Storia dell'Ospedale di Motta Di Livenza

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The illustrated story of our ancient, glorious hospital, which dates back to the end of the 19th century.

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Rina Ravenna, La Madonna di Motta,olio su tela (coll. privata).

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“E’ prima massima nei provvedimenti reclamati dal bene generale il fare scelta dei migliori: sia pel minore dispendio che importino, come pel maggiore profitto che recano”.

Esortazione dell’Imperial Regia Delegazione della Provincia di Treviso al Commissario Distrettuale di Motta, 17 ottobre 1835. (Archivio storico comunale di Motta di Livenza, vol. II, b.11, fasc.6)

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Bruno Stefanat

L’OSPEDALE DI MOTTA DI LIVENZA

DALL’ANTICO HOSPEDAL DI BORGO DEGLI ANGELIALL’OSPEDALE RIABILITATIVO DI ALTA SPECIALIZZAZIONE

Con una comunicazione di Luigi Zanin

Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione - Motta di Livenza 2008

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SOMMARIO

Prefazioni pag. 5

Introduzione pag. 9

Le origini. Epidemie e lazzaretti pag. 13

Antichi ospedali e metodi di cura nel Veneto Orientale pag. 18

L’hospedal di Borgo degli Angeli. Primo esempio di sperimentazione pubblico-privata? pag. 22

Dal secondo periodo napoleonico al Regno sabaudo pag. 27

L’invasione austroungarica pag. 31

La morte di Italo Svevo pag. 38

L’alluvione del 1966 pag. 43

Nasce l’Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione pag. 45

Appendice pag. 53

Bibliografia pag. 71

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PREFAZIONI

La tradizione di eccellenza ospedaliera del Veneto ha

origini antiche, infatti, ospedali come quello di Motta di

Livenza, risalente al XV secolo, hanno attraversato epoche

anche oscure senza mai venir meno ai doveri di assistenza

e di solidarietà nei confronti della popolazione. Nel caso di

Motta, ma non solo, la religiosità popolare e la vicinanza di

un celebre e amato santuario mariano, edificato nel primo

‘500 con la supervisione del minorita veneziano Francesco

Zorzi - una delle massime personalità culturali dell’epoca

- hanno certamente contribuito a sollevare dalla malattia e

dalla povertà generazioni di nostri concittadini.

La Regione del Veneto si onora oggi di continuare quest’opera

meritoria, coniugando le moderne tecnologie medico-scientifiche

con quel progetto di umanizzazione in medicina che è parte

integrante dell’attuale progetto di governo. Ben vengano,

quindi, le iniziative culturali che mirano a valorizzare la

storia della nostra sanità, rafforzando e rivitalizzando

l’identità di un popolo forte, laborioso, buono e solidale.

Intendo, infine, ricordare come l’odierno Ospedale Riabilitativo

di Alta Specializzazione di Motta di Livenza sia un fiore

all’occhiello della sanità veneta, esempio paradigmatico

della funzionalità e delle potenzialità dello strumento della

sperimentazione gestionale pubblico-privata, e come, quindi,

abbia degnamente raccolto l’eredità degli antichi hospitali

veneti.

Giancarlo Galan

Presidente della Regione del Veneto

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La storia degli ospedali nel nostro territorio, trova le sue ori-

gini nella umanità che scaturì in secoli lontani quando la

cultura della carità propria della religione, influì sul mondo

laico facendo della solidarietà un imperativo sociale. Nel ter-

ritorio dell’Azienda Ulss 9 l’Ospedale di Motta, insieme a

quello di Treviso, ci ricordano l’origine medievale della nostra

rete assistenziale e ci tramandano un’eredità ininterrotta nei

secoli di impegno sanitario, in cui i traguardi clinici, i nomi

di personaggi e le applicazioni scientifiche appaiono aspetti

univoci di un grande quadro che è la storia dell’attenzione

per la Persona.

Una storia che non ci consente di ripercorrere solo l’evoluzio-

ne dell’agire del medico nella quotidianità della cura, ma – in

una infinità di rapporti intercorrenti – attraversa tutta la no-

stra società, il suo modo di organizzarsi, la sua aspirazione

alla salvaguardia di un bene universale che è stata il motore

di quello che oggi viene chiamato il modello sanitario trevigia-

no. Un modello in cui l’Ospedale di Motta di Livenza, nella

condivisione di origini culturali comuni, si contraddistingue

oggi per una propria tipicità in cui si fondono la connotazio-

ne del forte legame con il territorio e la realizzazione di un

modello di sperimentazione gestionale della Regione Veneto,

grazie al quale si è affermato come polo riabilitativo ad alta

specializzazione.

Tra i Mottensi, da sempre non è raro sentir indicare il no-

socomio come “il nostro ospedale”. Si usa quel pronome che

non vuole essere possessivo ma indicativo di una storia, di una

appartenenza territoriale, di una condivisione sociale, di una

partecipazione alle prospettive. Un’anticipazione ed un’effi-

cace sintesi dello slogan scelto dall’Azienda Ulss 9 per le sue

campagne comunicative: “La salute costruiamola insieme”.

dr. Claudio Dario

Direttore Generale Azienda Ulss 9

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Mi sembra innanzitutto doveroso ringraziare la Direzione

dell’Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione per

una iniziativa che ha prodotto non soltanto una valida

testimonianza sulle antiche istituzioni ospedaliere venete e

sulla medicina del passato, ma un contributo importante per la

stessa storia della Città di Motta, che si intreccia strettamente

-e da molti secoli- con quella del suo ospedale. E’ davvero

significativo che l’antico hospedal di Borgo degli Angeli nasca

nel 1567 per una iniziativa della Comunità, che affida alla

Confraternita di Santa Maria e San Nicolò l’incarico di

costruirlo e poi gestirlo: una tradizione che continua oggi

nell’attiva partecipazione del Comune alla formula societaria

dell’Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione, erede

del vecchio Ospedale Civile Comunale. L’attuale nosocomio

riabilitativo, oltre a essere uno tra i pochi esempi in Italia

di ideale sperimentazione pubblico-privata, è un vanto e un

punto di riferimento per la Città, per la Regione e per l’intera

sanità nazionale. Siamo perciò fieri che questa struttura,

proiettata a buon diritto in una dimensione tecnico-sanitaria

avanzata e globale, continui degnamente l’antica tradizione

di solidarietà e di assistenza ai poveri e agli infermi dei

mottensi: un’assistenza che non è mai mancata, anche nei

momenti tragici della nostra storia passata e recente, grazie a

una nobile gara di generosità tra le più importanti famiglie di

Motta. Voglio inoltre ricordare, ringraziandoli idealmente,

i molti medici e chirurghi originari della nostra Città che

hanno raggiunto vertici mondiali di professionalità e di fama

scientifica, secondo una tradizione secolare davvero unica; così

come sono certo che tutti i nostri concittadini sono grati e

riconoscenti a quanti operano oggi nell’Ospedale Riabilitativo,

garantendo servizi medici e clinici di eccellenza.

Paolo Speranzon

Sindaco di Motta di Livenza

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Eccellenza delle cure e delle tecnologie, della professionalità

medica e delle risorse umane; umanizzazione; presa in carico

totale del malato, tanto nella fase di ricovero che in quelle pre

e post-dimissione: sono gli obiettivi che mi prefissai nel 2003,

quando accettai la difficile sfida di dar vita all’Ospedale Ria-

bilitativo di Alta Specializzazione. Leggendo questo libro,

ho trovato sorprendenti analogie tra questi principi e l’antica

tradizione ospedaliera di Motta di Livenza: lascio al let-

tore il piacere e la sorpresa di rilevarle, ma non posso non

sottolineare che qui, nel 1567, nasceva un hospedal per ini-

ziativa del “pubblico” (la Comunità), che ne affidava la ge-

stione economica e pratica a un “privato”, nella fattispecie la

locale confraternita dei Battuti. In altri termini, è quello che

succede oggi grazie all’agile strumento della sperimentazione

pubblico-privata, che ci ha consentito, insieme alla fiducia ac-

cordataci dalla Regione Veneto, di raggiungere in pochi anni

traguardi impensabili nel campo della riabilitazione. Voglio

ricordare con gratitudine alcune delle moderne “confraterni-

te” che ci affiancano con serietà e dedizione: l’Associazione

Amici del Cuore di Egidio Bianco, insostituibile nell’attività

di informazione e prevenzione sul territorio e collettore della

“beneficenza” dei mottensi, mai venuta meno, ieri a sostegno

di poveri e infermi, oggi per l’acquisto di tecnologie clinico-

ospedaliere avanzate; e la onlus CentroPrua di Rodolfo Dal-

la Mora, che attraverso l’iniziativa “Sportello senza barrie-

re” ci permette di offrire assistenza per l’eliminazione delle

barriere architettoniche non solo a pazienti ed ex-pazienti del

nostro ospedale, ma a tutti i cittadini.

Dedico questo libro ai dipendenti e collaboratori dell’Ospeda-

le, passati e presenti: è soprattutto grazie a loro che quello che

sembrava poco più di un sogno è diventato realtà.

Alberto Prandin

Direttore generale Ospedale Riabilitativo

di Alta Specializzazione

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INTRODUZIONE

Immaginiamo uno stanzone affollato di letti e giacigli, con ammalati distesi e inerti, avvolti in fasciature approssimative, oppure seduti, la testa e le spalle appoggiate a cuscini di fortuna, o, ancora, in piedi lungo le pareti imbiancate a calce, sostenuti da rudimentali stampelle. Predominano i lamenti, le invocazioni e le preghiere ad alta voce, ma anche le grida di bambini che fanno irruzioni improvvise, inseguendosi e giocando tra i cumuli di stracci. Gli ammalati più fortunati sono assistiti dai familiari, povera gente dall’aspetto non molto più sano dei ricoverati; essi somministrano loro un poco di latte portato da casa o appoggiano pezzuole imbevute d’acqua sulla fronte dei febbricitanti. Gli altri devono aspettare che qualche fratello della congregazione religiosa, avvolto in una tunica bianca che ha sul petto le insegne rosse e blu con il flagello dei Battuti, si prenda finalmente cura di loro. I lamenti si moltiplicano e le braccia si alzano nell’invocazione quando appare un medico, anch’egli avvolto in una lunga tunica, ma nera, il volto celato dietro una maschera con un lunghissimo becco. Ciascuno invoca attenzione per sé, ma il medico, seguito dal cirologo o chirurgo e dagli assistenti che portano i libri e gli strumenti del mestiere, si dirige risoluto verso il priore dell’Ospedale, seduto a un tavolino all’estremità dello stanzone. Questi si inchina rispettosamente e indica un malato. Chirurgo e allievi predispongono intorno al letto di costui un paravento di stoffa bianca, dietro il quale prendono posto al seguito del magister. All’improvviso è silenzio, o quasi. I bambini che arrivano di corsa dagli ingressi della stanza vengono prontamente afferrati sulla soglia e respinti. Passa un tempo lunghissimo, finché dal paravento si leva un grido lacerante. Stavolta non si sente davvero volare una mosca, e anche i malati che rantolano vengono tacitati con una mano sulla bocca da chi li assiste. Finalmente il medico esce con sussiego, in un fruscio dell’ampia veste il cui colore scuro mimetizza le macchie di sangue. Rivolto al priore scuote il lungo becco orizzontalmente, oppure in senso verticale. Il priore si inchina di nuovo e, a seconda dei casi, ordina a qualcuno dei suoi di portare via il cadavere, oppure di soccorrere il sopravvissuto portandogli dell’acqua fresca e delle bende pulite. L’ala della morte è ora passata e lo stanzone riassume il consueto aspetto di dolorosa normalità. Vi sono anche degli

anziani, abbastanza sani all’apparenza, che vengono a prestare opera caritatevole agli ammalati. Le loro mani tremano, ma fanno quel che possono, per lo più suggeriscono giaculatorie e parole di conforto, a volte riescono a far sorridere con qualche facezia dialettale. Sono vecchi indigenti, raccolti “allo stremo della miseria” e ospitati nel luogo di dolore insieme ai bambini che giocano tra gli ammalati, gli “innocenti Esposti” provenienti dalle ruote dei conventi o dalla pubblica strada. E’ il quadro complessivo di una umanità misera, ma “umana”, priva o quasi di speranze, ma solidale, che condivide i frutti della carità e la fede religiosa, magari la superstizione e, sempre, la rassegnazione.Si è cercato, con qualche licenza storico-letteraria, di descrivere un ospedale come doveva presentarsi dal medioevo sino al XIX secolo, quando le scoperte scientifiche, soprattutto quelle in materia di igiene, rivoluzionarono l’assetto dei nosocomi, che iniziarono così ad assumere l’aspetto odierno. La differenza fondamentale degli antichi “pii ospedali” con gli ospedali pubblici quali furono concepiti dalla fine dell’800 è nella tipologia dell’assistenza, affidata sin dagli inizi ai “volontari” delle Confraternite, e quindi connotata profondamente dalla pietà e dalla devozione religiosa, ed anzi, quasi confusa con esse. Un comune sentimento di solidarietà umana imponeva agli abitanti di un villaggio o di una città, ai membri di una corporazione o di una confraternita, di soccorrere il vicino nato o divenuto infirmus et debilis. Nella Summa theologica dell’arcivescovo Antonino da Firenze (1389-1459), trattato di teologia morale di notevole successo che dedica ampio spazio ai “bisogni” della popolazione più debole, si sancisce l’obbligo di soccorrere i poveri destinando loro l’eccedenza dei beni posseduti. Inoltre, si propone una specializzazione degli ospedali e si delineano le caratteristiche peculiari di chi deve dedicarsi agli ammalati: anzitutto la pazienza e la bontà, quindi l’accoglienza amorosa, caratterizzata, sì, dalla somministrazione del cibo e dei medicinali necessari, ma anche dall’attenzione ai bisogni spirituali. Con un principio laico ante litteram, Antonino afferma che la gestione di tali ospedali può essere affidata indifferentemente a religiosi o secolari, e che questi ultimi possono farlo senza che vi sia bisogno del permesso del vescovo.Si può essere tentati di dire che proprio il vacillare dei dogmi della fede, unitamente al progredire della scienza, ha trasformato

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dall’illuminismo in avanti l’assistenza sanitaria in una professione sociale diffusa, con indubbi vantaggi per gli ammalati. Ciò nonostante, molti ricordano con gratitudine le suore ospedaliere, oggi pressoché scomparse dall’assistenza pubblica, che hanno rappresentato sino a pochi anni fa questa tradizionale sintesi tra professionalità sanitaria e fede religiosa. L’aspetto fideistico-religioso e la speranza nella guarigione affidata al soprannaturale non si possono sottovalutare neppure oggi, e costituiscono un aspetto psicologico di cui occorre tener conto.L’ospedale di Motta di Livenza, la cui attuale struttura edilizia prende avvio nel 1911, rappresenta un paradigma di questo binomio salute-religione, sorgendo accanto alla Basilica della Madonna dei Miracoli, costruita subito dopo l’apparizione della Vergine al contadino mottense Giovanni Cigana nel 1509 (FOTO N.1 e N.2). Il nosocomio territoriale è sempre stato, in qualche modo, strettamente connesso alla Basilica dei Frati Minori, e generazioni di cittadini di Motta e dei dintorni hanno affidato alla Madonna le proprie speranze e le proprie paure di fronte agli eventi estremi della vita. All’interno del convento esisteva, come in tutti i monasteri, un’infermeria, destinata alla cura dei religiosi, ma anche dei poveri e dei viandanti1. Inoltre, per molti anni i

locali del convento, soppresso e confiscato nel secondo periodo napoleonico e riacquistato nel 1832 da padre Vincenzo Volpi –un frate che negli anni del Regno d’Italia napoleonico aveva vissuto insieme ad alcuni confratelli “in un luogo di fortuna”2 vestito da prete secolare-, furono sede dell’“Ospitale per i poveri di Motta”, divenuto Ospedale civile cittadino a partire dal 1866.In questa ricerca non siamo stati supportati da una esauriente documentazione del passato: eventi naturali e bellici, primi fra tutti l’alluvione che nel 1966 colpì duramente Motta e dintorni e l’invasione austriaca del 1918, non hanno risparmiato archivi e biblioteche, pubblici e privati. Pertanto è impossibile ricostruire una storia cronologicamente organica dell’ospedale. Ci auguriamo che nel futuro gli archivi ospedalieri siano opportunamente conservati quali testimonianza della sofferenza degli uomini e delle comunità, della solidarietà e del controllo sociale, dell’evolversi di cure e terapie, ed anche quale ausilio insostituibile per la storia della medicina e per la stessa medicina del futuro3.

Note1 Se ne parla in un resoconto della “teribile Montana” (alluvione) che colpì Motta nel novembre 1785, conservato tra le carte delle “Scuole (confraternite) di Motta” presso l’Archivio di Stato di Treviso.2 Damiano Meda, La Madonna dei Miracoli nella sua origine, nella storia e nella pietà, Motta di Livenza 1985, p. 257.3 Cfr. “Archivi ospedalieri tra passato e presente”, 7 dicembre 1993, Ca’ Foncello, Treviso. Con interventi di Claudio Dario, Pietro Ferracin, Bianca Lanfranchi Strina, Giovanni Pesiri e altri, nell’ambito della IX Settimana per i Beni culturali e ambientali.Afferma Nelli-Elena Vanzan Marchini: “Molti ospedali delle nostre città storiche possiedono documentazione molto antica il più delle volte relativa a lasciti ottenuti dagli antichi ospedali nei quali l’esercizio dell’assistenza e della carità cristiana era permesso da lasciti ed elargizioni. Questi fondi antichi individuati come “preziosi” vengono talvolta passati agli Archivi di stato affinché li restaurino, li conservino e ne permettano la consultazione agli studiosi. L’operazione è senz’altro meritoria, però l’ottica complessiva che costringe ad operare tali frantumazioni nella memoria degli ospedali deve cambiare. A livello regionale si dovrebbe cominciare a rapportarsi con gli archivi ospedalieri come a patrimoni che vanno organizzati e salvaguardati nella loro totalità, perché le cartelle cliniche richiedono consultazione e conservazione come le mappe antiche…negli archivi ospedalieri è scritta la storia della sofferenza degli uomini e delle comunità, la storia della solidarietà e del controllo sociale, la storia delle cure. …Vi sarà poi tanta differenza tra un lascito testamentario del XVI secolo e il macchinario terapeutico donato nel XX secolo da una banca? Non testimoniano entrambi l’esercizio della solidarietà?...E’ emblematico il fatto che le amministrazioni ottocentesche degli ospedali si premurassero nei loro statuti di conservate la strumentazione medica, affidandola al chirurgo primario in quanto la memoria era considerata una componente fondamentale anche per una scienza medica proiettata verso il futuro, ma non per questo disposta a dimenticare il passato…uno dei più preziosi strumentari italiani ci è giunto solo grazie all’amore antiquario dell’economo dell’ospedale.”

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1) La basilica della Madonna dei Miracoli in una cartolina del 1907.

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2) La basilica oggi.

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LE ORIGINI. EPIDEMIE E LAZZARETTI

Le istituzioni ospedaliere trovano lontana origine nell’opera delle prime comunità cristiane a favore dei fratelli, come luogo di assistenza (xenodochia) per coloro che si trovavano in viaggio o in stato di necessità. Nel Veneto i primi luoghi di ricovero documentati risalgono all’Alto Medioevo, nell’ambito dei conventi benedettini -nei quali si trovava quasi sempre un infirmitorium-, coadiuvati poi da quelli degli Ordini cavallereschi, primi fra tutti Templari e Giovanniti. Lo scopo principale era quello di assistere i poveri: la piaga della povertà si può definire senz’altro la più grave e diffusa malattia dei secoli passati, e occorre precisare che il concetto attuale di povertà è piuttosto differente da quello originario. Lo stesso detto latino homo sine pecunia imago mortis si riferisce probabilmente a chi, non avendo di che sostentarsi, è facile preda di ogni sorta di malattie e destinato inevitabilmente alla morte. Se oggi, infatti, definiamo povertà soprattutto la mancanza di beni di proprietà, nel passato i pauperes erano l’innumerevole schiera di quanti vagavano per le città e per le campagne alla perenne ricerca di cibo e di un rifugio. Secondo il cronista fiorentino Giovanni Villani, verso il 1330 a Firenze vi erano 17000 uomini, donne e bambini che vivevano di elemosina, corrispondenti a oltre il 20% della popolazione, e non dissimile era la situazione nel resto d’Italia, compresa Venezia, che alla fine del Medioevo contava 150000 abitanti. Forse peggiore la situazione nelle campagne, dove la sopravvivenza della popolazione era costantemente minacciata dalle guerre e dalle carestie. Le congregazioni religiose, capillarmente diffuse, erano le istituzioni di beneficenza deputate alla gestione degli hospitalia: nel Veneto orientale tra la fine del XIII

secolo e gli inizi del XIV sorse una fitta rete di piccoli ospizi gestiti, in particolare, dalle confraternite dei Battuti o Disciplinati. Ancor oggi l’Ospedale di Ca’ Foncello a Treviso è intitolato a Santa Maria dei Battuti (FOTO N.3). A Motta di Livenza, terra di confine con il Patriarcato di Aquileia, che rimase nell’orbita delle turbolente signorie della Marca trevigiana -le quali, a seconda dell’opportunità, si schieravano con la Repubblica di Venezia o con i suoi nemici friulani-, fino a quando entrò a far parte definitivamente della Serenissima nel 1388, fu fondata l’8 settembre 1448 la Scuola (confraternita) di Santa Maria Annunziata e San Nicolò o dei Battuti. Mentre sull’antico Ospedale di Santa Maria dei Battuti di Treviso, fondato nel 1261, esiste una ricca documentazione in buona parte pubblicata1 e conservata presso l’Archivio di Stato di Treviso, oltre che presso il Centro studi per la storia delle campagne venete (CESCAVE) di Ca’ Tron, non sappiamo con certezza se a Motta sia stato subito creato un ricovero ospedaliero diverso dal lazzaretto, destinato ad accogliere le vittime delle epidemie, ma si può presumere che la congregazione nacque con gli scopi tradizionali delle analoghe istituzioni, le quali nelle vicine San Vito al Tagliamento, Portogruaro, Pordenone, Sacile, amministravano da tempo degli ospedali. Nel 1474 il vescovo di Ceneda Nicolò Trevisan visitò a Motta la chiesa di Santa Maria “in qua fundata est schola batutorum”, ma nella relazione che accompagnava sempre queste visite pastorali2 non si accenna alla presenza di un ospedale. Quel che è certo è che nel 1567, quando inizia la costruzione di un ospedale nel Borgo degli Angeli, ed anche oltre, continua ad esistere un hospedal vechio -del quale nelle carte non si specifica mai la localizzazione- che abbisogna di restauri3 (FOTO N.4).

Note1 Cfr. per tutti: Giovanni Netto, Vicende dell’Ospedale di Treviso nel ‘300, Treviso, 1965, e: Nel Trecento a Treviso. Vita cittadina vista nell’attività della “scuola” Santa Maria dei Battuti e del suo ospedale, Treviso, 1976, e il recente Le terre dell’Ospedale di Santa Maria dei Battuti di Francesca Pastro, Treviso 2003. Anche questo ospedale fungeva da orfanotrofio e ospizio per vecchi e “donzelle da maritar”.2 Presso l’Archivio storico della Diocesi di Vittorio Veneto (“Archivio Vecchio”) si conservano le relazioni delle visite pastorali pre e post-tridentine effettuate a Motta, ma in esse non viene mai citato l’ospedale. 3 Nel libro spese della Scuola conservato presso l’Archivio storico parrocchiale di Motta si legge che il 22 marzo 1579 furono date Lire 10 “al muraro, che si fe bianchezzar l’hospedal vechio”. Di questo ospedale si sa soltanto che nel 1510 era amministrato dal priore Bortolamio Catelan di Giovanni (Damiano Meda, op. cit. p. 257).

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3) L’ospedale di Santa Maria dei Battuti di Treviso, oggi sede dell’Uni-versità. Incisione ottocentesca. 4) L’hospedal di Borgo degli Angeli nel disegno del 1600

5) Lo stemma dei Battuti sul frontespizio del catastico del 1600.

6) Le case di proprietà della confraternita.Sulle facciate campeggia lo stemma con il flagello.

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La spiritualità dei Battuti consisteva nell’immedesimazione con il sacrificio di Cristo, ed era simboleggiata dal flagello che compare nelle loro insegne4(FOTO n.5). Le congregazioni si sostentavano con i fondi destinati alla beneficenza, in particolare dai mercanti e da quanti sentivano la necessità di redimersi dai peccati. Nei “libri segreti” delle compagnie commerciali esisteva quasi sempre un “conto di Messer Domineddio” che consentiva di conciliare i profitti con i principi religiosi; anche nei libri mastri della Scuola di Motta, ricchi di dettagli su entrate e uscite, sono registrate sino alla fine del XVIII le prove che i fondi, frutto della carità privata, non mancavano. Alcuni disegni del 1600 presenti nel Catastico de tutti li beni della veneranda Scuola di Santa Maria e San Nicolò della Motta conservato presso l’Archivio di Treviso testimoniano il cospicuo patrimonio immobiliare della confraternita5 (FOTO n.6) -che donò persino il terreno su cui sorse il santuario della Madonna dei Miracoli-, e si nota chiaramente che gli edifici di proprietà erano contrassegnati dallo stemma dei Battuti. Ma com’era progettato un antico ospedale? Sicuramente l’infirmarium, cioè lo spazio dedicato ai malati, comprendeva, oltre a un’ampia sala di degenza, una stanza per clisteri e salassi –rimedi universali che spesso riducevano il paziente in condizioni più gravi di quelle iniziali- e un locale con armarium che fungeva da archivio e farmacia. Non mancava all’esterno un orto per la coltivazione di piante medicinali, base di ogni terapia. Il numero dei ricoverati era di solito fisso ed il paziente, una volta accolto, rimaneva nell’ospedale fino alla morte: il ricovero temporaneo non esisteva. Sugli ospedali medioevali in generale e su quelli del Veneto Orientale rinviamo alla comunicazione di Luigi Zanin riportata in appendice (doc.1).

Diversa era la funzione e tipologia del lazzaretto, destinato ad accogliere lebbrosi e malati infettivi durante le frequenti epidemie o a far trascorrere la quarantena a coloro che giungevano da luoghi -diremmo oggi- “a rischio”. Nel 1182, la Repubblica di Venezia decideva di destinare al ricovero dei lebbrosi l’Ospedale di San Leone, costruito su un’isola della laguna. In ossequio al culto che prescriveva come protettore dei lebbrosi il Lazzaro dei Vangeli risuscitato dal sepolcro, isola e ospedale cambiarono nome e assunsero quello di San Lazzaro (da cui, appunto, il termine lazzaretto). Nella primavera del 1528, aggiungendosi a una terribile carestia che aveva spinto migliaia di contadini famelici a rifugiarsi a Venezia dalla terraferma, sopraggiunsero la peste e il tifo (“mal di petecchie”), e per parecchi mesi si registrarono migliaia di decessi6. La Repubblica cercò di correre ai ripari, ma obbligò i mendicanti a ricoverarsi negli ospedali, che in questo modo divennero vere e proprie fabbriche della morte. Anche a Motta c’era un lazzaretto, gestito sempre dalla congregazione di Santa Maria e San Nicolò: nel 1580 si stanziano fondi per la “Fabrica di un capitello nel lazzaretto posto nelle Campagnole”7; le località Campagnole, Moletto e Le Cerche, decentrate lungo la Postumia, sono di origine medioevale, com’è probabile fosse il lazzaretto. Nella città liventina si presero molti provvedimenti contro la peste: nel 1478 la Comunità pose delle sentinelle che sorvegliassero di giorno i ponti su Livenza e Monticano, impedendo l’accesso ad eventuali “untori”, e chiudessero di notte le porte cittadine; l’anno seguente si impose ai contagiati di bruciare tutte le loro masserizie e di andare a risiedere in casolari fuori città, a spese del Comune, ma a patto che, qualora fossero sopravvissuti, le avrebbero rimborsate;

4 Lo stemma dei Battuti di Motta è simile a quello di Ca’ Foncello di Treviso, riconosciuto nel R.D. 12/3/1936 in base alla vigente normativa araldica: “stemma d’argento al flagello posto in palo manicato di rosso, avente nella parte inferiore due catenelle di nero, affiancate dalle lettere S e M sormontate da accento circonflesso, il tutto di nero”, dove le lettere stanno per “Sancta Maria”.5 Catastico fatto per me, Costantin Cortelotto pertegador pubblico di Oderzo ad instanzia del Sig. Zuanne Lonà e del Sig. Zanmaria Padoan suo successor Gastaldi della Veneranda Confraternita della Scola del Protettor Ms. San Nicolò della Motta de tutte le sue case in la Motta, et terre pradi ecc.6 Nel Veneto le più grandi epidemie di peste si registrarono negli anni 1348, 1477, 1485/87, 1528, 1576 e 1629/31 (di manzoniana memoria). Quest’ultima a Motta non fu particolarmente violenta, come ricorda una tavoletta votiva di ringraziamento alla Beata Vergine del Carmine presente nel Duomo di San Nicolò (FOTO n.7-8-9).7 Dal Libro dei conti della congregazione, in Archivio storico parrocchiale di Motta. Si tratta probabilmente dello stesso capitello per il quale nel 1578 la Comunità aveva stanziato 10 ducati, e che doveva ricordare “i molti cadaveri sepolti al tempo della peste”. Lepido Rocco, Motta di Livenza e i suoi dintorni, Treviso, 1897, p.103.

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7)

8 e 9) Due lasciapassare rilasciati in tempo di peste da giurisdizioni feudali.

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nel 1525 si inviò una supplica al Doge per ottenere un’esenzione fiscale, dal momento che si erano sostenute molte spese a causa del “flagello della peste, che avea colpite e condotte a morte molte persone”; nello stesso anno si deliberò di ricostruire in pietra la chiesa di San Rocco, protettore degli appestati, che era fatta “di tavole”. Fu durante le epidemie che la Comunità iniziò a nominare due provveditori che eseguissero scrupolosamente le direttive del Magistrato veneziano alla Sanità. A partire dal 1600 la carica venne istituzionalizzata: i provveditori cittadini alla sanità dovevano in particolare stilare precisi referti nei casi di morte improvvisa, ma anche segnalare le malattie del bestiame e prendere gli opportuni provvedimenti. Rocco ebbe modo di consultare nel poi disperso

Archivio comunale le “Relazioni, comparse e decreti in materia di Sanità” e racconta che erano ricchi di descrizioni di sintomi di malattie, diagnosi, cure e referti di esami necroscopici. In appendice riportiamo quello che riguarda un illustre personaggio che trovò casualmente la morte a Motta nel 1765: l’arcivescovo di Udine Bartolomeo Gradenigo, mentre era in viaggio da Venezia al capoluogo friulano (appendice doc. 2). A un certo punto il lazzaretto fu dismesso e in altre occasioni pare fosse la basilica della Madonna dei Miracoli a fungere da temporaneo ricovero per i malati epidemici8, così come in altri periodi fu trasformata in ospedale militare (FOTO n. 10). Secondo Rocco si usava anche, in caso di necessità, requisire due case private contigue alla basilica.

10) la basilica trasformata in ospedale militare austrungarico fino al presbiterio.

8 “E’da ritenersi che la chiesa [della Madonna dei Miracoli] fosse internamente dipinta da buona mano, perciocché dalla paziente opera d’alcuni di que’ padri col cancellare della sovrapposta imbianchitura forse distesa quando il convento servì di lazzaretto, in occasione d’una pestilenza)…”. Alvise Semenzi, Treviso e la sua Provincia, Treviso, 1864, p.244.

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Un episodio emblematico. Dopo il 1832, quando padre Vincenzo Volpi acquistò dal demanio austriaco i locali del soppresso convento francescano, che più tardi divenne sede dell’ospedale civile comunale di Motta -e tale rimase fino al 1911-, a fronte dell’epidemia di colera che nel 1835-36 dilagò nel Lombardo-Veneto l’Arciduca-Vicerè Ranieri d’Asburgo ordinò di istituire “Spedali appositi pei cholerosi” da “stabilirsi nelle diverse Città e luoghi più popolosi”. Quando l’ordine arrivò a Motta il Consiglio comunale, riunitosi il 15 ottobre 1835, deliberò di acquistare da Antonio Gini -anch’egli consigliere, ma, come precisa il verbale conservato in quel che resta dell’Archivio storico comunale, assente alla seduta- “la casa detta Miotto di di lui ragione posta in vicinanza di questo Convento dei Minori Osservanti per disporla urgentemente ad uso d’ospizio dei cholerosi”. Il prezzo pattuito era di 3200 lire austriache; inoltre, si chiarisce che “questo locale una volta che sia cessato ogni sospetto di cholera sarà convertito ad uso di Ospitale Civile…qual Ospitale servirà anco per accogliere li malati miseri di tutto il Distretto”. Ma il giorno dopo viene protocollata un’altra offerta, quella di G. Matteo Botti, di 800 lire inferiore, per un edificio “giacente in limite al paese dal lato di mezzodì, in plaga la più salubre perché ovunque ventilatissima, in suolo elevato al di sopra del livello delle piene del Livenza, ed in contatto a questo fiume”. L’edificio “che non soffre confronto per ordine architettonico né per capacità, dispone di un fondo coltivo che dà un’annuale rendita certa”, a differenza del terreno circostante la casa del Gini, che “consiste in 300 tavole circa di terreno abbandonato in seno della natura, e quasi del tutto sterile” ed è per giunta situato “lungo la strada Callalta notoriamente frequentatissima”. L’Imperial-Regia Delegazione della Provincia di Treviso invita il Commissariato Distrettuale di Motta a procedere senza indugio all’acquisto della casa del Botti, in base al principio che “è prima massima nei provvedimenti reclamati dal bene generale il fare scelta dei migliori: sia pel minore dispendio che importino, come pel maggiore profitto che recano”. Ma a Motta si formano due partiti, uno pro-Gini avallato dal parroco e dal medico condotto, uno pro-Botti, ciascuno dei quali produce pedantemente le proprie ragioni. Il risultato è che la faccenda

si arena e da una lettera dell’Imperial-Regia Delegazione alla Deputazione Comunale di Motta del 26 giugno 1836 si desume che, nonostante il Gini abbia abbassato il prezzo a 2800 lire, ancora nulla è stato deciso. Mancano riscontri successivi, ma è certo che la vicenda non ebbe alcun seguito, anche perché nel frattempo l’epidemia era cessata9. Così Motta per avere un proprio ospedale civile dovette aspettare molti anni. Fortunatamente per i cittadini, il padre Volpi e i suoi confratelli continuavano a prestare opera caritatevole, oltre che spirituale, nel convento, con l’appoggio finanziario di molti benefattori.

ANTICHI OSPEDALI E METODI DI CURA NEL VENETO ORIENTALE

Per quanto riguarda le condizioni degli antichi ospedali in Italia, possediamo una testimonianza d’eccezione, quella di Martin Lutero, che nel 1510 visita a Roma l’ospedale di Santo Spirito e a Firenze quello di Santa Maria Nuova, rimanendo impressionato dalla loro efficienza. “Gli ospedali sono ben provveduti, hanno splendide sedi, forniscono bevande e cibi ottimi, il personale è assai diligente e i medici dottissimi. Appena entra un infermo, questi depone il vestiario e quanto altro gli appartiene; di tutto viene preso nota per un’ordinata custodia . Poi l’infermo indossa un bianco camice e gli viene apprestato un buon letto con biancheria di bucato. Subito dopo sopraggiungono due medici ed inservienti che portano cibi e bevande, contenuti in vetri tersi che non vengono toccati nemmeno con un dito, ma presentati sopra vassoi”. Martin Lutero trovò soltanto da ridire sul principio di carità che induceva gli Italiani a sostenere le istituzioni.Cesare de Nores, vescovo di Parenzo e visitatore apostolico incaricato nel 1584 di verificare nelle chiese del Veneto orientale l’applicazione dei principi liturgici sanciti dal Concilio di Trento, censì tutti gli edifici di culto della Diocesi di Concordia. A Portogruaro, visitando la locale chiesa dei Battuti con annesso ospedale, constatò che gli otto letti presenti nell’ospedale erano

9 Nel 1836 morirono di colera a Motta 22 persone, tra cui il parroco don Cabrusà, sepolto “senza il debito onore” (D. Meda, op. cit., p.257n.).

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«satis instructa», ovvero abbastanza forniti, ma ordinò che gli uomini fossero separati dalle donne. Questa situazione di promiscuità, tipica delle prime forme di ospedale, continuò anche negli anni successivi, dato che il Vescovo di Concordia Sanudo I, nel 1599, ribadì l’invito a evitare che le donne fossero ricoverate assieme agli uomini e a tal fine ordinò che per loro si utilizzasse il «solaro di sopra», dove normalmente si riuniva la confraternita. In un altro comune circonvicino, San Vito al Tagliamento, si verificava la contiguità di un’ala riservata all’ospedale e di un luogo di culto -sempre istituito dai Battuti-, e cioè la stretta connessione di esigenze profane e religiose entro un solo edificio estremamente compatto, secondo la caratteristica tipica degli ospedali tardomedievali europei. A Motta l’hospedal costruito alla fine del ‘500 sorse nel Borgo degli Angeli, che si trovava al confine tra gli attuali Borgo Aleandro e Viale della Madonna, allora lambito dal fiume Monticano, poi deviato e interrato. Anche qui l’edificio ospedaliero fu edificato accanto alla chiesa di Santa Maria degli Angeli, detta dei Morti perché collegata al cimitero, officiata dal cappellano salariato dalla confraternita di Santa Maria e San Nicolò. Questa chiesa, eretta nel 1467 e affrescata da Dario da Pordenone, fu demolita nel 1873. A San Vito pare che nella seconda metà del ‘300 la stessa piccola chiesa svolgesse le funzioni di ospedale secondo lo schema caratteristico delle cosiddette “sale ospedaliere medievali”, che garantivano la funzione assistenziale abbinata nello stesso ambiente a quella religiosa, ma è certo che nel corso del secolo successivo gli ampliamenti dell’edificio e il suo innalzamento per poter utilizzare piani più alti finirono per dividere stabilmente la destinazione dei due vani, quello della chiesa e quello dell’ospedale vero e proprio. Sempre a San Vito i documenti relativi alla visita apostolica del vescovo Cesare de Nores testimoniano che nell’ospedale esistevano nove “cubilia” destinati a poveri e miserabili del posto e a pellegrini in transito e che i letti dei malati erano tutti raccolti in un’unica stanza senza separazione dei sessi. L’amministrazione dell’ospedale era affidata a un “cameraro” eletto tra i membri della confraternita ma la gestione quotidiana vera e propria dell’istituto era demandata ad un “priore” che vi abitava con la famiglia e la di

lui moglie aveva il compito di accudire alle degenti. Anche a Motta l’ospedale veniva retto da un priore, che dipendeva direttamente dal gastaldo della Scuola di Santa Maria e San Nicolò.Alla fine del Medioevo la professione medica era regolata a Treviso con molta cura. Già nel 1231 si emette un bando per l’assunzione di un medico che sia anche in grado di istituire una scuola di medicina. Nel 1314 il Comune assoldò maestro Pizolo, figlio di maestro Francesco di Capo di Monte da Montebelluna, affiancandolo agli altri medici già operanti, in qualità di giustaossi (“cum civitas indigeat medicis qui mederi sciant de fracturis ossium”). Egli doveva medicare anche altre infermità e lavorare sempre gratis per i poveri, ed eventualmente dare lezioni di medicina a chi le richiedesse. Il suo contratto prevede l’obbligo specifico di risiedere a Treviso o nei borghi, nonché di non allontanarsi e di non pernottare mai fuori città senza il permesso del podestà. Il medico era affiancato dal chirurgo, o cirologo, che spesso svolgeva anche la professione di barbiere: questi eseguiva piccoli interventi e salassi, medicava “bruschi e sgrafadure” ed era sostanzialmente considerato una sorta di manovale della professione medica. In ogni caso nella Treviso del ‘300 sia i medici che i cirologi guadagnavano molto bene, al punto da prestare denaro allo stesso Comune10. Grande autorità medica del tempo era Pietro d’Abano, che nell’opera Conciliator differentium stabiliva, ad esempio, “non esser il salasso mai tanto salutare, quanto nel secondo quarto della luna; e per guarire dai dolori nefritici, doversi nel momento, in cui il sole passa nel meridiano, col cuor del leone delineare la figura d’un leone sopra una piastra d’oro, e appendere poi questa al collo dell’ammalato; inoltre gli strumenti di ferro essere preferibili a quelli d’oro, perché Marte esercita una grande influenza sulla chirurgia”. Un codice cartaceo risalente agli ultimi anni del 1300 e conservato presso la Biblioteca Capitolare di Treviso descrive i rimedi in uso, a cavallo tra botanica, superstizione e magia.Eccone alcuni:Rimedio per l’epilessia“Recipe le foglie dell’erba bissara, overo la semenza o la radice, overo de la soa uva, e dala a bevere a quello che a questo male, e in diece dì serà guarito. Ma in questi diece dì avrà el morbo fortemente;

10Angelo Marchesan, Treviso medievale, Treviso 1923, vol. II, pp. 262 segg.

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questa erba nasce per le frate o per li boschi et apicasse ali albori come fano le vite, et fa li grani a modo de graspi de uva e sono rossi et si se adomanda erba bissara, perché se involta intorno a li albori como la bissa. Ancora piglia una herba che a nome pionia, e tritala e fane polvere; poi habi del osso de uno homo morto, zoè dela testa, se elo è homo che abia male, et s’ela è femina, piglia de quello de la femina”.

Per la sciatica“Piglia un mastello de legno de doe some, et conza dentro per modo se possa sedere col c…cioè nudo et copri de sora cum uno lenzuolo che copra tuto el mastello, et toli cinque pedre (pietre) cote che non sia state in opera, et infuogale molto bene et metile in lo mastello una per volta, et per ogni volta uno terzo de uno bichiero de aqua de vita che sia bona e botala sula preda, e fa cossì cinque volte tanto che dici 3 pater e 3 ave; et fornito de meter tute le dite pietre vatene in lecto nudo, che sia caldo e fate ben fregar li fianchi in zoso fina su lo pè cum uno pano caldo; et fa cossì diexe sere e serai guarito”.

Per il gozzo“Toli una sponza e metilla in un testo (padella) caldo e fane polvere, e poi toli una onza de pevere polverizzato, e una de zenzero polverizzato et mescola cum optimo vino caldo e bevilo la matina per tempo, e la sera quando tu vaj a leto, tre dì e tre nela note, soto la lengua e desecarase”.

Per il morso di un cane rabbioso“Tuoli le foglie dela ortiga et de lo sale et pestala et fane empiastro et metila suso la mordadura; et anche fa gran prova ali ochi carnosi”. O anche: “Recipe una crosta de pan de orzo et scrivi in su la crosta queste parole: + gusagota + pissagota + in sancta hic ipsa incipit panem; deo gratias. Et dà da manzar a coluj ch’è stato mordudo dal chan rabioso e serà liberato”.

Contro la peste“Recipe aceto forte, aqua vita, in tuto mezo bichiero, quanto uno

de triacha [sorta di rimedio universale] fina, et artanto de senavro polverizzato et mescola ogni cossa insieme et dalo a bere al paziente, et metillo subito in lecto, et coprilo ben de pani tanto ch’el sudi ben et substegna el sudore, e questo se convien far subito , da poi che è data la doglia infra spacio de ore octo, et immediate che l’averà padito la medecina descaza ogni veneno immediate che l’averà padito quella medecina per el sudore; ma guarda non la scaldar molto”. O ancora: “recipe semenza de citrol, semenza de ruda, semenza de verze, semenza de coloquintida, an.3, gientiana 3, trementilla 3, osso de corno de cervo 3, bolo arminio lavado cum aqua de scabiosa 3, jacintini; ambra de balena 3, mira electa, aloe cicotrino lavado cum aqua de scabiosa, zaffaran; pesta ogni cosa et incorpora cum l’aqua dela scabiosa et fa pìrole grande come cesare (ciliegie) et pigliane ogni matina, et queste sono optime contra peste, et probate”.

Probabile vittima di simili metodi di cura fu un mottense illustre, l’umanista e cardinale Girolamo Aleandro, morto a Roma nel 1542. Nel suo Diario descrive spesso i disturbi di stomaco che lo affliggono e il gran numero di medicine assunte. Uno storico dell’epoca11 osserva che sarebbe vissuto certamente più a lungo se non avesse dato troppo credito ai medici, facendo un “intempestivo ac immodico” uso di farmaci.Ingredienti e rimedi rimangono più o meno gli stessi sino a fine ‘700, come si desume dal “Catalogo dei medicinali de’ quali devono essere sortite le Spezierie Medicinali di Villa” promulgato dal Podestà di Treviso Zuanne Moro nel 1778 (FOTO n.11) -corredato da una Ricetta dell’Unguento per la Rogna del Pio Ospitale di Treviso-, e come si ricava da un interessante “consulto”, probabilmente di fine ‘600, rinvenuto tra carte mottensi in un archivio privato, che si trascrive in appendice (vedi appendice doc.3). Nel frattempo però si era ulteriormente sviluppata una medicina teorica, erudita e sempre sprezzante verso la pratica chirurgica, mentre i medici detti “fisici” arrogavano a sé in esclusiva la prescrizione delle medicine e la dieta da far osservare al malato. Anche dal consulto mottense risulta un preciso rispetto dei ruoli, e le visite domiciliari a partire dal XVI secolo si svolgevano secondo

11 Alfonso Ciacconio, Historia Pontificum, tomo III, 1534.

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11) Prontuario far-maceutico emanato dal Podestà di Treviso.

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rituali ben descritti nel Malato immaginario di Molière. Si tenevano porte e finestre ben aperte, mentre su un fornello si bruciavano sostanze aromatiche. In prossimità del malato, il medico teneva un mazzetto di erbe profumate vicino alle narici e in mano un ramo di ginepro acceso per scongiurare eventuali miasmi pestilenziali. Il paziente veniva interrogato da una certa distanza sui sintomi e sulle manifestazioni dolorose e poi, se necessario, auscultato dal medico che gli si avvicinava di spalle. Poteva esserci un esame organolettico di feci e urine, con una prolusione di dotte citazioni latine che raramente il paziente poteva comprendere, ma che doveva rassicurarlo sulla competenza del medico. I Provveditori veneti alla Sanità autorizzavano la pubblicazione e la propaganda di ricette e medicinali (FOTO n.12 e 13), ma non mancavano i fogli pubblicitari diffusi dalle singole Spezierie (FOTO n.14).

L’HOSPEDAL DI BORGO DEGLI ANGELI (1567-1806): PRIMO ESEMPIO DI SPERIMENTAZIONE PUBBLICO-PRIVATA?

La fabbrica dell’hospedal novo di Borgo degli Angeli fu lunga e laboriosa. Nel gennaio del 1567 la Comunità di Motta nominò un “Provveditor sopra l’Ospedal”12. Lo scopo è che “unitamente alla Scuola di San Nicolò siano posti li fondamenti per far l’Ospitale in Borgo, vicino alla Chiesa di S. Maria dei Morti”. Curiosamente, pare trattarsi di quella che oggi definiremmo “sperimentazione pubblico-privata”, dove il pubblico (la comunità) affida al “privato” (la confraternita) la costruzione e la gestione dell’ospedale, mantenendone sempre il controllo, tant’è vero che la confraternita, più che dipendere dal vescovo diocesano, com’era consuetudine, sembra rispondere direttamente alla comunità13. Il 20 marzo 1567 Francesco Locatello, gastaldo della Scuola di Santa Maria e San Nicolò, compra da Marino Rizzato “tertiam partem sediminis seu

Brojlii esistenti in Burgo Sanctae Mariae Mortuorum”. Notaro Antonio de Mediis “de honorando Collegio Notariorum Mothae”. L’acquisto viene fatto “pro facendo unum Ospitalem ut constat parte in ea capta sub die quarta mensis instantis”. Dunque vi era stata una regolare delibera in data 4 marzo, ed erano stati stanziati 50 ducati d’oro per l’acquisto di quella che era la terza parte di un terreno che Marino Rizzato deteneva in comproprietà con altri familiari. L’edificio è certamente quello ancor oggi esistente tra la fine del Borgo Aleandro e l’inizio di Viale Madonna, di proprietà Stradiotto, anche se con tutta probabilità fu più tardi ampliato in altezza e larghezza, come si può presumere da una traccia verticale visibile anche in vecchie foto sul muro laterale destro, mentre sul lato sinistro fu accorpato in epoca successiva un altro edificio (FOTO n. 15 e 16). Dodici anni dopo l’acquisto del terreno la costruzione non era ancora terminata: il 6 marzo 1579 si pagano lire 55 a “Bortolo Gusella per uno centenaro de tavolle e letti e per gli marangoni [carpentieri] per far gli sollari, scale et porte nel hospedal novo”. Ecco alcuni esempi di spese tratti dal libro dei conti della Scuola:

27 settembre 1579: salario a Bastian Targa (il priore) “per lavar gli drappi del hospedal”. L.2018 marzo 1579: “per amor de Dio exsborsati in comprar olio, et altri onguenti, per medicar quella povera zotta [zoppa] nel hospedal”. L.117 settembre 1580: per tagliare “l’herba del cortivo et prado del hospedal novo”. L.48 gennaio 1581: “al prior14 per suo salario per tenir neto l’hospedal”. L.20.Tra le spese scrupolosamente annotate, quelle per porte e finestre, che vengono ultimate solo nel 1584, e ancora per molte elemosine a persone “bisognose et vergognose”, per il trasporto dei trovatelli (detti “creature”) all’ospedale di Oderzo, forse più capiente, e anche alcune spese stravaganti, come quella del 25 marzo 1585 “per redimer dal carcere quel pover frate [confratello] retento con

12 Lepido Rocco, Motta di Livenza e i suoi dintorni, Treviso, 1897, pp. 531-532. Rocco trae le notizie dal poi disperso Archivio comunale.13 Altra curiosa coincidenza è che l’attuale Direttore Sanitario dell’Ospedale Riabilitativo di Motta è Marco Cadamuro Morgante, discendente diretto del “distinto chirurgo” Bartolomeo Cadamuro, la cui famiglia fu aggregata al Nobile Consiglio di Motta nel 1700.14 Nel 1585 il priore era ancora Bastian Targa.

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12) 13)

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15 e 16) L’hospedal di Borgo degli Angeli oggi. Sul lato destro è visibile il segno di partenza del probabileampliamento in larghezza e altezza dell’edificio.

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tanto gran strepito et scandalo”.

Più in là nel tempo, continuano le spese per i sussidi ai poveri o per dar loro ricovero nell’ospedale15 e per maritare o “monacar donzelle”, che vengono provviste di “vestine, cotole, intimele [federe], lenzuoli, gabane, busti…”. Le finanze e le attività dell’ospedale andarono sempre più scemando: nel 1804 la Comunità di Motta descriveva “un piccolo ospizio senza rendita, di ragione della Veneranda Luminaria di S. Maria e S. Nicolò, che caritativamente viene concesso per alloggiare qualche povero infermo di questa terra”16. Prima della caduta della Repubblica Veneta avvenuta nel 1797, si era stabilito che ogni “Podesteria” trevigiana disponesse di “…un Fiscale, un Protomedico, un Medico suffraganeo, Cancelliere, Vice Cancelliere, un Chirurgo, quattro Fanti e due Deputati in ciascheduna Villa, che vegliano costantemente su qualunque emergenza per renderne immediatamente l’Offizio”. “In tutti i casi di morti repentine d’Uomini, e di animali valsi l’Offizio del proprio Medico, e Chirurgo o di Periti persone tutte esperimentate”17. Il podestà mottense Andrea Landi nel 1791 trasmette su richiesta del Podestà e Capitano di Treviso l’organigramma sanitario della città:

“In esecuzione alle riveribili Lettere ecc. mi do l’onore di avanzarle l’inserita nota riguardante Medici Fisici e Chirurghi esercenti in questo luoco e territorio ecc.” .

Nota de’ Medici Fisici e Chirurghi esercenti nella Terra della Motta e TerritorioEcc.te Dr. Luigi Soler medico condottoSr. Luigi Cimarosti Chirurgo condottoSr. Giuseppe Ortica Chirurgo

Sr. Gio. Domenico Ortica ChirurgoSr. Valerio OrticaSr. Valerio Nani(Esercenti)Motta, 20 luglio 1791. Andrea Landi Podestà.

In quell’occasione, aggiunge che:

“Relativamente alle ossequiate lettere con le quali mi vengono accompagnate alcune stampiglie della Terminazione e Proclama 4 Maggio dell’Ecc.mo Magistrato alla Sanità di Venezia nell’importante argomento della China-China per assicurare possibilmente la preservazione della medesima e per togliere l’inferior qualità della stessa, ed in quanto al Proclama perché li Medici e Chirurghi non possano esercitare nello Stato né usare di altri privilegi se non di quelli che venissero rilasciati dall’Università di Padova, e da Colegi di Venezia, esclusi per sempre tutti gl’esteri …ho fatto pubblicare sotto questa Pubblica Loggia con le solite formalità gl’esemplari medesimi ecc.” (FOTO n. 17-18-19).

Con l’avvento del primo dominio napoleonico è il chirurgo Giuseppe Ortica ad assumere la carica di presidente della Municipalità di Motta. Il 26 maggio 1797 con il motto “Libertà Virtù Eguaglianza” la Municipalità elegge a delegati alla Sanità “i Cittadini Gio. Batta Fabris e Girolamo Tagliapietra” e Segretario alla Sanità “il Cittadino Domenico Lippi”. Di fronte alla rapacità subito dimostrata dai francesi i governanti locali si dimostrano saggi e intenzionati soprattutto a difendere la popolazione: di fronte alle pressanti richieste del “Comitato Militar Centrale” di Treviso che richiede un pesante contributo di attrezzature per il secondo ospedale militare (destinato ai francesi), “di fresco eretto”, il 14 ottobre Ortica risponde che “sono tre giorni che qui

15 28 giugno 1766 “il povero Antonio Basso da quattr’anni ridotto all’ultimo della miseria non ha nemmeno letto da dormire, perciò umile e clino ricorre a quest’adunanza acciò voglia fargli la carità di riceverlo in questo Ospitale”. Lo stesso giorno si annota: “ridotto l’Ospitale all’ultimo del bisogno della rinnovazione de lenzuoli e stramazzi [materassi], perciò manda parte il Sig. Gastaldo che siagli data facoltà poter spendere per l’occorrente…” (ASTv, Scuole di Motta, busta 3).16 L. Rocco, op. cit., p.532.17 Da Allegazione della Magnifica Città di Treviso e suo Offizio di Sanità, 1791.

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dimorano 3000 soldati e 700 cavalli”, da ospitare e mantenere18, e che “se fosse a vs. cognizione le nostre miserie” tali richieste non verrebbero certo fatte. Fa presente che una esondazione di Livenza e Monticano “apportò a questi miseri abitanti il deplorabile sacrificio delle loro sostanze”, e che mancano del tutto sorgoturco, legumi, uva e fieno. Il delegato Fabris, dal canto suo, dovendo dopo altre insistenze assecondare la richiesta, scrive: “Tutta la biancheria ed altri effetti ch’erano destinati per costì si dovettero impiegarli per questi ammalati e non ci troviamo più al caso di spedirvi cosa alcuna…”. Il 29 ottobre il Comitato di Treviso attesta ricevuta da Motta di “8 lenzuoli 8 camicie 6 paglioni 6 capezzali e 2 coperte”, ma contestualmente lamenta in tono un po’ minaccioso come “in tutto il vs circondario non si ritrovi della gioventù che ami di arruolarsi nella milizia. Indagate, cittadini, per quanto potete, di ritrovar dei volontari, e la forza sia l’ultimo vs. tentativo. Salute e fratellanza”. Negli stessi giorni, però, il Trattato

di Campoformido poneva fine al primo dominio napoleonico, e i territori veneti venivano ceduti all’Austria.

D A L S E C O N D O P E R I O D O NAPOLEONICO AL REGNO SABAUDO

Con l’instaurarsi del secondo dominio napoleonico nel 1806 il settore dell’assistenza e dalla pubblica beneficenza venne fortemente rimaneggiato: furono soppresse tutte le congregazioni religiose e fondate le Congregazioni di carità, mantenute poi dall’Impero austroungarico e anche, successivamente, dal regno d’Italia. Erano amministrazioni unitarie di tutti gli ospedali, orfanotrofi luoghi pii, monti di pietà, lasciti e fondi di pubblica beneficenza di qualunque natura o denominazione, delle quali

18 Lepido Rocco e Damiano Meda narrano nei dettagli le violenze e le ruberie dei napoleonici.

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facevano parte quasi esclusivamente autorità laiche. A Motta cominciò un lungo braccio di ferro tra la locale Municipalità e la Vice-Prefettura del Dipartimento del Tagliamento, l’autorità francese con sede a Treviso cui era direttamente subordinata. Sono continue le lamentele, i richiami e le minacce per le incurie e le omissioni degli amministratori locali, che l’8 ottobre 1808 avevano comunicato di non avere “nella sua Comune alcun istituto di pubblica beneficenza”. L’hospedal descritto quattro anni come “piccolo ospizio senza rendita” aveva cessato di funzionare in forza della soppressione delle congregazioni religiose, e non era stato rimpiazzato da un analogo istituto. In verità i mottensi non volevano farsi carico dei malati militari francesi, privilegiati più di ogni altro dal governo, e per questo tardavano ad attivare la congregazione di carità. E i malati civili? Mancano notizie, ma è presumibile che continuassero ad essere assistiti a domicilio o nel convento della Madonna dei Miracoli -sopravvissuto a una prima soppressione degli istituti religiosi veneti decretata da Napoleone nel 1805-, almeno fino a quando, nel 1810, fu secolarizzato e confiscato a seguito del Decreto di Compiègne. L’ex-frate Vincenzo Volpi, ridotto a vivere in un “luogo di fortuna” con sette confratelli, si mise subito a disposizione della popolazione, assistendo poveri e ammalati, fino a che, nel 1832, realizzò il sogno di riacquistare l’edificio monastico grazie alla generosità dei fedeli.Piovono senza tregua su Motta le disposizioni degli occupatori francesi, eloquenti anche per la situazione di estrema e generale indigenza che descrivono: il 4 novembre si prescrive che le amministrazioni degli ospedali civili diano ai militari “che sortono dagli Ospedali” e hanno assoluto bisogno di “scarpe ed effetti di piccolo equipaggi” le migliori “fra quelle lasciate dagli uomini morti”. L’8 dicembre il Vice-Prefetto richiede “immediatamente e senza perdita d’un minuto” una “dettagliata e specifica della qualità e quantità de’ cibi e bevande componenti il vitto giornaliero di ciascun ricoverato ne’ pii stabilimenti, precisando le misure e i pesi”. Il 13 dicembre un solenne richiamo del Prefetto del Dipartimento del Tagliamento lamenta “l’inattività assoluta della Congregazione di carità di Motta” a proposito dei “doveri dell’umanità”, e dà un

mese di tempo perché “lo stato amministrativo della Congregazione di Motta pareggi quello di tutte le altre Congregazioni”. Si allega un modulo stampato da compilare:“Conto preventivo delle rendite e spese degli stabilimenti di pubblica beneficenza riuniti sotto l’amministrazione della Congregazione di carità nel comune di …Per gli ospedali: riparazioni ai locali per uso degl’istitutisalari ai medici, chirurghi, infermieri ed altri inservienti nell’interno dell’Ospedaletrattamento di n. malati pazzi incurabili carcerati infermi medicinalibiancheria, manutenzione di n. …letti, rinnovazione di mobili ed utensiliintroduzione delle derrate in città, e spese minutelumi, combustibili, carta, libri, penne ecc. per l’interno dell’ospedaleoggetti di cultotumulazione di n. …cadaveri, cioè n. maschi e n. femmine”.

E’ significativo che il modulo, giacente dopo due secoli esatti tra le carte delle “Scuole di Motta” dell’Archivio di Treviso19, da cui abbiamo tratto queste notizie, sia rimasto in bianco. Il 6 gennaio 1809 il Vice-Prefetto vieta di trasferire “da un Ospitale all’altro i malati militari, atteso il rigore della stagione, non permettendo l’umanità ed il riguardo da doversi a tali persone benemerite che venga esposta ad un così prossimo pericolo la loro vita consagrata alla difesa del Sovrano e della Patria”. Sei giorni dopo il Vice-Prefetto comunica che “l’Amministrazione della Guerra dell’Impero Francese ha ridotto la corresponsione pel trattamento e cura degl’ammalati militari francesi ad 1 franco per gli Ospitali della riva destra dell’Adige, e ad 1 franco e 10 centesimi per quelli della sinistra”: un motivo in più per evitare di farsi carico dei soldati francesi.

19 Busta 31.

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Soltanto il 6 febbraio 1812 si comunicano a Treviso i nomi dei membri della Congregazione di carità:“Elenco complessivo di tutti li Membri che compongono l’intiera Congregazione di Carità di Motta, esistente nel Cantone di Motta, Distretto di Conegliano-Dipartimento del Tagliamento:Antonio Burlina, presidenteGio. Domenico Brustoloni, vice-presidenteAngelo Pasini (tesoriere), Gio. Battista Sutto, Luigi Peratoner, Melchior Zannoner (membri)”.

Un mottense che invece fu in buoni rapporti, anche personali, con Napoleone fu Antonio Scarpa (FOTO n. 20), uno dei primi anatomo-patologhi dell’era moderna. Nacque a Lorenzaga di Motta nel 1752, si laureò in medicina a Padova nel 1770 ed ottenne nel 1772 la cattedra anatomo-chirurgica dell’Università di Modena, che tenne sino al 1783, anno in cui venne chiamato all’Università di Pavia. Qui gli fu assegnata la cattedra di Anatomia umana, accoppiandovi l’insegnamento di operazioni chirurgiche. Il suo primo impegno fu la costruzione dell’ampio e superbo

teatro anatomico, oggi “Aula Scarpa”. Gli venne poi affidata la direzione della Clinica Chirurgica, fu riconfermato professore di Anatomia Umana e Clinica Chirurgica, fu Direttore degli Studi Medici e dei Gabinetti e ripetutamente Rettore. Il nome di Antonio Scarpa rimane soprattutto legato alle fondamentali scoperte che egli, con finissima tecnica dissettoria, fece in campo anatomico ed in particolare neurologico: diede una magistrale descrizione dell’organo dell’udito, di cui scoprì il ganglio vestibolare ed il timpano secondario; studiò l’organo dell’olfatto e scoprì il nervo olfattivo ed il nervo nasopalatino; scoprì ed accuratamente descrisse il numero, l’origine ed il decorso dei nervi cardiaci. Scarpa fu anche un grande chirurgo: nelle sue descrizioni di operazioni chirurgiche si trova sempre, accanto alla tecnica, una dettagliata descrizione anatomica, come nella sua grande opera sulle ernie, dove egli magistralmente descrive le regioni inguino-addominale ed inguino-femorale ed i particolari di quello che ancor oggi viene chiamato “triangolo di Scarpa”. Morì nel 183220. Dopo il Congresso di Vienna iniziano i lunghi anni del Regno Lombardo-Veneto. Anni di declino e depressione, soprattutto per

20 Presso il Museo per la Storia dell’Università di Pavia si conserva in alcool la testa di Antonio Scarpa (FOTO n. 21). Due le versioni sulla esposizione della singolare “reliquia”: la prima riconduce a una soverchia venerazione da parte degli allievi, la seconda all’esatto contrario, e quindi a una vendicativa decapitazione della salma operata dagli stessi. In ogni caso, il reperto è accompagnato da una iscrizione elogiativa: “Honori et memoriae Antonii Scarpae / ingenio et doctrina singulari anatomicorum principis / qui musaeum inventis suis operibus / auctum studiis anatomicis fovendis / atq ornamento nobilissima sui parte honestavit”.

20) Antonio Scarpa in un’incisione di

epoca napoleonica.

21) La testa di Antonio Scarpa conservataall’Università di Pavia.

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Venezia21, ormai città periferica dell’Impero austroungarico, che sembra destinata a spopolarsi e a trasformarsi in una romantica città-museo, senza peraltro godere ancora dei benefici economici del turismo di massa, e poi per tutto l’entroterra veneto. Si diffondono le malattie connesse alla povertà e alla sottoalimentazione: pellagra, scorbuto, rachitismo, con frequenti epidemie di tifo e di colera. L’Imperial Regia Delegazione Provinciale di TV in un “avviso” del 3 giugno 1862 elenca Medici, Chirurghi, Levatrici e veterinari “accreditati”. A Motta il medico è Egidio Giacomini22, il chirurgo Francesco Fantini, i farmacisti Pietro Burlina e Giovanni Sartori, le levatrici Orsola Scarpa, Romana Barea e Malvina Longo Bigotti, il veterinario Giovanni Lippi.Si è già detto come negli anni 1835-36 si dovesse edificare un lazzaretto per colerosi destinato, a fine epidemia, a diventare ospedale civile comunale e di come non se ne fece nulla: soltanto dopo il 1866, quando Lombardia e Venezie entrarono a far parte del Regno d’Italia, nacque il tanto auspicato nosocomio pubblico. Ancora una volta, fu il convento della Madonna dei Miracoli ad accogliere gli ammalati e i poveri di Motta e dintorni. Facendo rilevare che padre Vincenzo Volpi, nell’acquisto del 1832, aveva posto la condizione che “cessando il convento di appartenere ai Minori Osservanti non abbia ad appartenere a beneficio dello Stato, ma sia invece costruito Ospitale per i poveri di Motta” il Comune ottenne nel 1869, dopo la nuova soppressione degli istituti religiosi decretata dal Regno sabaudo, che l’antico edificio non venisse incamerato dal demanio dello Stato, bensì dal Comune stesso, il quale ne affidò la gestione alla congregazione di carità. Gran parte del convento fu adibita “ad uso di infermeria e servizi relativi”; rimasero, pagando un affitto, alcuni frati incaricati di officiare la basilica e anche di assistere spiritualmente gli ammalati23. L’assistenza, garantita poi da un cappellano appositamente nominato, durerà fino al 1942, quando, piuttosto a malincuore, i frati dovettero rinunciarvi per decisione del vescovo di Vittorio Veneto, che preferì affidarla a un sacerdote del clero diocesano24.

Nel 1880 nacque ufficialmente l’Ospedale civile comunale di Motta, con un proprio statuto organico. Era retto da un’Amministrazione composta da un presidente e quattro membri eletti dal consiglio comunale, i quali prestavano servizio gratuito. Grazie anche a numerosi benefattori, nel 1890 lo stato patrimoniale era costituito da “beni rustici, fabbricati, rendita pubblica, mutui e mobili del valore complessivo di circa sessantamila lire”, una cifra non indifferente. Dal 1880 al 1890 la retta giornaliera per gli ammalati a carico del Comune di Motta ammontava a L.1.30, per quelli a carico di altri comuni a L.1.45; in questi anni la durata media di un ricovero era di ben 44 giorni. “Dal 1890” scrive Rocco qualche anno dopo “la gestione dell’Ospedale progredisce con efficacia sempre maggiore, imperciocché le accresciute comodità del locale, l’inappuntabilità del servizio che vi prestano gli infermieri, la buona raccolta di apparecchi di medicina e di istrumenti chirurgici e la premura ed abilità del medico-chirurgo curante [il dott. Giulio Dozzi], fanno sì che vi accorra di anno in anno un numero sempre maggiore di infermi e che vi trovino conforti e rimedi soddisfacenti”. Le operazioni più praticate erano in quel periodo “laparotomie, ovariotomie, operazioni radicali alla Bassini per la riduzione delle ernie (oltre 50 all’anno)”. Il martedì e il sabato mattina era in funzione l’ambulatorio, molto frequentato anche da pazienti dei mandamenti vicini (FOTO n.22). Due validi chirurghi mottensi, Giuseppe Trevisanello e Basilio della Frattina, erano in quegli anni rispettivamente primario dell’Ospedale Pammatone di Genova e primario dell’Ospedale civile di Pordenone. Le celle del convento ospitavano ancora, secondo l’antica tradizione e con gravi problemi di promiscuità e sovraffollamento, singoli o famiglie di indigenti, che si riuscì a ridurre, nel 1891, a una ventina di unità. Nel 1911 i Francescani ricomprarono dal Comune di Motta il convento, spendendo 60.000 lire per l’acquisto e 12.000 per l’ennesima riconversione dell’edificio. 110.000 lire fu invece l’ammontare del preventivo per il primo padiglione (oggi

21 Cfr.: Alvise Zorzi, Venezia austriaca, Editrice Goriziana, 2000.22 Singolare figura di medico-poeta, autore dei “Versi” pubblicati postumi nel 1908. Fu medico condotto per cinquant’anni.23 “I sacerdoti, per gratitudine all’ospedale, che assegna loro un’abitazione, si esibiscono di prestare gratuitamente la loro opera spirituale agli infermi nel fu convento” (D. Meda, op. cit., p.260).24 D. Meda, op. cit., p.261-262.

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“Cardazzo”), che l’amministrazione comunale fece finalmente costruire sul terreno dell’ex-orto dei frati, e che costituì il primo nucleo dell’odierno complesso ospedaliero (FOTO n.23). Nel 1922 il Comune acquistò dai religiosi un altro appezzamento per edificarvi il padiglione delle malattie infettive (FOTO n.24), progettato dall’architetto Attilio Saccomani, autore di molte altre opere pubbliche a Motta e dintorni. Si trattava di una costruzione all’avanguardia, tant’è che l’anno dopo il sindaco di Castelfranco Veneto chiedeva a quello di Motta la pianta del padiglione e altre informazioni tecniche (appendice, doc. 4), dovendo costruirne uno analogo (FOTO n. 25).

L’INVASIONE AUSTROUNGARICA

Antonio Ludovico Ciganotto (1869-1934), francescano, fu docente di teologia, storia ecclesiastica e diritto canonico a Malta e a Gerusalemme, dove venne ordinato sacerdote. Alcuni suoi saggi sul filosofo medioevale Duns Scoto sono ancor oggi ritenuti fondamentali. Durante l’invasione austro-ungarica del 1917-1918, conseguente alla disfatta di Caporetto, si trovava nel convento di Motta, e ci ha lasciato una drammatica cronaca di quei giorni25. In data 7-8 novembre 1917, quando gli austriaci sono alle porte di Motta, annota: “L’Ospedale civile è stato sgombrato per tempo dai malati. La clinica e quanto vi aveva di meglio, è stato messo in salvo. Alcune vecchie ricoverate e impotenti a muoversi, sono state abbandonate. Ma fortuna per loro che un religioso, il Cappellano, sia andato a farvi un sopraluogo! Se il convento non provvedesse, quelle povere disgraziate e ignorate sarebbero morte di fame”. Il 10-11 novembre: “Il saccheggio nel vero senso della parola, si esercita liberamente. Tutti questi invasori, chi più può più porta via. Le botteghe e i depositi dei grandi negozianti e i migliori palazzi sono piantonati da guardie armate, affinché il popolo non abbia da approfittare di qualche cosa. La rapacità e l’ingordigia, dirò così, insensata, è qualcosa d’indescrivibile, di frenetico. I soldati abbrancano qualunque cosa che cada loro fra le mani: libri, carte, specchi, oggettini di lusso, ninnoli, ecc., tutta roba a loro inutile che poi gettano nei cortili, nelle strade e nei fossi. Sorte

miseranda per mano di questi predoni è toccata all’archivio antico del municipio, ricco di documenti di primaria importanza”. Il 13 novembre gli invasori requisiscono metà del convento ad uso ospedale. Il 14 tocca alla basilica, fino al presbiterio (FOTO n.26). 17 novembre: “A cimitero militare è stato adibito il terreno all’angolo sud-est dell’ospedale civile. A scavare le fosse vi pensano già i prigionieri russi!”. 3 dicembre: “Compiuta la rapina ufficiale delle macchine, del bestiame, dei viveri ecc.: provvedere al mantenimento della popolazione incombe all’autorità civile del luogo! …il colmo è che i malati civili possono usufruire della visita gratuita dei medici militari (che del resto in omaggio alla verità e alla giustizia, si sono prestati e si prestano con premura… Quando i “civili”, come ora appellansi, cioè la popolazione soggiacerà alla malattia della…fame (che già bussa alla porta di molti), i medici militari faranno bensì la visita, ma daranno poi la medicina?”. 29 dicembre: “Sono arrivati due carri ferroviari di carbon fossile per l’ospedale. Questa notizia per l’ufficiale che la dava era un avvenimento…gli ospedali sono privi delle cose di prima necessità. Non parlo di stufe (ora improvvisate in qualche modo), o di bottiglie di riscaldamento per i degenti, che potrebbero parere un lusso, ma di letti, di biancheria, di coperte. Per un bel po’ i malati e i feriti in questa nostra chiesa giacquero sulle pietre sopra un braccio di fieno, pressoché ignudi”. Dopo aver descritto i continui saccheggi, ruberie e violenze delle truppe di occupazione, Ciganotto scrive il 21 gennaio 1918: “Devo rendere ancora una volta omaggio all’umanità degli ufficiali di quest’ospedale, che prestano la loro opera caritatevole e gratuita, anche a domicilio, in favore di questa popolazione. Lo stesso Maggiore oggi pregato da alcune povere donne, non avendo chi mandare, per istrade pressoché impraticabili, andò in persona sino a Malintrada a visitare alcuni degenti, sacrificando l’ora del pranzo. Alle visite gratuite aggiungono anche le medicine parimenti gratuite. Tutti di famiglie signorili questi ufficiali, sono un fiore di compitezza civile, ma non disdegnano il casolare del povero. Sono in maggioranza boemi. Tutto questo va notato ad onore della verità e per titolo di giustizia”.

25 V. www.frontedelpiave.info. Novembre 1917.

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22) La basilica prima della costruzione del primo padiglione dell’ospedale. In

primo piano l’orto dei frati poi acquistato dall’amministrazione ospedaliera.

24) Pianta del “lazza-retto” progettato dall’ing.

Saccomani (1922).

23) Un’immagine successiva al 1911, con il primo padiglione (oggi Cardazzo) appena costruito.

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25) Lettera di risposta al sindaco di Castelfranco in cui si sottolinea “il generale compiacimento per l’ottima riuscita” del padiglione degli infettivi.

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9 febbraio: “Nei giorni scorsi c’è stata un’ispezione nell’ospedale da campo 808 qui stanziato. Le conseguenze sono disposizioni per molti cambiamenti di personale. Ci sono a Motta due ospedali, l’808 che funziona sin dai primi giorni dell’invasione, e l’807 di riserva, in attesa di andare avanti. In tale attesa il personale di questo occupa il suo tempo in quello: ma la sua presenza qui ormai tornava superflua. Gli dispiaceva molto però lasciare Motta per trasferirsi ad Annone. Si approfittò quindi della temporanea assenza del Maggiore medico il sig. E. Wagner, di nazione boemo, l’unico e vero responsabile, per compiere un sopraluogo, e per prendere quelle determinazioni che erano nei desideri del personale dell’807, un misto di tedesco e di ungherese. A questi intrighi non sono probabilmente estranei motivi di religione, ma certo hanno una larga parte questioni di nazionalità (in Austria le nazionalità si odiano cordialmente), e specialmente le donne. Anzi è proprio una signorina della Croce Rossa appartenente all’807, figlia d’un deputato ungherese, cui tanto dispiaceva partire da Motta. Una vittima di questi intrighi è il capitano medico Sig. Giuseppe Prader da Merano (Bolzano), persona degna di ogni rispetto, la quale pel bene che ha fatto si è acquistata la stima e la benevolenza di tutti”. 13 febbraio: “…giungeva la voce che un drappello armato per ordine del Comando aveva intrapreso un nuovo spoglio della biancheria nelle famiglie. L’annunzio dell’imminente arrivo di una banda di briganti non avrebbe incusso tanto spasimo…vi fu chi giunse ad augurarsi perfino la morte: “piuttosto di rinnovarci ogni altro giorno di martirio, ci uccidano, che tutto finirà in una sola volta”. Fortunatamente questa, per eccezione, non è stata una rapina, ma una questua di beneficenza per gli ospedali”. 12-17 marzo: “Trentacinque giorni di letto con una bronchite cronica. Rendo omaggio di gratitudine agli ufficiali di questo ospedale per le premure loro e per le cure prestatemi”. 1° maggio: “In quest’ospedale, da prima prettamente boemo, da tempo hanno cominciato ad infiltrarsi degli elementi estranei, tedeschi, protestanti, ebrei: elementi che ora sono la maggioranza. La prima delle premure che questo elemento nuovo s’è data, è stata quella di fornire l’ospedale d’un mobile di lusso, d’un feldkurat (così ama chiamarsi) protestante, al quale è stato assegnato a mensa il posto d’onore. Trattandosi d’un lusso, lo merita: ma stando al buon

senso un feldkurat protestante pare proprio il colmo del ridicolo, non avendo, la forza dei principii religiosi religiosi professati da lui e dai suoi correligionari , proprio altro da curare che la riscossione della paga mensile di corone cinquecento. Pareva dovesse venire a mensa anche un…feldkurat ebreo (il quale ha già piantato sinagoga nella casa di Cranio). Difatti una sera si presentò, ma poi non si vide più”. Il 24 maggio inizia la grande offensiva del Piave, che porterà l’Italia alla vittoria. Ciganotto è attento ai segnali che filtrano dalle conversazioni degli ufficiali, e continua nella sua opera di carità. Il 17 giugno annota come continui “un grande affluire di feriti, come al solito in maggioranza leggeri, che medicati si fanno proseguire. In quest’ospedale vi sono anche diciotto feriti nostri, uno dei quali morto questa sera”. Il 19 giugno: “affluire stragrande di feriti. Sono stati allogati alla meglio su trucioli e su frasche verdi nell’atrio della Chiesa e nei chiostri del Convento. Vi sono anche degli italiani, alcuni dei quali feriti e fatti prigionieri a San Biagio di Callalta”. Il 22 giugno precisa che ben 70 ricoverati sono morti negli ultimi due giorni: “Iddio li abbia in pace, purché non vi siano andati [all’altro mondo] coll’animo di saccheggiare e rapinare anche là…le vesti dei morti devono servire ai vivi, perciò i cadaveri si avvolgono nudi in un lenzuolo, e senza attender altro si accatastano come sacchi di farina s’un carro, e via”. 24 giugno: “Oggi l’atrio della chiesa e i chiostri del convento sono stati sgombrati dai feriti. Disgraziati! Molti di loro giacquero tre giorni sul campo prima di poter essere raccolti, e due giorni qui sulle pietre prima che venisse il loro turno di medicazione. E non erano tutti leggeri. Questo fatto miserando è dovuto al loro numero oltremodo grande, non alla trascuratezza dei medici che lavorano anche la notte. Neanche questo fu –come altre cose- contemplato nei calcoli preventivi. “Al massimo sarà di duemila il giro di feriti in quest’ospedale” disse il Generale sanitario, il quale negli ultimi giorni precedenti l’offensiva aveva tenuto varii consigli nel nostro refettorio. Solo nei due giorni 18-20 i feriti arrivati in quest’ospedale sono stati 5000 (cinquemila). La città, già tutta una caserma, si va trasformando in un ospedale, e presso la stazione della strada ferrata si stanno costruendo dei baraccamenti capaci di diecimila ammalati. Conseguenze sgradevoli di calcoli…sbagliati!

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Subito che abbiano passato visita e medicazione, i feriti che non sono estremamente gravi, vengono trasportati al treno, e inviati nell’interno, triste trofeo della Piave, ecatombe dell’esercito e, come speriamo, tomba dell’Austria”.Tra alti e bassi, continuano devastazioni, requisizioni e ruberie, in città e nelle campagne. 7 luglio: “Oggi sono sette giorni che siamo all’acqua. Del vino ce ne sarebbe stato a sufficienza per tutti e per tutto l’anno se gli ufficiali dell’ospedale si fossero limitati a bere con moderazione, ma per quanto siano eglino di modi signorili e compiti, sono purtroppo molto lontani dall’essere modelli di sobrietà…”.22 luglio: “Serpeggia largamente un’epidemia, che in altri ha caratteri di colerica, in altri di dissenteria. Non è mortale, ma molto molesta, e in taluni ribelle. Non è del tutto nuova in questa stagione, se non per l’intensità e per la molta sua diffusione, cosa che a mio credere devesi al sudiciume che quest’invasori ci hanno regalato, e alle immondezze sparse dovunque: in paese, ch’è diventato stalla e latrina, nei dintorni, che sono un vasto letamaio: nelle campagne, dove in luogo dei soavi profumi che si respiravano una volta, emanano esalazioni fetide da doversi bene spesso portarsi la pezzuola al naso”.14 agosto: “In mezzo alle truppe infieriscono varie malattie: la malaria che contraggono alle Basse: malattie intestinali epidemiche (delle quali già dissi e sulle quali ritengo debba influire l’abuso dell’alcool), che, purtroppo, si diffondono anche nelle popolazioni civili; malattie le quali, per i caratteri che hanno di persistenza e di gravità, debbono ritenersi importate dall’Austria dove sono molto diffuse, e qui mantenute dalle truppe, che col loro sudiciume hanno infettato i luoghi e inquinato le acque. Aggiungasi quella che oggi chiamiamo “influenza spagnuola”, la quale pel momento non infesta che le truppe. Dai medici è qualificata come scettica, si sviluppa a preferenza in broncopolmonite, e spessissimo è letale. “E’ cosa che dà molto pensiero questo fronte del Piave” dissemi un capitano medico “abbiamo più decessi per malattie qui che morti per ferite sul Carso!26”.

Il 19 agosto, quando ormai serpeggia la notizia dell’avanzata italiana padre Ciganotto scrive: “La popolazione è un terzo di meno del normale: ma il numero dei morti in questi ultimi mesi è cresciuto in proporzione straordinaria: morti di malattie, morti di privazioni, di stenti, di miseria”.29 agosto: “Le truppe sono tormentate, decimate dalle malattie, specialmente dalla malaria che contraggono al basso Piave, e dall’influenza, che elegantemente ora chiamano spagnuola, la quale ha delle manifestazioni gravissime e spessissimo letali. Si sono avuti casi di decesso in due giorni. “Queste malattie” disse il comandante dell’ospedale “sono per noi peggio d’un’offensiva”…Gli ospedali di Motta si tengono laboriosamente sgombri: pieni la sera, vuoti la mattina. Da questi e da altri indizi non del tutto trascurabili, si va consolidando l’opinione divenuta comune, che gli invasori si tengano pronti ad una ritirata non remota, in vista dell’offensiva dei nostri…”Partirò per tempo” dissemi una dama della Croce Rossa [austriaca] “non mi farò prendere prigione, ancorché si dovessero lasciare qui dei malati”. “Perché?”. “Perché temo gli italiani”. “Ma gli italiani sono buoni: non usano sevizie, né maltrattamenti ai prigionieri”. “E’ che troppe ne abbiamo fatte qui, e temo giustamente un’aspra vendetta”. Una confessione tanto sincera avrebbe, al caso, meritato un’attenuante”.Il 6 settembre si parla apertamente di ritirata austriaca: “Notevole è per noi che l’abbiamo sotto gli occhi quanto accade in questo ospedale 808. Una dozzina di giorni fa pareva dovesse comporre i bagagli: poi non se ne parlò più: è però un fatto molto significante che non riceve più malati, e che i medici che non sono della Sanità sono stati licenziati. Vuol dire o che le malattie sono miracolosamente scomparse o che non vi sono più soldati che abbiano da ammalarsi. Nell’uno e nell’altro caso stiamo meglio tutti”.7 ottobre: “La notte scorsa è stato pubblicato in mezzo alle truppe un telegramma del Comando supremo annunziante la pace prossima a conchiudersi. E’ stato un delirio di allegria: è un gran parlare che si fa da tutti, ma il popolo, che pur desidera la pace

26 Le riflessioni in materia sanitaria di Ciganotto trovano conferma nelle Relazioni sulla Reale Commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico. Documenti raccolti nelle Provincie invase. Vol. IV, Milano-Roma, s.i.d., p.81 segg. A pag. 427 dello stesso volume si legge come a Motta risultino in buona parte distrutti sia l’Archivio comunale che quello della Congregazione di carità.

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come liberazione dal martirio che soffre da undici mesi, prende le cose colla solita sua calma veneta, consolidata da una forte dose di scetticismo…Oggi è partito per recarsi alla sua nuova destinazione a Sedan!!! il comandante di quest’ospedale da campo, il dott. Edoardo Wagner, di nazione boemo, di religione cattolico. Uomo buono, ha fatto del bene a molti, non ha fatto del male a nessuno: lascia grata ricordanza in tutti. Il Signore lo benedica e l’accompagni. Giorni fa è stato trasmesso al convento un avviso da pubblicarsi in Chiesa. E’ in buon italiano. Il Corpo d’Armata fa noto alle popolazioni dei paesi occupati che non potrà curare dalla malaria i loro ammalati, quantunque n’abbia tutta la buona volontà: e che di ciò la colpa ricade tutta sopra il Governo italiano (“vostri fratelli” fa notare) che richiesto di chinino, non l’ha voluto dare. E’ tendenzioso questo linguaggio, e non so capire come questa gente si perda in manovre sì meschine. Del resto piuttosto di darsi tanta premura di curarci dalla malaria, che non esiste, farebbe meglio curarci dalla fame, ciò che potrebbe fare –senza bisogno di ricorrere a nessuno- coll’astenersi dal rubarci il frutto del sudore della nostra fronte”.9 ottobre: “Le condizioni nostre sono ormai miserrime, e più misere si riscontrano più che ci si allontana da questo centro. Quelli che stanno peggio sono i luoghi dove stanzia il IV Corpo d’Armata: Gorgo, Oderzo, Piavon ecc. Tra i cattivi, gli ungheresi, fatte rare eccezioni, sono pessimi: qui passano come l’espressione più autentica dei barbari. La fame bussa alla porta di tutti: le privazioni d’ogni genere sono grandi: la miseria ha preso stanza in tutte le case. A questo stato di cose fanno seguito necessario le malattie. Non vi ha famiglia, specialmente rurale, che non abbia, quasi in permanenza, due, tre e più malati a letto, privi naturalmente di tutto, fuorché dell’amorosa assistenza dei loro congiunti. La mortalità qui a Motta (dove i profughi dal fronte hanno rifatto all’incirca il numero dei fuggiti), al primo di questo mese raggiungeva già il doppio d’un anno intero normale. Non ostanti tante miserie, ci reputeremo compensati quel giorno in cui potremo dire che questi crudeli invasori se ne sono andati, senza tema che abbiano a tornarci più”.

Il 17 ottobre Ciganotto registra una certa agitazione tra gli invasori e alcune loro curiose abitudini di tipo alimentare: “Ieri la mensa degli ufficiali di quest’ospedale ha abbandonato il nostro refettorio per trasferirsi nella prima sala presso la porteria. Così si sono messi d’accanto alla mensa delle Dame della Croce Rossa -ch’essi chiamano Dame dell’Armata- stabilitasi contemporaneamente nella sala attigua. E’ da una settimana che alcuni volevano ammetterle senz’altro in refettorio, per cui nacque tra gli ufficiali tale un dissidio, che una metà minacciò una scissione. Giacché siamo in refettorio, non è fuor di proposito far menzione di certi gusti tutti particolari di certi ufficiali. E’ noto che gli anglosassoni fanno largo uso dello zucchero come d’un eccitante del sangue, forse quale surrogato del nostro bello e saluberrimo clima che tanto c’invidiano. Sulle nostre tavole, per quanto modeste, non manca mai la saliera. Di questa eglino non se n’occupano, e fanno senza: ma in sua vece vi figura immancabilmente un barattolo di zucchero. A che scopo? I dolci non devono mai mancare dalla loro mensa: e se manca la farina di frumento, non importa, i dolci si fanno con quella di granoturco. Anzi, è tanto l’uso che fanno dello zucchero che ve lo mettono largamente perfino sopra i fagioli lessi (dei quali per motivi di civiltà non abusano) e sull’insalata…”.24 ottobre: “Le discordie tra gli ufficiali di quest’ospedale vanno sempre ingrossando. Da quando hanno lasciato il nostro refettorio non passa giorno senza litigi. Contro il Maggiore medico sig. Salzer (viennese, protestante, del partito radicale tedesco), causa di molti malumori, è stato sporto presso il Comando un grave rapporto. E’ un po’ ameno assistere a queste beghe dei nemici”.25 ottobre: “Colla data del 24 corr. il nostro mellifluo Comandante Catinelli27 emana una “Dieustzlettal”, che non so se voglia dire Avviso, e che spero sia l’ultimo. E’ una serie di nove prescrizioni (ma senza la immancabile solita minaccia di “severe punizioni”) (FOTO n.27) d’indole umanitaria per prevenire e curare la febbre spagnuola, che comincia ad infierire anche nel popolo. Di tali prescrizioni merita notarne due, che sono le più caratteristiche anche in fatto di lingua: 1) Sventolare le stanze, in giorni freddi e piogiosi bisogna scaldare le stufe e i letti; 4) Vestirsi bene e d’inverno.

27 Sulla crudeltà del goriziano Catinelli , che odiava particolarmente gli italiani, e sulle violenze commesse v. Relazioni cit. Vol. VI, p.95 segg. e pp. 487-488.

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27) Un proclama austroungarico del luglio 1918.

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Non pare un’ironia?”.28 ottobre: “Circa le tre e venti pom. un’incursione offensiva di nostri velivoli. Hanno lanciato una quantità di bombe, tutte ad alto esplosivo, anche in località da non spiegarsi il perché, come nel sobborgo delle Spinade. Ero al tavolino recitando l’ufficio, e come al solito non ci badavo. Però certi scoppii molto vicini solleticarono la mia curiosità…Due bombe rasentarono l’angolo sud-est dell’ospedale, scavando due enormi imbuti: forse avevano di mira i numerosi carri (dello stesso ospedale) radunati là vicino”.29 ottobre: “Le vittime dell’incursione aerea di ieri sono aumentate: i morti sono già saliti a 25, ed altri feriti gravissimi li seguiranno presto. Lode incondizionata va tributata ai sanitari di quest’ospedale, i quali corsero immediatamente sul luogo del disastro a raccogliere i feriti, prestando loro premurose cure”.30 ottobre: “Tutta la notte e tutto il giorno è stato un continuo movimento di truppe che ripassano la Livenza, bersagliate dalle mitragliatrici dei nostri velivoli che le incalzano senza pietà. Alle sei di stamane è partito l’ospedale con tutto quello che poté portare seco. Ha lasciato parecchi malati gravissimi dei suoi e dei nostri (quest’ultimi, feriti dalla bomba del 28). Per questi e per i malati borghesi ha lasciato tredici capi di bovini (presso varie stalle) e medicine. La consegna l’ha fatta al convento (eccettuati i bovini, ben’inteso), per la cura ha lasciato un giovane medico ucraino, ossesso dalla paura a segno che non distingue più fra i vivi e i morti. I locali li ha lasciati in buono stato. Ha lasciato parimenti tutta la fornitura ed il mobilio che ha trovato appartenente all’ospedale civile, più molta della sua roba, specialmente letti, brande, materassi, stufe di ferro tutt’ora imballate ecc. Alle tre del pomeriggio quel buon medico ucraino, dopo essersi rivolto a questo e a quello per consiglio, ma inutilmente perché ormai ognuno attendeva a se stesso, si risolse di partire a piedi”.Il 31 ottobre gli invasori lasciano Motta e poche ore dopo, da ponente, arrivano i primi liberatori, che fanno parte dell’avanguardia ciclistica del Reggimento di Cavalleria “Aquila”. La popolazione esultante si riversa in piazza per festeggiarli, ma il pericolo è ancora grande a causa di un bombardamento e molti si rifugiano in convento e nei locali dell’ospedale. Purtroppo, anche tra gli arditi e i componenti della Brigata “Ionio” dell’esercito italiano che sopraggiungono vi sono alcuni che tentano di requisire

e derubare, ma padre Ciganotto li affronta con coraggio. Il 4 novembre arriva la notizia dell’armistizio; dopo un solenne Te Deum nel Santuario, finalmente ritornato luogo di culto, il frate chiude così il suo racconto: “Sono e moralmente e fisicamente stanco molto, e pongo fine a questa cronaca tutta di dolori, che è il nostro martirio d’un anno”.Scrive Damiano Meda nel volume La Madonna dei Miracoli in Motta di Livenza (1985): “La guerra poteva trasformare Motta in un inferno: la ferrovia e i ponti sul fiume Livenza erano obiettivi appetibili. Invece, essendo trasformata in un grande ospedale, rendeva più sicuro il paese. Al di là del Piave lo sapevano; le spie lo avevano notificato. Fu dunque una grazia della Madonna che la basilica fosse adibita ad ospedale…Fu una grazia per tutta la popolazione, perché il santuario segnalato come zona di Croce Rossa, era indicato come luogo non soggetto a bombardamenti”. Più laicamente, possiamo concludere che la presenza del luogo di culto, oltre a rappresentare un motivo di speranza e di conforto per i credenti, preservò certamente tutti da guai maggiori.

LA MORTE DI ITALO SVEVO

Qualcuno ha scritto che Italo Svevo (FOTO n.28) è stato la vittima più illustre della “famigerata” Postumia, l’antica arteria consolare romana fatta costruire nel 148 a.C. dal console Postumio Albino per congiungere strategicamente i porti di Genova e Aquileia, oggi solcata nel trevigiano da un intenso e pericoloso traffico pesante. Racconta la figlia di Svevo, Letizia Fonda Savio: “Adorava i luoghi di cura. Era stato a Salsomaggiore, poi varie volte a Montecatini, a San Pellegrino, infine a Bormio. Tornava, appunto, da Bormio quando accadde l’incidente mortale a Motta di Livenza. Mi trovavo nella nostra casa a Opicina. Arrivò un telegramma che mi avvertiva dell’incidente: l’auto con mio padre, mia madre e mio figlio Paolo, slittando sulla strada bagnata, era finita contro un albero. Dapprima il meno grave era sembrato proprio papà; partii con mio cugino, il medico Aurelio Finzi, con un’autoambulanza per Treviso; trovai mio padre con gravi difficoltà di respirazione, immerso nei cuscini: aveva riportato la frattura del femore, lesione non mortale in sé, ma il suo cuore indebolito non resisteva al

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tremendo choc. Per tutta la vita aveva avuto il presentimento che il fumo (60 sigarette al giorno) lo avrebbe portato alla morte. Avrebbe resistito solo 24 ore: la morte sopraggiunse per asma cardiaco da enfisema polmonare. Mi disse: “Non piangere, Letizia, non è niente morire”. Chiese invano una sigaretta a mio cugino e, rivolto a noi, con voce già indistinta: “Questa sarebbe davvero l’ultima sigaretta”. Mia madre, che era cattolica, gli chiese a bassa voce: “Vuoi pregare?”. Egli gemette: “Quando non si è pregato tutta la vita, non serve all’ultimo momento”. Non era credente, né in una religione, né nell’altra. Non parlammo più: due ore dopo era spirato. Erano le due e mezzo di giovedì 13 settembre 1928. Aveva 67 anni. Fumatore vizioso, sempre al traguardo di ogni “ultima sigaretta”, preoccupato sempre della propria salute, il suo declino fisico si accompagnava all’ascesa letteraria. Era convinto come malato. Almeno mi sembrava, ma secondo me esagerava. Il nipote medico lo aveva avvertito del pericolo, ma non aveva mai potuto smettere; eppure aveva paura del fumo: tossiva, aveva disturbi per questo. Ogni anno andava a Bormio per i polmoni ma, l’anno in cui morì, la mamma mi scrisse che il papà non traeva più alcun beneficio dalla cura. Quando il medico gli disse di limitare la carne, adottò una dieta vegetariana, piselli all’olio e basta… Era un malato immaginario, ossessionato dalla malattia, che era certamente un mascheramento della morte, e la sua opera gira attorno a questa protagonista. Eppure, al momento di morire, conservò una stoicità da filosofo antico”. Lo scrittore triestino godeva solo da un paio d’anni di una certa notorietà letteraria, conseguente alla pubblicazione del romanzo La coscienza di Zeno, edito nel 1923 e recensito favorevolmente da James Joyce –che a Trieste aveva trascorso alcuni anni frequentando Svevo- e da un giovane critico ligure, Eugenio Montale. Gli altri romanzi, Una vita (1892) e Senilità (1898) erano passati sotto silenzio ed ebbero fortuna postuma. Una esatta ricostruzione dell’incidente di Motta si deve a Piero Sanchetti, medico-scrittore che operò per molti anni nel nosocomio mottense28. Di ritorno da Bormio Valtellina su una berlina OM guidata dall’autista Giovanni Colleoni sotto una pioggia battente, Ettore “Aron” Schmitz (vero nome dello scrittore di origine ebraica) a mezzogiorno del 12

settembre 1928 si era fermato con moglie e nipotino (FOTO n.29) a Treviso per pranzare. Ripartirono verso le 14, per percorrere i 150 chilometri di strada (allora in terra battuta) che separano Treviso da Trieste. A un paio di chilometri da Motta era stato da poco ultimato il ponte in cemento sul canale Malgher e la sede stradale era ancora in disordine, senza indicazioni che lo segnalassero. La pesante vettura slittò proprio sul fondo viscido del ponte, ma l’autista riuscì per qualche decina di metri a governarla, finendo poi contro un platano sulla sinistra della carreggiata. La signora Schmitz batté la testa e svenne; rinvenendo, vide che l’autista, praticamente incolume, aveva già estratto dall’auto il nipotino e cercava di fare lo stesso con suo marito, che gemeva accusando un forte dolore alla gamba. Alla fine fu messo a sedere sulla strada, sotto la pioggia, e, mentre si aspettavano i soccorsi, con la tipica reazione adrenalinica conseguente ai fatti traumatici, considerò con la moglie che, tutto sommato, avrebbe potuto andare peggio, visto che la corsa dell’auto era stata arrestata dall’albero sul ciglio di un profondo fossato. La signora e il bambino furono portati all’ospedale di Motta da una macchina di passaggio, mentre Svevo, che sembrava il meno grave, attese un’auto pubblica. Il medico di guardia, il dottor Gasparini, si accorse subito che in realtà era lo scrittore ad aver riportato le ferite più gravi, e ricoverò in una stessa stanza del reparto dozzinanti i tre infortunati. La prima diagnosi, firmata dal dottor Giovanni Cardazzo, fu, per la signora Schmitz, di commozione cerebrale traumatica, con “escoriazioni ed ecchimosi alle ossa del capo e contusioni all’addome”, e prognosi di 15 giorni. Per il piccolo Paolo di “ferite lacero-contuse al parietale sinistro e alla regione sottomascellare guaribili in 20 giorni”. Al 67enne Ettore Schmitz fu constatata la “frattura del femore sinistro ed escoriazioni alla faccia”; prognosi 40 giorni. Trascorse la notte senza febbre, ma con un’agitazione che andava aumentando, di pari passo con il battito del polso e l’affanno del respiro. Grande fumatore come il proprio alter ego Zeno del romanzo, Svevo chiedeva con insistenza una sigaretta, che, ovviamente, gli veniva negata. Nella notte erano arrivati da Trieste la figlia e il genero, ed anche il medico curante e parente Aurelio Finzi. Fu sotto i loro occhi che, nel primo pomeriggio, morì. Sulla cartella clinica n.

28 P. Sanchetti, La morte di un industriale triestino a Motta di Livenza, in: La Castella, Motta di Livenza, maggio 1994, pp. 125 segg.

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28) Italo Svevo.

29) Italo Svevo poco prima della morte conmoglie, figlia e genero.

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876-1928 il medico di guardia annotò: “Morto alle ore 14.30 per uremia e insufficienza cardiaca”. In un foglio a parte il primario Cardazzo scrisse: “Alla fronte due escoriazioni ed una contusione alla regione parietale sinistra, una escoriazione alla faccia esterna della gamba destra al terzo superiore, frattura del femore sinistro al terzo medio. Premesso che il paziente fu ricoverato in questo ospedale alle ore 15 del 12 settembre e presentava dispnea intensa, sudore profuso, polso piccolo e frequente con raffreddamento alle estremità, apiretico, piena coscienza e lucidità mentale. La sofferenza cranica che tormentava il paziente era da forte ambascia di respiro, dalla quale diceva di essere stato colpito subito dopo il trauma. Stette senza orinare fino alle ore 22.30, nella quale ora spontaneamente emise circa 200 cm3 di orina con intensa albuminuria. Si lagnava anche di pesantezza allo stomaco, e verso le cinque antimeridiane del giorno 13 ebbe vomito con emissione di resti alimentari. Malgrado le cure, le condizioni generali del paziente andarono aggravandosi. La dispnea si fece sempre più accentuata, il polso man mano si faceva meno percettibile e verso le ore 14.30 del giorno 13 spirò. Faccio rilevare che orinò una sola volta come sopra detto” (FOTO n.30). Il Gazzettino del 14 settembre titolò: “DOPO IL GRAVE INCIDENTE D’AUTO LA MORTE DEL SIGNOR SCHMITZ”. “Motta di Livenza, 14. Penosissima impressione ha suscitato in città la notizia subito divulgatasi l’altro ieri del violento cozzo di un’automobile contro un albero per cui erano rimasti feriti tre triestini. Maggiormente il fatto gravissimo fu deplorato ieri, quando nel pomeriggio si diffuse il triste annuncio che verso le ore 14.30 il signor Ettore Schmitz era spirato dopo atroci sofferenze dovute a fatti di uremia e di affezione cardiaca, anziché a dolori derivanti dalla frattura del femore. Il trasporto della salma sarà effettuato a mezzo di apposito autocarro funebre espressamente inviato da Trieste e che proseguirà direttamente verso quel cimitero degli ebrei. Nell’autoambulanza dell’ospedale poi (FOTO n.31) vi saranno accompagnati la signora Veneziani e il nipotino Fonda, lo stato di salute dei quali non desta ormai più alcuna preoccupazione”. In ogni caso il dottor Finzi dovette scrivere sulle loro cartelle: “Dichiaro che faccio il trasporto del malato sotto la mia responsabilità”. L’altro quotidiano locale del tempo, la Gazzetta di Venezia, oltre alla cronaca non mancò di

commemorare lo scrittore con un elzeviro di Francesco Fattorello, ma ripercorriamo brevemente la sua carriera letteraria attraverso le più significative parole della figlia: “Zeno Cosini, il protagonista della Coscienza di Zeno, era un antieroe che esulava dalla retorica dell’epoca. Siamo lontani dal D’Annunzio “immaginifico” che mio padre detestava, e dal “superuomo” desunto da Nietzsche. I personaggi di mio padre erano degli antieroi, abulici, nevrotici, malati; si pensi ai personaggi di Una vita (1892) e di Senilità (1899), contemporanei ai temi di una “vita inimitabile”: Il trionfo della morte (1894), La città morta (1899). La Coscienza di Zeno è la concezione della vita come malattia, il contrario del mito dell’eroe. Il romanzo termina con un cataclisma. In Zeno, mio padre esprimeva l’impotenza e l’ambiguità borghese, egli stesso borghese in contraddizione costante. Mi diceva: “Questa borghesia dovrà finire un giorno”. Ostile a una società triestina dedita al danaro e al mercantilismo, per gusto di un socialismo utopico e, forse, controverso. Non dico le critiche, lui vivente, di certi fascisti: nel ’42 il busto di papà fu gettato in terra con la motivazione “bronzo alla patria” lasciata sul marmo. Nel 1927, venne la scoperta di Kafka, che seguiva la stagione dei mitteleuropei: Musil, Rilke, Roth, Walser. Quella letteratura era essenzialmente critica dell’io, così uno dei temi di papà era la crisi dell’individualità. Diceva: “Ricordo tutto, ma non intendo niente”, era lo sfaldamento della memoria che perdeva ogni significato, l’impotenza della parola e dei segni. Gli restava l’ironia e l’autoironia quotidiana, una consapevolezza attraverso cui filtrava ogni cosa. Kafka era più esagerato di papà, portava all’estremo la propria disperazione, ebreo in un paese cattolico, tedesco in un mondo slavo. Mio padre, che era di origine israelitica, si ritrovava in quella psicologia anche se spinta fino al parossismo. Mi regalò La metamorfosi, Il castello, Il processo, opere postume edite in quegli anni (1924-1926). Altri ancora erano gli autori congeniali: Ibsen, la cui opera mi regalò per il mio matrimonio; tutto Strindberg, che annotava ai margini, e che andò perduto nel ’45 nella distruzione di villa Veneziani; Gogol, che mi regalò in lingua tedesca; l’amato Jean-Paul. Mio padre è morto in tempo per non assistere alla distruzione della nostra casa, alla morte dei miei tre figli, poi di quello adottivo. Il movimento psicoanalitico aveva in Trieste il primo centro di diffusione: Edoardo Weiss, allievo di Freud, è il

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30) Il referto di morte con l’aggiunta

del primarioCardazzo.

31) Ambulanza dell’ospedale di Motta degli anni ’20.

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primo psicanalista italiano. Trieste faceva da “ponte” tra diverse culture: città di tensioni, contraddizioni, propizia allo sviluppo di caratteri introversi, nevrastenici, a tendenze autopunitive (vedi Slataper, Umberto Saba). Quel che lo interessava nella psicoanalisi era l’indagine del sogno e degli atti mancati. Nella commedia La rigenerazione evidenzia l’importanza dei sogni. Ma Freud era più prezioso per il romanziere che per il malato. Scriveva: “… amavo tanto la mia malattia (se c’è) da preservarla con spirito di autodifesa…” e, ancora: “grande uomo quel Freud ma più per i romanzieri che per gli ammalati”. Frequenti i suggerimenti desunti da Freud; ad esempio, la figura del padre in Zeno, e la scena dello schiaffo che è il ricordo bruciante in mio padre di uno schiaffo dato all’amico Veruda dalla madre. Ma già in Corto viaggio sentimentale (uscito postumo), il freudismo è un ricordo; semmai, l’ultimo Svevo pensava a Proust, a Joyce, alla memoria involontaria del primo, al monologo interiore e flusso di coscienza del secondo. La “scoperta” di Freud oscilla tra il 1910 e il 1912 circa, ma non ne sono certa. Nel 1918, un mio cugino medico pregava mio padre di aiutarlo a tradurre Die Traumdeutung di Freud. Suo cognato Bruno Veneziani, afflitto da paranoia, introverso, psicopatico, genialoide, era stato in cura da Freud senza trarre giovamento dalla terapia. Un suo amico nevrotico era tornato dalla cura a Vienna distrutto e abulico più di prima. Mio padre diceva: “… Dopo anni di cure e di spese, il dottore dichiarava che il soggetto era incurabile,… ad ogni modo una diagnosi che costava troppo…”. A Jahier, che gli confidava di aver già fatto sessanta sedute di psicoanalisi, mio padre chiedeva ironico: “E sei ancora vivo?”. Aveva conosciuto Weiss che era amico di suo cognato e che frequentava villa Veneziani; l’impatto forse era stato sgradevole per entrambi: Weiss si chiedeva se il medico psicoanalista di Trieste di cui si burlava nella Coscienza di Zeno fosse proprio lui. Mio padre, invece, da quegli incontri derivava una seconda malattia (la prima, sempre ricorrente, come lui stesso affermava, quella di non sapere la lingua italiana), a cui si aggiungeva l’accusa di Weiss di scarsa conoscenza del metodo della psicoanalisi. Mio padre preferiva la cura nella

solitudine senza medico, in contrasto con la stessa teoria di Freud; una sorta di suggestione e autosuggestione”.Questo fu il grande artista che trovò casualmente la morte all’ospedale di Motta nel 1928, mentre stava scrivendo il suo quarto romanzo, Il vecchione, rimasto incompiuto. A ottant’anni dall’avvenimento i primari dell’Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione e il responsabile dell’unità operativa di Ortopedia e Traumatologia dell’Ospedale di Oderzo hanno cercato di ricostruire, alla luce delle odierne conoscenze scientifiche, le cause di quella morte, giungendo alla conclusione che lo scrittore, oggi, sarebbe stato quasi sicuramente salvato, e, forse, avrebbe potuto esserlo anche allora. In appendice i loro referti (doc. 5).

L’ALLUVIONE DEL 1966

Nei primi giorni di novembre del 1966 l’Italia centro-settentrionale fu flagellata da piogge torrenziali. Un “vortice depressionario” (così i climatologi29) sul Mediterraneo centrale, originato da un flusso di aria fredda di origine atlantica, aveva richiamato un intenso flusso di masse d’aria caldo-umide sulla penisola italiana. Ne derivò una serie di precipitazioni di straordinaria intensità che non potevano essere mitigate, causa la presenza di un anticiclone, dalla naturale “via d’uscita” dei Balcani. Come si ricorderà, Firenze, Venezia e molte altre località finirono sott’acqua, con incalcolabili perdite di vite umane e di opere d’arte. Motta e il suo territorio furono duramente colpiti: 680 abitazioni civili furono allagate, 1500 i senzatetto su una popolazione di 8000 anime. Il medico-scrittore Piero Sanchetti, allora responsabile del laboratorio di analisi dell’ospedale, rende una efficace testimonianza30:“…tutto cominciò la notte del 4 novembre. L’anno prima ne avevamo avuta un’altra di alluvione, ma l’argine rotto fu del Monticano, a neppure un chilometro dal suo sbocco nel Livenza, e rimase interessato soltanto l’apice dell’ampio triangolo di confluenza. Ora minacciava l’altro fiume…stava piovendo da quattro giorni. …La mattina del 4 la pioggia diventò fortissima,

29 Cfr. in ibimet.cnr.it, portale dell’Istituto di Biometeorologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche: G. Maracchi, I cambiamenti del clima ed il bacino dell’Arno, www.ibimet.cnr.it/Staff/maracchi/arnocamcompubblicazione.doc.30 P. Sanchetti, Cronache dell’alluvione, in: 1966-1996. Motta e la Livenza, 1996, p. 53 e segg.

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sembrò invadere il luogo dell’aria. Ora dilagava sui vetri e correva a onde sui lastricati, poi era la terra a ributtarla fuori, che non la riceveva più; getti fissi e potenti rombavano dalle grondaie facendo somigliar le case a navi sotto pressione, questo fragore soverchiava quello del diluvio”. Sanchetti fa qualche telefonata e viene rassicurato, perciò saluta le sue collaboratrici del laboratorio di analisi e va a casa. In piena notte viene svegliato e corre in ospedale preoccupandosi di innalzare una barriera di sacchi di sabbia e sassi sulla soglia delle porte del laboratorio, l’esterna e l’interna. “Alle sei del mattino” racconta “capitò uno a ordinare di sospendere il lavori e a me diede questo consiglio: ma è inutile, dottore, che faccia tutto questo lavoro, non c’è più pericolo…Alle sei e quarantacinque spuntò un sole incredibile tra i rami nitidi del giardino, il cielo era come lavato dall’acqua del giorno prima…Ebbi un’idea, che in seguito ci fece sorridere a lungo: perché non alzare piuttosto tutto, mettendo qualcosa sotto le zampe delle scrivanie, tavoli e armadi? Prima la scrivania del microscopio grande, attenzione, e poi la libreria, se ci riuscite”. Sanchetti torna a casa per poco tempo ma poi rientra in ospedale in bicicletta “con l’acqua ai mozzi delle ruote”. “Il laboratorio non era ancora invaso, ci chiudemmo subito le due porte al di qua delle nostre dighe notturne di sacchi, trovai tutto alzato di tredici centimetri, spostati gli apparecchi il più alto possibile…Feci in tempo a vedere dalla finestra la potente figura di Gino Someda arrancante nell’acqua con l’ultimo vecchio sulle spalle, se li era portati quasi tutti lui, masticando silenzio e maledizioni, di lì a poco si sarebbe buttato in acqua per raggiungere le infermiere che gridavano appollaiate sui davanzali del cronicario…”. L’illusione di isolare il laboratorio, dura poco: l’acqua irrompe con violenza e il medico, nonostante cerchi istintivamente di mettere in salvo il microscopio grande, viene spinto in salvo su per le scale dal primario Carlo Ronzoni “ultimo suo anno d’ospedale, io mai sospettai tanta forza in quelle mani, che erano lunghe ed esili”. Riesce a salvare un colorimetro e “…La giornata che seguì fu la più lunga e gelida di quel periodo. Entrò dovunque il silenzio e con esso un freddo intenso e umido, dovuti, come capimmo poi, all’ovattamento acqueo di ogni rumore, all’evaporazione di tutta quell’acqua…Eravamo isolati, e isolati rimanemmo dagli altri padiglioni, se non con qualche passaggio di voce spiegata, fino al giorno dopo. I due piano sovrastanti il

laboratorio, ove l’acqua adesso riprendeva a crescere, ma noi ormai la vedevamo solo sulle scale e non potevamo calcolare quale fosse il livello in esso, erano intasati di malati la più parte vecchi, cui erano aggiunti tutti i vecchi del basso cronicario, quelli salvati da Gino Someda…Nella stessa giornata uno dei vecchi morì. La cosa fu seria, il suo piccolo fagotto riempì di sé una stanza intera. Gli altri, per fortuna intontiti cessarono a poco a poco di lamentarsi”. L’acqua saliva inesorabilmente, e raggiunse gli ultimi scalini del primo piano: “Lasciammo una candela accesa sull’ultimo gradino, a segnare il livello; il primario Ronzoni distribuì i turni di guardia e ordinò di dormire”. Il giorno dopo, 6 novembre, arrivarono i primi mezzi di soccorso, ma, insieme ad essi, altra gente in cerca di rifugio e ammalati per il ricovero, fino a raddoppiare la popolazione accampata in ospedale. “Il vero sgombero degli ammalati fu possibile finalmente il giorno 7. Artifici di equilibrio richiese la calata dei barellati da sopra la ringhiera delle terrazze ai barconi che attendevano quasi due metri più sotto, osservai il rispetto impacciato arcaico dei militari siciliani, l’antico “voi” rivolto ai vecchi, il terrore che gli prese al ragazzo quando seppe che tra quegli involtati fino al viso ce n’era uno morto da due giorni. I barconi si allontanavano con tutta lentezza, con i militari ficcati nel fondo a mantener l’equilibrio e le orizzontali barelle precariamente stese da un bordo all’altro, quasi a parere che fossero esse sole a passare sull’acqua”. La sera anche medici e infermieri riescono a lasciare il reparto: “Il piano inferiore, il laboratorio non esistevano più; il bel padiglione rimase un troncone impotente e peggio che distrutto…ultimo a calarsi sulla barca a staccare le mani dalla ringhiera, dando l’ordine di partire, volle essere il primario Ronzoni, il capitano della nave ferita…Ci trasferimmo in un altro padiglione, ove s’erano concentrati i rimasti, i soccorsi, i collegamenti, i militari e il ponte radio, ove una pensilina del secondo piano cominciò a servire da imbarcadero”. I rimasti si rifugiano nella stanza del cappellano, don Nazareno, che mette a disposizione sigarette e alcol “…ci teneva bordone dall’alto della sua pipa, imperturbabile, l’unico a non bere, Piero Zanolli, quasi lo avessero a chiamare da un momento all’altro in sala operatoria”.Mentre arrivano notizie sul disastro e sulla strage di animali di ogni genere in città e nei dintorni “a qualcuno gli venne in testa che nella cella mortuaria ci stava un morto, vecchio anche lui,

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Masutti Giovanni di anni 79 da Cessalto, andatosene nella notte prima dell’acqua. Nel trambusto nessuno ci aveva pensato. Ora, visto che non c’era nulla da fare, il meglio era che non se ne spargesse la voce. La casa dei morti era sepolta nell’acqua con porta e finestre, visibile da tutti i padiglioni, e il morto dentro poteva galleggiare urtando il soffitto, o giacere rovesciato sul pavimento, o anche ondulare a mezza via nel suo acquario, questo non lo sapevamo risolvere, ma certamente adagiato sul suo tavolo di pietra non ci stava più”. Con l’aiuto di Roberto Zampieri, titolare di un’impresa di pompe funebri, si riesce infine a recuperare la salma e, conclude Sanchetti, “il vecchio morto ebbe la sua asciutta pace”. Quando finalmente l’acqua si ritira, il medico corre al “suo” laboratorio: “Mi è impossibile descrivere lo stato del laboratorio, forse una fotografia a colori, ma cercai di un fotografo ed erano occupati in giro: era un incubo nero e pieno, lo squarcio di un interno bombardato ma senza il cielo sopra e l’aria attorno…”. L’8 novembre il Gazzettino di Treviso informa che l’ospedale è stato completamente circondato da oltre 4 metri d’acqua e che, grazie ai barconi militari, settanta ammalati sono già stati trasferiti negli ospedali di Oderzo e Treviso. Ma nulla è più eloquente delle immagini dell’epoca (FOTO n. 32-33-34-35). Tra i soccorritori, si distinse anche il professor Angelo Burlina (foto n.36 ). Nato a Motta nel 1929, era stato per molti anni responsabile del Laboratorio di analisi chimico-cliniche e di microbiologia dell’Ospedale di Oderzo, divenendo poi specialista e quindi libero docente in anatomia patologica, istochimica normale e patologica ed in chimica e microscopia clinica nelle Facoltà mediche di Trieste, Pavia, Milano, Verona e Padova. Autore di importanti trattati, fondò la Società italiana di Medicina di laboratorio, e conseguì vari riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il Premio Cultura della Presidenza del Consiglio dei ministri. Burlina, mancato prematuramente nel 1993, si inserisce –insieme al professor Ugo Lippi, anch’egli presidente della Società italiana di Medicina di laboratorio e a molti altri, che in questa sede non è possibile ricordare singolarmente- nel filone della serie di clinici illustri originari di Motta che, a partire da Antonio Scarpa, hanno illustrato e illustrano la Città liventina, tanto in patria che nelle

sedi accademiche e nelle strutture ospedaliere del resto d’Italia e all’estero.Motta di Livenza si risolleverà dal disastro in breve tempo, divenendo, grazie alla solidarietà di istituzioni e privati, ma anche e soprattutto per all’innata operosità dei suoi abitanti - l’allora direttore del Gazzettino Giorgio Lago sottolineava nel 1996 un record di Motta: 921 imprese per 8913 abitanti31-, un importante polo economico-produttivo del Veneto. Ricordiamo tuttavia, a dimostrazione di come l’assetto idrogeologico del territorio lasci ancora a desiderare, che ancora nel novembre 2002 la crescita del Livenza conseguente a forti piogge provocò l’evacuazione precauzionale dell’ospedale.

N A S C E L ’ O S P E D A L E R I A B I L I T A T I V O D I A L T A SPECIALIZZAZIONE

La seconda guerra mondiale risparmiò, fortunatamente, gravi distruzioni urbanistiche ed edilizie alla città di Motta, anche se il territorio fu purtroppo teatro di sanguinosi “regolamenti di conti” da guerra civile tra fascisti e partigiani, con rappresaglie ed episodi di violenza gratuita commessi da ambo le parti. L’amministrazione ospedaliera proseguì nei rapporti di “buon vicinato” con il convento dei frati Minori: nel 1948 questi concessero che una cabina elettrica di trasformazione per le necessità dell’ospedale sorgesse su un loro fondo, e in tempi più recenti l’ultimo padiglione fu edificato grazie a una permuta di terreni tra nosocomio e convento. L’ospedale rimase in gestione autonoma, con Consiglio di Amministrazione eletto dal Comune di Motta di Livenza, fino all’avvento delle ULSS.

Gli anni ’80 portarono al trasferimento di Pediatria e Maternità a Motta di Livenza e all’istituzione di una divisione geriatrica, nella prospettiva di concentrare il polo chirurgico e l’urgenza ad Oderzo. Il 01.01.1995 gli Ospedali di Oderzo e di Motta di Livenza diventarono parte dell’Unità Locale Socio-Sanitaria n. 9.

31 G. Lago, Riflessioni, in 1966-1996. Motta e la Livenza cit., p.193.

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36) Il dottor Burlina tra i soccorritori a bordo di una

barca di salvataggio.

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Domenico Stellini, primo Presidente del C.d.a. dell’Ospedale Riabilitativo

28 Settembre 2008,si inaugura il nuovo Desk polifunzionale.

Da sinistra: Paolo Speranzon, sindaco di Motta,Franco Manzato, vicepresidente Giunta Regionale,

Carlo Valfrè, attuale Presidente C.d.a.

Testimone diretto della ripresa post-alluvione e più avanti della riconversione del presidio ospedaliero è Arnaldo Brunetto, ex-parlamentare e sindaco di Motta negli anni 1975-80 e 1987-90. “L’alluvione” afferma “fu certamente un episodio drammatico, ma, fortunatamente, non tragico, innanzitutto perché non ci furono vittime e poi perché proprio da lì scaturì un nuovo impulso tanto per lo sviluppo economico del territorio che per il rilancio del nostro ospedale. In poche settimane esso riprese a funzionare, grazie all’efficienza di quello che all’epoca era ancora un “Ente di assistenza e beneficenza”, presieduto dal cav. Vincenzo Abate e diretto dal segretario (oggi diremmo direttore generale) Rodolfo Bortolotto, e consentiva una gestione autonoma senza troppi vincoli burocratici”. “Insomma” continua Brunetto “ex malo bonum, e si procedette in una strategia che, grazie alla validità delle risorse umane e alla costante ricerca della qualità, ci poneva su un piano decisamente superiore rispetto ad altre realtà ospedaliere circonvicine. Qualche problema nacque allorché, in seguito alla riforma e alla creazione delle unità sanitarie locali

(Legge 833 del 1978), ci si dovette confrontare necessariamente con altri. Ancora una volta, come più volte nel corso della sua storia, Motta si interrogò sulla propria realtà di terra di confine. Due furono i principi portanti di un’intuizione e di un’azione che poi si rivelarono la scelta giusta: la libera opzione da parte dei cittadini di accedere ai luoghi di cura e la diversificazione dei due ospedali di Oderzo e Motta. Fu il Consiglio comunale a delineare nel concreto la nuova strategia, approvando nel gennaio 1993 lo Studio SOGES, fortemente voluto dal sindaco Alberto Vidi e dall’assessore Mario Po”. “Appariva chiaro fin da allora” conclude Brunetto “che è necessaria una ottimizzazione e concentrazione degli ospedali per acuti, affidando agli ospedali territoriali un ruolo di specializzazione. L’attuale Ospedale Riabilitativo è il prodotto di questo percorso e dell’azione condivisa della comunità e di uomini che hanno creduto e lavorato per il nostro progetto –cito per tutti Domenico Stellini-, e dimostra nei fatti, nonché con gli ottimi risultati della sua sperimentazione gestionale, che avevamo visto giusto”.

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A partire dal 2001 si è proceduto, con capitale misto pubblico e privato, alla costituzione dell’Ospedale di Alta Specializzazione di Motta di Livenza, destinato prevalentemente a funzioni di recupero e di rieducazione funzionale. “… I costi per le strutture preaccreditate sono influenzati dalla determinazione da parte della Regione di un tetto del volume di attività a loro disposizione e dal meccanismo della regressione tariffaria che consente di superare tale limite riducendo però progressivamente il corrispettivo loro dovuto fino all’azzeramento oltre una certa soglia.Va precisato che dall’esercizio 2004 ha preso avvio la sperimentazione gestionale dell’Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione di Motta di Livenza (Spa controllata dall’Azienda Ulss 9) che, nascendo come struttura preaccreditata, sconta il meccanismo suddetto per l’attività di ricovero e specialistica. Per converso si è ottenuta la riduzione dei costi legati alla gestione dell’Ospedale di Motta, non più a carico di questa Azienda, ed un progressivo aumento della mobilità attiva, intra ed extraregionale, data la collocazione geografica della struttura stessa.”32 Bisogna dire che sin dal 1980 il cardiologo Antonio Neri, con notevole lungimiranza, proponeva al presidente del Consiglio di amministrazione dell’ospedale l’istituzione di una struttura cardiologica specializzata in riabilitazione e prevenzione (FOTO n.37).

Approfondiamo, in conclusione, la genesi dell’Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione, iniziata alla fine degli anni novanta, allorché emerse, nel quadro regionale dell’offerta riabilitativa, che il Veneto orientale necessitava di una struttura riabilitativa di II livello. Con il DGR 740/99 si decideva la trasformazione del presidio ospedaliero di Motta di Livenza in ospedale riabilitativo, con trasferimento di tutte le funzioni per acuti all’Ospedale di Oderzo. Il Progetto della ULSS9 Treviso intitolato “Riconversione del presidio ospedaliero di Motta di Livenza in Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione mediante partnership pubblico-privato” fu approvato dalla Giunta regionale il 17 maggio 2001. Nacque così una Società mista che prevedeva la partecipazione maggioritaria dell’Unità locale socio-sanitaria e, in quote minoritarie, quella di una società privata

operante nel settore sanitario e del Comune di Motta di Livenza. E’ del 2003 il varo formale dell’Ospedale riabilitativo di alta specializzazione Spa. A tutt’oggi, l’assetto societario attribuisce il 75% della partecipazione al socio pubblico, il 23,19 al socio privato e l’1,81% al socio, diremmo così, semi-privato, il Comune di Motta di Livenza. Quanto ai conferimenti, la UlSS9 trasferiva alla nuova società gli immobili del vecchio ospedale e il know-how professionale costituito dal personale ospedaliero, richiedendo agli altri soci conferimenti di natura finanziaria adeguati alla propria quota di partecipazione.

Due i principi base che sin dall’inizio caratterizzarono la nuova sperimentazione. “L’efficiente gestione privata” intesa come ricerca di uno strumento organizzativo e gestionale flessibile, in grado di rispondere velocemente ai fabbisogni assistenziali secondo regole che istituzionalmente appartengono al settore privato. Il “controllo pubblico strategico del sistema” inteso come strumento finalizzato a garantire fondamentalmente due obiettivi: da un lato il fatto che l’azione della struttura dovesse essere fortemente integrata nelle strategie assistenziali complessive della ULSS di riferimento; dall’altro lato il fatto che tale operatività si traducesse nell’erogazione di livelli di assistenza appropriata secondo la destinazione funzionale e strategica del Presidio ospedaliero. Lo sviluppo di relazioni funzionali stabili tra il Dipartimento di riabilitazione dell’ULSS9 e le attività della sperimentazione di Motta di Livenza, nonché la stretta sinergia tra la cardiochirurgia trevigiana e il nuovo soggetto ospedaliero per l’assistenza ai cardio-operati, fecero sì che si configurasse ben presto una connotazione interaziendale del Dipartimento trevigiano, con l’acquisizione di professionalità di alto profilo ad esso pertinenti, le quali contribuirono in modo considerevole all’elevato livello quali-quantitativo dei servizi offerti dal nuovo Presidio. Per questo ed altri motivi, legati alla positiva gestione finanziaria, la Giunta regionale del Veneto in data 29 maggio 2007 ha prorogato per un ulteriore triennio la sperimentazione gestionale dell’Ospedale di Motta. Ma proprio i risultati economico-finanziari e le loro ricadute favorevoli sul territorio consentono

32 2003-2007, Cinque anni di sanità trevigiana , ULSS9 Treviso, Bilancio di Mandato 2003-2007.

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Il direttore generale dell’ORAS Alberto Prandin.

Il direttore generale dell’ULSS9 Treviso Clau-dio Dario con Alberto Prandin.

Il padiglione oggi intitolato aGiovanni Cardazzo.

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Nuove stanze di degenza. Tecnologie avanzate per la riabilitazione.

outsourcing, paventava alcuni anni orsono una possibile generale riduzione della qualità dei servizi, ed anche di una diminuzione dei posti letto e dei posti di lavoro, a vantaggio dei profitti dei privati. Per quanto attiene alla qualità, i dati clinici, le analisi di customer satisfaction e recenti riconoscimenti come quello del GICR (Gruppo italiano di cardiologia riabilitativa e preventiva), che assegna alla struttura mottense il primo posto in Italia per numero di pazienti che hanno concluso il periodo riabilitativo in un periodo significativo, testimoniano un costante incremento, di pari passo con l’aumento progressivo delle prestazioni erogate (oltre 14.000 nel 2007). Anche per questo motivo, la Regione ha deliberato la creazione di 25 ulteriori posti-letto, destinati in particolare al day-hospital, che vanno ad aggiungersi ai 120 già esistenti e occupati a pieno regime. Sul piano socio-sanitario, se si considera che l’età media delle vittime di incidenti stradali nel territorio trevigiano è di 20-40 anni, si comprende quanto sia importante l’impegno non soltanto nel campo della riabilitazione intensiva in ambiente ospedaliero, ma anche nel campo del recupero fisico-mentale atto a reinserire i pazienti nella scuola e nel lavoro. Per questo l’Ospedale Riabilitativo di Motta, con l’ausilio di associazioni onlus di volontari, sensibilizza sin dal primo momento post-trauma familiari, amici, insegnanti e datori di lavoro. Provengono attualmente da fuori ULSS circa il 50% dei ricoverati, con punte del 70-75% nella

oggi all’Ospedale Riabilitativo di Motta di presentarsi come un esempio paradigmatico della funzionalità e delle potenzialità dello strumento della sperimentazione gestionale pubblico-privata.

Nella fattispecie, la sperimentazione di Motta si è rivelata positiva tanto per il socio pubblico che per i soci privati. Il socio “semi-privato”, il Comune di Motta di Livenza, è rientrato in un triennio del proprio conferimento finanziario in virtù del solo gettito ICI prodotto dal nosocomio –cui va sommato il gettito TARSU (Tariffa ambiente rifiuti solidi urbani)-, e ne ha acquisito un utile attraverso il quale può essere in grado di ampliare la propria partecipazione. Quanto al soggetto pubblico, esso può vantare oggi una rivalutazione del 26% circa degli immobili e dei terreni conferiti all’atto della costituzione sociale (2003). Altro beneficio per il pubblico in senso lato, cioè per l’Ente regionale, è rappresentato dal gettito IRAP, versato dall’Ospedale Riabilitativo nella misura del 4,25% in quanto Società per azioni e dell’8,50% in quanto ente pubblico. Tutti i soci, pubblici o privati, non possono che essere soddisfatti del risultato d’esercizio, che al 31 dicembre 2007 presentava un utile netto di oltre 831.000 Euro. La cosiddetta Commissione 4P (Public-Private Partnership Programs) inglese, istituita per monitorare i risultati delle sperimentazioni

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riabilitazione cardiologica. Nel 2007 si è praticamente azzerata la “mobilità passiva”, vale a dire si è assorbito tutto il bacino di utenza della riabilitazione della ULSS 9. La cifra globale è di circa 3500 ricoveri annui.Le liste d’attesa, che pure rappresentano un notevole problema in molte strutture sanitarie del Nord Italia, sono molto brevi, grazie alle caratteristiche del CUP (Centro unico di prenotazione), che conta 6 addetti ed è in grado di provvedere a prenotazioni e ricoveri per qualsiasi tipo di esigenza sanitaria (anche per richieste di visite in libera professione) in tutte le strutture della ULSS 9. Ogni richiesta è registrata da un sistema centrale, che alimenta un database costantemente monitorato dalla ULSS 9 e dalla Regione Veneto. Attraverso il Centro unico di prenotazione si ottempera altresì ad un altro punto qualificante del progetto di sperimentazione, quello che prevede, comunque, di fornire risposte immediate alla domanda sanitaria del territorio. Ulteriori investimenti sono destinati nell’anno in corso alla ristrutturazione edilizia dei padiglioni ospedalieri, per la quale sono stati investiti 4 mln. di Euro nel 2007. Altri 700.000 Euro sono stati spesi nell’ultimo esercizio per le tecnologie cliniche. Primo ospedale in Italia, l’ospedale di Motta diverrà un “Free Paper Hospital”, attraverso un software che, grazie a schermi tattili disposti in tutti i percorsi ospedalieri, eliminerà i supporti cartacei rendendo disponibili in tempo reale tutte le informazioni sul paziente, a cominciare dalle cartelle cliniche (naturalmente nel rispetto della privacy e dei diritti del malato). Un ulteriore salto di qualità è rappresentato dall’adozione di un collegamento in fibra ottica con l’Ulss 9, che permette l’interconnessione dei sistemi informativi e lo scambio delle immagini radiologiche, agevolando così il paziente negli spostamenti, ma, contemporaneamente, garantendo gli standard qualitativi di Treviso con l’ausilio di radiologi che sono in grado di refertare direttamente dalla Radiologia del Presidio ospedaliero di Treviso.Anche per quanto concerne il dato occupazionale, la percentuale di incremento dagli inizi della sperimentazione è del 50% circa: il personale dipendente e comandato ammonta oggi a 224 unità, senza tener conto dei non pochi soggetti medici che hanno in essere con la Società un rapporto libero professionale, in buona parte “strutturato”. Non soltanto si sono così sviluppate competenze

di lavoro in team multiprofessionale, con l’adozione di modelli di riferimento e modalità operative conformi alle concezioni più accreditate ed avanzate in materia di riabilitazione, ma si è anche predisposto un modello organizzativo del personale atto ad integrare il trattamento economico e normativo del personale comandato della ULSS9 con quello dell’ospedale.L’Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione si pone così come realtà fortemente propositiva, che, mediante la filosofia del miglioramento delle prestazioni cliniche e, nel contempo, delle infrastrutture ad esse afferenti, ed in un’ottica di “work in progress”, si appresta a diventare un organismo di tutto rilievo nel quadro della Sanità regionale e nazionale.

APPENDICE

Doc. 1Divagazioni e trattenimenti sopra hospitali, malati e testamenti.di Luigi Zanin

1. Sul pons liquentae, ma non necessariamente all’altezza della Motta, si combattè nel 776 una battaglia dagli echi letterari illustri tra Rotcauso - appoggiato dal suo illustre parentado veneto - e l’armata franca. Il fatto divise aedi e cronisti, ma alla fine dei giochi non portò nulla di bene per i longobardi, oramai italici d’elezione. Un vero peccato perché Carlo Magno era entrato in questa parte d’Italia in punta di piedi, certo che qui più che altrove fosse necessario mirare ad un accordo con i duchi locali. Andata male la sortita sul Livenza, non restò ai veneto-longobardi molto su cui sperare. Rotcauso diventa nelle carte inimico nostro (per Carlo), e parte così la stagione delle confische per lui e per i suoi sostenitori. Ma siccome nel medioevo si passa dalle reprimende peggiori, alle vendette più crudeli ed inumane, ad improponibili perdonanze e connessi baci della pace, così anche i longobardi traditori torneranno nel giro di pochi decenni a sedere nelle mense dei nuovi dominatori. Anzi, profittando dell’insondabile mutare delle cose, ne scalzarono pure - su base locale - le terga da molteplici scranni. C’est la vie, anzi… c’est la guerre.

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Nonostante ciò gli storici continuano ad interrogarsi sull’esito di quello scontro tra cavallerie pesanti: si domandano in convegni ed interventi dove si trovava quel pons, ma in pochi hanno pensato che questa possa esser stata la medesima struttura nominata nella «novella» del Codice Teodosiano (XI, 10, 2), dove si parla appunto del restauro del ponte sulla Livenza sotto gli imperatori Valentiniano e Valente. Certo, fare un ponte in epoca altomedievale doveva essere un po’ come costruire un’autostrada ai tempi d’oggi. L’uso della pietra, nei quali eccellevano i romani, era stato sostituito vieppiù dal legno, anche se non bisogna esagerare con il fascino della regressione, nemmeno quando si parla di medioevo barbarico! Pare che il nostro ponte fosse gettato molto più a nord della Motta, tra Cavolano e Sacile: e c’è da crederci visto che proprio la via pedemontana era il principale asse di collegamento est/ovest dell’altomedioevo veneto e friulano, e che per la sua importanza venne punto abbattuto dai patriarchi di Aquileia nel Trecento, periodo in cui erano sempre più difficilmente contenibili le intemperanze dei Trevigiani. Ma cosa centrano questi ragionamenti con la storia dell’ospedale di Motta? Poco, per non dir nulla, almeno dopo la piacevole lettura dei medaglioni istoriati dall’amico Bruno Stefanat. Eppure il nostro corso d’acqua, tanto gentile da essere declinato al femminile a partire dal D’Annunzio (e così continua ad esserlo nella voce del popolo, contrapposto alla virilità del Piave, reso ancor più maschio dalla Leggenda musicale del 1918), ha avuto molto a che fare con le opere di assistenza durante i secoli passati. Il Livenza era elemento naturale di confine tra domìni differenti, prima tra ducati, poi tra comitati, ma era destino che non potesse mai risultare una barriera naturale convincente: lo capirà oltre un millennio d’anni più tardi anche il general Cadorna, che - umiliato da tanta storiografia - aveva invece avuto chiara contezza che le sinuose curve del suo scorrere non avrebbero potuto resistere alla spedizione punitiva di Konrad e degli altri generali di Sua maestà imperial cattolica, l’imperatore d’Asburgo.

Ma a noi qui interessano le questioni ben più vecchie e ci interessa tornare indietro al primo medioevo, un periodo che la retorica di fine Ottocento ha reso troppo fascinose. E proprio partendo da esse, la Livenza accresce l’immagine di una frontiera «colabrodo»,

sempre più costellata da una serie di punti d’attraversamento, il che - sempre con la scusa dei collegamenti - permette pure l’incontro tra mondi diversi, scambi di vedute, di esperienze e, soprattutto, di racconti e suggestioni. Sui margini dei fiumi, o delle loro diramazioni principali, nascevano dunque gli hospitali - hospitalia, in origine strutture di assistenza per quei viaggiatori che non potevano più contare da secoli sull’efficienza delle mansiones romane, sorte su impulso dello stato tra I e III secolo nell’ambito dell’organizzazione di un grande sistema viabilistico. Il termine mansiones, da cui deriva quello di magione, si diffonde poi in particolare grazie ai Templari e agli Ospitalieri di San Giovanni, che proprio delle “politiche” di assistenza al viandante - specie verso quello diretto in Terrasanta - fanno la loro principale missione. Magione (maison) è proprio l’organizzazione di base, la cellula, l’azienda più minuta, del grande patrimonio templare. Localmente questo ruolo di servizio viene interpretato invece dagli xenodochia, vere e proprie strutture di servizio in cui possono alloggiare e rifocillarsi gratuitamente i viaggiatori.

2. Ammalarsi nel medioevo poteva voler dire morire due volte. Non bastava la partenza da questo mondo, magari fra stenti e patimenti. La produzione letteraria che scaturiva senza sosta dagli ambienti monastici dei primi secoli del medioevo ci metteva il suo, e così era nata l’idea – anche questa lunga a morire – che l’ammalato scontasse in questa terra i peccati già commessi da se stesso, o dai suoi padri. Si sa che l’”invenzione” - o meglio la definizione in chiave teologica - del purgatorio data gli inizi del Duecento, e dunque l’affinamento delle anime nel fuoco transitorio si scontava sulla Terra: le condizioni di vita si adattavano abbastanza al presupposto teorico. Da questi presupposti nasce l’idea dell’impurità dell’infermo, accentuate da alcune malattie più d’altre, e comunque concetto che veniva esteso in generale alla donna. Il nesso tra peccato e malattia è manifesto nel caso della lebbra, la malattia più temuta del medioevo, che il legislatore franco e longobardo avevano già deciso di estirpare dalla comune convivenza restringendo la sfera dell’agire degli ammalati. I quali non si potevano sposare, muoversi liberamente o frequentare luoghi di culto. Il discorso potrebbe continuare a lungo, ma ci porterebbe ad una variante antica degli

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ospedali: i lebbrosari che nascono proprio nell’VIII secolo grazie alla pensata di Nicolas di Corbis e del tedesco Othmar, entrambi santi e credo pure taumaturghi. Fu una delle trovate più durature dell’occidente: fin dai tempi della prima guerra mondiale ne esistevano praticamente in ogni paese: anche in questo è solo con la grande guerra - come teorizza Jacques Le Goff - che finisce il medioevo! La fondazione degli ospedali in epoca antica ha dunque a che vedere con la diversa concezione del male e della malattia. Nella cultura classica il male non occupa quel ruolo centrale che invece finirà col ricoprire con l’avvento degli ordini mendicanti (francescani in particolare) dal XII secolo in poi. Nella fase di transizione dell’alto medioevo l’iniziativa rientra quasi sempre tra le facoltà dei più ricchi, dopo di che - grossomodo dal Millecento in poi - prendono il sopravvento sulla fondazione dei nuovi ospedali gli ordini monastici (anche templari, giovanniti e ospitalieri) e quindi quelli minori (francescani in primis, quindi i domenicani). La fase di fondazione laica di xenodochia e hospitales interessa soprattutto i longobardi e le famiglie dell’antico ordine vassallatico italico, grandi convertiti al cristianesimo, spesso con propositi realmente sinceri. Le attestazioni si ricavano dalle donazioni pro anima e dai testamenti, una trentina in tutto nell’Italia settentrionale per quel periodo. Nel 745, ad esempio Rotperto di Agrate, un grande possessore di area lombarda, dona tutti i suoi beni per fondarne uno ed aiutare in questo senso i poveri e i pellegrini, con unica eccezione la propria cintura da guerriero che doveva andare al figlio. In molti casi queste donazioni nascondono operazioni mirate a sottrarre beni privati dalla sfera della conquista dei nuovi invasori, considerata imminente nel caso dei Franchi: ma la legislazione longobarda, in particolare le leggi di Liutprando erano abbastanza severe su commistioni di questo genere. In altri casi sono dettati dal reale spirito di una conversione sincera, come appunto questa dell’importante aristocratico lombardo che riguarda esplicitamente poveri e pellegrini. In altri casi l’affrancamento della servitù, sempre presente nelle fonti del periodo, va ad interessare proprio i servi operanti all’interno di queste strutture di assistenza, ma gli oneri per il loro riscatto sono talmente importanti che è difficile che si concretizzino nella realtà. I testamenti sono i documenti privilegiati per questo genere di donazioni, che molto spesso si fermano al

trasferimento, in alcuni periodo dell’anno, di ingenti quantità di preziosissimo olio destinato alle spese di illuminazione delle chiese e dei xenodochio: si parla in questo caso di luminaria, un apporto preziosissimo che col tempo diventa un censo vero e proprio che si applica ai confratelli quale quota-parte al funzionamento di queste istituzioni. Nelle antiche scuole veneziane, i confratelli pagano ancora la loro iscrizione annuale sottoforma di luminaria! Anche l’impero carolingio incoraggia i grandi monasteri a creare ospizi e ospedali; l’imperatrice Angilberga fonda un hospitale (presente nell’853) presso il monastero di S.Sisto “per servizio dei poveri infermi et pellegrini”. Tra X e XI secolo si registrano nuove fondazioni di strutture ricettive lungo le vie di pellegrinaggio e nel XIII secolo si diffondono altre fondazioni ospedaliere e di ricovero tenute da ordini religiosi nati durante le crociate.

3. Tra i fondatori di ospedali e xenodochia in ambito trevigiano, meritano una menzione di assoluto rilievo i conti di Treviso, oggi principi di Collalto e San Salvatore. La fondazione del monastero-xenodochium di Sant’Eustachio, sul colle sopra Nervesa (dove dal 994 la famiglia disponeva di un cospicuo patrimonio) risponde a quelle che sappiamo essere le consolidate linee di azione delle famiglie dei grandi proprietari nei secoli dell’alto medioevo: necessità di porre sotto la protezione di un ente ecclesiastico strettamente controllato dalla famiglia una parte del patrimonio per sottrarlo alla fiscalità ordinaria, volontà di creare isole immunitarie, presidio ancora maggiore del territorio, creazione di una istituzione in cui possano confluire i figli non avviati alla gestione dei patrimonio, e naturalmente - posti ad ultimo, ma certamente non ultimi - gli aneliti spirituali dei fondatori che riguardano sia la volontà di acquisire i meriti della vita eterna come la garanzia di un servizio religioso più efficiente nel territorio. Fondare una chiesa significava certamente tutto questo, ma anche, come hanno messo in luce Aldo Settia e Cinzio Violante partendo da punti di vista diversi tra loro, calare sul territorio uno strumento di inquadramento, un «centro di orientamento e controllo» per ampie fasce della società locale. L’abbazia di Sant’Eustachio viene fondata prima del 1062 da Rambaldo III, terzo esponente noto della famiglia, e dalla madre Gisla, nei pressi di un castello già esistente su quel colle. Il documento di fondazione della chiesa e

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la donazione del patrimonio non ci è pervenuto, mentre nel 1791 Filippo Avanzini ha trascritto la bolla - la cui versione originale si perse negli incendi dell’archivio familiare e nei saccheggi dell’abbazia del 1918 - con la quale papa Alessandro II accoglie sotto la tutela della Sede Apostolica il monastero. La prima parte del documento riguarda la donazione e la pensionem: […] Unde quia tu, Gidulphe abbas, postulasti a Nobis, ut Monasterium sancti Eustachii, cui preesse dignosceris, quod vide licet Rambaldus comes et ejus mater Gisla, zelo religionis fervente, spe future remunerationis, in possessione sua, prope castellum, quod nominatur Narvisia, in Comitatu tarvisino, construxerunt atque Apostolice Sedi donaverunt, ac pro eo pensionem sex soldorum denariorum venetorum annuatim eidem Sedi esse redenta constituerunt, inclinati precibus tuis ipsum monasterium sub tutela et defensione sancte Sedis apostolice suscipimus, et quid quid nunc juste providet vel deinceps providebitur, apostolica auctoritate confirmamus.

La bolla continua con il riconoscimento ai monaci del diritto di eleggere l’abate senza alcuna interferenza esterna, e le stesse indipendenze ed autonomie sono rimarcate verso il vescovo di Treviso, cui viene prescritto l’obbligo di astenersi dall’esercizio di qualsiasi potestà sui monaci e sulle chiese battesimali che da essi dipendono (interdicentes omnino Episcopo tarvisiensi, in cuio parochia videlicet esse sopradictum monasterium constructum etc.). La pensione di sei soldi di denari veneti che viene stabilita tra il monastero e la Sede Apostolica non è molto rilevante, equivale circa al livello di un manso di medie dimensioni (rapportato agli stessi anni). Nel 1055, quindi pochi anni prima del documento, a Padova, un censo dovuto al vescovo dagli arimanni della pieve di Sacco viene stabilito in 7 lire di denari veneziani, cioè 1640 denari veneti: è fuor di dubbio che le dimensioni della grossa corte di Sacco, oggetto di contesa tra il vescovo di Padova e lo stesso patriarca di Aquileia, siano ben più ragguardevoli rispetto alle pertinenze dell’abbazia di Nervesa. Maggiore, in rapporto, il censo annuale che viene registrato nel Liber censuum della Santa Sede in relazione al monastero a partire dall’anno 1192, che equivale in quella data a 3 soldi veronesi.La speciale protezione romana all’abbazia consente, assieme alla munificenza dei conti di Treviso, una immediata espansione delle pertinenze della chiesa. Tra la fine del XI secolo e gli inizi del XII prede infatti sempre più ordine la riorganizzazione del patrimonio

familiare. Attorno al patrimonio originario, la corte di Lovadina ed il Montello, si struttura la parte più organica della futura signoria territoriale: probabilmente agli inizi del XII viene costruito anche il castello di Collalto, il primo dei due importanti manufatti da cui nel corso del Trecento la famiglia, oramai decaduto il titolo comitale, prenderà nome trasformandosi in conti di Collalto e San Salvatore. Ai margini di questo nucleo particolarmente compatto prende progressivamente forma anche quello dell’abbazia di Sant’Eustachio. Nel 1091 è Rambaldo IV, a dimostrare di essere il titolare dell’ufficio di conte di Treviso (singolare il processo di trasmissione agnatizia del titolo ai maschi che portano lo stesso nome: probabilmente si tratta dei primogeniti), e che dona in questa veste assieme alla moglie Magtilda/Matilda ulteriori beni, massaritias, cappella sed ecclesias posti oltre che nelle vicinanze di Nervesa anche nei più distanti villaggi di Arcade, Spresiano, Maserada, Spercenigo, Mestre e Vedelago. Questa dislocazione a maglie tanto ampie consente alla chiesa di Sant’Eustachio di allargare l’ambito della sua organizzazione ecclesiastica in modo organico oltre ai luoghi tradizionali del potere dei conti di Treviso, e di estendersi in particolare, anche nell’area meridionale del comitato trevigiano, fin quasi a sovrapporsi all’organizzazione diocesana del vescovo. Viene a porsi in pratica, in questo modo, la strategia in base a cui il monastero di famiglia diviene un vero e proprio centro di coordinamento territoriale. Grazie a questo ruolo il monastero controlla le parrocchie, ed estende l’influenza dei suoi protettori anche in ambiti territoriali molto distanti dal centro del potere personale dei conti di Treviso utilizzando strumenti del tutto nuovi e certamente efficaci. Si rafforza mediante questo percorso il ruolo istituzionale della famiglia all’interno del comitato, anche se questo significa entrare in una prospettiva di scontro con la sfera delle potestà vescovili. In altri termini, preso atto che l’uso delle dignità pubbliche non sembra restituire nell’ambito della circoscrizione comitale particolari riscontri, l’estensione della chiesa privata su territori così distanti dal centro del potere privato e d’ufficio (un’ambiguità anche in questo caso molto difficile da risolversi), può essere stato di una qualche utilità nel riassetto di un potere familiare, certamente percepito pesantemente, ma comunque sempre alla ricerca di nuove di più efficaci forme gestione.

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L’istromento del 1091 ha però una rilevanza anche dal punto di vista prosopografico, in quanto dalle professioni di legge apprendiamo che l’italico Rambaldo (ex professum lege longobarda) aveva sposato Matilda ex natione mea lege vivere videor salica, figlia di un marchese di nome Burgundo, evidentemente di provenienza oltralpina. E’ una notizia indicativa, certamente non isolata come testimonia il caso cenedese sottoriportato, di rapporti matrimoniali tra nobiltà e in generale ceto di possessori italici ed immigrati nordici più generalmente definibili teutisci. Purtroppo non è possibile risalire con precisione all’identificazione del marchese Burgundo, non contemplato dal repertorio dello storico Edouard Hlawitscka, tanto più che i beni donati sembrano appartenere esclusivamente alla sfera patrimoniale trevigiana. E’ proprio attraverso i numerosi documenti di dotazione patrimoniale di monasteri ed enti ecclesiastici che riusciamo ad intravvedere i stretti legami di affinità tra i membri più importanti del territorio trevigiano e friulano di questi anni. L’ospitale-certosa di Santa Maria presso il Piave in loco Talponus, fondato in precedente epoca imprecisata, è beneficato nel 1120 da una donazione congiunta di tre aristocratici, i conti Rambaldo di Treviso, Valfredo di Colfosco ed Ermano di Ceneda, e da una figura di crescente – ma ancora non completamente palesata – influenza: Gabriele di Guecello da Montanara, che di li a poco troveremo come Gabriele da Camino. I donatari sono tutti italici (professimus ex natione nostra lege vivere Longobarda), e questo assieme alla comunanza nel possesso dei beni in Talpone ha spinto soprattutto gli autori antichi ad ipotizzare che i da Camino, i conti di Treviso e quelli di Ceneda appartenessero ad una unica famiglia. Questo può valere probabilmente per il rapporto tra Rambaldo di Treviso e Valfredo di Colfosco. Essi compaiono in coppia (ideoque nos Rambaldus et Valfredus […] donamus et offerimus a presenti die in eadem ecclesiaet hospitali per animarum nostrarum mercede nominatim omnes res et proprietastes, seu et pertinentias illas juris nostri etc.), e documenti posteriori di un decennio hanno indotto alcuni storici a confermare la loro stretta parentela in virtù di una clausola ereditaria che garantisce la trasmissione di proprietà tra le due famiglie. La prima ipotesi sorta da metodo scientifico sul rapporto tra queste famiglie risale agli inizi del secolo scorso: ne fu propugnatore Luigi Bailo, fondatore del museo civico comunale. Ma già prima di lui questa

profonda suggestione influenzava cronisti e storici già da alcuni secoli.

4. Come detto dal Duecento queste fondazioni diventano sempre più appannaggio dei grandi ordini. I casi sono molti: nel territorio liventino esiste l’ospedale di Camolli, presso Sacile, che si sviluppa durante il XIII secolo per assicurare la manutenzione dei ponti, controllare le piene dei due fiumi e i guadi soprattutto per fornire assistenza ai viandanti. In questo periodo gli xenodochia (il termine dal XII secolo è sostituito dai vocaboli hospitale e hospitium) sono quindi principalmente luoghi di assistenza e di sosta per i pellegrini. In questo senso è documentato nel Trecento l’ospedale di San Giovanni dei Cavalieri a Prata, promosso assieme al monastero camaldolese di Rivarotta come una fondazione di familiare dei conti di Prata. E anche in questo caso un ruolo importante ce l’aveva evidentemente la vicinanza al fiume Livenza, che oggi lambisce l’antico monastero trasformatosi in villa col mutare delle epoche. Presso Sacile tra il Due ed il Trecento prende consistenza inoltre la fondazione di San Giovanni del Tempio: insomma un fermento in grande stile con protettori ad hoc come testimoniano i grandi affreschi dei santi protettori del guado e della buona morte, san Cristoforo in testa. Secondo la tradizione era un martire in Licia nel 250, durante la persecuzione dell’imperatore Decio. Fu uno dei «quattordici santi ausiliatori», colui che avrebbe portato sulle spalle un bambino, che poi si rivelò Gesù. Il testo più antico dei suoi Atti risale all’VIII secolo. In un’iscrizione del 452 si cita una basilica dedicata a Cristoforo in Bitinia. Cristoforo fu tra i santi più venerati nel Medioevo; il suo culto fu diffuso soprattutto in Austria, in Dalmazia e in Spagna. Chiese e monasteri si costruirono in suo onore sia in Oriente che in Occidente, ma nelle nostre terre lo si trovava raffigurato sulle facciate delle chiese e nei pressi dei ponti, invocato per l’assistenza nei momenti di pericolo, ed invocati la mattina dai viandanti e dai contadini che andavano ai campi per chiedere il dono della Buona Morte, ovvero della morte in grazia di Dio.

Doc. 2La morte dell’arcivescovo di Udine Bartolomeo Gradenigo

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3 novembre 1765“Comparve avanti l’ill.mo ed eccell.mo signor Francesco Corner Podestà ed Ufficiale di Sanità il nobile signor Dott. Gio. Maria Bottoglia Armellini, medico fisico condotto di questo Castello, per parte e nome della N.D. Maddaluzza Contarini vedova del fu N.H. sig. Carlo Gradenigo, commissaria testamentaria del fu N.H. S.E. Ill.ma Rev.ma Bartolomeo Gradenigo, Arcivescovo di Udine, ed espose come che, desiderando di far il trasporto di quel cadavere alla cattedrale di Udine, per esser colà fatto seppellire, e rendendosi necessario farlo imbalsamare, perché non infracidisca nel viaggio, perciò instà per nome, come sopra, che da quest’Ufficio sia rilasciato decreto per la permissione di aprirlo con tutte quelle formalità che dall’Ufficio medesimo saranno credute salutari”. Il Podestà e i provveditori alla sanità Gio. Batta Ortica e Domenico Lippi accolsero l’istanza, decretando e ordinando “l’apertura del detto cadavere per essere curato, ed imbalsamato per mano dell’ordinario Chirurgo, e con l’assistenza di detto sig. Bottiglia Medico, dovendo subito curato far seppellire gli interiori tutti, che saranno levati, e ciò con l’assistenza del cancelliere dell’ufficio medesimo”. Contemporaneamente fu inviata una lettera a Udine al Luogotenente della Patria del Friuli: “Capitato il dì 28 prossimo scaduto alle ore 18 qui in questo Castello alla casa del Rev.mo sig. D. Pasquale Cestelli Arciprete il q.m. Ecc.mo Rev.mo Bartolomeo Gradenigo, Arcivescovo di codesta Città, fu colto da Cardiaglia Biliosa fatale, così da medici rilevata, da quali assistito fino al giorno di ieri, finalmente, munito dei Santissimi Sacramenti, alle ore 22 circa, rese l’anima a Dio. Faccia perciò l’istanza a questo ufficio di sanità dalla N.D. Maddaluzza Contarini, vedova del fu N.H. sig. Carlo Gradenigo, Cognata del suddetto, per la permissione di farlo aprire, e curare, indi imbalsamare, a fine di farlo tradurre costà senza pericolo d’infracidimento, e dall’ufficio medesimo accordata l’operazione, che fu fatta da due Chirurghi con l’assistenza del sig. Dott. Bottoglia medico fisico condotto, e del cancelliere dell’ufficio, fatti seppellire gl’interiori tutti dal cadavere levati, ed imbalsamato il cadavere medesimo, fu fatto riporre in cassa bene otturata con pegola per il suo trasporto. In iscorta pertanto di questo cadavere fu destinata la persona di Zuanne Mattiuzzi, fante dell’Ufficio, perché di vista abbia ad accompagnarlo fino alle porte di codesta Città, dove arrivato, sia dal medesimo consegnato al

fante dell’Ufficio ill.mo di sanità di codesto Luoco, non restandomi intanto che l’onore di baciare all’Eccellenza V. divotamente le mani.Noi Francesco Corner, per la Serenissima Repubblica di Venezia , Podestà della Motta”.Doc. 3Consulto (ambiente mottense, sec. XVII-XVIII)

Il manoscritto non riporta indicazioni di data, ma si accenna a un forte terremoto che avrebbe spaventato la paziente. Forse si riferisce al terremoto che colpì il Friuli il 28 luglio del 1700, o, più probabilmente, a quello che ebbe come epicentro Asolo il 25 febbraio 1695, segnalato con la massima intensità epicentrale nella tabella della “storia sismica di Motta di Livenza” consultabile nel Database Macrosismico Italiano (www.emidius.mi.ingv.it/DBMI04/) (v. anche Quaderni di Geofisica dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, n.49/2007) . Altri terremoti che ebbero probabilmente ripercussioni sul territorio mottense furono quelli della Slovenia nel 1622, nel 1689 e nel 1691, e forse quello di Treviso del 1756, oltre ad un altro sisma che però produsse danni solo nell’alto Friuli nel 1786. Nel consulto la paziente viene qualificata “Nobil Donna Vergine Vestale”, il che fa pensare ad una adolescente, e “Nobile Patrona”, ciò che la fa ritenere di alto lignaggio: era forse la figlia di un Podestà veneziano della Motta? Nobil Homo e Nobil Donna erano titoli peculiari della nobiltà patrizia veneziana. Da rimarcarsi, poi, l’uso terapeutico del “radichio”.

Gl’incomodi, che da lungo tempo tengono vessata la Nob. Donna Vergine Vestale N.N. sono tutti fenomeni, che ben chiara dimostrano un’affezione ipocondriaca; da questo unico fonte diramano tutti gl’accidenti, che assieme aggropati formano la piena della di lei pertinace, e molesta indisposizione. Un succo acido concentrato nel viscido da vizio della prima digestione, concretatosi in sostanza di sale tartareo nelle viscere naturali, e specialmente nell’hipocondrio sinistro, ove s’inalza qualche tumefazione, ne fu la causa prossima, e tuttavia n’è il fomite del male; questi, pervertendo la chiosi, depravando l’hematosi, e viziando la linfa ha potuto render li fluidi più fissi, e mancanti della necessaria volatilazione, da che nacquero sul bel principio le diminute, e poscia dolorose separazioni delle mensuali espurgationi, che in progresso passarono in total sopressione; indi

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La prima e l’ultima pagina del “consulto”

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arenandosi le parti più grosse, e viscide risultarono l’ostruzioni nelle glandole dell’abdome con la degenerazione di quel latice alcalino urinoso destinato alla volatilizazione del sangue, non meno che quelle ne vasi sanguiferi più angusti dell’hipocondrio sinistro, e specialmente qualche concrescenza tartarea nel ramo dell’arteria celiaca, ove risente la molesta pulsatione, si per l’angustiato passaggio nel diametro di quel canale, come per l’impressione fasi dal sangue nell’incontrata concrescenza, dalla cui resistenza ne risulta la pulsatoria sensazione; o sia pure molto probabilmente dalla pressione dell’ostruzioni de corpi glandulosi, o nervi contigui a quel vase; porzione poi risoluta nel succo alimentitio nella parte sinistra puotte cagionar li gravi dolori, e lancinazioni della coscia, ed avvanzandosi a contaminare la purità del succo nerveo con le sue spicole velicando li nervi propagati alla coscia, e piede, cagionarne le spasmodiche contrazioni, li semistupori, le debolezze, e depravazione del moto per la crispazione delle fibre nervee, e difettuoso passaggio de spiriti animali con quella turgescenza, che vaglia col suo elatere a renderli tumidi, ed in conseguenza robusti al moto, che restò con imperfezione in quella parte. Alli pungimenti pure di tali spicole nel plesso mesenterico, o prima nel ramo splenico insorti, si può ascrivere la palpitazione del cuore, da quali partecipata la spasmodica sensazione al surculo del Parvago, et indi al tronco del medesimo movente il cuore, risultarne può il moto palpitante di quel muscolo, che, da qualunque irritamento facilmente eccitate le nervee fibrile a quella violenta mozione costrittoria, impressagli da panico timore la prima volta per la sorpresa d’orrendo terremoto, rendersi può palpitante; se pure non fosse più accertato crederla proveniente, o almeno coadiuvata nel nostro caso dalla viziosa e preternaturale fermentazione del sangue, tanto più, che si fa sentire più valida nell’invasione, e durazione febbrile, e con la remissione e consumazione rimette, e cessa lasciando in quiete, e riposo la Nob. Pat., come ridotto il moto intestino delle particole del latice sanguineo allo stato naturale, e tranquillo, assotigliato quanto di succo crasso, dopo tre ore dal cibo preso se n’era introdotto nel suo seno col chilo saturato nell’impure miniere dell’abdome d’acido estraneo, o pure precipitatosi ne vasi escretorij, così che, cessando la preternaturale effervescenza, e con essa la maggior rarefazione del sangue in un fluido quanto più compatto, tanto più disposto, e capace di

maggior estensione, ed in conseguenza necessitata ad un’irritativa contrazione la diastole del cuore: resti ancora il detto sintoma con respiro della Nob. Pat. sedato. Ogn’altro accidente, che circonvalla il male, si di melanconia, dolore di capo, inappetenza, difficoltà di respiro e debolezza nell’ore prossime all’accesso febbrile può bastantemente emanare dalle stesse cagioni; dalla fissazione de spiriti, la melancholia; da pungimenti dell’acido stesso impegnato nelle porosità delle meningi, il dolore di capo, od ancora, quando nell’insulto febbrile accadesse, dalla turgescenza del fluido ne vasi sanguiferi e maggiore distensione delle medesime; che se in altre ore, o dall’infarcimento d’acida mucilagine nello stomaco, cui riferirsi deve l’inappetenza; o dall’utero ancora nell’uno, e nell’altro caso solo per spasmodica sensazione delle membrane, che tutte comunicano con quelle del cerebro, col mezo della corrispondenza de nervi, nel succo incrassato da quali è riposta la debolezza ne destinati al moto, come ne pneumonici la difficoltà di respiro, ambi forieri dell’insulto febbrile.Potevo veramente dispensarmi da tale tediosa patologia, quando la singolar virtù dell’Ecc.mo suo Fisico nella sua pontuale informazione ne ha con dotta ipotesi versato sopra la produzione, e concatenazione de sintomi tutti, e con esata etiologia ancora rintracciatene le cause antecedenti dagl’errori nel vitto, come anco le prossime stabilite nell’acido silvestre: ho dovuto nulla di meno formalizarne una tale theoria, da cui, convenendo nell’essenza del male, e nella causa prossima dell’acido ostile, ne risultasse ancora la causa congionta d’una fissazione ne fluidi tutti, e deficiente volatilizatione delle parti spiritose de medesimi per derivarne le più fondate indicationi manuduttrici alla cura, quali saranno l’infringer l’acido morboso, scioglier il viscido, ed il coagulo, e volatilizar il fisso, tanto quello de fluidi crassi, quanto il stagnante dell’ostruzioni. A tali indicanti dovranno tendere gl’attentati dell’arte, e li sforzi tutti della cura, a quali adeguatamente adempito, non mi resta dubbio d’una perfetta recupera della Nob. Pat. Mi accresce motivo di così stabilire a maggiore fondamento dell’indicationi dedotte, e mi somministra lume di così credere l’uso infrutuoso del febrifugo di China, scortando il mio riflesso due Canoni del divino Maestro di Coo, fondamentali dell’arte: a iuvantibus et ledentibus indicationes summuntur, l’uno, contraria contrariis curantur l’altro. Se esso cortice peruviano dunque tanto efficace,

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specialmente nelle febri croniche, restò schernito e disarmato, giova credere che la causa della febre, nella remotione di cui è fondata sempre la cura, o nell’alterazione almeno, ed in conseguenza quella del male tutto, non esigesse un rimedio di natura fisso, e fissante, qual è la China, per suo contrario; ma, se non giovò, dunque non era di sua natura contrario, anzi simile, che secondo il Filosofo non agit in sibi simile; se dunque simile, perché non oprò, dunque di natura fisso; dunque la causa oppugnabile è fissazione, e l’illazione vuole ch’il rimedio, dovendo esser contrario, operi per volatilizatione, e per conseguenza finale il febrifugo nel caso nostro deve essere del genere d’alcalini volatili, non de fissi. Tanto pare insinui il gran Filosofo Hermete nella sua Tavola Smaradina in materia filosofochimica: fac volatile fixum, et fixum volatile: da che evidentemente resta dedotto dover tender la cura alla volatilizatione fra l’altre cose indicate.Posti tali fondamenti, sarà ora facile la decisione del punto essenziale a cui si restringe particolarmente l’informazione osservata. Se dovendo nuovamente intraprendersi la cura debba darsi di mano alli medicamenti altre volte praticati, o pure variarne la cura.Chiamato dall’ingenuità, ch’io professo, posso bene commendarne l’uso di molti praticati, ed amirarne la virtuosa e saggia condotta d’un celebre Professore in una cura tanto più spinosa, et ardua, quanto complicata di tanti accidenti, in cui, se non gli è sortito di ripportarne un’intiera vittoria, ha almeno per molto tempo tenuto a freno il nemico, ed impeditogli ulteriori progressi. Presentemente però, meditandosi d’attentarne la totale eradicatione del male, io crederei insufficienti ed inefficaci li già usati a tal fine, poiché, se altre volte praticati con lunga insistenza, e replicata, non arrivarono a svellerne le radici, da quali, se bene indebolito, ripullulò, e prese nuovo vigore il male, così meno presentemente haver possono quella facoltà ch’allora non ebbero, e che si richiede per l’estirpazione del male, suffragandomi l’assioma filosofico idem manens idem, semper natum est facere idem; ma perché la ragione è astratta, quelle d’una filosofia più sensata haveranno maggiore persuasiva per l’elettione de medicamenti più accomodati alla natura de fermenti morbosi, che devono essere alterati e ridotti a nuova temperatura, non con le prime qualità, ma con la mistione d’altri corpuscoli, che vagliano a mutarne la figura, e tessitura; e con l’equilibrio delle particole tutte ridotti alla maturità dello stato

naturale, come habbiamo l’insegnamento d’Hippocrate De Natura humida: Tunc enim humores acres crudos dictos ex permixtione et temperatura mutua, non calidi, aut frigidi, simpliciter additione, et subtractione blandiores redditos, coctos et denuo naturale fieri; debbono perciò esser scielti quelli che avranno maggior proporzione con le loro particole, e con le porosità de suoi corpuscoli alle figure cospicue de succhi crudi, rigidi et acri, come bene l’abbiamo dall’enchirisi dell’acque stigie sopra metalli: mentre quella solve l’argento, non tocca l’oro per la sproporzione della figura de sali acidi alli meati angusti e compatti di questo, che richiede quella reggia per la proporzione de spiriti acidi dell’armoniaco. Così nel caso nostro ogni alcalino de fissi specialmente non haverà egual forza per invaginar le punte d’un acido di particolare e distinto sapore, come l’osserviamo dalli occhi di contro, perdere bensì del suo acre l’aceto, ma dal saturno farsi dolce; dovranno pertanto esser scielti in genere d’assorbenti e precipitanti quelli ch’avranno maggior facoltà, come sarebbero certe terre dannate de sali naturali, che per esser state dalla Pirothecnia spogliate dell’acido, cui dalla natura furono una volta maritate, usate nella medicina con esurina appetenza l’abbracciano, per riunirsi a nuovo connubio; dovendosi, con quanto studio si procurerà l’uso di quelli materiali si troveranno più adattati, con altrettanto evitarne quelli che, o non havessero per loro costituzione l’intiera facoltà, o fossero sospetti di partecipazione d’acido, cosicché li sciroppi preparanti altre volte praticati per l’acido del zuccaro, ed alcuni usati per quello dell’aceto, sarà bene proscriverli dalla cura; ammonendolo Ippocrate de victiis aceti: Aciditates ex aceto amara bile abundantibus magis conferunt quam atrabilariis: nigre vero fermentantur et atolluntur ac multiplicantur: acetum enim nigra sursum ducit, come nascerebbe nel caso nostro; dirigendo questa con li suaccennati riguardi e con le massime sempre tute et iucunde, giacché celeriter non è tanto facile in un male antiquato; il tute è già sicuro dalla consumata esperienza dell’Ecc.mo suo Fisico; il iucunde lo spero da medicamenti soavi e facili all’uso che sono per proporre, e di niuna soggetione alla Nob. Pat.; quali, se bene saranno diversi dagl’usati, non s’intenderà però variata la cura, restando sempre le medesime l’intentioni curative cui diretti. Sentirei pertanto che si dasse principio alla cura con un blando emetico, cui voglio credere per la consuetudine de vomiti causati dal vino non repugnarà la Nob. Pat., quale absentendo io potrò

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somministrarlo per smuovere dal ventricolo il viscido tenacemente infisso alla tunica interna, essendo questo viscere lerne kakòn, la lerna de mali; rimosso questo primo obice all’incontaminato passaggio de medicamenti, per quattro giorni susseguenti si conciliarà alli succhi la fluidità per adempirne il precetto d’Ippocrate, corporatum con una scutella di brodo alterato la mattina con acrimonia, radichio, boragine e melissa, e si prenderà con lo stesso una cartolina di polvere assorbente e dolcificante, che da me potrà esser somministrata. Passati questi si prenderà la sera del quarto giorno ante coenam mezza dramma di pilole tartaree schroderi ridotte in tre o quattro pilolete; dopo un giorno di riposo si pigliarà la mattina una carafina da tavola delle ordinarie di sciroppo composto, che si farà per uso d’otto giorni con succo depurato di fumaria, radice di polipodio quercino contuse, mirobolani citrini, et indi uva passa e mezza dramma di sal di tartaro, potendo esser dosato dalla virtù dell’Ecc.mo suo Fisico, in cui nell’atto di beverlo s’instillaranno XX gocce d’una tintura anthipocondriaca volatile ed aperiente da me manipolata; e quattr’ore dopo circa si pransarà; l’uso sarà per sette mattine, o otto ancora, quando qualche evacuazione di ventre più copiosa non dasse qualche fiachezza che obbligasse sospenderlo qualche giorno, o alternarne l’uso; che non nascendo sarà meglio quotidianamente continuarlo per render più breve la purga e più presto il giovamento; la sera poi all’ultimo giorno di dette prese antecedente si aggiungerà ad una carafina di detto sciroppo tre dramme di semina monda Riobarbaro, et agarico bianco scrups, uno per sorte; sal di tartaro scrups mezo; canella contusa dramma meza, ed un pugillo di passule, e lasciato senza bollire in digestione sopra le ceneri calde la notte, la mattina colato e spremuto; bevendolo servirà di blando catartico, con un giorno poi d’intermittenza e riposo, si riassumerà l’uso del detto sciroppo primo per altri otto giorni col medesimo tenore, e colle solite goccie come sopra; nel nono o decimo giorno, quando si ritrovasse lassa la Nob. Pat., ripigliarà il sudetto coll’aggionta delli materiali infusi; in tempo dell’uso de sette primi, come pure degli otto secondi giorni la sera un’ora, o poco più ante coenam si pigliaranno tre pilolette composte d’una panacea martiale di mia particolar manipolatione, e saranno deostruenti ed assorbenti valide dell’acido. Si avvanzarà dopo di ciò la purga passando ad un decotto viperato, fatto di salsa, visco pomerino, sassafras, ed una

vipera femina preparata secondo l’arte, fatto di giorno in giorno la sera antecedente nel bagnomaria in acqua di peonia oncie tre in quattro, ed un pugillo di fiori di lillà, in un matraccio con vaso di vetro d’incontro alla bocca, e ben sigillato perché non esalino li fumi e vadino circolando, bollindo per quattr’ore almeno; e la mattina estraendone l’umido sarà aromatizzato con poca acqua di tutto cedro o melissa, e si beverà di buon mattino nel letto, riposandovi dietro qualche ora; la continuazione d’esso dovrebbe essere per quaranta giorni, se sarà possibile, o almeno per trenta; ogni dieci giorni nell’uso dello stesso pigliarà la sera ante coenam una presa di pilole tartaree schroderi come sopra; si accompagnerà pure allo stesso decotto un’ora prima uno o due bocconcini formati di succino bianco preparato, lumbrici terrestri preparati, cinabro d’antimonio e castoreo impastati con poco diascordio Fracastori, o rob di sambuco; il che riguardarà pure il carattere maligno qui suspicatur geniturae impressus; ciò eseguito, si potrà senza soggezione veruna continuare la matina in brodo tepideto alterato con melissa, o in acqua della stessa fatta di recente, XX gocce di liquor di corno di cervo succinato, soluzione di terra foliata di tartaro, e spirito di coclearia, mescolati alla proporzione che giudicherà la virtù dell’Ecc.mo suo Fisico. Potrà pure ogni quindici giorni per qualche tempo valersi d’una presa delle dette pillole tartaree schroderi. Con tali medicamenti s’adempirà intieramente alle suaccennate indicazioni non solo, ma alle urgenze ancora maggiori della febre contumace e palpitazione; e voglio sperare resterà intieramente espugnata la lunga e molesta indisposizione. Ma perché ho pure annotato nella relazione speditami l’avversione nelli mesi estivi al vino, che costringe la Nob. Pat. all’uso dell’acqua di fonte solamente, stimo bene molto vantaggioso alla stessa convertir una tale necessità in profitto, riducendo l’acqua stessa in una birra piacevole e delicata, che si farà quando v’inclini a suo tempo col metodo che verrà da me comunicato. Nel fonte chirurgico non vi pongo mano, non conoscendo, se non pregiudiciale, la flebotomia; quando non conoscesse l’attenzione dell’Ecc.mo suo Fisico pletora, che dentro la purga la richiedesse, sperando peraltro resti dall’uso de rimedii la naturale emorragia facilmente promossa, e nuovamente per li suoi vasi destinati restituita; per quello che poi riguardasse il moto depravato rimanesse del piede, e coscia, cui poco vi pensa per ora la Nob. Pat., si meditarà a suo tempo qualche congruo locale che

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ne risarcisca l’offesa. La regola infine delle cose non naturali la riporto alla disposizione dell’Ecc.mo suo Fisico, da cui saranno ridotte alla più giusta moderazione.Tanto può suggerire una fiacca Minerva, che rassegna li propri sentimenti alla consumata esperienza, e sommo talento d’un provetto Professore, da cui n’avranno un benigno compatimento le mie debolezze; unindo alli stessi li voti d’un cuore divoto, per il felice evvento alla Nob. Donna Vergine Vestale.Pietro Gregolini Medico Fisico Levantino

LE INTERPRETAZIONI DEGLI SPECIALISTI DI OGGI…Consulto medico (ambiente mottense, SEC. XVII-XVIII) ad opera di Pietro Gregolini “Medico Fisico Levantino”.Interpretazione ed analisi del testo

Da quanto scritto la storia clinica della Nobildonna Vergine può essere così interpretata. La sintomatologia polimorfa, caratterizzata da cardiopalmo, dispepsia, vomito, febbre, stipsi ed amenorrea potrebbe essere compatibile in prima ipotesi con una patologia neoplastica dell’apparato gastro-intestinale. Una seconda ipotesi deporrebbe per una forma di anoressia con infezione sovrapposta a partenza imprecisata, che spiegherebbe la febbre. Una terza ipotesi potrebbe essere quella di una forma di ipertiroidismo, anche se la stipsi non rientra nel quadro clinico.Una considerazione che merita attenzione è che “il consulto” del tempo è incentrato sull’autorità del medico/filosofo/fisico/empirico, non essendo ancora presente lo spirito razionale/scientifico della medicina che caratterizza l’epoca moderna.A dimostrazione di quanto scritto numerosi sono i riferimenti della medicina ippocratica, fisica, empirica e filosofica nel consulto, come per esempio: 1) “idem manens idem, semper natum est facere idem” (“se una cosa resta tale e quale significa che è programmata per dare sempre lo stesso risultato”);2) nell’opera “De natura humida” di Ippocrate: “Tunc enim humores acres crudos dictos ex permixtione et temperatura mutua, non calidi aut frigidi, sempliciter additione, et subtractione blandiores redditos, coctos et denuo naturale fieri” che significa

“Sulla natura dei fluidi”: “Ora si sostiene infatti che gli umori acri crudi trovino un equilibrio dalla mescolanza e dal reciproco scambio della temperatura, non dall’intervento del caldo e del freddo, ma resi più blandi dalla semplice addizione e sottrazione, mentre i cotti ritornano all’equilibrio naturale”;3) “a iuvantibus et ledentibus indicationes summuntur” di Ippocrate ovvero “si fa esperienza da ciò che va bene e da ciò che fa male”;4) “contraria contrariis curantur”, “non agit in sibi simile” di Ippocrate e “fac volatile fixum, et fixum volatile” del filosofo Ermete , queste tre assiomi indicano che la cura deve essere perseguita con sostanze opposte (di natura contraria) per essere efficace e che pertanto la cura (la terapia) deve operare per volatilizzazione.In conclusione è da sottolineare la diversa condotta medica attuale, basata sulla evidenza scientifica e sulle conoscenze farmacologiche, dati essenziali assieme all’umanizzazione delle cure, elemento fondamentale nella concezione olistica del paziente. Quirino Messina e Lucia Sosi.U.O. Medicina Generale O.R.A.S.

La descrizione della sintomatologia accusata della giovinetta è molto confusa ed imprecisa per cui non è semplice esprimere un giudizio circostanziato sulla vera causa della malattia, se di malattia si tratta veramente. All’epoca del consulto gran parte della malattie venivano diagnosticate ricorrendo alla teoria dei fluidi malsani, che circolando nel corpo ne producevano l’alterazione della sua funzionalità. Quindi è più che scontato che il medico diagnosta del tempo sia ricorso ad una complicatissima teoria dei fluidi corporei per spiegare tutti i mali che affliggevano la giovinetta. Per quanto riguarda la terapia viene descritta la classica terapia del tempo che non poteva essere che di due tipi. Da un lato la depurazione del corpo dai fluidi mediante l’uso di emetici e di tisane dalla composizione e posologia complicatissime e dall’altra mediante la exanguino trasfusione, per la quale tuttavia, non essendo il diagnosta dell’epoca un esperto, non sa dare una prescrizione certa. Marco Cadamuro MorganteDirettore sanitario ORAS

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Doc. 4Lettera di richiesta del sindaco di Castelfranco della pianta del nuovo padiglione degli infettivi.“20 agosto 1923

Egr. SindacoMotta di LivenzaQuest’Amministrazione sta studiando il modo di costruire un padiglione di isolamento per malati contagiosi in consorzio coi Comuni del Mandamento. Avendo saputo che in codesta Città vi è un padiglione che risponde a tutti i bisogni, prego la S.V.I. di favorirmi una copia della pianta edilizia e sezione per prenderne cognizione, ovvero l’originale che sarà tosto restituito. Prego inviarmi anche lo statuto per la gestione e i carichi annui. Ringrazio del favore e la ossequio.”

Doc. 5LA MORTE DI ITALO SVEVO: SPECIALISTI DI MOTTA E ODERZO RISCRIVONO IL REFERTO.

POSSIBILI CAUSE DI MORTE DI ITALO SVEVONon è facile stabilire con certezza quali siano state le possibili cause della morte di Italo Svevo anche per la scarsezza di dati contenuti nella cartella clinica redatta dai medici che lo hanno accolto e seguito nell’Ospedale di Motta di Livenza dove giunse poco dopo l’incidente stradale in cui rimase coinvolto insieme con la moglie e un nipote.In particolare non risultano chiare le condizioni cliniche presentate dal paziente al momento del suo arrivo all’ospedale di Motta di Livenza in quel primo pomeriggio del 12 settembre 1928.Aveva certamente una frattura a carico del femore sinistro ed è possibile che vi sia stata nelle ore successive all’incidente una emorragia interna, lieve ma continua, nella coscia sinistra. In questo caso una progressiva anemizzazione potrebbe aver causato un peggioramento delle condizioni di un cuore che probabilmente era già compromesso. Si parla infatti di una non meglio precisata cardiopatia clinicamente probabile in un uomo di 67 anni che fumava da sempre 60 sigarette al giorno.Nel giro di 24 ore potrebbe essersi così avuta la morte per shock

cardiogeno con arresto cardiaco da asistolia.L’altra ipotesi è che la morte sia avvenuta in seguito ad un’embolia polmonare.In questo caso è possibile ipotizzare sia una forma embolica grassosa (o adiposa) cioè grumi di cellule di grasso che dal femore si sono portate nei rami arteriosi polmonari sia una più classica tromboembolia polmonare a partenza da una trombosi formatasi a livello delle vene profonde della coscia in seguito alla frattura del femore e all’allettamento. In entrambi i casi l’embolia polmonare sarebbe stata la causa di un arresto cardiaco terminale che avrebbe causato la morte del paziente.Non vi sono elementi nella cartella clinica che facciano propendere per una o l’altra ipotesi ma molto probabilmente una di queste 2 è stata la causa della morte di Italo Svevo.Ai giorni nostri quasi certamente la possibilità di una diagnosi precisa e rapida delle complicanze post traumatiche avrebbe permesso un intervento terapeutico in grado di evitare un così rapido e tragico epilogo.

Dr. Giuseppe FavrettoResponsabile UO di Cardiologia Riabilitativa e PreventivaOspedale Riabilitativo di Alta Specializzazione Motta di Livenza (TV)

CONSIDERAZIONI SULLE CAUSE DELLA MORTE DI ITALO SVEVO

Dalla disamina degli atti riportati nella documentazione inviatami in visione si può, con ragionevole attendibilità, rispondere alla domanda se Italo Svevo “ avrebbe potuto essere salvato , oggi, dopo un incidente stradale simile a quello occorsogli nei pressi del ponte sul Malgher lungo la Postumia “. Nella “ rilettura “ del referto sulla morte dello scrittore , alla luce delle conoscenze odierne , si può ipotizzare con elevate probabilità,che la morte si avvenuta a seguito di un episodio di embolia polmonare conseguente alla frattura del femore sinistro. Dai dati anamnestici si rileva che Italo Svevo di 67 anni era affetto da cardiopatia di grado medio , da probabile iniziale BPCO in fumatore ( 60 sigarette al giorno ). Tali patologie in presenza

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di frattura di femore sinistro possono aver influito negativamente nella insorgenza di un episodio tromboembolico.Del resto nella cronaca dell’epoca e nel referto del medico dott. Cardazzo, si rileva che al momento del ricovero alle ore 15 del 12 settembre il paziente “ presentava dispnea intensa , sudore profuso, polso piccolo e frequente con raffreddamento alle estremità , apiretico, piena coscienza e lucidità mentale. La sofferenza cranica che tormentava il paziente era da forte ambascia di respiro, dalla quale diceva essere stato colpito subito dopo il trauma “.Anche “ la richiesta di fumare obnubilata ma continua” fanno deporre per un quadro neurologico tipico in corso di embolia polmonare non massiva ma certamente importante in quanto mortale in 24 ore.Tutte queste notizie anamnestiche e documentali portano alla conclusione che sia sopravvenuta una embolia polmonare quale complicanza della frattura di femore sin in paziente affetto da broncopneumopatia e cardiopatia cronica.Alla domanda se potesse oggi essere salvato alla luce delle conoscenze attuali ,si può rispondere che probabilmente una diagnosi precoce di embolia polmonare ( ECG, Equilibrio acido base, scintigrafia polmonare, RX torace … ) , una adeguata profilassi anti-tromboembolica , una adeguata assistenza rianimatoria , avrebbero con buona probabilità evitare la morte di ItaloSvevo.

Dott. Fernando GiustoSpecialista in Ortopedia e TraumatologiaSpecialista in Medicina Legale e delle AssicurazioniDirettore Unità Operativa Complessa diOrtopedia e TraumatologiaPresidio Ospedaliero di OderzoAzienda U.L.S.S.n°9 -Regione Veneto

LA MORTE DI ARON HECTOR SCHMITZ - ASPETTI CLINICI -

I dati documentali: Sig. Aron Hector Schmitz (noto con lo pseudonimo di Italo Svevo) nato a Trieste nel 1861 ed ivi residente.Professione: industriale.

Incidente stradale del 12 settembre 1928 alle ore 15.00.In località Tre Ponti di Motta di Livenza (Treviso) lungo la strada Adriatica Superiore.

I FATTI IN SINTESIIl signor Schmitz viaggiava da trasportato nell’auto in compagnia della moglie e del nipotino sulla strada da Treviso a Trieste. L’autista, attraversando ad andatura normale il ponte in cemento armato aperto al traffico appena ultimato, sebbene il manto stradale non fosse ancora in ordine, reso inoltre sdrucciolevole a causa della pioggia, perdeva il controllo dell’autovettura che andava a sbattere contro un albero. A seguito dell’incidente l’interessato riportava un trauma contusivo all’arto inferiore sinistro.Per tale motivo veniva trasportato all’Ospedale di Motta di Livenza, dove il medico constatava quanto segue “alla fronte due escoriazioni ed una escoriazione alla faccia esterna della gamba destra al terzo superiore, frattura del femore sinistro al terzo medio” Per tale motivo fu disposto il ricovero e giudicato guaribile in 40 giorni. Il giorno successivo, 12 settembre 1928 alle ore 14.30, il paziente decedeva. Nella cartella clinica N°876-1928 il medico curante, il chirurgo Cardazzo scrisse: “Morto alle ore 14,30 per uremia e insufficienza cardiaca”. Poi, su un foglio a parte, scrisse in lapis così:”Alla fronte due escoriazioni ed una contusione alla regione parietale sinistra, una escoriazione alla faccia esterna della gamba destra al terzo superiore, frattura del femore sinistro al terzo mediale. Premesso che il paziente fu ricoverato in questo ospedale alle ore 15 del 12 settembre e presentava dispnea intensa, sudore profuso, polso piccolo e frequente con raffreddamento alle estremità, apiretico, piena conoscenza e lucidità mentale. La sofferenza cranica che tormentava il paziente era da forte ambascia di respiro, dalla quale diceva di essere stato colpito subito dopo il trauma. Stette senza orinare sino alle 22.30, nella quale ora spontaneamente emise 200 cm.3 di orina con intensa albuminuria. Si lagnava anche di pesantezza allo stomaco e verso le cinque antimeridiane del giorno 13 ebbe vomito con emissione di resti alimentari. Malgrado le cure le condizioni generali del paziente andarono aggravandosi. La dispnea si fece sempre più accentuata, il polso man mano si faceva meno percettibile e verso

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le 14.30 del giorno 13 spirò. Faccio rilevare che orinò una sola volta come sopra detto.” Si ricorda inoltre la temperatura del mattino del giorno 13 settembre: 36,2°.

PARERE CLINICO Dalla documentazione risulta che, sebbene all’atto del ricovero il paziente “era un po’agitato per via del colpo, ma non aveva febbre né destava preoccupazioni” nelle ore successive, a causa dell’aggravarsi delle condizioni cliniche, (respiro, polso, vista) i medici riservavano la prognosi. Inoltre non risulta dalla cartella clinica quali esami strumentali siano stai eseguiti per arrivare alla diagnosi, quali provvedimenti terapeutici erano stati adottati a seguito della frattura, né emerge alcun dato clinico in ordine al tipo della frattura di femore (composta o scomposta) né tantomeno sul trattamento ortopedico intrapreso. In considerazione del fatto che non esistono agli atti dei dati clinici circostanziati per formulare una diagnosi certa di morte, é possibile comunque avanzare alcune ipotesi che analizzeremo.Una considerazione iniziale che merita di essere fatta riguarda l’età dello scrittore, ovvero i 67 anni di Italo Svevo nel 1928, allorché l’età media era sotto i 60 anni, equiparano lo scrittore come un “grande anziano” di oggi, in termini concreti come un ultraottantacinqenne.Ciò premesso consideriamo anche che lo scrittore, dai dati anamnestici risultava essere un forte fumatore (60 sigarette al dì), affetto da bronchite cronica, enfisema polmonare, ipertensione arteriosa e da cardiopatia imprecisata. La prima ipotesi è che la morte possa riconoscere come primum movens una genesi cardiaca, come per esempio uno scompenso acuto cardiaco evoluto in shock cardiogeno, ciò spiegherebbe l’uremia (oggi si userebbe il termine di insufficienza renale acuta pre-renale) ed il vomito alimentare(gastrite uremica).Il dott. Piero Sanchetti, nella rivista letteraria LA CASTELLA (MAGGIO 1994) a pag.131, nel capitolo da lui scritto, intitolato “La morte di un industriale triestino a Motta di Livenza (breve antefatto)” riporta un articolo scritto subito dopo la morte di Italo Svevo da un giornalista della Gazzetta di Trieste, ne evidenzio

alcune frasi significative: “Egli aveva riportato la frattura del femore sinistro e alcune contusioni. Ma da parecchi anni egli era già sofferente di una malattia cardiaca che quantunque combattuta con tutte le cure, doveva considerarsi in uno stadio molto avanzato. Fu evidente fin dal primo momento che difficile gli sarebbe stato resistere alle conseguenze del grave urto e della violenta commozione”.La malattia cardiaca suddetta potrebbe configurarsi nel “cuore polmonare cronico”, che è causato da un ingrandimento del ventricolo destro secondario ad una patologia polmonare che produce ipertensione arteriosa polmonare; da quanto scritto il signor Schmitz era affetto da una patologia polmonare (bronchite cronica ed enfisema) ed era inoltre un accanito fumatore, elementi probativi per cuore polmonare cronico.Esiste poi la sintomatologia clinica che depone per tale ipotesi (polso piccolo, tachicardico, sudorazione profusa), e la dinamica con cui si è verificato l’evento (frattura del femore sinistro con escoriazioni multiple) che è presumibile abbia agito sulla malattia cardiaca di base favorendone un’evoluzione peggiorativa, dapprima in scompenso acuto e successivamente in shock cardiogeno irreversibile. Da prendere in considerazione anche tra le ipotesi di origine cardiaca l’infarto miocardico acuto, anche se lo scrittore, da quanto scritto nella cartella clinica e nel referto di morte del Dott. Cardazzo, non avesse accusato alcun dolore toracico in sede precordiale o retro-sternale, tipico della suddetta patologia.

La seconda ipotesi é che la morte possa esser stata causata da embolia polmonare per distacco di uno o più trombi a partenza dal distretto venoso profondo del femore sinistro sede di frattura con secondaria insufficienza renale acuta da ipovolemia e shock cardiogeno terminale. Infatti il paziente presentava i sintomi tipici di questa patologia; dispnea intensa, agitazione, sudore profuso, polso piccolo e frequente con raffreddamento alle estremità. A sostegno di tali ipotesi viene inoltre riferito che la “sofferenza cranica” (cefalea e stato confusionale verosimilmente secondari a embolia cerebrale) che tormentava il paziente era causata da forte difficoltà di respiro, della quale il paziente diceva di soffrire da subito dopo il trauma, sintomo indicativo per una insufficienza respiratoria da verosimile embolia polmonare.

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Un altro elemento aggiuntivo, comunque non noto, potrebbe essere che la malattia cardiaca, qualunque essa fosse, potesse essere stata complicata da un aritmia cardiaca, come ad esempio la fibrillazione atriale, che rafforzerebbe l’ipotesi trombo-embolica. La terza ipotesi è che la morte possa stata causata da un shock ipovolemico dovuto ad un’emorragia. Questa ipotesi avrebbe giustificato anche l’insufficienza renale acuta, ma sebbene possibile, la ritengo meno probabile delle altre due per i seguenti motivi: 1) la sede della frattura del femore al terzo medio avrebbe potuto certamente favorire una emorragia anche importante da lesione di un vaso, ma sicuramente l’insorgenza sarebbe stata più drammatica e più acuta; 2) manca all’esame obiettivo la segnalazione di una tumefazione, spesso accompagnata dal dolore, a livello della coscia sinistra sede della frattura e dell’ipotetico ematoma (raccolta di sangue) causato dall’emorragia; 3) non sono menzionati altri traumi importanti (toracico o addominale), che potrebbero essere stata la causa di altri eventuali sanguinamenti.

CONCLUSIONIDa quanto sopraesposto si desume che tutte le tre ipotesi confluiscono nello shock terminale (insufficienza cardiaca) associato ad una insufficienza renale acuta (uremia), scarterei però la terza ipotesi (shock emorragico) per le ragioni suddette.E’ verosimile pertanto, secondo le prime due ipotesi combinate, che lo shock possa esser stato causato dall’embolia polmonare secondaria alla frattura del femore sinistro in un soggetto ad alto rischio in quanto affetto da cardiopatia severa (cuore polmonare cronico? Miocardiopatia dilatativa? Entrambe potenzialmente complicate da una aritmia cardica, quale la fibrillazione striale cronica), che in conseguenza alla frattura si è scompensata, evoluta pertanto rapidamente verso lo shock cardiogeno irreversibile. Oggi nelle stesse condizioni lo scrittore avrebbe potuto essere salvato? La risposta è verosimilmente positiva, perché esistono indagini diagnostiche di laboratorio (emocromo, parametri renali, emogasanalisi arteriosa, enzimi cardiaci, etc.), di radiologia (radiografia del torace, TAC spirale multistrato con m.d.c., angiografia polmonare) e di medicina nucleare (scintigrafia

polmonare) che ci consentono di arrivare tempestivamente ad una diagnosi di sicurezza e terapie efficaci (eparine, trombolisi, dopamina, trasfusioni di sangue, etc.) valide in ogni ipotesi diagnostica che hanno ridotto sensibilmente la mortalità e che all’epoca della morte di Aron Hector Schmitz (Italo Svevo) non esistevano. In conclusione se da una parte l’avanzata tecnologia odierna avesse consentito una soluzione medica del problema, dall’altra parte però l’uomo ormai ”vecchio e malato” avrebbe avuto la forza di sopravvivere? Questo non possiamo affermarlo con certezza, pertanto chiuderei con la vecchia, ma sempre attuale massima popolare, che così recita :”medicus curat, natura sanat” (“il medico cura, la natura guarisce”. Dott. Quirino MessinaResponsabile U.O. di Medicina GeneraleOspedale Riabilitativo di Alta Specializzazione di Motta di Livenza (TV)

LA MORTE DI HECTOR SCHMITZ - ASPETTI MEDICO LEGALI -I dati documentali:

Sig. Hector Schmitz nato a Trieste nel 1861 ed ivi residenteProfessione: industrialeIncidente stradale del 12 settembre 1928 alle ore 15.00In località Tre Ponti di Motta di Livenza (Treviso) lungo la strada adriatica superiore

Breve descrizione dei fatti.

Mentre viaggiava da trasportato nell’auto in compagnia della moglie e del nipotino in direzione Treviso Trieste, a causa delle condizioni del manto stradale reso sdrucciolevole dalla pioggia, il conducente perdeva il controllo dell’autovettura che andava a cozzare contro un albero.A seguito dell’incidente l’interessato riportava un trauma contusivo all’arto inferiore sinistro.Per tale motivo veniva trasportato all’Ospedale di Motta di Livenza, dove il medico constatava quanto segue “alla fronte due

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escoriazioni ed una escoriazione alla faccia esterna della gamba destra al terzo superiore, frattura del femore sinistro al terzo medio” Per tale motivo fu disposto il ricovero e giudicato guaribile in 40 giorni. Il giorno successivo, 12 settembre 1928 alle ore 14.30, il paziente decedeva. In cartella clinica è stato registrato quanto segue.“Morte per uremia ed insufficienza cardiaca. Premesso che il paziente fu ricoverato in questo ospedale alle ore 15 del 12 settembre e presentava dispnea intensa, sudore profuso, polso piccolo e frequente con raffreddamento alle estremità, apiretico, piena conoscenza e lucidità mentale. La sofferenza cranica che tormentava il paziente era da forte ambascia di respiro, dalla quale diceva di essere stato colpito subito dopo il trauma. Stette senza orinare sino alle 22.30, nella quale ora spontaneamente emise 200 cc di orina con intensa albuminuria. Si lagnava anche di pesantezza allo stomaco e verso le cinque antimeridiane del giorno 13 ebbe vomito con emissione di resti alimentari. Malgrado le cure le condizioni generali del paziente andarono aggravandosi. La dispnea si fece sempre più accentuata, il polso man mano si faceva meno percettibile e verso le 14.30 del giorno 13 spirò. Faccio rilevare che orinò una sola volta come sopra detto. Temperatura del mattino del giorno 13 settembre: 36,2° ”.

PARERE MEDICO LEGALE Dalla disamina della documentazione risulta che, sebbene all’atto del ricovero il paziente “era un po’agitato per via del colpo, ma non aveva febbre né destava preoccupazioni” nelle ore successive, a causa dell’aggravarsi delle condizioni cliniche, (respiro, polso, vista) i medici riservavano la prognosi. Inoltre non si evincono dati certi relativi all’anamnesi patologica prossima o remota del paziente, ma semplicemente che il paziente era tabagista (60 sigarette al dì) e da parecchi anni era già sofferente di una malattia cardiaca. Inoltre non risulta dalla cartella clinica quali esami strumentali siano stai eseguiti per addivenire alla diagnosi, quali provvedimenti terapeutici erano stati adottati a seguito del trauma fratturativo, né emerge alcun dato clinico in ordine alla tipologia della frattura di femore (composta, esposta) né tantomeno sul trattamento ortopedico intrapreso. Tutto ciò premesso, poiché non esistono agli atti dei dati clinici

circostanziati per formulare un giudizio medico legale certo, non è semplice esprimere una valutazione sicura in ordine alla causa di morte del Sig. Schmitz. Comunque è possibile avanzare alcune ipotesi che di seguito si andranno ad analizzare.La prima ipotesi è che la morte sia riconducibile ad arresto cardiaco, come descritto in cartella clinica.A sostegno di tale ipotesi vi sono la storia di una malattia cardiaca, ancorché non ben precisata, la condizione di fumatore quale fattore predisponente e l’età 67 anni.Esiste poi la sintomatologia clinica che depone per tale ipotesi (polso piccolo, tachicardico, sudorazione profusa), e la dinamica con cui si è verificato l’evento (trauma fratturativo del femore sinistro con escoriazioni multiple) che è presumibile abbia agito sulla malattia cardiaca di base favorendone un’evoluzione peggiorativa in shock cardiogeno ed infarto miocardio.

La seconda ipotesi è che la morte sia stata causata da embolia polmonare per distacco di uno o più trombi a partenza dal distretto venoso profondo del femore destro sede di frattura. Infatti il paziente presentava i sintomi tipici di questa patologia; dispnea intensa, agitazione, sudore profuso, polso piccolo e frequente con raffreddamento alle estremità, in piena conoscenza e lucidità mentale. A sostegno di tali ipotesi viene inoltre riferito che la sofferenza cranica che tormentava il paziente era causata da forte difficoltà di respiro, della quale il paziente diceva di soffrire da subito dopo il trauma, sintomo indicativo per una sofferenza respiratoria da verosimile embolia polmonare.

Ricordiamo che l’embolia polmonare, cioè la presenza di un trombo a livello dei vasi sanguigni del polmone è una condizione potenzialmente letale che, se non trattata precocemente, rappresenta la più frequente causa di morte nei pazienti ospedalizzati. La mortalità globale dei pazienti con embolia polmonare è infatti del 30%. Un appropriato trattamento, iniziato tempestivamente, riduce la mortalità del 2-8%. L’embolo polmonare è costituito da un coagulo ematico che in oltre il 95% dei casi si stacca da un trombo rosso a superficie liscia di una trombosi venosa profonda delle vene al di sopra del ginocchio (poplitee, femorali, iliache). Si elencano qui di seguito alcuni fattori di rischio per l’insorgenza della

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embolia polmonare ed i principali provvedimenti terapeutici.

FATTORI DI RISCHIO ACQUISITI PER LA TROMBOSI VENOSA PROFONDA E LA TROMBOEMBOLIA POLMONAREEtà superiore a 40 anniObesitàFumoFratture o traumi degli arti inferioriDiabete mellitoImmobilizzazioni prolungateChirurgia ortopedica e generale dell’addomeCollagenopatie Pregressa trombosi venosa profondaMalattie mieloproliferative

PREVALENZA DI FATTORI PREDISPONENTI A TVP ED EMBOLIA POLMONARE IN PAZIENTI DI ETÀ SUPERIORE A 65 ANNI. TVP (n 8.923) EMBOLIA POLMONARE

Neoplasie 19% 17%Scompenso cardiaco 14% 26%Stroke 6% 8%Fratture 4% 6%Infarto miocardio 2% 8%Chirurgia 12% 22%

PARERE MEDICO LEGALE Dalla disamina della documentazione risulta che, sebbene all’atto del ricovero il paziente “era un po’agitato per via del colpo, ma non aveva febbre né destava preoccupazioni” nelle ore successive,

a causa dell’aggravarsi delle condizioni cliniche, (respiro, polso, vista) i medici riservavano la prognosi. Inoltre non si evincono dati certi relativi all’anamnesi patologica prossima o remota del paziente, ma semplicemente che il paziente era tabagista (60 sigarette al dì) e da parecchi anni era già sofferente di una malattia cardiaca. Inoltre non risulta dalla cartella clinica quali esami strumentali siano stai eseguiti per addivenire alla diagnosi, quali provvedimenti terapeutici erano stati adottati a seguito del trauma fratturativo, né emerge alcun dato clinico in ordine alla tipologia della frattura di femore (composta, esposta) né tantomeno sul trattamento ortopedico intrapreso. Tutto ciò premesso, poiché non esistono agli atti dei dati clinici circostanziati per formulare un giudizio medico legale certo, non è semplice esprimere una valutazione sicura in ordine alla causa di morte del Sig. Schmitz. Comunque è possibile avanzare alcune ipotesi che di seguito si andranno ad analizzare.

La prima ipotesi è che la morte sia riconducibile ad arresto cardiaco, come descritto in cartella clinica.A sostegno di tale ipotesi vi sono la storia di una malattia cardiaca, ancorché non ben precisata, la condizione di fumatore quale fattore predisponente e l’età 67 anni.Esiste poi la sintomatologia clinica che depone per tale ipotesi (polso piccolo, tachicardico, sudorazione profusa), e la dinamica con cui si è verificato l’evento (trauma fratturativo del femore sinistro con escoriazioni multiple) che è presumibile abbia agito sulla malattia cardiaca di base favorendone un’evoluzione peggiorativa in shock cardiogeno ed infarto miocardio.

La seconda ipotesi è che la morte sia stata causata da embolia polmonare per distacco di uno o più trombi a partenza dal distretto venoso profondo del femore destro sede di frattura. TRATTAMENTO DELLA TROMBOEMBOLIA POLMONARE POLMONARE-Maschera facciale per erogare alte frazioni di ossigeno -Morfina per alleviare dispnea, la grave apprensione del paziente i dolori toracici-Bicarbonati nell’acidosi metabolica grave (Ph inferiore di 7,10)

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-Antibiotici come profilassi di una possibile infezione dell’infarto polmonare-Eparina nel sospetto di embolia polmonare somministrata precocemente 5.000 U.I. (forma sub massiva) o 10.000 U.I. (forma massiva) in attesa della conferma diagnostica per prevenire l’estensione dei trombi e proteggere il paziente seguite dall’infusione di 1.000-1500 U.I./ora-A conferma diagnostica trattamento con anticoagulanti orali dicumarolici (warfarin 10 mg per os per 2-4 giorni) per 3-6 mesi per ridurre il rischio di recidiva tromboembolica.

TROMBOLISI (EMBOLECTOMIA MEDICA)-A conferma diagnostica certa-Nei pazienti con embolia polmonare massiva e compromissione emodinamica (ipotensione arteriosa sistemica persistente, shock circolatorio)-Pazienti con TVP estesa dell’asse venoso femoro-iliaco

In conclusione da quanto sovraesposto emerge che l’embolia polmonare è gravata da un’alta mortalità. La gravità del quadro clinico è inoltre determinante nella scelta dell’approccio terapeutico. Nel caso specifico dall’anamnesi patologica remota (cardiopatia sofferta da parecchi anni), dai fattori di rischio (fumo, sedentarietà, età) dalla sintomatologia obiettiva presentata dal paziente (dispnea ingravescente, tachicardia, sudorazione, estremità degli arti fredde) si ritiene verosimile che la morte del sig. Ettore Schmitz sopravvenuta il 13 settembre 1928 a distanza di circa 24 ore dall’incidente stradale avvenuto lungo la strada adriatica superiore, poiché risultano soddisfatti il criterio del nesso di causalità lesiva, il criterio cronologico, di efficienza lesiva e di esclusione di altre cause, sia riconducibile ad embolia polmonare conseguita alla frattura del femore sinistro.

Dott. Marco Cadamuro MorganteDirettore sanitario Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione di Motta di Livenza

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Finito di stampare nel mese di Novembre 2008presso la Tipografia Grafiche 2 Effe di Portogruaro

RINGRAZIAMENTI

Si ringraziano innanzitutto i medici e il personale, sanitario ed amministrativo, che hanno operato ed operano con grande professionalità e abnegazione nelle strutture ospedaliere di Motta di Livenza, e che non è stato possibile citare personalmente.

Un particolare ringraziamento a:

Mons. Lino Bruseghin, arciprete di MottaGiampiero Rorato, giornalista e storico

Angelo Momesso, storicoSergio Momesso, storico dell’arte

Dott. Franco Rossi, direttore Archivio di Stato di TrevisoDott.ssa Francesca Girardi, archivista Curia diocesana di Vittorio Veneto

Padre Alfonso Cracco, rettore Santuario Madonna dei MiracoliPaolo Speranzon, sindaco di Motta di Livenza

Sabrina Matteazzi, assessore alla Cultura Comune di Motta di LivenzaIng. Paolo Longhetto, responsabile Uffivio tecnico Comune di Motta

Dott. Giacinto Cecchetto, direttore Biblioteca Comunale di Castelfranco VenetoDott. Lazzaro Marini, presidente Biblioteca civica Motta di Livenza

Enrico FloraGioiella e Graziana Ovio - Rambaldo

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Rina Ravenna, La Madonna di Motta,olio su tela (coll. privata).