STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO del pensiero... · G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle...

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STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 1 II SEMESTRE A.A. 2014-2015

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STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 1

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

STORIA COSTITUZIONALEI linguaggi politici della Modernità

Il linguaggio del repubblicanesimo

Il linguaggio della ragion di Stato

Il linguaggio dell’economia politica

Il liguaggio del giusnaturalismo

STORIA COSTITUZIONALEIl linguaggio del giusnaturalismo

Potere sovrano

Contratto

Individui liberi ed eguali

STORIA COSTITUZIONALEIl linguaggio del giusnaturalismo

…un dispositivo logico che prevede alla base gli

individui con i loro diritti e, proprio per la

salvaguardia di questi ultimi, un potere legittimo

da tutti voluto , che emani quelle leggi che, valide

per tutti e rese efficaci da una forza comune,

permettano la coesistenza pacifica degli uomini.

STORIA COSTITUZIONALEIl linguaggio del giusnaturalismo

Eguaglianza

Libertà(indipendenza della volontà)

Potere(prodotto della volontà di tutti)

STORIA COSTITUZIONALEIl linguaggio del giusnaturalismo

Logica della rappresentanza politica:

riconoscere come propria la volontà di

un altro

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Lezione n. 2

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G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito

(1806-7), Prefazione:

…Secondo il mio modo di vedere che dovrà giustificarsi soltanto

mercé l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende

dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, ma

altrettanto decisamente come soggetto (…), ciò che è poi lo stesso,

è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la

sostanza è il movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la

mediazione del divenir-altro-da-sé con se stesso (…). Il vero è il

divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la

propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e

la propria fine è effettuale.

G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito

(1806-7), Prefazione:

(…) Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto

l’essenza che si completa mediante il suo

sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è

essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò

che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua

natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenir-

se-stesso.

G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito

(1806-7), Prefazione:

(…) Che il vero sia effettuale solo come sistema,

o che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò

è espresso in quella rappresentazione che enuncia

l’Assoluto come Spirito – elevatissimo concetto

appartenente all’Età moderna e alla sua religione.

G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche

in compendio (1817):

Aufheben ha nella lingua un doppio senso: quello di conservare e

quello di far cessare, di porre un termine. Conservare ha

d’altronde un significato negativo, cioè per conservare qualcosa

bisogna che gli si tolga la sua immediatezza, che gli si sopprima la

sua esistenza, così che essa è sottomessa alle condizioni esterne.

In questo modo ciò che viene soppresso è nello stesso tempo

conservato, avendo perso solo la sua esistenza immediata, senza

essere per questo annientato. Sul piano semantico, le due

determinazioni di aufheben possono essere considerate significati

della stessa parola. E’ sorprendente che una lingua sia giunta a

usare una sola parola per due significati opposti.

G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche

in compendio (1817):

(…) Una cosa è soppressa (superata) nella

misura in cui essa è realizzata in unità con il

suo opposto: in questa determinazione, la

Cosa superata appare come riflessa e può

essere designata come «momento»…

G.W.F. Hegel, Scienza della logica (1812-16):

(…) La contraddizione (…) è la radice di ogni movimento e

vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in

quanto ha in se stesso una contraddizione. (…) La comune

esperienza riconosce che si dà una quantità di cose

contraddittorie, di contraddittorie disposizioni, ecc., la cui

contraddizione non sta semplicemente in una riflessione esteriore,

ma in loro stesse. E la contraddizione non è poi da prendere

semplicemente come un’anomalia che si mostri solo qua e là, ma è

il negativo nella sua determinazione essenziale, il principio di ogni

muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e

mostrarsi della contraddizione…

Il sistema filosofico di Hegel:

Logica Idea in sé e per sé=

Puro pensiero (tesi)

Filosofia della natura Idea fuori di sé=

Natura (antitesi)

Filosofia dello spirito Idea che ritorna in sé=

Spirito (sintesi)

Il sistema filosofico di Hegel:

Logica Dottrina dell’essere

Dottrina dell’essenza

Dottrina del concetto

Filosofia della natura Meccanica

Fisica

Organica

Il sistema filosofico di Hegel:

Filosofia dello Spirito

Spirito soggettivo Antropologia

Fenomenologia

Psicologia

Spirito oggettivo Diritto

Moralità

Eticità

Spirito assoluto Arte

Religione

Filosofia

Il sistema filosofico di Hegel:

Famiglia

Eticità Società civile

Stato

G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821):

Lo Stato non esiste per i cittadini: si potrebbe dire

che esso è il fine, e quelli sono i suoi strumenti.

Peraltro tale rapporto generale di fine a mezzo

non è in questo caso adeguato. Lo Stato non è

infatti una realtà astratta che si contrapponga ai

cittadini; bensì essi sono momento come nella

vita organica, in cui nessun membro è fine e

nessuno è mezzo, (§ 258 A)

La filosofia della storia

L’astuzia della ragione

Si può chiamare astuzia della ragione il fatto che

quest’ultima faccia agire per sé le passioni e che quanto

le serve da strumento per tradursi in esistenza abbia da

ciò scapito e danno… (Hegel, Lezioni di filosofia della

storia, I, 97)

La filosofia della storia

Gli individui cosmico-storici

Questi sono i grandi uomini della storia, quelli i cui propri fini

particolari contengono il sostanziale, che è volontà dello spirito del

mondo. Questo contenuto è la loro vera potenza, esso è nell’universale

istinto inconsapevole degli uomini. Essi sono spinti a ciò intimamente, e

non hanno altro modo di resistere a colui che ha assunto, nel proprio

interesse, l’esecuzione di un tale fine. I popoli piuttosto si uniscono

intorno alla sua bandiera: egli svela loro e reca in atto quel che era

impulso immanente della loro natura (Hegel, Lezioni di filosofia della

storia,)

G.W.F. Hegel, Epistolario:

Ho visto l’imperatore – quest’Anima del

mondo – cavalcare in ricognizione

attraverso la città; è davvero una sensazione

meravigliosa vedere un tale individuo, che

concentrato qui in un punto, dritto su di un

cavallo, conquista il mondo intero e lo

domina (1806).

G.W.F. Hegel, Epistolario:

Gli avvenimenti più universali (…) mi suscitano le più universali

considerazioni, che mi riportano nella sfera del pensiero i particolari singoli

e prossimi, per quanto questi possano interessare il sentimento. Io considero

che lo Spirito del mondo ha dato al tempo la parola d’ordine di avanzare;

un tale comando è obbedito; questo essere si avanza irresistibile come una

falange corazzata, in ordine chiuso, e con il movimento impercettibile del

sole, attraverso ogni ostacolo; innumerevoli truppe leggere si muovono

nell’uno e nell’altro senso, e la maggior parte di esse non sa neppure di che

si tratta e non fa che incassare colpi che provengono come da una mano

invisibile. Tutte le millanterie temporeggiatrici (…) a nulla servono; (…) Il

partito più sicuro (interiormente ed esteriormente) è quello di osservare

questo gigante che si avanza

G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia:

La bandiera dello spirito libero (…) è la bandiera sotto cui

serviamo e che teniamo alta. Il tempo, da allora fino a noi,

non ha avuto e non ha altra opera da compiere all’infuori di

quella di incorporare questo principio nel mondo (IV, 151)

…Sembra che allo spirito del mondo sia ora riuscito di

sbarazzarsi da ogni essenza estranea e oggettiva, e di

cogliersi infine come Spirito assoluto, di generare da sé ciò

che gli diviene oggettivo e, comportandosi con calma, di

tenerlo in suo potere.

G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia:

…Sin qui è giunto lo spirito del mondo. L’ultima

filosofia è il risultato di tutte le precedenti; nulla

è perduto, tutti i principi sono conservati. Questa

idea concreta è il risultato degli sforzi dello

spirito attraverso quasi 2500 anni (…) del suo più

serio lavoro per diventare oggettivo a se stesso e

per conoscersi: Tantae molis erat se ipsam

cognoscere mentem (parafrasi virgiliana).

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

La filosofia, poiché è lo scandaglio del razionale,

appunto per ciò è l’apprendimento di ciò ch’è presente e

reale, non la costruzione di un al di là, che sa Dio dove

dovrebbe essere, - o del quale di fatto si sa ben dire

dov’è, cioè nell’errore di un vuoto, unilaterale

raziocinare…

Ciò che è razionale è reale:

e ciò che è reale è razionale.

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

Quel che importa allora è conoscere, nella parvenza di ciò

ch’è temporale e transeunte, la sostanza che è immanente

e l’eterno che è presente. Poiché il razionale, che è

sinonimo dell’idea, allorché esso nella sua realtà entra in pari

tempo nell’esistenza esterna, vien fuori in un’infinita

ricchezza di forme, fenomeni e configurazioni, e circonda il

suo nucleo con la scorza variopinta nella quale la coscienza

dapprima dimora, che soltanto il concetto trapassa, per

trovare il polso interno e pur nelle configurazioni esterne

sentirlo ancora battere…

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

…Così, dunque, questo trattato, in quanto contiene la

scienza dello Stato, dev’essere null’altro, se non il

tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa

razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve

restare molto lontano dal dover costruire uno Stato come

dev’essere; l’ammaestramento che può trovarsi in esso

non può giungere a insegnare allo Stato come deve

essere, ma, piuttosto, in quale modo esso deve esser

riconosciuto come universo etico.

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

…Intendere ciò che è, è il compito della filosofia,

poiché ciò che è, è la ragione. Del resto, per quel che

si riferisce all’individuo, ciascuno è, senz’altro,

figlio del suo tempo; e anche la filosofia è il proprio

tempo appreso col pensiero. E’ altrettanto folle

pensare che una qualche filosofia precorra il suo

mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci

indietro il suo tempo, e salti oltre…

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente, e la ragione come

realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa ed in essa

non lascia trovare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astrazione,

che non si è liberata, e non si è fatta concetto. Riconoscere la ragione

come la rosa, nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale

riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la

filosofia consente a quelli, i quali hanno avvertito, una volta, l’interna

esigenza di comprendere e di mantenere, appunto, la libertà soggettiva

in ciò che è sostanziale, e al modo stesso, di stare nella libertà

soggettiva, non come in qualcosa di individuale e di accidentale, ma in

qualcosa che è in sé e per sé

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

(…) Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere

il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del

mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha

compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Questo, che il

concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima

l’ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso

costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in

forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro,

allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si

lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia

il suo volo sul far del crepuscolo.

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II SEMESTRE

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K. Marx, Tesi su Feuerbach:

Undicesima tesi

I filosofi hanno solo interpretato il

mondo in modi diversi; si tratta però

di mutarlo.

K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)

Il compito della storia, una volta scomparso l’al di là della

verità, consiste quindi nello stabilire la verità dell’al di

qua. Compito della filosofia, che è al servizio della storia, è

lo smascheramento, dopo che la figura sacra

dell’estraneazione dell’uomo è già stata smascherata,

dell’autoestraneazione dell’uomo nelle figure non-sacre.

La critica del cielo si trasforma quindi nella critica della

terra, la critica della religione nella critica del diritto, la

critica della teologia nella critica della politica.

K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)

Il lato più profondo di Hegel sta nel fatto di

aver sentito come un contrasto la

separazione della società civile da quella

politica. Negativo è peraltro il fatto che egli

si accontenti di avere apparentemente

dissolto questo contrasto.

K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)

Per comportarsi quindi come un vero cittadino dello Stato, per

acquistare importanza ed efficacia politiche, egli deve uscire dalla sua

realtà civile, deve astrarsene e rientrare nella propria individualità,

abbandonando tutta questa organizzazione; l’unica esistenza infatti che

egli trova, per essere cittadino dello Stato, è la sua individualità nuda e

cruda, poiché l’esistenza dello Stato in quanto governo può fare a meno

dell’individuo, e la sua esistenza nella società civile prescinde da quella

dello Stato. Egli può essere cittadino dello Stato solo come individuo, e

in contrasto con queste uniche comunità sussistenti. La sua esistenza

come cittadino dello Stato è un’esistenza estranea alla sua esistenza

come uomo sociale, è cioè un’esistenza puramente individuale.

K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)

I droits de l’homme, cioè i diritti dell’uomo, sono come tali

distinti dai droits du citoyen, cioè dai diritti del cittadino. Ma

chi è l’homme distinto dal citoyen? Nessun altro fuorché il

membro della società borghese. Perché dunque il membro

della società borghese diventa un uomo, l’uomo

semplicemente, è perché i suoi diritti sono chiamati diritti

dell’uomo? Come ci spieghiamo questo fatto? Certo in base

al rapporto tra Stato politico e società borghese, cioè in base

alla natura dell’emancipazione (soltanto) politica.

K. Marx, La questione ebraica (1844)

Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita generica dell’uomo in

quanto specie, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti

di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera

dello Stato, nella società borghese, ma come caratteristiche della società

civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo,

l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, ma nella

realtà, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità

politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita

nella società borghese nella quale agisce come uomo privato, che

considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso a mezzo e

diviene trastullo di forze estranee…

K. Marx, La questione ebraica (1844)

Lo Stato politico si rapporta alla società civile nel modo

spiritualistico con cui il cielo si rapporta alla terra. Rispetto ad essa si

trova nel medesimo contrasto, e la sovrasta nel medesimo modo in

cui la religione sovrasta la limitatezza del mondo profano, cioè

dovendo insieme riconoscerla restaurarla e lasciarsi da essa

dominare. Nella sua realtà più immediata, nella società civile, l’uomo

è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come

individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato,

dove l’uomo vale come ente generico, egli è il membro immaginario

di una sovranità immaginaria, è spogliato della sua reale vita

individuale e riempito di una universalità irreale…

K. Marx, L’ideologia tedesca:

Il comunismo per noi non è uno stato di

cose che debba essere instaurato, un ideale

al quale la realtà dovrà conformarsi.

Chiamiamo comunismo il movimento reale

che abolisce lo stato di cose presente. Le

condizioni di questo movimento risultano

dal presupposto ora esistente.

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K. Marx, L’ideologia tedescaQueste fantasie innocenti e puerili formano il nucleo della moderna

filosofia giovane-hegeliana, che in Germania non soltanto è accolta dal

pubblico con orrore e reverenza, ma è anche messa in circolazione dagli

stessi eroi filosofici con la maestosa coscienza della sua criminosa

spregiudicatezza. Il primo volume di questa pubblicazione ha lo scopo

di smascherare queste pecore che si credono lupi e che tali vengono

considerate, di mostrare come esse altro non fanno che tener dietro, con

i loro belati filosofici, alle idee dei borghesi tedeschi, come le bravate di

questi filosofici esegeti rispecchino semplicemente la meschinità delle

reali condizioni tedesche. Essa ha lo scopo di mettere in ridicolo e di

toglier credito alla lotta filosofica con le ombre della realtà, che va a

genio al sognatore e sonnacchioso popolo tedesco…

K. Marx, L’ideologia tedesca

I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non

sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può

astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui

reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di

vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti

quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi

presupposti sono dunque constatabili per via puramente

empirica.

K. Marx, L’ideologia tedescaIl primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di

individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque

l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue,

verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci

nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni

naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche, oro-idrografiche,

climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi

naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli

uomini.

Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la

religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli

animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un

progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i

loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa

vita materiale.

K. Marx, L’ideologia tedesca

Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza

dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che

essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di

produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione

dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo

determinata dell’attività di questi individui, un modo determinato

di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli

individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono

coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che

producono quanto col modo come producono. Ciò che gli

individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della

loro produzione.

K. Marx, L’ideologia tedesca

La divisione del lavoro offre anche il primo esempio del

fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società

naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra

interesse particolare e interesse comune, fin tanto che

l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma

naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una

potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga,

invece di essere da lui dominata.

K. Marx, L’ideologia tedesca

Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha un

sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e

dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o

critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere,

laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera

di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a

piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal

modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani

quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la

sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien

voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né

critico.

K. Marx, L’ideologia tedescaQuesto fissarsi dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio

prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al

nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri

calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo

storico. Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine

attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione

del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è

volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come

una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno

donde viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che al

contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la

quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige

questo volere e questo agire…

Struttura e sovrastrutturaAvevo cominciato lo studio di questa scienza a Parigi, e lo continuai

a Bruxelles, dove ero emigrato in seguito ad un decreto di espulsione

del sig. Guizot. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta

acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere

brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro

esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari,

indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che

corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze

produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione

costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale

sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla

quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.

Struttura e sovrastruttura

Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in

generale, il processo sociale, politico e spirituale della

vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il

loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che

determina la loro coscienza. A un dato punto del loro

sviluppo, le forze produttive materiali della società

entrano in contraddizione con i rapporti di produzione

esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono

l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per

l’innanzi s’erano mosse.

Struttura e sovrastruttura

La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della

coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata

all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini,

linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri,

lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora

come emanazione diretta del loro comportamento

materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione

spirituale quale essa si manifesta nel linguaggio della

politica, delle leggi, della morale, della religione, della

metafisica, ecc. di un popolo.

F. Engels, Lettera a Joseph Bloch (1890):Secondo la concezione marxista della storia la produzione e riproduzione

della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di

più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce

quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere

l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta

insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i

diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di

classe e i risultati di questa – costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa

dopo una battaglia vinta, ecc. – le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di

tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie

politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro successivo

sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul

decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo

preponderante la forma. .

F. Engels, Lettera a Joseph Bloch (1890):

E’ un’azione reciproca di tutti questi momenti, in cui

alla fine il movimento economico si impone come

fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti

casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno nesso è così

vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare

come se non ci fosse e trascurarlo). In caso contrario,

applicare la teoria a un qualsiasi periodo storico sarebbe

certo più facile che risolvere una semplice equazione di

primo grado.

F. Engels, Lettera a Joseph Bloch (1890):

Ci facciamo da noi la nostra storia, ma, innanzitutto, a presupposti e condizioni

assai precisi. Tra di essi quelli economici sono in fin dei conti decisivi. Ma

anche quelli politici, ecc., anzi addirittura la tradizione che vive nelle teste degli

uomini ha la sua importanza, anche se non decisiva… Ma in secondo luogo la

storia si fa in modo tale che il risultato finale scaturisce sempre dai conflitti di

molte volontà singole, ognuna delle quali a sua volta è resa quel che è da una

gran quantità di particolari condizioni di vita; sono perciò innumerevoli forze

che si intersecano tra loro, un gruppo infinito di parallelogrammi di forze, da

cui scaturisce una risultante – l’avvenimento storico – che a sua volta può esser

considerata come il prodotto di una potenza che agisce come totalità, in modo

non cosciente e non volontario. Infatti quel che ogni singolo vuole è ostacolato

da ogni altro, e quel che ne viene fuori è qualcosa che nessuno ha voluto. Così

la storia, quale è stata finora, si svolge a guisa di un processo naturale, ed

essenzialmente è soggetta anche alle stesse leggi di movimento…

Il concetto di ideologia

Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc.,

ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un

determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni

che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La

coscienza non può mai essere qualcosa di diverso dall’essere

cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro

vita. Se nell’intera ideologia gli uomini appaiono capovolti come

in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo

storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli

oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico…

(L’ideologia tedesca, p. 13)

Il concetto di ideologiaEsattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che

discende dal cielo alla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si

parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né

da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per

arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente

operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo

sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita.

Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono

necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita,

empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di

conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma

ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non

conservano oltre la parvenza dell’autonomia.

Il concetto di ideologiaEsse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che

sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali

trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i

prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma

la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte

dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che

corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si

considera la coscienza soltanto come la loro coscienza.

Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai

presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi

presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati

fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed

empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate.

Il concetto di ideologia

Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso

muove dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo

istante. I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche

modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo

di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto

condizioni determinate. Non appena viene rappresentato

questo attivo processo vitale, la storia cessa di essere una

raccolta di morti dati di fatto, come avviene per gli empiristi,

pur essi ancora astratti, oppure un’azione immaginaria di

soggetti immaginari, come avviene per gli idealisti.

(L’ideologia tedesca, pp. 12 s.).

Il concetto di ideologia

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti;

cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari

tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei

mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei

mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono

assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione

intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale

dei rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque

l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe

dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che

compongono la classe dominante posseggono tra l’altro anche la

coscienza, e quindi pensano… (L’ideologia tedesca, pp. 35 s.)

Marx, Il Capitale

Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto

di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente

proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori umani

riceve la forma reale dell’eguale oggettività di valore dei

prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro

umana mediante la sua durata temporale riceve la forma

della grandezza di valore dei prodotti del lavoro, infine i

rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle

determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma di

un rapporto sociale dei prodotti del lavoro.

Marx, Il Capitale

L’arcano della forma merce consiste dunque semplicemente

nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli

uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio

lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei

prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di

quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del

rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo,

facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti

esistente al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid

pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose

sensibilmente soprasensibili, cioè cose sociali.

Marx, Il Capitale

Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica

di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale

determinato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi, per

trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione

nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello

umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che

stanno in rapporto tra loro e in rapporto con gli uomini. Così,

nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umano.

Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del

lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è

inseparabile dalla produzione delle merci (I, I, 4)

Marx, Il Capitale

In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e

quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada

opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e

quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di

svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro

l’impronta di merci, e quindi sono il presupposto della

circolazione delle merci, hanno già la solidità di forme

naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di

rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme,

che per essi anzi sono ormai immutabili, ma del loro

contenuto (Vol. I, p. 107)

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 5

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

Marx, Il CapitaleIl vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che

il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e

punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è

solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione

sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per

la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la

conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda

sull’espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori,

questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di

produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e

che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione

come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive

sociali del lavoro.

Marx, Il Capitale

Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze

produttive sociali – viene permanentemente in conflitto

con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale

esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi

un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva

materiale e la creazione di un corrispondente mercato

mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante

tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione

sociali che gli corrispondono (Vol. III, p. 303).

Marx, Il Capitale

Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce

costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da

essa messo in movimento (cioè ai mezzi di produzione

consumati produttivamente) anche la parte di questo lavoro

vivo che non è pagato e si oggettiva in plusvalore, dovrà

essere in proporzione costantemente decrescente rispetto al

valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto

tra la massa del plusvalore e il valore del capitale

complessivo impiegato costituisce però il saggio del profitto,

che dovrà per conseguenza diminuire costantemente (Vol. III,

p. 261).

Per la critica dell’economia politica (1859):

Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in

rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in

rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di

sviluppo delle loro forze produttive materiali. (…) A un dato punto

del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano

in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i

rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica)

dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti,

da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro

catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il

cambiamento della base economica si sconvolge più o meno

rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.

Per la critica dell’economia politica (1859):

(…) Una formazione sociale non perisce finché non si siano

sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e

superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che

siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali

della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non

quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose

dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le

condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno

sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico,

antico, feudale e borghese moderno possono essere designati

come epoche che marcano il progresso della formazione

economica della società.

Il Capitale:

Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano

e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la

massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione,

dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che

sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso

meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale

diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e

sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione

del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro

involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della

proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. (…) La

produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttibilità di un processo

naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 6

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

F. Nietzsche, Umano, troppo umano:

L’immediata osservazione di sé è ben

lungi dal bastare per conoscere se

stessi: abbiamo bisogno della storia,

giacché il passato continua a scorrere in

noi in cento onde …

F. Nietzsche, Umano, troppo umano:

Tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e che allo stadio attuale delle

singole scienze può esserci concesso, è una chimica delle idee e

dei sentimenti, morali, religiosi, estetici, come pure di tutte quelle

emozioni che sperimentiamo in noi nel grande e piccolo

commercio con la cultura e la società e persino nella solitudine:

ma che accadrebbe, se questa chimica finisse per concludere che

anche in questo campo i colori più belli sono quelli che si ricavano

da una materia umile, e persino spregiata? Quanti avranno voglia

di seguire tali indagini? L'umanità ama fugare dalla propria mente

gli interrogativi sull'origine e sugli inizi: non si deve forse essere

quasi disumanizzati per sentire in sé l'inclinazione contraria?

F. Nietzsche, Genealogia della morale:

L’apparizione del Dio cristiano… ha… fatto comparire sulla terra

nella più grande misura possibile il sentimento della colpa.

Supponendo che noi siamo ora entrati in un movimento contrario,

sarebbe quindi lecito… dedurre dall’inarrestabile decadenza della

fede nel Dio cristiano che già ora vi sia una notevole decadenza

della coscienza umana della colpa; non è anzi scartabile l’ipotesi

che la completa e definitiva vittoria dell’ateismo possa liberare

l’umanità da questo sentimento di essere in colpa verso il suo

principio, la sua causa prima. L’ateismo e una specie di seconda

innocenza sono due termini connessi.

F. Nietzsche, Ecce Homo:

Tra le cose che possono portare un pensatore alla disperazione è il

riconoscere che l’uomo ha bisogno dell’illogicità, e che dall’illogicità

nascono molte cose buone. Essa è piantata così saldamente nelle

passioni, nella lingua, nell’arte, nella religione e in genere in tutto ciò

che conferisce valore alla vita, che non la si può estirpare senza

danneggiare con ciò irreparabilmente queste belle cose.

L’errore ha reso l’uomo così profondo, delicato e inventivo da produrre

un tal fiore come le religioni e le arti. Il puro conoscere non sarebbe

stato in grado di farlo. Chi ci svelasse l’essenza del mondo causerebbe

in noi tutti la più spiacevole delusione. Non il mondo come cosa in sé,

bensì il mondo come rappresentazione (come errore) è così ricco di

significato, così profondo e meraviglioso, e reca in senso tanta felicità e

infelicità.

F. Nietzsche:

Un grado, certo molto elevato, di cultura è raggiunto quando

l’uomo si libera dalle idee e dalle paure superstiziose e

religiose… Se egli è a questo grado di liberazione, gli resta

ancora da superare con la massima tensione della sua

riflessione la metafisica. Poi però è necessario un movimento

all’indietro: egli deve capire la giustificazione storica, come

pure quella psicologica di tali rappresentazioni, deve

riconoscere come sia di là venuto il maggior progresso

dell’umanità e come senza un tale movimento all’indietro, ci

si priverebbe dei migliori risultati finora ottenuti

dall’umanità.

F. Nietzsche:

Che non ci sia verità; che non ci sia una

costituzione assoluta delle cose, una “cosa

in sé”; - ciò stesso è nichilismo, è anzi il

nichilismo estremo (Frammenti postumi

1887-88, pp. 13 s.).

L’eterno ritorno:

Quale che sia lo stato che questo mondo può raggiungere, deve averlo

già raggiunto, e non una ma infinite volte. Così questo attimo: esso era

già qui una volta e molte volte e parimenti ritornerà, tutte le forze

distribuite esattamente come ora; lo stesso avviene per l’attimo che ha

generato questo e per quello che sarà il figlio dell’attimo attuale. Uomo!

La tua vita intera, come una clessidra, sarà di nuovo capovolta, e sempre

di nuovo si vuoterà – un grande minuto di tempo frammezzo, finché

tutte le condizioni dalle quali tu sei divenuto, nel corso circolare

cosmico, si verificano di nuovo. E allora troverai di nuovo ogni dolore e

ogni piacere e ogni amico e nemico e ogni speranza e ogni errore e ogni

filo d’erba e ogni raggio di sole, la connessione totale di tutte le cose.

(Frammenti postumi, 1881).

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:

Oggi i filosofi, partendo dallo spirito della

funzione, riflettono su come trasformare

l’umanità in un organismo – è l’opposto della mia

tendenza: il numero maggiore possibile di

organismi diversi e che si trasformano, i quali,

giunti alla loro maturità e putrefazione, lasciano

cadere il loro frutto: gli individui, dei quali certo

la maggior parte perisce; ma solo i pochi contano

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:

La terra è divenuta piccola, e su di essa saltella l’ultimo

uomo, che rende piccola ogni cosa. La sua stirpe è

inestinguibile come quella degli scarafaggi; l’ultimo

uomo vivrà molto a lungo… Non si diventa ormai più né

poveri né ricchi: entrambe le cose costano troppa fatica.

Chi vuole ancora regnare? Chi vuole ancora obbedire?

Entrambe le cose sono troppo gravose. Nessun pastore e

un solo gregge! Ognuno vuole allo stesso modo, tutti

sono eguali: chi sente in maniera diversa se ne va

spontaneamente al manicomio.

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:

Un tale spirito divenuto libero sta al centro del

tutto con un fatalismo gioioso e fiducioso, nella

fede che soltanto sia biasimevole quel che se ne

sta separato, che ogni cosa si redima e si affermi

nel tutto – egli non nega più. Ma una fede siffatta

è la più alta di tutte le fedi possibili: l’ho

battezzata col nome di Dioniso.

F. Nietzsche, Ecce Homo:

Io conosco la mia sorte. Si legherà un giorno al

mio nome il ricordo (…) di una crisi, come non

ce ne fu un’altra simile sulla Terra, al più

profondo conflitto di coscienza, ad una decisione,

proclamata contro tutto ciò che sinora era stato

creduto, richiesto, consacrato. Io non sono un

uomo, sono una dinamite…

F. Nietzsche, Ecce Homo:

Io contraddico come mai è stato contraddetto, e malgrado

ciò sono l’antitesi di uno spirito negatore… Con tutto ciò

sono necessariamente pure un uomo del destino. E infatti, se

la verità entra in lotta con la menzogna di millenni, avremo

di tali scuotimenti, tali convulsioni di terremoto che mai

erano state neppure sognate. Il concetto di politica è ora

entrato completamente in una guerra tra spiriti, tutte le forme

di dominio della vecchia società sono saltate in aria – esse

riposano tutte quante sulla menzogna; ci saranno guerre

come non ce ne sono state mai sulla terra. Solo da me

comincia sulla terra la grande politica.

F. Nietzsche:

La mia opera ha tempo e non voglio essere per nulla

scambiato con ciò che il presente ha da risolvere come

proprio compito. Tra cinquant’anni, forse, alcuni (…)

avranno occhi per vedere ciò che da me è stato

compiuto. Ma al presente non è soltanto difficile, ma

assolutamente impossibile (…) parlare di me

pubblicamente senza rimanere illimitatamente dietro la

verità.

F. Nietzsche, La volontà di potenza :

Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io

descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire:

l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere

raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo

futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia

dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono

già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove da

lungo tempo in una torturante tensione che cresce di decenni in

decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta,

precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine,

che non riflette più e ha paura di riflettere.

F. Nietzsche, La volontà di potenza :

– Chi prende qui la parola non ha fatto, invece, altro

sinora che riflettere: come filosofo e solitario di istinto

che ha trovato il proprio vantaggio nello starsene

appartato ed estraneo, nel pazientare, nel differire; come

uno spirito che osa osare e tentare, e già si è smarrito una

volta in ogni labirinto del futuro; (…) che guarda

indietro quando racconta ciò che dovrà avvenire; come il

primo compiuto nichilista europeo, che però ha già

vissuto dentro di sé sino all’esaurimento il nichilismo

stesso, e lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé.

F. Nietzsche, Al di là del bene e del male:Trattenerci reciprocamente dall’offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, stabilire

un’eguaglianza tra la propria volontà e quella dell’altro: tutto questo può, in un

certo qual senso grossolano, divenire una buona costumanza tra individui, ove ne

siano date le condizioni (vale a dire la loro effettiva somiglianza in quantità di forza

e in misure di valore, nonché la loro mutua interdipendenza all’interno di

un unico corpo). Ma appena questo principio volesse guadagnare ulteriormente

terreno, addirittura, se possibile, come principio basilare della società, si

mostrerebbe immediatamente per quello che è: una volontà di negazione della vita,

un principio di dissoluzione e di decadenza. Su questo punto occorre rivolgere

radicalmente il pensiero al fondamento e guardarsi da ogni debolezza sentimentale:

la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è

estraneo e piú debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, un

incorporare o per lo meno, nel piú temperato dei casi, uno sfruttare – ma a che

scopo si dovrebbe sempre usare proprio queste parole, sulle quali da tempo

immemorabile si è impressa un’intenzione denigratoria?

F. Nietzsche, Al di là del bene e del male:Anche quel corpo all’interno del quale, come è stato precedentemente ammesso, i singoli si

trattano da eguali – ciò accade in ogni sana aristocrazia – deve anch’esso, ove sia un corpo

vivo e non moribondo, fare verso gli altri corpi tutto ciò da cui vicendevolmente si astengono

gli individui in esso compresi: dovrà essere la volontà di potenza in carne e ossa, sarà volontà

di crescere, di estendersi, di attirare a sé, di acquistare preponderanza – non trovando in una

qualche moralità o immoralità il suo punto di partenza, ma per il fatto stesso che esso vive, e

perché la vita è precisamente volontà di potenza. In nessun punto, tuttavia, la coscienza

comune degli Europei è piú riluttante all’ammaestramento di quanto lo sia a questo proposito;

oggi si vaneggia in ogni dove, perfino sotto scientifici travestimenti, di condizioni di là da

venire della società, da cui dovrà scomparire il suo “carattere di sfruttamento” – ciò suona alle

mie orecchie come se si promettesse di inventare una vita che si astenesse da ogni funzione

organica. Lo “sfruttamento” non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva:

esso concerne l’essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una

conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. –

Ammesso che questa, come teoria, sia una novità – come realtà è il fatto originario di tutta la

storia: si sia fino a questo punto sinceri verso se stessi!

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:

Non sarebbe dunque per il movimento democratico una specie

di scopo, di redenzione e di giustificazione, il fatto che venisse

qualcuno a servirsi di esso, e che attraverso questa nuova (…)

configurazione della schiavitù (…) trovasse la sua strada quella

specie superiore di spiriti dominatori e cesarei, che su tutto ciò

si appoggerebbe, si sosterrebbe e potrebbe innalzarsi’ (…)

L’aspetto dell’attuale Europeo mi dà molte speranze: va

formandosi una audace razza dominatrice sulla base di una

massa estremamente intelligente… Le stesse condizioni che

favoriscono lo sviluppo dell’animale del gregge provocano

anche la formazione dell’animale capo.

F. Nietzsche:

Chi ha conservato ed ha educato in sé una forte volontà,

e possiede al tempo stesso uno spirito ampio, gode di

possibilità più favorevoli che mai in precedenza. La

plasmabilità degli uomini è infatti diventata grandissima

in questa Europa democratica; uomini che imparano

facilmente e si adattano facilmente rappresentano la

regola: l’animale del gregge, per di più assai intelligente,

è preparato. Chi può comandare trova quelli che

debbono ubbidire.

F. Nietzsche:

In tali condizioni, quali sono presentate alla nostra civiltà, di

movimenti eccessivi per il ritmo e per i mezzi spiegati, il centro di

gravità degli uomini si sposta… In questo caso il centro di gravità cade

necessariamente sui mediocri: la mediocrità, in quanto garanzia e

portatrice dell’avvenire, si consolida contro il dominio della plebe e

dell’eccentricità (per lo più collegate tra loro). Dal che sorge per gli

uomini di eccezione un nuovo avversario, o anche una nuova seduzione.

Posto che essi non si adattino alla plebe e non cantino le loro poesie per

compiacere all’istinto dei diseredati, dovranno essere necessariamente

«mediocri» e «solidi»… Ancora una volta (…) tutto quanto il mondo

completamente esaurito dell’ideale viene ad ottenere una pregiata

difesa… Risultato: la mediocrità acquista spirito, arguzia, genio, diventa

divertente, seduce…

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 7

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:

In passato l’anima guardava al corpo con

disprezzo: e questo disprezzo era allora la

cosa più alta: - essa voleva il corpo

macilento, orrido, affamato. Pensava in tal

modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra.

Ma quest’anima era anch’essa macilenta,

orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di

quest’anima (pp. 6-7).

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:

’Io’ dici tu, e sei orgoglioso di questa

parola. Ma la cosa ancora più grande,

cui tu non vuoi credere – il tuo corpo e

la sua grande ragione: essa non dice

‘io’, ma fa ‘io’ (p. 34).

F. Nietzsche, Frammenti postumi:

Tutto ciò che entra nella coscienza costituisce

l’ultimo anello di una catena, di una chiusura.

Che un pensiero sia immediatamente causa di un

altro pensiero, è cosa solo apparente. I veri

avvenimenti concatenati si svolgono al di sotto

della nostra coscienza: le serie e successioni di

sentimenti, pensieri, eccetera, che si producono,

sono solo sintomi del vero accadere.

F. Nietzsche, Frammenti postumi:

E anche quei piccolissimi esseri viventi che

costituiscono il nostro corpo (o meglio: del cui

cooperare ciò che chiamiamo corpo è la migliore

immagine) non sono per noi atomi spirituali, ma

qualcosa che cresce, lotta, si accresce e a sua

volta muore: sicché il loro numero muta in modo

variabile, e la nostra vita è, come qualunque vita,

in pari tempo, un continuo morire

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 8

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

G. Le Bon, Psicologia delle folle:Ciò che più colpisce in una folla psicologica è il fatto che gli individui

che la compongono – indipendentemente dal tipo di vita,

dall’occupazione, dal temperamento o dall’intelligenza - acquistano una

sorta di anima collettiva per il solo fatto di appartenere alla folla. Tale

anima li fa sentire, pensare ed agire in un modo del tutto diverso da

come ciascuno di loro – isolatamente – sentirebbe, penserebbe e

agirebbe.

Certe idee, certi sentimenti non sorgono o non si trasformano in atti se

non negli individui che costituiscono folla. La folla psicologica é un

essere provvisorio, composto di elementi eterogenei per un istante uniti

fra loro, proprio come le cellule di un corpo vivente che con la loro

unione formano un essere umano il quale manifesta caratteri assai

diversi da quelli che ognuna di quelle cellule possiede.

G. Le Bon, Psicologia delle folle:

I nostri atti incoscienti derivano da un substrato incosciente formato specialmente da influenze

ereditarie. Questo substrato racchiude gli innumerevoli residui atavici che costituiscono l'anima

della razza. Dietro le cause palesi dei nostri atti, si trovano cause segrete, ignorate da noi. La

maggior parte delle nostre azioni quotidiane sono effetto dei moventi nascosti che ci sfuggono.

Specialmente per gli elementi incoscienti che compongono l'anima di una razza, tutti gli individui

di questa razza si assomigliano. Per gli elementi coscienti, frutto dell'educazione, ma soprattutto di

un'eredità eccezionale, essi differiscono. Gli uomini più dissimili per intelligenza hanno istinti,

passioni, sentimenti a volte identici. In tutto ciò che é materia di sentimento : religione, politica,

morale, affezioni, antipatie, ecc., gli uomini più eminenti non superano che assai raramente il

livello degli individui comuni. Tra un celebre matematico e il suo calzolaio può esistere un abisso

sotto il rapporto intellettuale, ma dal punto di vista del carattere e delle credenze la differenza é

spesso nulla o lievissima Ora, queste qualità generiche del carattere, guidate dall'incosciente e

possedute press'a poco allo stesso grado dalla maggior parte degli individui normali di una razza,

sono precisamente quelle che, nelle folle, si trovano messe in comune. Nell'anima collettiva, le

attitudini intellettuali degli uomini, e per conseguenza la loro individualità, si cancellano.

L'eterogeneo si sommerge nell'omogeneo, e le qualità incoscienti dominano.

G. Le Bon, Psicologia delle folle:Diverse cause determinano l'apparizione dei caratteri particolari alle folle. La prima

consiste nel conferire agli individui di una folla, per il solo fatto del numero, un

sentimento di potenza invincibile che permette loro di cedere agli istinti, che

individui isolati avrebbero saputo frenare. L'individuo cederà tanto più volontieri

inquantoché nella folla, essendo essa anonima, e di conseguenza irresponsabile, il

sentimento della responsabilità che sempre trattiene gli individui, scompare

completamente.

Una seconda causa, il contagio mentale, interviene ugualmente per determinare

nelle folle la manifestazione di caratteri speciali e nello stesso tempo il loro

orientamento. Il contagio é un fenomeno facile a constatarsi, ma non ancora

spiegato, e che bisogna ricollegare a fenomeni di ordine ipnotico. (…) In una folla,

ogni sentimento, ogni atto è contagioso, e contagioso a tal punto che l'individuo

sacrifica il suo interesse personale all'interesse collettivo. E questa un'attitudine

contraria alla sua natura, e di cui l'uomo non diventa affatto capace se non

allorquando fa parte di una folla.

G. Le Bon, Psicologia delle folle:

Una terza causa, e assai più importante,

determina negli individui in folla dei

caratteri speciali a volte intensamente

opposti a quelli dell'individuo isolato.

Voglio dire della suggestionabilità, il cui

contagio, sopra menzionato, non é del resto

che un effetto.

G. Le Bon, Psicologia delle folle:

(…) Delle attente osservazioni sembrano provare che l'individuo,

tuffato da qualche tempo in seno ad una folla in fermento, cade in

breve in seguito agli effluvi che ne sprigionano, o per altra causa

ancora ignorata - in uno stato particolare, simile assai allo stato di

fascinazione dell'ipnotizzato tra le mani del suo ipnotizzatore.

Essendo, nell'ipnotizzato, paralizzata la vita del cervello, egli

diventa lo schiavo di tutte le attività incoscienti che l'ipnotizzatore

dirige a suo talento. La personalità cosciente é svanita, la volontà

e il discernimento aboliti.

Sentimenti e pensieri sono allora orientati nel senso determinato

dall'ipnotizzatore.

G. Le Bon, Psicologia delle folle:Questo é all'incirca lo stato dell'individuo che fa parte della folla. Egli

non é più cosciente dei suoi atti. In lui, come nell'ipnotizzato, mentre

certe facoltà sono distrutte, altre possono essere condotte a un grado

estremo di esaltazione. L'influenza di una suggestione lo lancerà con

una imperiosità irresistibile verso il compimento di certi atti.

Impetuosità più irresistibile ancora nelle folle che nei soggetti

ipnotizzati, poiché la suggestione, essendo la stessa per tutti gli

individui, straripa diventando reciproca. Le unità di una folla che

posseggono una personalità abbastanza forte per resistere alla

suggestione, sono in numero troppo esiguo e la corrente le trascina.

Tutt'al più esse potranno tentare una diversione per una diversa

suggestione. Una parola felice, una immagine evocata hanno a volte

sviato la folla dagli atti più sanguinari.

G. Le Bon, Psicologia delle folle:Dunque, annullamento della personalità cosciente, predominio della

personalità incosciente, orientamento per via della suggestione e di

contagio dei sentimenti e delle idee in un medesimo senso, tendenza a

trasformare immediatamente in atti le idee suggerite: tali sono i principali

caratteri dell'individuo nella folla. Egli non é più sé stesso, ma un automa

diventato impotente a guidare la propria volontà.

Per il solo fatto di far parte di una folla, l'uomo discende di parecchi gradi

la scala della civiltà. Isolato, sarebbe forse un individuo colto, nella folla è

un istintivo, per conseguenza un barbaro. Egli ha la spontaneità, la

violenza, la ferocia e anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri

primitivi. Si fa simile ad essi anche per la sua facilità a lasciarsi

impressionare da parole, immagini, e guidare ad atti che ledono i suoi

interessi più evidenti. L'individuo della folla é un granello di sabbia in

mezzo ad altri granelli di sabbia che il vento solleva a suo capriccio.

G. Le Bon, Psicologia delle folle:Non appena un certo numero di esseri viventi sono riuniti, si tratti d'un

branco di animali o di una folla d'uomini, si mettono istintivamente

sotto l'autorità di un capo, cioè di una guida.

Nelle folle umane, il caporione ha una parte notevole. La sua volontà é

il nodo intorno a cui si formano e si identificano le opinioni. La folla é

un gregge che non potrebbe far a meno di un padrone. Il condottiero

quasi sempre é stato prima un fanatico ipnotizzato dall'idea di cui in

seguito s'é fatto apostolo. Quest'idea ha talmente invaso che tutto

sparisce all'infuori di essa, e tutte le opinioni contrarie gli sembrano

errori e superstizioni. Così Robespierre, ipnotizzato dalle sue chimeriche

idee, e che adoperò i procedimenti dell'Inquisizione per propagarle.

G. Le Bon, Psicologia delle folle:

Gli agitatori tendono oggi a sostituire progressivamente i poteri

pubblici a misura che questi ultimi si lasciano discutere e

indebolire. Grazie alla loro tirannia, questi nuovi padroni

ottengono dalle folle una docilità completa che nessun governo

può ottenere. Se, per un incidente qualsiasi, il condottiero sparisce

e non é subito sostituito, la folla ridiventa una collettività senza

coesione né resistenza. Durante lo sciopero dei conducenti

d'omnibus a Parigi, fu sufficiente arrestare i due agitatori che lo

dirigevano, per farlo subito cessare. L'anima delle folle é sempre

dominata dal bisogno di servitù e non da quello di libertà. La

sete di obbedienza le fa sottomettere d'istinto a chi si dichiara

loro padrone.

S. Freud, Psicologia di massa è analisi

dell’io:

"Finché la formazione collettiva persiste e fin dove si

estende il suo dominio, gli individui si comportano come

se fossero omogenei, tollerano il modo di essere

peculiare dell'altro, si considerano uguali a lui e non

provano nei suoi confronti alcun sentimento di

avversione. In base alle nostre concezioni teoriche, tale

limitazione del narcisismo può essere il prodotto di un

solo fattore: il legame libidico con gli altri. L'amore per

se stessi trova un limite solo nell'amore esterno,

nell'amore volto agli oggetti".

S. Freud, Psicologia di massa è analisi

dell’io:

Per quanto riguarda il rapporto con il capo, esso va

ricondotto all'identificazione, che è " la prima manifestazione

di un legame emotivo con un'altra persona" e "tende a

configurare il proprio Io alla stregua dell'Io della persona

assunta come modello", determinando dunque la produzione

dell'ideale dell'Io.

«Il legame reciproco tra gli individui componenti la massa ha

la natura di tale identificazione dovuta a un importante

aspetto affettivo posseduto in comune. Si può supporre che

questa cosa in comune sia il tipo di legame istituito con il

capo».

S. Freud, Psicologia di massa è analisi

dell’io:

La “formula della costituzione libidica della

massa”:

“Una massa è un insieme di individui che

hanno assunto a loro ideale dell’Io lo stesso

oggetto e che pertanto si sono identificatio

gli uni negli altri nel loro Io”.

S. Freud, Psicologia di massa è analisi

dell’io:

"La massa ci appare quindi come una reminiscenza dell'orda

primordiale. Come in ogni singolo è virtualmente conservato

l'uomo primigenio, così a partire da un raggruppamento umano

qualsivoglia può ricostituirsi l'orda primordiale; nella misura in

cui la formazione collettiva domina abitualmente gli uomini, in

essa riconosciamo la continuazione dell'orda primordiale.

Dobbiamo concludere che la psicologia della massa è la

psicologia più antica: ciò che, omettendo tutti i residui collettivi,

abbiamo isolato come psicologia individuale, si è venuto

staccando dalla vecchia psicologia collettiva solo in un secondo

tempo, gradualmente e in un certo senso in modo tuttora parziale".

S. Freud, Psicologia di massa è analisi

dell’io:

"Il carattere perturbante, costrittivo, della formazione

collettiva, il quale è manifesto nei fenomeni di suggestione

che la contraddistinguono, può quindi venir con ragione

ricondotto alla sua derivazione dall'orda primordiale. Il

capo della massa è ancora sempre il temuto padre

primigenio, la massa continua a voler essere dominata da

una violenza senza confini, è sempre sommamente avida

di autorità, ha, secondo l’espressione di Le Bon, sete di

sottomissione. Il padre primigenio è l'ideale della massa

che domina l'Io anziché l'Ideale dell'Io".

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 9

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

Max Weber:

«Come ogni altra attività, l’attività sociale può essere

determinata:

1) In modo razionale rispetto allo scopo (zweckrational),

attraverso delle aspettative concernenti i comportamenti

degli oggetti del mondo esteriore o quelli degli altri uomini;

2) In modo razionale rispetto al valore (wertrational) attraverso

la credenza cosciente nel valore intrinseco di un

comportamento – di ordine etico, estetico, religioso o altro –

indipendentemente dal successo sperato;

3) Secondo gli affetti (in particolare le emozioni), a partire dalle

passioni e dai sentimenti specifici degli attori;

4) Secondo la tradizione, in virtù di abitudini inveterate».

Max Weber:

«Agisce in maniera razionale rispetto allo scopo

colui che orienta il suo agire allo scopo, ai

mezzi e alle conseguenze concomitanti,

misurando razionalmente i mezzi in rapporto

agli scopi, gli scopi in rapporto alle

conseguenze ed infine anche i diversi scopi

possibili in rapporto reciproco: in ogni caso

egli non agisce quindi né affettivamente né

tradizionalmente»

Il «politeismo dei valori»:

«Tra i valori (…) si tratta in ultima

analisi, ovunque e sempre, non già di

semplici alternative, ma di una lotta

mortale senza possibilità di

conciliazione, come tra ‘dio’ e il

‘demonio’».

Max Weber:Uno degli elementi costitutivi dello spirito capitalistico moderno (e

non soltanto di questo, ma della civiltà moderna), ossia la condotta

razionale della vita sul fondamento dell’idea di professione, è nato

(…) dallo spirito dell’ascesi cristiana… Quando infatti l’ascesi fu

trasferita dalle celle dei monaci alla vita professionale e cominciò a

dominare l’eticità intra-mondana, essa cooperò per la sua parte

all’edificazione di quel possente cosmo dell’ordinamento economico

moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione

meccanica, che oggi determina con strapotente forza coercitiva – e

forse continuerà a determinare finché non sarà bruciato l’ultimo

quintale di combustibile fossile – lo stile di vita di tutti gli individui

nati in questo ingranaggio, e non soltanto di quelli direttamente attivi

nell’acquisizione economica.

Max Weber:

Secondo l’opinione di Richard Baxter, la cura per i beni

esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi soltanto come

un ‘sottile mantello che si possa gettar via in ogni momento’.

Ma il destino fece del mantello una gabbia di acciaio. Mentre

l’ascesi intraprendeva lo sforzo di trasformare il mondo e di

esercitare la sua influenza nel mondo, i beni esteriori di questo

mondo acquistavano un potere crescente e, alla fine,

ineluttabile sull’uomo, come mai prima nella storia. Oggi il suo

spirito – chissà se per sempre – è fuggito da questa gabbia. In

ogni caso il capitalismo vittorioso, da quando si fonda su una

base meccanica, non ha più bisogno di questo sostegno.

Max Weber:

Nessuno sa chi in futuro abiterà in quella gabbia e se, alla

fine di questo enorme sviluppo, vi saranno profeti

interamente nuovi o una potente rinascita di principi e di

ideali antichi, oppure ancora – escludendo l’una e l’altra

alternativa – una pietrificazione meccanizzata, adornata di

una specie di convulso desiderio di sentirsi importante.

Allora, certo, per gli ‘ultimi uomini’ di questo sviluppo

culturale potrebbe diventare verità il principio: ‘specialisti

senza spirito, gaudenti senza cuore – questo nulla

s’immagine di essere salito a un grado mai prima raggiunto

di umanità.

Max Weber: la teoria politica

Con Macht si intende «ogni possibilità di

imporre la propria volontà all’interno di una

relazione sociale anche contro eventuali

resistenze, qualunque sia il suo fondamento».

Herrschaft è «la possibilità di trovare

obbedienza ad un comando di contenuto

determinato da parte di qualsivoglia persona»

Max Weber: la teoria politica

«Gli agenti possono accordare a un ordine una validità

legittima:

a)In virtù della tradizione: validità di ciò che è sempre

stato;

b)In virtù di una credenza di ordine affettivo (del tutto

emozionale): validità della nuova rivelazione o

dell’esemplarità;

c)In virtù di una credenza razionale secondo dei valori:

validità di ciò che si ritiene essere un assoluto;

d)In virtù di uua disposizione positiva, alla legalità della

quale si crede».

Max Weber: la teoria politica

«Ci sono tre tipi di dominazione legittima. La validità di questa legittimità

si può basare:

1)Su dei motivi razionali, che si basano sulla credenza nella legalità dei

regolamenti emanati e del diritto di dare delle direttive che hanno coloro

che sono chiamati a esercitare l’autorità con questi mezzi (autorità legale);

2)Su dei motivi tradizionali, che poggiano sulla credenza quotidiana nella

santità delle tradizioni immemoriali nella legittimità di coloro che sono

chiamati ad esercitare l’autorità attraverso tali mezzi (autorità tradizionale);

3)Su dei motivi carismatici, che poggiano sulla devozione nei confronti

della santità eccezionale, della virtù eroica o del carattere esemplare di una

persona individuale, o ancora che emanano da ordini rivelati o emanati da

quella (autorità carismatica)».

L’ « etica della convinzione» e l’

«etica della responsabilità»:

L’uomo dell’etica della responsabilità (…) mette in conto proprio

quei difetti riscontrabili nella media degli uomini, (…) non si

sente autorizzato a scaricare sugli altri le conseguenze del suo

operare, nella misura in cui egli le poteva prevedere. (…) L’uomo

dell’etica della convinzione si sente «responsabile» solo riguardo

a che il fuoco della pura convinzione non si spenga, il fuoco ad

esempio della protesta contro l’ingiustizia dell’ordine sociale.

Ravvivare di continuo questo fuoco è lo scopo delle sue azioni del

tutto irrazionali, se giudicate a partire dal possibile successo, le

quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare… (M.

Weber, La politica come professione)

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 10

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

(…) La mobilitazione parziale corrisponde (…)

all’essenza della monarchia, la quale oltrepassa i propri

limiti precisamente in quanto è costretta a coinvolgere

nell’armamento le forme astratte dello spirito, del

denaro, del ‘popolo’, in breve le potenze della nascente

democrazia nazionale. Retrospettivamente noi oggi

possiamo dire che era del tutto impossibile rinunciare

completamente a questo coinvolgimento. Il modo di

incorporare queste forze nello Stato rappresenta il nucleo

effettivo dell’arte di governo del XIX secolo…

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

Si può ora indagare come, essendosi sempre più trasformata la vita in

energia ed essendosi progressivamente tutti i vincoli svuotati di contenuto a

favore della crescente mobilità, l’atto della mobilitazione (…) abbia

assunto un carattere sempre più radicale. I fenomeni che causano tutto ciò

sono svariati. Così, con la liquidazione dei ceti e con l’abolizione dei

privilegi della nobiltà, scompare contemporaneamente anche il concetto di

casta guerriera; la rappresentanza armata della nazione non è più dovere e

prerogativa soltanto del soldato di professione, ma diventa compito di tutti

coloro che in generale sono atti alle armi. Così, l’enorme aumento dei costi

rende impossibile provvedere alla condotta della guerra con un tesoro di

guerra ben definito, e diventa piuttosto necessario, per mantenere in moto la

Macchina, utilizzare al massimo tutti i crediti e ricorrere anche all’ultimo

centesimo…

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

Così, anche l’immagine della guerra come di un’azione

armata sfuma sempre più nell’immagine ben più ampia

di un gigantesco processo di lavoro. Accanto agli eserciti

che si affrontano sui campi di battaglia sorgono eserciti di

nuovo tipo, l’esercito dei trasporti,

dell’approvvigionamento, dell’industria degli armamenti:

in generale, l’esercito del lavoro. Nell’ultima fase, già

annunciata verso la fine di questa guerra, non vi è più alcuna

attività – neppure quella della lavoratrice domestica alla sua

macchina per cucire – che non sia collegata, in forma almeno

indiretta, alla produzione bellica…

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

In questo assoluto coinvolgimento di ogni energia potenziale, che

trasforma le industrie belliche statali in officine di Vulcano, si

annuncia forse nel modo più evidente l’inizio dell’epoca del lavoro:

questo processo fa della guerra mondiale un fenomeno storico che

supera d’importanza la rivoluzione francese. Per dispiegare energie

di questa misura non è più sufficiente armare il braccio che porta la

spada: è necessario essere armati fino nelle midolla, fino nel più

sottile nervo vitale. Porre in essere quelle energie è il compito della

mobilitazione totale, di un atto cioè attraverso il quale è possibile,

impugnano un unico comando su un quadro di controllo, far

confluire la rete d’energie – tanto ramificata e diffusa – della vita

moderna nella grande corrente dell’energia bellica.

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

Come ogni vita genera in sé già il seme della propria morte, così

anche l’apparire sulla sena delle grandi masse include in sé una

democrazia della morte. Ci siamo già lasciati alle spalle l’epoca

del tiro ben mirato. Il comandante di squadriglia, che nell’alto

della notte impartisce l’ordine di bombardamento, non è più in

grado di distinguere fra combattenti e non combattenti, e la nuvola

mortale di gas trascorre come un elemento naturale su tutti gli

esseri viventi. Ma che simili minacce siano possibili non implica,

come presupposto, né una mobilitazione generale, sì invece una

mobilitazione totale, che si estende fino al bambino nella culla.

Questi è infatti minacciato come tutti gli altri, se non addirittura di

più…

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

Ci sarebbe ancora molto da dire: ma basta soltanto considerare

questa nostra vita nel suo pieno scatenarsi e nel suo spietato

disciplinari, coi suoi quartieri fumosi e ardenti, con la fisica e la

metafisica del suo traffico e dei suoi trasporti, dei suoi motori, dei

suoi aeroplani e delle sue gigantesche metropoli, per intuire, con

una sensazione di piacere mista a spavento, che qui non vi è

neppure un atomo che non sia all’opera, e che noi stessi siamo

totalmente impegnati, nel modo più profondo, in questo furioso

processo. La mobilitazione totale non tanto è eseguita, quanto

piuttosto essa stessa si esegue: in pace e in guerra è l’espressione

di una misteriosa e cogente esigenza, a cui siamo sottomessi da

questo vivere nell’epoca delle masse e delle massime…

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

Si perviene così al risultato che ogni singola

vita diventa sempre più inequivocabilmente

una vita di operaio e che alle guerre dei

cavalieri, dei re e dei borghesi seguono le

guerre degli operai, guerre della cui

struttura razionale e della cui spietatezza ci

ha già dato un preannuncio il primo grande

conflitto del XX secolo.

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

(…) Tuttavia il versante tecnico della mobilitazione

totale non è quello decisivo. I suoi presupposti, come i

presupposti di ogni tecnica, si situano a un livello molto

più profondo: ne vogliamo trattare qui come della

disponibilità alla mobilitazione. Questa disponibilità era

presente in tutte le nazioni; la guerra mondiale è stata

una delle guerre più “popolari” che la storia conosca. E

ciò è accaduto perché questa guerra si è verificata in una

guerra che sembrava escludere a priori ogni altro tipo di

guerra che non fosse quella di “popolo”.

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

(…) Quando ci troviamo di fronte a sforzi di questa portata,

che si esprimono in potenti costruzioni quali le piramidi o le

cattedrali, oppure in guerre che scuotono fin gli ultimi nervi

vitali – sforzi che possiedono la peculiare caratteristica della

mancanza di scopo – Non riusciamo a trattarli con

spiegazioni di tipo economico, per quanto siano penetranti.

E’ questo, del resto, il motivo per cui la scuola del

materialismo storico può sfiorare solo la superficie degli

avvenimenti. Di fronte a sforzi di questo tipo il primo

sospetto deve piuttosto essere che ci si trovi di fronte ad un

fenomeno di rango cultuale.

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

Con l’osservare che consideriamo il progresso come la grande religione

popolare del XIX secolo, individuavamo già il livello in cui supponiamo

possa essere stato efficace quel potente appello col cui aiuto soltanto poté

avere esecuzione l’aspetto decisivo – cioè quello religioso – della

mobilitazione totale nei riguardi delle masse gigantesche che dovettero

essere acquisite per partecipare all’ultima guerra. Che le masse vi si

sottraessero era tanto meno possibile quanto più si faceva appello alla loro

convinzione, quanto più puramente, quindi, la tendenza delle grandi parole

d’ordine con cui erano state poste in movimento esprimeva un contenuto

progressista. (…) Chi potrebbe negare che la civilisation è più intimamente

legata al progresso che non la Kultur e che quella proprio nelle grandi città

può parlare la sua lingua naturale, maneggiando abilmente mezzi o concetti

coi quali la Kultur o non ha rapporti o ne ha di ostili?

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

(…) Se osserviamo il mondo quale è risultato dalla catastrofe, che unità

di esiti, che cogente consequenzialità storica! In verità, se si fossero

riunite in un sol punto tutte le formazioni spirituali e materiali estranee

alla Zivilisation, che dalla fine del XIX secolo si sono protratte fin

dentro la nostra epoca, e se si fosse aperto il fuoco contro di ese con tutti

i cannoni del mondo, il risultato non avrebbe potuto essere più evidenti.

L’antico carillon di campane del Cremlino è regolato per suonare la

melodia dell’«Internazionale». A Costantinopoli gli scolari imparano

caratteri latini invece degli antichi arabeschi del Corano. A Napoli e a

Palermo poliziotti fascisti danno ordine all’animazione della vita

meridionale, secondo i principi di un moderno codice della strada. Nei

paesi più lontani del mondo, ancora quasi favolosi, si inaugurano palazzi

del Parlamento…

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

L’astrattezza, e quindi anche la crudeltà, di tutti i rapporti umani si accresce

ininterrottamente. Il patriottismo è sostituito da un nuovo nazionalismo, fortemente

radicato nella coscienza popolare. Nel fascismo, nel bolscevismo,

nell’americanismo, nel sionismo, nei movimenti dei popoli di colore, il progresso

segna impetuose avanzate, che in passato sarebbero state ritenute impensabili; in un

certo senso il progresso si capovolge, per proseguire il proprio movimento ad un

livello semplicissimo dopo aver descritto un cerchio con la propria artificiosa

dialettica. Il progresso comincia ad assoggettare a sé i popoli in forme che non sono

più distinguibili da quelle di un regime assoluto, se si prescinde dalla misura, molto

più limitata, di libertà e benessere. La maschera umanitaria è già quasi del tutto

caduta in molti punti, e ne è risultato un feticismo della macchina, per metà

grottesco e per metà barbarico, un ingenuo culto della tecnica, e ciò proprio in

luoghi in cui non c’è possibilità di rapporto immediato e produttivo con quelle

energie dinamiche della cui distruttiva marcia trionfale l’artiglieria pesante e le

squadriglie di bombardieri non sono che l’espressione militare…

Ernst Jünger, La mobilitazione totale:

Contemporaneamente aumenta il valore attribuito alle masse; il livello di consenso e di

‘pubblicità’ diventa il fattore decisivo della politica. Particolarmente il socialismo ed il

nazionalismo sono le due grandi macine da mulino fra le quali il progresso tritura i resti

dell’antico mondo, ed infine anche se stesso. Da cent’anni a questa parte la «destra» e la

«sinistra» si sono contese a vicenda, come una palla, le masse accecate dall’illusione

ottica del diritto di voto; è sempre sembrato che ciascuno dei due avversari offrisse una

possibilità di riparo davanti alle pretese dell’altro. Oggi in tutti i paesi si fa sempre più

evidente che sono identiche, e perfino il sogno della libertà vien meno, come sotto la

presa di una ferrea tenaglia. E’ uno spettacolo grandioso e terribile vedere i movimenti

delle masse, sempre più uniformate, e lo spirito del mondo stendere su di essi le sue reti.

Ogni movimento rende l’imprigionamento sempre più rigido e implacabile: sono qui

all’opera sistemi di coercizione più forti della tortura, tanto forti che l’uomo si consegna

ad essi salutandoli con entusiasmo. Dietro ogni via di fuga che assuma a proprio simbolo

la felicità stanno in agguato il dolore e la morte. Felice chi, in questi spazi, avanza

armato!

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 11

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

Carl Schmitt, Teologia politica (1922):

Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione.

Infatti ogni ordine riposa su una decisione e

anche il concetto di ordinamento giuridico, che

viene acriticamente impiegato come qualcosa che

si spiega da sé, contiene in sé la contrapposizione

dei due diversi elementi del dato giuridico. Anche

l’ordinamento giuridico, come ogni altro ordine,

riposa su una decisione e non su una norma.

Carl Schmitt, Teologia politica (1922):

(…) L’eccezione è ciò che non è riconducibile; essa si sottrae

all’ipotesi generale, ma nello stesso tempo rende palese in assoluta

purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione.

Nella sua forma assoluta il caso d’eccezione si verifica solo allorché

si deve creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme

giuridiche. Ogni norma generale richiede una strutturazione normale

dei rapporti di vita, sui quali essa di fatto deve trovare applicazione e

che essa sottomette alla propria regolamentazione normativa. La

norma ha bisogna di una situazione media omogenea. Questa

normalità di fatto non è semplicemente un «presupposto esterno» che

il giurista può ignorare; essa riguarda invece direttamente la sua

efficacia immanente.

Carl Schmitt, Teologia politica (1922):

Non esiste nessuna norma che sia applicabile ad un caos.

Prima dev’essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso

l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione

normale, e sovrano è colui che decide in modo definitivo se

questo stato di normalità regna davvero. Ogni diritto è

«diritto applicabile ad una situazione». Il sovrano crea e

garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli

ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza

della sovranità statale, che quindi propriamente non

dev’essere definita giuridicamente come monopolio della

sanzione o del potere, ma come monopolio della decisione…

Carl Schmitt, Teologia politica (1922):

L’eccezione è più importante del caso

normale. Quest’ultimo non prova nulla,

l’eccezione prova tutto; non solo essa

conferma la regola: la regola stessa vive

solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la

forza della vita reale rompe la crosta di

una meccanica irrigidita nella

ripetizione…

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

La specifica distinzione politica alla quale è possibile

ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di

amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione

concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o

una spiegazione del contenuto. (…) Il significato della

distinzione di amico e nemico è di indicare l’estremo grado

di intensità di un’unione o di una separazione, di

un’associazione o di una dissociazione; essa può sussistere

teoricamente e praticamente senza che, nello stesso tempo,

debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni morali,

estetiche, economiche o di altro tipo.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Non c’è bisogno che il nemico politico sia moralmente

cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve

necessariamente presentarsi come concorrente economico e

forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con

lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e

basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un

senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di

straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili

con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso

un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di

un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Solo chi vi prende parte direttamente può por

termine al caso conflittuale estremo; in

particolare solo costui può decidere se

l’alterità dello straniero nel conflitto

concretamente esistente significhi la negazione

del proprio modo di esistere e perciò sia

necessario difendersi e combattere, per

preservare il proprio, peculiare, modo di vita.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico

non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a

sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che

combatte almeno virtualmente, e che si contrappone ad un altro

raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il

nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile

raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa

per ciò stesso pubblico. Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in

senso ampio. (…) La contrapposizione politica è la più intensa ed

estrema di tutte e ogni altra contrapposizione concreta è tanto

più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello del

raggruppamento in base ai concetti di amico-nemico…

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Nel concetto di nemico rientra l’eventualità, in termini reali, di una

lotta. Questo termine va impiegato prescindendo da tutti i mutamenti

casuali o dipendenti dallo sviluppo storico della tecnica militare e delle

armi. La guerra è lotta armata fra unità politiche organizzate, la

guerra civile è lotta armata all’interno di un’unità organizzata (che

proprio perciò però sta divenendo problematica). L’essenza del

concetto di arma sta nel fatto che essa è uno strumento di uccisione

fisica di uomini. Come il termine di nemico anche quello di lotta

dev’essere qui inteso nel senso di un’originarietà assoluta. Esso non

significa concorrenza, non la lotta «puramente spirituale» della

discussione, non il simbolico «lottare» che alla fine ogni uomo in

qualche modo compie sempre, poiché in realtà l’intera vita umana è

una «lotta» ed ogni uomo un «combattente».

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro

significato reale dal fatto che si riferiscono in modo

specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica. La

guerra consegue dall’ostilità poiché questa è

negazione assoluta di ogni altro essere. La guerra è

solo la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha

bisogno di essere vista come qualcosa di ideale o di

desiderabile: essa deve però esistere come possibilità

reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il

suo significato…

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Allo Stato, in quanto unità sostanzialmente politica,

compete il jus belli, cioè la possibilità reale di

determinare, in dati casi e in forza di una decisione

propria, il nemico e di combatterlo. E’ poi indifferente

con quali mezzi tecnici la guerra verrà condotta, quale

organizzazione militare esista, quante probabilità vi

siano di vincere la guerra, purché il popolo

politicamente uno sia pronto a combattere per la sua

esistenza ed indipendenza: nel che esso determina, in

forza di decisione propria, la sua indipendenza e

libertà.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

(…) Lo Stato come unità politica decisiva ha concentrato presso di sé

una competenza immensa: la possibilità di far la guerra e quindi spesso

di disporre della vita degli uomini. Infatti il jus belli contiene una

disposizione di questo tipo; esso comporta la duplice possibilità di

ottenere dagli appartenenti al proprio popolo la disponibilità a morire e

ad uccidere, e di uccidere gli uomini che stanno dalla parte del nemico.

Il compito di uno Stato normale consiste però soprattutto nell’assicurare

all’interno dello Stato e del suo territorio una pace stabile, nello stabilire

«tranquillità, sicurezza e ordine» e di procurare in tal modo la situazione

normale che funge da presupposto perché le norme giuridiche possano

aver vigore, poiché ogni norma presuppone una situazione normale e

non vi è norma che possa aver valore per una situazione completamente

abnorme nei suoi confronti

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome

dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra

per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il

suo avversario di un concetto universale per potersi identificare

con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si

possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso,

civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’umanità è uno

strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche

ed è, nella sua orma etico-umanitaria, un veicolo specifico

dell’imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con

una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di

umanità, vuol trarvi in inganno.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome

dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra

per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il

suo avversario di un concetto universale per potersi identificare

con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si

possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso,

civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’umanità è uno

strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche

ed è, nella sua orma etico-umanitaria, un veicolo specifico

dell’imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con

una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di

umanità, vuol trarvi in inganno.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità,

monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe

manifestare soltanto – visto che non si possono impiegare

termini del genere senza conseguenze di un certo tipo – la

terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di un

uomo, che esso dev’essere dichiarato hors-la.loi e hors-

l’umanité e quindi che la guerra deve essere portata fino

all’estrema inumanità. Ma al di fuori di questa

utilizzazione altamente politica del termine non politico di

umanità, non vi sono guerre dell’umanità come tale

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

[La] necessità di pacificazione interna porta, in situazioni critiche, al fatto

che lo Stato, in quanto unità politica, determina da sé, finché esiste, anche il

«nemico interno». In tutti gli Stati esiste perciò in qualche forma ciò che il

diritto statale delle repubbliche greche conosceva come dichiarazione di

polemios e il diritto statale romano come dichiarazione di hostis: forme

cioè più o meno acute, automatiche o efficaci solo in base a leggi speciali,

manifeste o celate in prescrizioni generali, di bando, di proscrizione, di

estromissione dalla comunità di pace, di collocazione hors la loi, in una

parola di dichiarazione di ostilità interna allo Stato. Questo è il segno, a

seconda del comportamento di colui che è stato dichiarato nemico dello

Stato, della guerra civile, cioè del superamento dello Stato come unità

politica organizzata, pacificata al suo interno, chiusa territorialmente e

impenetrabile ai nemici. Il successivo destino di questa unità sarà poi

deciso dalla guerra civile…

Carl Schmitt, Dottrina della costituzione

Intesa nel suo senso assoluto, costituzione significa «il

concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con

ogni unità politica esistente». «Lo Stato non ha una

costituzione, conforme alla quale si forma e funziona

una volontà statale, ma lo Stato è la costituzione, cioè

una condizione presente conforme a se stessa, uno status

di unità e ordine. Lo stato cesserebbe di esistere se

questa costituzione, cioè questa unità e ordine, cessasse.

La costituzione è la sua «anima», la sua vita concreta e

la sua esistenza individuale» (p. 17).

Carl Schmitt, Dottrina della costituzione

Intesa in senso positivo, la costituzione è la decisione

fondamentale circa la forma e la specie dell’unità

politica . Essa «vige in forza della volontà politica esistente

di chi la pone».

«Potere costituente è una volontà politica il cui potere o

autorità è in grado di prendere la decisione concreta

fondamentale sulla specie e la forma della propria esistenza

politica, ossia di stabilire complessivamente l’esistenza

dell’unità politica. Dalle decisioni di questa volontà si fa

discendere la validità di ogni ulteriore disciplina legislativa

costituzionale».

Carl Schmitt, Dottrina della costituzione

Stato è un determinato status di un popolo, e

precisamente lo status dell’unità politica. Forma

di Stato è la specie particolare della struttura di

questa unità. Soggetto di ogni determinazione

concettuale dello Stato è il popolo. Lo Stato è una

condizione, e precisamente la condizione di un

popolo.

Carl Schmitt, Il Nomos della Terra

I grandi atti primordiali del diritto restano (…) localizzazioni

legate alla terra. Vale a dire: occupazioni di terra, fondazioni di

città e fondazioni di colonie. (…) Un occupazione di terra

istituisce diritto secondo una duplice direzione: verso l’interno e

verso l’esterno. Verso l’interno, vale a dire internamente al gruppo

occupante, viene creato con la prima divisione e ripartizione del

suolo il primo ordinamento di tutti i rapporti di possesso e

proprietà. (…) Verso l’esterno, il gruppo occupante si trova posto

di fronte ad altri gruppi e potenze che occupano la terra e ne

prendono possesso. Qui l’occupazione di terra rappresenta un

titolo di diritto internazionale…

Carl Schmitt, Il Nomos della Terra

La guerra diventa ora una “guerra in forma”, une guerre

en forme e ciò solo in conseguenza del fatto che essa

diviene guerra tra Stati europei con superfici

chiaramente delimitate, confronto tra unità spaziali

rappresentate come personae publicae che sul comune

suolo europeo formano la “famiglia” europea degli Stati

e pertanto sono in grado di considerarsi reciprocamente

come justi hostes.

Carl Schmitt, Il Nomos della Terra

La discriminazione del nemico quale criminale e la contemporanea

implicazione della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento

dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di

guerra: Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca

l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva.

(…) Il bombardiere o l’aereo di attacco a volo radente usano le proprie

armi contro la popolazione nemica verticalmente, come San Giorgio

usava la sua lancia contro il drago. Nella misura in cui oggi la guerra

viene trasformata in azione di polizia contro i turbatori della pace,

criminali ed elementi nocivi, deve anche essere potenziata la

giustificazione di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la

discriminazione dell’avversario in dimensioni abissali…

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 12

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

George Sorel, Riflessioni sulla violenza:

«Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si figurano le

loro future azioni sotto forma di immagini di battaglie per assicurare il

trionfo della loro causa. Io proponevo di chiamar ‘miti’ tali costruzioni,

la cui comprensione è di così alta importanza per lo storico: in questo

senso, lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica

di Marx sono miti. Come esempi notevoli di miti ho dato quelli costruiti

dal cristianesimo primitivo, dalla Riforma, dalla Rivoluzione, dai

mazziniani; ciò che volevo mostrare è che non bisogna cercare di

analizzare un tale sistema di immagini allo stesso modo che si scompone

una cosa nei suoi elementi; e che, invece, bisogna prenderli nel loro

insieme, come energie storiche; e guardarsi, soprattutto, dal confrontare

i fatti compiuti con le rappresentazioni fantastiche formatesi prima

dell’azione».

George Sorel, Riflessioni sulla violenza:

Un mito non troverebbe possibilità di essere

rifiutato, poiché esso è, nell’insieme,

identico alle convinzioni di un gruppo, ed è

l’espressione di queste convinzioni in

linguaggio di movimento, e quindi, per

conseguenza, non è scomponibile in parti, le

quali si possano applicare su di un piano di

descrizioni storiche.

George Sorel, Riflessioni sulla viiolenza:

il socialismo è diventato una preparazione delle masse impiegate dalla

grande industria, le quali vogliono sopprimere lo Stato e la società; da

ora in avanti il modo in cui gli uomini si adopereranno per godere la

felicità futura non sarà più oggetto di ricerca; tutto si riduce

all’apprendistato rivoluzionario del proletariato. Disgraziatamente Marx

non aveva sotto gli occhi i fatti che ci sono divenuti familiari; noi

sappiamo meglio di lui ciò che sono gli scioperi, perché abbiamo potuto

osservare conflitti economici considerevoli per estensione e durata; il

mito dello sciopero generale è divenuto popolare ed ha fatto solida presa

nei cervelli; in fatto di violenza noi abbiamo delle idee che Marx non

avrebbe potuto formarsi facilmente; noi dunque possiamo completare la

sua dottrina, invece di commentare i suoi testi come per tanto tempo

hanno fatto dei malfortunati discepoli.

George Sorel, Riflessioni sulla violenza:

Oggi la fiducia dei socialisti è più grande che mai da quando

il mito dello sciopero generale domina tutto il movimento

realmente operaio. Un insuccesso non può provare niente

contro il socialismo dopo che esso è divenuto un lavoro di

preparazione; se viene sconfitto, ciò vuol dire che la

preparazione è stata insufficiente; bisogna rimettersi

all’opera con più coraggio, più insistenza, più fiducia che

mai; la pratica del lavoro ha insegnato agli operai che è

mediante un paziente apprendistato che si può divenire un

vero compagno; ed è anche la sola maniera per divenire un

vero rivoluzionario…

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

Bisognerà forse (…) prendere in considerazione la

sorprendente possibilità che l'interesse del diritto a

monopolizzare la violenza rispetto alla persona singola

non si spieghi con l'intenzione di salvaguardare i fini

giuridici, ma piuttosto con quella di salvaguardare il

diritto stesso. E che la violenza, quando non è in

possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenti

per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa

persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del

diritto.

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):Per quanto possa sembrare a prima vista paradossale, si può definire, in certe condizioni,

come violenza anche un contegno assunto nell'esercizio di un diritto. E precisamente questo

contegno, ove sia attivo, potrà dirsi violenza, quando esercita un diritto che gli compete per

rovesciare l’ordinamento giuridico in virtù del quale esso gli è conferito; ove sia passivo,

potrà essere definito allo stesso modo, se rappresenta un ricatto nel senso delle considerazioni

precedenti. Testimonia quindi solo di una contraddizione oggettiva nelle situazione giuridica.

e non già di una contraddizione logica nel diritto che esso si opponga, in certe condizioni, con

la violenza alla violenza degli scioperanti. Poiché nello sciopero lo Stato teme, più di ogni

altra cosa, quella funzione della violenza che questa indagine si propone appunto di

determinare come unico fondamento sicuro della sua critica. Poiché se la violenza, come

sembra a prima vista, fosse semplicemente il mezzo di assicurarsi direttamente di quella cosa

qualunque a cui si mira. essa potrebbe assolvere al suo scopo solo come violenza di rapina. E

sarebbe affatto inetta a fondare o modificare rapporti in modo relativamente stabile. Ma lo

sciopero mostra che essa può farlo, che essa è in grado di fondare e modificare rapporti

giuridici, per quanto il sentimento di giustizia possa restarne offeso…

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

Ogni violenza (Gewalt) è, come mezzo,

potere che pone o che conserva il diritto. Se

non pretende a nessuno di questi due

attributi rinuncia da sé a ogni validità. Ma

ne consegue che ogni violenza come mezzo

partecipa, anche nel caso piú favorevole,

alla problematicità del diritto in generale.

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

Poiché il diritto positivo, dove è consapevole delle sue radici, pretenderà

senz’altro di riconoscere e di promuovere l'interesse dell'umanità nella

persona di ogni singolo. Esso vede questo interesse nell'esposizione e nella

conservazione di un ordine stabilito dal destino. E anche se quest'ordine

(che il diritto afferma a ragione di custodire) non può sfuggire alla critica

resta tuttavia impotente, nei suoi confronti, ogni contestazione che si affacci

solo in nome di una «libertà» informe, senza essere in grado di definire

quell'ordine superiore di libertà. E tanto più impotente se non impugna

l'ordinamento giuridico stesso in tutte le sue parti, ma singole leggi o

consuetudini giuridiche, che poi, del resto, il diritto prende sotto la custodia

del suo potere che consiste in ciò che c’è un solo destino e che proprio ciò

che esiste e soprattutto ciò che minaccia, appartiene irrevocabilmente al suo

ordinamento. Poiché il potere che conserva il diritto è quello che

minaccia…

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

La funzione della violenza nella creazione giuridica è (…) duplice

nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue ciò che

viene instaurato come diritto, come scopo, con la violenza come

mezzo, pure – nell’atto di insediare come diritto lo scopo

perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in

senso stretto, e cioè immediatamente, violenza creatrice di diritto,

in quanto insedia come diritto, col nome di potere (Macht), non

già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma

intimamente e necessariamente legato ad essa. Creazione di diritto

è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata

manifestazione di violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità

divina, potere il principio di ogni diritto mitico.

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

Lungi dall’aprirci una sfera più pura, la manifestazione mitica della

violenza immediata si rivela profondamente identica ad ogni potere

giuridico, e trasforma il sospetto della sua problematicità nella certezza

della perniciosità della sua funzione storica, che si tratta quindi di

distruggere. E questo compito pone, in ultima istanza, ancora una volta

il problema di una violenza pura immediata, che possa arrestare il corso

della mitica. Come in tutti i campi al mito Dio, così, alla violenza

mitica, si oppone quella divina, che ne costituisce l’antitesi in ogni

punto. Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se

quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza

mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe,

questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale senza sangue…

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

Il sangue è il simbolo della nuda vita. La dissoluzione

della violenza giuridica risale quindi (…) alla

colpevolezza della nuda vita naturale, che affida il

vivente, innocente e infelice, al castigo, che ‘espia’ la sua

colpa – e purga anche il colpevole, non però da una

colpa, ma dal diritto. Poiché con la nuda vita cessa l

dominio del diritto sul vivente. La violenza mitica è

violenza sanguinosa sulla nuda vita in nome della

violenza: la pura violenza divina sopra ogni vita in nome

del vivente.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 13

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

Il concetto di ideologia in Marx

1) Credenze illusorie o socialmente sconnesse,

che si considerano il fondamento della storia e

che distraendo gli uomini e le donne dalle loro

vere condizioni sociali (comprese le

determinazioni sociali delle loro idee), servono

a sorreggere un potere oppressivo.

Il contrario di ciò è una conoscenza esatta e

spregiudicata delle condizioni sociali materiali

Il concetto di ideologia in Marx

2) Idee che esprimono direttamente gli

interessi materiali della classe sociale

dominante e che sono utili alla difesa del suo

dominio.

Il contrario di ciò è o la vera conoscenza

scientifica o la coscienza delle classi non

dominanti.

Il concetto di ideologia in Marx

3) Tutte le forme concettuali in cui si combatte

la lotta di classe, compresa probabilmente l

valida coscienza di forze politicamente

rivoluzionarie. Il contrario di ciò è qualsiasi

concezione al momento non coinvolta nella

lotta.

Il concetto di ideologia in Marx

4) Una non verità esistente, praticamente

fondata, dotata di conseguenze pratiche ed

infine interamente sopprimibile soltanto

attraverso la prassi. (Il Capitale, Analisi del

feticcio della merce)

Lenin, Che fare?Tutti coloro che parlano di "sopravvalutazione della ideologia", di esagerazione della

funzione dell'elemento cosciente, ecc., immaginano che il movimento puramente operaio sia

di per sé in grado di elaborare - ed elabori in realtà - una ideologia indipendente; che ciò che

più conta sia che gli operai "strappino dalle mani dei dirigenti le loro sorti". Ma questo è un

profondo errore. Per completare quanto abbiamo detto sopra, riportiamo anche le seguenti

parole di K. Kautsky, profondamente giuste e importanti, circa il progetto di un nuovo

programma del Partito socialdemocratico austriaco :

«(…) La scienza economica contemporanea è, al pari della tecnica moderna, una condizione

della produzione socialista, e il proletariato, per quanto lo desideri, non può creare né l'una né

l'altra; la scienza e la tecnica sorgono entrambe dal processo sociale contemporaneo. Il

detentore della scienza non è il proletariato, ma sono gli intellettuali borghesi [sottolineato da

K.K.]; anche il socialismo contemporaneo è nato nel cervello di alcuni membri di questo ceto,

ed è stato da essi comunicato ai proletari più elevati per il loro sviluppo intellettuale, i quali in

seguito lo introducono nella lotta di classe del proletariato, dove le condizioni lo permettono.

La coscienza socialista è quindi un elemento importato nella lotta di classe del proletariato

dall'esterno, e non qualche cosa che ne sorge spontaneamente».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Per Marx le “ideologie” sono tutt’altro che illusioni e apparenza; sono una

realtà oggettiva ed operante, ma non sono la molla della storia, ecco tutto. […]

Marx afferma esplicitamente che gli uomini prendono coscienza dei loro

compiti nel terreno ideologico, delle superstrutture, il che non è piccola

affermazione di “realtà”. […]Questo argomento del valore concreto delle

superstrutture in Marx dovrebbe essere bene studiato. Ricordare il concetto di

Sorel del “blocco storico”. Se gli uomini prendono coscienza del loro compito

nel terreno delle superstrutture, ciò significa che tra struttura e superstrutture c’è

un nesso necessario e vitale, così come nel corpo umano tra la pelle e lo

scheletro: si direbbe uno sproposito se si affermasse che l’uomo si mantiene

eretto sulla pelle e non sullo scheletro, e tuttavia ciò non significa che la pelle

sia una cosa apparente e illusoria, tanto è vero che non è molto gradevole la

situazione dell’uomo scorticato».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Il lavoratore medio opera praticamente, ma non ha una chiara

coscienza teorica di questo suo operare-conoscere il mondo; la sua

coscienza teorica anzi può essere “storicamente” in contrasto col suo

operare. Egli cioè avrà due coscienze teoriche, una implicita nel suo

operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella

trasformazione pratica del mondo, e una “esplicita”, superficiale, che

ha ereditato dal passato. La posizione pratico-teorica, in tale caso,

non può non diventare “politica” cioè quistione di “egemonia”. La

coscienza di essere parte della forza egemonica (cioè la coscienza

politica) è la prima fase di una ulteriore e progressiva autocoscienza,

cioè di unificazione della pratica e della teoria».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Evidentemente è impossibile una “statistica” dei modi di pensare e

delle singole opinioni individuali, che dia un quadro organico e

sistematico: non rimane che la revisione della letteratura più diffusa e

più popolare combinata con lo studio e la critica delle correnti

ideologiche precedenti, ognuna delle quali “può” aver lasciato un

sedimento, variamente combinatosi con quelli precedenti e susseguenti.

In questo stesso ordine di osservazioni si inserisce un criterio più

generale: i mutamenti nei modi di pensare, nelle credenze, nelle

opinioni, non avvengono per “esplosioni” rapide e generalizzate,

avvengono per lo più per “combinazioni successive” secondo “formule”

disparatissime. […] nella sfera della cultura i diversi strati ideologici si

combinano variamente e ciò che è diventato “ferravecchio” nella città è

ancora “utensile” in provincia»

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Ogni strato sociale ha il suo “senso comune” che è in fondo la

concezione della vita e la morale più diffusa. Ogni corrente

filosofica lascia una sedimentazione di “senso comune”: è questo

il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è

qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente,

arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate

nel costume. Il “senso comune” è il folklore della “filosofia” e sta

di mezzo tra il “folklore” vero e proprio (cioè come è inteso) e la

filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il “senso

comune” crea il futuro folklore, cioè una fase più o meno irrigidita

di un certo tempo e luogo».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Poiché “pare”, per uno strano capovolgimento delle prospettive,

che le scienze naturali diano la capacità di prevedere l’evoluzione

dei processi naturali, la metodologia storica è stata concepita

“scientifica” solo se e in quanto abilita astrattamente a

“prevedere” l’avvenire della società. Quindi la ricerca delle cause

essenziali, anzi della “causa prima”, della “causa delle cause”. Ma

le “Tesi su Feuerbach” avevano già criticato anticipatamente

questa concezione semplicistica. In realtà si può prevedere

“scientificamente” solo la lotta, ma non i momenti concreti di

essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in

continuo movimento».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Il materialismo storico è il

coronamento di tutto questo movimento

di riforma intellettuale e morale, nella

sua dialettica cultura popolare – alta

cultura. Corrisponde alla Riforma +

Rivoluzione francese, universalità +

politica»

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi

puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e

oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo».

«Si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-

massa, la propria personalità è composita in modo bizzarro: si

trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della

scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi

storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una

filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato

mondialmente»

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Ho notato altra volta che in una determinata società

nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si

intendano organizzazione e partito in senso largo e non

formale. In questa molteplicità di società particolari, di

carattere duplice, naturale e contrattuale o volontario,

una o più prevalgono relativamente o assolutamente,

costituendo l’apparato egemonico di un gruppo sociale

sul resto della popolazione (o società civile), base dello

Stato inteso strettamente come apparato governativo-

coercitivo».

Antonio Gramsci, La quistione meridionale:

«Il proletariato, per essere capace di governare come classe, deve

spogliarsi di ogni residuo corporativo, di ogni pregiudizio o

incrostazione sindacalista. (…) Occorre, per conquistarsi la fiducia e il

consenso dei contadini e di alcune categorie semiproletarie della città,

superare alcuni pregiudizi e vincere certi egoismi. (…) Il metallurgico, il

falegname, l’edile ecc. devono non solo pensare come proletari e non

più come metallurgico, falegname, edile, ecc., ma devono fare ancora un

passo avanti: devono pensare come operai membri di una classe che

tende a dirigere i contadini e gli intellettuali (…). Se non si ottiene ciò, il

proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati, che in Italia

rappresentano la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la

direzione borghese, danno allo Stato la possibilità di resistere all’impeto

proletario e di fiaccarlo».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Questa è la fase più schiettamente politica, che segna il netto

passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse,

è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano

“partito”, vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una

sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a

prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area sociale,

determinando oltre che l’unicità dei fini economici e politici,

anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le quistioni

intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un

piano “universale” e creando così l’egemonia di un gruppo sociale

fondamentale su una serie di gruppi subordinati».

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Il metodo dialettico è la predominanza metodologica

della totalità sui momenti particolari. (…) La totalità

concreta è la categoria autentica della realtà. (…) La

considerazione della genesi della intellegibilità di un

oggetto a partire dalla sua funzione nella totalità

determinata (…) fa della concezione dialettica della

totalità la sola che comprenda la realtà come divenire

sociale.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla

scienza borghese non è il predominio delle motivazioni

economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di

vista della totalità. La categoria della totalità, il dominio

determinante e onnilaterale dell’intero sulle parti è

l’essenza del metodo che Marx ha assunto da Hegel

riformulandolo in modo originale e ponendolo alla base

di una scienza interamente nuova…

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Il dominio della categoria della totalità è il veicolo del

principio rivoluzionario della scienza. E’ solo in Marx che

la dialettica hegeliana è diventata, secondo l’espressione di

Herzen, un’algebra della rivoluzione. Ma essa non lo è

diventata semplicemente per il rovesciamento

materialistico. Piuttosto il principio rivoluzionario della

dialettica hegeliana ha potuto manifestarsi in e per questo

rovesciamento perché è stata salvata l’essenza del metodo,

cioè il punto di vista della totalità (…) inteso come unità

del pensiero e della storia.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Il metodo dialettico di Marx mira alla conoscenza

della società come totalità. Per il marxismo non

c’è dunque in ultima analisi una scienza

giuridica, una economia politica, una storia, ecc.

autonome: c’è una sola scienza, storia e

dialettica, unica e unitaria dello sviluppo della

società come totalità. (…) Totalità tanto come

oggetto posto che come soggetto ponente.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

L’empirismo crede di poter trovare un fatto importante

in ogni dato, in ogni statistica, in ogni factum brutum

della vita economica. Ed esso non si rende conto che

l’enumerazione più semplice, la catalogazione di “fatti”

più scarna di commenti è già un’ “interpretazione”; che

già fin d’ora i fatti sono appresi a partire da una teoria,

secondo un metodo; che sono stati strappati alla

connessione vitale in cui originariamente erano inseriti e

sono stati introdotti nel contesto di una teoria.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Il marxismo ha perso la capacità di vedere la totalità della

società come totalità storica concreta, di intendere le forme

reificate come processi tra uomini di portare positivamente

alla coscienza e trasformare in prassi il senso immanente

dell’evoluzione che si manifesta negativamente nelle

contraddizioni della forma astratta della esistenza. Se in tale

ideologia il principio dell’uomo come valore, come ideale,

come imperativo morale, ecc. ha un ruolo sempre più

importante (…), questo non è che un sintomo della ricaduta

nella immediatezza borghese reificata.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

In opposizione all’accettazione dogmatica di una

realtà semplicemente data ed estranea al soggetto,

nasce l’esigenza di comprendere, a partire dal

soggetto-oggetto identico, ogni dato come

prodotto di questo soggetto-oggetto, ogni dualità

come caso particolare derivato da questa unità

primitiva. Ora questa unità e attività.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Solo l’unità del soggetto e dell’oggetto, del pensiero e

dell’essere che la prassi ha intrapreso a provare e a

dimostrare, trova realmente il luogo della sua realizzazione

e del suo sostrato nella unità tra la genesi delle

determinazioni pensate e la storia del divenire della realtà.

Tale unità può tuttavia essere compresa come unità a

condizione che non solo il luogo metodologico della

soluzione possibile sia indicato nella storia, ma anche che

il noi – soggetto della storia – e la cui azione è la storia

reale – possa essere concretamente mostrato.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Nella misura in cui la coscienza viene riferita all’intero della

società, si riconoscono quelle idee, sentimenti, ecc. che gli

uomini avrebbero avuto in una determinata situazione di vita,

se fossero stati in grado di cogliere pienamente questa

situazione, e gli interessi da essa emergenti, sia in rapporto

all’agire immediato, sia in rapporto alla struttura – conforme

a questi interessi – dell’intera società… Ora, la coscienza di

classe è la reazione razionalmente adeguata che viene in

questo modo attribuita di diritto a una determinata posizione

tipica nel processo di produzione.

G. Lukàcs, Prefazione a Storia e coscienza

di classe (1967):

Il proletariato come soggetto-oggetto identico

della storia dell’umanità non è quindi una

realizzazione materialistica che sia in grado di

superare le costruzioni intellettuali idealistiche: si

tratta piuttosto di un hegelismo più hegeliano di

Hegel, di una costruzione che intende

oggettivamente oltrepassare il maestro stesso

nell’audacia con cui si eleva con il pensiero al di

sopra di qualsiasi realtà.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 14

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

La Scuola di Francoforte:

Max Horkheimer

Theodor W. Adorno

Herbert Marcuse

Erich Fromm

Walter Benjamin

Max Horkheimer, Crepuscolo:

«Non so in che misura i metafisici abbiano

ragione, forse da qualche parte esiste

davvero un sistema o un frammento

metafisico particolarmente calzante, so però

che di solito i metafisici sono solo

scarsamente impressionati da ciò che

tormenta gli uomini»

Max Horkheimer, Teoria tradizionale e

teoria critica:

L’obiettivo della teoria tradizionale è sempre stato la

formulazione di principi generali internamente coerenti

che descrivessero il mondo. Sebbene scopo della teoria

tradizionale sia stato sempre la pura conoscenza, più che

l’azione, nella misura in cui essa consente di prevedere e

controllare teoricamente processi naturali e sociali nel

loro complesso, tradisce il riferimento ad un nesso di

azione che ha come fine il dominio tecnologico sia della

natura fisica che di determinati processi economici e

sociali.

Max Horkheimer, Teoria tradizionale e

teoria critica:

La teoria critica si rifiuta di feticizzare la conoscenza

come qualcosa di separato e superiore all’azione. Così

facendo, essa si sottrae all’errore fondamentale della

teoria tradizionale: mentre questa si è estraniata dalla

prassi sociale come sua origine, credendo di poter

fondare il proprio metodo esclusivamente su criteri

conoscitivi immanenti, la teoria, intesa nel senso della

critica, rimane costantemente consapevole del proprio

nesso costitutivo.

Max Horkheimer, Teoria tradizionale e

teoria critica:

Adottando tale prospettiva, la teoria critica diviene in grado

di riconoscere che l’ideale della libertà dell’intellettuale è un

mito: la ricerca scientifica disinteressata è impossibile in una

società in cui gli uomini non sono ancora autonomi; il

ricercatore è sempre parte dell’oggetto che intende studiare, e

dato che la società che studia non è ancora il frutto di una

scelta libera e razionale dell’uomo lo scienziato non può

evitare di partecipare a quell’eteronomia. La sua percezione è

necessariamente mediata dalle categorie sociali al di sopra

delle quali non si può sollevare.

Max Horkheimer, Teoria tradizionale e

teoria critica:

Per quanto in definitiva faccia parte della

società, il ricercatore diviene così capace di

sollevarsi al di sopra di essa. Effettivamente

il suo dovere è quello di individuare quelle

forze e tendenze negative della società

che rinviano a una realtà diversa.

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):

Per cultura affermativa intenderemo quella cultura che, proprio dell’epoca

borghese, ha portato, nel corso del suo sviluppo, a fare del mondo

dell’anima e dello spirito un regno autonomo di valori, a staccarlo dalla

ciiltà materiale per innalzarlo al di sopra di questa. Il suo tratto più

caratteristico è l’affermazione che c’è un mondo di valore superiore ed

eternamente migliore, il quale è impegnativo per tutti e va approvato

incondizionatamente. Questo mondo è essenzialmente diverso dal mondo

effettivo della lotta quotidiana per l’esistenza, e tuttavia ogni individuo può

realizzarlo per sé «dall’interno», senza cambiare quel mondo fattuale.

Soltanto in questa cultura le attività e gli oggetti cultuali assumono questa

dignità che si innalza al di sopra della vita di tutti i giorni: la loro recezione

diventa un atto di solennità e di elevazione…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):

Nella cultura dell’anima hanno trovato accesso, sotto una forma

falsa, quelle forze e quei bisogni che non hanno trovato posto

nell’esistenza quotidiana. L’ideale della cultura ha accolto in sé

l’aspirazione ad una vita più felice: all’umanità, alla bontà, alla gioia,

alla verità e alla solidarietà. Ma questi valori portano tutti il segno

affermativo di appartenere ad un mondo più alto, più puro, non

quotidiano. Essi vengono interiorizzati come doveri della singola

anima (e così l’anima dovrebbe portare a compimento ciò che viene

costantemente tradito nell’esistenza esterna dell’Intero), oppure

rappresentati come oggetti dell’arte (e così la loro realtà viene

assegnata ad una sfera che per sua essenza non è quella della vita

effettiva)…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):

Alla miseria dell’individuo isolato [la cultura affermativa]

risponde con un umanitarismo universale, alla miseria fisica con la

bellezza dell’anima, alla schiavitù esterna con la libertà interiore,

all’egoismo brutale con il regno della virtù e del dovere. Se

all’epoca dell’ascesa combattiva della nuova società tutte queste

idee avevano un carattere progressivo, che andava oltre lo stadio

raggiunto dall’organizzazione dell’esistenza, ora invece esse

servono, in misura crescente e di pari passo con il consolidarsi del

dominio della borghesia, al compito di tenere a freno le masse

insoddisfatte, e assumono la funzione di una mera autoesaltazione

giustificatoria: esse nascondono la mutilazione fisica e psichica

dell’individuo…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):

Interiorizzando ciò che è bello e privo di scopo e

facendone, assieme alla qualità della validità

universale e vincolante e della bellezza sublime, i

valori culturali della borghesia, si costruisce nella

cultura un regno di apparente unità e di apparente

libertà, in cui i rapporti antagonistici che reggono

l’esistenza devono essere inquadrati e pacificati.

La cultura approva e tiene celate le nuove

condizioni sociali di vita…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):

Persino la felicità diventa nella cultura affermativa un mezzo per inquadrarsi meglio e

accontentarsi di poco. L’arte, mostrando la bellezza come una presenza reale, acquieta la

rivolta della nostalgia. Insieme con le altre sfere culturali essa ha contribuito alla grande

realizzazione educativa di questa cultura, quella cioè di diciplinare l’individuo liberato,

per il quale la nuova libertà aveva portato con sé una nuova forma di schiavitù, in modo

tale da fargli sopportare l’illibertà dell’esistenza sociale. Il contrasto palese tra le

possibilità di una vita più ricca, dischiuse proprio con l’aiuto del pensiero moderno, e la

povertà della configurazione fattuale della vita ha continamente costretto questo

pensiero a interiorizzare le proprie rivendicazioni, a eludere le proprie conseguenze. C’è

voluta un’educazione secolare per rendere tollerabile quel grande shock che si riproduce

ogni giorno: da una parte la predica continua sulla inalienabilità, libertà, grandezza e

dignità della persona, sulla magnificenza e autonomia della ragione, sulla bontà

dell’humanitas e di quell’amore per gli uomini e di quella giustizia che non fanno

distinzione; dall’altra l’umiliazione della più grande parte dell’umanità, l’irrazionalità

della vita sociale, la vittoria del mercato di lavoro sull’humanitas, del profitto sull’amore

per gli uomini…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

La cultura affermativa è stata la forma storica, in cui sono

stati custoditi i bisogni umani che andavano al di là della

riproduzione materiale dell’esistenza; per questo verso, vale

per la cultura affermativa quello che vale anche per la forma

di realtà sociale in cui essa rientra: il diritto è anche dalla sua

parte. E’ vero che ha tolto ai “rapporti esterni” il peso della

responsabilità per la “destinazione dell’uomo”, rendendo

stabile la loro ingiustizia; ma vi ha anche contrapposto

l’immagine di un ordine migliore, la cui realizzazione è

affidata, come un compito all’ordine presente.

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

L’immagine è distorta, e questa distorsione ha falsato tutti i valori culturali

della borghesia. Eppure è un’immagine di felicità: c’è un frammento di

beatitudine terrena nelle opere della grande arte borghese, anche quando

esse dipingono il cielo. L’individuo gode la bellezza, la bontà, lo splendore

e la pace, la gioia vittoriosa; anzi gode persino il dolore e la pena, la

crudeltà e il crimine. Egli vive una liberazione, e così l’individuo

comprende e trova comprensione e risposta ai suoi impulsi e alle sue

esigenze. Ha luogo una rottura privata della reificazione. Nell’arte non

occorre conformarsi alle leggi della realtà. Ciò che qui importa è l’uomo,

non la sua professione o la sua posizione. Il dolore è dolore, e la gioia la

gioia. Il mondo appare di nuovo come ciò che esso è dietro la forma della

merce: un paesaggio è realmente un paesaggio, un uomo è realmente un

uomo e una cosa realmente una cosa…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

Nella misura in cui la cultura ha dato forma alle

nostalgie e agli impulsi appagabili, ma di fatto

inappagati degli uomini, essa perderà il proprio

oggetto… La bellezza si incarnerà diversamente,

quando non dovrà più essere rappresentata come

apparenza reale, ma dovrà esprimere la realtà e la

gioia che si trarrà da essa.

H. Marcuse, Filosofia e teoria critica (1937):

«La ragione è la categoria fondamentale del pensiero filosofico, l’unica

per mezzo della quale questo si mantiene legato al destino dell’umanità.

La filosofia voleva investigare le ragioni ultime e più universali

dell’essere. Sotto la denominazione di ragione essa ha pensato l’idea di

un essere autentico, in cui siano unificate tutte le opposizioni di

importanza decisiva (tra soggetto e oggetto, essenza e fenomeno,

pensiero ed essere). A questa idea di connetteva la convinzione che

l’essente non fosse già razionale in modo immediato, ma dovesse ancora

essere addotto a ragione… Essendo il mondo in quanto dato legato al

pensiero razionale, anzi dipendendone nel suo essere, ogni cosa che

contraddiceva la ragione, che non era razionale, era considerata

qualcosa da superare. La ragione era così eretta a istanza critica»

H. Marcuse, Filosofia e teoria critica (1937):

Il concetto di ideologia ha un senso soltanto se rimane legato

all’interesse della teoria ad un cambiamento della struttura sociale. Non

è né un concetto sociologico, né filosofico, ma un concetto politico.

Esso tratta una dottrina non in rapporto al condizionamento sociale di

ogni verità o in rapporto ad una verità assoluta, ma esclusivamente in

rapporto a quell’interesse. Innumerevoli dottrine filosofiche non sono

altro che mere ideologie, le quali, nelle loro illusioni su stati di cose

socialmente rilevanti, si lasciano docilmente inquadrare nel generale

apparato del dominio. La filosofia idealistica della ragione non è tra

queste, e non lo è proprio nella misura in cui (…) ha saputo vedere

alcuni punti di importanza decisiva della società borghese: l’Io astratto,

la ragione astratta, la libertà astratta. Per questo verso è una coscienza

giusta.

H. Marcuse, Filosofia e teoria critica (1937):

Se ragione significa dare alla vita una forma che

corrisponda alla libera decisione degli uomini

come soggetti di conoscenza, allora la ragione

pone ormai l’esigenza di creare

un’organizzazione sociale in cui gli individui

regolino in comune la propria vita secondo i loro

bisogni. In questa società, in cui la ragione fosse

realizzata, sarebbe superata anche la filosofia.

Herbert Marcuse:

Di per sé la scientificità non è mai una garanzia per la

verità, e tantomeno in una situazione come quella

odierna, n cui la verità è in stretta opposizione ai fatti

e si trova anzi celata dietro ai fatti. E non è la

prevedibilità scientifica che possa afferrarne il

carattere futuro…

Senza la fantasia, ogni conoscenza filosofica rimane

sempre e soltanto legata al presente o al passato e

tagliata fuori dal futuro, che è il solo a congiungere la

filosofia con la storia reale dell’umanità.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 15

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

Herbert Marcuse, Prefazione a Cultura e società:

Una cosa (…) non era incerta per l’autore di

questi saggi e per i suoi amici dell’Istituto: il

riconoscimento del fatto che lo stato fascista era

la società fascista, che il potere totalitario e la

ragione totalitaria provenivano dalla struttura

della società esistente, che era allora sul punto di

lasciarsi alle spalle il suo passato liberale e di

annettersi la sua negazione storica.

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

La situazione cambia non appena una mobilitazione soltanto

parziale (che lascia di riserva la vita privata dell’individuo) non

basti più a mantenere in piedi la forma esistente del processo di

lavoro, e occorra invece una «mobilitazione totale», per mezzo

della quale l’individuo venga sottomesso in tutte le sfere della sua

esistenza, alla disciplina dello Stato autoritario. Qui la borghesia

entra in conflitto con la sua stessa cultura. La mobilitazione totale

nell’epoca del capitalismo monopolistico non è più conciliabile

con quei momenti progressivi della cultura imperniati sull’idea

della personalità. Ha inizio così l’autosoppressione della cultura

affermativa.

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

La cultura affermativa aveva superato gli antagonismi sociali in un’astratta

universalità interiore; come persone, nella libertà e dignità della loro anima,

tutti gli uomini hanno lo stesso valore; in alto, al di sopra dei contrasti

fattuali, si eleva il regno della solidarietà culturale. Questa astratta

comunità interiore (astratta perché lascia sussistere i contrasti reali) si

capovolge, nell’ultimo periodo della cultura affermativa, in una comunità

esteriore altrettanto astratta. L’individuo viene posto in una falsa comunità

(razza, stirpe, sangue e terra). Ma questa esteriorizzazione ha la stessa

funzione dell’interiorizzazione: rinuncia e integrazione nell’ordine

esistente, resi sopportabili dall’apparenza reale della soddisfazione. Che gli

individui liberati ormai da quattrocento anni marcino così bene nelle

colonne dello Stato autoritario, è un risultato a cui ha contribuito non poco

la cultura affermativa...

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

(…) L’individuo ripieno di anima cede più facilmente, si piega

più umilmente al destino, ubbidisce meglio all’autorità. Dopo

tutto, mantiene per sé tuta quanta la ricchezza dell’anima e può

trasfigurarsi tragicamente ed eroicamente. Ciò che è stato

seminato da Lutero in poi, cioè l’intensa educazione alla libertà

interiore, dà i suoi più bei frutti ora che la libertà interiore

sopprime se stessa risolvendosi in illibertà esteriore. (…) Le

feste e le celebrazioni dello Stato autoritario, le sue parate e

tutta la sua fisionomia, i discorsi dei suoi capi, anch’essi

parlano all’anima. Essi si rivolgono al cuore, anche se non

pensano che al potere.

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

Noi viviamo in un periodo storico in cui tutto dipende da una enorme mobilitazione e

concentrazione di tutte le forze disponibili. A che serve questa mobilitazione e concentrazione

delle forze? Ciò che Ernst Jünger indica ancora come salvataggio della «totalità della nostra

vita», come creazione di un mondo eroico del lavoro e simili, si rivela in seguito sempre più

come trasformazione di tutta quanta l’esistenza a servizio degli interessi economici più forti.

E’ sulla base di questi che sono determinate anche le esigenze di una nuova cultura. La

necessaria intensificazione e generalizzazione della disciplina di lavoro fanno apparire come

tempo sprecato l’attività rivolta agli «ideli di una scienza obiettiva e di un’arte la cui esistenza

sia fine a se stessa»; esse rendono desiderabile alleggerirsi, in questo campo, di una parte del

bagaglio. (…) Se prima l’elevazione nella cultura doveva dare soddisfazione al desiderio

personale di felicità, ora invece la felicità del singolo deve sparire nella grandezza del popolo.

Se prima la cultura aveva acquitato nell’apparenza reale la pretesa di felicità, deve ora

insegnare all’individuo che non gli è nemmeno permesso di avanzare per sé una pretesa del

genere: «Il criterio dato risiede nella condotta di vita del lavoratore. Non si tratta di migliorare

questa condotta, ma di darle un senso supremo, decisivo». Anche qui l’«elevazione» dovrebbe

sostituire il cambiamento. Così questo smantellamento della cultura è l’espressione della

massima acutizzazione di tendenze che erano già da tempo alla base della cultura

affermativa…

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo

nella concezione totalitaria dello Stato (1934):…L’esistenziale in quanto tale viene dispensato da ogni razionalizzazione e da ogni

inquadramento normativo che lo trascendano; esso è a se stesso norma assoluta e non è

accessibile a nessuna critica e giustificazione razionale. In questo senso gli stati di cose e

le relazioni politiche vengono ora definiti come i rapporti «che decidono» dell’esistenza

nel senso più pregnante, E, all’interno dei rapporti politici, tutte le relazioni sono a loro

volta orientate al verificarsi del «caso estremo»: alla decisione sullo «stato di

eccezione», su guerra e pace. Il vero depositario del potere politico si definisce al di là di

ogni legalità o legittimità: «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»; la sovranità si

fonda sul potere effettivo di prendere questa decisione (decisionismo). La relazione

politica per eccellenza è la «relazione di amico-nemico»; il suo caso estremo è a sua

volta la guerra, che va fino all’eliminazione fisica del nemico. Non c’è nessuna relazione

sociale che in caso estremo non si capovolga in una relazione politica: dietro a tutti i

rapporti economici, sociali, religiosi, culturali c’è la politicizzazione totale. Non c’è

nessuna sfera dell’esistenza privata o pubblica, nessuna istanza giuridica e razionale che

si possa opporre a questa politicizzazione…

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo

nella concezione totalitaria dello Stato (1934):

La totalità sociale, intesa come realtà autonoma e primaria rispetto

agli individui diventa, semplicemente in grazia del suo carattere di

totalità, anche un valore autonomo e primario: la totalità è, in

quanto totalità, il vero e l’autentico. Qui non viene posta la

questione se ogni totalità non debba prima di tutto legittimarsi di

fronte agli individui, e in che misura le loro possibilità e necessità

siano in essa superate e conservate. Spostando la totalità all’inizio

anziché alla fine, si sbarra la via alla critica teorica e pratica della

società, che porta appunto a questa totalità. La totalità viene

mistificata in maniera programmatica

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo

nella concezione totalitaria dello Stato (1934):

L’attivizzazione e la politicizzazione totale strappano ampi strati

sociali alla neutralità che li paralizzava, e creano nuove forme di

lotta politica e nuovi metodi di organizzazione politica su tutto un

fronte che ha una larghezza e profondità finora sconosciute. Viene

abolita la separazione di Stato e società, che il XIX secolo nel suo

liberalismo aveva cercato di metter ein atto: lo Stato fa sua l’opera

di integrazione politica della società. E in seguito

all’esistenzializzazione e totalizzazione della politica, lo Stato

diventa anche il portatore delle possibilità autentiche

dell’esistenza stessa. Non è lo Stato che deve rispondere all’uomo,

ma l’uomo che deve rispondere allo Stato: l’uomo è alla mercè

dello Stato.

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella

concezione totalitaria dello Stato (1934):

Kant era convinto che ci fossero dei diritti «inalienabili» degli uomini, a cui

«l’uomo non può rinunziare, nemmeno se vuole». (…) Kant aveva legato

l’uomo al dovere che questi dà a se stesso, alla libera autodeterminazione in

quanto unica legge fondamentale; l’esistenzialismo sopprime questa legge

fondamentale e vincola l’uomo «al Führer e al movimento che a questi si è

votato in maniera incondizionata» (Heidegger). Altra era stata la fede di

Hegel: «Ciò che nella vita è vero, grande e divino, lo è grazie all’idea…

Tutto ciò che tiene insieme la vita umana, che ha un valore e come tale

viene considerato, è di natura spirituale, e questo regno dello spirito esiste

soltanto grazie alla coscienza della verità e del diritto e alla comprensione

delle idee». Oggi l’esistenzialismo la sa più lunga: «Le regole del vostro

essere non siano dottrine e “idee”. Il Führer in persona, ed egli soltanto, è la

realtà tedesca odierna e futura e la sua legge» (Heidegger).

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella

concezione totalitaria dello Stato (1934):

(…) L’esistenzialismo, che una volta si considerava

l’erede dell’idealismo tedesco, ha rigettato la massima

eredità spirituale della storia tedesca. Non con la morte

di Hegel, ma soltanto adesso ha luogo la «caduta dei

Titani» della filosofia classica tedesca. Allora le sue

conquiste più importanti erano state salvate e accolte

nella teoria scientifica della società, nella critica

dell’economia politica. Incerto è oggi il destino del

movimento operaio, in cui si era conservata l’eredità di

questa filosofia.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 16

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

Max Horkheimer, Materialismo e

metafisica:

«Elevare il lavoro a concetto supremo

dell’attività umana significa professare

un’ideologia ascetica. (…) Mantenendo

questo concetto generale i socialisti si

fanno portatori della propaganda

capitalistica»

Herbert Marcuse, Per la critica

dell’edonismo :

«La realtà della felicità è la realtà della

libertà come autodeterminazione

dell’umanità liberata nella sua lotta comune

con la natura.

(…) Nella loro forma complessiva (…) la

felicità e la ragione, coincidono»

Herbert Marcuse, Per la critica

dell’edonismo :

«Nella misura in cui l’illibertà è già presente nei bisogni

e non nella loro gratificazione, essi devono essere i primi

a essere liberati – non con un’azione educativa o di

rinnovamento morale dell’uomo, ma con un processo

politico ed economico che comprende la possibilità per

la comunità di disporre dei mezzi di produzione, il

riorientamento del processo produttivo verso i bisogni e i

desideri dell’intera società, l’accorciamento della

giornata lavorativa e l’attiva partecipazione degli

individui alla gestione della comunità. »

M. Horkheimer, Storia e psicologia:In ogni caso le azioni degli uomini non sono solo determinate

dalla loro tendenza fisica all’autoconservazione, e neppure

dall’immediato istinto sessuale, ma ad esempio anche dal bisogno

di usare le proprie forze aggressive, e inoltre dal bisogno che la

propria persona sia riconosciuta e confermata, dal bisogno di

ottenere sicurezza all’interno di una collettività, e da altri impulsi

ancora. La psicologia moderna (Freud) ha mostrato come tali

esigenze si distinguano dalla fame per il fatto che quest’ultima

richiede una soddisfazione più diretta e costante, mentre quelle

sono in larga misura differibili, modellabili, e suscettibili di

soddisfazione fantastica.

Erich Fromm:

Né l’apparato esterno del potere, né gli interessi

razionali, sarebbero sufficienti a garantire il

funzionamento della società se non subentrassero

le tensioni libidinali dell’essere umano. Sono le

forze libidinali a costituire, per così dire, il

cemento senza il quale la società non rimarrebbe

unita, e a contribuire alla creazione delle grandi

ideologie sociali in ogni sfera cultuale.

Herbert Marcuse, Ragione e rivoluzione:

«La teoria conserverà la verità anche

se la prassi rivoluzionaria devierà

dalla sua giusta via. La prassi segue

la verità e non viceversa. »

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 17

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

1. Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere,

ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli

assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in

bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un

sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse

trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo,

che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la

mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può

immaginare della filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato

«materialismo storico». Esso può farcela senz’altro con chiunque se

prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e

brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

2. «Una delle caratteristiche più notevoli dell’animo umano, - scrive Lotze, - è,

fra tanto egoismo nei particolari, la generale mancanza di invidia del presente

verso il principio futuro». La riflessione porta a concludere che l’idea di felicità

che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci ha assegnato, una volta

per tutte, il corso della nostra vita. Una gioia che potrebbe suscitare la nostra

invidia, è solo nell’aria che abbiamo respirato, fra persone a cui avremmo

potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto farci dono di sé. Nell’idea di

felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l’idea di redenzione. Lo stesso

vale per la rappresentazione del passato, che è il compito della storia. Il passato

reca con sé un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa

segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A

noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una

debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questa esigenza non si

lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

6. Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «come

propriamente è stato». Significa impadronirsi di un ricordo come esso

balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di

fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al

soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il

patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo

stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In

ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo

che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come

redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il

dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato

dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli

vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

8. La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di

emergenza» in cui vivamo è la regola. Dobbiamo giungere a un

concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di

fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di

emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro

il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i

suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una

legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono

«ancora» possibile nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico.

Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea

di storia da cui proviene non sta più in piedi.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

9. C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un

angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo

sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese.

L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al

passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola

catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia

ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e

ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è

impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più

chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a

cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al

cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta.

Paul Klee, Angelus Novus

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

14. La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il

tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di «attualità»

(Jetztzeit). Così, per Robespierre, la Roma antica era un passato

carico di attualità, che egli faceva schizzare dalla continuità della

storia. La Rivoluzione francese s’intendeva come una Roma

ritornata. Essa richiamava l’antica Roma esattamente come la

moda richiama in vita un costume d’altri tempi. LA moda ha il

senso dell’attuale, dovunque esso viva nella selva del passato.

Essa è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in

un’arena dove comanda la classe dominante. Lo stesso balzo,

sotto il cielo libero della storia, è quello dialettico, come Marx ha

inteso la rivoluzione.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

L’illuminismo, nel senso più ampio di

pensiero in continuo progresso, ha

perseguito da sempre l’obiettivo di

togliere agli uomini la paura e di

renderli padroni. Ma la terra

interamente illuminata splende all’

insegna di trionfale sventura.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Il programma dell’illuminismo era di liberare il mondo

dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere i miti e di

rovesciare l’immaginazione con la scienza. (…) D’ora in

poi la materia dev’essere dominata al di fuori di ogni

illusione di forze ad essa superiori o in essa immanenti,

di qualità occulte. Ciò che non si piega al criterio del

calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo,

sospetto. E quando l’illuminismo può svilupparsi

indisturbato da ogni oppressione esterna, non c’è più

freno.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Alle sue stesse idee sui diritti degli uomini finisce per

toccare la sorte dei vecchi universali. Ad ogni resistenza

spirituale che esso incontra, la sua forza non fa che

aumentare. Ciò deriva dal fatto che l’Illuminismo

riconosce se stesso anche nei miti. Quali che siano i miti

a cui ricorre la resistenza, per il solo fatto di diventare, in

questo conflitto, argomenti. rendono omaggio al

principio della razionalità analitica che essi

rimproverano all’illuminismo. L’illuminismo è

totalitario.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Gli uomini si distanziano col pensiero dalla

natura per averla di fronte nella posizione in cui

dominarla. Come la cosa, lo strumento materiale,

che si mantiene identico in situazioni diverse, e

separa così il mondo – caotico, multiforme e

disparato – da ciò che è noto, uno ed identico, il

concetto è lo strumento ideale, che si apprende a

tutte le cose nel punto in cui si possono afferrare

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Gli uomini pagano l’accrescimento del loro

potere con l’estraneazione da ciò su cui lo

esercitano. L’illuminismo si rapporta alle cose

come il dittatore agli uomini: che conosce in

quanto è in grado di manipolarli. Lo scienziato

conosce le cose in quanto è in grado di farle. Così

il loro in-sé diventa per-lui. Nella trasformazione

l’essenza delle cose si rivela ogni volta come la

stessa: come sostrato del dominio.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento

spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il

Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo,

e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia.

Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io

in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è

sempre stata congiunta alla cieca decisione di

conservarlo.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

L’industria culturale tende a presentarsi come un insieme di proposizioni

protocollari e a diventare, proprio in questo modo, il profeta

inconfutabile dell’esistente. Essa si apre la strada, con straordinaria

abilità, fra la Scilla del falso identificabile e denunciabile e la Cariddi

della verità manifesta, riproducendo tale e quale il fenomeno che

occlude, col suo spessore, la conoscenza e insediando senz’altro come

ideale la sua superficie onnipresente e compatta. L’ideologia si scinde

nella fotografia della realtà bruta e nella nuda menzogna del suo

significato, che non è formulata esplicitamente, ma suggerita e

inculcata. A dimostrazione della divinità del reale ci si limita a ripeterlo

cinicamente all’infinito. Questa prova fotologica non è stringente, ma è

schiacciante. Chi, di fronte alla potenza della monotonia, dubita ancora

è un pazzo

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) La specie umana, comprese le sue macchine, i suoi prodotti chimici, le

sue forze organizzative (…), è, in quest’epoca, le dernier cri

dell’adattamento. Non solo gli uomini hanno superato i loro predecessori

diretti, ma li hanno estirpati così radicalmente come di rado una specie più

recente ha fatto con la specie anteriore, non eccettuati i sauri carnivori.

Di fronte a ciò sembra quasi un capriccio voler costruire la storia

universale, come ha fatto Hegel, in funzione di categorie come libertà e

giustizia. Esse derivano, infatti, dagli individui marginali, da quelli che,

considerati dal punto di vista del corso complessivo, non significano nulla,

se non in quanto contribuiscono a introdurre condizioni sociali transitorie in

cui si producono, in quantità particolarmente grandi, macchine e prodotti

chimici per il rafforzamento della specie e la sottomissione delle altre.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Dal punto di vista di questa storia seria tutte le idee, i tabù, le

religioni, le fedi politiche, interessano solo nella misura in cui,

sorte da casi molteplici, aumentano o diminuiscono le possibilità

naturali della specie umana sulla terra o nell’universo. La

liberazione dei borghesi dall’ingiustizia del passato feudale e

assolutistico è servita, attraverso il liberalismo, a scatenare la

produzione meccanica, come l’emancipazione della donna finisce

nel suo addestramento come arma speciale. Lo spirito, e tutto ciò

che vi è di buono, è . nella sua origine e nella sua esistenza –

irretito senza scampo in questo orrore. Il siero che il medico

somministra al bambino malato , è dovuto all’aggressione a una

creatura inerme.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) La funzione storica della cultura è tutta nel suo effetto

di ritorno su questa organizzazione, che essa potenzia e

sviluppa ulteriormente. Onde il pensiero autentico, che se

ne libera, la ragione nella sua forma pura, assume tratti di

follia, rilevati da sempre dagli autoctoni. (…) La parte

svolta dalla ragione è quella di uno strumento di

adattamento, e non di un sedativo della volontà, come

potrebbe sembrare dall’uso che ne ha fatto a volte

l’individuo. La sua astuzia consiste nel fare, degli uomini,

belve di raggio sempre più vasto, e non nel produrre

l’identità di soggetto e oggetto…

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Pur avendo osservato da molti anni che nell’attività

scientifica moderna le grandi invenzioni si pagano con una

crescente decadenza della cultura teoretica, credevamo pur

sempre di poter seguire la falsariga dell’organizzazione

scientifica, nel senso che il nostro contributo si sarebbe

limitato essenzialmente alla critica o alla continuazione di

dottrine particolari. