popolazione ebraica, specialmente a Odessa, in Ucraina. In seguito, nel 1903, la polizia zarista, al fine di fomentare l’odio antisemita, pubblicò un documento falso, I protocolli dei savi anziani di Sion, in cui si delineava un complotto mondiale ebraico. Gli anni successivi ai pogrom furono caratterizzati da ulteriori violenze e saccheggi, e sia quegli ebrei russi che avevano sperato in una progressiva emancipazione e nell’assimilazione al resto della popolazione, sia quelli che invece si erano avvicinati ai movimenti rivoluzionari, pensando che la vera emancipazione sarebbe coincisa con la caduta dell’ultimo baluardo dell’ancien regime, furono costretti a ricredersi. La nuova via sembrava ora essere quella dell’autoemancipazione, della ricerca di un “focolare nazionale”; manifesto di questa nuova impostazione fu il trattato di Leo Pinsker (1821-1891), medico ed ebreo russo, intitolato Autoemancipazione: un avvertimento alla sua gente da parte di un ebreo russo. Il volume (uscito anonimo in Germania nel 1882) conteneva sostanzialmente un incitamento all’emigrazione di massa verso una “Terra Promessa”, vista come l’unica soluzione a una condizione che altrimenti sarebbe stata di isolamento e alienazione eterni. Scrive Pinsker rivolgendosi agli altri ebrei russi: “Potete dimostrare il vostro patriottismo mille volte... un bel mattino scoprirete di essere considerati stranieri, e una folla inferocita vi ricorderà che alla fine non siete altro che dei vagabondi e dei parassiti, ai quali la legge non estende la vostra protezione.(...) ospiti ovunque, padroni di casa in nessun luogo.” Secondo Pinsker l’antisemitismo in Europa sarebbe sempre esistito, dato che la stessa situazione degli ebrei europei era anormale: senza una patria, essi erano in un certo modo simili a persone “prive d’ombra”. L’unica via d’uscita era la salvezza collettiva, ovvero la riunione in una patria, l’ autoemancipazione. Ma quale sarebbe stata la nuova patria? Pinsker non pensava ancora alla Palestina (che anzi sembrava considerare inadatta alla colonizzazione) bensì ad alcuni territori nel Nord America. La reazione degli ebrei russi alla violenza dei pogrom assunse le forme di una migrazione collettiva, ma questa non fu certo organizzata secondo la prospettiva auspicata da Pinsker; vivere in Russia non era più possibile, ma il movimento migratorio si indirizzò in primo luogo verso il Nuovo Continente e l’iniziativa rimase di carattere prevalentemente individuale. Entro il 1914 il numero degli emigranti verso gli Stati Uniti raggiunse i due milioni e mezzo, mentre altri presero la via del Sud America, del Canada, dell’Australia e delle città dell’Europa centro-occidentale. Un’ampia maggioranza degli ebrei russi decise quindi di trasferirsi in altri paesi, ma la dottrina di Pinsker non fu dimenticata. Nelle città della “Regione degli insediamenti” venne alla luce in quegli anni il movimento degli Chovevei Zion (Coloro che amano Sion), che collegava una serie di società clandestine finalizzate all’organizzazione della emigrazione dei propri membri in Palestina. Di fatto solo in pochi aderirono a tali associazioni, e fu scarso il numero di coloro che partirono per la Palestina.

2 Thomas Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Bologna, Il Mulino, 2002, p.11

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Nel 1887 le società dello Chovevei Zion si confederarono in un ulteriore movimento, lo Chibbat Zion (Amore per Sion), i cui aderenti considerarono da subito l’ Autoemancipazione e Pinsker il proprio manifesto ideologico e il capo indiscusso. I fondi forniti al neonato movimento dalle stesse famiglie ebree furono tuttavia scarsi, addirittura inferiori rispetto a quelli garantiti da alcune iniziative individuali, come quella del magnate francese de Rotschild. Indiscutibile fu però il valore culturale di queste organizzazioni il cui effetto principale consistette nel porre le basi del sionismo politico di massa. Una delle associazioni di Chibbat Zion, fondata da studenti di San Pietroburgo, proclamava: “qualunque figlio d’Israele che riconosca non esserci salvezza per Israele, a meno che esso crei un suo governo nella Terra d’Israele, può essere accettato nell’associazione”. Questa ed altre associazioni riuscirono ad insediare a Sion, nella cosiddetta prima ‘aliyah (“salita” o ondata di migrazione in Palestina) circa trentamila persone, molte delle quali alla fine tornarono in Russia o proseguirono verso occidente. Negli anni novanta dell’ Ottocento tuttavia le molte associazioni di Chibbat Zion erano in declino. La maggior parte finì con l’aderire all’ Organizzazione sionista fondata dal primo fautore del sionismo politico, l’ungherese Theodor Herzl (1860-1904). Theodor Herzl e il sionismo politico

Eli Barnavi, storico e politologo israeliano, scrive, a proposito dei risultati ottenuti dallo Chibbat Zion: “Il movimento, tuttavia, ristagna. E’ vero che ci sono quattordicimila membri sparpagliati in un centinaio di società, con un fondo di cassa di circa cinquantamila rubli all’anno; ma frizioni intestine minano il movimento dall’interno, e ciò mentre l’ostruzionismo turco intralcia sensibilmente l’immigrazione. Il sionismo ha bisogno di un nuovo slancio per riprendersi. Sarà Theodor Herzl a darglielo”.3

Le origini del sionismo politico vanno quindi cercate in eventi che accaddero a Parigi e a Vienna. Quest’ultima era, alla fine dell’Ottocento, la città europea più vivace dal punto di vista culturale. Nulla faceva presagire che Herzl avrebbe, di lì a qualche anno, fondato il sionismo politico. Era uno degli esponenti di rilievo della vita giornalistica della capitale austriaca e sembrava identificarsi pienamente con la cultura austro-tedesca della città; era un intellettuale laico e cosmopolita, conosceva alla perfezione il tedesco e il francese e ignorava l’ebraico, l’yiddish e il russo. La conversione di Herzl al sionismo fu catalizzata dall’”affaire Dreyfus”; Dreyfus era un ufficiale ebreo dell’esercito francese, accusato (a torto) di aver rivelato segreti militari alla Germania. In seguito ad un processo iniquo, a cui Herzl assistette, e nonostante la ferma opposizione alla condanna esercitata da molti intellettuali francesi, tra cui lo scrittore Emile Zola, Dreyfus fu degradato e condannato ai lavori forzati a vita nell’Isola del Diavolo. La sentenza sollevò in Francia, patria dei diritti individuali, una violenta ondata di antisemitismo. Pochi mesi dopo, nel 1895, fu eletto sindaco di Vienna Karl Lueger, sulla base di un programma apertamente antisemita. Da quel momento la necessità di risolvere la questione ebraica diventò per Herzl una sorta di ossessione. Il suo punto di vista è riassunto in un pamphlet profetico-programmatico intitolato Der Judenstaat (“Lo Stato ebraico”) pubblicato nel 1896 col sottotitolo Un moderno tentativo di soluzione della questione ebraica. In un passo del già citato Vittime Benny Morris riassume efficacemente le tesi di Herzl: “Se la Francia – la patria dell’emancipazione, del progresso e del socialismo universalista – poteva essere investita dalla bufera antisemita, e Parigi essere percorsa da folle che urlavano “A mort les Juifs”, dove avrebbero mai potuto sentirsi sicuri gli ebrei, se non in un paese che appartenesse a loro? L’assimilazione non avrebbe risolto il problema perché i gentili non l’avrebbero permessa, come l’affare Dreyfus aveva chiaramente dimostrato. Esso rappresentò uno spartiacque per molti ebrei dell’Europa occidentale, come i pogrom del 1881-82 lo erano stati per gli ebrei dell’Europa orientale. Herzl considerava inevitabile il trionfo del sionismo, non solo perché la vita nel Vecchio continente stava diventando impossibile per molti israeliti, ma anche perché liberarsi di questi ultimi, e con loro dell’antisemitismo, faceva comodo agli stessi europei: alla fine il potere politico europeo si sarebbe lasciato persuadere ad appoggiare il sionismo. In breve Herzl si convinse che lo stesso antisemitismo poteva essere messo al servizio del suo progetto.”4

3 Eli Barnavi, Storia d’Israele. Dalla nascita dello stato all’assassinio di Rabin, Milano, Bompiani, 2002, p.17 4 Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, Bur, 2003, p.34

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Un’altra convinzione di Herzl era che il ritorno in Palestina avrebbe fatto nascere un “nuovo ebreo” di nuovo in possesso di quell’onore e quel rispetto che l’Europa gli aveva spesso negato. Nasceva così il mito dell’ “ebraismo muscoloso” citando un’ espressione di Max Nordau, futuro vice di Herzl al vertice del movimento sionista. Per quanto riguardava la sorte della popolazione palestinese indigena di etnia araba, Herzl non ne parlò mai in pubblico, ma era consapevole della sua esistenza e del problema che essa rappresentava per il suo progetto. Ufficialmente egli sosteneva la possibilità di creare un commonwealth ebraico-palestinese, in cui entrambi i popoli avrebbero goduto di pari diritti; in privato riteneva che alla fine molti arabi avrebbero dovuto andarsene, sia pure venendo pienamente risarciti. Uno dei primi problemi da risolvere per l’attuazione del progetto fu quello del reperimento delle risorse necessarie. Inizialmente fu difficile trovare finanziatori: gli stessi Rotschild diffidavano delle autorità ottomane, gli esponenti dei Chovevei Zion nutrivano dubbi sull’aggressiva strategia del nuovo arrivato, il quale, fra l’altro, li teneva in scarsa considerazione, e i capi delle comunità britanniche e francesi temevano che, rendendo pubbliche le aspirazioni nazionaliste degli israeliti, Herzl avrebbe minato il prestigio delle loro comunità. I membri di Chibbat Zion si convinsero tuttavia dell’inesistenza di alternative preferibili e decisero di partecipare al primo Congresso sionista, svoltosi a Basilea il 29 agosto 1897. Accese discussioni, convulsi dibattiti e alcune polemiche caratterizzarono i lavori del Congresso, che alla fine sancì che la “casa” ebraica in Palestina era stata scelta quale obiettivo del sionismo. Subito dopo la fine del Congresso Herzl annotò nel suo diario una frase quasi profetica: “Se dovessi riassumere in una frase il Congresso di Basilea...direi: a Basilea ho fondato lo Stato ebraico...Forse entro cinque anni, senza dubbio entro cinquanta, questo fatto sarà evidente a chiunque”. Poco più di cinquant’anni e la previsione di Herzl si sarebbe avverata. Herzl era convinto che la nascita di un’entità statale ebraica sarebbe stata possibile solo se supportata da un’alleanza con altre potenze europee (Turchia e Germania in primo luogo) e da una “Carta” con cui quelle potenze avrebbero “dato in uso” la Palestina agli ebrei. “Bisognava innanzitutto persuadere Costantinopoli che un’entità statale ebraica sarebbe stata utile anche a lei”, spiega Morris; che “il popolo ebreo diligente e con grandi risorse finanziarie sarebbe stato fonte di enorme benessere per l’impero”.5 Ma in Turchia Herzl incontrò solo ostilità e il Kaiser Guglielmo II non aveva alcuna intenzione di irritare l’alleato turco. Herzl allora decise di rivolgersi alla Gran Bretagna, la quale, nel 1903, offrì qualcosa di concreto: un piccolo territorio nell’Africa orientale (la “proposta ugandese”). Il movimento si divise in due fazioni: i “territorialisti” che intendevano accettare la proposta, anche perché spaventati dai nuovi pogrom che si erano scatenati in Russia; e i “sionisti di Sion” che non volevano altri territori che non fossero la Palestina. Alla fine prevalsero i secondi, capeggiati da Chaim Weizmann, un illustre scienziato ebreo inglese, e da Herzl che sarebbe morto subito dopo, il 3 luglio 1904. La “proposta ugandese” fu così ufficialmente respinta e da allora fu chiaro che l’obiettivo sionista sarebbe stato soltanto la Palestina. Intanto in Russia, come già accennato, una nuova ondata di pogrom si era abbattuta sugli ebrei. Particolarmente violento fu il pogrom di Kisinev, durante la Pasqua ebraica, in cui quarantanove persone furono uccise. I pogrom del 1903-06 contribuirono molto alla seconda ‘aliyah e segnarono anche un primo tentativo di ribellione da parte della popolazione ebraica di Kisinev. Da questo momento in poi l’autodifesa sarebbe diventato uno dei pilastri dell’ideologia ebraica in Palestina. Negli anni successivi l’Organizzazione sionista portò avanti le due tendenze che l’avevano finora contraddistinta: il sionismo politico (le alleanze e la “Carta”) e il sionismo pratico (il progressivo insediamento). In piena guerra il sionismo politico raggiunse il primo decisivo successo: nel 1917 Chaim Weizmann strappò alla Gran Bretagna la famosa dichiarazione Balfour, nella quale il governo di Sua Maestà, attraverso l’impegno del suo segretario al Foreign Office, espresse la propria “simpatia” per le “aspirazioni ebraiche sioniste”. Riportiamo qui la parte principale della dichiarazione: “ Il Governo di Sua Maestà considera con favore lo stabilimento in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e prodigherà i suoi migliori sforzi per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo, essendo chiaramente sottinteso che non debba essere fatto nulla che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, o i diritti e lo status politico di cui godono gli ebrei negli altri paesi.” La dichiarazione venne poi approvata dalla Conferenza di Sanremo (24 aprile 1920) e incorporata al Mandato sulla Palestina che la Società delle Nazioni aveva affidato alla Gran Bretagna.

5 Benny Morris, Ibid., p.37

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Furono però gli eventi dei successivi venticinque anni a dare una spinta fortissima alle aspirazioni sioniste e soprattutto a portare il dramma degli ebrei d’Europa agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. In seguito alla Rivoluzione d’Ottobre, negli anni della guerra civile in Russia, più di centomila ebrei furono massacrati dalle bande ucraine e bielorusse. Poi, negli anni trenta, nuovamente i pogrom; infine, e soprattutto, l’antisemitismo nazista, la “soluzione finale”, la Shoah. “Tutto ciò”, scrive Eli Barnavi, “conferisce alle tesi sioniste la semplicità dell’evidenza: affinché ciò non si ripeta, occorre che gli ebrei abbiano una loro terra. Così, per la prima volta nella storia del movimento, l’adesione delle masse ebree di tutto il mondo è piena e convinta (...) Per quanto scioccante tutto ciò possa sembrare, Hitler è certamente stata le leva più potente per l’edificazione dello Stato ebraico. (...) L’antisemitismo è stata soltanto una delle radici di Israele, la più avvelenata. Ma anche, purtroppo, la più vigorosa.”6

Così la comunità internazionale non poté ignorare quanto richiesto dal movimento sionista e, soprattutto dai sopravvissuti. L’assimilazione non sembrava più una via praticabile, si sentì la necessità di un provvedimento che favorisse quella che Barnavi chiama “la ricerca di normalità” degli ebrei, il riconoscimento cioè di uno Stato ebraico, che fu proclamato il 14 maggio del 1948. L’idea sionista divenne in tal modo concreta e non fu più l’idea di un gruppo, ma di una nazione. L’idea si fondava ancora su radici messianiche ma s’era ormai legata in maniera indissolubile alla storia più recente del popolo ebraico. Il primo nazionalismo arabo-palestinese: un fenomeno ristretto

Verso la fine dell’Ottocento l’area che sarebbe diventata il teatro del conflitto israeliano-palestinese non costituiva un’entità politica autonoma, ma faceva parte di due distretti amministrativi dell’Impero ottomano, il sangiaccato di Gerusalemme e il vilayet di Beirut. I due distretti ospitavano nel complesso una popolazione di poco più di seicentomila abitanti, la stragrande maggioranza dei quali arabi, soprattutto di religione musulmana sunnita, ma con una significativa minoranza cristiana. L’attività economica principale era sicuramente l’agricoltura che si basava da un lato sull’esistenza di estesi latifondi di proprietà dell’elite urbana degli ayan (“notabili”), mentre in altre zone vigeva il sistema della mesha’a, caratterizzato da una gestione comunitaria della terra. Accanto agli ayan gli altri protagonisti della struttura agricola dei due distretti erano i fellahin (contadini), che possedevano talvolta piccoli appezzamenti, la qual cosa accresceva il loro forte legame personale con la terra. Tuttavia il controllo dei terreni era saldamente nelle mani degli ayan, che costituivano l’elite politica dei distretti, esercitando il potere attraverso una sorta di interdipendenza con i turchi. Solo pochi notabili sembravano attratti dall’idea di una totale indipendenza araba, mentre la maggioranza avrebbe preferito una qualche forma di maggiore autonomia all’interno dell’Impero. Nel complesso si può affermare che la società araba palestinese aveva radici profonde ed era felicemente inserita nella cultura e nello stile di vita mediorientale di fine secolo. La maggior parte degli arabi vantava inoltre una millenaria fedeltà all’ideale di un impero che abbracciasse i popoli musulmani, rinforzata dalla vaga consapevolezza che, se Costantinopoli avesse vacillato, i primi e forse i soli a trarne vantaggio sarebbero stati gli europei. Nella seconda metà dell’Ottocento, come sopra accennato, piccoli gruppi d’opinione sorti a Beirut e a Damasco e formati da notabili, si posero l’obiettivo di promuovere la cultura araba. Vennero fondate la Società delle arti e delle scienze e la Società scientifica siriana, rispettivamente nel 1847 e nel 1857. Due furono i principali leader di questi gruppi: lo scrittore ed educatore libanese cristiano Nasif Yaziji (1800-1871) e, soprattutto Butros al-Bustani (1819-1893). Quest’ultimo propugnava una idea di identità e un patriottismo siriani svincolati dalle appartenenze etnico-religiose. Secondo Bustani il Libano e la Siria del suo tempo avrebbero dovuto costituire un unico paese (bilad Suryya). Scrive Bustani: “La Siria è la nostra patria (watan), e la sua popolazione, indipendentemente dal credo, dalla comunità, dalla razza e dal gruppo d’origine, è figlia della nostra patria”. Gli anni tra il 1876 e il 1878 videro una grave crisi dell’impero, evidenziata dalla successione al trono in diciotto mesi di tre sultani. L’ultimo, Abdulhamid II (1842-1918), alla fine del 1876 promulgò una nuova Costituzione che prevedeva l’istituzione di un parlamento. La partecipazione 6 Eli Barnavi, Storia d’Israele. Dalla nascita dello stato all’assassinio di Rabin, Milano, Bompiani, 2002, p.22

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ai lavori parlamentari permise a decine di delegati arabi di assaporare per la prima volta la politica su scala nazionale. La disfatta nella guerra con la Russia del 1878, tuttavia, costrinse il sultano a sciogliere il parlamento e a sospendere la nuova Costituzione, provocando l’ostilità araba nei confronti del potere centrale, ostilità peraltro rafforzata dall’ingente numero di arabi della Siria e del Libano caduti nel conflitto. Vaghi e inconcludenti gruppi nazionalistici tentarono di attaccare il potere del sultano, il quale però represse con facilità l’opposizione interna, che fra l’altro era stata mitigata dal ritorno all’ortodossia islamica e da notevoli sovvenzioni alle istituzioni religiose. Il nazionalismo arabo si risvegliò nel primo decennio del 1900, sotto la guida di ‘Abd al-Rahman al-Kawakibi (1854-1902), Rashid Rida (1865-1935) e Najib Azouri (1873?-1916). Kawakibi, un intellettuale di Aleppo, è oggi considerato il principale araldo del panarabismo moderno, laico. I suoi due libri, Umm al-Qura (“La madre dei villaggi”, cioè La Mecca) e Tabi ‘Al Istibdad (“La natura della tirannia”), si scagliavano contro il dispotismo ottomano e auspicavano l’unità e la rinascita panislamica. L’autore si rammaricava inoltre della debolezza del mondo islamico ed enumerava ottantasei ragioni della sua vulnerabilità, tra le quali il fatalismo, i dissidi religiosi, l’intolleranza. Pur portando la rabbia a esempio di un arabismo incontaminato da valori ottomani, il messaggio di Kawakibi non è nazionalista nell’accezione europeo-ottocentesca. Rida, nato vicino a Tripoli del Libano, sostenne in un primo tempo la causa panislamica, per poi abbracciare, in seguito alla politica di “turchificazione” dei Giovani turchi, e fondare l’Associazione araba, mirante a unire le province arabe e a combattere il Comitato di unione e progresso (CUP) dei Giovani turchi. Nel 1920 presiedette il primo Congresso arabo-siriano a Damasco. Azouri, un cristiano maronita, si rese noto per la pubblicazione di alcuni articoli contro la corruzione del potere ottomano. Condannato a morte in contumacia da un tribunale di Costantinopoli, riparò a Parigi dove continuò a denunciare l’oppressione ottomana e ad auspicare la nascita di uno Stato arabo indipendente dall’Eufrate al Canale di Suez, attraverso la fondazione della Lega della Patria araba, nel 1904. Più tardi, nel 1905, Azouri scrisse ne Il risveglio della Nazione araba nell’Asia turca: “Un grande cambiamento pacifico sta per verificarsi in Turchia. Gli arabi, che i turchi hanno oppresso, stanno prendendo coscienza della loro omogeneità nazionale, storica e razziale, e vogliono staccarsi dall’ormai decrepito edificio turco-ottomano per costituirsi in Stato indipendente”. Azouri in realtà sperava in una rivolta araba appoggiata dalla Francia e forse dalla Gran Bretagna, ma, fatta eccezione per qualche finanziamento segreto probabilmente ricevuto dal governo francese, non ottenne niente di concreto. Il tramonto dell’Impero ottomano e l’identità araba

