STORIA DELLE ISTITUZIONI DELLA CHIESA N APPROCCIO …

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STORIA DELLE ISTITUZIONI DELLA CHIESA. UN APPROCCIO NELLA PROSPETTIVA DEL REALISMO GIURIDICO Prof. Thierry Sol, Pontificia Università della Santa Croce, [email protected] INDICE GENERALE 1 Quale storia delle istituzioni?................................................................................ 2 1.1 A che cosa servono le istituzioni nella Chiesa? Una visione non positivi- sta............................................................................................................................. 2 1.2 Precisioni metodologiche.......................................................................... 3 1.3 Istituzioni e diritto nella Chiesa................................................................ 4 1.4 Problematiche............................................................................................5 2 Carisma o istituzione? Le problematiche dei due primi secoli............................. 6 2.1 Discussione delle tesi di Rudolf Sohm..................................................... 6 2.2 Alla ricerca delle istituzioni nel Nuovo testamento..................................8 2.3 Le dinamiche istituzionali nei due primi secoli...................................... 10 2.4 Il ruolo del vescovo nelle prime comunità.............................................. 12 3 Dalle Chiese alla Chiesa? (III-V secoli).............................................................. 14 3.1 Le istituzioni confrontate alle persecuzioni e alle eresie......................... 14 3.2 Dalle Chiese alla Chiesa?........................................................................ 15 3.3 Gerarchia sopra-locale: provincie e patriarcati....................................... 17 4 La problematica del primato petrino di giurisdizione (I-V secoli)..................... 20 4.1 Il dato evangelico e le prime testimonianze............................................20 4.2 Il can. 3 del concilio di Sardica e la possibilità dell’appello alla sede ro- mana........................................................................................................................ 21 4.3 Lo sviluppo del primato petrino dal IV al V secolo................................23 5 Le istituzioni ecclesiastiche nella società feudale (VI-X secoli)........................ 26 5.1 La Chiesa nella società feudale...............................................................26 5.1.1 Una feudalizzazione delle istituzioni ecclesiastiche?...................... 26 5.1.2 Aspetti istituzionali della riforma carolingia................................... 28 5.2 Lo scontro dei modelli organizzativi nell’epoca carolingia................... 29 5.2.1 La Chiesa confrontata alle crisi politiche e il fenomeno delle false decretali............................................................................................................. 29 5.2.2 Roma, i vescovi e i metropoliti....................................................... 32 6 Crisi e riforma del sistema feudale (X-XII sec.)................................................. 33 6.1 La problematica istituzionale.................................................................. 33 6.1.1 Il sistema della “Chiesa imperiale”: elezione pontificia e nomina dei vescovi............................................................................................................... 33 6.1.2 La riforma dell’elezione pontificia e la lotta delle investiture........34 6.1.3 La modifica dell’equilibrio costituzionale della Chiesa e il primato papale................................................................................................................. 35 6.2 La problematica disciplinare: simonia e nicolaismo.............................. 36 6.2.1 Crisi e movimenti riformatori..........................................................36 6.2.2 La riforma disciplinare....................................................................37 6.3 Il problema storiografico: nozione di riforma gregoriana...................... 38 1

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STORIA DELLE ISTITUZIONI DELLA CHIESA. UN APPROCCIO NELLA

PROSPETTIVA DEL REALISMO GIURIDICO

Prof. Thierry Sol, Pontificia Università della Santa Croce, [email protected]

INDICE GENERALE

1 Quale storia delle istituzioni?................................................................................2 1.1 A che cosa servono le istituzioni nella Chiesa? Una visione non positivi-

sta.............................................................................................................................2 1.2 Precisioni metodologiche..........................................................................3 1.3 Istituzioni e diritto nella Chiesa................................................................4 1.4 Problematiche............................................................................................5

2 Carisma o istituzione? Le problematiche dei due primi secoli.............................6 2.1 Discussione delle tesi di Rudolf Sohm.....................................................6 2.2 Alla ricerca delle istituzioni nel Nuovo testamento..................................8 2.3 Le dinamiche istituzionali nei due primi secoli......................................10 2.4 Il ruolo del vescovo nelle prime comunità..............................................12

3 Dalle Chiese alla Chiesa? (III-V secoli)..............................................................14 3.1 Le istituzioni confrontate alle persecuzioni e alle eresie.........................14 3.2 Dalle Chiese alla Chiesa?........................................................................15 3.3 Gerarchia sopra-locale: provincie e patriarcati.......................................17

4 La problematica del primato petrino di giurisdizione (I-V secoli).....................20 4.1 Il dato evangelico e le prime testimonianze............................................20 4.2 Il can. 3 del concilio di Sardica e la possibilità dell’appello alla sede ro-

mana........................................................................................................................21 4.3 Lo sviluppo del primato petrino dal IV al V secolo................................23

5 Le istituzioni ecclesiastiche nella società feudale (VI-X secoli)........................26 5.1 La Chiesa nella società feudale...............................................................26

5.1.1 Una feudalizzazione delle istituzioni ecclesiastiche?......................26 5.1.2 Aspetti istituzionali della riforma carolingia...................................28

5.2 Lo scontro dei modelli organizzativi nell’epoca carolingia...................29 5.2.1 La Chiesa confrontata alle crisi politiche e il fenomeno delle false

decretali.............................................................................................................29 5.2.2 Roma, i vescovi e i metropoliti.......................................................32

6 Crisi e riforma del sistema feudale (X-XII sec.).................................................33 6.1 La problematica istituzionale..................................................................33

6.1.1 Il sistema della “Chiesa imperiale”: elezione pontificia e nomina deivescovi...............................................................................................................33

6.1.2 La riforma dell’elezione pontificia e la lotta delle investiture........34 6.1.3 La modifica dell’equilibrio costituzionale della Chiesa e il primato

papale.................................................................................................................35 6.2 La problematica disciplinare: simonia e nicolaismo..............................36

6.2.1 Crisi e movimenti riformatori..........................................................36 6.2.2 La riforma disciplinare....................................................................37

6.3 Il problema storiografico: nozione di riforma gregoriana......................38

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1 QUALE STORIA DELLE ISTITUZIONI?

1.1 A CHE COSA SERVONO LE ISTITUZIONI NELLA CHIESA? UNA VISIONE NON

POSITIVISTA.

Parlando della riforma della Chiesa nel settembre 1990, Joseph Ratzinger s’interro-gava sulla percezione ormai da tempo negativa della Chiesa in questi termini: “Per lamaggior parte della gente, la scontentezza nei confronti della Chiesa comincia col fattoche essa è un’istituzione come tante altre, e che come tale limita la mia libertà”1. Segna-lava come si era sviluppata, in reazione, il sogno di una Chiesa differente, la cui struttu-ra si potrebbe essere migliorata dall’azione umana: “Come nel campo dell’azionepolitica si vorrebbe finalmente metter su anche una Chiesa migliore: una Chiesa di pie-na umanità, piena di senso fraterno, di generosa creatività, una dimora di riconciliazionedi tutto e per tutti”2.

Tuttavia, dietro questa riflessione, punta “l’ingenua presunzione dell’illuminato, ilquale è convinto che le generazioni fino a ora non abbiano ben compreso la questione,oppure che siano state troppo timorose e poco illuminate; noi però abbiamo ora final-mente nello stesso tempo sia il coraggio che l’intelligenza. Per quanta resistenza possa-no opporre i reazionari e i “fondamentalisti”, a questa nobile impresa, essa deve venirposta in opera”3. Altri hanno avvicinato il funzionamento della Chiesa a colui di una de-mocrazia, riducendo la Chiesa a una istituzione meramente umana. Sembra che tale gri-glia di lettura non tenga conto né della reale natura della Chiesa né della sua storia, esbagli quindi sul senso delle istituzioni e del principio della loro riforma.

Orbene, segue Ratzinger, “non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno,bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. E per que-sto tutto ciò che è fatto dall’uomo, all’interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suopuro carattere di servizio e ritrarsi davanti a quello che più conta e che è l’essenziale”4.L’essenziale nella Chiesa è l’azione di Dio stesso, al cui servizio si trovano il ministro ele istituzioni stesse: “Nella Chiesa, l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portato-ri del ministero dimenticano che il sacramento non è una spartizione di potere, ma è in-vece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del quale io devoparlare e agire”5.

Tale considerazioni costituiscono una ottima introduzione perché permettono allastoria delle istituzioni di strappare alla problematica marxista del infinito progresso ver-so la migliore o più efficace tecnica di organizzazione umana, e la inseriscono invecenella dimensione di servizio propria della missione della Chiesa. Queste pagine si situa-no in questa ultima prospettiva. Non si tratta di fare né la storia dei rapporti di potereumani, né quella di una mera tecnica di organizzazione delle competenze nella Chiesa,ma di chiederci in quale misura le istituzioni della Chiesa, lungo la storia, sono state unostrumento giusto in vista della distribuzione dei beni salvifici (parola di Dio e sacramen-ti). Così la materia rientra nell’ambito della storia del diritto nella Chiesa, le quali carat-teristiche metodologiche e di contenuto dobbiamo adesso precisare.

1. Joseph Ratzinger, «Una compagnia sempre riformanda», in Davanti al protagonista: alle radicidella liturgia, Strumenti per la Riforma (Siena: Cantagalli, 2009), 5.

2. Ratzinger, 7.3. Ratzinger, 7.4. Ratzinger, 14.5. Ratzinger, 7.

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1.2 PRECISIONI METODOLOGICHE

Per quanto riguarda il metodo, queste pagine non pretendono spiegare che cos’è lascienza storica. Tuttavia, per capire bene il senso della ricerca, conviene ribadire alcuneevidenze. Uno dei motivi più evidenti dell’utilità della conoscenza del passato è il suovalore par capire il presente. Lo studio della storia è importante non soltanto come inte-resse erudito, ma come necessità per interpretare il presente e proiettarsi verso il futuro,come lo precisava Rémi Brague6. L’autore citava anche una interessante riflessione diEdmond Burke: “People will not look forward to posterity, who never look backward totheir ancestors”7. Tocqueville diceva ancora a proposito del processo democratico: “Nonseulement la démocratie fait oublier à chaque homme ses aïeux, mais elle lui cache sesdescendants”8. In questo senso i modelli storici aiutano a capire le istituzioni presenti:ne sono molte volte la prefigurazione e ne spiegano la funzione essenziale.

Si devono però evitare due errori. Il primo sarebbe di leggere lo sviluppo storicocome la “storia” di un progresso indefinito, cioè di un superamento del passato, proget-tando sul passato una visione moderna, spesso anche ideologica: è l’errore che denun-ciava in parte Joseph Ratzinger nelle righe riportate sopra. Il secondo errore, opposto,sarebbe di talmente contestualizzare le istituzioni del passato che rimanerebbero isolatenel loro periodo, operando così un relativismo: la storia come disciplina non sarebbe piùil luogo dell’incontro ma un museo di modelli stranieri, incapaci di dirci qualcosa.

Tale tendenza risponde al concetto di “pura storicità”, cioè una storia purificata ditutta messa in relazione con le problematiche attuali, ma tale storia si trova allora inca-pace di adempiere una missione d’illuminazione del presente e di proiezione verso il fu-turo. La nozione di “pura storicità”, nata dal legittimo desiderio di promuoverel’autonomia metodologica della scienza storico-canonica9, corrisponde a una visioneparziale dello statuto epistemologico della storia come scienza10. La “pura storicità”,compresa come alterità e allontanamento del diritto vigente, assicura certamente allastoria una certa autonomia metodologica, ma nello stesso tempo, lavorare su un materia-le giuridico considerato come inerte o morto fa perdere alla storia il suo vero interesse,precisamente perché non viene più vivificata dal contatto con la realtà11.

6. Cf. Rémi Brague, Modérément moderne (Paris: Flammarion, 2014), 14–16; Thierry Sol, «Quel fu-tur pour l’histoire du droit canonique après la première codification?», in Dirittto canonico e culture giu-ridiche nel centenario del Codex Iuris Canonici del 1917. Atti del XVI Congresso Internazionale dellaConsociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo, Roma 4-7 ottobre 2017, a c. di JesúsMiñambres (Roma: EDUSC, 2019), 319–36.

7. Edmond Burke, Reflections on the Revolution in France, a c. di J.G.A. Pocock (Indianapolis: Hac-kett, 1987), 29.

8. Alexis de Tocqueville, Œuvres, Bibliothèque de la Pléiade (Paris: Gallimard, 1991), lib. II, 2, pag.614..

9. Cf. Ulrich Stutz, Die Kirchliche Rechtsgeschichte: Rede zur Feier des 27. Januar 1905 gehalten inder Aula der Universität zu Bonn (Stuttgart: F. Enke, 1905).

10. Rémi Brague propone una riflessione sulla visione della scienza storica nella Modernità: “Nousaimons le passé historique dans la mesure où il est tenu à distance de nous par la science historique qui le«prépare» comme un animal à disséquer, et le réduit au statut d’objet de connaissance. Le passé devientalors ce qui est autre que nous.” (Brague, Modérément moderne, 57.)

11. Alcune parole di Brague mettono anche in guardia contro tale tentazione: “Comme pour le passénaturel, nous utilisons volontiers le passé historique comme un supermarché de modèles anthropologiquesdépassés alimentant notre relativisme. En revanche, nous nous méfions du passé historique dans la me-sure où nous en sentons la présence en nous comme ce qui nous détermine plus ou moins consciemment àune conduite particulière ; là aussi, nous avons trouvé un terme péjoratif et parlons du «traditionnel».Nous nous présentons alors le devenir historique non plus comme une prolongation créatrice du passé,mais comme un dépassement qui doit progresser par rapport à celui-ci.” (Brague, 58.)

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La prospettiva di queste pagine è quindi di proiettare sulle istituzioni presenti laluce del passato e di favorire una lettura del divenire storico come prolungamento co-struttivo del passato piuttosto che suo mero superamento.

1.3 ISTITUZIONI E DIRITTO NELLA CHIESA

Le istituzioni entrano nell’ambito della giustizia: sono al servizio della missione di-vina della Chiesa per assicurare ai fedeli una giusta distribuzione dei beni salvifici (pa-rola di Dio e sacramenti) affidati da Cristo alla sua Chiesa. Il compito della Chiesa inquanto istituzione consiste appunto nell’organizzare tale distribuzione di modo giusto.Questo quadro determina la dimensione giuridica nella Chiesa: un bene (la grazia diDio) affidato da Dio alla Chiesa e ai suoi ministri per essere distribuito a tutti i fedeli. Ibeni salvifici della parola di Dio e dei sacramenti costituiscono appunto la cosa giusta, ildiritto stesso12.

Da questo punto di vista, sembra importante chiarire subito alcuni equivoci. Parlia-mo del diritto nel senso “realista”, concepito come ipse res iusta, non come norma olegge. Infatti, il diritto ha potuto essere concepito di molti modi, come meramente rego-lativo della realtà ecclesiale, cioè come l’insieme delle norme, oppure come intrinseca-mente costitutivo della Chiesa, come ciò che in essa è giusto. Nel primo caso, il dirittoviene ridotto alla norma (leggi, canoni, decreti…) e, di conseguenza, la storia delle isti-tuzioni potrebbe ridursi alla storia dei testi che la regolano. Nel secondo caso, il punto diriferimento essenziale non è la norma, bensì i suoi rapporti tra le persone e le istituzioniattorno ad un oggetto giusto, che costituisce appunto il diritto (in questo caso i beni sal-vifici stessi). La storia delle istituzioni consiste allora a chiedersi come, in ogni momen-to storico, la Chiesa, in quanto istituzione, ha saputo dare a ciascuno la parola e isacramenti che Cristo ha lasciato per tutti13.

Quando si parla della Chiesa in quanto istituzione, si fa riferimento al suo esseresoggetto giuridico, un soggetto che trascende le singole persone e che rimane essenzial-mente lo stesso nel tempo e nello spazio: “la Chiesa-istituzione è la continuazione stori-ca (nel tempo, come dimensione delle realtà create) dell’opera di Cristo, conformementeal suo duplice carattere: di azione salvifica per mezzo della parola di Dio (convocatio) edella grazia (sacramenti), e di riunione dei fedeli uniti nel corpo visibile di Cristo (con-gregatio)”14.

L’istituzione comprende un elemento permanente che consente alla Chiesa di con-servare la propria identità nonostante la successione delle persone. Tale permanenza èontologica (la Chiesa permane identica a sé stessa per l’incidenza dell’unico ed immuta-bile elemento divino) ma si manifesta anche nell’ordine sociale e giuridico, seguendo lavolontà fondazionale espressa da Cristo stesso, che crea una struttura istituzionale nellaquale i fedeli si uniscono e si organizzano in corpo sociale. È fondamentale ribadirequeste osservazioni, perché non si deve mai dimenticare l’importanza della Rivelazione,del carattere primario del diritto divino e dell’auto-comprensione di fede propria dellastessa Chiesa: lì si trova il fondamento e la vera chiave di lettura della sua storia, com-

12. Su questo aspetto è fondamentale la lettura di Javier Hervada, «Le radici sacramentali del dirittocanonico», trad. da Massimo Del Pozzo, Ius Ecclesiae 17 (2005): 629–58.

13. Cf. Carlos José Errázuriz, «Lo studio della storia nella metodologia canonistica: la rilevanza dellanozione di diritto», in La cultura giuridico-canonica medioevale. Premesse per un dialogo ecumenico, ac. di Nicolás Álvarez de las Asturias e Enrique De Leon (Milano: Giuffrè, 2003), 113–14.

14. Javier Hervada, Diritto costituzionale canonico, trad. da Gaetano Lo Castro (Milano: Giuffrè,1989), 160.

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presa quella giuridica. Infatti, solo nella fede si possono veramente capire le ragioni diciò che è specificamente giusto o ingiusto nella Chiesa.

1.4 PROBLEMATICHE

All’interno della Chiesa in quanto istituzione esiste una pluralità di soggetti giuri-dici che si possono raggruppare in due tipi fondamentali: comunità di fedeli gerarchica-mente strutturate (Chiesa universale, Chiese sui iuris, diocesi, parrocchie) e soggetti cherappresentano la Chiesa in quanto istituzione (i membri della gerarchia e i soggetti isti-tuzionali collettivi). La storia delle istituzioni deve tenere conto di questa doppia dire-zione che possiamo chiamare “orizzontale” e “verticale” che caratterizza i rapportigiuridici. Entrano quindi nell’ambito di queste lezioni tutti i rapporti tra “centro” e “pe-riferia”, le relazioni tra le Chiese particolari, l’organizzazione giuridica di queste Chiesee il ruolo dei vescovi e dei sacerdoti, la strutturazione del “potere centrale”, la figura delromano pontefice e la domanda sul primato di giurisdizione e sui suoi poteri, l’organiz-zazione del collegio cardinalizio, il funzionamento della curia romana.

È evidente che l’organizzazione delle istituzioni ecclesiastiche dipende molto delrapporto della Chiesa con altre istituzioni: Stati o comunità politiche in generale. Tutta-via, lasciamo da parte lo studio di questi rapporti per motivi di spazio. Ne faremo riferi-mento nel quadro del contesto politico, sociale e culturale. L’ambito della materiarimane comunque così ampio che bisogna scegliere alcune problematiche storiche, chepermetto di capire quali sono gli aspetti essenziali e permanenti contenuti nello disegnofondazionale di Cristo (il diritto divino) e quali provengono dalla dinamica storica di de-terminazione dei rapporti di giustizia intraecclesiale (diritto umano).

Abbiamo scelto di rispettare l’ordine cronologico per l’esposizione delle differenteproblematiche, perché queste si capiscono solo in un certo contesto storico. La periodiz-zazione, sempre arbitraria ed artificiale, rimane necessaria e utile per pensare la storia.Considerando specialmente la Chiesa come istituzione, ci è sembrato logico rispecchia-re alcune cesure, segnalate da Gaudemet, che determinano quattro periodi. Corrispondo-no alle grandi fasi della storia dell’Europa, delle sue strutture politiche, delle suecorrenti di pensiero, elementi tutti che hanno avuto un’incidenza profonda sulla vita del-la Chiesa, sulle sue istituzioni e il suo diritto. Il primo periodo è colui dei primi cinquesecoli, in cui la Chiesa nasce e si espande nell’Impero romano. Il secondo è l’Alto Me-dioevo, dal VI alla prima metà del XI secolo, con la formazione delle Chiese nazionali,la riforma carolingia e lo spezzettamento feudale. Il terzo è l’età classica e post-classica:dalla metà del XI secolo all’inizio del XVI. Il quarto sono i tempi moderni (XVI-XX se-colo) che si aprono con la Riforma e il Rinascimento15.

15. Questa periodizzazione rispecchia, ma da lontano lo schema proposto da Jean Gaudemet, Storiadel diritto canonico: Ecclesia et civitas (Cinisello Balsamo: San Paolo, 1998), 8.

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2 CARISMA O ISTITUZIONE? LE PROBLEMATICHE DEI DUE PRIMI SECOLI

La prima problematica che incontriamo nella storia delle istituzioni della Chiesa, èquella della loro nascita. Esistono le istituzioni sin dall’inizio o sono state introdotte nelcorso dei secoli? In altre parole: fanno parte dell’essenza della Chiesa o sono invece unostrumento alieno, la cui utilizzazione ne ha finalmente snaturato la missione? Si tratta diun tema ancora oggi in discussione. Se le istituzioni sono una dimensione intrinseca del-la Chiesa, dovremmo chiederci quale sono le loro prime manifestazioni nella Chiesa.

2.1 DISCUSSIONE DELLE TESI DI RUDOLF SOHM

Il dibattito sul momento della nascita del diritto e delle istituzioni nella Chiesa èstato riacceso in modo incisivo da Rudolf Sohm, alla fine del XIX secolo. Secondo lui,il diritto canonico sarebbe in contraddizione con la natura stessa della Chiesa e, alle ori-gini, esisteva una organizzazione solamente carismatica. L’istituzionalizzazione dellaChiesa sarebbe avvenuta dopo, in tre tappe successive16.

Nel primo secolo, le comunità della Chiesa primitiva (Urchristentum) sarebberostate organizzate attorno ad alcuni uomini ispirati o depositari dello Spirito, di modo ca-rismatico, senza nessuna struttura giuridica, secondo una “anarchia pneumatica”17. Lediverse missioni e incarichi (governare, e soprattutto per Sohm annunciare e insegnarela parola, secondo il principio luterano della sola scriptura) sarebbero attribuiti secondoi doni dello Spirito Santo, creando dei rapporti gerarchici e addirittura un governo nellaChiesa, ma ciò nell’unica dipendenza dalla volontà divina: la Chiesa avrebbe avuto una“organizzazione data da Dio”18, che non generava doveri di giustizia, ma di carità.

Dalla fine del primo secolo fino al Decreto di Graziano compreso (verso 1140) oancora fino al governo di Alessandro III e Innocenzo III, nel periodo del cattolicesimoantico (Altkatholizismus), il diritto sarebbe entrato poco a poco nella Chiesa, sotto laforma di un diritto centrato sulla liturgia e la celebrazione dei sacramenti. L’irruzionedel diritto sarebbe avvenuta all’occasione della lettera di san Clemente alla comunità diCorinto, quando il romano pontefice avrebbe conferito ai vescovi un potere di naturagiuridica, che li avrebbe distinti dagli altri membri della comunità e integrato il dirittoalla rivelazione divina19.

Tale giuridicizzazione sarebbe però la conseguenza di una perdita progressiva difede nella potenza dello Spirito divino: il diritto avrebbe consolidato quello che la fede

16. Cf. Rudolf Sohm, Kirchenrecht. I Die geschichtlichen Grundlagen, 2 (1a ed. Lipsia 1892) (Berlin:Dunker und Humblot, 1970), 700. Sulla separazione in tre tappe: Rudolf Sohm, Das altkatholische Kir-chenrecht und das Dekret Gratians (München und Leipzig, 1918), 568.: “Das Kirchenrecht war aus-schließlich Sakramentsrecht von seinem ersten Aufkommen (um 100) an bis in die zweite Hälfte des 12.Jahrhunderts: bis in die Regierungszeit Alexanders III. und Innozenz III’. Noch das Dekret Gratians be-deutet ein Denkmal des altkatholischen Kirchenrechts und der altkatholischen Kirche, das letzte großeDenkmal, in welchem der Altkatholizismus mit dem Wesen seines Kirchenrechts zugleich das Wesen sei-ner Kirche aussprach.”

17. Cf. Rudolf Sohm, «Wesen und Ursprung des Katholizismus», Abhandlungen der sächsischenGesellschaft der Wissenschaften. Philologisch-historische Klasse 27 (1909): 47.

18. “Vermöge der Verteilung der Charismen hat die Kirche eine von Gott gegebene Organisation.”Sohm, Kirchenrecht. I Die geschichtlichen Grundlagen, 26.

19. Cf. Sohm, 160. “Die Grundlehre des Katholizismus ist bekanntlich die Lehre von der Kirche, dieLehre nämlich, dass diese sichtbare, durch die Bischöfe und Papst verfasste und regierte Kirche mit derEkklesia, der Christenheit, der Kirche Christi identisch sei. (…) Die Grundlage des Katholizismus ist dasvon ihm behauptete göttliche Kirchenrecht.”

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non poteva più assicurare, e in questo consisterebbe appunto il cattolicesimo20. Sohmcostruisce allora tutta una teoria sulla strutturazione delle Chiese locali e della Chiesauniversale attorno la figura del vescovo monocratico e del clero, le cui prerogative litur-giche sarebbero state giustificate attraverso un processo di giuridicizzazione: l’ordo sa-rebbe stato integrato nel diritto divino. Le comunità avrebbero allora perso il rapportodiretto con Dio e i legami carismatici sarebbero stati sostituti da relazioni giuridiche. Inquesto periodo, Sohm discerne anche una distinzione progressiva tra diritto divino e di-ritto umano, il primo riguardando le espressioni della fede nei concili ecumenici e il se-condo caratterizzando le decisioni disciplinari prese nei sinodi locali.

Il passaggio ad una terza tappa fu, secondo Sohm, ancora più decisivo. Dal Decre-to di Graziano in poi, nel periodo del diritto canonico del neocattolicesimo (neukatholi-sches Kirchenrecht), sotto l’influenza del diritto romano, i canonisti avrebberoorganizzato la Chiesa come una corporazione dotata di potere legislativo e governativo,ai pari dei corpi politici, consacrando la posizione suprema del romano pontefice, al de-trimento dei sinodi e dei concili. Le distinzioni tra potestà di ordine e di giurisdizione,foro interno ed esterno, sarebbero allora state create. Questo passaggio significherebbeprecisamente un sovvertimento della vera natura carismatica della Chiesa, con il passag-gio a una Chiesa-istituzione.

Questa tesi, nata nel contesto del protestantesimo liberale (Sohm era luterano), èstata ripresa con sfumature o critiche dal punto di vista teorico e storiografico. Sono ipo-tesi intellettualmente assai affascinanti, perché combinano una impostazione teologico-filosofica ad una ricostruzione storica. Tuttavia, sin dall’inizio del XX secolo, e semprenell’ambito protestante, Adolf von Harnack fece notare che la tesi di Sohm non era so-stenibile dal punto di vista storico, che religione e diritto erano in stretta relazione per-ché nessuna società poteva fare a meno del diritto e che carisma e diritto coesistevanoed erano addirittura i motori delle prime comunità cristiane21. Un po più tardi, RudolfBultmann affermò che il collegamento tra carisma e ufficio, trasmesso con l’ordinazioneera già presente nel Nuovo Testamento e non sarebbe quindi una novità introdotta nelXII secolo22.

Tuttavia, oltre le sfumature sul momento preciso, la modalità o la portata del pro-cesso d’istituzionalizzazione, la problematica fondamentale porta sulla natura stessa deldiritto e il suo posto nella Chiesa23. Il diritto è uno strumento esteriore o ne costituisceuna dimensione interna? La prospettiva di Sohm ha conservato una certa attualità24. I

20. Cf. Sohm, 162. “Aus diesem Kleinglauben des christlichen Epigonentums ist der Katholizismusentsprungen.”

21. Cf. Adolf von Harnack, Entstehung und Entwicklung der Kirchenverfassung und des Kirchenre-chts in den zwei ersten Jahrhunderten: Nebst einer Kritik der Abhandlung R. Sohm’s: «Wesen und Ur-sprung des Katholizismus» und Untersuchungen über «Evangelium», «Wort Gottes» und das trinitarischeBekenntnis (Leipzig: Hinrichs, 1910), 143–44. “Die Theorie als exklusive ist in sich unhaltbar und scheitertauch an geschichtlichen Tatsachen. (…) Ist nicht ein großer Teil des Rechts, um nicht zu sagen die Ideedes Rechts, aus der Religion entstanden und also ursprünglich sakral, und bestehen nicht noch heute kräf-tige Beziehungen zwischen beiden fort?”.

22. Per uno sviluppo su questo dibattito nell’ambito cattolico cf. Reinhold Sebott, Fundamentalka-nonistik: Grund und Grenzen des Kirchenrechts (Frankfurt am Main: J. Knecht, 1993), 103–31; Carlo Fan-tappiè, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa (Bologna: Il Mulino, 2011), 29–32.

23. Si tratta di una domanda che interessa i canonisti, contrariamente a quello che afferma Jean Gau-demet: “La questione interessa agli storici della Chiesa primitiva e ai teologi, molto poco ai canonisti chenon dispongono per questa epoca di alcun documento giuridico” (Gaudemet, Storia, 18, n. 6.) Tale osser-vazione nasce di una concezione positivista del diritto. Sul nutrito dibattito dei rapporti tra teologia e dirit-to cf. la ricca bibliografia segnalata dallo stesso autore: Gaudemet, 46, nt. 5 e 6.

24. Cf. Yves Congar, «Rudolf Sohm nous interroge encore», in Droit ancien et structures ecclésiales,Collected studies series 159 (London: Variorum Reprints, 1982), 263-294 (n. IV).

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tempi successivi al concilio Vaticano II hanno visto risorgere manifestazioni di un anti-giuridismo latente, declinato in differenti binomi presuntivamente antitetici: misericor-dia o giustizia, pastorale o diritto, perdono o sanzioni? No di raro si trovava il desideriodi ripristinare una Chiesa veramente carismatica, finalmente “liberata” delle sue istitu-zioni giuridiche.

Nello stesso tempo, il concilio proponeva alcune affermazioni sulla natura e la mis-sione del potere ecclesiastico. Sono vie interpretative che permettono di rovesciare ilpresupposto di Sohm: il diritto non è l’istituzionalizzazione di un potere ecclesiastico,perché non è l’espressione o la manifestazione di una potestas in ricerca di legittimitàlegale. Può essere utilizzato come tale, ma non lo è nella sua essenza. Se capiamo il di-ritto nel senso realistico di “ciò che è giusto”, allora, l’istituzionalizzazione del potere èanzitutto istituzionalizzazione di un servizio, e le istituzioni sono appunto al serviziodella carità. Possono essere più o meno sviluppate, rimangono lo strumento della distri-buzione dei beni salvifici, le vie della grazia su questa terra in ogni momento storico.

Ed è li forse il punto più importante della critica che si potrebbe opporre alle tesi diSohm. Una impostazione realistica del diritto come “ciò che è giusto” permette di co-gliere l’esistenza di una dimensione giuridica intrinseca alla Chiesa già nei tempi apo-stolici, quando non c’erano ancora leggi scritte e quando l’organizzazione istituzionalenon era ancora molto sviluppata. Tale dimensione giuridica va cercata nei rapporti tra ibattezzati, e si manifesta in molte dimensioni della vita ecclesiale: pastorale, morale, so-ciale, liturgica25. Se il diritto canonico è quindi una realtà originaria, ciò significa cheesiste dal momento stesso in cui inizia la Chiesa, perché sin dall’inizio esistono situazio-ni nelle quali la parola di Dio deve essere predicata, i sacramenti celebrati e la comunitàecclesiale organizzata26.

La scarsità di norme scritte durante i primi secoli non significa dunque “assenza didiritto” ma soltanto assenza di fonti scritte esplicitamente canoniche. Il diritto riveste al-tre forme! Ad esempio, la forma abituale sotto la quale si manifesta un diritto nei primimomenti è la consuetudine: “Come succede in ogni ambito giuridico, le istituzioni, lenorme e le pratiche ecclesiastiche provengono dalla vita del popolo di Dio: di regolasolo in un secondo momento sono oggetto di una formalizzazione mediante testi norma-tivi. Ciò aiuta a comprendere anche perché a quel tempo le principali fonti per la disci-plina della Chiesa si trovino nei testi del Nuovo Testamento e in quelli dei Padri dellaChiesa e altri scrittori ecclesiastici27”. Facendo nostro questo invito, cercheremo adessole fonti di questo diritto nei testi sacri, prima di vedere le manifestazioni del dirittonell’organizzazione delle prime comunità cristiane.

2.2 ALLA RICERCA DELLE ISTITUZIONI NEL NUOVO TESTAMENTO

Quali sono i passi più significativi del Nuovo Testamento che mostrano la presenzadelle istituzioni nella prima comunità? I brani più evidenti sono le disposizioni normati-ve relative al primato di Pietro (Mt 16, 18; At 2, 14), al potere di rimettere i peccati daparte degli apostoli (Gv 20, 23), alla scelta dei ministri sacri, ai diaconi (At 6, 1-6), alconcilio di Gerusalemme del 49 (At 15, 1)… Tuttavia, la dimensione giuridica del Nuovo

25. Cf. Carlos José Errázuriz, Corso fondamentale sul diritto nella Chiesa I. Introduzione, I soggettiecclesiali di diritto (Milano: Giuffrè, 2009), 54–55.

26. Lo sviluppo dottrinale della fondazione del diritto canonico a partire dalla parola di Dio e dai sa-cramenti è riassunto in Carlos José Errázuriz, Il diritto e la giustizia nella Chiesa: per una teoria fonda-mentale del diritto canonico, 2a ed. (Milano: Giuffrè, 2020), 61–75; 82–89.

27. Errázuriz, Corso fondamentale I, 59.

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Testamento non si riduce però a questi brani, perché il diritto non consiste in un elencodi disposizioni disciplinari.

I brani forse più decisivi per capire la natura delle istituzioni nascenti della Chiesasi trovano soprattutto nella missione affidata ai discepoli: “Andate dunque e fate disce-poli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, in-segnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20). Moltoimportante dal punto di vista giuridico è il carattere universale di questa missione, per-ché implica un’essenziale uguaglianza tra gli uomini: “Non c'è più Giudeo né Greco;non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno inCristo Gesù” (Gal 3, 28). Il primo intervento disciplinare della Chiesa, nel “Concilio diGerusalemme” del 49, manifesta la portata giuridica di questa apertura della Chiesa aigentili: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo aldi fuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, da-gli animali soffocati e dalla impudicizia” (At 15, 28-29). Il primo punto decisivo risiedenel fatto che le istituzioni ecclesiastiche, sin dall’inizio non sono limitate ad un popolodeterminato o ad una nazione.

Un’altra osservazione importante per definire le istituzioni è che sono lo strumentoscelto dal Signore al servizio di una missione: non sono un fine in se stesso. Da questopunto di vista, il Nuovo Testamento testimonia che la Chiesa si è sviluppata intorno allapredicazione della parola di Dio e dei sacramenti, specialmente il battesimo e l’eucari-stia. La parola di Dio e i sacramenti sono precisamente i beni giuridici della Chiesa. Laparola di Dio viene considerata come un “deposito” da custodire (1 Tim 6, 20; 2 Tim 1,13-14): “Con quest’immagine tratta dall’ambito giuridico-contrattuale, si mette in risalto,da una parte, che il bene della parola è stato dato da Cristo alla sua Chiesa e, dall’altra,che esso deve essere fedelmente custodito, non avendo il depositario alcun potere percambiare o alterare l’oggetto affidatogli”28. Si potrebbe affermare lo stesso del battesimoe di tutti gli altri sacramenti, che hanno una configurazione giuridica, perché sono dei“beni”, ricevuti da Dio, affidati alla Chiesa ed ai suoi ministri in vista della loro distri -buzione ai fedeli del popolo di Dio, costituito come ecclesia, cioè corpo organizzato.

Si potrebbe citare un altro brano del Vangelo (Lc 12, 41-43) che definisce la fine,cioè la natura, delle istituzioni, anche se non viene spesso considerato come tale: “Il Si-gnore rispose: Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà acapo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che ilpadrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo ditutti i suoi averi.” Così lo commentava Javier Hervada: “Qui si trova, a mio giudizio, ilpunto chiave: l’ordo ministeriale, essendo gerarchia perché è continuazione istituzionaledi chi è capo della Chiesa, è servitore degli uomini in modo tanto radicale e reale che lasua azione ministeriale è diritto dei fedeli e degli uomini: pro utilitate hominum consti-tuitur. (...) L’ordo ministeriale è stato costituito amministratore della casa paterna, deibeni della famiglia di Dio; essendo i fedeli figli, domestici Dei, a loro l’amministratoredeve dare a suo tempo la razione adeguata. Razione dei beni del padre di famiglia desti-nati all’alimentazione e allo sviluppo dei figli, alla loro utilità sono attribuiti questibeni.”29

Questo mette in risalto la forza strutturante del sacramento dell’ordine. I ministrisacri si rapportano in modo diverso al resto dei fedeli con i beni della parola e dei sacra-menti. L’esistenza del ministero apostolico per volontà di Cristo è chiaramente attestata

28. Errázuriz, 58. Su tutto questo aspetto sembra fondamentale leggere l’articolo di Hervada, «Le ra-dici sacramentali del diritto canonico».

29. Hervada, «Le radici sacramentali del diritto canonico», 644.

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in vari modi nei scritti del Nuovo Testamento. In Lc 16, 12, leggiamo: “In quei giorni,Gesù se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fugiorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome diapostoli.” Non si tratta soltanto di una chiamata individuale, come sottolineava Giovan-ni Paolo II: “Di particolare rilievo è per noi il fatto, che tra i suoi discepoli Gesù abbiascelto i Dodici: una scelta che aveva anche il carattere di una “istituzione”. Il vangelo diMarco (Mc 3, 14) adopera a questo riguardo l’espressione: “ha stabilito”, verbo che neltesto greco dei Settanta è usato anche per l’opera della creazione; per questo il testoebraico originale usa la parola bara, che non ha un suo preciso corrispondente in greco:bara dice ciò che “fa” solo Dio stesso, creando dal nulla. In ogni caso anche l’espressio-ne greca è sufficientemente eloquente in relazione ai Dodici.”30

I dodici ministri istituiti da Cristo ricevono poteri sacri in vista della missione ec-clesiale per celebrare l’eucaristia (Lc 22, 19; 1 Cor 11, 24-25), perdonare i peccati (Gv 20,22-23), insegnare a nome di Gesù (cf. Lc 10, 16), legare e sciogliere, realizzando cioè attidi governo nella Chiesa (Mt 18, 18). Inoltre, a Pietro viene affidata una missione unica,che gli conferisce un primato effettivo nella Chiesa e nel collegio apostolico (Mt 16, 18-19; Lc 22, 33). La dimensione istituzionale della Chiesa non è quindi affatto un elementoesterno, posteriore, artificiale, aggiunto allo scopo di imporre un potere. Non è una “so-prastruttura”. Si tratta di una dimensione interna, direttamente legata alla missione apo-stolica, iscritta nel disegno divino, già prefigurata nell’Antico Testamento31.

2.3 LE DINAMICHE ISTITUZIONALI NEI DUE PRIMI SECOLI

La presenza del termine ecclesia negli Atti indica che i fedeli sono organizzaticome corpo sociale, sotto l’autorità degli apostoli, dei loro collaboratori e poi successo-ri. I testi patristici e gli ordinamenti ecclesiastici dei primi secoli offrono anche una pro-va dell’esistenza di una organizzazione delle prime comunità. Questa organizzazione,chiaramente gerarchica, è soltanto carismatica o possiamo qualificarla di giuridica?

Si deve anzitutto chiarire il legame tra l’organizzazione della Chiesa e l’aspettogiuridico. Senz’altro, il diritto è un ottimo strumento per organizzare ogni comunità e ilsuo sviluppo nella Chiesa risponde ai bisogni nati dall’espansione apostolica. Non sipuò pero ridurre il diritto, come faceva di qualche modo Sohm, a una mera tecnica, chesarebbe stata applicata dall’esteriore ad una realtà essenzialmente a-giuridica. Proprioperché il diritto scaturisce invece dall’essere e dalla missione della Chiesa, l’organizza-zione della Chiesa non proviene da una scelta tra modelli architettonici stranieri alla suanatura, ma si sviluppa secondo processi “genetici”.

Con altre parole, la Chiesa ha in se i principi del suo sviluppo istituzionale. Questospiega o si manifesta nella centralità del sacramento dell’ordine per organizzare le co-munità, non come conseguenza di un presupposto clericalismo in ricerca di potere, ma,al contrario, perché l’ordine sacro è appunto il “ministero”, cioè il servizio che, attraver-so la celebrazione dei sacramenti e la predicazione della parola, rende possibile la mis-sione di evangelizzazione, e l’esistenza della comunità dei fedeli come corpo reale (omistico nel senso attuale) di Cristo.

Le lettere pastorali mostrano chiaramente come le prime comunità si organizzanoattorno agli apostoli e ai loro primi successori: dispongono di un potere normativo per

30. Giovanni Paolo II, udienza del 22 giugno 1988 (http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/au-diences/1988/documents/hf_jp-ii_aud_19880622.html).

31. Non possiamo entrare qua in tale argomento. Sulla continuità e le novità del sacerdozio nel Nuo-vo Testamento, conviene leggere il primo capitolo di Benedetto XVI e Robert Sarah, Dal profondo delnostro cuore (Cantagalli, 2020).

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annunciare il Vangelo e di un potere di governo per dare disposizioni concrete in mate-ria di fede, costumi, liturgia e gerarchia. Il potere giudiziale è esercitato dal vescovo, as-sistito dai presbiteri e diaconi (1 Cor 6, 1-8; 1 Tim 1, 19-20; Tito 3, 10-11), nelle causedisciplinari e le controversie tra i fedeli soggetti alla sua autorità, applicando sia le nor-me proprie alla Chiesa, sia quelle del diritto secolare. Il vescovo può ammonire, inflig-gere punizioni o anche la scomunica.

Più della descrizione delle funzioni, sembra importante mettere in luce la ragioneprofonda del carattere giuridico di tale organizzazione, partendo dalla natura stessa delsacerdozio nella Chiesa. Si tratta di un sacerdozio in continuità con il sacerdoziodell’Antico Testamento, ma, come lo ha mostrato Benedetto XVI, profondamente rinno-vato da Cristo stesso32. Senz’altro, il popolo ebreo aveva i suoi sacerdoti e i suoi leviti,le città greche e Roma, ma anche l’Egitto, come tutti i regni di Mesopotamia, Assiria oPersia avevano un clero, dei riti, dei templi… Le prime comunità cristiane elaborano in-vece una organizzazione fondamentalmente differente, la cui unità e originalità scaturi-sce dall’essenza stessa del sacerdozio nella Chiesa, alla luce della nuova fondazione delculto operata da Cristo con l’ultima Cena e la sua morte sulla Croce.

Alla differenza del sacerdozio ereditario dell’Antico Testamento, il movimento for-mato intorno a Gesù di Nazareth, nel periodo pre-pasquale, era composto di laici. I ter-mini utilizzati nella prima comunità cristiana provengono dal mondo greco (apostolo edepiskopos) e fanno riferimento alla nozione di “amministratore”, cioè in un senso piùtecnico rispetto alle parole utilizzate nell’Antico Testamento. I termini greci mettono inluce il senso rinnovato del sacerdozio:

Mentre tra i cristiani di origine pagana, per indicare i ministri, prevale il termineepiskopos, la parola presbyteros è caratteristica dell’ambito giudeo-cristiano. La tradi-zione ebraica del “più anziano” inteso come una sorta di organo costituzionale, a Ge-rusalemme con tutta evidenza andò presto sviluppandosi in una prima forma ministe-riale cristiana. A partire da qui, nella Chiesa composta da giudei e pagani, andò svilup-pandosi quella triplice forma ministeriale di episcopi, presbiteri e diaconi, che alla finedel I secolo si rinviene – già chiaramente sviluppata – in Ignazio di Antiochia. Essasino a oggi esprime validamente, dal punto di vista linguistico e ontologico, la struttu-ra ministeriale della Chiesa di Gesù Cristo33.

Questa nuova dinamica si trova già interamente compiuta nei scritti di san Paolo:I ministeri cristiani (episkopos, presbyteros, diakonos) e quelli regolati dalla leg-

ge mosaica (sommi sacerdoti, sacerdoti, leviti) ora stanno apertamente gli uni accantoagli altri e ora possono dunque, con una chiarezza nuova, essere anche identificati gliuni con gli altri. In effetti l’equiparazione terminologica si compie relativamente pre-sto (episkopos = sommo sacerdote, presbyteros = sacerdote, diakonos = levita). La rin-veniamo in modo del tutto ovvio nelle catechesi sul battesimo di sant’Ambrogio, lequali però sicuramente si rifanno a modelli e documenti più antichi, di cui san Cle-mente Romano è uno dei primi testimoni, verso il 96, nella sua Prima lettera ai Co-rinzi (40, 1-5): “Dobbiamo fare con ordine tutto ciò che il Sovrano ci ha comandato diadempiere nei tempi stabiliti. Egli ci ha comandato che le offerte e le liturgie siano ef -fettuate non a caso e disordinatamente, ma nei tempi e nelle ore stabilite […]. Poichéal sommo sacerdote sono assegnate funzioni liturgiche proprie, e ai sacerdoti è attri -buito un posto proprio; ai leviti spettano servizi propri e il laico è tenuto ai precetti chelo riguardano”34.

32. Cf. Benedetto XVI e Sarah, cap. 1.33. Benedetto XVI e Sarah, 25.34. Benedetto XVI e Sarah, 31–32; Clemente di Roma, Lettera ai Corinzi, a c. di Annie Jaubert, trad.

da Maria Benedetta Artioli, Sources chrétiennes edizione italiana 8 (Roma : Bologna: Edizioni San Cle-mente ; Edizioni Studio domenicano, 2010), 177.

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La lettera di san Clemente ai Corinzi mostra chiaramente che un posto specifico èassegnato a ciascuno dei fedeli all’interno di una vera e propria organizzazione. Lo sco-po della lettera di san Clemente era precisamente di mettere fine ai disordini scoppiatinella comunità di Corinto, dove alcuni giovani si erano ribellati e avevano destituito ipresbiteri. Il papa prende la difesa degli ultimi, mostrando la continuità tra il mandato ri-cevuto da Cristo, la missione apostolica, l’affidamento della parola divina ai ministrispecificamente designati e il protrarre nel tempo della missione attraverso la designazio-ne di successori (lettera di san Clemente ai Corinzi 42, 1-5). L’autore giustifica inoltre lascelta dei ministri, con un riferimento all’Antico Testamento, interpretato come prefigu-razione del diritto nella nuova alleanza (ibid 43, 1-5). La successione apostolica è di se-guito analizzata in modo molto realistico. Provvidenza divina e prudenza umana siuniscono per stabilire delle regole nella scelta dei successori: si parla del consenso ditutta la Chiesa, delle qualità dei candidati (età, esperienza, integrità di vita) (ibid 44, 1-6)

Verso la fine del I secolo, la Didaché offre anche alcuni elementi sull’organizzazio-ne della comunità, fa menzione velocemente delle qualità morali del vescovo (15, 1-2),ma consacra maggiore attenzione agli “apostoli, profeti e dottori” (11, 3-6). Le lettered’Ignazio di Antiochia o di Policarpo di Smirne insistono sulla gerarchia e il dovere diobbedienza, mentre altri testi danno più valore ai carismi. Come dice Gaudemet: “è unaconciliazione tra due tendenze, difficile ma necessaria, quella che il II secolo cerca, sen-za mai ottenerla pienamente, fino alla scomparsa dei profeti.”35

Per i due primi secoli non disponiamo di testimonianze dettagliate sui ruoli rispetti-vi dei ministri e degli altri fedeli. La terminologia usata (apostoli, Dodici, Sette, presbi-teri, anziani, profeti, dottori, episkopoi, diakonoi, diaconessa) non sembra ancora fissatae le diversità locali sono grandi. Per tentare di classificare i modelli di organizzazione inquesto periodo, si è parlato di due grandi tendenze: una più carismatica nelle “Chiesepaoline” (sebbene le lettere di san Paolo, insistano nel contempo sulla necessità di unordine interno), un’altra, reperibile nelle comunità di Gerusalemme e di Palestina, conuna struttura analoghe a quelle delle sinagoghe, con un collegio di anziani. Queste diffe-renze non devono comunque essere sopravvalutate e nascondere la profonda unità delladinamica all’opera sia nelle comunità di origine giudeo-cristiana che in quelle prove-nienti dalla paganità.

2.4 IL RUOLO DEL VESCOVO NELLE PRIME COMUNITÀ

All’inizio del III secolo, i riti liturgici manifestano la preminenza del vescovo, con-sacrato mediante l’imposizione delle mani (cheirotonia, ordinazione riservata ai vesco-vi, presbiteri e diaconi), che la Tradizione apostolica distingue dalla semplice istituzioneo cheirothesia, riservata ai servizi laicali come i suddiaconi, lettori, dottori, catechisti,vedove (il loro compito è di aiutare la Chiesa con la preghiera, il digiuno frequente e ilservizio dei malati). Le diaconesse (cf. Didascalia III, 12-13) svolgono il loro ufficio neiconfronti delle donne, per l’assistenza a domicilio e le cerimonie battesimali; questa isti-tuzione esiste soprattutto in Oriente. A Roma, sin dalla meta del III secolo, le diaconessenon hanno più funzioni proprie36.

Il ruolo centrale del vescovo si conferma durante il III secolo37. San Cipriano affer-ma che la Chiesa è “il popolo unito al suo vescovo” (Ep. 66, 8, 3) o che “designato dal

35. Gaudemet, Storia, 117. Infatti, Gaudemet segnala che i profeti sono ancora menzionati da Ireneodi Lione (II secolo), ma non più dalla Traditio apostolica (inizio III secolo) Ippolito di Roma.

36. Cf. Fantappiè, Storia, 32; Heinrich Schlier, Il tempo della Chiesa. Saggi esegetici (Bologna,1965), 233–324.

37. Cf. Gaudemet, Storia, 118–23; Fantappiè, Storia, 35–36.

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popolo, in presenza del clero, il vescovo succede agli apostoli” (Ep. 59, 5). Il vescovo ècapo (praepositus) del clero e pastore (pastor, gubernator) del gregge, presiede l’assem-blea, predica, amministra il battesimo e la cresima, celebra l’eucaristia (come ministroordinario, non esclusivo), la penitenza e la riconciliazione, pronuncia esclusioni dallacomunità e reintegrazioni in essa, e assieme ad altri vescovi, consacra nuovi vescovi.

Le lettere di san Cipriano menzionano ovviamente i anche i presbiteri: la loro auto-rità proviene da Dio (Ep. 55, 8; 59, 5; 66, 1, 9) e sono responsabili davanti a Dio soltanto(Ep. 72, 3, 2). I presbiteri dispongano di più autonomia e anche di prerogative maggiori,quando il cristianesimo si diffonde nelle campagne, già nel terzo secolo. Il vescovo nonè allora più infatti solo al capo di una comunità cittadina, ma di una diocesi (eparchia inOriente) e i presbiteri assumono funzioni nelle comunità rurali, comunque sempre legatealla Chiesa-madre (parrocchia)38.

Da un’altra parte, il vescovo non governa isolato, ma unito agli altri vescovi.L’episcopato si presenta come unico e indivisibile. Riprendendo una terminologia deldiritto romano, Cipriano scrive nel 251 che il vescovo agisce in solido con gli altri ve-scovi: Episcopatus unus est, cuius a singulis in solidum pars tenetur (De catholicae ec-clesiae unitate, 5). Altrove parla della concordia collegii sacerdotalis, specialmentevisibile nei concili. L’unità non rimane quindi un concetto spirituale, un’aspirazione in-definita o un desiderio pietoso, ma si concretizza nelle strutture giuridiche proprie dellacollegialità. Le nozioni in solidum o collegium, proprie del diritto romano, esprimonopienamente una realtà intrinseca alla Chiesa, manifestata nella preghiera sacerdotale diGesù (Gv 17, 21).

Fino al V secolo, l’elezione del vescovo segue una procedura che articola, congrande diversità e varianti secondo le regioni: il suffragium del popolo, il testimoniumdel clero della diocesi, il iudicium dei vescovi delle Chiese vicine e, infine, il consensusdel metropolita o vescovo della Chiesa-madre. Cipriano diceva: “designato dal popolo,in presenza del clero” ma troviamo varianti: “eletto dal clero e dal popolo”. Fuoridall’Italia suburbicaria, il ruolo del papa resta modesto. Tale sistema manifesta alla stes-sa volta l’unità di tutta la comunità locale, l’esistenza di una distinzione tra chierici elaici, ordo e plebs, l’esigenza di un legame tra le singole Chiese locali39.

38. Cf. Fantappiè, Storia, 35–36; Vittorino Grossi, «Episcopus in Ecclesia: The Importance of an Ec-clesiological Principle in Cyprian of Carthage», The Jurist 66 (2006): 8–29.

39. Cf. Jean Gaudemet et al., Les élections dans l’Église latine des origines au XVI siècle, Institu-tions-société-histoire 2 (Paris: F. Lanore, 1979), 13–48.

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3 DALLE CHIESE ALLA CHIESA? (III-V SECOLI)

I cinque primi secoli furono decisivi per la formazione del diritto e delle istituzioninella Chiesa, non soltanto perché furono segnati dalla positivazione di regole (canoniconciliari e decretali papali), ma soprattutto perché offrirono risposte ad un vasto pano-rama di sfide. Le persecuzioni, le eresie, l’espansione apostolica, il cambiamento di sta-tuto giuridico della Chiesa nell’Impero romano hanno generato numerose problematichegiuridiche: modalità di partecipazione dei battezzati alla vita della Chiesa, reintegrazio-ne dei lapsi, degli eretici o scismatici, criteri di validità dei sacramenti celebrati da mini-stri lapsi o eretici, principi dell’organizzazione ecclesiastica al livello sopra locale estrutturazione del potere del romano pontefice, condizioni d’indipendenza della Chiesanei confronti del potere politico, integrazione del diritto romano, sistematizzazione dellefonti giuridiche nelle collezioni canoniche…

Riteneremo soltanto gli aspetti più specificamente “istituzionali”, senza però di-menticare che l’aspetto istituzionale è la manifestazione della dimensione giuridica in-trinseca della Chiesa. In altre parole: le istituzioni si sviluppano anzitutto per risponderealle sfide dell’epoca, al sevizio della difesa della fede.

3.1 LE ISTITUZIONI CONFRONTATE ALLE PERSECUZIONI E ALLE ERESIE

Nel contesto delle persecuzione e di fronte alla diffusione delle eresie, le istituzionidovettero rispondere alla problematica della loro legittimità nel caso in cui i ministri sa-cri si sarebbero resi colpevoli di debolezza durante persecuzioni o sarebbero cadutinell’eresia. Queste nuove sfide furono l’occasione di precisare alcune caratteristiche re-lative alla relazione tra la persona del ministro e il carattere istituzionale della sua fun-zione. In quale misura l’istituzione stessa veniva colpita dal comportamento delministro? In altre parole: che cosa era giusto attribuire all’azione dei sacramenti stessi eche cosa dipendeva invece dalla dignità del ministro, sapendo allo stesso tempo che esi-steva una differenza tra i sacramenti (non tutti sono necessari per la salvezzapersonale)? Si doveva quindi distinguere tra sacramenti di necessità (battesimo) e di di-gnità (ordine sacro).

Per quello che riguardava i fattori “soggettivi” legati al ministro, non ogni mancan-za del ministro aveva un effetto sul sacramento e ogni situazione doveva quindi esserevalutata in funzione delle circostanze e del grado di colpevolezza. Ad esempio, cederealle torture è una altra cosa che sostenere liberamente una eresia. Si doveva anche deter-minare in quale misura le sanzioni da applicare ai ministri lapsi aveva delle implicazionisul loro potere di ordine. Poteva ancora un sacerdote colpevole di sacrificio alle divinitàpagane, celebrare validamente la messa e gli altri sacramenti? Un vescovo cadutonell’apostasia o nell’eresia poteva ancora ordinare validamente nuovi sacerdoti?

Secondo san Cipriano, i sacerdoti e i vescovi lapsi durante le persecuzioni di De-cio, avevano perso il loro potere di ordine, perché privati dall’assistenza dello SpiritoSanto. Tale ipotesi, che faceva dipendere l’efficacia dei sacramenti dalla dignità del mi-nistro, minacciava però gravemente l’efficacia dell’azione divina. Il concilio di Nicea(325) risolse soltanto una parte del problema quando vietò l’ordinazione dei lapsi. Unasoluzione più definitiva arrivò all’occasione della crisi donatista40. Secondo i donatisti, i

40. Donato era vescovo di Numidia (inizio IV secolo). Come nel caso di Novaziano, la dottrina diDonato è rigorista e non ritiene validi i sacramenti celebrati dai vescovi che non hanno resistito alle perse-cuzioni di Diocleziano e hanno consegnato ai magistrati romani i libri sacri. Questa posizione presuppo-neva che i sacramenti non avessero efficacia di per sé, ma che la loro validità dipendesse dalla dignità dichi li amministrava. Già nel 314 il donatismo fu dichiarato eretico e non compatibile con la fede cristiana

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sacramenti celebrati dai chierici lapsi non erano validi. Perciò i donatisti iniziarono unoscisma, costituendo una gerarchia parallela. Creavano però così nel contempo un nuovoepisodio della problematica dei battesimi conferiti dagli eretici o dagli scismatici. Lacrisi donatista fu l’occasione di riconoscere un valore definitivo alle posizioni del papaStefano I, favorevole alla validità del battesimo, anche celebrato nell’eresia.

L’intervento di san Agostino fu a questo riguardo molto importante41. Per preserva-re l’efficacia divina dei sacramenti, san Agostino spiegò che colui che aveva ricevuto ilsacramento dell’ordine nella Chiesa non poteva perdere il potere di celebrare valida-mente i sacramenti e quindi non impediva la trasmissione della grazia divina. In unaomelia sul Vangelo di san Giovanni, san Agostino fece una comparazione che avrà ungrande influsso sulle riflessioni giuridiche durante tutto il primo millennio. Il ministro èinfatti comparabile ad un canale attraverso il quale corre l’acqua della grazia sacramen-tale: “nel canale di pietra non produce alcun frutto, ma nell’orto produce molti frutti”.La grazia è anche come la luce: “giunge pura a coloro che devono essere illuminati, eanche se deve passare attraverso degli esseri immondi, non viene contaminata”. Parlaredel ministro come canale della grazia divina, permetteva non soltanto di non fare dipen-dere l’efficacia del sacramento dalla dignità del chierico, ma anche di manifestare che ilsacramento non è proprietà del ministro, ma da Dio stesso. Troviamo senz’altro già inquesto brano una delle origini della nozione di validità del sacramento ex opere operato,di così grande importanza per il diritto canonico42.

3.2 DALLE CHIESE ALLA CHIESA?

L’espansione apostolica dei primi secoli in un contesto politico e sociale cambianteebbe vari implicazioni giuridiche sull’organizzazione ecclesiastica. Le prime comunitàcristiane erano organizzate localmente attorno al vescovo, ma bisognava adesso unire lecomunità sparse in territori vari e allontanati, per affrontare le prime eresie e risolverepossibili divisioni all’indomani delle persecuzioni. Si doveva quindi trovare un’organiz-zazione “orizzontale” giusta che rispettasse la legittima autonomia delle Chiese partico-lari e assicurasse nello stesso tempo l’unità della Chiesa. Jean Gaudemet ha riassuntosotto il titolo “dalle Chiese alla Chiesa” la problematica travagliata dei rapporti tra Chie-sa universale e Chiesa particolare. L’espressione è senz’altro stimolante perché suggeri-sce un processo di unità all’opera durante questo primo periodo di espansione, cosìdecisivo per l’organizzazione futura della Chiesa. Sembra però necessario aggiungere aquesta espressione un punto di domanda, perché l’affermazione sola potrebbe lasciarepensare, dal punto di vista teologico ed ecclesiologico, che la Chiesa si sarebbe costitui-ta come una federazione di Chiese locali autonome. Tale ipotesi è pero al centro di di-vergenze interpretative.

Nell’ambito della Chiesa latina, l’unità della Chiesa universale costituisce il princi-pio stesso dal quale si parte e non il risultato di un processo d’unificazione. In questosenso Errázuriz può affermare che “la realizzazione embrionaria della Chiesa a Gerusa-lemme aveva la stessa universalità potenziale che poi si sarebbe manifestata progressi-

dal concilio di Arles.41. Su questo argomento, cf. Aurelius Augustinus, De baptismo contra donatistas libri septem, a c. di

Jacques-Paul Migne, vol. 43, PL (Parisiis : Turnholti, 1845). Sul contesto storico, cf. Louis Saltet, Lesréordinations. Étude sur le sacrement de l’ordre (Paris, 1907), 59–83. Per una sintesi della problematica,cf. Thierry Sol, Droit subjectif ou droit objectif? La notion de ius en droit sacramentaire au XIIe siècle ,Medieval and early modern political theology 2 (Turnhout: Brepols, 2017), 53–40.

42. Cf. Aurelius Augustinus, Commento al Vangelo di san Giovanni, Opere di sant’Agostino. Edizio-ne latino-italiana. Pt. 3, Discorsi 24 (Roma: Città nuova, 1968), par. 5, 15.

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vamente nel tempo e nello spazio”43. Il dibattito, riavviato con la pubblicazione della let-tera Communionis notio della Congregazione per la dottrina della fede, rimane ancoraoggi aperto con la riflessione in ambiente orientale44.

Queste pagine non intendono proporre una risposta, ma sembra utile, da un puntodi vista storico, menzionare alcune riflessioni di Joseph Ratzinger45. Se i momenti fon-danti della Chiesa sono solitamente identificati nella scelta dei Dodici o nella consegnadel potere delle chiavi a san Pietro, l’atto propriamente fondante rimane la Cena del Si-gnore. È lì che egli dà alla comunità nascente la sua specifica consistenza che la distin-gue da ogni altra comunità religiosa; le dà la sua coesione e la sua intima unione conDio stesso per formare una nuova comunità. Per san Paolo la Chiesa è propriamente ilcorpo di Cristo e lo diventa sempre più a partire dall’eucaristia (1 Cor 10,14-22 e 12,13b).Il nesso tra sacramento e istituzioni sembra specialmente importante nel quadro di unaconcezione realista del diritto, perché le istituzioni nascono al servizio della Chiesa edella sua missione. Capire le istituzioni come prolungamento nel tempo dell’azione re-dentrice di Cristo permette di cogliere la loro vera natura e la dinamica interna del lorosviluppo storico.

Henri de Lubac aveva già mostrato che, nell’antichità cristiana e nell’alto medioe-vo, l’espressione corpus verum significava la Chiesa e corpus mysticum l’eucaristia.L’inversione dei termini si produce nel XI secolo, al momento della controversia controBéranger de Tours46. Dire che il corpo vero di Cristo è la Chiesa significa che, attraversoil suo corpo sacramentale, Cristo attira a sé i cristiani, che prolungano la sua esistenzanel tempo. In essi continua l’Incarnazione, in essi solo Cristo diventa, come dicono i Pa-dri, il Cristo totale, composto di testa e corpo. Così, l’espressione “corpo di Cristo” de-signa non una realtà misteriosa e invisibile dell’esistenza cristiana, ma una realtàvisibile e comprensibile nella celebrazione dell’eucaristia.

Questo legame tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile, realizzato nell’eucaristia,spiega appunto perché l’ordine giuridico che organizza la Chiesa visibile, scaturisce dalsacramento stesso dell’unità. Contrariamente alle tesi di Sohm, non esiste quindi nessu-na contraddizione tra la dimensione giuridica e la dimensione di carità presente nel sa-cramento: il diritto canonico manifesta l’unità e la realizza sul piano giuridico-istituzionale. La strutturazione funzionale gerarchica delle prime comunità, fondata sul-la trasmissione del sacramento dell’ordine, sviluppata poi nella collegialità dei succes-sori degli apostoli, riproduce la permanenza nel tempo della Cena del Signore. La realtàstorica di questo processo non dice altra cosa, precisamente attraverso le difficoltà deiprimi tempi: tempi di eresia, d’isolamento delle comunità, di persecuzioni, con alcunisacerdoti o vescovi lapsi. La grande sfida era di mantenere l’unità della fede e dei sacra-menti in obbedienza alla stessa autorità.

43. Errázuriz, Corso fondamentale I, 61. La priorità della Chiesa universale sulla Chiesa particolare èanche affermata da Arturo Cattaneo, «La priorità della Chiesa universale sulla Chiesa particolare», Anto-nianum 77 (2002): 503–39.

44. Cf. Congregatio pro Doctrina Fidei, «Communionis notio (28 V 1992)», AAS 85 (1993): 838–50. eper una discussione recente del tema: cf. Péter Szabó, «Synodality and Primacy. Perspectives of Interac-tion between East and West», in Primacy and Synodality: Deepening Insights : Proceedings of the 23rdCongress of the Society for the Law of the Eastern Churches, Debrecen, September 3-8, 2017 (St. Athana-sius Theological Institute, 2019), 693–722. L’autore menziona anche le posizioni di Winfried Aymans sullatensione permanente tra universale e particolare nella Chiesa (Winfried Aymans, «Die Communio Eccle-siarum als Gestaltgesetz der einen Kirche», Archiv für katholisches Kirchenrecht 139 (1970): 69–90.) e ildibattito Ratzinger / Kasper sullo stesso tema.

45. Seguiamo le riflessioni sviluppate in Joseph Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio: questioni eccle-siologiche, 4a ed., Biblioteca di teologia contemporanea 7 (Brescia: Queriniana, 1992).

46. Cf. Henri de Lubac, Corpus mysticum: l’eucarestia e la Chiesa nel Medioevo, 2a ed., Già e nonancora 92 (Milano: Jaca book, 1996).

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Questa ricerca dell’unità, presupposta e non costruita, si manifesta attraverso il si-stema delle litterae communionis, per il quale un cristiano in viaggio si faceva dare unalettera dal suo vescovo e la esibiva nella Chiesa dove si recava. Quando la lettera prove-niva da una delle sedi principali, e soprattutto da Roma, costituiva un segno dell’esserein comunione con tutta la Chiesa. È proprio la comunione con Roma che serve di puntodi riferimento. Non vuol dire però che l’unità proviene da una organizzazione centraliz-zata (che non esiste in questo momento), ma significa che Roma manifesta la comunio-ne delle Chiese, “presiede alla carità”, rende concreto e garantisce il fatto che la Chiesavive dell’unica Cena di Cristo. Così, come dice Ratzinger, il luogo teologico del primatoè l’eucaristia, in cui funzione e spirito, legge e carità, hanno il loro centro comune, illoro punto di partenza comune.

Questi elementi permettono, a partire “dall’ecclesiologia” della Cena del Signore,di capire come l’organizzazione giuridica delle Chiese particolari e della Chiesa sonodue aspetti intrinsecamente connessi. La struttura verticale dell’organizzazione locale èvincolata alla struttura orizzontale della collegialità. I vescovi, successori degli apostoli,sono anche collegialmente costituiti. Come ogni singolo apostolo svolgeva il suo ufficioin quanto apparteneva alla comunità apostolica, così ogni singolo vescovo svolge il suoministero perché appartiene al collegio che costituisce la successione del collegio degliapostoli.

Come si operò questo collegamento? Nei suoi scritti, Ignazio di Antiochia († 117)descrive il ministero come la triplice articolazione vescovo – sacerdote – diacono, il pre-sbiterio e il diaconato essendo collegialmente costituito, mentre il vescovo incarna l’uni-tà della comunità. Qui viene descritta la struttura verticale delle Chiese particolari. LaChiesa si realizza prima di tutto e concretamente nelle comunità locali, che non sonocentri amministrativi di un grande apparato, ma cellule vive, ognuna delle quali contieneil mistero vivo dell’unico corpo della Chiesa, così che ognuna può giustamente esserechiamata semplicemente ecclesia.

Come afferma Ratzinger, queste Chiese sono a loro volta collegate orizzontalmen-te: vescovo – vescovo – vescovo. La struttura verticale della Chiesa particolare non èquindi autosufficiente: è completa solo se il vescovo non esiste da solo, ma vive in co-munione con gli altri vescovi delle altre Chiese di Dio. Così la Chiesa particolare è in-dubbiamente una totalità chiusa in sé, che contiene tutta l’essenza della Chiesa di Dio,ma rimane aperta da tutti i lati attraverso il vincolo della comunione e può conservare lasua essenza di Chiesa solo attraverso questo inserimento nella rete di comunione dellaChiesa stessa. Troviamo quindi i due elementi dell’apostolicità nel principio episcopalee della cattolicità nella comunione di tutte le Chiese tra loro. I due sono intimamente le-gati: il vescovo è vescovo solo perché è in comunione con gli altri vescovi. Mentre laguida della Chiesa particolare è monarchica, l’unità della Chiesa totale poggia sulle re-lazioni trasversali dei vescovi tra loro, che costituiscono la vera essenza della cattolicità.Questa collegialità si dimostra specialmente attraverso la prassi conciliare, che non trat-tiamo però in queste pagine.

3.3 GERARCHIA SOPRA-LOCALE: PROVINCIE E PATRIARCATI

L’evangelizzazione e la cura pastorale richiedevano, oltre la creazione di diocesi,un coordinamento al livello sopra-locale con nuove strutture, come le provincie eccle-siastiche e i patriarcati. Tale strutture favorirono l’azione collegiale, particolarmente at-traverso l’organizzazione dei sinodi, e permetterono di risolvere eventuali conflitti. Ican. 15 e 16 di Nicea delinearono le circoscrizione territoriali e il potere dei vescovi e

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prescrissero loro di risiedere nella propria diocesi, senza cambiare sede né esercitare laloro giurisdizione fuori di essa.

Il raggruppamento delle diocesi in province ecclesiastiche sotto l’autorità del “me-tropolita”, fu, secondo Gaudemet, “più tardo della preminenza ottenuta da alcune “gran-di sedi”. I termini eparchia (provincia ecclesiastica) e metropolita non sono attestatiprima dei can. (4 e 5) del concilio di Nicea, nel 325. (…) Se anche vengono citate delleriunioni tra vescovi di una stessa provincia prima di questa data, esse non possono esse-re certo considerate come “prove” di una organizzazione provinciale.”47 Tuttavia, comelo riconosce anche Gaudemet, la realtà giuridica ha verosimilmente preceduto la sua po-sitivazione nei canoni. Nella pratica, il vescovo più anziano o il vescovo della capitaledi provincia o della città più importante presiedeva il sinodo provinciale e costituiva iltribunale di appello per la provincia.

La delimitazione delle provincie e la designazione dei metropoliti fu determinata infunzione del prestigio della città o dei pastori, e seguì spesso l’organizzazione politico-amministrativa dell’Impero, elaborata da Diocleziano (284-305), con la divisione del ter-ritorio in prefetture, diocesi, province, parrocchie o distretti. Non si tratta però di unasemplice trasposizione dell’organizzazione romana del Basso Impero. Gaudemet propo-ne alcuni esempi di varianti geografiche, soprattutto in Africa, dove non ci sono dellemetropoli definite e dove il vescovo “superiore” della provincia è il più anziano di ordi-nazione. “Nella maggior parte dei casi, il vescovo di Cartagine, che non è patriarca, németropolita, esercita un’autorità superiore sulla totalità dell’Africa. Egli viene definitoepiscopus episcoporum (Tertulliano, De pudicitia 1,6), episcopus primae sedis (Agosti-no, Contra Cresc.III, 26-27, PL 43, 510). Questo epiteto viene utilizzato anche per i ve-scovi “primati” di altre province africane. La Spagna del IV secolo ignora ilmetropolita. La sede del vescovo più anziano della provincia viene definita prima ca-thedra episcopatus (Concilio di Elvira, can. 58)”48.

Al livello superiore, lo sviluppo dei cinque patriarcati risponde alla stessa proble-matica delle provincie. Roma ebbe ovviamente sin dall’inizio una autorità in tuttol’Occidente. Nella parte orientale, ognuno dei quattro patriarcati ha la sua storia e il lororiconoscimento non è anteriore al concilio di Calcedonia del 45149. Alessandria fu fonda-ta come patriarcato da Marco, arrivato nella città nel 43-44 e ivi martirizzato durante glianni 66-69. L’autorità di Alessandria, riconosciuta nel can. 6 del concilio di Nicea (325),si esercitava su un centinaio di vescovi in Egitto, Libia e nella Pentapoli (Cirenaica).Antiochia poteva gloriarsi del ricordo di Pietro e godeva, a partire dal III secolo, di unaautorità su tutte le diocesi civili d’Oriente. La sua autorità fu anche menzionata dal can.6 di Nicea e all’inizio del V secolo, Innocenzo I riconobbe ad Alessandro di Antiochia ildiritto di ordinare i metropoliti e di controllare le scelte episcopali fatte da questi ultimi(Ep. 21, PL 20, 547). Per quanto riguarda la sede di Gerusalemme, il can. 7 di Nicea ave-va riconosciuto un “primato d’onore”, ma la città rimaneva subordinata a Cesarea, lasua metropoli, e di conseguenza ad Antiochia.

Il concilio di Costantinopoli del 381 organizzò la parte orientale de l’impero e fececorrispondere alle cinque diocesi civili (Egitto, Oriente, Ponto, Asia, Tracia) cinque cir-coscrizioni ecclesiastiche: Alessandria per l’Egitto e Antiochia per l’Oriente, mentrel’Asia, il Ponto e la Tracia dipendevano dai vescovi di ciascuna di queste regioni (can.2), senza creare però patriarcati. Il can. 3 affermò però che il vescovo di Costantinopoliaveva su tutti il primato nell’onore, dopo il vescovo di Roma, perché Costantinopoli era

47. Gaudemet, Storia, 150.48. Cf. Gaudemet, 151.49. Sulle “grande sedi”, sintetizziamo Gaudemet, 144–47.

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la nuova Roma (can. 3). Senza mettere in discussione il primato di Roma, questo canonene riduceva di fatto l’efficacia alla parte occidentale. Il vescovo di Costantinopoli coor-dinava praticamente tutta la parte orientale e si imponeva poco a poco come patriarca inOriente relativamente alle diocesi di Tracia, d’Asia e del Ponto. Questa sovranità di fat-to fu denunciata dai papi Damaso, Leone e Bonifacio, che insisterono sul primato diRoma e sul loro diritto d’intervenire nelle questioni delle Chiese orientali.

Il concilio di Calcedonia del 451 fece un passo ulteriore verso l’autonomia ecclesia-stica dell’Oriente e la preminenza di Costantinopoli. Il can. 9 riconobbe al vescovo diCostantinopoli una giurisdizione concorrente con quella dei vescovi dei capoluoghi del-le diocesi civili, nella possibilità di giudicare processi intentati da un chierico o da unvescovo contro il suo metropolita. Il can. 28 li attribuì inoltre la stessa preminenza delvescovo di Roma, “pur essendo secondo dopo di lui”. Così il vescovo di Costantinopolidispose di un potere di giurisdizione sopra le diocesi civili della Tracia, dell’Asia e delPonto, così come sui vescovi dei paesi barbari, oltre le frontiere dell’Impero. Aveva ildiritto di consacrare i metropoliti di tutta la circoscrizione, di convocarli a concilio ed’istituire un tribunale d’appello delle sentenze dei tribunali metropolitani e diocesani. Ilcan. 28 del concilio di Calcedonia fu respinto da Leone Magno (440-461), in quanto ri-sultava contrario al principio della primazia romana. Le pretese della “nuova Roma” sifondavano sostanzialmente su ragioni di ordine politico: “I padri concessero privilegialla sede dell’antica Roma, perché questa città era la città imperiale”.

Dopo il concilio di Calcedonia, la struttura territoriale della Chiesa risultò comun-que stabilita in cinque patriarcati: per l’Occidente, Roma e per l’Oriente: Alessandriaper l’Egitto; Antiochia per la Palestina, Siria, Cilicia, Arabia, Libano; Costantinopoli perle diocesi civili di Asia, Ponto e Tracia (che mantengono ciascuna il loro esarca) e Geru-salemme con una primazia “onorifica” sulle tre provincie ecclesiastiche di Palestina.L’organizzazione definitiva fu formalizzata nella legislazione imperiale (Novella 123,cap. 3) da Giustiniano I, con il sistema della Pentarchia. Tale ripartizione durò fino alloscisma del 1054.

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4 LA PROBLEMATICA DEL PRIMATO PETRINO DI GIURISDIZIONE (I-VSECOLI)

Si tratta di una problematica articolata, controversa lungo tutta la storia, sul pianonon soltanto dell’elaborazione dottrinale teologica e giuridica, ma anche della pratica50,dove l’impostazione metodologica determina spesso la storiografia. Come in tante altreproblematiche della storia del diritto canonico, l’analisi non deve separare il dato impre-scindibile del disegno divino rivelato e la sua realizzazione attraverso la storia. Il conte-nuto del primato petrino si trova nel Vangelo, ma la sua realizzazione formale nellastoria è funzione di una moltitudine di vicissitudine politiche e culturali, che non possia-mo nemmeno rintracciare in queste pagine51. Ci limitiamo quindi ad alcuni passi evange-lici sul primato romano e ad alcune osservazioni sul potere di giurisdizione del papa suivescovi delle altre Chiese.

4.1 IL DATO EVANGELICO E LE PRIME TESTIMONIANZE

I tratti del primato romano che ne configurano la dimensione giuridica si deduconoda più passi evangelici. Mt 16, 18-19 è forse il brano più eloquente e più citato: “E io a tedico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferinon prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legheraisulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cie-li”. Con queste parole, il Signore affida a Pietro un potere disciplinare in materia di dot-trina e di morale. Non vale soltanto per lui, ma anche per i suoi successori. Taleconseguenza non è esplicita, ma si trova in logica consonanza con l’intenzione del Si-gnore di provvedere all’avvenire della sua Chiesa con un’istituzione che la morte di Pie-tro non potrà rendere effimera.

Due altri brani evangelici sottolineano che il primato di Pietro lo rende capo, nonsolo della Chiesa futura, ma già degli altri apostoli: Lc 22, 31-32 (“Simone, Simone,ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché latua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli”) e Gv 21,15-17 (Gesù disse a Simone Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”.Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnel-

50. Cf. Jean Gaudemet, «Aspects de la primauté romaine du V. au XV. siècle», Ius Canonicum 11(1971): 92–134; Michele Maccarrone, a c. di, Il primato del vescovo di Roma nel primo millennio: ricer-che e testimonianze: atti del Symposium storico-teologico, Roma, 9-13 ottobre 1989, Atti e documenti 4(Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1991); Klaus Schatz, Il primato del papa: la sua storia dal-le origini ai nostri giorni, trad. da Luigi Sartori, Strumenti 55 (Brescia: Queriniana, 1996); Carlo Cardia,«Universalità Della Funzione Petrina (Ipotesi Ricostruttive). Prima Parte: Fondamento e Sviluppo StoricoDel Primato», Ius Ecclesiae 23, n. 1 (2011): 33–56; Brian Edwin Ferme, «The Roman Primacy and the Ca-nonical Collections of the First Millennium», in Primato pontificio ed episcopato: dal primo millennio alConcilio Ecumenico Vaticano II; studi in onore dell’arcivescovo Agostino Marchetto, a c. di Jean Ehret(Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2013), 137–64. In questo paragrafo, sintetizziamo inoltre iricchi sviluppi di Gaudemet, Storia, 159–64. Dal punto di vista del magistero, segnaliamo anche: Fernan-do Ocáriz Braña, a c. di, Il primato del successore di Pietro: atti del Simposio teologico, Roma, dicembre1996, Atti e documenti 7 (Città del Vaticano: Libreria editrice vaticana, 1998); Congregazione per la dot-trina della fede, Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa: considerazioni della Con-gregazione per la dottrina della fede: testo e commenti, Documenti e studi 19 (Città del Vaticano: Libreriaeditrice vaticana, 2002).

51. Per una analizzi dettagliata della Chiesa e del pontificato romano nel IV e V secolo, rinviamoall’opera fondamentale di Charles Pietri, Roma christiana: recherches sur l’Église de Rome, son organi-sation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III, 311-440, 2a ed., Bibliothèque des Écoles françai-ses d’Athènes et de Rome 224 (Rome: École française de Rome, 1976).

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li...”). Inoltre, la potestà del romano pontefice è sin dall’inizio messa al servizio dellaChiesa universale, in vista della salvezza, e non può fondarsi sulla logica della rivalità odel dominio delle comunità o delle persone (Mt 20, 26-28: “colui che vorrà diventaregrande tra voi...”).

La forma storica assunta dal primato risulta anche di molteplici fattori, politici eculturali. Fino al secolo III, i successori di san Pietro intervengono in materia dottrinalee liturgica, ad esempio con la determinazione della data di celebrazione della Pasquasotto Vittore (189-198) o disciplinare, come suggerisce la Prima lettera di san ClementeRomano ai Corinzi. L’intervento di san Clemente dà infatti una luce sul ruolo del vesco-vo di Roma nelle Chiese particolari: senza poter parlare ancora di primato di giurisdi-zione, la lettera del papa fa vedere come si esercita la sua “sollecitudine per tutte leChiese”.

Ireneo di Lione riconosce al vescovo di Roma un potentior principatus (Adversushaereses III, 3, 2). San Cipriano afferma che Roma è “matrice e radice della Chiesa cat-tolica” (Ep. 48, 3, 1), o ancora che la “chiesa principale, da cui è nata l’unità sacerdota-le” (Ep. 59, 22) e scrive nel De unitate 4: primatus Petro datur. L’autorità romana vienequindi in qualche modo riconosciuta, ma non propriamente ancora in termini di giurisdi-zione e non abbiamo testimonianza di misure a carattere legislativo nei primi tre secoli,come sarà più tardi il caso con le prime decretali.

4.2 IL CAN. 3 DEL CONCILIO DI SARDICA E LA POSSIBILITÀ DELL’APPELLO ALLA SEDE

ROMANA

L’evoluzione fu progressiva, dettata dai sviluppi della crisi ariana, specialmentequando Atanasio, condannato dagli ariani al concilio di Tiro nel 335, fu invece ricono-sciuto unico titolare legittimo della sede di Alessandria in un concilio riunito a Roma daGiulio I (337-352). In risposta, sotto la pressione degli ariani, il concilio di Antiochia del341 contestò la possibilità di fare appello contro le decisioni di un concilio provinciale.La questione fu risolta dal concilio di Sardica (343), nel suo can. 3: Osio, vescovo diCordova che presiedeva la riunione, fece approvare il ricorso a Roma dopo una sentenzadi condanna contro un vescovo pronunciata da un concilio. Il papa non poteva pronun-ciarsi sul merito e correggere la sentenza, ma solo rinviare la causa per nuovo esamepresso un’assemblea regionale di vescovi, affiancati di legati pontifici. Il potere del papaera per lo meno riconosciuto superiore al concilio. Molto interessante risulta l’argomen-to utilizzato da Orosio a questo proposito: Petri apostoli memoriam honoremus: il fon-damento teologico e storico del primato romano viene chiaramente riaffermatonell’ambito di un concilio.

Sorprendentemente, la procedura prevista dal can. 3 non fu utilizzata nel periodosuccessivo, in ragione dell’ostilità dell’imperatore Costanzo ai provvedimenti del conci-lio di Sardica. Damaso (366-384), che parla spesso di Sedes apostolica in riferimento asan Pietro, sembra addirittura non conoscerla e non viene nemmeno menzionata nellalettera del sinodo romano del 378 agli imperatori, che dichiara appunto che: “se Damasoè pari agli altri vescovi per quanto riguarda la sua funzione, egli prevale su di loro per laprerogativa della sede apostolica” (Mansi, III, 626 E). Eppure questo sinodo romanoriaffermava la giurisdizione del papa sui vescovi e chiedeva che il papa stesso potesseessere giudicato soltanto da un concilio o dall’imperatore. L’imperatore Graziano, inuna lettera (Ordinariorum, Avellana, XIII, 10 2 12 CSEL 35, 1, 57) confermò la giurisdi-zione del papa sui vescovi, con l’assistenza di 5 o 7 vescovi, ma non dice nulla dellagiurisdizione sul papa stesso.

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Un esempio di appello alla Sede di Roma, in applicazione del can. 3 di Sardica, sitrova all’inizio del V secolo. Antonino era stato nominato da san Agostino vescovo diFussala, territorio dipendente d’Ippona. Tuttavia, dopo il 416 Antonino, accusato daisuoi fedeli per malversazioni, fu deposto e la diocesi amministrata direttamente dasant’Agostino fino alla sua morte nel 430. Antonino fecce appello al papa Bonifacio I,secondo una procedura molto simile a quella prevista dal can. 3 di Sardica, anche se ilcanone non viene menzionato52.

Negli stessi anni, sembra invece che l’utilizzo del can. 3 di Sardica, purtroppo erro-neamente attribuito al concilio di Nicea, sia stato rivendicato da papa Zosimo, all’occa-sione del processo di Apiario, sacerdote africano scomunicato dal suo vescovo, cheaveva appellato a Roma53. Zosimo aveva assolto Apiario e chiesto la scomunica ol’invio a Roma del vescovo di Apiario e aveva comunicato le sue decisioni ai vescoviafricani mediante una legazione guidata da Faustino, vescovo di Potenza. I vescovi afri-cani, radunati in concilio nel 418, affermarono di non conoscere un tale canone niceno einviarono legati ad Alessandria, Antiochia e Costantinopoli per procedere a delle verifi-che sulla sua autenticità. Nel frattempo, i vescovi africani si impegnarono a osservare ladisposizione richieste dal papa, anche nel futuro, a condizione che il canone fosse auten-tico. La risposta di Costantinopoli e Alessandria fu però negativa: anche lì non si sapevanulla di un tale canone niceno. L’errore si spiegò dopo, per il fatto che, a Roma, i canonidisciplinari di Sardica erano stati aggiunti senza nessuna separazione a quelli di Nicea,creando così una confusione. I vescovi africani inviarono il 25 maggio 419 una lettera apapa Bonifacio (Zosimo era morto il 27 dicembre 418) seguita il 26 novembre 419 dauna copia autentica dei canoni di Nicea tradotti dal greco. Le richieste di Roma non fu-rono quindi accolte e l’appello fuori dall’Africa rimaneva vietato a tutti, sotto pena discomunica.

La storia di Apiario non si fermo a questo punto e, scomunicato una seconda volta,dopo essersi appellato di nuovo a Roma fu di nuovo assolto da Celestino I (423) cheaveva inviato nuovamente Faustino come legato in Africa per difendere i privilegi diRoma. Ma durante il processo Apiario confessò le sue colpe e venne però definitiva-mente scomunicato. Nel XX concilio di Cartagine (424-425), i vescovi africani poseroallora fine a la polemica degli appelli a Roma, dichiarando “che nessuno abbia l’ardiredi fare appello a Roma”. Affermarono in una lettera indirizzata a Celestino che la lorolegislazione era in continuità con quella di Nicea e che altri motivi si opponevano al fat-to di autorizzare l’appello a Roma: come potrebbe un tribunale d’oltremare emettere ungiudizio informato quando non era possibile chiamare i testimoni necessari? I Padri diCartagine chiederono al romano pontefice di rispettare la loro disciplina, in consonanzacon la legislazione conciliare, di non ammettere alcun denunciante e di non intervenirenegli affari locali attraverso i suoi legati.

Come si vede, la controversia non procede da una rivalità ecclesiastica o politicatra Roma e Cartagine. Negli anni precedenti, i vescovi africani avevano addirittura ac-cettato le decisioni di Roma sulle questioni dogmatiche, liturgiche o sacramentali. Dal

52. Su questo punto si veda le lettere di sant’Agostino del 422-423 a Fabiola (PL 33, 290), e quelladel 423 al papa Celestino (PL 33, 209) che narrano tutta la vicenda di Antonio (in italiano: https://www.au-gustinus.it/italiano/lettere/lettera_300_testo.htm https://www.augustinus.it/italiano/lettere/lettera_215_te-sto.htm).

53. La questione di Apiario fu all’origine di un’ampia documentazione per giustificare il punto di vi-sta del concilio di Cartagine del maggio 419, il Codex Apiarii causae. Cf. Brian Edwin Ferme, «CodexApiarii Causae», in Diccionario general de derecho canónico (Pamplona: Universidad de Navarra, 2012).Sui dettagli della causa e le decisioni dei concili africani, cf. Charles Munier, «Un canon, inédit du XXeconcile de Carthage : “ Ut nullus ad Romanam ecclesiam audeat appellare ”», Revue des sciences reli-gieuses 40, n. 2 (1966): 113–26, https://doi.org/10.3406/rscir.1966.2438.

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411 la Chiesa d’Africa lottava contro le eresie di Pelagio e Celestius. Precisamente,quest’ultimo, scomunicato dai vescovi africani aveva fatto appello al papa, prima di ab-bandonare l’appello e ricevere il sacerdozio a Efeso. Quando i vescovi africani chiede-rono allora ai papi Innocenzo I e Zosimo di condannare il pelagianismo, si trattava diuna condanna dottrinale, ma non di una giurisdizione sugli individui.

In materia giudiziaria infatti, il processo di un vescovo doveva essere portato da-vanti a un tribunale di 12 altri vescovi (can. 10 del 2° concilio di Cartagine nel 390) e, inappello, davanti al concilio generale annuale delle province africane, senza quindi ulte-riore appello possibile fuori dall’Africa (concilio d’Ippona del 393, can. 6 e 7 riportatinel Breviarium Hipponense, PL 54, 422-423). Per le cause relative al clero inferiore, ilconcilio di Cartagine del 390 prevedeva, secondo le disposizioni degli antichi concili,che i sacerdoti fossero giudicati da un tribunale di sei vescovi, i diaconi da un tribunaledi tre vescovi, ognuno dei quali avrebbe incluso il vescovo dell’imputato. Il concilio del418 determinò che per tutti i sacerdoti, diaconi e chierici inferiori, il tribunale d’appellosarebbe stato il primate della provincia o il consiglio universale delle province dell’Afri-ca, lo stesso quindi dai vescovi.

Lo studio della legislazione africana mostra che la procedura era fissata a tutti i li-velli, e che non c’era quindi bisogno di vietare espressamente i ricorsi a Roma, poiché ilsistema sviluppato li rendeva superflui: secondo la legge africana, un simile ricorso era,infatti, inconcepibile. L’affermazione lapidaria del XX concilio di Cartagine del 424, utnullus ad romanam ecclesiam appellare audeat è quindi in consonanza con tutta una lo-gica processuale già fissata e la tradizione conciliare. Non era quindi ancora venuto ilmomento dell’applicazione del can. 3 di Sardica, che conoscerà però una grande fortu-na, ma più tardi, perché verrà ripreso in numerose collezioni canoniche fino al XII seco-lo (Decreto C.6 q.4 c.7).

4.3 LO SVILUPPO DEL PRIMATO PETRINO DAL IV AL V SECOLO

A partire del IV secolo con la pace costantiniana, la Chiesa di Roma dispone disempre più mezzi economici, di un personale di curia (non ancora una vera cancelleria),che li permettono d’intervenire in tutto l’impero. Nel V secolo, la scomparsa dell’impe-ro romano d’Occidente, e la frantumazione politica tra un mosaico di regni barbari sulsuo territorio segnarono una situazione nuova per l’esercizio del primato.

È al favore di queste circostanze che il primato d’onore che esisteva fino a quelmomento, potesse plasmarsi in una realtà pienamente giuridica, designata da un terminespecifico e finalmente esclusivo della sede di Roma: primatus. Il termine, dapprima uti-lizzato per designare il primo dei vescovi di ogni provincia ecclesiastica, diventa mono-polio della Sede romana con l’interpolazione introdotta verso il 439 nel can. 6 delconcilio di Nicea: “La Chiesa romana ha sempre avuto il primato”, ratificata dalla No-vella 17 di Valentiniano III (445). Forse più interessante e significativo dall’occorrenzadella parola, sono i fatti stessi e le decisioni prese dai concili sull’ampiezza della giuri-sdizione romana.

L’affermazione del primato romano nell’ambito extra-giudiziario riscontrò ancheopposizioni. Il papa Damaso (366-384) fu il primo a riservare alla sede romana il titolodi “sede apostolica”, ma quando tentò di esercitare la sua autorità su alcuni vescoviorientali, provocò le proteste di san Basilio di Cesarea. Quando rifiutò di riconoscerequalsiasi autorità alle decisioni conciliari prima della sua approvazione, nello stessotempo, alcuni vescovi contestavano al papa il diritto di porre fine a discussioni dogmati-che fuori dall’ambito di un concilio. Il vescovo Palladio, deposto più tardi al concilio di

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Aquileia (381), sostenne addirittura che il papa era un vescovo tra tanti altri e che Pietronon aveva mai rivendicato una prerogativa tra gli apostoli.

Dal punto di vista dottrinale, alcune formule furono felicemente trovate, comequella di Siricio (384-399), successore di Damaso, che applicò al papato l’espressione“sollecitudine di tutte le Chiese” (Cor 11, 28), ma rimanevano sprovviste di conseguenzegiuridiche pratiche, tranne il fatto, comunque importante, che Siricio è l’autore della pri-ma decretale pontificia, diretta nel 385 al vescovo Imerio di Tarragona. Tuttavia, la natu-ra del primato romano rimaneva discussa da autori importanti. A Milano, san Ambrogio,manifesta qualche reticenza a dare al primato di Roma un senso pieno: riconosce al papaun primatus ordinis, come successore di Pietro, ma mette in discussione il primatus ho-noris e il primatus iurisdictionis, e sottolinea invece l’uguaglianza tra gli apostoli e iloro successori, i vescovi (anche se nel De incarnationis dominicae sacramento ricono-sce il primato romano)54. Le lettere di san Girolamo (Ep. 15 e 16) vano nella stessa dire-zione.

Da canto suo, san Agostino non è molto chiaro sul primato romano. In occasionedel conflitto donatista, insiste sull’autorità dei sinodi, ma nella questione pelagiana faappello a Roma. Afferma a più riprese il primato di Pietro, perché la successione aposto-lica è garanzia dell’autenticità della fede e la Sede romana è quindi in grado di porrefine ai dibattiti sul dogma. In uno suo sermone (131, 10) troviamo la formula secondo laquale, con la decisione di Roma “la causa è conclusa” (causa finita est). Tuttavia, lastessa espressione viene anche utilizzata a proposito dei concili. L’autorità di Roma ten-de quindi ad affermarsi all’occasione delle crisi di fede, per combattere le eresie, che neiprocessi di appello quando una provincia dispone già di procedure e di tribunalid’appello fissati.

Concretamente, nella lotta contro il pelagianismo e nella controversia nestoriana,Zosimo (417-418) e Celestino I (422-432) affermano la loro autorità in materia di dottri-na e Cirillo d’Alessandria si rivolge a Roma affinché essa definisca la fede. SoprattuttoLeone Magno (440-461) insisti sul fondamento e l’autorità del primato in materia di di-sciplina ecclesiastica (Discorsi 4, 1-4, PL 54, 148-151) e di fede (Tomus ad Flavianum).Perciò, dichiarò nulle le decisioni del secondo concilio di Efeso del 449 e fecce convo-care un nuovo concilio a Calcedonia per il 451, invitando i vescovi a fare riferimentoalla fede che egli stesso aveva definito nella lettera a Flaviano. Infine, confermò le deci-sioni di Calcedonia del 451, tranne il famoso can. 28. Tale dottrina sul primato di Romaper fissare la fede, conferire autorità alle sentenze conciliari o ratificare i giudizi dellealtre grande sedi, fu ripresa da Gelasio (492-496), secondo cui soltanto la giurisdizionepontificia è sovrana nella Chiesa: “Ciò che la Santa Sede ha giudicato, tutta la Chiesa loaccetta” (Ep. 26). Invece, se il romano pontefice può giudicare la Chiesa, nessuno puòfare appello contro la sua sentenza.

Così viene assai chiaramente formulata la dottrina del primato di giurisdizione, chesi applicherà tuttavia di modo differente nelle tre principali aree dell’Impero, come hamostrato Pierre Batiffol55. L’esercizio del primato romano fu sopratutto effettivonell’Italia, specialmente suburbicaria, mentre nel resto dell’Occidente, la sua effettivitàdipese della conversione al cattolicesimo delle popolazioni germaniche, e riscontrònell’Oriente maggiori difficoltà.

54. Cf. Hans von Campenhausen, Ambrosius von Mailand als Kirchenpolitiker (Berlin: De Gruyter,1929).

55. Cf. Pierre Batiffol, Cathedra Petri: études d’histoire ancienne de l’Église, Unam sanctam 4 (Pa-ris: Cerf, 1938).

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In Occidente, le vicissitudini geopolitici plasmarono particolarmente la potestà digiurisdizione. Fino alla metà del VI secolo, i ricorsi alla sede romana furono numerosiper risolvere dispute disciplinari, nominare vicari apostolici e prendere decisioni tramitele decretali. La situazione cambiò dopo la metà del VI secolo con i disordini dovuti allaguerra tra i Gotti e l’Impero bizantino, che ebbe come conseguenza la sottomissionedell’Italia, Roma compresa, all’autorità bizantina, un allontanamento durevole tra Romae i regni germanici, tranne il periodo del pontificato di Gregorio Magno (590-604) conle sue spinte missionarie in tutto l’Occidente, e una autonomizzazione delle Chiese fran-che e visigote (ad esempio con l’istituzionalizzazione del primato di Toledo).

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5 LE ISTITUZIONI ECCLESIASTICHE NELLA SOCIETÀ FEUDALE (VI-XSECOLI)

5.1 LA CHIESA NELLA SOCIETÀ FEUDALE

5.1.1 Una feudalizzazione delle istituzioni ecclesiastiche?

L’entrata dei popoli germanici nel territorio dell’Impero romano ne ha radicalmen-te trasformato le strutture politiche, economiche e sociali. Il cristianesimo occidentaleha dunque dovuto adattarsi e passare da una cultura plasmata dal diritto romano, con lesue istituzioni e divisioni amministrative, la sua concezione del diritto pubblico… al di-ritto e soprattutto alle consuetudini giuridiche germaniche molto differenti in alcuni am-biti. La cultura germanica modifica in profondità gli istituti del matrimonio,l’organizzazione ecclesiastica ma soprattutto la struttura del patrimonio della Chiesa efavorisce la decentralizzazione e la privatizzazione dei rapporti giuridici, in una societàormai rurale.

La società feudale, nella sua complessità sociale, economica e politica, risultadall’incontro della cultura germanica con una struttura economico-sociale preesistente,già in fase di cambiamento, quando, all’occasione della crisi economica nel secolo IIIl’Occidente passò da una civilizzazione essenzialmente urbana sul modello romano, aun’organizzazione rurale, fondata sulla grande proprietà agricola. Quando i popoli ger-manici entrarono sul territorio dell’Impero, questi latifondi furono la base economica esociale sulla quale si sviluppò la società feudale.

La Chiesa fu profondamente coinvolta in questo processo che riorganizzò l’insiemedella società e quindi l’intera vita dei cristiani. Per quanto riguarda lo sviluppo storico 56,nel V e VI sec., la Chiesa franca diventò sempre più dipendente dalla dinastia merovin-gia, che si arrogò la scelta dei vescovi nonché il controllo dei concili. Tale dipendenzainvesti il patrimonio ecclesiastico. In un primo momento, con la conversione dei Fran-chi, il patrimonio ecclesiastico crebbe considerevolmente con i doni mobili e immobilifatti dai nobili, ma senza garanzia di stabilità, perché i re franchi non esitarono ad espro-priare questi beni ecclesiastici, nel momento di finanziare le campagne di guerra.

Le guerre permanenti tra le popolazioni germaniche, contro gli Arabi (pervenuti aPoitiers nel 732) a partire del VII secolo, e poi all’occasione delle conquiste di Carloma-gno, resero necessaria una strutturazione dell’esercito franco. Per assicurare il suo man-tenimento, Carlo Martello e i suoi successori, pur riconoscendo il diritto di proprietàdella Chiesa, incamerarono la proprietà ecclesiastica su larga scala e ne affidarono la tu-tela ai signori. In cambio del conferimento di terre, che offrivano i mezzi economici(“beneficio”) destinati a mantenere armati e cavalli, i signori “vassalli” promisero alconcessionario fedeltà e aiuto in tempo di guerra. I vassalli concederono a loro voltaporzioni più o meno estese a vassalli di rango inferiore, creando così una catena di rela-zioni di sub-infeudazione.

Oltre il crollo finanziario delle strutture ecclesiastiche, questa espropriazione e se-colarizzazione dei beni ecclesiastici rovesciò la struttura istituzionale della Chiesa e pro-vocò non solo la vacanza delle sedi metropolitane, ma anche l’occupazione delle sedivescovili da parte di laici e chierici, e, ovviamente, l’interruzione della prassi sinodale e

56. Cf. Jean Imbert, Les temps carolingiens, 741-891, Histoire du droit et des institutions de l’Égliseen Occident, 5.1-2 (Paris: Cujas, 1994), lib. 1; Gaudemet, Storia, 190; Fantappiè, Storia, 77–78.

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una decadenza della vita morale di tutto il clero. I vescovi delle diocesi più importantidiventarono loro stesso feudatari del re e i monasteri furono equiparati a grandi proprie-tari terrieri.

Il funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche si assimilò quindi alle pratiche ci-vili. Nell’ambito civile, il beneficio serviva a garantire il servizio militare, mentrenell’ambito ecclesiastico, serviva di dotazione patrimoniale (terre, edifici) assegnata sta-bilmente all’esercizio di un ufficio ecclesiastico e permetteva di remunerare i chiericiche erano al suo servizio. A un ufficio era quindi sempre assegnato un beneficio, checondizionava anche le ordinazioni sacerdotali. Questo stesso sistema del beneficio strut-turò il patrimonio ecclesiastico fino al Codice del 1983.

Acanto al beneficio, l’immunità è la seconda nozione chiave per capire l’inseri-mento delle istituzioni ecclesiastiche nel sistema feudale. Il termine designa l’esenzioneda oneri e contribuzioni e, più tardi, il divieto di esercitare atti di forza su persone e beniecclesiastici. Vescovi e abati godono, per le chiese e i monasteri, dell’immunità da qual-siasi intervento degli ufficiali pubblici nelle terre costituenti il patrimonio fondiario.L’immunità attribuisce ai vescovi e agli abati il potere di giudicare i religiosi che da lorodipendono, ma anche i laici che vivono e servono entro i confini delle terre beneficiali.

Arriviamo a un terzo istituto caratteristico della Chiesa all’epoca della feudalità,cioè il fenomeno delle Chiese private o proprie. Si tratta di un edificio ecclesiastico,cappella, chiesa o addirittura monastero, costruito da un laico o da una corporazione dicontadini su un terreno della loro proprietà. A questa costruzione è legato un fondo o deibeni immobili necessari per la sussistenza del clero o dei monaci che vi risiedono. Incambio, il fondatore si riserva alcuni diritti: conserva il diritto di proprietà, può sfruttarele rendite, alienare, permutare o donare l’edificio, dimettere o nominare il chierico tito-lare (ius patronatus). Può anche prendere in tutto o in parte i beni (ius spolii), ricevere lerendite durante la vacanza di sede (ius regaliae), imporre una tassa sulla celebrazionedei sacramenti (decima), nonché ricevere i diritti di stola, offerte dei fedeli in occasionedell’amministrazione di sacramenti o di servizi religiosi57.

Il sistema del beneficio o della chiesa propria diventa per la Chiesa il fondamentodello suo sviluppo e la garanzia della perennità della sua missione, ma anche il principiodella sua organizzazione territoriale con la parcellizzazione delle circoscrizioni che nerisulta. Le parrocchie e il clero rurale acquistano infatti durante questo periodo una piùgrande autonomia rispetto al vescovo. Nei primi tempi dell’evangelizzazione, i sacra-menti erano celebrati essenzialmente nella chiesa-madre al centro della diocesi, sotto ilcontrollo diretto del vescovo. Colla ruralizzazione della società e la moltiplicazione de-gli edifici di culto nelle campagne, si svilupparono le chiese-figlie, le “pievi” (dal latinoplebs) perché nel sacramento del battesimo, li amministrato dal pievano, nasceva il po-polo di Dio. Le parrocchie ne sono la ramificazione ulteriore, che portano i sacramentinelle località più distanti e che disporranno anche presto di fonte battesimale. Così sistruttura la gerarchia territoriale dei luoghi di culto e del clero, col vescovo alla sommitàe i semplici parroci al livello più basso. La Chiesa rispecchia la struttura discensiva feu-dale58.

Tali cambiamenti mettono a fuoco la problematica della compatibilità della struttu-ra ecclesiastica con qualsiasi struttura sociale ed economica e invita a discernere quali

57. Su questo aspetto, molto studiato e discusso dopo i primi studi di Ulrich Stutz, cf. Susan Wood,The Proprietary Church in the Medieval West (Oxford (UK) ; New York: Oxford University Press, 2006),https://www.oxfordscholarship.com/view/10.1093/acprof:oso/9780198206972.001.0001/acprof-9780198206972.

58. Cf. Andrea Padovani, Quadri da una esposizione canonistica (Venezia: Marcianum Press, 2019),39.

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sono i criteri essenziale di una organizzazione giusta, suscettibile di garantire l’indipen-denza e il sostentamento del clero, senza però tradire la natura della Chiesa e il messag-gio evangelico59.

Durante i primi secoli, la Chiesa aveva conosciuto un’organizzazione privata delculto. La predicazione e la celebrazione dei sacramenti si svolgevano in edifici privati,messi a disposizione dai fedeli stessi. Dopo l’edito di Milano, la Chiesa entrò pienamen-te nel sistema giuridico romano e poté godere di una forma pubblica di proprietà degliedifici. Con il sistema delle chiese proprie, diritto pubblico e privato si trovano di nuovomescolati. La privatizzazione del patrimonio ecclesiastico produce la sua frammentazio-ne: le chiese private scappano in grande parte all’amministrazione del vescovo e il restodel patrimonio viene diviso in porzioni attribuite al vescovo (mensa episcopalis), al ca-pitolo della chiesa cattedrale (mensa capituli), ai singoli chierici che in essa ricopronoun determinato ufficio (praebenda).

Fino a che punto la Chiesa può accomodarsi di un sistema fondato sul concetto diproprietà privata plasmato dal diritto germanico, ma soprattutto dalle circostanze politi-che, sociali ed economici? Come valutare gli effetti della secolarizzazione dei beni ec-clesiastici? Il fenomeno non soltanto ha precipitato un cambiamento della strutturapatrimoniale, ma ha anche generato una crisi della struttura tradizionale della gerarchiae delle istituzioni. Soprattutto, il rischio principale del sistema delle chiese private risie-deva nel fatto che i chierici, assegnati a tali chiese, scelti dal proprietario della chiesa,dal quale ricevevano inoltre il sostentamento economico, sfuggivano all’autorità del ve-scovo. Era quindi difficile in tali circostanze per le autorità ecclesiastici di mantenere uncerto controllo sul clero, sulla sua formazione, l’integrità della sua fede e della sua vita.

5.1.2 Aspetti istituzionali della riforma carolingia

L’inizio dell’epoca carolingia fu segnata da un tentativo di riforma ecclesiastica apiù livelli, promossa sia dal potere spirituale che da quello temporale, che confluirononel modello della “cristianità medievale”, cristallizzazione politica, sociale, culturale espirituale di una unione che mantiene la loro distinzione ma le unisce profondamentenello stesso tempo. In senso stretto, non si può parlare di fusione tra potere politico e or-dinamento ecclesiastico come all’epoca bizantina col cesaropapismo60. I rapporti sonopiuttosto caratterizzati da una integrazione reciproca, al servizio d’interessi convergenti:il potere temporale offre alla Chiesa la sua protezione ed è anche strumento d’evangeliz-zazione delle popolazioni ancora pagane. Da parte sua, la Chiesa conferisce al poteretemporale il prolungamento temporale della sua missione, con il compito di creare lecondizioni materiali dell’espansione apostolica e della protezione della sua organizza-zione terrena61.

L’integrazione tra potere spirituale e temporale caratterizza anche il processo di ri-forma delle strutture ecclesiastiche. Fu in grande parte attuato dallo stesso Carlomagno,al servizio di una romanizzazione della Chiesa, per promuovere una uniformazione delladisciplina in tutto l’Impero carolingio. La preservazione della stretta unione con Romasi operò attraverso la delimitazione delle competenze del papa e dell’imperatore e attra-

59. Per la problematizzazione di questo paragrafo, cf. Fantappiè, Storia, 76–78.60. Cf. Fantappiè, 79.61. Su questo aspetto e l’utilizzo delle nozioni contrastante di auctoritas e potestas nel rapporto tra il

potere spirituale e il potere temporale, cf Yves Sassier, «Auctoritas pontificum et potestas regia : faut-il te-nir pour négligeable l’influence de la doctrine gélasienne aux temps carolingiens ?», in Le pouvoir auMoyen Âge : Idéologies, pratiques, représentations, a c. di Claude Carozzi e Huguette Taviani-Carozzi,Le temps de l’histoire (Aix-en-Provence: Presses universitaires de Provence, 2017), 213–36, http://books.openedition.org/pup/5857.

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verso il peculiare rapporto che si instaurò tra il papa e gli arcivescovi con l’invio el’imposizione del pallium62. Carlomagno richiese inoltre al papa l’invio di libri romaniper servire di base alla riforma ecclesiastica. Papa Adriano I fecce pervenire il sacra-mentario gregoriano per la riforma liturgica, la Regola di san Benedetto per la riformamonastica e la Collectio dionysiana per la riforma disciplinare.

La riforma carolingia si diffuse nell’Impero grazie agli capitularia ecclesiastica,leggi imperiali divise in piccoli capitoli63, direttamente emanati dall’imperatore in accor-do con i vescovi franchi. Regolavano la vita del clero, cercavano di unificare le regole ele consuetudine monastiche sul modello benedettino, controllavano l’osservanza delladisciplina nei monasteri e la loro amministrazione. Organizzavano il finanziamento delpatrimonio ecclesiastico.

Un altro vettore della riforma furono ovviamente i concili provinciali, numerosi inquesto periodo, per promuovere un rinnovo della vita del clero e dei monaci. I concili ri-formatori si rivolgono più alla rigenerazione morale del clero e al ripristino della gerar-chia ecclesiastica che alla formazione intellettuale e dogmatica. Si manifesta soprattuttola volontà d’imporre la disciplina contenuta nelle collezioni di diritto antico64. Inoltre,un rafforzamento dell’attività legislativa dei vescovi nelle loro diocesi ha portato ad unanuova letteratura chiamata capitula episcoporum65. In queste disposizioni, emanate per-sonalmente dal vescovo o in occasione della celebrazione dei sinodi diocesani, si con-cretizzano le disposizioni del diritto universale, sollecitandone il compimento. I fruttidella riforma carolingia per la disciplina ecclesiastica sono molto variegati. Si segnalanoin particolare le disposizioni riguardanti la riforma del clero e dei monaci, con l’istitu-zione di esami di preordinazione e le conoscenze di base obbligatorie del latino66. Ilcompito della riforma disciplinare del clero è stato affidato dapprima a Bonifacio, arci-vescovo di Magonza, e dopo la sua morte come martire nel 774, da Crodegango, vesco-vo di Metz.

5.2 LO SCONTRO DEI MODELLI ORGANIZZATIVI NELL’EPOCA CAROLINGIA

5.2.1 La Chiesa confrontata alle crisi politiche e il fenomeno delle false decretali

La riforma carolingia fu purtroppo di breve durata. Per sintetizzare le intrecciatevicissitudini politiche, alla morte di Carlomagno nel 814, l’impero fu diviso e si succe-derono rivalità e guerre civili per la successione tra Ludovico I il Pio, figlio di Carloma-gno e i suoi propri figli. Alla morte di Ludovico I nel 840, la disputa tra i fratellicontinuò in una guerra civile fino al trattato di Verdun nel 843, che divise il regno franco

62. Cf. Steven A. Schoenig, Bonds of Wool: The Pallium and Papal Power in the Middle Ages (Wa-shington, D.C: The Catholic University of America Press, 2016).

63. Cf. Viktor Krause e Alfred Boretius, a c. di, Capitularia regum Francorum, Monumenta Germa-niae historica. [Leges]. Capitularia regum Francorum, 2.1-3 (Hannoverae: Impensis Bibliopolii Hahniani,1980). Anche su internet: www.dmgh.de. Philippe Depreux, Stefan Esders, Michael Glatthaar, Steffen Pa-tzold and Karl Ubl editano anche i Capitularia: https://capitularia.uni-koeln.de/en/

64. Cf. Albert Werminghoff, a c. di, Concilia aevi Karolini, [742-842], Monumenta Germaniae hi-storica. [Leges]. Concilia, 2.1-2 (Hannoverae ; Lipsiae: Impensis Bibliopolii Hahniani, 1908). Su internet:www.dmgh.de.

65. Cf. Gerhard Schmitz, «Capitula episcoporum», in Diccionario general de derecho canónico(Pamplona: Universidad de Navarra, 2012).

66. Il contenuto della riforma carolingia per la vita del clero viene dettagliato nell’analisi di Carinevan Rhijn, Shepherds of the Lord: Priests and Episcopal Statutes in the Carolingian Period , Cultural en-counters in late antiquity and the Middle Ages (Turnhout: Brepols, 2007).

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in tre parti. La realtà del potere politico si trovò frazionata nei principati e nei regni, se-condo il sistema feudale.

La situazione politica non rimasse senza conseguenze sulla Chiesa, così legata allevicende politiche. La guerra civile tra Ludovico I il Pio e i suoi figli nei territoridell’Impero portò alla distruzione di gran parte della riforma ecclesiastica intrapresa daCarlomagno con attacchi al patrimonio ecclesiastico e ai stessi ecclesiastici. La debolez-za dell’autorità pontificia e imperiale favorì la disorganizzazione della struttura gerar-chica: i vescovi non potevano resistere alle pretese giurisdizionali eccessive di alcuniarcivescovi molto legati al potere politico; i capitularia ecclesiastica non erano più ingrado d’imporre le riforme ecclesiastiche cominciate sotto Carlomagno e la Chiesa, le-gata dal sistema di “chiesa propria” perse completamente la sua libertà nel confrontodella nobiltà feudale.

È in questo contesto che si sviluppò il fenomeno delle false decretali. Nascono daldesiderio di avviare la riforma carolingia in un momento dove sembra impossibile rea-lizzarla con mezzi legali. Le false decretali cercavano non solo di rimediare agli abusinati dalla commistione tra l’ambito temporale e quello spirituale, ma anche di garantirel’indipendenza e la libertà della Chiesa rispetto alle strutture temporali, per evitare lacorruzione della disciplina ecclesiastica che ne derivava67. Propongono un modello isti-tuzionale rilevante, perché verrà ripreso due secoli più tardi.

Per capire il fenomeno delle false decretali, bisogna tornare sul contesto immediatodella loro realizzazione. Nel 833, l’arcivescovo di Reims Ebbo, con l’appoggio di papaGregorio IV aveva presieduto a Compiègne un’assemblea per destituire Ludovico I, cheritrovò però nel 834 il trono imperiale e convocò un concilio a Thionville per il 2 febbra-io 835, in vista dell’annullamento del procedimento relativo alla sua deposizione del833. Sotto la pressione dell’imperatore, i 43 vescovi presenti, sotto la presidenza di Dro-gone di Metz (fratellastro di Ludovico I) accusarono Ebbo, principale autore e disappro-veranno per scritto gli atti dell’assemblea del 833. Avendo confessato la loro colpa,Ebbo, tre altri arcivescovi (Agobardo di Lione, Bernardo di Vienne, Bartolomeo di Nar-bonne) e i vescovi di Troyes, Auxerre, Beauvais, Amiens, ed Evreux, che avevano ap-poggiato la deposizione, soprattutto imponendo una penitenza per la vita

67. L’opera fondamentale per studiare queste collezioni è quella di Horst Fuhrmann, Einfluss undVerbreitung der pseudoisidorischen Fälschungen: von ihrem Auftauchen bis in die neuere Zeit, Monu-menta Germaniae historica. Schriften der Monumenta Germaniae historica, 24.1-3 (Stuttgart: A. Hierse-mann, 1972); «Stand, Aufgaben und Perspektiven der Pseudoisidorforschung», in Fortschritt durch Fäl-schungen?, a c. di Wilfried Hartmann e Gerhard Schmitz, vol. 31, Monumenta Germaniae Historica. Stu-dien und Texte (Hannover, 2002), 227–62. Per una sintesi cf. Horst Fuhrmann e Detlev Jaspers, «PapalLetters of the Early Middle Ages», in History of Medieval Canon Law, a c. di Kenneth Pennington e Wil-fried Hartmann, vol. 2 (Waschington D.C.: The Catholic Univsersity of America Press, 2001). Esiste sultema una ampia bibliografia. Menzioniamo soltanto i studi più recenti di Klaus Zechiel-Eckes, «Ein Blickin Pseudoisidors Werkstatt. Studien zum Entstehungsprozeß der falschen Dekretalen. Mit einem exempla-rischen editorischen Anhang (Pseudo-Julius an die orientalischen Bischöfe, JK 196)», Francia 28 (2002):37–90; Karl-Georg Schon, Die Capitula Angilramni: eine prozessrechtliche Fälschung Pseudoisidors,Monumenta Germaniae historica. Studien und texte 39 (Hannover: Hahn, 2006); «Auf PseudoisidorsSpur. Oder: Versuch, einen dichten Schleier zu lüften», in Fortschritt durch Fälschungen?, a c. di Wil-fried Hartmann e Gerhard Schmitz, vol. 31, Monumenta Germaniae Historica. Studien und Texte (Hanno-ver, 2002), 1–28; «Zur Frühgeschichte der falschen Dekretalen Pseudoisidors», in Proceedings of theThirteenth International Congress of Medieval Canon Law: Esztergom, 3 - 8 August, 2010, 139–48; «Falsi-ficaciones Pseudoisidorianas», in Diccionario general de derecho canónico (Pamplona: Universidad deNavarra, 2012); «Decretales Pseudoisidorianas», in Diccionario general de derecho canónico (Pamplona:Universidad de Navarra, 2012); Eric Knibbs, «Ebo of Reims, Pseudo-Isidore and the Date of the False De-cretals», Speculum 92 (2017): 144–83. Per risultati più recenti: http://www.pseudoisidor.mgh.de di KarlGeorg Schon (la pagina non è più aggiornata) e https://pseudo-isidore.com/ di Eric Knibbs.

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presumibilmente peccaminosa del re, persero il loro ufficio. Il 28 febbraio 835 Ludovicovenne riconsacrato con una solenne cerimonia nella cattedrale di Metz da Drogone.

Ebbo, riabilitato per poco tempo a Reims nel 840-841, periodo nel quale ordinò al-cuni sacerdoti, fu infine nuovamente deposto a beneficio di Hincmar. Nonostante ciò,Ebbo stesso o i sacerdoti ordinati da lui continuarono una lotta giuridica fino al conciliodi Soissons del 853, con lo scopo di riabilitare il loro vescovo, e convalidare così la loropropria ordinazione. Secondo i loro argomenti, Ebbo, avendo riconosciuto la sua colpaai vescovi sotto forma di confessione, non poteva essere processato da loro e non avevaquindi avuto un processo equo68.

Per raccogliere un materiale di natura a garantire ai chierici incriminati lo svolgi-mento di una procedura rispettosa dei diritti della difesa, i falsificatori si trovarono da-vanti a un problema di vuoto normativo, perché le raccolte precedenti (Dyonisio-Hadriana e Hispana nella sua versione Gallica) non offrivano disposizioni direttamenteattinenti a queste nuove problematiche. Inoltre, il ricorso alle autorità superiori (papa oimperatore) era ormai impossibile. L’unica soluzione fu di sfruttare il prestigio dell’anti-co diritto canonico, facendo dire a quest’ultimo ciò che era necessario per il presente.Non si trattava di un procedimento nuovo, ma non era mai stato portato avanti con talesistematicità.

I falsificatori si concentrarono sopratutto sul processo penale, attribuendo falsa-mente ai papi martiri dei primi secoli norme che rendevano molto difficile e pericolosal’accusa di un vescovo. Affermavano che un vescovo poteva essere condannato soltantoda 72 altri vescovi, e aveva sempre la possibilità di appellarsi a Roma… Condizioni cherendevano una condanna pressoché impossibile. Allo stesso modo, l’argomentazione deifalsificatori aveva come scopo di diminuire il potere dei metropoliti nei quali non ave-vano nessuna fiducia: ai vescovi suffraganei si riconosceva quindi il diritto di appellareal papa contro una decisione del metropolita.

Come nota Orazio Condorelli, i falsificatori operano in un “contesto di un generaleprogetto di riforma della disciplina ecclesiastica sotto il segno del ritorno alla tradizionee dell’affermazione del primato della Sede apostolica. Un progetto che si orientò princi-palmente verso due fini: da un lato la difesa della libertas Ecclesiae, diretta a eliminareo almeno a ridurre le ingerenze abusive delle autorità secolari su di una Chiesa già essastessa alquanto compromessa con il temporale; dall’altro l’esaltazione del ruolo e delladignità dell’episcopato attraverso un’attenta ed equilibrata definizione dell’organizza-zione ecclesiastica”69.

Tra le principali motivazioni dei falsificatori, troviamo quindi il desiderio di rimuo-vere i vincoli che legano la Chiesa al potere civile e di restituire i beni ecclesiastici allaloro finalità esclusivamente spirituale. Vogliono anche affermare il privilegio del forocon una procedura processuale imparziale e giusta per proteggere i vescovi delle inge-renze delle autorità secolari e delle pretensioni dei metropoliti. Perciò, è necessario chegli ecclesiastici accusati non siano spogliati dei loro beni e privati delle loro cariche pri-

68. Cf. Franck Roumy, «Les origines pénales et canoniques de l’idée moderne d’ordre judiciaire», inDer Einfluss der Kanonistik auf die europäische Rechtskultur. 3: Straf- und Strafprozessrecht , a c. diFranck Roumy et al., vol. 3, Norm und Struktur 37 (Köln ; Weimar ; Wien: Böhlau, 2009), 322–23. LindaFowler-Magerl, Ordo iudiciorum vel ordo iudiciarius: Begriff und Literaturgattung, Ius commune. Son-derhefte (Frankfurt am Main: V. Klostermann, 1984), 14.

69. Orazio Condorelli, Ordinare - iudicare: ricerche sulla potestà dei vescovi nella Chiesa antica ealtomedievale, secoli II-IX, I libri di Erice 18 (Roma: Il cigno Galileo Galilei, 1997), 124.

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ma del compimento del giudizio70. Inoltre, il tribunale deve essere costituito secondo leregole canoniche, con la possibilità di fare appello davanti alla della Sede apostolica.

5.2.2 Roma, i vescovi e i metropoliti

Oltre al processo, i falsificatori promuovano la potestà dei vescovi e quella supre-ma del romano pontefice e ridimensionano l’istanza intermedia dei metropoliti, attraver-so cui il potere temporale aveva una maggiore ingerenza. L’impresa dei falsificatori puòquindi anche essere ricollegata a una concezione organica del mondo cristiano che privi-legia una gerarchia fondata sulla centralità del ruolo del papa e la gerarchia episcopale71.Come osserva Condorelli:

La riproposizione dell’ordine tradizionale, costituito da parrocchie, diocesi e pro-vince ecclesiastiche, si accompagna a una serrata lotta contro il corepiscopato, nonchéall’invenzione di un’istanza gerarchica intermedia fra i metropoliti e la Sede apostoli-ca, quella dei primati-patriarchi. Il rapporto tra suffraganei e metropoliti costituisceuno fra i punti dolenti che maggiormente assillano i falsari, preoccupati soprattutto dimettere al riparo i primi dalle ingerenze e dagli abusi perpetrati dai secondi. Si ponevapertanto l’esigenza di riaffermare con forza il principio che le circoscrizioni territorialivanno rispettate, così come le competenze di ciascun vescovo72.

Si potrebbe anche affermare, come ha notato Fantappiè, che ci troviamo davanti a uncambiamento di “strategia ecclesiale” nel IX secolo, nei confronti della visione ecclesio-logica antica di Hincmar, arcivescovo di Reims dal 845 al 882, per il quale “la Chiesa èl’insieme delle Chiese locali in comunione nella stessa fede ed eucaristia, i vescovi for-mano un collegio, il papa gode del privilegio primaziale all’interno del suddetto colle-gio, ma sempre nel rispetto delle competenze territoriali di ciascun grado gerarchico:vescovi, metropoliti (patriarchi), papa”73.

70. II principio è espresso in limine nella stessa Isidori Praefatio alle False Decretali, c. 6. Cf. PaulHinschius, a c. di, Decretales Pseudo-Isidorianae et Capitula Angilramni (Leipzig, 1863), 18.: “Nullusenim, qui suis est rebus spoliatus, aut sede propria vi aut terrore pulsus, antequam omnia sibi ablata ei le-gibus restituantur, et ipse pacifice diu suis fruatur honoribus, sedique propriae regulariter restitutus eiusmulto tempore libere potiatur honore, iuxta canonicam accusari, vocari, iudicari aut dampnarì institutio-nem potest...”

71. Cf. Agostino Marchetto, Episcopato e primato pontificio nelle decretali pseudo isidoriane: ricer-ca storico-giuridica (Roma: Pontificia università Lateranense, 1971).

72. Condorelli, Ordinare - iudicare, 132. A proposito della lotta contro i corepiscopi, cf. Klaus Ze-chiel-Eckes, «Der “unbeugsame” Exterminator?: Isidorus Mercator und der Kampf gegen den Chorepi-skopat», in Scientia Veritatis: Festschrift für Hubert Mordek zum 65. Geburtstag, a c. di Oliver Münsch eThomas Zotz (Ostfildern: Jan Thorbecke Verlag, 2004), 173–90.

73. Fantappiè, Storia, 81. Su Hincmar di Reims, cf. Rachel Stone e Charles West, a c. di, Hincmar ofRheims: Life and Work (Manchester: Manchester University Press, 2016). Sulla sua prospettiva ecclesiolo-gica: Yves Congar, L’ecclésiologie du haut Moyen Âge: de saint Grégoire le Grand à la désunion entreByzance et Rome (Paris: Cerf, 1968), 166–77.

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6 CRISI E RIFORMA DEL SISTEMA FEUDALE (X-XII SEC.)

6.1 LA PROBLEMATICA ISTITUZIONALE

6.1.1 Il sistema della “Chiesa imperiale”: elezione pontificia e nomina dei vescovi

Dalla tarda antichità, il processo di nomina dei vescovi era profondamente cambia-to, con la progressiva penetrazione del sistema feudale nelle istituzioni ecclesiastiche.Nel periodo merovingio nella Gallia e quello visigotico nella Spagna, il monarca inter-veniva di modo preponderante nella designazione dei vescovi74. La riforma carolingiaistituzionalizzò in qualche modo queste pratiche: Carlomagno designava direttamente ilprimo titolare di un vescovado, e la sua volontà era comunque determinante in tutte lealte provvisioni. Un capitolare di Ludovico il Pio ripristinò la norma tradizionaledell’elezione da parte del clero e del popolo, ma la prassi continuò a essere diversa, equindi, per procedere a un’elezione, si doveva sempre richiedere una espressa licenzadel sovrano, il quale si riservava inoltre la facoltà di confermare l’eletto.

Dopo la divisione dell’impero con il trattato di Verdun, il sistema “misto” osserva-to al tempo di Ludovico il Pio si mantene nel regno franco, mentre nel regno germanicoi grandi signori si arrogarono la facoltà di designare i vescovi nei propri territori. Laproblematica della nomina dei vescovi si estese a l’elezione pontificia quando, il 2 feb-braio 962, Ottone I fu incoronato a Roma da papa Giovanni XII come imperatore delSacro romano impero. In un periodo nel quale l’elezione del romano pontefice eral’oggetto della rivalità delle grandi famiglie romane, Ottone offrì ai papi una protezionecontro queste fazioni, in cambio del controllo della loro elezione. Il Privilegium Ottonisdel 963 stabilì che l’elezione papale richiedeva il placet dell’imperatore e l’eletto nonpoteva essere consacrato prima di ricevere la sua ratifica e di avere prestato il giuramen-to di fedeltà. Infine, due legati imperiali dovevano essere presenti alla consacrazione.

Per quanto riguarda l’elezione dei vescovi sul territorio dell’impero, di modo paral-lelo, Ottone riservò a sé il diritto di procedere alle nomine episcopali. Tale sistema della“Chiesa imperiale” offriva importanti vantaggi al monarca germanico, perché, alla mor-te dei vescovi, senza prole legittima che potesse ricevere in eredità i benefici, il feudo ri-tornava all’imperatore, evitando così la graduale perdita dei possedimenti e permettendola ridistribuzione permanente dei territori a personaggi della sua scelta. Inizialmente Ot-tone assegnò ai vescovi i poteri di governo e polizia sulla città e sul territorio immedia-tamente circostante. In seguito i poteri furono estesi al livello di contea, creando dei verie propri vescovi-conti. L’ordinazione vescovile stessa diventa oggetto di simonia, taleun investimento presto ricuperato tramite i benefici feudali accompagnando il titolo ve-scovile.

Oltre la provvista delle sedi episcopali, Enrico II (1002-1024) convocò anche i sino-di imperiali e decise la destituzione e nomina degli abati. Nel rito dell’investitura, i ve-scovi ricevevano simbolicamente i segni pastorali del bastone e dell’anellodall’imperatore e, praticamente, i benefici connessi con la cattedra episcopale (terre, im-munità, giurisdizioni). Definitivamente infeudati nelle strutture imperiali, gli ecclesiasti-ci si distaccano progressivamente dall’obbedienza romana. Tuttavia, Enrico II non siinteressò molto all’elezione del romano pontefice, che ricadde nelle mani dei grandiclan feudali romani, generando un nuovo periodo di decadenza. Alla fine del regno di

74. Riprendiamo in questo paragrafo la sintesi di José Orlandis, Le istituzioni della Chiesa cattolica:storia, diritto, attualità, Universo teologia 82 (Cinisello Balsamo: San Paolo, 2005), 113–14.

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Enrico II, il sistema della Chiesa imperiale si rivelava essere finalmente un vero ostaco-lo per l’autonomia e l’indipendenza della Chiesa, generalizzando inoltre la decadenzadella disciplina del clero con i fenomeni della simonia e dell’incontinenza del clero.

6.1.2 La riforma dell’elezione pontificia e la lotta delle investiture

Sembra difficile datare il momento della svolta e del punto di partenza alla cosid-detta “riforma gregoriana”. Possiamo al massimo segnalare gli eventi che precipitaronola crisi istituzionale verso la meta del XI sec. Per evitare l’intromissione delle famiglieromane nell’elezione del romano pontefice, Enrico III (1039-1056) si fece conferire il ti-tolo di Patricius Romanorum, che li permetteva di designare i candidati, in seguito eletticanonicamente da parte del clero e del popolo. L’intervento imperiale ebbe un effettopositivo sulle elezioni, perché permise l’ascesa di papi riformatori al soglio pontificio.Così, quando il sinodo di Sutri depose simultaneamente, nel dicembre 1046, Grego-rio VI, Benedetto IX e Silvestro III (le due ultimi per simonia), Enrico III designò unaserie di papi tedeschi. Il primo, Suidger, vescovo di Bamberga fu eletto papa con ilnome di Clemente II, e dopo la sua abdicazione nell’ottobre 1047, Enrico III scelse Leo-ne IX (1049-1054). Il nuovo papa si circondò di riformatori (Ildebrando, futuro Grego-rio VII) e, nell’ottobre 1049, convocò a Reims un concilio per condannare la simonia e ilnicolaismo. Dopo la morte di Leone IX, Enrico III designò Vittorio II (1054-1057), chesegue la stessa politica riforma del papato, senza però poter fermare le investiture lai-che, fondamento del sistema della Chiesa imperiale.

Dopo la morte di Enrico III nel 1056, il papa Niccolò II (1058-1061), approfittandodella minore età di Enrico IV, promulgò, all’occasione del sinodo romano del 1059, undecreto che pose fine alle ingerenze dell’aristocrazia romana nell’elezione pontificia.Promulgato il 12 aprile 1059 con la bolla In nomine Domini, il decreto stabiliva chel’elezione fosse una prerogativa dei cardinali vescovi, cui solo in un secondo tempo po-tevano aggiungersi il clero e i laici. In caso d’impossibilità di tenere l’elezione a Roma(in caso di pressioni o di minacce), questa poteva anche svolgersi validamente un altroluogo. L’applicazione della nuova norma non risultò facile e alla morte di Niccolò II nel1061 ebbe luogo un confronto tra i cardinali e la nobilita romana seguito da una doppiaelezione. Il papa Alessandro II, eletto dai cardinali fu finalmente riconosciuto come le-gittimo papa da una commissione imperiale.

Alla morte di Alessandro II, il 2 aprile 1073, Ildebrando di Sovana, vicinoall’ambiente riformatore del monastero di Cluny, e promotore della riforma ecclesiasticadurante i pontificati anteriori, fu eletto papa e prese il nome di Gregorio VII. Ricevete ilsacerdozio il 22 maggio e fu consacrato vescovo e poi intronizzato i 29 e 30 giugno del-lo stesso anno. Per mettere fine al sistema dell’investitura laica, all’occasione del sinodoromano di 1075, vietò ai laici, sotto pena di scomunica, di procedere a qualsiasi investi-tura ecclesiastica. Minacciato nel suo ius patronatus, Enrico IV convocò a Worms unaassemblea di vescovi tedeschi per deporre il Papa. In risposta, Gregorio VII scomunicòEnrico IV e sciolse i suoi sudditi dai loro legami di fedeltà. Enrico IV, avendo perduto ilconsenso di molti sudditi, chiese perdono al Papa a Canossa nel 1077. Proseguì comun-que nella propria opposizione alla riforma e, dopo una seconda scomunica, non chieseperdono al Papa, intronizzando invece un altro papa a Roma. Gregorio VII dovette sfug-gire a Salerno dove morì in esilio nel 108575.

75. Sulla lotta per le investiture, cf. Rudolf Schieffer, Die Entstehung des päpstlichen Investiturver-bots für den deutschen König, Schriften der Monumenta Germaniae historica 28 (Stuttgart: A. Hierse-mann, 1981); Rudolf Schieffer, Papst Gregor VII: Kirchenreform und Investiturstreit, Beck’sche ReiheC.H. Beck Wissen 2492 (München: C.H. Beck, 2010). Una sintesi sottolinea la continuità di questo perio-

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La lotta delle investiture prosegue fino al col concordato di Worms nel 1122, in cuil’imperatore Enrico V rinunciava al diritto d’investire i vescovi dell’anello e del bastonepastorale, simboli del loro potere spirituale, restituendo al solo romano pontefice talefunzione. Il papa Callisto II riconosceva all’imperatore il diritto di essere presente alleelezioni episcopali, in Germania, purché compiute senza simonia né violenza, e d’inve-stire i prescelti dei loro diritti feudali. Il concordato di Worms fu ratificato dal I concilioLateranense (1123).

Tuttavia, negli anni successivi, non si raggiunse una disciplina generale sulle nomi-ne dei vescovi. Il II concilio Lateranense (1139) richiese la presenza di laici (viri religio-si) nelle elezioni episcopali, benché questa norma sia stata raramente osservata e poiespressamente proibita da Gregorio X. Il III concilio Lateranense (1179) volle che i can-didati all’episcopato fossero figli legittimi e avessero compiuto trent’anni, requisiti chefurono dispensati in molte occasioni. Sotto Innocenzo III, il IV concilio Lateranense(1215) affidò le elezioni episcopali esclusivamente al capitolo della cattedrale. In pratica,la prassi della designazione da parte del re o della nomina diretta dal papa rimane diffu-sa76. La Santa Sede utilizzava in questo caso il suo ius devolutionis, regolato dalla decre-tale Cupientes di Niccolò III (1278): nel caso in cui un’elezione fosse annullatadall’autorità papale, il pontefice nominava il vescovo. Ancora più spesso, il papa proce-dette direttamente alla nomina di un grande numero di sedi vescovili.

Per quanto riguarda le elezioni pontificie, il can. 1 del III concilio Lateranense(1179) stabilì una maggioranza di due terzi dei cardinali membri del collegio elettorale,senza però precisare che succedeva nel caso in cui tale maggioranza qualificata non ve-nisse raggiunta, anche dopo numerose votazioni. Questo problema si tradurrà in lunghiperiodi di sede vacante, soprattutto nella seconda meta del XIII secolo. Per rimediare aquesti interregni, e obbligare i cardinali a eleggere il papa in tempi brevi, Gregorio X,nel concilio di Lione del 1274, impose il sistema del conclave, con la costituzione Ubipericulum. Tale costituzione fu però abolita e poi ripristinata da Celestino V nel 1294.

6.1.3 La modifica dell’equilibrio costituzionale della Chiesa e il primato papale

Dietro il dettaglio degli eventi, che non possiamo rintracciare in queste pagine, ilfatto importante, dal punto di vista istituzionale, è che i cardinali titolari delle diocesisuburbicarie di Roma, delle parrocchie e delle diaconie, diventarono il collegio elettora-le del romano pontefice e diedero inizio alla costituzione della cancelleria papale, mo-dellata su quella imperiale. Il collegio cardinalizio assicurava un ruolo di continuità nelgoverno della Chiesa ma anche di controllo dell’esecuzione delle misure riformatrice,perché i cardinali, oltre a essere elettori del papa, fungevano anche un ruolo di legati.

do con gli anteriori: Uta-Renate Blumenthal, The Investiture Controversy: Church and Monarchy fromthe Ninth to the Twelfth Century, The Middle Ages Serie (Philadelphia, Pa: University of PennsylvaniaPress, 1988). Per una versione italiana: Uta-Renate Blumenthal, La lotta per le investiture, trad. da MatteoVillani, Nuovo Medioevo 30 (Napoli: Liguori Editore, 1990). Dello stesso autore: Papal Reform and Ca-non Law in the 11th and 12th Centuries, Collected studies series 618 (Aldershot (UK): Ashgate, 1998);Gregor VII.: Papst zwischen Canossa und Kirchenreform, Gestalten des Mittelalters und der Renaissance(Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001); «Reforma gregoriana», in Diccionario general dederecho canónico (Pamplona: Universidad de Navarra, 2012).

76. Su questi aspetti, cf. Orlandis, Le istituzioni della Chiesa cattolica, 115–16. Ad esempio, in Ger-mania, l’investitura feudale precedeva quella episcopale, mentre in Italia e in Borgogna, la consacrazioneepiscopale precedeva quella feudale. In Ungheria, il re santo Stefano ottenne il diritto di nomina dei ve-scovi, che fu pero ridotto alla sola confermazione nel XIII sec. In Francia, dal XIII sec., il re autorizzaval’elezione e, una volta compiuta, l’eletto doveva prestargli il giuramento di fedeltà e ricevere da lui i dirit-ti feudali (regalie). In Inghilterra, dove le nomine episcopali erano soggette alla volontà del re, Innocen-zo III dovette obbligare Giovanni senza Terra a concedere maggiore libertà agli elettori.

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Il collegio cardinalizio perde il suo carattere locale romano per acquistare, accantoal papa un ruolo di responsabilità e di collaborazione negli affari della Chiesa universa-le. L’istituzione del concistoro sembra già effettiva con Urbano II (1088-1099) e funzio-na come un consiglio del papa negli affari più importanti giudiziari e amministrativi:scomunica dei re e imperatori, decisioni sulle controversie relative alle elezioni canoni-che.

Questa trasformazione metteva ormai al centro della struttura istituzionale la Chie-sa di Roma, passando così da una articolazione policentrica, fondata sulle diverse Chie-se locali, controllate dal potere politico a una Chiesa organizzata seguendo il modelloconcentrico dei monasteri cluniacense, dove le abbazie sono giuridicamente dipendentidalla casa madre77. Nella Chiesa, concepita come organismo gerarchico, la Chiesa diRoma e il papato si trova al vertice, una Chiesa ormai liberata dai poteri politici e in gra-do di perseguire una vera riforma. Così, il collegio cardinalizio si costituisce anche aldetrimento dei patriarchi, dei metropoliti e dell’episcopato universale. Questo cambia-mento si svolse inoltre nel contesto dello scisma con la Chiesa orientale avvenuto nel1054, ma di fatto risultato di un allontanamento cominciato quattro secoli prima.

Così diventa anche centrale la figura del romano pontefice, successore di Pietro,vicarius Petri78, nei confronti degli altri vescovi. Gregorio VII vede infatti negli altri ve-scovi dei cooperatori, dotati di una relativa autonomia e di diritti propri per curare e go-vernare il gregge loro affidato. Tuttavia, la Chiesa romana detiene un primato digiurisdizione su tutte le Chiese particolari, al di sopra dei vescovi e dei metropoliti. Laconcezione gregoriana del primato pontificio viene sviluppata nel Dictatus papae, un in-sieme di 27 proposizioni scritte nel 1075 sulle prerogative della Chiesa di Roma e del ro-mano pontefice.

6.2 LA PROBLEMATICA DISCIPLINARE: SIMONIA E NICOLAISMO

6.2.1 Crisi e movimenti riformatori

Il sistema della provvista degli uffici ecclesiastici da parte dei signori feudali o dalre favorì l’ordinazione di uomini poco disposti a vivere gli impegni della vita clericale edella missione apostolica ed ebbe come conseguenza la generalizzazione di due abusi,già esistenti sin dai primi secoli, ma ormai aggravati dal sistema: la simonia e il concu-binaggio dei chierici (nicolaismo). La crisi era allo stesso tempo morale e istituzionale,perché questi scandali colpivano il punto nevralgico del sacerdozio: se i ministri stessidella Parola e dei sacramenti non avevano una vera vocazione divina per il servizio diDio e dei fedeli, o se erano scelti in ragione d’interessi politici o economici, se non vi-vevano la castità, se avevano puro loro stesso comprato il sacramento dell’ordine, eratutto il carattere giusto della celebrazione dei sacramenti che veniva danneggiato. LaChiesa doveva affrontare il problema della validità dei sacramenti celebrati da chiericisimoniaci o nicolaiti, già accennato per il periodo dell’antichità, ma ormai nel contestodel sistema feudale, cioè di un sistema che favoriva questi problemi di modo strutturalee non più soltanto congiunturale.

La prima denuncia della simonia e del nicolaismo vene da movimenti spirituali. Al-cuni, alla ricerca del monachesimo delle origini, scelsero la vita eremitica, come san Ro-

77. Cf. Fantappiè, Storia, 94–97.78. Cf. Michele Maccarrone, Vicarius Christi: storia del titolo papale (Roma: Facultas Theologica

Pontificiae Universitatis Lateranensis, 1952), 85–90; Romana Ecclesia, cathedra Petri, a c. di Pietro Zer-bi, Italia sacra : studi e documenti di storia ecclesiastica 47–48 (Roma: Herder, 1991), 541–670.

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mualdo, che fondò l’ordine camaldolense in Toscana nel 1027. Suo discepolo, san PierDamiani, intervenne presso il romano pontefice in favore della riforma della Chiesa edenunciò questi problemi in più scritti. Poco dopo, san Giovanni Gualberto fondò l’ere-mo di Vallombrosa, dove si propose di vivere la regola benedettina nella sua purezza.San Bruno fondò l’ordine certosino nel 1084 nella Chartreuse. L’ideale della vita comu-ne nell’imitazione di Cristo povero e della Chiesa primitiva ispirò anche alcuni canoniciregolari.

Acanto a questi movimenti religiosi, un gruppo di fedeli laici, i Patarini entrò inlotta a Milano contro il clero concubinario tra 1056 e 1075. Alcuni di questi gruppi giun-sero a teorizzare l’invalidità dei sacramenti amministrati da vescovi e sacerdoti indegni.Queste tendenze condussero ad alcuni eccessi. Pier Damiani e il vescovo di Lucca An-selmo (futuro Alessandro II) furono inviati a Milano per risolvere il conflitto tra i Pata-rini e l’arcivescovo Wido, che loro accusavano di non intervenire con la propria autoritàper rimettere ordine nel clero diocesano. I legati riuscirono a imporre le loro condizionial clero locale: l’arcivescovo venne costretto a sottomettersi ai termini proposti dai lega-ti, che prevedevano il principio della subordinazione di Milano a Roma. Fu un nuovosuccesso del papato nei confronti di una Chiesa locale.

Soprattutto, il movimento di riforma ecclesiastica trovò nell’organizzazione delmonastero di Cluny un modello di rigore e di disciplina morale suscettibile di fornire iprincipi della riforma ecclesiastica. Nata nel bel mezzo del regime feudale e della socie-tà nobiliare, l’abbazia di Cluny, aveva infatti reinterpretato la regola di san Benedettonel senso di dedicare l’intera vita alla preghiera (mentre i servi della gleba lavoravanoattorno all’abbazia), e gioiva di un grande prestigio in tutta l’Europa, grazie alle sue nu-merose fondazioni. Il suo peso religioso, politico e sociale mantene Cluny libera dagliinterventi dei signori feudali. Molti monaci cluniacensi diventeranno cardinali ed ebberoun grande influsso sulla riforma disciplinare da venire. Di fatto, alla morte d’Ales-sandro II, fu precisamente eletto un papa strettamente vincolato all’ambiente cluniacen-se, Ildebrando, che prese il nome di Gregorio VII (1073-1085).

6.2.2 La riforma disciplinare

Per quanto riguarda il problema del clero concubinario79, la situazione si era moltoaggravata con gli abusi generati dal sistema feudale. Si trattava quindi di ripristinare,una volta di più l’antica disciplina della Chiesa sulla continenza dei chierici sposati, e dipromuovere allo stesso tempo la creazione di un clero formato da celibi ben formati, cheabbracciavano l’impegno della continenza perfetta da prima dell’ordinazione.

Nel sinodo del Laterano del 1059 erano stati emanati due decreti disciplinari cheavevano condannato la simonia e il nicolaismo e vietato l’investitura da parti di laici,anche in modo gratuito. Gregorio VII aveva poi ripetuto il divieto del matrimonio deisacerdoti nel 1074 e il I concilio Lateranense stabilì la legge del celibato ecclesiastico intutta la Chiesa occidentale. Il II concilio Lateranense (1139) decretò che il matrimoniocontratto da un chierico maggiore fosse non solo illecito, ma addirittura invalido (can.7). Questo canone è stato spesso male interpretato, come se, soltanto a partire da allora,si fosse introdotto il celibato ecclesiastico nella Chiesa occidentale. In realtà il canonelateranense del 1139 non fece altro che dichiarare invalido ciò che da molti secoli primaera già illecito e proibito. Nell’epoca classica della cristianità, il Decreto di Graziano ele Decretali sostennero il dovere di continenza dei chierici maggiori nella Chiesa latina.

79. Su questo punto, cf. lo studio fondamentale di Alfons Maria Stickler, «Il celibato ecclesiastico.La sua storia e i suoi fondamenti teologici», Ius Ecclesiae 5 (1993): 3–59. Cf. anche la sintesi di Orlandis,Le istituzioni della Chiesa cattolica, 151.

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6.3 IL PROBLEMA STORIOGRAFICO: NOZIONE DI RIFORMA GREGORIANA

Il modo radicale con cui Gregorio VII realizzò la riforma ecclesiastica e misel’accento sulla libertas Ecclesiae ha spinto autori a conferire a questo periodo il nome di“riforma gregoriana” e a spiegarlo come un momento di cambiamento ecclesiologicodecisivo80. È anche stato affermato che l’età gregoriana sarebbe stata caratterizzata dauna rivoluzione nel campo del diritto81. La formula segnala senz’altro un momento dicristallizzazione della crisi, ma ne sopravaluta forse la reale portata e attribuisce a Gre-gorio VII una visione tropo sistematica o addirittura ideologica82. Converrebbe non per-dere di vista che si tratta di un processo di riforma sul longo periodo, che corrispondepiuttosto a una “vasta opera di razionalizzazione delle istituzioni ecclesiastiche median-te il diritto canonico”83.

Il problema, storiografico ed ecclesiologico, è che tale nozione di “riforma grego-riana” ha portato, da Alfons Maria Stickler84 in poi, a spiegare l’intera storia del dirittocanonico del tempo intorno ad questo momento, o come precedenti, o come conseguen-ze derivate. Questa interpretazione non riesce pero a spiegare la ricchezza di questo pe-riodo e condiziona la percezione giusta di ciò che è accaduto. Oltre l’aspettopropriamente politico di una lotta di poteri, la riforma promossa dal papa ha delle conse-guenze importanti dal punto di vista della validità dei sacramenti, perché Gregorio VIIdichiarò nulle le ordinazioni simoniache ricevute mediante una investitura laica, con laconseguente nullità di tutti gli atti sacramentali delle persone così ordinate. Ma che sen-so e soprattutto quale conseguenze giuridiche dare all’espressione ordinatio irrita? Que-sta problematica occuperà una grande parte dei dibattiti canonici dei XI e XII secolo85.

Come ogni riforma autentica nella Chiesa, il programma gregoriano è stato presen-tato come un ritorno alla vera tradizione. Infatti, in un contesto storico di forte polemicadottrinale e politica con i difensori del potere imperiale, il Papa e i suoi collaboratori

80. Cf. Congar, L’ecclésiologie du haut Moyen Âge, 388.81. Cf. Harold Joseph Berman, Diritto e rivoluzione: l’impatto delle riforme protestanti sulla tradi-

zione giuridica occidentale, Collezione di testi e di stud (Bologna: Il mulino, 2010). Versione originale:Harold Joseph Berman, Law and Revolution: the Formation of the Western Legal Tradition (Cambridge(MA): Harvard University Press, 1983).

82. Cf. Carlo Fantappiè, Ecclesiologia e canonistica (Venezia: Marcianum Press, 2015), 43–44. Ovi-dio Capitani, «Esiste un “Età gregoriana?” Considerazioni sulle tendenze di una storiografia medievisti-ca», Rivista di storia e letteratura religiosa 1 (1965): 454–81; Glauco Maria Cantarella, «Riforme e Rifor-ma. La storia ecclesiastica del sec. XI», in Orientamenti e tematiche della storiografia di Ovidio Capitani,2013, 53–68.

83. Giovanni Tabacco, Le metamorfosi della potenza sacerdotale nell’alto medioevo, a c. di G. G.Merlo (Brescia, 2012), 114. Nello stesso senso, cf. Capitani, «Esiste un’"Età gregoriana"?»; Ovidio Capita-ni, «L’interpretazione “pubblicistica” dei canoni come momento della definizione d’istituti ecclesiastici(secc. XI-XII)», in Tradizione ed interpretazione: dialettiche ecclesiologiche del sec. XI (Roma: Jouven-ce, 1990), 156, n. 3. “Noi non crediamo si possa parlare di “scelta ideologica” nel pensiero gregoriano, chenon è sistematico, non ha il supporto di un sufficiente coordinamento normativo: la crisi del concetto sto-riografico di “riforma gregoriana” è nata – proprio ad opera nostra – dal rifiuto di congelare formule e at -teggiamenti parziali in un’ideologia compiuta. Ma non ciò è ancora importante. La “scelta ideologica”che l’Alberigo fa compiere alla Chiesa romana del secolo XI è una scelta ideologica che quella Chiesa harifiutato dal Concilio Ecumenico Vaticano II, con tutti gli schiacciamenti di prospettiva che in questa “vi -sione” della storia sono impliciti.”

84. Cf. Alfons Maria Stickler, Historia iuris canonici latini: institutiones academicae, 3a ed., vol. IHistoria Fontium (Roma: LAS, 1985), capp. 6–8.

85. Cf. Orazio Condorelli, Clerici peregrini: aspetti giuridici della mobilità clericale nei secoli XII-XIV, I libri di Erice 12 (Roma: Il cigno Galileo Galilei, 1995), 279–350; Thierry Sol, «¿Una alternativa a lanoción de “executio potestatis”? La separación entre “potestas ordinis” y “officium” según Hugo deAmiens y Gerhoch de Reichersberg», Ius Canonicum 58, n. 116 (2018): 481–502, https://doi.org/10.15581/016.116.008; Thierry Sol, «Nature et utilité juridique de la notion d’executio potestatis de Gratien

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giustificarono le loro rivendicazioni a livello dottrinale86 attraverso un triplice lavoroscientifico: la ricerca di testi autentici e la conseguente purificazione delle falsificazionie delle leggi considerate come particolari. Questo compito è stato solo parzialmente rea-lizzato; il riproporre questi testi normativi all’approvazione di nuovi concili per dareloro maggiore forza e autorità; l’inclusione dei testi ecclesiastici rinvenuti negli archivi,che fino ad allora non erano stati trasmessi nelle collezioni canoniche. Furono inclusianche alcuni frammenti di legge secolare che servivano a rafforzare i privilegi dellaChiesa.

Questi criteri costituiscono la base delle nuove collezioni allora in fase di prepara-zione nell’ambito romano87. Ma per capirle completamente è necessario evidenziare ilmodo di risolvere eventuali contraddizioni della tradizione canonica in alcuni aspetti.Infatti, nel corso di un millennio di sviluppo giuridico progressivo e contrastato, moltimodi di organizzare le istituzioni si sono verificati. La soluzione “gregoriana” fu quelladi utilizzare l’approvazione della Sede apostolica come unico criterio della “canonicità”del diritto precedente. Perciò, il lavoro di “purificazione” delle fonti fu soprattuttoun’opera di omissione dei testi contrari allo scopo della riforma, ossia tutte quelle fontiche cercavano di sminuire l’importanza del primato pontificio.

L’origine delle collezioni romane della riforma gregoriana non è pero semprel’autorità pontificia. Il “gregorianismo” era una tendenza diffusa, soprattutto in Italia, ealcune delle principali collezioni nascono da iniziative private per venire incontro allemancanze trovate dai particolari sopra accennati. Il “gregorianismo” non è dunque unmovimento monolitico ed esistono differenze – non solo di sfumature – tra le collezioni.

Nel 1075, il Dictatus papae è una sintesi del programma di Gregorio VII. È compo-sto da 27 proposizioni, riferite a prerogative pontificie, nel momento più aspro della lot-ta delle investiture. Trattano dell’esercizio universale del primato di giurisdizione, dellapotestà legislativa, giudiziale ed esecutiva. Sono elencate le prerogative della Chiesa ro-mana (1, 22-23, 26), i poteri papali in materia legislativa (2, 7, 16-17), di governo dellaChiesa (13-15), in ambito giudiziario (3-6,18-21,24-25,27), i rapporti tra il papa e l’impe-ratore (8-12). Il testo estende il primato petrino aldilà dei confini della Chiesa, e lo pre-senta come la misura dei rapporti tra potere politico e spirituale, e più generalmente, trasocietà civile e società religiosa. Tale impostazione si giustifica dal fatto che i poteri se-colari hanno una origine umana, mentre il papa tiene il suo potere da Dio. Il carattereapparentemente innovativo di alcune proposizioni ha portato la critica testuale ad pensa-re che ci troviamo di fronte all’indice di una collezione che non è mai stata composta oil cui contenuto è andato perduto88.

à Huguccio», in Proceedings of the XV International Congress of Medieval Canon Law - Paris 17-23 July2016, Monumenta Iuris Canonici. Series C: Subsidia (Città del Vaticano: Biblioteca Apostolica Vaticana,2020).

86. Insieme alle collezioni canoniche, il periodo gregoriano è ricco di una letteratura di “propagan-da” che entra in discussione con la “propaganda imperiale”. Gli scritti di entrambe le parti, di grande inte-resse per conoscere l’argomentazione di questo tempo e l’uso di fonti canoniche, sono stati pubblicati nel-la Monumenta Germaniae Historica, nei volumi Libelli de Lite imperatorum et pontificum: a c. di E.Dümmler (Hannover 1891-1897), oggi in www.dmgh.de.

87. Sull’uso del diritto canonico da parte di Gregorio VII, cf. John Thomas Gilchrist, «Gregory VIIand the Juristic Sources of his Ideology», Studia Gratiana 12 (1967): 3–37.

88. Sulla portata di alcune delle principali affermazioni cf. Stephan Kuttner, «Liber canonicus. ANote on the Dictatus Pape c. 17», Studi Gregoriani 2 (1947): 387–401. In una delle ultime biografie di Gre-gorio VII, Cowdrey suggerisce che queste affermazioni sono quelle che Enrico IV avrebbe dovuto accet-tare per tornare alla comunione con Roma. Questo documento non sarebbe per lo tanto l’espressione lapiù fedele del pensiero di Gregorio VII, ma una formulazione polemica: Herbert Edward John Cowdrey,Pope Gregory VII, 1073-1085 (Oxford (UK); New York: Clarendon Press; Oxford University Press, 1998),504–7.

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