Il punto d’avvio del nazionalismo arabo come movimento organizzato ed esteso ad una parte significativa della popolazione araba dell’Impero coincise con la rivoluzione dei Giovani turchi del luglio 1908. Questi ultimi, saliti al potere, ristabilirono la Costituzione del 1876, suscitando inizialmente un diffuso sentimento di soddisfazione nel mondo arabo. Alcuni fra i più convinti nazionalisti, tuttavia continuavano a diffidare del potere centrale, mentre cresceva il malcontento degli ayan, che si videro privati dei privilegi finanziari che il regime precedente aveva garantito loro. Passò poco tempo, e anche le attese di uguaglianza e autonomia che la maggioranza degli arabi aveva coltivato furono deluse. I Giovani turchi si dimostrarono non meno decisi di Abdulhamid a salvaguardare l’integrità dell’impero e il predominio della loro etnia. Ebbe inizio un processo di “turchificazione”, in osservanza del quale molti funzionari arabi furono sostituiti da turchi. Nel corso di pochi mesi il nazionalismo arabo si risvegliò, sfruttando le libertà garantite dal ritorno alla Costituzione: la libertà di stampa e di associazione politica garantirono infatti una diffusione estesa e capillare delle idee autonomiste. Tra i più importanti partiti arabo-nazionalisti o autonomisti emersi dopo la rivoluzione dei Giovani turchi vi furono il Partito ottomano per il decentramento amministrativo (più noto come il Partito del decentramento) e la Società della Giovane nazione araba (clandestina), fondata a Parigi il 14 novembre 1909 e nota come al-Fatat. Il Partito del decentramento si basava sul principio che il miglior regime politico fosse quello costituzionale e che il migliore regime costituzionale fosse quello decentrato. Al-Fatat invece, fondata da musulmani della regione della Grande Siria, trascorso un periodo iniziale in cui si era limitata a

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difendere i “diritti naturali” degli arabi, decise di inserire nel proprio programma, a partire dal 1913, “la liberazione della nazione araba”. Sempre nel 1913 a Parigi fu indetto da associazioni riformiste il primo Congresso arabo, nell’intento di far conoscere in Occidente le aspirazioni degli arabi, e premere indirettamente sui turchi affinché concedessero i cambiamenti desiderati. Il momento per l’Impero ottomano era particolarmente complicato; la Libia era stata appena ceduta all’Italia (1912) e, persa la prima guerra balcanica contro la coalizione greco-bulgaro-serbo-montenegrina, ci si accingeva a combattere la seconda che avrebbe visto i turchi contrapposti ai bulgari. Il governo di Costantinopoli si vide costretto a riconoscere i diritti arabi e a promettere alcune riforme, tra cui quella che garantiva più spazio agli arabi negli alti ranghi della burocrazia della capitale. Di fatto però nessuna riforma fu portata avanti e la rivolta scoppiò a La Mecca nel 1916, quando già si intravedeva la disfatta dell’Impero nella prima guerra mondiale, che i turchi stavano combattendo a fianco dei tedeschi. La rivolta fu appoggiata da Londra che mirava a indebolire l’Impero e che aveva di conseguenza accettato il principio dell’indipendenza araba. Nel 1915-16 Jamal Pascià, comandante della Quarta armata ottomana e governatore militare della Grande Siria, istituì una sorta di regno del terrore in cui dozzine di nazionalisti arabi furono pubblicamente impiccati a Damasco e Beirut, e migliaia di arabi palestinesi (e di ebrei) furono deportati nell’entroterra, lontano dai centri di sovversione. Ovviamente questi episodi rafforzarono i sentimenti separatisti e nazionalisti della popolazione araba. Bisogna ricordare inoltre che il nazionalismo arabo aveva ormai acquisito una salda matrice ideologica, incentrata sul ricordo del glorioso passato che aveva preceduto la conquista turca, avvenuta nel 1517. Per la maggior parte degli arabi quel passato era associato alla vita e agli insegnamenti di Maometto e alla potenza del suo messaggio, contenuto nel Corano. Gli arabi che ora si trovavano sottomessi all’Impero ottomano si sentivano stretti discendenti di quelli che avevano dato al Medio Oriente arabo, all’Africa del Nord e alla penisola iberica una civiltà profonda e raffinata; di quegli arabi che avevano preservato gran parte della filosofia dei classici greci e sviluppato la matematica, la medicina e le scienze. A differenza di molti nazionalismi europei otto e novecenteschi, in gran parte costruiti su retroterra culturali artificiali, il nazionalismo arabo trasse forza e ispirazione dai secoli in cui il Medio Oriente era stato al centro di una parte consistente della civiltà mondiale. Tornando ai fatti della prima guerra mondiale, è necessario ricordare gli importanti sviluppi degli anni 1917-18 avvenuti nella Grande Siria, ormai avviata, assieme al resto dell’Impero, verso un rapido declino; nel 1917 Gerusalemme si arrese al generale britannico Edmund Allenby, mentre, nel 1918, i ribelli arabi, fungendo da ala destra dello schieramento dello stesso generale, piegarono a nord attraverso la Transgiordania e occuparono Damasco, dove costituirono uno Stato arabo di Siria, retto dall’emiro Faysal. L’impero ottomano non esisteva più; nelle regioni a sud dell’Anatolia sarebbero emersi con gli anni, sotto la tutela francese e britannica, gli Stati della Penisola arabica, la Siria, il Libano, la Transgiordania (Giordania dal 1948) e l’Iraq. In Palestina, sotto l’ombrello del mandato britannico, due movimenti nazionali, l’arabo e l’ebraico, cercavano di assumere il controllo del paese e, se possibile, di creare uno Stato indipendente. La formazione dell’identità palestinese

Il moderno nazionalismo arabo ricevette grande impulso dal governo di Faysal, i cui seguaci fondarono, nel 1919, il Partito arabo dell’ indipendenza, al-Istiqlal, che mirava all’ unità delle genti arabe e alla loro indipendenza dalle potenze non arabe. Nel 1920 una serie di congressi arabo-siriani stabilì la volontà di creare, sotto la guida di Faysal, il regno della Grande Siria, che avrebbe dovuto comprendere Siria, Libano, Transgiordania e Palestina. Il progetto dovette tramontare (anche se il tema dell’unità araba, o “panarabismo”, sarebbe rimasto vivo per parecchio tempo) poiché gli accordi di Sykes-Picot, un’intesa segreta anglo-francese del 1916, aveva già suddiviso i territori arabi dell’Impero ottomano, in base alle tradizionali sfere d’influenza e agli interessi prebellici delle due potenze. L’Iraq e la Palestina furono assegnati alla Gran Bretagna; la Transgiordania, esclusa dal mandato palestinese, fu definita entità separata e posta sotto la tutela britannica; la Francia

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assunse il mandato su Siria e Libano che furono, quasi da subito, amministrati separatamente. Il movimento panarabico si spaccò, dando vita a movimenti e identità nazionali diverse e circoscritte in ogni territorio sotto mandato. Risale a quegli anni la nascita di una sorta di protonazionalismo, o patriottismo, palestinese. Scrive Benny Morris: “Questa tendenza od orientamento –per il quale la definizione di movimento sembra prematura- maturò poco a poco, in larga misura come reazione alla crescente presenza sionista. In parte, tuttavia, esso fu anche il prodotto di fattori e sviluppi politici, economici, religiosi e sociali che risalivano alla metà del secolo precedente.(...) Negli anni ’80 [dell’Ottocento], le province del Levante furono riorganizzate e gran parte della Palestina meridionale (...) fu riorganizzata in un governatorato separato che rispondeva direttamente a Costantinopoli. (...) il cuore della Terrasanta diventò un’entità amministrativa, e in qualche modo politica, a sé stante”.7

Erano sorte inoltre in Palestina, ai primi del Novecento, alcune organizzazioni religiose e culturali sia in ambito cristiano sia musulmano. Tra i musulmani la festa di Nabi Musa, risalente all’epoca del Saladino, nel XII secolo, in cui si celebrava la nascita di Mosé, vedeva migliaia di pellegrini da ogni parte della Palestina convergere nel luogo presso Gerico tradizionalmente considerato la sua tomba. La crescente sensazione di far parte di una comunità separata fu rinforzata dalla comparsa a Giaffa, nel 1911, di un quotidiano chiamato Filastin. I due decenni seguenti furono testimoni della nascita di un movimento nazionalista arabo-palestinese pienamente sviluppato. Durante gli ultimi mesi della Grande Guerra sorsero le prime organizzazioni nazionaliste palestinesi a livello politico; tra queste l’Associazione musulmano-cristiana (AMC) dava forma ad aspirazioni autonomiste ed antisioniste di stampo locale, mentre l’ al-Muntada al-‘Adabi (il cenacolo culturale) e l’ al-Nadi al-Arabi (il club arabo), propugnavano la promozione della lingua e cultura arabe e dei valori musulmani ed erano permeati da sentimenti panarabi. L’antisionismo di al-Nadi è rispecchiato da un dramma messo in scena nel gennaio 1920 dalla sua succursale di Nablus e intitolato La rovina della Palestina; in esso si narra di una giovane sionista che seduce due arabi e li deruba del denaro e della terra. Fu proprio nello stesso anno che l’ideale della Grande Siria fu accantonato per lasciare posto ad un nazionalismo di netta matrice palestinese, che inizialmente fece proseliti soprattutto all’interno della ristretta elite degli ayan. Ai primi di marzo alcuni rivoltosi palestinesi collegati con Damasco attaccarono un campo britannico sulla riva meridionale del Mar di Galilea, allo scopo di innescare una più ampia rivolta che coinvolgesse la Siria di Faysal. La dura repressione da parte britannica sancì la definitiva separazione politica della Palestina dalla Siria. Faysal infatti venne esiliato e la Siria fu occupata dai francesi. Fu così che, nel maggio 1921 a Gerusalemme, il quarto Congresso palestinese parlò per la prima volta del “popolo arabo di Palestina” senza menzionare la Siria meridionale. L’idea panarabica aveva definitivamente ceduto il passo a nuove divisioni politiche lungo direttrici palestinesi, siriane e irachene. Stava nascendo un popolo palestinese, il cui senso d’identità avrebbe tratto nuova linfa dalla coabitazione coatta con gli ebrei nel nuovo Stato e dai conflitti che ne sarebbero scaturiti.

7 Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, Bur, 2003, p.50

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2. Dalla spartizione al 1967: i primi vent’anni di vita dello Stato d’Israele

La costruzione dello Stato d’Israele

In seguito alla prima guerra mondiale e, in particolar modo, in seguito alla vittoria della Gran Bretagna sulla Turchia, la Società delle Nazioni affidò ai britannici il controllo della Palestina, non sotto forma di colonia, ma di mandato. Il testo istitutivo del mandato rispecchiava l’ambivalenza delle promesse fatte, durante il conflitto, dal governo di Londra tanto ai sionisti quanto agli arabi: come già sottolineato, il 2 novembre 1917 era stata emanata la dichiarazione Balfour in risposta alle richieste sioniste di un focolare nazionale (“national home”); nondimeno nel 1915 l’alto commissario britannico al Cairo, Henry McMahon, aveva promesso allo sceriffo della Mecca, Hussein, che la Gran Bretagna avrebbe favorito la creazione di uno stato arabo indipendente in quei territori che poi sarebbero diventati Siria e Libano, senza però fare riferimenti precisi né al futuro della Palestina, né a quello di Gerusalemme. Il testo, approvato dalla Società delle Nazioni nel 1922 sosteneva infatti che era compito della Gran Bretagna “dare al paese condizioni politiche, amministrative ed economiche tali da assicurare la costituzione di un focolare nazionale ebraico (…) e lo sviluppo di istituzioni di autogoverno, e anche la salvaguardia dei diritti civili e religiosi di tutti gli abitanti della Palestina, a prescindere dalla razza e dalla religione”. Tale soluzione scontentò entrambe le parti: i sionisti la considerarono un tradimento della dichiarazione Balfour mentre gli arabi non videro confermate le promesse fatte da McMahon. Le ambivalenti posizioni del governo britannico caratterizzarono l’intera durata del mandato: era evidente la duplice esigenza della Gran Bretagna di salvaguardare le relazioni con le popolazioni arabe in modo da garantirsi l’egemonia sulla regione mediorientale e, nel contempo, di mantenere gli impegni presi col movimento sionista. Tale atteggiamento di compromesso portò Londra a trascurare due aspetti fondamentali del problema: la regolazione del flusso dell’immigrazione ebraica e il nazionalismo palestinese. Dagli inizi degli anni venti fino al 1939 tre ondate migratorie provenienti dall’Europa orientale interessarono la Palestina; tutte ebbero un ruolo significativo nella definizione dell’assetto della nuova società ebraica.

1. Tra il 1919 e il 1923, come conseguenza della rivoluzione russa del 1917, circa 37.000 ebrei raggiunsero la Terra Promessa; per lo più giovanissimi, animati da un forte senso di solidarietà, furono i precursori dell’agricoltura collettivistica del kibbutz (colonia agricola di vaste dimensioni).

2. Tra il 1924 e il 1928 circa 70.000 persone si stabilirono in alcune città (in particolare Gerusalemme e Tel Aviv) dove posero le basi per la creazione di un ceto borghese medio-alto.

3. Tra il 1933 e il 1939 si realizzò l’ondata di immigrazione più cospicua (circa 200.000 persone), composta dalla piccola ma qualificata Diaspora italiana, e soprattutto da ebrei tedeschi che, in seguito all’ascesa al potere di Hitler, avevano lasciato la Germania e l’Austria. Questa ondata migratoria portò nel paese studiosi, capitali, abilità tecnologiche, esperienze imprenditoriali e relazioni d’affari con l’Europa.

In totale, quindi, nel giro di venti anni la presenza ebraica in Palestina raddoppiò.

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L’egemonia raggiunta da alcuni ebrei in settori chiave dell’economia palestinese spaventò l’opinione pubblica araba che temeva di essere messa in minoranza. Ne scaturì nell’aprile 1936 una rivolta araba, repressa a fatica dalle truppe britanniche. Il risentimento arabo crebbe anche sulla scia dei nuovi interessi geopolitici manifestati da Germania e Italia. Una volta consolidate le colonie in Libia e in Africa orientale, Mussolini vide nel Mediterraneo orientale la regione su cui estendere l’influenza del suo impero, e anche Hitler, che mirava a spezzare l’asse franco-inglese in Medio Oriente, sostenne la politica estera italiana. Nel 1938 a Seesen (una cittadina della Germania) fu istituita una radio che copriva le frequenze della regione medio orientale, contribuendo alla diffusione nel mondo musulmano di slogan nazifascisti e di idee antisemite. La situazione diventò insostenibile e la rabbia araba si diresse non solo contro i simboli del sionismo e dell’imperialismo inglese ma anche contro latifondisti, commercianti, notabili cristiani. Nel 1939 a Londra si tenne una conferenza con la partecipazione delle delegazioni araba ed ebraica. Gli arabi chiesero la fine del mandato e la costituzione di uno stato arabo in Palestina, mentre gli ebrei si rifecero alla dichiarazione Balfour e al loro atavico diritto di risiedere in Palestina. Il governo Chamberlain riassunse le sue intenzioni politiche in un documento scritto da Malcom MacDonald e noto come il White Paper, che limitava le entrate degli ebrei in Palestina (a 75.000 unità per i successivi cinque anni) e la compravendita di terreni; esso inoltre impegnava la stessa Gran Bretagna alla costruzione di uno stato palestinese indipendente nell’arco di dieci anni. L’annuncio del White Paper, nel maggio del 1939, suscitò numerose manifestazioni di protesta da parte degli ebrei in tutte le città e i villaggi della Palestina. Lo scoppio della seconda guerra mondiale frenò l’ostilità ebraica nei confronti degli inglesi, ma non la rigida applicazione del White Paper da parte di quest’ultimi, decisi a non compromettersi l’appoggio militare arabo, necessario a contrastare le forze italo-tedesche, e a mantenere il controllo sulle risorse petrolifere presenti nell’area; il documento non fu accantonato nemmeno quando cominciarono a filtrare le prime orribili notizie sui campi di concentramento tedeschi. L’episodio più drammatico dell’opposizione britannica all’emigrazione in terra di Israele si ebbe nell’estate del 1947 quando un malandato piroscafo, il “President Warfield”, ribattezzato “Exodus 1947”, giunse davanti alle coste della Palestina con 4500 profughi a bordo, quasi tutti scampati dai lager nazisti. Le autorità inglesi intercettarono il bastimento e invece di rinviarlo a Cipro (dove generalmente venivano portati tutti coloro cui era stato impedito di entrare in Palestina), lo riaccompagnarono sotto scorta prima in Francia, da dove era partito, e poi ad Amburgo. A partire dal 1944, la Hagana (la forza di difesa dell’agenzia ebraica da cui nascerà la Tsahal, l’esercito regolare israeliano) e due gruppi clandestini, l’Irgun Zvei Leumi (Organizzazione militare nazionale) e il Lehi (Combattenti per la libertà d’Israele) ordirono una serie di attentati contro le istituzioni britanniche in Palestina: il 6 novembre 1944 alcuni membri del Lehi assassinarono Lord Moyne, ministro britannico in Medio Oriente, alienando alla causa sionista le simpatie di Winston Churchill, all’epoca primo ministro e amico intimo di Moyne; nella notte tra il 31 ottobre e l’1 novembre 1945 la Hagana affondò due battelli della polizia britannica di pattuglia a Haifa e a Giaffa; il 25 febbraio 1946 i tre gruppi armati sionisti, riunitisi nel Movimento di resistenza ebraica unificato, colpirono tre aeroporti, provocando la perdita di venti aerei della RAF; tra il 16 e il 17 giugno, il Movimento fece saltare dieci degli undici ponti stradali e ferroviari che consentivano l’accesso in Palestina, isolandola dal resto del Medio Oriente; il 22 luglio 1946, la Irgun Zvei Leumi, comandata da Menachem Begin, sferrò il colpo decisivo alle forze e alle finanze britanniche, disastrate dall’impegno bellico e non più in grado di sostenere i costi della gestione della Palestina: un attentato dinamitardo all’ hotel King David di Gerusalemme, quartier generale del governo britannico, provocò novantuno morti tra inglesi, arabi ed ebrei, accelerando la fine del mandato. In seguito a questi eventi e di fronte alle pressioni della pubblica opinione interna, il governo inglese decise di risolvere la questione sul piano politico, sottoponendola all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 27 aprile 1947. A maggio, in una sessione speciale dell’Assemblea, fu deliberata la costituzione di un Comitato Speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina (United

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Nations Special Commitee for Palestine, UNSCOP). Si volle evitare, al fine di garantire l’imparzialità, che tra gli undici membri del Comitato ci fossero le maggiori potenze e gli stati arabi. La commissione era infatti composta da Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Jugoslavia, India, Iran, Paesi Bassi, Svezia, Uruguay, Perù. L’orientamento fu di procedere alla spartizione piuttosto che alla costituzione di uno stato federale arabo-ebraico, soluzione ormai considerata impossibile. Il piano iniziale proposto dalla commissione assegnava allo stato arabo una striscia costiera meridionale, compresa tra Rafah e Gaza, la Galilea a Nord e l’interno del paese con le importanti città di Nablus e Hebron. Lo stato ebraico sarebbe stato invece costituito da gran parte della pianura costiera, incluse Tel Aviv e Haifa, dal deserto del Negev a Sud e dalle valli di Jezreel e Hule a Nord, sul confine con la Siria. Due clausole importanti completavano il piano: si stabiliva, in primo luogo, che Gerusalemme avesse uno statuto internazionale e fosse amministrata dalle Nazioni Unite; in secondo luogo che la Palestina, pur essendo spartita politicamente, dovesse mantenere la sua unità economica. A tal fine il 9 gennaio 1948 venne creata la Commissione per la Palestina delle Nazioni Unite, organo che avrebbe dovuto garantire l’esecuzione del piano di spartizione. Non era chiaro, tuttavia, in che modo due popoli dalle posizioni inconciliabili avrebbero potuto cooperare economicamente. L’assemblea Generale dell’ONU apportò, su suggerimento degli Stati Uniti, alcune modifiche favorevoli ai palestinesi: l’assegnazione del porto settentrionale di Acco; la divisione del Negev in due parti, con l’estensione di quella araba fino a Beersheva; infine un corridoio lungo il confine egiziano, congiungente la striscia di Gaza con il golfo di Aqaba. La popolazione della Palestina, estesa su 10.000 miglia quadrate, all’epoca contava 1.201.000 arabi e 548.000 ebrei. Con il piano dell’ONU, il 45% del territorio veniva assegnato agli arabi che costituivano il 68% della popolazione, mentre il rimanente 55% alla componente ebraica che rappresentava il 32% del totale. Le logiche che portarono i principali membri dell’Assemblea ad accettare tale progetto furono diverse. Ciò che influì maggiormente nel determinare l’appoggio americano alla causa sionista fu la pressione esercitata dall’Aipac (American Israel Public Affair Commitee), la lobby ebraica che controllava i voti di circa cinque milioni di ebrei, decisivi in occasione delle elezioni presidenziali. Fu decisivo, inoltre, il voto favorevole dell’Unione Sovietica, che aveva intuito l’importanza geopolitica che il Medio Oriente avrebbe assunto negli anni a venire e che cercò di tenere aperte tutte le possibilità per non essere esclusa da una futura contesa con gli Stati Uniti sulle zone di influenza. Bisogna inoltre ricordare che gli arabi, da sempre contrari all’idea della spartizione, non vollero partecipare attivamente agli incontri diplomatici che stavano definendo il futuro della

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Palestina, perdendo un’occasione fondamentale per avallare proposte sui nuovi confini; la diplomazia araba iniziò a muoversi successivamente, quando tutto ormai era stato deciso. Si arrivò così al 29 novembre 1947, giorno in cui la risoluzione che prevedeva la spartizione della Palestina venne approvata con 33 voti favorevoli. La Gran Bretagna si astenne dal voto dichiarando che il 14 maggio 1948 le sue forze civili e militari avrebbero definitivamente abbandonato il paese. Contemporaneamente alla smobilitazione britannica si verificarono i primi scontri tra le due parti. Nella notte tra il 9 e 10 aprile del 1948, nel villaggio arabo di Deir Yassin, forze miste dell’Irgun e del gruppo Stern uccisero 250 persone tra militari e civili. Tre giorni dopo forze arabe tesero un agguato ad un convoglio di medici e infermieri che si stavano recando all’ospedale del monte Scopus, che domina la città di Gerusalemme, uccidendo 77 persone, tutte di nazionalità ebraica. Tali episodi decretarono il fallimento definitivo della Commissione per la Palestina delle Nazioni Unite. Il 14 maggio fu, come previsto, il giorno della proclamazione dello stato ebraico. David Ben Gurion (capo dell’Agenzia ebraica, ovvero l’organo di coordinamento del movimento sionista), in una sala del museo di Tel Aviv, sotto un grande ritratto di Theodor Herzl, lesse la seguente dichiarazione: “Noi, membri del consiglio nazionale, rappresentanti del popolo ebraico in Palestina e del movimento sionistico nel mondo, riuniti in assemblea solenne oggi, data di scadenza del Mandato britannico in Palestina, in virtù del diritto nazionale e storico del popolo ebraico e della risoluzione presa dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, proclamiamo la fondazione nazionale dello Stato ebraico in Palestina, che si chiamerà Israele”. Nasceva così un nuovo stato, non più grande della Lombardia, che negli anni a venire sarebbe stato al centro di dispute ideologiche, di passioni, di atti terroristici, di guerre. La Guerra d’Indipendenza

La prima delle guerre che il giovane stato avrebbe combattuto, la Guerra d’Indipendenza, ebbe inizio solo otto ore dopo la dichiarazione dello Stato d’Israele. Arabi ed ebrei si trovavano gli uni contro gli altri per garantirsi il controllo del territorio. Il piano delle Nazioni Unite era ormai un ricordo e i confini tracciati un anno prima sarebbero nuovamente cambiati. Tra la notte del 14 e 15 maggio ebbe inizio l’invasione araba portata avanti da una coalizione formata dagli eserciti di Siria, Egitto, Iraq, Libano e Giordania. Oltre all’esercito egiziano, il più armato e numeroso, la formazione più temibile per il suo ottimo addestramento era la Legione araba di Giordania. Dal canto suo Israele non aveva un vero e proprio esercito; le forze ebraiche erano costituite dall’Hagana, dal Palmach (formazione militare d’assalto, formata da circa 3 mila giovani ben addestrati, nati per lo più in Palestina), dal Gadna (una formazione di ragazzi con compiti ausiliari e di staffetta) e da un “esercito di guarnigione” costituito da civili, uomini anziani e donne, addetti solo alla difesa delle zone di residenza (qualche volta l’arma di dissuasione di questo “esercito” furono le pentole percosse rumorosamente dalle donne con mestoli o pezzi di ferro per fare credere agli arabi che i difensori fossero più numerosi e agguerriti). Anche per queste ragioni, la prima fase della guerra fu più favorevole agli arabi, ma i successi concernevano l’occupazione di territori marginali e dell’enclave di Gerusalemme, militarmente poco importante. La prima tregua fu imposta dalle Nazioni Unite l’11 giugno. In quell’occasione, ci fu l’ultimo tentativo di mediazione compiuto del diplomatico svedese Bernadotte, il cui progetto finale, rifiutato da ambo le parti, assegnava il Negev agli arabi e la Galilea agli israeliani. La proposta di Bernadotte metteva in discussione la sovranità che gli accordi del ’47 avevano concesso

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a Israele; l’esasperazione provocata tra le frange estremiste ebraiche da questo cambiamento di linea portò all’uccisione del diplomatico svedese da parte di ex membri del Lehi il 17 settembre. Approfittando della tregua, gli israeliani riorganizzarono l’esercito, riuscendo a procurarsi qualche arma pesante e perfino alcuni aeroplani, che per ironia della sorte erano Messerschmitt ME 109, già in dotazione alla tedesca Luftwaffe. La ripresa dei combattimenti vide le forze ebraiche scatenare una serie di contrattacchi che lasciarono il segno. Beersheva venne riconquistata, gli egiziani arretrarono su tutto il fronte, e la loro sconfitta provocò sconforto negli altri schieramenti, tanto che una nuova tregua proposta il 18 luglio fu accettata con sollievo dagli arabi. Dopo una nuova fallita offensiva egiziana tra dicembre e gennaio (durante la quale vennero abbattuti sei aerei mandati dalla Gran Bretagna in aiuto all’Egitto), si arrivò finalmente alle trattative di armistizio, che si svolsero all’ hotel des Roses nell’isola di Rodi, coordinate dall’abile Ralph Bunche, successore di Bernadotte come mediatore incaricato dall’ONU. Le trattative della conferenza di Rodi si conclusero con la firma dell’armistizio avvenuta il 20 luglio 1949. Al termine del conflitto, che in 15 mesi aveva provocato oltre 6.000 vittime, il territorio israeliano era aumentato di 1/3 rispetto al piano di spartizione ONU del novembre ’47, anche se la parte antica di Gerusalemme era rimasta in mano giordana. I nuovi confini sarebbero stati considerati definitivi da Israele e provvisori dai paesi arabi.

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I primi anni dello Stato di Israele: Dal consolidamento alla Campagna del Sinai

Dopo la fine della Guerra d’Indipendenza e per circa nove anni Israele visse con grande

fervore quelli che Abba Eban (futuro ministro degli Esteri israeliano) avrebbe definito “gli anni del consolidamento”. Fu all’interno del paese che avvennero i veri prodigi. J. Tsur nell’opera La rivolta ebraica scrive che “(…) per merito di un minuzioso lavoro predisposto clandestinamente, Israele riuscì in piena guerra a mettere in piedi le strutture essenziali e complete di un piccolo stato. Il 16 maggio 1948 (un giorno dopo la proclamazione dello stato) le poste aprivano gli sportelli, la polizia dirigeva il traffico, i tribunali irrogavano le sentenze (…) le navi cominciavano ad aspettare i loro turni per accostarsi alle banchine dei porti (…)”.8 Nei diciotto mesi successivi la dichiarazione d’indipendenza arrivarono in Israele circa 340.000 nuovi ebrei. A tal proposito, nel luglio del 1950 il Primo Ministro Ben Gurion fece approvare dalla Knesset (il parlamento unicamerale) una legge fondamentale: la “Legge del Ritorno”. In base ad essa qualunque ebreo giunto in Israele, purché non soggetto a procedimenti penali, aveva diritto alla nazionalità israeliana, senza dover necessariamente rinunciare a quella d’origine. «Il diritto degli ebrei a venire a stare in Israele – spiegò Ben Gurion – è un diritto inerente al fatto della loro ebraicità e sta a loro esercitarlo di propria volontà…». Gli ebrei arrivarono in primo luogo dalla Germania e dalla Polonia (si trattava di coloro che erano sfuggiti all’ecatombe nazista), quindi da Cipro, dove la Gran Bretagna aveva condotto tutti quei clandestini ai quali aveva impedito di raggiungere le coste di Erez Yisrael. Da ricordare, inoltre, le operazioni “Tappeto volante”, “Ezra” e “Nehemiah”, che trasferirono in Israele, quasi interamente, le comunità ebraiche dello Yemen e dell’Iraq con centinaia di voli dell’America Alaska Airline e della Near East Transport Company. Alla fine del 1953 dopo questi imponenti flussi migratori la popolazione dello Stato d’Israele assommava 1.484.000 di abitanti (tra cui 200.000 arabi). I problemi che il nuovo stato dovette affrontare per accogliere in pochi anni una massa imponente di persone bisognose di tutto e che non conoscevano la lingua furono enormi. Levi Eshkol escogitò il sistema del “ma ’abarah”, cioè un centro di transizione che consentiva all’immigrato di rendersi indipendente appena arrivato. La rapida integrazione dei nuovi abitanti fu dovuta in gran parte allo spirito di solidarietà e di fratellanza che animò gli israeliani in quegli anni e al generoso aiuto delle comunità ebraiche della Diaspora (memorabile l’appoggio della comunità ebraica statunitense attraverso l’United Jewish Appeal). L’accresciuta massa di consumatori che non producevano ricchezza causò ben presto una pericolosa crisi economica, con un esorbitante aumento di prezzi. La svolta si ebbe nel 1952, quando Ben Gurion inaugurò un nuovo ciclo politico svalutando la moneta, imponendo prestiti forzosi sui depositi bancari, abolendo il mercato nero. Con una contestata decisione, il governo decise anche di limitare temporaneamente le entrate in Israele ai soli ebrei a rischio d’incolumità. Lentamente, grazie ai danni di guerra pagati dalla Germania (il trattato di riparazione con la Germania Occidentale, noto come Shilumin Agreement prevedeva un rimborso di 820 milioni di dollari in un periodo di dodici anni, in parte commutabile con merci e tecnologie tedesche), al sostegno statunitense e alle rimesse degli ebrei all’estero, l’economia si riprese. A livello politico, il maggior partito era il Mapai (letteralmente “Partito Operaio d’Israele”), guidato da Ben Gurion. Più a sinistra del Mapai si collocava il Mapam (“Partito Operaio Unito”); mentre il maggior partito di destra era la Heruth, dominato dalla forte personalità di Menachem Begin. Infine vi era il piccolo partito comunista che trovava spazio tra gli arabi di cittadinanza israeliana e la

8 J. Tsur, La rivolta ebraica, Roma, Barulli, 1972, p.242, in Fausto Coen, Israele: quarant’anni di storia, Genova, Casa Editrice Marietti, 1991, p.53

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Confederazione del Lavoro (la Histadrut) che annoverava importanti personalità come Golda Meir, Levi Eshkol, Pinhas Lavon. Nel 1949 fu eletto Capo dello Stato Chaim Weizmann che aveva guidato per quarant’anni, dall’Inghilterra, il movimento sionista. Alla sua morte, dopo il rifiuto di Albert Einstein, il nuovo presidente fu Itzhak Ben Zvi, vecchio amico di Ben Gurion. Per quanto riguarda i rapporti con i paesi confinanti, la situazione restava tesa. Il problema dei rifugiati palestinesi era il più grave. Solo la Giordania in seguito alla guerra del ‘48 aveva concesso loro la cittadinanza, ma lo aveva fatto per accrescere, con l’aumento della popolazione, il suo peso nel mondo arabo. In grandissima parte perciò i palestinesi vennero isolati nei campi profughi e sostenuti dalla comunità internazionale attraverso i fondi della United Nation Relief for Palestine Refugees. La situazione era complicata soprattutto nella striscia di Gaza, la cui popolazione, con l’arrivo di 200.000 rifugiati era quadruplicata. I confini di questa zona, tracciati sulla base delle linee armistiziali del ’49, precludevano alla popolazione araba lo sfruttamento di molti terreni agricoli, annessi ai nuovi territori israeliani. In totale, secondo le stime dell’ONU, è attendibile pensare che i profughi palestinesi fossero circa 750.000. L’11 dicembre 1948 una risoluzione dell’Assemblea Generale affermò che: “ai rifugiati che vogliano ritornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini si deve consentire di farlo il prima possibile, e si deve pagare un risarcimento per le proprietà di coloro che scelgano di non tornare”. Tuttavia, il governo di Ben Gurion volle evitare a tutti i costi l’attuazione di tale linea. Nel dicembre 1949 fu creata la United Nation Relief and Works Agency for Palestine Refugees (UNRWA), con lo scopo di assicurare soccorso e opere pubbliche ai rifugiati. Con la costituzione dell’UNRWA si ammetteva implicitamente che i rifugiati non sarebbero potuti tornare. La nuova condizione dei rifugiati, avvertita come un esilio definitivo, alimentò il senso di identità palestinese, da cui emersero nuove tendenze nazionalistiche. Di fronte all’intensificarsi degli attentati alle frontiere Israele ottenne nel maggio del ’50, come garanzia internazionale, una dichiarazione tripartita (Usa, Gran Bretagna, Francia) che impegnava i tre paesi ad opporsi a qualsiasi mutamento ottenuto con le armi delle linee di demarcazione stabilite nel 1949. Nonostante ciò, Israele tentò di avviare alcuni accordi diretti con i paesi arabi e in modo particolare con la Giordania. La trattativa ebbe un esito tragico: re Abdullah, col quale era stato raggiunto segretamente un accordo che prevedeva l’accesso ai luoghi santi nella città vecchia di Gerusalemme, una via di transito e l’uso commerciale del porto di Haifa, il rispetto dei confini e l’avvio di relazioni commerciali tra i due paesi, venne ucciso il 20 luglio 1951 a colpi d’arma da fuoco da un palestinese davanti alla moschea di El Aqsa. La crisi internazionale si acuì con la rottura delle relazioni diplomatiche tra URSS e Israele. Nel 1953, infatti, scoppiò in URSS il cosiddetto “complotto dei medici” – quasi tutti ebrei – accusati di voler uccidere Stalin. Si verificarono di conseguenza numerose manifestazioni antisioniste che provocarono in Israele, come risposta, un attentato contro la sede della Legazione sovietica di Tel Aviv. L’Unione Sovietica, dal canto suo, non poteva restare inattiva sullo scacchiere medio orientale: per questo motivo, dopo la rivoluzione egiziana del 1952, decise di puntare su una personalità politica che avrebbe assunto un peso decisivo per gli equilibri mediorientali negli anni a venire: Gamal Abdel Nasser. Dopo la rottura con Israele, infatti, la disponibilità da parte di Mosca ad appoggiare paesi arabi che, come Siria ed Egitto, avevano scelto la via del socialismo islamico, diventò più evidente. L’intraprendenza politica che Nasser avrebbe mostrato di lì a poco, comportò paradossalmente le fine dell’isolamento israeliano. Una prima fase si consumò conseguentemente alla stipulazione nel febbraio del 1955 del “Patto di Baghdad” tra Iraq, Turchia e Pakistan, che mirava a creare uno sbarramento alla penetrazione sovietica nel Medio Oriente. Nasser vide in questo patto la divisione in due tronconi di quel mondo arabo che egli sognava monolitico e di cui aspirava a essere leader indiscusso. Ciò rafforzò i suoi legami con Mosca e di conseguenza il suo antioccidentalismo. La situazione precipitò, sul piano internazionale, quando l’americana World Bank negò all’Egitto il prestito che avrebbe dovuto finanziare la costruzione della diga di Assuan. Nasser si sentì personalmente offeso da questo diniego e con un colpo a sorpresa, nel luglio del ’56, annunciò che

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la Compagnia internazionale del canale di Suez sarebbe stata nazionalizzata, i suoi proventi destinati alla costruzione della diga di Assuan e che il canale da quel giorno si sarebbe trovato sotto l’esclusiva sovranità dell’Egitto. Si aprì una delicata crisi internazionale che ebbe l’effetto di coalizzare tre paesi che pure avevano interessi divergenti: Francia, Gran Bretagna e Israele. L’intervento ,per Francia e Gran Bretagna, era legato alla riconquista del controllo del canale e al ristabilimento del prestigio internazionale nei confronti degli Stati Uniti (i quali insieme all’URSS dimostrarono subito di voler mantenere una certa distanza dalle parti in conflitto); per Israele invece una eventuale sconfitta di Nasser avrebbe significato ridare pace ai confini e arginare le sempre più insistenti azioni dei terroristi palestinesi. Gli accordi tra Israele, Francia e Gran Bretagna furono perfezionati in gran segreto dal 22 al 25 ottobre 1956 a Sèvres. Le ostilità iniziarono il 29 ottobre giorno in cui, dopo una rapida mobilitazione, le forze israeliane dilagarono a Gaza e nel Sinai. L’operazione venne denominata “Kadesh” (il luogo dal quale secondo la narrazione biblica partirono alcuni esploratori per riferire sulla Terra Promessa durante la fuga dall’Egitto). Le forze israeliane, guidate da Moshe Dayan, in tre giorni travolsero le truppe egiziane nel Sinai. Siria e Giordania, pur firmatarie poche giorni prima di un trattato di alleanza con l’Egitto, si rifiutarono di intervenire. Francia e Gran Bretagna, che avevano garantito la copertura aerea e distrutto gran parte dell’aviazione egiziana al suolo, furono sorprese dalla rapidità israeliana. Le manovre militari ebraiche furono tanto fulminee e perentorie da indurre gli Stati Uniti a chiedere al Consiglio di Sicurezza dell’ONU l’immediato ritiro delle truppe israeliane. Le due potenze alleate di Israele tuttavia posero il veto, in quanto desiderose di ottenere un “loro” successo personale. L’operazione anglo-francese si rivelò un clamoroso insuccesso poiché fallì il principale obiettivo: l’occupazione del canale per tutta la sua lunghezza. Nasser, infatti, affondò molte imbarcazioni egiziane nelle acque del canale rendendolo inservibile. Al contrario, le truppe di Dayan procedettero imperterrite nell’avanzata, arrivando a occupare Rafah ed El Arish. Il 31 ottobre, dopo un messaggio di Khruschev (che allora era alle prese con la rivoluzione ungheresi) con cui informava Nasser che l’Unione Sovietica non aveva intenzione di impegnarsi in una terza guerra mondiale, le truppe egiziane si ritirarono dal Sinai. Il 2 novembre il governo statunitense, preoccupato per le imminenti elezioni presidenziali, propose in seno al Consiglio di Sicurezza la fine delle ostilità, decretata il 5 novembre, quando le truppe di Dayan avevano già occupato Sharm-el-Sheick. Per la prima volta, in piena guerra fredda, Stati Uniti e Unione Sovietica, si erano trovati uniti e solidali nel far cessare definitivamente le operazioni militari. Francia e Gran Bretagna uscirono umiliate e ridimensionate da questa avventura, mentre per Israele il bilancio fu positivo. Aveva infatti conquistato l’intero arsenale bellico egiziano e la libertà di passaggio per le sue navi nello stretto di Tiran e nel porto di Eilath; aveva ottenuto, inoltre, una solenne dichiarazione in cui dodici potenze marittime riaffermavano il suo diritto alla libera navigazione attraverso tutti gli stretti e che una forza dell’ONU venisse dislocata nel Sinai e a Gaza per separare i due eserciti. Dal canto suo, Israele abbandonò i territori occupati nelle operazioni di guerra, a testimonianza del fatto che il suo obiettivo era la sicurezza e non la conquista dei territori. Nasser, umiliato dall’esercito israeliano, riuscì a trasformare la sconfitta in un successo politico, diventando il leader riconosciuto del mondo arabo, l’emblema dei movimenti anticoloniali africani e asiatici e l’attore senz’altro più importante della guerra fredda sulla scena mediorientale. Dieci anni di tregua

Dalla Campagna del Sinai (1957), alla guerra dei Sei Giorni (1967), Israele visse dieci anni di pace o meglio di tregua. Anni caratterizzati da un aumento della popolazione (Israele raggiunse poco meno di tre milioni di abitanti), da un miglioramento del tenore di vita, da grandi progressi nel campo agricolo. Le terre produttive si estesero e, grazie alla ricerca, migliorò la qualità dei prodotti,

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sempre più apprezzati sui mercati esteri. Nel giugno del 1964 venne completata, inoltre, la costruzione del grande acquedotto nazionale (il cui artefice fu Levi Eshkol succeduto nel 1963 a Ben Gurion come Primo Ministro) che avrebbe soddisfatto le necessità idriche di vaste zone un tempo desertiche. La società israeliana intanto stava subendo numerose trasformazioni, non tutte di segno favorevole: se i dati economici globali erano positivi, la distribuzione della ricchezza e quindi del peso politico all’interno del paese non lo era altrettanto. L’urbanesimo aveva indebolito la solidità della famiglia, la nuova generazione sembrava più dura, pragmatica, distaccata; verso la fine di questo decennio assistiamo a un esodo di giovani israeliani delusi o sfiduciati verso gli Stati Uniti. Aumentò la difficoltà di assimilazione dei nuovi immigrati che reclamavano più diritti, più peso politico e manageriale; nel complesso, quindi, in un paese cresciuto molto in fretta, vi era meno coesione rispetto ai giorni della Guerra d’Indipendenza e della vigilia della Campagna del Sinai. Nel 1961, assistiamo, però, a un grande momento di unificazione nazionale: il processo Eichmann. Fuggito in Argentina dove viveva sotto il nome di Richard Klement, Eichmann era stato il principale organizzatore ed esecutore del piano di sterminio degli ebrei, ordinato da Hitler. Catturato dai servizi segreti israeliani l’11 maggio 1960 e condotto a Israele, venne sottoposto a un lungo e accurato processo, vissuto dal paese con sgomento e passione. “Israele con questo processo – scrive Grayzel nell’opera Storia degli Ebrei – perseguì diversi scopi: dimostrare che solo in Israele gli ebrei potevano difendersi a viso aperto contro i loro aggressori; far capire che le grandi nazioni avevano fatto poco o nulla per impedire i delitti nazisti; far capire che i complici della brutalità nazista non erano stati puniti nemmeno con la sconfitta della Germania…”.9 Il processo, che ebbe il merito di coinvolgere i giovani israeliani che fino ad allora erano sembrati estranei al pathos dell’Olocausto (anche se molti continuavano a non spiegarsi perché si fosse subita tanta ignominia senza – salvo la resistenza nel ghetto di Varsavia – reagire in qualche modo), si concluse con la condanna a morte. Nel corso di questi dieci anni di tregua, però, i maggiori problemi per Israele provennero dai rapporti col mondo arabo. La Campagna del Sinai aveva fallito l’obiettivo principale: ottenere da un Nasser sconfitto un accordo di pace. Questi, che fra l’altro aveva appena intrapreso una difficile campagna contro lo Yemen, e che doveva fare i conti con una situazione economica critica, intuì che solo agitando la bandiera antisraeliana sarebbe riuscito a rafforzare la propria posizione in Egitto e a coagulare i consensi nel mondo arabo. La propaganda antisraeliana non disdegnò nessun basso espediente e riesumò perfino i famigerati Protocolli dei Savi di Sion. Impazzava fra gli arabi l’attesa di rivincita. Il successo più vistoso di questa linea nasseriana fu un primo “incontro al vertice” al Cairo nel gennaio del 1964 che mirava a impedire il completamento del grande acquedotto nazionale israeliano (che però rappresentava un opera di pace di grande utilità generale). L’anno dopo, nel luglio del 1965, un secondo vertice rivelò una strategia politica diversa: nasceva il quell’occasione l’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con due obiettivi: rovesciare in Giordania, la cui popolazione era in maggioranza palestinese, il regime di re Hussein e combattere in un tempo non determinato e con tutti i mezzi del terrorismo, lo Stato d’Israele (nella carta dell’OLP all’art. 15 si legge: “…liquidazione dell’entità sionista di Israele sul piano politico, militare, sociale, culturale…”). L’OLP nacque come un insieme di organizzazioni politico-militari, di varia tendenza, che affermavano, complessivamente, di rappresentare tutto il popolo palestinese. Tra i principali gruppi troviamo:

• Al Fatah (lett. Vittoria Militare), il gruppo più importante, guidato da Yasser Arafat • FPLP (Fronte Popolare di Liberazione della Palestina) • FDPLP (Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina) • FLA (Fronte di Liberazione Arabo)

9 Solomon Grayzel, Storia degli ebrei, Roma, Fondazione per la Gioventù ebraica, 1964, p.735, in Fausto Coen, Israele: quarant’anni di storia, Genova, Casa Editrice Marietti, 1991, p.75

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Lo stesso vertice del ’65 manifestò l’intenzione di soffocare i canali di irrigazione dell’acquedotto israeliano, deviando verso la Siria e il Libano le acque del corso superiore del fiume. La reazione di Israele fu immediata: duri attacchi al confine con la Siria fecero capire che gli israeliani erano decisi a difendere con ogni mezzo quella grandiosa opera di pace, facendo rientrare le ambizioni arabe. Mondo arabo a parte, i rapporti di Israele con i principali paesi europei, con gli Stati Uniti, con un gran numero di paesi emergenti erano buoni e la posizione del paese si poteva considerare consolidata e positiva. Nel maggio del 1966 si verificò, però, un evento sfavorevole allo stato ebraico: il premier dell’URSS Alexey Kossighin con un viaggio al Cairo stabilì uno stretto rapporto di collaborazione, di aiuti militari e di intesa politica fra URSS ed Egitto. Il nuovo fronte politico URSS-Egitto aveva un ulteriore punto di appoggio nella Siria dove, fin dal 1961, il partito Ba ’ath (Rinascita socialista) era salito al potere, rafforzandosi poi nel 1966 nella sua ala di sinistra con massicce nazionalizzazioni e una drastica riforma agraria. Dal 1966 dunque il polo Siria-Egitto-URSS si rafforzò portando a un accordo di mutua difesa fra Siria ed Egitto in senso antisraeliano, antioccidentale e filosovietico. Da questo quadro, in cui le tensioni al confine con la Siria e le azioni dei terroristi di Al Fatah si intensificavano progressivamente, sarebbe scaturita una nuova guerra.

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3. Dalla Guerra dei Sei giorni alla Guerra del Kippur

Abbiamo finora tentato di descrivere e, là dove possibile, di spiegare le circostanze che hanno portato alla nascita dello Stato d’Israele. Si è cercato dapprima di delineare le fondamenta culturali e ideologiche dell’identità nazionale ebraica, fortemente legata all’idea sionista, e di quella delle popolazioni arabe che, a partire dal 14 maggio 1948, si sono trovate a confinare con il nuovo stato. Poi abbiamo ricordato i principali avvenimenti politici, diplomatici e militari che hanno accompagnato i primi vent’anni di vita di Israele delineando uno scenario instabile, caratterizzato da una perenne conflittualità a volte latente, a volte sfociante in violenti scontri. Tale precaria situazione esplose nel giro di sette anni: la Guerra dei Sei giorni (giugno 1967) e la Guerra del Kippur (ottobre 1973) furono le due valvole di sfogo che sconvolsero gli equilibri territoriali e politici previsti dal piano di spartizione del 1947, e già intaccati dai conflitti del 1948 e del 1956. Verso la Guerra dei Sei giorni

Le prime premesse del conflitto che nel 1967 vide Israele scontrarsi con Egitto, Siria, Giordania, e che si risolse con una nettissima affermazione dell’IDF (l’esercito israeliano), sono ricollegabili ad alcune manovre politico-diplomatiche attuate nel decennio precedente dagli stessi paesi arabi confinanti con lo stato ebraico. Nel 1958, seppur per pochi mesi, Siria ed Egitto avevano dato vita alla Repubblica Araba Unita (RAU), sostenuta dalla giunta militare filo-egiziana che, sotto la guida di Abd al Karim al Qasim, aveva appena preso il potere in Iraq. Pur coesistendo differenti posizioni all’interno del mondo arabo, i governi siriano ed egiziano erano uniti dalla medesima avversione nei confronti dello Stato di Israele: in Siria il partito Ba’ath, salito al potere nel 1962, e il successivo governo militare guidato dal colonnello Jadid, fecero leva su istanze panarabiche e leniniste che accentuavano l’ostilità verso Israele e l’Occidente e che rafforzavano il legame tra la Siria e l’Unione Sovietica; dal canto suo Nasser aveva più volte affermato che l’unità nel mondo arabo sarebbe stata possibile soltanto con l’eliminazione di Israele. Il legame siro-egiziano fu rafforzato nel 1966 dall’accordo di difesa reciproco stipulato dai due paesi. Il confine tra Siria e Israele era il principale focolaio di tensione dell’intera area: innanzitutto vi era, fin dal 1951, una spinosa vertenza confinaria per la deviazione delle acque del Giordano settentrionale; in secondo luogo le autorità ebraiche avevano impedito ai profughi arabi il ritorno e la visita ai parenti; infine la presenza militare israeliana nell’area continuava ad essere forte, nonostante l’ONU si fosse pronunciata più volte a favore della smobilitazione. Le tensioni, accentuate da numerose incursioni di bande armate palestinesi lungo la frontiera siriana, sfociarono, il 7 aprile 1966, in una battaglia aerea nei cieli di Damasco in cui furono abbattuti sei velivoli siriani.

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I rapporti tra Israele e i paesi arabi confinanti a metà degli anni ’60 erano quindi tutt’altro che pacifici; contemporaneamente una serie di circostanze indusse tuttavia tutte le parti in gioco, e in generale l’intera comunità internazionale, a ritenere altamente improbabile l’ipotesi di un conflitto in tempi brevi. Nasser era infatti impegnato nella difficile scommessa dell’industrializzazione e della modernizzazione di un paese ancora fortemente provato dalla rivoluzione e dalla crisi di Suez. Una ingente parte dell’esercito egiziano, inoltre, aveva appena combattuto nella guerra civile scoppiata in Yemen nel 1962 a sostegno del governo filo-egiziano allora minacciato da ribelli monarchici appoggiati dall’Arabia Saudita, e non sembrava pronto ad un nuovo impegno militare. Anche la Siria era alle prese con una difficile situazione, dato che il colpo di stato del colonnello Jadid del 1966 aveva imposto l’epurazione dei precedenti quadri dell’esercito, e quindi la riorganizzazione pressoché totale delle forze armate. La Giordania era il paese arabo più moderato e meno interessato ad un conflitto, tanto che fu più volte accusata di collaborazionismo con Israele. Per quanto riguarda lo stato ebraico infine, la prima metà degli anni ’60 era stata segnata da una profonda recessione e vi era la necessità di riorganizzare i quadri militari, alle prese con l’assimilazione delle armi e delle tecnologie belliche appena giunte dagli Stati Uniti. A partire dal maggio 1967 si assommarono tuttavia voci che, da ambo le parti, segnalavano manovre militari a ridosso dei “punti caldi” dell’area; ne nacque un intricato garbuglio diplomatico di cui sono state date successivamente varie spiegazioni, ma che non è mai stato chiarito del tutto. A metà maggio i servizi segreti siriano e sovietico segnalarono la presenza di dieci o dodici divisioni israeliane lungo il confine con la Siria. Il rapporto era falso, poiché dieci o dodici divisioni avrebbero costituito la metà dell’esercito israeliano, che era invece distribuito più equamente sul territorio. A riguardo gli studiosi si dividono: c’è chi sostiene che si sia trattato di una trappola ordita da Israele per confondere le idee a Nasser10; chi afferma che l’Unione Sovietica abbia fornito informazioni false agli egiziani per far scoppiare un conflitto nell’area11; chi infine, come Thomas Fraser, ritiene semplicemente che il rapporto sovietico fosse inesatto, o meglio che non fosse stato verificato12. Le ultime avvisaglie e la guerra lampo

Nasser decise allora di mobilitare le proprie truppe sul Sinai, il 14 maggio. Gli israeliani fecero altrettanto, pur dichiarando che, a meno di un nuovo blocco navale nel golfo di Aqaba, non avrebbero attaccato. Il blocco navale egiziano fu puntualmente annunciato il 23 maggio, in aperta violazione dell’impegno americano a garantire, in seguito alla crisi di Suez, la libera navigazione nel Canale. Pochi giorni prima Nasser aveva intimato alle forze Unef (United Nations Emergency Force), che dal 1957 controllavano la zona del Sinai, di trasferirsi nella Striscia di Gaza; il Segretario generale delle Nazioni Unite, U Thant, senza consultare né l’Assemblea Generale, né il Consiglio di sicurezza, stabilì che l’opinione di Nasser in merito all’Unef non poteva essere ignorata e fece spostare il contingente Unef. L’indecisione americana sulla questione del blocco contribuì alla paralisi delle Nazioni Unite e suscitò in Israele un forte senso d’isolamento. Israele sapeva di non essere ancora in grado di sostenere una guerra lunga e, contrariamente ad ogni previsione, la mattina del 5 giugno, decise di sferrare un attacco a sorpresa, l’unico che avrebbe potuto portare ad una vittoria in tempi brevi. L’azione israeliana, progettata dal ministro della 10 Maurizio Scaini, Israele-Palestina. Il conflitto irrisolto, Milano, Edizioni Unicopli, 2002, p.64 11 Benny Morris, Vittime, Milano, Bur, 2003, p.386 12 Thomas Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Bologna, Il Mulino, 2002, p.86

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Difesa Moshe Dayan e dal capo di stato maggiore Ytzchaq Rabin, fu dirompente: il giorno dell’attacco, con un raid aereo, le aviazioni di Egitto, Siria e Giordania furono completamente distrutte, senza che un solo velivolo arabo fosse riuscito a decollare; le truppe terrestri dell’IDF (l’esercito israeliano), conquistarono il Sinai e quella parte di Gerusalemme chiamata West Bank; l’8 giugno infine fu la volta delle alture del Golan, sul confine siriano. Il 10 giugno la guerra, durata solamente sei giorni, finì, decretando la schiacciante supremazia militare e soprattutto strategica di Israele e la disorganizzazione delle truppe arabe, pure numericamente superiori rispetto a quelle nemiche. L’unico vero errore da parte israeliana fu l’affondamento del Liberty, una nave di sorveglianza americana; si trattò di un errore di identificazione, che pregiudicò per tutta la durata della presidenza Johnson le relazioni fra Israele e Stati Uniti. Dopo la guerra, tutto per Israele era cambiato: il senso di isolamento e di accerchiamento non avevano più motivo di esistere di fronte ad una situazione che vedeva quintuplicato il territorio dello stato (la superficie occupata da Israele era passata da 22.000 ad oltre 100.000 kmq). Il Cairo, Damasco ed Amman erano ora tutte a meno di 100 km dai nuovi confini; Israele controllava il Sinai ed il Golan e, soprattutto sentiva di essersi ricongiunto a Gerusalemme, l’eterna e tanto agognata capitale. Benny Morris, nel già citato Vittime, descrive così lo stato d’animo che si era diffuso tra gli israeliani in seguito alla vittoria: “Un’ondata di espansionismo a tinte messianiche spazzò il paese. I credenti parlarono di «miracolo» e di «salvataggio»; la Terra d’Israele era stata resa ai suoi antichi abitanti. Ma anche i laici erano fortemente emozionati. L’8 giugno l’editoriale di HaArez, autorevole quotidiano israeliano di orientamento liberale, affermava fra l’altro: «La gloria dei tempi antichi non è più una visione remota; d’ora in poi farà parte del nuovo stato, e il suo splendore illuminerà le imprese e i successi della società ebraica...» (...) Nello stesso tempo, la vittoria rinvigorì in Israele movimenti di opinione fortemente contrari alla cessione dei «territori». L’espansionismo, alimentato da un estremismo a tinte messianiche e dalla brama nazionalista di conquiste, attecchì in una minoranza sia religiosa sia laica la cui consistenza numerica era in crescita, trovò orecchi sensibili negli ambienti del governo e finì con l’attrarre nella propria orbita alcuni suoi membri”.13

13 Benny Morris, Vittime, Milano, Bur, 2003, pp. 415-416 e p.417

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Le conseguenze

Se da un lato la guerra aveva capovolto positivamente la situazione di Israele e infuso negli israeliani una nuova ottimistica consapevolezza, il mondo arabo pagò le conseguenze della sconfitta. Le perdite arabe ammontavano a 30.000 uomini, 450 aerei, 1.000 carri armati. La giunta militare siriana di Hafez Atassi fu rovesciata nel 1969 da Hafez al Assad, sostenuto dall’estrema sinistra militare, mentre la Giordania si trovò a fronteggiare nuovamente la guerriglia palestinese. L’Egitto, che pure aveva perso 20.000 uomini nel conflitto, accusò meno il colpo. Nel complesso, la sconfitta era stata dura, ma non disastrosa: ne è una prova il fatto che gli stessi paesi arabi, nel 1968, continuavano a rifiutare il diritto all’esistenza di Israele. Le questioni che ora tenevano banco sul piano diplomatico internazionale erano la gestione dei territori acquisiti dallo stato ebraico, ed il futuro dei nuovi profughi arabi, il cui numero era drasticamente aumentato. In Israele sorsero due correnti di pensiero contrapposte in merito all’utilizzo dei territori: da un lato Menachem Begin e molti esponenti della destra, ritenevano che le nuove acquisizioni (e in particolare la Cisgiordania e Gerusalemme) fossero parte inalienabile dell’identità spirituale ebraica; dall’altro il Primo Ministro Levi Eshkol ed in generale la maggioranza dei membri governativi aspiravano all’utilizzo dei territori come base negoziale per i trattati di pace con i paesi arabi. Inizialmente fu questa la posizione prevalente, anche se alcuni territori, ed in particolare Gerusalemme Est, non potevano essere considerati oggetto di trattativa. L’annessione della Città Santa da parte israeliana fu rapida e accompagnata dalla distruzione del quartiere arabo medievale della città vecchia, atto che suscitò la condanna di tutto il mondo arabo e dell’Unesco. La comunità internazionale sembrò accorgersi soltanto a guerra finita di quanto era successo e iniziò a mobilitarsi in seguito ai fatti di Gerusalemme. Gli Stati Uniti, che erano peraltro impegnati nella difficile guerra del Vietnam, e l’Unione Sovietica presero subito in mano le redini di un’azione diplomatica che fu condotta attraverso le Nazioni Unite col preciso intento di evitare un improvviso conflitto in Medio Oriente. Fin dall’inizio fu chiaro che la diplomazia non avrebbe avuto strada facile, dal momento che i paesi arabi si erano arroccati su posizioni sempre più anti-israeliane (nel vertice di Khartoum del 1968 i paesi confinanti con lo stato ebraico avrebbero ancora una volta negato il diritto di Israele all’esistenza) mentre gli israeliani non ritenevano possibile fare concessioni a coloro che li avevano minacciati fino a poco tempo prima. Si arrivò così, tra mille difficoltà, ad una risoluzione dell’ONU (la numero 242 del 22 settembre 1967), presentata dalla Gran Bretagna. Tale risoluzione riconosceva “la sovranità, l’integrità territoriale, e l’indipendenza politica di tutti gli stati dell’area e il loro diritto a vivere in pace all’interno di confini sicuri e riconosciuti, liberi da minacce o atti di forza”; affermava inoltre che ci sarebbe dovuta essere “una giusta soluzione del problema dei rifugiati” e che un eventuale accordo di pace tra Israele e gli stati arabi avrebbe dovuto includere “il ritiro delle forze armate di Israele da territori occupati durante il recente conflitto”. Quest’ultima frase portò alla rottura definitiva tra le parti, in quanto venne interpretata da Israele come un invito a ritirarsi solo da alcuni dei territori; secondo i paesi arabi essa si faceva invece riferimento a tutti i territori occupati. L’ambiguità della risoluzione era inoltre dovuta al fatto che la versione inglese discordava da quella francese: se nella prima si faceva riferimento al ritiro da zone occupate (come sostenevano gli israeliani), la seconda usava l’espressione “ritiro dai territori occupati”, avvalorando perciò la tesi araba. La pista diplomatica non sortì alcun risultato immediato, anche se la risoluzione 242 sarebbe stata utilizzata più proficuamente come base per i negoziati successivi. Israele, Egitto e Siria erano su posizioni troppo distanti tra di loro. Solo re Hussein di Giordania sembrava disposto ad una

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mediazione, ma la sua influenza politica era debole e soggetta alle decisioni di Nasser; quest’ultimo invece non solo non fece nulla per trovare un compromesso con Israele, ma perseverò inoltre nella chiusura del Canale di Suez, nonostante le ingenti perdite economiche che derivavano da questa scelta. La resistenza palestinese

L’unico vero cambiamento che si verificò in quegli anni fu il sorgere di una nuova consapevolezza fra i palestinesi, la cui condizione di profughi (che con la guerra erano diventati un milione e duecentomila circa) era stata ancora una volta ignorata nelle trattative dagli stessi paesi arabi. Il movimento per la liberazione della Palestina si emancipò dalla tutela di Egitto e Siria e si identificò nelle figure di Arafat, che sosteneva la priorità della liberazione dei palestinesi, e di Habbash, che invece considerava come unica soluzione una rivoluzione contemporanea di tutto il mondo arabo. Si registrò nel contempo la nascita di un nuovo nazionalismo arabo, non più legato a posizioni laiche e antimperialiste, ma basato sui dettami dell’Islam politico, con relativi rimandi alla guerra santa. Arafat diresse personalmente, tra il 1967 e il 1968 una campagna clandestina di Al Fatah in Cisgiordania. Tale azione di guerriglia non sortì alcun effetto, ma contribuì a rafforzare la credibilità di Arafat come leader del movimento. Nell’estate del 1968 la supremazia ottenuta dal capo di Al Fatah all’interno del movimento lo indusse ad una radicale riforma dell’Olp: la Carta nazionale del 1964 venne modificata e modellata sulle basi di quella che era diventata la nuova strategia dell’Organizzazione: la lotta armata contro Israele. Già nel dicembre 1968 si verificò una serie di attacchi contro l’El Al (la compagnia aerea di linea israeliana) e altre compagnie che effettuavano voli di linea su Israele. Tali operazioni furono i primi esempi della nuova linea politico-militare assunta dai vertici del movimento palestinese di liberazione. Se per la resistenza palestinese Israele era senza dubbio il nemico per eccellenza, tuttavia il primo vero campo d’azione della guerriglia dei fedayin di Arafat e Habbash fu la Giordania. Il potere di Hussein era sempre meno tollerato dai profughi palestinesi, fra i quali maturava sempre di più la consapevolezza di far parte di uno stato a sé stante all’interno del territorio giordano. Alla guerriglia portata avanti da Al Fatah e dal Fplp (Fronte popolare per la liberazione della Palestina) re Hussein rispose con un atto di forza che, nel settembre 1970, portò alla morte di circa 4.600 palestinesi, di cui 4.000 civili. Lo scontro prese il nome di “Settembre Nero” e segnò una fase decisiva nella storia palestinese; fu intrapresa la via degli attentati terroristici, che secondo Habbash dovevano essere compiuti anche al di fuori dell’area mediorientale con azioni spettacolari miranti a catalizzare l’attenzione della comunità internazionale. In uno di questi attentati, nel 1972, dei membri di un gruppo chiamato proprio “Settembre Nero”, e forse facente capo ad Al Fatah, spararono a undici atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco. Nessun altra cornice avrebbe potuto garantire maggiore visibilità al movimento. I prodromi della Guerra del Kippur

Se la Guerra dei Sei giorni era scoppiata nell’indifferenza generale della comunità

internazionale (Unione Sovietica e Stati Uniti in primis), la Guerra dello Yom Kippur del 1973 fu

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preceduta da una fitta trama di giochi diplomatici, organizzata per lo più dalle due superpotenze mondiali che si erano ormai rese conto dell’importanza strategica del Medio Oriente e della necessità di gestirne le sorti in prima persona. L’attenzione dell’Unione Sovietica si concentrò sull’Egitto, la cui consistenza demografica e militare non poteva essere trascurata, e sulla Siria, paese fondamentale per la sua posizione strategica, centro geometrico dell’area mediorientale. I sovietici cercarono fin dal 1967 di fare dell’Egitto un avamposto militare da cui controllare la sesta flotta statunitense e inviarono a tal fine oltre 14.000 esperti militari nel paese e 60 navi nel Mediterraneo orientale; inoltre crearono un enorme sistema di difesa missilistico, secondo soltanto a quello che proteggeva Mosca. Dal canto loro gli Stati Uniti strinsero in quegli anni uno stretto patto di alleanza con Israele, basato fondamentalmente sull’acquisto di armi e tecnologie americane da parte dello stato ebraico e sulla gestione degli equilibri geopolitici del Medio Oriente. Gli israeliani, coadiuvati dal periodo di espansione economica che aveva seguito la Guerra dei Sei giorni, acquistarono cinquanta caccia Phantom dagli Stati Uniti per sostituire i loro aerei francesi, ormai superati dal punto di vista tecnologico. Nel biennio 1970-71 la spese per la difesa dello stato arrivarono a coprire il 25% del PIL. Nell’ambito delle relazioni israelo-statunitensi fu decisivo il ruolo dell’Aipac (American Israel Public Affair Commitee), l’agenzia che, gestendo il serbatoio di voti della comunità ebraica statunitense, era in grado di influenzare notevolmente la scelta dei candidati alle elezioni presidenziali americane. Verso la fine degli anni ’60, contemporaneamente al verificarsi di nuovi scontri tra egiziani ed israeliani lungo il Canale di Suez, l’amministrazione Nixon si fece promotrice di un nuovo piano di pace che prese il nome dal suo ideatore, il Segretario di Stato americano William Rogers. Sulla base del piano Rogers (che, annunciato il 9 dicembre 1969, costituiva un’importante interpretazione della risoluzione 242) la pace avrebbe dovuto essere consolidata dall’istituzione di zone demilitarizzate lungo i confini anteriori alla guerra del 1967. Ciò avrebbe significato il ritiro quasi totale dell’esercito israeliano dai territori conquistati e la spartizione amministrativa di Gerusalemme in una zona israeliana e in una giordana, al fine di contenere il senso di “frustrazione” dei profughi palestinesi. Né Israele né l’Aipac vollero accettare condizioni tanto restrittive e fecero naufragare il piano, confermando l’analisi pessimistica fattane dal consigliere per la sicurezza nazionale di Nixon, Henry Kissinger; questi sarebbe diventato il principale protagonista dal punto di vista diplomatico degli anni immediatamente successivi alla Guerra del Kippur. Se il fallimento del piano Rogers costituiva un’ulteriore avvisaglia dell’imminenza di un nuovo conflitto arabo-israeliano, i già difficili colloqui fra le parti furono definitivamente interrotti dalla morte di Nasser, avvenuta nel settembre 1970 e dovuta ad un arresto cardiaco. Il successore di Nasser fu Anwar al-Sadat, all’epoca vicepresidente. Questi si presentò da subito come un uomo risoluto, deciso a riappropriarsi del controllo del Sinai e quindi del Canale di Suez. Le prime decisioni del nuovo presidente egiziano decretarono una svolta economica: una serie di riforme di matrice liberista tese ad attirare gli investimenti stranieri e che non avevano niente a che vedere col socialismo nasseriano. Per quanto riguarda la politica estera, Sadat si era reso conto che per negoziare il ritiro israeliano dal Sinai bisognava trattare anche con gli Stati Uniti e decise di tagliare, almeno in parte, i legami che Nasser aveva intrecciato con l’Unione Sovietica, espellendo, nel luglio 1972 i circa quindicimila consiglieri sovietici presenti in Egitto. I tentativi di riavvicinare le parti compiuti dall’amministrazione americana tuttavia, come già detto, non avevano sortito effetti e il presidente egiziano capì presto che sarebbe stato difficile ottenere concessioni da Nixon il quale, fra l’altro, era ancora impegnato dalla situazione in Vietnam e aveva bisogno, per la rielezione, dei voti controllati dall’Aipac. L’unica strada verso la negoziazione con Israele sembrava così essere quella di una guerra dagli obiettivi limitati da combattere a fianco della Siria di Assad e con l’appoggio, seppur flebile, della Giordania di Hussein.

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La guerra del 1973

Il giorno scelto per l’inizio delle ostilità fu il 6 ottobre 1973, giorno dello Yom Kippur, la festa più sacra del calendario ebraico, per la quale vengono sospese tutte le attività del paese. La scelta di tale data sorprese gli israeliani, che erano impegnati con le elezioni politiche e che non ritenevano probabile un attacco durante il mese di Ramadan. Gli americani erano inoltre assorbiti dallo scandalo Watergate, mentre l’Europa non aveva definito una linea unitaria per il Medio Oriente. Sadat fu abile nell’ingannare gli israeliani, effettuando scelte iniziali che, sulla carta, indussero gli avversari a giudicare le truppe arabe disorganizzate come nel 1967. In realtà le cose erano cambiate, soprattutto dal punto di vista dei mezzi militari: una parte dell’aviazione israeliana fu infatti abbattuta dalla contraerea missilistica egiziana, e questo permise alle forze di Sadat di avanzare nel Sinai per venticinque miglia. L’8 ottobre ebbe inizio l’offensiva siriana sul Golan; nel frattempo l’esercito israeliano si era organizzato e passò al contrattacco, guadagnando posizioni e giungendo fino alla periferia di Damasco. Le sorti del conflitto cambiarono in fretta, tanto che gli israeliani rallentarono i contatti tra Mosca e Washington per un eventuale armistizio e affrettarono l’offensiva sul Sinai, superando il fronte egiziano e arrivando nelle prossimità del Cairo. La possibilità di uno scontro aperto nelle due capitali arabe spaventò l’Unione Sovietica, che minacciò di intervenire direttamente nel conflitto, mentre la sesta flotta statunitense stanziata nel Mediterraneo orientale si portò in prossimità di quella sovietica. L’estensione del conflitto alle due superpotenze sembrava imminente, ma fu scongiurata dalla decisione dei paesi dell’OPEC di alzare il prezzo del petrolio a tutti i governi filoisraeliani; tale misura determinò una forte recessione, che colpì in modo particolare l’Europa. Gli americani, preoccupati per le sorti del loro principale alleato e partner economico, capirono che era giunto il momento di arrivare ad un accordo; l’Unione Sovietica, che temeva la disfatta dell’Egitto, giunse alla medesima conclusione. Il Consiglio di Sicurezza si riunì il 28 ottobre; nel frattempo gli israeliani fecero indietreggiare le proprie truppe nel territorio egiziano, dando il via ad una fase di maggiore distensione. Tale manovra facilitò il compito alle Nazioni Unite che poterono emanare la risoluzione 338, con la quale, seguendo e completando la linea della risoluzione 242, vennero fissate le basi necessarie all’avvio dei negoziati per la costituzione di un accordo di pace durevole. Tale accordo era ora possibile, perché, contrariamente a quanto avvenuto dopo la guerra del 1967, i rapporti di forza si erano riequilibrati. Israele poteva affermare ancora una volta di aver avuto la meglio sui nemici sul campo, tuttavia non era riuscito a confermare la propria invincibilità (le perdite furono considerevoli per entrambe le parti). Egitto e Siria non avevano recuperato i territori persi nel 1967, ma erano riusciti ad ottenere la possibilità di rinegoziarli; inoltre i paesi arabi avevano dalla loro “l’arma del petrolio”, un fondamentale mezzo di pressione da utilizzare nelle trattative con Israele e l’Occidente.

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Il percorso della diplomazia: dal 1973 al vertice di Camp David del 1979

La fine delle ostilità, avvenuta il 27 ottobre 1973, fu un risultato importante e per nulla scontato, fermamente voluto da Henry Kissinger che, da allora e per il successivo quinquennio, si sarebbe ritagliato un ruolo da protagonista nello scenario diplomatico mediorientale. Egli, nel 1973, era stato appena riconfermato nella carica di segretario di stato dal presidente Nixon; questi, all’epoca, si trovava invischiato nello scandalo Watergate e fu costretto a concentrare l’attenzione su di esso, tanto che decise di assegnare una responsabilità particolare a Kissinger nella conduzione delle trattative diplomatiche tra Israele e i paesi confinanti. Pochi segretari di stato avevano potuto godere di una tale autorità . Nel giro di pochi giorni, a conflitto ancora in corso, Kissinger riuscì a preparare la risoluzione 338 assieme al primo ministro sovietico Kosygin, quindi a convincere il premier israeliano Golda Meir dell’insensatezza di continuare a combattere sulla riva occidentale del Canale di Suez, poiché essa sarebbe tornata all’Egitto in ogni caso; vietò inoltre agli israeliani, quando stava per profilarsi un intervento sovietico, di umiliare la terza armata egiziana, pena la sospensione degli aiuti militari statunitensi. Ottenuto il cessate il fuoco, Kissinger volle che i negoziati procedessero sotto la sua guida e che seguissero un percorso fatto di passi graduali, come spiega Thomas Fraser: “si doveva individuare uno scopo chiaramente raggiungibile, la cui realizzazione avrebbe contribuito a costruire la fiducia tra le parti. Raggiunto quel livello di fiducia, si sarebbe potuto passare alla negoziazione del passo successivo.”14

Prima di procedere nella disamina delle trattative diplomatiche che portarono all’accordo israelo-egiziano del 1979, è necessario tuttavia descrivere i principali cambiamenti che interessarono gli stati belligeranti in seguito al conflitto. Come già sottolineato alla fine del paragrafo precedente, lo Stato d’Israele uscì assai ridimensionato dal conflitto, nonostante l’indiscussa superiorità militare; la popolazione ebraica, nuovamente investita dalla paura e dall’insicurezza, chiese e ottenne le dimissioni di Golda Meir, in seguito a un rapporto della commissione di inchiesta israeliana sulla gestione della guerra (a sostituirla fu Ytzchaq Rabin). A inquietare gli israeliani furono poi la rinnovata sensazione di essere isolati diplomaticamente e accerchiati dall’ostilità araba; i paesi dell’OPEC, per un certo periodo stabilirono prezzi del greggio diversi per ogni stato, inversamente proporzionali al grado di ostilità di questi nei confronti di Israele. In questo contesto di permanente tensione e conflittualità, lo stato ebraico considerò vantaggioso trovare una soluzione politica, piuttosto che mantenere uno stato di guerra dai costi sempre più elevati. In cambio della cessione della quasi totalità dei territori occupati durante la Guerra dei Sei giorni Israele richiedeva la demilitarizzazione del Sinai, la sicurezza sui confini meridionali, la libertà di navigazione sul Canale di Suez ed un accordo di non belligeranza con l’Egitto. Diametralmente opposta era la situazione per l’Egitto, la Siria e, in generale, l’intero mondo arabo. Le dimensioni del divario tecnologico-militare nei confronti di Israele si erano sicuramente ridotte e il petrolio, oltre ad essere diventato un nuovo potentissimo mezzo di pressione, aveva rafforzato la credibilità e l’unità politica dei governi arabi. Sadat aveva raggiunto l’obiettivo desiderato (l’opportunità di rinegoziare i territori persi nel 1967) e doveva inoltre far fronte ad una difficile situazione economica che non poteva sopportare nuovi conflitti nel breve periodo. Gli Stati Uniti infine contavano di estendere la loro influenza su alcuni Stati arabi a danno dell’Unione Sovietica e miravano a non alienarsi le simpatie dei paesi petroliferi. Tutte le parti, con l’eccezione dei siriani e dei palestinesi, erano quindi pronte ad aprire le trattative. Il 21 dicembre si tenne a Ginevra la Conferenza di Pace, con la presenza di Stati Uniti, Unione Sovietica, Egitto e Giordania, mentre nel successivo incontro, il 18 gennaio 1974, vennero definiti i 14 Thomas Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Bologna, Il Mulino, 2002, p.108

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termini della tregua (ritiro delle truppe israeliane da Suez e riapertura del Canale da parte di Sadat). Riportiamo qui il passo finale dell’accordo del 1974, che faceva trasparire un cauto ottimismo e che dimostrava l’evidente mano di Kissinger nella conduzione delle trattative: “Questo accordo non è considerato da Egitto e Israele come quello della pace definitiva. Costituisce il primo passo verso un finale, giusto e durevole accordo di pace secondo le previsioni della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 338 ed entro lo schema della Conferenza di Ginevra”. Se la situazione sul confine israelo-egiziano era in via di stabilizzazione, i maggiori problemi per la sicurezza degli equilibri mediorientali venivano dall’altro nemico storico di Israele: la Siria di Assad. Questi non aveva voluto partecipare alle trattative per la negoziazione dei territori e pretendeva il ritiro israeliano dalle alture del Golan; a tal proposito nella primavera del 1974 erano ripresi gli scontri sul confine siro-israeliano. A trovare uno spiraglio per le trattative fu nuovamente Kissinger che convinse Assad a partecipare ai colloqui diplomatici in cambio di promesse di assistenza tecnologica alla Siria da parte degli Stati Uniti. Si arrivò così ad un accordo, ratificato a Ginevra il 31 maggio 1974, che prevedeva una tregua immediata, il ritiro israeliano oltre i confini preesistenti alla Guerra del Kippur, il conseguente avanzamento siriano e l’istituzione di una zona di sicurezza presidiata dalle forze dell’ONU. Un anno dopo anche l’Europa partecipò alle trattative, firmando un’intesa economica con Israele, intesa che portò alla creazione di un’area di libero scambio euro-israeliana. Nel corso del 1975 si verificò tuttavia una battuta d’arresto nel processo di negoziazione. Tutto nacque da un raid compiuto da Al Fatah contro un hotel sulla costa di Tel Aviv che provocò l’uccisione di diciotto israeliani; si trattava di un atto intimidatorio, compiuto con l’intenzione di far arretrare ulteriormente i nuovi confini israeliani, che però convinse Israele della necessità di mantenere il controllo militare sui valichi di Mitla e Gidi i quali, secondo gli accordi, sarebbero dovuti rientrare nel territorio egiziano. Le trattative vennero così nuovamente congelate, e all’amministrazione di Washington, indebolita dallo scandalo Watergate e dalla drammatica situazione del Vietnam del Sud, non restò che minacciare, per bocca di Kissinger, una “revisione” della politica mediorientale americana. Il governo israeliano era consapevole del fatto che la cosiddetta “revisione” lo avrebbe svantaggiato e infatti questo sembrò essere l’indirizzo delle successive mosse di Kissinger e del presidente Ford, i quali minacciarono di ritrattare il pacchetto di aiuti di due miliardi e mezzo di dollari che stava per essere discusso dal Congresso. L’Aipac decise allora di dispiegare, con una lettera firmata da settantasei senatori, tutto il proprio potere politico, al fine di contrastare tale misura. Le divergenze si appianarono e il 21 agosto Kissinger, recatosi in Medio Oriente, riuscì a persuadere il governo israeliano della necessità di proseguire sulla strada delle trattative con l’Egitto, garantendo ad Israele un futuro appoggio economico e politico da parte statunitense, e promettendo che gli Stati Uniti non avrebbero riconosciuto l’Olp finché l’organizzazione non avesse accettato le risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza. Arrivati a tal punto, appare necessario tentare di spiegare il ruolo assunto dalla stessa Olp (e in generale la situazione dei palestinesi) in seguito alla Guerra del Kippur, poiché le trattative del processo di pace non affrontarono mai direttamente la questione. Questo fu sicuramente il limite principale dei negoziati diretti da Kissinger, che avevano quindi trascurato uno degli aspetti centrali del problema, anche a causa dell’incapacità delle autorità palestinesi di trovare una posizione univoca in merito ai rapporti con Israele e alla gestione dei territori della Cisgiordania. Fino al 1967 la maggioranza dei palestinesi si era raccolta dietro i dettami della Carta Nazionale, ma le due guerre successive avevano mostrato come la presenza di Israele nel Medio Oriente non potesse essere semplicemente ignorata e considerata illegittima; rimanere su queste posizioni intransigenti avrebbe significato l’autoesclusione da ogni trattativa riguardante i territori e la gestione del problema dei profughi. I vertici dell’Olp, consapevoli di ciò, si trovavano ora di fronte a un dilemma: da un lato l’implicita accettazione dell’esistenza d’Israele, pur permettendo soltanto di sperare nell’ipotesi di un “mini-stato” palestinese in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, era una condizione imprescindibile per l’avvio di qualsiasi negoziazione; dall’altro quest’ipotesi non avrebbe avuto alcun significato per le centinaia di migliaia di profughi che vivevano in Libano o in Giordania e che costituivano la principale base di reclutamento di Al Fatah. Questa ambiguità di

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fondo andava risolta ad ogni costo e, almeno sulla carta, nel biennio 1974-1975 si procedette in tale direzione. Nel luglio 1974 il dodicesimo Consiglio nazionale di Palestina si pronunciò a favore dell’ipotesi del “mini-stato”, sul quale l’Olp avrebbe detenuto la sovranità. La formula in cui il Consiglio afferma questa scelta fu scritta in termini volutamente ambigui, affinché lasciasse pensare ai palestinesi del Libano e della Giordania che il “mini-stato” sarebbe stato la base per la successiva liberazione dell’intero paese. Nonostante l’avversione di Habbash e del Fplp nei confronti di tale soluzione, il vertice dei paesi arabi, riunitosi a Rabat il 28 ottobre 1974, riconobbe l’Olp come un governo in esilio, considerandolo il “rappresentante legittimo del popolo palestinese”. Arafat colse l’opportunità derivante da questo riconoscimento e riuscì a convincere l’Assemblea Generale dell’Onu a conferire all’Olp lo status di osservatore delle Nazioni Unite. L’Organizzazione palestinese si trovava su posizioni ancora molto distanti da quelle israeliane e lo stesso stato ebraico continuava a guardare Arafat con estrema diffidenza; tuttavia era stato fatto un notevole passo in avanti verso la possibilità di negoziati futuri tra palestinesi ed israeliani. Tale possibilità si allontanò nuovamente quando, nel 1975, la maggior parte dei palestinesi rifugiatisi in Libano si alleò con la minoranza sciita del paese contro la componente maggioritaria (e detentrice del potere) della popolazione , costituita da cristiani maroniti. La guerra civile si risolse in una disfatta per le forze musulmane e per le sorti palestinesi: i profughi dei campi libanesi, la cui rivolta fu repressa con violenza, videro peggiorare le proprie condizioni, mentre l’Olp, coinvolta inevitabilmente nella guerra, non poté sfruttare i passi avanti a livello diplomatico fatti tra il 1974 e il 1975. Nel 1976 i negoziati tra Egitto e Israele proseguirono sotto la guida del presidente americano Jimmy Carter, eletto in quello stesso anno; questi, fermamente convinto che gli Stati Uniti dovessero difendere i diritti umani nel mondo, considerava l’accordo di pace israelo-egiziano una priorità per la politica estera americana. Lo Stato d’Israele intanto si stava preparando ad un’importante svolta nella politica interna: il partito laburista, allora al governo, era lacerato dalle rivalità interne e, in particolare, dalla lotta tra il primo ministro Rabin e l’altro personaggio guida, Shimon Peres. Nel 1977 il partito aveva perso la sua stabilità e gran parte del consenso, e fu costretto a cedere il potere al Likud di Menachem Begin, la principale forza della destra israeliana. Begin si distingueva da Rabin per un approccio totalmente diverso alla questione dei territori in Cisgiordania: se l’idea dell’ex primo ministro era stata quella di una gestione pragmatica del problema, per Begin i territori costituivano una parte inalienabile dello stato e dell’identità ebraici. I palestinesi, secondo il capo del Likud, non avevano diritto ad una patria in Cisgiordania, contrariamente a quanto ritenuto da Carter. Alcuni sostenitori di queste teorie avevano costituito nel 1974 il Gush Emunim (“Blocco dei credenti”), una sorta di partito nazionale religioso, facente parte della coalizione di governo guidata da Begin; questo gruppo si proponeva di “costruire realtà”, creando nuovi insediamenti nei territori per allargare progressivamente il territorio dello stato. Begin, anche se i suoi personali convincimenti lasciavano presagire tutt’altro, era deciso a continuare l’azione diplomatica intrapresa dal suo predecessore, e a tal fine assegnò a Moshe Dayan, da tempo favorevole a iniziative di pace con gli arabi, la poltrona di ministro degli Esteri. Le trattative di pace israelo-egiziane subirono nel 1977 una svolta improvvisa quanto spettacolare: il 9 novembre Sadat annunciò all’Assemblea del popolo egiziano di essere “disposto ad andare fino alla fine del mondo”; si sarebbe recato cioè in Israele per riferire alla Knesset della disponibilità egiziana ad abbattere la “barriera psicologica” che ancora separava gli israeliani e gli egiziani. Il 20 novembre Sadat pronunciò lo storico discorso di fronte al parlamento israeliano, esponendo le proprie condizioni per l’accettazione del piano di pace. Riportiamo qui una parte del discorso del presidente egiziano: “non sono venuto per un accordo di pace separato fra Egitto e Israele (...) sono venuto (...) per costruire una pace stabile fondata sulla giustizia (...) Israele è ormai un fait accompli. (...) noi siamo veramente e sinceramente disposti ad accogliervi in pace e sicurezza (...) [Ma Israele deve] una volta per tutte rinunciare ai sogni di conquiste, e all’idea che la forza sia il miglior modo di trattare con gli arabi (...) Ci sono territori arabi che Israele ha occupato e ancora occupa con la forza. Insistiamo per il completo ritiro da questi territori, compresa Gerusalemme

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araba (...) Non può esserci pace senza i palestinesi (...) Non riconoscere i palestinesi e il loro diritto a una patria è privo di senso”. Come si può vedere, Sadat richiese che i confini dello Stato d’Israele tornassero quelli precedenti la Guerra dei Sei giorni. Begin, che era disposto ad accettare il ritiro totale dal Sinai, non intendeva fare concessioni sulla Cisgiordania e su Gerusalemme, rifiutando di fatto le condizioni di Sadat (che era appoggiato da Carter). Si arrivò così ad una nuova situazione di stallo, aggravata da un attentato compiuto l’11 marzo 1978 da un gruppo di terroristi palestinesi, nel quale furono uccisi trentacinque israeliani. A settembre Carter decise di convocare Sadat e Begin a Camp David per cercare di ottenere i frutti del suo impegno in politica estera. Inizialmente le posizioni sembrarono ancora troppo distanti: Begin voleva firmare un trattato di pace bilaterale con l’Egitto senza rinunciare agli insediamenti a Gaza e in Cisgiordania; Sadat, che intendeva comunque tornare in Egitto con in mano un accordo, richiedeva il ritiro totale degli israeliani dal Sinai (che Begin avrebbe accettato) e una sostanziale autonomia per i palestinesi in Cisgiordania. Alla fine si arrivò alla firma dell’Accordo-quadro per la conclusione della pace tra Egitto e Israele che prevedeva il ritiro totale delle truppe israeliane dal Sinai e il conferimento dell’autonomia e della possibilità di autogoverno ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania; Begin, come fu chiaro successivamente, intendeva soltanto proclamare una vaga “autonomia personale” dei palestinesi e rischiò con questa sua ammissione di far naufragare nuovamente il processo di pace. I palestinesi nel frattempo si sentirono traditi sia da Israele che da Sadat stesso; quest’ultimo preferì comunque tornare in patria con un risultato che pure non era quello auspicato prima del vertice ma che avrebbe garantito una sorta di “pace fredda” per gli anni a venire: il Trattato di pace tra la repubblica araba d’Egitto e lo Stato d’Israele, firmato a Washington il 26 marzo 1979. La pace si mostrò abbastanza solida, tanto da superare il colpo dell’uccisione di Sadat avvenuta il 6 ottobre 1981 ad opera di soldati egiziani a lui ostili. Israele era riuscito a trattare col suo nemico più importante, ma aveva deciso di ignorare ancora una volta la questione dei profughi palestinesi. Questa noncuranza avrebbe avuto d’ora in poi un peso enorme sulle sorti dello stato ebraico.

I nuovi confini israelo-egiziani in seguito alla pace del 26 marzo 1979

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4. Dal 1979 ai giorni nostri: il difficile processo di pace Gli anni ’70 si chiusero con una panoramica abbastanza definita del Medio Oriente: Arafat e

i suoi seguaci avevano approfittato con successo della vittoria israeliana nella guerra del ’67, sfruttando l’umiliazione dei paesi sconfitti e riuscendo a conquistare la leadership del movimento nazionale palestinese. Israele, affiancato dagli Stati Uniti, aveva visto aprirsi uno spiraglio nell’ancora lungo cammino verso la pace con il mandato di Y. Rabin e con i primi anni del governo del Likud; per la prima volta si era arrivati a gesti e accordi di mutuo riconoscimento con l’Egitto. Tali trattative avevano dimostrato la possibilità di instaurare delle relazioni pacifiche tra lo stato ebraico e lo stato arabo sulla base del riconoscimento reciproco e del rispetto delle frontiere. Nonostante tali premesse, tuttavia, nel 1982, una nuova guerra avrebbe nuovamente compromesso i fragili equilibri mediorientali. La guerra civile e l’ intervento israeliano in Libano

Gli anni ’80 iniziarono senza grandi cambiamenti: nell’80 passò alla Knesset la legge che

proclamava Gerusalemme capitale dello Stato di Israele e nell’81 l’esercito ebraico rioccupò le alture del Golan violando la “zona cuscinetto” posta sul confine siriano dagli accordi di non belligeranza del 1973, accordi tuttora in vigore. L’anno seguente tuttavia le tensioni in Medio Oriente si riaccesero: la guerra civile cominciata in Libano nel ’75 si aggravò bruscamente nel momento in cui lo stato si frantumò in una molteplicità di fazioni appoggiate dalle principali potenze straniere. La Siria sosteneva alternativamente i cristiani e i palestinesi-progressisti mostrando apertamente la volontà di riunificare il paese a proprio vantaggio sulla base dell’antico desiderio di creare col Libano un unico stato arabo. Gli israeliani moltiplicarono le azioni di rappresaglia contro i profughi palestinesi del sud del Libano, responsabili nel 1978 di un attentato contro un autobus sulla strada per Tel Aviv. Il 6 giugno 1982, con la collaborazione delle forze cristiano-maronite libanesi, intrapresero un offensiva di grande portata chiamata “Pace in Galilea”e finalizzata a liquidare l’ OLP. L’organizzazione, svincolatasi dalle ingerenze degli altri stati arabi, era in effetti riuscita a ritagliarsi ampie sfere di autonomia nel paese, tanto da riuscire a istituire tribunali, imporre tasse, arruolare giovani, rivedere i programmi scolastici in modo da fornire un addestramento e un’ideologia paramilitari. Aveva inoltre creato una rete di stazioni radio, diversi giornali, un istituto di ricerca ed un’ agenzia stampa, e soprattutto un vasto apparato burocratico. L’espansione dell’OLP fu ulteriormente agevolata dal riconoscimento diplomatico che aveva ottenuto da oltre cinquanta paesi e dal sostegno degli stati del Golfo. All’interno dei campi profughi palestinesi iniziarono a circolare manifesti esaltanti l’immagine mistica dei fedayin. Chi sono i fedayin? Dal 1967 i palestinesi avevano creato tre immagini eroiche : i feday (letteralmente “chi sacrifica se stesso”), ritratti con il kalashnikov in pugno e la kefiya, rappresentavano un immagine moderna del guerriero della fede contro il sionismo. Il fellah (o “sopravvissuto”), incarnava la tenacia e la

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resistenza all’oppressore. Il shahid (o “figlio della pietra”), era il martire disposto a morire per la causa nazionale. La figura del feday divenne simbolo predominante a cavallo tra gli anni ’60 e ’70; negli anni ’80 prevalsero invece le altre due figure. Ritroviamo l’ immagine dei fedayin in alcuni versi del poema Lament: “Lungo i muri dei vicoli bui, si annuncia la morte dei nostri compagni, che sorridono dai manifesti”. 15 Il presidente dell’OLP Arafat era oramai di fatto diventato un capo di stato, ( o, meglio, di uno stato nello stato). Da subito le autorità libanesi, come era avvenuto precedentemente con quelle giordane, cominciarono a temere che l’autonomia dell’Organizzazione avrebbe finito col determinare conseguenze disastrose. Tornando allo svolgimento della guerra, oltre che all’eliminazione dell’OLP dal Libano, Israele mirava a portare al potere il Fronte Libanese di Bachir Gemayel, al fine di guadagnarsi un prezioso alleato. Inizialmente si trattava di occupare solamente una banda di quarantacinque chilometri a nord dello stato ebraico, ma in realtà l’offensiva proseguì fino a Beirut. Il conflitto mostrò allora i limiti dell’ influenza diplomatica del Presidente Reagan , il quale per far prevalere una soluzione politica e diplomatica dovette aspettare la nomina di un nuovo Segretario di Stato, George Schultz. Questi, successore di A. Haig (sostenitore incondizionato di Israele), era un uomo d’affari conosciuto per i suoi legami con i sauditi. Si arrivò ad un accordo firmato nell’ agosto 1982 in base al quale l’OLP accettava di lasciare Beirut ed il paese entro il 30 agosto. Inoltre Israele si sarebbe ritirata dalla maggior parte del territorio libanese mantenendo il controllo solo sulla “zona cuscinetto” creata nel ’78 lungo il confine; venne deciso inoltre che tutti i palestinesi rifugiati a Beirut ovest avrebbero potuto essere evacuati grazie ad una Forza Multinazionale d’Interposizione, l’FMI, e rifugiarsi in vari paesi arabi quali la Giordania, la Siria, lo Yemen del sud, e la Tunisia. In quest’ultimo paese trovò accoglienza Arafat che installò a Tunisi il nuovo quartier generale dell’ OLP. Il 23 agosto Gemayel fu eletto presidente ma fu assassinato pochi giorni dopo, il 14 settembre; la sua morte privò Israele di un prezioso alleato. La guerra del Libano è da considerarsi come la prima combattuta su larga scala tra israeliani e palestinesi dopo il 1949. Nonostante l’eliminazione delle basi dell’ OLP dal paese, la pace non venne raggiunta: le divisioni interne avevano lasciato il paese nell’anarchia e sotto l’ influenza delle potenze straniere. In settembre, in seguito all’assassinio del capo della milizia cristiana, le truppe israeliane invasero Beirut ovest provocando un massacro tra i rifugiati musulmani nei campi di Sabra e Shatilla. Questo evento produsse un’ eco rilevante nel mondo intero e indusse il governo di Begin a costituire nel febbraio 1983 una commissione d’ inchiesta per stabilire il grado di responsabilità dei militari israeliani nella strage. Il responsabile della vicenda fu individuato nell’allora ministro della Difesa israeliano, Ariel Sharon. La Siria, pur continuando a mantenere il controllo sul paese, uscì indebolita dal conflitto; al contrario, Israele, malgrado le perdite, rinforzò la sua influenza sulla regione mediorientale. A partire dall’anno seguente la situazione andò deteriorandosi in quanto la presenza dell’ FMI risultava sempre meno gradita ai siriani che reagirono incrementando gli attacchi terroristici. In ottobre il Segretario di Stato americano denunciò Siria, Iran e Unione Sovietica (la principale fornitrice di armi allo stato siriano) e proclamò il ritiro dei contingenti occidentali di stanza in Libano. Il rimpatrio, che fu completato solo nel febbraio 1984, ebbe come conseguenza la frantumazione della società libanese e il ritorno alla forza dei siriani, sempre più intenzionati a sviluppare il progetto “Grande Siria”. Per quanto riguarda l’OLP l’umiliazione più bruciante non fu tanto la disfatta, quanto la presa di coscienza delle divisioni interne all’organizzazione evidenziatesi in molti momenti critici della guerra. Ribellioni contro Arafat, scontri interni, accuse, ma soprattutto la graduale rinuncia al rimpatrio di tutti i palestinesi e l’accettazione di uno stato indipendente limitato entro la Cisgiordania e Gaza, destabilizzarono l’OLP.

15Mai Sayigh, Lament, in Salma Khadra Jayyusi (a cura di), Modern Arabic Poetry: An Anthology, New York, Columbia University Press, 1987, p. 416.

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L’ arma dei poveri

Arrivati a tal punto nella narrazione dei fatti, è inevitabile soffermarsi sull’età dell’oro del

terrorismo, fenomeno che, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, si ampliò seguendo strategie e metodi nuovi e soprattutto conferendo alle azioni una dimensione mediatica rilevante. Quest’epoca, inaugurata nel 1968 con un ciclo di attacchi contro il sistema di trasporti aerei israeliano, segnò l’ascesa dell’ azione terroristica come forma prescelta della lotta contro Israele; inoltre il ricorso massiccio al terrore da parte del popolo palestinese diffuse fra le comunità in esilio uno spiccato senso di orgoglio e di autonomia e favorì il risveglio dell’ identità nazionale palestinese. Queste azioni contribuirono in maniera decisiva alla generazione dello stereotipo del “palestinese sanguinario”. Fino al 1988 i palestinesi rifiutarono di definire tali atti come terroristici (ovvero, stando alla definizione di Raymond Aron, “atti i cui effetti psicologici sono sproporzionati in confronto ai risultati puramente fisici”16), definendoli piuttosto “operazioni esterne”. Secondo le autorità israeliane il ricorso alle azioni terroristiche era la riprova che lo statuto dell’OLP contemplava non solo l’eliminazione di Israele, ma anche degli ebrei in generale. La comunità internazionale, condannando tali azioni, consentì a questi ultimi di delegittimare le aspirazioni nazionali palestinesi. I principali bersagli del terrorismo, definito dai palestinesi “arma dei poveri”, erano il Medio Oriente ed l’Europa Occidentale. Secondo la CIA il numero di attentati terroristici passò da una ventina nel biennio 1965-1967, a 34 nel 1968, 110 nel 1970, 157 nel 1972, 344 nel 1974, 415 nel 1976, 738 nel 1979, 810 nel 1985; il totale fu di circa 2600 per il decennio 1968-1977, e sarebbe raddoppiato nel decennio successivo. Furono azioni di natura estremamente diversa che uccisero all’incirca 3000 persone, senza contare ovviamente tutti quegli atti che non venivano catalogati come terroristici perché di rilevanza interna ad uno stato. Dai mutamenti della struttura sociale allo scoppio dell’Intifada

Nel 1983 in Israele il leader Begin si dimise lasciando il posto a Yitzhak Shamir.

Continuava ad aumentare il numero degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza, insediamenti che contavano oramai circa 80.000 coloni. Nell’ ’85 venne firmato un accordo di libero commercio tra Israele e gli Stati Uniti, a riprova del legame sempre più stretto tra i due paesi. Inoltre venne prevista da Re Hussein ed Arafat l’ipotesi di una confederazione tra la Giordania ed il futuro stato palestinese, che sarebbe nato dall’unione della Cisgiordania con la Striscia di Gaza. L’accordo non andò in porto poiché fu bloccato all’ultimo momento dal monarca giordano. Il 1987 fu un anno fondamentale per l’evoluzione del conflitto israelo-palestinese: Il 9 dicembre scoppiò una rivolta generale, denominata Intifada, nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme. Come si arrivò ad una rivolta di tale portata? Cos’ è l’Intifada? Nonostante i vari cessate il fuoco e le molteplici soluzioni di pace, non era passato ancora un mese dalla fine della Guerra dei Sei giorni, che Arafat cominciò a fare appello ai suoi collaboratori per un’insurrezione popolare armata nei territori occupati. I preparativi cominciarono non appena Arafat ebbe installato il suo quartiere generale a Nablus, in Giordania. Altre cellule furono create

16 Raymond Aron, Paix et guerre entre les nations, in P. Milza, Les relations internationales de 1973 à nos jours, Hachette, 2001, p.75

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nella parte araba di Gerusalemme e a Ramallah. Vennero messe in atto operazioni di modesta portata che scatenarono immediatamente una dura repressione da parte di Sharon. Nel decennio successivo le incursioni organizzate dall’ OLP cessarono quasi del tutto in quanto in Cisgiordania la presenza di Al Fatah era oramai quasi impercettibile. La politica di Israele soffocò dunque sul nascere il tentativo di Arafat di assumere il comando della società palestinese. La nuova strategia israeliana è molto ben riassunta da Shlomo Gazit nel libro Il bastone e la carota.17 Il “bastone” indica una serie di misure prese dalle autorità israeliane e volte a reprimere duramente qualsiasi manifestazione di resistenza, mentre la “carota” rappresenta l’ aspetto innovativo della politica di occupazione, in base al quale si garantì un grado piuttosto ampio di autogestione alle municipalità, tenendo per esempio aperti i ponti per favorire il transito delle merci e delle persone. Quest’ultima strategia avrebbe fatto sì che gli israeliani venissero visti come occupanti “illuminati”, liberali. Il carattere provvisorio dell’occupazione israeliana faceva inoltre apparire superflua una resistenza popolare armata. Questo portò all’affermazione della figura del fellah. Negli anni ’70 l’OLP dovette affrontare un rapporto molto complesso con il Fronte Nazionale Palestinese (che sembrava accrescere la propria autorità sugli eventi della Cisgiordania e di Gaza), oltre che tenere d’occhio l’espansione del Partito Comunista. Giocò curiosamente a favore dell’OLP l’aspra reazione israeliana contro il Fronte che declinò fino a scomparire nel 1977. I mutamenti della struttura economica e sociale giocarono un ruolo assai rilevante nello scoppio di tale rivolta. In seguito all’espansione economica di Israele la situazione in Cisgiordania si era radicalmente modificata rispetto a vent’anni prima; i palestinesi si ritrovarono a soddisfare l’immenso bisogno di manodopera di cui l’economia israeliana abbisognava confrontandosi continuamente con la schiacciante superiorità economica dello stato ebraico. Le prospettive di autosufficienza della regione svanirono. Anche se, dopo la guerra, la produzione agricola era ripresa, questa aveva un ruolo sempre meno importante nei territori a causa dell’incremento industriale che stava trasformandone la struttura economica. Nonostante il boom economico quasi tutte le fonti di prosperità sfuggirono dal controllo di Al-Fatah ed un risentimento generale si diffuse tra i palestinesi. Inoltre questi si trovarono di fronte ad un ulteriore ostacolo: sui propri territori i coloni israeliani beneficiavano di diritti speciali e godevano quindi di una situazione privilegiata. Si arrivò addirittura negli anni ‘ 80 alla sciagurata idea di “trasferire” gli arabi dai territori. La minaccia politica nei confronti dei palestinesi assunse così un carattere dinamico; l’occupazione si era trasformata in un duro dominio militare dove “il bastone prevaleva sulla carota”. Nel 1985 l’espressione “pugno di ferro” introdotta dall’ex premier Rabin era diventata lessico corrente in Israele. Date le scarse spinte internazionali per porre fine al dominio israeliano, alcuni palestinesi cominciarono a invocare un movimento che andasse oltre la resistenza passiva. Sorse contemporaneamente un letteratura sulla resistenza che andò diffondendosi ma che venne presto vietata dalle autorità israeliane. L’università fu la struttura che svolse il ruolo più importante nel creare una coesione sociale molto più solida rispetto agli anni ’70. Emersero inoltre organizzazioni politiche femminili come l’Associazione delle Donne Palestinesi. Queste nuove forme di associazionismo, parallelamente al peggioramento delle condizioni di vita ed al venir meno delle fonti di lavoro israeliane, contribuirono in maniera decisiva all’esplosione dell’Intifada. Si arrivò ad una situazione di pessimismo economico, disoccupazione, stagflazione, mentre sull’orizzonte internazionale si allontanava qualsiasi prospettiva di composizione diplomatica al conflitto. Si dissolse l’ alleanza tra Re Hussein e Arafat, il vertice di Amman fu deludente, e l’incontro tra Reagan e Gorbaciov non portò a nessuna soluzione. Ad aggravare il tutto si aggiunse l’ immigrazione di ebrei sovietici nel paese che entrarono in competizione con i lavoratori palestinesi. Oramai la politica israeliana della carota e del bastone significava molto poco e i giovani palestinesi ebbero l’impressione di aver ben poco da perdere trasgredendo le regole. Il vaso già pieno traboccò l’8 dicembre 1987 quando un camion israeliano urtò contro due furgoni che trasportavano dei manovali palestinesi da Gaza al campo profughi di Jabalya; 4 passeggeri 17 Shlomo Gazit, The Stick and the Carrot : The Israeli Administration in Judea and Samaria, Tel-Aviv, Zmora, Bitan, 1985, pp. 21-35

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morirono sul colpo, si sparsero subito voci per cui si sarebbe trattato di una vendetta e non di un incidente ed i palestinesi diffusero un volantino di denuncia. Durante i funerali la guarnigione militare israeliana fu assalita con una pioggia di pietre. La mattina dopo cominciò un’ondata di violenze che diede il via alla rivolta. Nei sei mesi successivi si registrarono 42.355 incidenti e per la prima volta le forze israeliane persero il controllo nei territori occupati. La rivolta si estese subito da Gaza alla Cisgiordania, prendendo presto il nome di Intifada, ovvero “risveglio” o “rivolta delle pietre”; tale nome derivava da quella che era l’espressione più caratteristica della rivolta: il lancio delle pietre sui soldati israeliani. La resistenza assunse una nuova direzione non più passiva ma attiva e violenta. I combattenti non erano guerriglieri, bensì “ragazzi delle pietre”, apparivano come figure indomite contro militari equipaggiati con armi moderne. Divennero i nuovi eroi il cui sacrificio veniva esaltato in poesie come questa:

“Guardate i segni che lascia nelle strade

Nel mio sangue scorrono venti furiosi Lingue di fuoco divampano nelle mie dita... La sua figura Si staglia sull’ orizzonte Egli ci ha risvegliato Si è unito a noi Ci ha uniti... Guarda! La luna è spuntata Ha vissuto ruggendo E ruggendo è spirato: Gloria alle pietre! Gloria alle pietre! Gloria alle pietre!”18

Le famiglie dei martiri ottennero un sostegno finanziario dall’OLP. Contrariamente a quel che si crede questi atti di rappresaglia non furono del tutto spontanei, poiché alla base vi erano numerose associazioni giovanili. La nuova leadership locale era legittimata da volantini di varie organizzazioni e dell’OLP che esaltavano la lotta contro gli israeliani e la loro amministrazione. Il successo dell’Intifada fu solo parziale in quanto dopo quattro anni di scontri sanguinosi i palestinesi non erano riusciti a mettere fine all’occupazione. I leader del movimento furono costretti a ridefinire i propri obiettivi e a puntare sul rilancio della questione palestinese nelle sedi internazionali. Negli anni ’90 gli scontri diretti diminuirono in conseguenza di una maggiore autonomia lasciata ai palestinesi. Sul fronte giordano, nel 1988 Re Hussein dichiarò di abbandonare qualsiasi pretesa sul territorio della Cisgiordania rompendo i legami giuridici ed amministrativi che da sempre avevano legato il suo paese con la West Bank. Di conseguenza, alla diciannovesima sessione del Consiglio nazionale palestinese ad Algeri l’OLP proclamò lo Stato di Palestina riconoscendo le risoluzioni 181, 242, e 338. Tuttavia la West Bank da lì in poi sarebbe rimasta giuridicamente un “no man ’s land”. I conflitti del Golfo Persico e l’ascesa del nazionalismo islamico

Nel 1989 Taba tornò all’Egitto. La zona di Taba non era mai apparsa come un problema nei

rapporti tra Egitto e Israele in quanto gli israeliani non ne avevano mai richiesto la sovranità. Tuttavia nel dicembre 1981 il governo israeliano iniziò a rivendicare questa zona agli egiziani. Viene naturale chiedersi quali interessi nascondesse questo lembo di terra per le due potenze a tal punto da far riaprire le discussioni. In realtà Taba è un triangolo di duecentocinquanta acri (misura 18 Mansur, The Shrouded Face, in B. Kimmerling e J. S. Migdal, I palestinesi. La genesi di un popolo, La Nuova Italia Editrice, 1994, p.271

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di superficie pari a 4047 m²) che si sporge fino al Golfo di Aqaba, dodici miglia a sud-ovest di Eilat. La collina che si erge nella parte settentrionale di Taba domina a nord Eilat, e a sud il Sinai. Inoltre la wadi (valle) di Taba contiene numerosi pozzi d’acqua dolce, lunghe spiagge e porti naturali, ma soprattutto permette di controllare la strada costiera diretta nel Sinai.

Il possesso di Taba avrebbe aggiunto dunque ¾ di miglio alla costa israeliana, ampliando la sua presenza strategica ed economica nella regione. La questione rimase per otto anni senza soluzione, lasciando la zona sotto il controllo degli israeliani che non ritirarono le truppe. In Egitto la disputa assunse un grado d’importanza nazionale, forse eccessiva rispetto alla dimensione reale del problema. Questa importanza derivava dal fatto che Taba rimaneva l’unica zona del territorio egiziano occupata. Ovviamente da parte egiziana si richiedevano il ritiro israeliano e la ritrovata sovranità sulla zona. Solo nel gennaio 1986 Israele accettò di discutere il problema. I negoziati si protrassero fino al 1989, anno in cui Taba tornò definitivamente all’Egitto. Due anni dopo scoppiò la Guerra del Golfo che fece distogliere le discussioni internazionali dalla questione palestinese. Nel 1990 l’Iraq invase il Kuwait, che era sostenuto da una forza multinazionale creata dagli Stati Uniti. Il dittatore Saddam Hussein per legittimare i propri attacchi cercò di stabilire un collegamento tra l’occupazione del Kuwait e il problema dei territori palestinesi occupati da Israele, presentandosi come il vendicatore delle masse arabe oppresse. Le forze alleate sconfissero l’Iraq nel 1991. Nella speranza di vedere avverato il grande sogno palestinese che l’Intifada non aveva realizzato, i palestinesi portarono il loro sostegno a Saddam Hussein, che cominciò il bombardamento di Israele. Questo fiancheggiamento, però, non aiutò di certo i palestinesi che sulla scena internazionale persero la già poca fiducia acquisita con la riunione del Consiglio Nazionale Palestinese nel 1988 e con la dichiarazione della Conferenza di Ginevra. In tale occasione l’OLP si era impegnata a riconoscere il diritto all’esistenza di Israele, a rinunciare al terrorismo, e ad avviare contatti diplomatici con gli Stati Uniti. Questi contatti vennero sospesi

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molto velocemente in seguito al rifiuto di Arafat di condannare un attacco terroristico. La Guerra del Golfo aveva quindi notevolmente danneggiato l’immagine dell’ OLP sulla scena diplomatica internazionale.

Il parziale fallimento dell’Intifada provocò inoltre una reazione disordinata fra i palestinesi, fra i quali gruppi sempre più numerosi sceglievano la strada dell’integralismo islamico in alternativa al nazionalismo di tipo europeo. Il motore che aveva fatto riemergere il sentimento islamico nei territori era stata la rivoluzione iraniana del 1978. L’integralismo portò ben presto alla creazione Hamas (parola che in arabo significa “ardore” e che è anche l’acronimo di “Movimento di Resistenza Islamica”), un’organizzazione fondata da fondamentalisti islamici di Gaza, eredi locali dei Fratelli Islamici egiziani. Il suo leader, lo sceicco Ahmad Ismail Yasin, dichiarò: “Israele deve sparire dalla faccia della terra. Dalle sue rovine nascerà uno stato islamico, secondo il desiderio del Profeta”. Nonostante l’ideologia antisraeliana su cui si radicava Hamas, i governi di destra di Begin e Shamir favorirono il suo rafforzamento in funzione anti-OLP. Tuttavia la volontà comune ai due schieramenti palestinesi di mantenere viva la fiamma dell’Intifada fece sì che non ci furono grandi scontri tra di loro. Durante la rivolta, Hamas sfidò l’OLP proponendo uno statuto in alternativa alla Carta Nazionale adottata nel 1964 e rivista nel 1968. Lo statuto sottolineava il fondo islamico e la santità della terra di Palestina e l’impossibilità di concedere territori in cambio della pace. Nel 1989 lo sceicco venne arrestato dagli israeliani. Il Medio Oriente di fronte al processo di pace

La Guerra del Golfo e il disimpegno dell’Unione Sovietica avevano spostato radicalmente

gli equilibri geopolitici regionali a favore della zona di influenza americana. Infatti, non potendo più contare sul sostegno sovietico, alcuni paesi arabi furono portati a rivalutare la loro politica nei confronti di Israele e ad intraprendere con esso dei negoziati nella direzione di un riconoscimento reciproco. Il premier israeliano Rabin, tornato al potere nel 1992, promise di attuare l’autonomia palestinese entro un anno, permettendo il ritorno alle trattative. Si apriva così nell’ ottobre 1991 a Madrid una Conferenza di pace sul Medio Oriente tra Egitto, Giordania, Siria, Libano ed Israele; i

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palestinesi, pur presenti, rimasero però esclusi dalle trattative. Gli obiettivi della conferenza, guidata dagli Stati Uniti, dall’Unione Sovietica e dalla Spagna, erano la ricerca di una soluzione per la Guerra del Golfo e il raggiungimento di un accordo con i palestinesi, impresa molto ardua a causa della debolezza della leadership di Arafat. I primi colloqui bilaterali tra Israele e i paesi arabi diedero scarsi risultati; infatti la conferenza, dall’ambizioso titolo “Pace in cambio di territori”, fallì. L’ avversione di Hamas a questi negoziati si fece sentire subito in quanto il gruppo considerava queste conferenze non altro che “decisioni arbitrarie degli infedeli sulla terra dei musulmani”. Nondimeno, i primi “pourparlers” iniziati a Madrid trovarono eco a Washington, in un’ulteriore conferenza in cui vennero poste le basi per negoziati multilaterali a cui partecipavano anche i palestinesi. In dicembre però le azioni terroristiche di Hamas e di Jihad Islamica s’ intensificarono al punto da costringere il governo di Gerusalemme a deportare 415 militanti delle due organizzazioni in Libano. Questa decisione inflisse un colpo di arresto ai negoziati; questi ripresero, in via ufficiale, ma furono nuovamente bloccati dalla posizione assunta dalla Siria, che si mostrò intransigente nelle richiedere la restituzione delle alture del Golan come premessa per qualsiasi discussione successiva. Per gran parte del 1993 sembrò dunque che il corso dell’ azione diplomatica ristagnasse. Come già detto precedentemente, il crollo dell’Unione Sovietica ebbe conseguenze molto rilevanti sul conflitto. Da un lato la leadership palestinese e gran parte dei paesi arabi ne furono drasticamente danneggiati; dall’altro Israele sapeva di non poter più fare appello alla sua relazione strategica con gli Stati Uniti. La Siria aveva perso il suo protettore e fornitore d’ armi, l’ Iraq era stato messo in ginocchio dalla guerra e l’ OLP era stata privata delle risorse finanziarie vitali fornite dall’ Arabia Saudita. Visto il contesto, dunque, sia Rabin che Arafat si volsero con interesse verso le iniziative che oramai da mesi stavano maturando in Norvegia sotto la guida del mediatore Warren Christopher. A Oslo, infatti, i colloqui tra l’OLP e i funzionari israeliani erano diventati promettenti e con entusiasmo venne pubblicato il 9 settembre uno scambio di lettere segrete tra Arafat e Rabin, che affermavano il riconoscimento reciproco dell’OLP e dello Stato d’ Israele. La pubblicazione di questa corrispondenza scosse il mondo intero, e in particolare le istituzioni internazionali. Bisogna ricordare l’abilità del governo norvegese a mantenere segrete le discussioni: sondare terreni così delicati non sarebbe sicuramente stato possibile sotto i riflettori di Washington. Inoltre è necessario capire che questa svolta fu possibile soprattutto grazie alla comprensione israeliana del problema. Finalmente si capì che la chiave per trattare con i palestinesi era la terra: nessun negoziato sarebbe stato possibile se l’OLP non avesse prima avuto una base su cui poter esercitare la propria sovranità e cominciare ad organizzarsi. Il 13 settembre 1993, seguendo l’iniziativa del Presidente americano Bill Clinton, fu firmata alla Casa Bianca la Dichiarazione dei principi sugli accordi provvisori di autonomia tra Israele e Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che cominciava così: “Il Governo dello Stato di Israele ed il gruppo di lavoro della Organizzazione per la Liberazione della Palestina rappresentante dei palestinesi, sono d’ accordo sul fatto che è tempo di mettere fine a decenni di confronto e di conflitto, di riconoscere la legittimità delle rispettive aspettative giuridiche e politiche, di sforzarsi di vivere in condizioni di coesistenza pacifica, dignità e sicurezza, e di pervenire ad un accordo di pace giusto, globale e durevole, nonché ad una storica riconciliazione nel quadro del processo politico concordato”. L’accordo prevedeva cinque anni di transizione per il passaggio della striscia di Gaza e di Gerico all’ Autorità Palestinese. Il controllo della città di Gerico permetteva all’OLP di stabilire la sua presenza in Cisgiordania (questa soluzione ricordava una proposta di Kissinger di quasi vent’ anni prima). La fase del ritiro degli israeliani da Gaza e da Gerico andava intesa come l’inizio di un più ampio trasferimento di poteri ai palestinesi in Cisgiordania. L’ accordo prevedeva inoltre la creazione di una polizia palestinese e l’ elezione di un Consiglio palestinese che governasse la West Bank (Cisgiordania) e Gaza durante il periodo di transizione. La stretta di mano tra Rabin e Arafat a Washington, fu premiata l’anno successivo con i premi Nobel per la pace conferiti ai due protagonisti e a Shimon Peres. Nonostante i passi avanti, rimanevano tuttavia numerosi punti cruciali da risolvere, come ad esempio l’estensione precisa dell’ enclave di Gerico, il carattere dei controlli di frontiera, la liberazione dei detenuti politici palestinesi, la gestione delle risorse idriche, il ritiro dalle colonie (ovvero gli insediamenti

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israeliani), i confini del futuro stato palestinese. Tutte queste decisioni vennero rinviate a colloqui successivi. Questa serie di problemi mise a dura prova la capacità di Rabin ed Arafat di mantenere le proprie posizioni all’ interno, di fronte alle contestazioni che stavano sorgendo. Infatti le concessioni fatte da Arafat furono pesantemente contestate da Hamas la cui tattica consisteva nel far ricorso alla violenza per provocare la reazione israeliana. Gli attacchi terroristici aumentarono e misero l’accordo sotto pressione. Arafat cercava il sostegno di Al-Fatah e Rabin doveva affrontare l’opposizione dell’ala destra del Likud che considerava gli attentati come la riprova che non si dovessero fare concessioni agli arabi. Il difficile processo di pace sembrava comunque sulla giusta strada. Solo sette mesi dopo la firma della Dichiarazione dei principi, il 7 maggio 1994 Rabin e Arafat si ritrovarono al Cairo per ratificare le modalità di applicazione dell’ “accordo di Oslo” . L’Accordo di Gaza-Gerico spinse le due parti a raggiungere un’intesa sulla natura del ritiro israeliano e i poteri dell’ Autorità Palestinese. Si previde un ridispiegamento delle forze israeliane a Gaza per assicurare la protezione degli ebrei rimasti. Non bisogna però dimenticare di reinserire questi accordi nel clima drammatico che dilagava nei territori. Infatti il 25 febbraio dello stesso anno un medico ebreo attaccò la moschea di Hebron uccidendo ventinove fedeli. La tragedia non fu tuttavia inaspettata, in quanto nella città santa, sia per gli ebrei che per i musulmani, regnava un clima di costante agitazione. In un contesto tale, riemergeva ancora più rafforzata l’ala islamica di Jihad e di Hamas. Nessuno sembrava in grado di capire come coinvolgere i due gruppi nel generale consenso politico palestinese, se non attraverso concessioni al di fuori della portata dei due leader. Il 26 ottobre 1994 venne firmata la Dichiarazione di Washington tra Israele e la Giordania di Re Hussein. Il trattato di pace impegnava i due leader a garantire la sicurezza sul confine orientale di Israele e dunque a risolvere pacificamente i problemi riguardanti i territori, l’acqua, l’energia, e la Valle del Giordano. Rimaneva soltanto da garantire il confine settentrionale di Israele con la Siria ed il Libano. La Giordania ottenne vantaggi tangibili quali la cancellazione del debito con gli Stati Uniti ed un ruolo speciale in relazione ai Luoghi santi di Gerusalemme provocando la collera del leader palestinese. Il 1995 cominciò in un clima di tensione: alcuni terroristi suicidi fecero esplodere due autobombe a Nardiya uccidendo venti persone. In aprile l’ennesimo attacco indusse Arafat a far arrestare 170 membri di Hamas che aveva rivendicato tre attentati. La delusione si fece sentire maggiormente il 1 luglio 1995 quando nella data fissata per l’estensione dell’ autogoverno in Cisgiordania non accadde nulla. Nonostante la situazione deludesse le speranze suscitate dagli accordi di Oslo, americani ed egiziani ritentarono il colpo. Il 28 settembre 1995 fu firmato a Washington un nuovo accordo, denominato Oslo II, che si proponeva di risolvere tutte le questioni lasciate implicite nell’incontro precedente. Fortemente voluto dal Presidente americano Bill Clinton, e dal Presidente egiziano Mubarak, l’accordo suggeriva il ritiro della maggior parte delle forze israeliane entro il 30 giugno dell’anno successivo, mantenendo il controllo per la sicurezza in alcune aree e lasciando l’amministrazione civile al Consiglio. I palestinesi si sarebbero impegnati a eliminare dalla Carta Nazionale i passaggi che negavano i diritti dello Stato d’ Israele. Nuove manifestazioni di protesta si rivolsero, da ambo le parti, contro le concessioni avvenute ad Oslo II. A causa dell’intensità dei dissensi Rabin e Peres decisero di partecipare a una manifestazione pacifista il 4 novembre 1995. Rabin pagò con la morte questa sua partecipazione; il premier israeliano fu probabilmente ucciso da Yghal Amir, uno studente ebreo contrario alle concessioni. L’assassinio fu visto come una tragedia politica di dimensioni epocali, perché Israele perdeva l’unico leader che per ben due volte aveva aperto grandi porte verso soluzioni di pace. Peres lo sostituì procedendo con l’attuazione degli accordi di Oslo II. Alla fine dell’anno le città chiave della Cisgiordania erano sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, tranne Hebron che sarebbe rimasto un focolaio acceso ancora per qualche anno. Con la morte di Y. Rabin sembrò dunque rallentare la corsa alla pace. Le speranze si affievolirono progressivamente negli anni successivi col ritorno a scontri di vasta scala.

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Il processo di pace in crisi

Le speranze di un avanzamento del processo di pace sembrarono essere consolidate dalle

elezioni per il Consiglio palestinese il 20 gennaio 1996, elezioni che confermarono Arafat come leader riconosciuto della Palestina. Tuttavia gli eventi spinsero verso un’altra direzione: il 5 gennaio a Gaza fu ucciso Yehia Ayache, l’uomo che Israele considerava l’ ideatore degli attentati contro il paese. Per rappresaglia il 25 febbraio vennero uccisi venticinque israeliani coinvolti nell’esplosione di bombe sistemate all’interno di alcuni autobus; un’altra bomba a Gerusalemme provocò diciannove morti; una quarta a Tel Aviv uccise quattordici persone. Questi ed altri attentati, accompagnati da una moltitudine di attacchi mortali contro pattuglie israeliane, seminarono la sfiducia nel governo di Peres e gettarono discredito sulla sua strategia di pace. Gli israeliani, riunitisi alle urne in maggio decretarono la sconfitta del veterano Peres di fronte al giovane Natanyahu. Nonostante gli sforzi compiuti per preservare gli accordi e per difendere la sicurezza di Israele, Natanyahu ereditò un processo di pace già in crisi. Per cercare di salvare la situazione, nell’agosto 1996 il premier israeliano e Arafat s’incontrarono e si impegnarono a proseguire il lavoro richiesto dal processo. Tuttavia, il mese successivo le relazioni tra le due parti rischiarono di essere seriamente compromesse dall’apertura da parte della municipalità della parte ebraica di Gerusalemme di un tunnel che passava sotto il Monte del Tempio, luogo sacro per ebrei e musulmani. Questo provocò gravissime violenze nei territori occupati dalla fine dell’Intifada, che causarono settantasei morti. Clinton, per evitare che la situazione degenerasse, convocò i due leader a Washington, ma le relazioni non migliorarono nel periodo successivo. La questione si focalizzò poi sui tempi e sull’ampiezza del ritiro israeliano da Hebron. Si trovò un accordo il 14 gennaio 1997, in base al quale Israele accettò di evacuare l’80% della città. Il 1997 non vide alcun progresso nelle trattative mentre continuavano a susseguirsi le tragedie: a febbraio settantatre soldati israeliani rimasero uccisi nella collisione di due elicotteri. Il 25 febbraio il governo israeliano annunciò la sua decisione di costruire 6500 appartamenti a Gerusalemme est; l’atto venne visto come un tentativo di consolidare il controllo israeliano sulla città. Clinton e Re Hussein si opposero all’ iniziativa. Il Segretario di Stato Madeleine Albright ritenne fosse giunto il momento di intervenire direttamente dando grande rilievo ad un maggior coinvolgimento americano e all’urgenza di incrementare il dialogo tra le due parti. Sotto la pressione giordana, Israele liberò il 1 ottobre lo sceicco Yasin, capo spirituale di Hamas, che venne accolto trionfalmente a Gaza qualche giorno dopo. Fu solo nell’ ottobre del 1998, che si verificò un nuovo passo avanti, quando Natanyahu e Arafat si ritrovarono al Wye Conference Center nel Maryland, con la mediazione di Bill Clinton e di Re Hussein, oramai malato terminale. L’accordo di Wye River stabilì le fasi dell’ ulteriore evacuazione dalla Cisgiordania, che avrebbe lasciato il 13% del territorio sotto controllo palestinese, e impegnò Arafat a un programma di provvedimenti per combattere gli attentati contro Israele, includendo la partecipazione della CIA nel piano “Lotta contro il terrorismo”. In cambio Israele si impegnò a liberare settecentocinquanta detenuti palestinesi. Indubbiamente l’ accordo di Wye River fu un significativo passo avanti dopo un lungo periodo di stagnazione. A differenza degli accordi precedenti questa volta fu il Likud a stringere un accordo coi palestinesi. Parallelamente il ruolo di Arafat nell’accettare il nuovo programma venne preso di mira da Hamas. Sul fronte israeliano le difficoltà del leader aumentarono e non gli rimase altra scelta che accettare di indire elezioni anticipate fissandole per il 17 maggio 1999. Con una mossa a sorpresa, Re Hussein tornò a casa dagli Stati Uniti per togliere al fratello Hassan il rango di principe ereditario e darlo al proprio figlio Abdallah. Il re morì il 7 febbraio del 1999. La

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sensazione era che fosse giunta al termine un’epoca della politica mediorientale, impressione confermata, nel mese di luglio, dalla morte di un altro veterano della diplomazia arabo-israeliana, Re Hassan del Marocco. In Israele, Ehud Barak si propose come sfidante di Natanyahu. Barak era un uomo dello stesso stampo di Rabin in quanto non appariva disposto a compromessi sull’integrità territoriale dello Stato di Israele. Fu appoggiato dall’elettorato col 56% dei voti, che gli garantirono quindi una relativa stabilità. In settembre nuovi negoziati presieduti da M. Albright portarono ad un accordo firmato a Sharm El Sheikh che ridefiniva il calendario d’ applicazione previsto da Wye River. Le parti s’impegnavano entro un anno a fissare frontiere definitive e a trovare una soluzione alla questione di Gerusalemme. Inoltre si giunse alla conclusione per cui il ridispiegamento dell’esercito israeliano sarebbe dovuto avvenire non oltre il 13 settembre. Ovviamente questa data, come le altre stabilite, non venne rispettata, provocando frustrazioni e la fine dell’entusiasmo che aveva salutato le prime notizie delle intese raggiunte a Oslo. Intanto su un altro fronte, quello siriano, si assistette ad un parziale cambiamento di rotta. Il 15 e 16 dicembre a Washington furono ripresi i “pourparlers” di pace tra Israele e la Siria. Sfortunatamente anche questi giunsero a un punto morto e furono sospesi in marzo. Tentativi di ripristinare il processo di pace e fallimento del vertice di Camp David

In una prima fase sembrò che ci fosse spazio per nuovi progetti, ma in realtà la situazione era molto più critica di quanto potesse sembrare, e sarebbe scoppiata di lì a poco. Era intanto aumentata la pressione su Israele dal Libano del sud, dove i miliziani libanesi intensificarono gli attacchi contro i soldati israeliani. In marzo il governo votò a favore del ritiro dalla zona, che avvenne il 22 maggio. A favore della creazione dello stato palestinese si levò il 22 marzo la voce di Giovanni Paolo II nel suo primo pellegrinaggio nei luoghi biblici. Fu accolto con profondo rispetto per aver riconosciuto la necessità di una riconciliazione tra ebrei e cristiani. Tuttavia la tensione rimaneva alta. Il 15 maggio, data dell’anniversario della creazione dello Stato di Israele ci furono numerosi episodi di violenza che produssero addirittura delle spaccature interne alla coalizione di governo di Barak. Queste discordie intestine non avvennero di certo nel momento migliore, dato che a Camp David, sotto gli auspici del Presidente Clinton, stavano per cominciare negoziati di pace su vasta scala. Infatti dall’ 11 al 25 luglio si tenne il vertice di Camp David che sfortunatamente non fece altro che evidenziare, da un lato, quanto americani ed israeliani si illudessero di essere vicini ad un accordo e, dall’ altro, l’entità delle incomprensioni che separavano le parti. Arafat e Barak lasciarono il vertice tra malumori e delusioni mentre Clinton annunciava “il vertice è fallito”. A cosa era dovuto il fallimento? In realtà, il nodo di Gerusalemme si rivelò insormontabile: Israele aveva accettato l’offerta americana che prevedeva che alcune aree fossero poste sotto “sovranità comune” israelo-palestinese, ma i palestinesi rifiutarono chiedendo il ritiro di Israele dalla zona est della città, così come previsto nella risoluzione 242 delle Nazioni Unite. Arafat si discostò dall’opinione comune secondo la quale quella era la migliore soluzione. Il vertice di Camp David rimarrà nella storia come una delle grandi opportunità mancate del conflitto arabo-israeliano. Il problema dei profughi

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rimaneva cruciale : tre milioni e mezzo di palestinesi, secondo Arafat, dovevano avere il diritto di tornare alle loro terre d’ origine. Diritto che Israele negò per coloro che avevano risieduto all’ interno dei confini prima del 1967 temendo che questi facessero venir meno la maggioranza israeliana nel paese. L’Intifada Al-Aqsa

Il fallimento del vertice portò entrambe le parti a un notevole aumento della tensione. L’episodio catalizzatore fu fornito dal leader del Likud Ariel Sharon, il quale annunciò pubblicamente di volersi recare in visita al Monte del Tempio sulla spianata delle moschee a Gerusalemme. I funzionari americani sollecitarono Barak a vietare la visita, ma questa non fu bloccata ed ebbe luogo il 28 settembre. Per protesta, il giorno successivo, si tenne un’imponente manifestazione di palestinesi inermi e si ebbero i primi scontri, le prime vittime, e soprattutto l’inizio di quella che i palestinesi chiamarono “Intifada Al-Aqsa”. Scoppiava dunque un’ondata di violenze che portarono alla fine di ogni negoziato per la pace e all’ assedio di Ramallah, quartier generale di Arafat. L’equilibrio delle forze pendeva decisamente a favore degli israeliani, equipaggiati con armamento pesante. L’opinione pubblica fu sconvolta dalle immagini della morte di un sedicenne mentre passeggiava per strada col padre. Dopo pochi giorni si contarono trentasei morti, mille feriti circa, tutti palestinesi. Clinton cercò disperatamente di salvare la situazione. Il 17 ottobre 2000 riunì un vertice a Sharm El Sheikh con il premier israeliano, Arafat, delegazioni egiziane e giordane, le Nazioni Unite e l’Unione Europea. Si trovò un accordo su tre punti ma le violenze non si fermarono. I punti d’ accordo erano :

- l’emissione di un comunicato con un appello a mettere fine alle violenze - lo sviluppo di una commissione d’inchiesta americana sugli avvenimenti delle ultime

settimane presieduta dal senatore G. Mitchell - La consultazione con gli Stati Uniti entro due settimane

Il 30 aprile 2001, il panorama in Israele e negli Stati Uniti era mutato radicalmente. In dicembre, di fronte alla prospettiva di un voto di sfiducia alla Knesset, Barak aveva annunciato le elezioni per il 6 febbraio 2001. Le elezioni presidenziali americane del novembre 2000 avevano visto la vittoria del repubblicano George W. Bush. Negli ultimi giorni del suo mandato Clinton fece un ultimo coraggioso tentativo di avvicinare le due parti, a Taba, nel mese di gennaio. Ma i colloqui s’ interruppero molto presto. Alla Knesset A. Sharon ottenne una vittoria schiacciante. Considerato la “bestia nera” dei palestinesi, e l’eroe dei coloni della destra israeliana, fu considerato dagli elettori il miglior garante della sicurezza del paese. Scelse S. Peres come ministro degli Esteri. Nel frattempo i palestinesi si lamentavano per la crescita continua degli insediamenti israeliani, per il deteriorarsi delle condizioni economiche, e la constatazione dell’inerzia israeliana nei confronti dei rifugiati. Parallelamente il governo israeliano sottolineava la questione della sicurezza. Mitchell concludeva dunque il suo rapporto con la seguente dichiarazione:“Le due parti sono a un bivio. Se non tornano al tavolo dei negoziati, devono affrontare la prospettiva di combattere per anni e anni “. La risposta di Bush

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fu di inviare il capo della CIA, Tenet, come mediatore di un cessate il fuoco. Nonostante il raggiungimento di un accordo provvisorio a giugno, la violenza crebbe vertiginosamente. Il vertice del G8 riunito a Genova nel mese di luglio accettò le richieste palestinesi per una forza internazionale che monitorasse il cessate il fuoco, ma questa venne nettamente rifiutata dagli israeliani. A luglio la nuova politica di unità nazionale israeliana era quella di indebolire e colpire i leader palestinesi. Con l’attentato dell’11 settembre al Pentagono e alle torri gemelle del World Trade Center di New York, Gli Stati Uniti dichiararono “guerra al terrore” preparando l’assalto delle basi afgane di Al Qaeda. Per Bush fermare quello che sembrava un ciclo di violenza senza fine era diventato necessario. Dichiarò, insieme al suo alleato Tony Blair, di essere favorevole alla creazione di uno stato palestinese, ma gli eventi concorsero nell’ostacolare i loro progetti. Il 17 ottobre il ministro israeliano per il Turismo, Rehavam Zeevi, venne colpito a morte da agenti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. La visita di Blair nella regione per negoziare un cessate il fuoco si rivelò inutile. La mediazione nacque sotto cattivi auspici; una serie di attentati contro Israele la portarono a rispondere con attacchi aerei contro le sedi dell’ Autorità palestinese, troncando definitivamente i legami con Arafat. Questi, spinto ad agire dagli americani, arrestò alcuni militanti di Hamas provocando la collera dei loro sostenitori. Nelle prime settimane del 2002 non ci fu alcun progresso e il conflitto sembrava sempre più lontano da una soluzione. L’8 marzo Arafat si trovava confinato nel suo quartier generale a Ramallah, mentre da entrambe le parti rabbia e animosità stavano raggiungendo l’acme. Il 12 marzo l’ONU adottò la risoluzione 1397 che imponeva la cessazione immediata degli atti di violenza e richiamava le parti all’ attuazione dei piani Mitchell. Successivamente, denunciando Arafat come il nemico che aveva “instaurato una coalizione del terrore contro Israele”, Israele lanciava un’operazione chiamata “Scudo di difesa” con bersaglio principale Ramallah e la volontà di sradicare le infrastrutture terroristiche palestinesi. Il 30 marzo l’ONU adottava un ulteriore risoluzione invitando ambo le parti a pervenire immediatamente ad un cessate il fuoco effettivo e invocando il ritiro delle truppe israeliane. Bush sottolineò che i “kamikaze non erano martiri ma assassini”. Incurante delle richieste, il governo israeliano proseguì col piano previsto cercando di tenere distante la stampa mondiale. I principali attacchi furono rivolti contro Ramallah e Betlemme. Il Segretario di Stato Colin Powell raggiunse Israele l’11 aprile, ma il suo incontro con Sharon non servì ad ottenere la sospensione della campagna militare israeliana. I successivi negoziati con Arafat non risultarono più produttivi di quelli precedenti. In aprile si era sollevata nuovamente la voce del Papa sulla questione che dichiarò : “Profanata la Terra Santa. Così si violenta la storia”. Il 16 giugno Israele intraprese la costruzione di un muro di sicurezza lungo la frontiera con la West Bank, annettendo illegalmente il 7 % del territorio cisgiordano, per cercare di ripararsi dagli attacchi dei kamikaze palestinesi. La missione di Powell cominciava a naufragare tra accuse e contraccuse. Prima di tornare in patria, tutto quello che il Segretario di Stato riuscì ad ottenere fu l’assicurazione di un prossimo ritiro. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò un ulteriore risoluzione, la 1405, che esprimeva le preoccupazioni per le condizioni igienico-sanitarie nei campi profughi invitando Israele a non ostacolare più le attività delle organizzazioni umanitarie. L’Autorità Palestinese uscì indebolita dall’anno appena trascorso per una molteplicità di ragioni. Bush aveva pronunciato nel mese di giugno un discorso che rimetteva in questione la leadership di Y. Arafat accusato di usare un doppio linguaggio e di bloccare qualsiasi soluzione per la pace. L’assedio a Ramallah esprimeva proprio questa volontà degli Stati Uniti di emarginare il capo dell’Autorità Palestinese. Bush sosteneva infatti la necessità di una direzione palestinese nuova. Dopo aver richiesto elezioni presidenziali e legislative, gli Stati Uniti ed Israele spinsero per la creazione di una carica di Primo Ministro, ma sostanzialmente le cose non si modificarono. Y. Arafat era e rimaneva il capo storico del movimento palestinese e non avrebbe mai rinunciato al suo

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ruolo politico. Senza dubbi nutriva i rancori di molti nemici all’ interno del Consiglio legislativo, ma la maggior parte di essi era comunque convinta nel sostenerlo. L’Autorità Palestinese venne ulteriormente indebolita dall’arresto di alcuni esponenti di Al-Fatah, mentre le misure prese dall’esercito israeliano contro gli attacchi suicidi ebbero conseguenze disastrose per i palestinesi. La situazione sociale appariva catastrofica: il tasso di disoccupazione passò al 60% e il numero delle persone viventi al di sotto della soglia di povertà raggiunse il 50%. In Israele, gli attacchi terroristici ebbero come risultato la radicalizzazione della società e resero il dialogo tra le parti praticamente impossibile. Il 29 giugno fu concluso un accordo di tregua per tre mesi, che venne minacciato da Hamas e reso dunque molto fragile. Le più grosse divergenze riguardavano l’impiego della violenza. Hamas e Jihad islamica affermarono che non avrebbero posto fine agli attentati nei territori israeliani finché non avessero ottenuto una garanzia internazionale sulla fine delle incursioni delle truppe dell’IDF. La prima condizione posta da Sharon fu l’arresto della violenza, nonostante gli islamici considerassero la violenza frutto della politica diretta da Israele nei territori palestinesi. Per quanto riguarda il fronte iracheno, il 17 agosto Israele si dichiarò a favore di un cambiamento di regime nel paese. L’amministrazione Bush propose una nuova tregua per dare una speranza alla “Road Map” firmata da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite il 20 dicembre 2002. La Road Map

Elaborata dal “quartetto”, è un documento che prevede la creazione in più tappe di uno stato palestinese entro il 2005. Il preambolo pone l’enfasi sulla necessità di mettere fine alla violenza e al terrorismo. Prevede poi che i palestinesi intraprendano riforme politiche, e dichiarino la fine delle violenze denunciando il terrorismo. Israele, da parte sua, deve ritirarsi dalle zone palestinesi rioccupate durante la seconda Intifada tornando alle linee del 28 settembre 2000. Deve inoltre congelare qualsiasi attività di colonizzazione. Contrariamente a tutti gli accordi firmati precedentemente, la “Road Map” prevede dei meccanismi di controllo. Stabilite le esigenze di sicurezza, il documento stipula anche che le parti debbano arrivare ad un accordo definitivo e completo che metta un termine al conflitto israelo-palestinese nel 2005. Il piano fu approvato dal governo israeliano solamente il 25 maggio del 2003, mentre il Primo Ministro palestinese lo aveva accettato da subito. Il 17 e 18 maggio i due capi di governo s’ incontrarono per la prima volta a Gerusalemme. Il 4 giugno si assistette ad un incontro storico ad Aqaba, in Giordania, tra Bush, Abu Mazan (Primo Ministro palestinese) e Sharon. Sembrava aprirsi un nuovo spiraglio di speranza, poiché veniva lanciato ufficialmente il programma internazionale di pace in Medio Oriente. Hamas dichiarò da subito di non accettare i compromessi parallelamente all’estrema destra israeliana che si oppose alle cessioni proposte da Sharon. Queste trattative avvennero ovviamente in un clima di violenza estrema con ondate di attacchi suicidi quotidiani. Il 23 febbraio 2004 si aprì alla Corte internazionale dell’Aia un’ udienza sulla legittimità del muro che Israele stava costruendo in Cisgiordania per impedire il passaggio dei terroristi oltre la linea verde del 1967. Il 22 marzo lo sceicco Yasin, venne ucciso in un’ imboscata a Gaza. Fu sostituito da Rantisi che il 17 aprile fece la stessa fine.

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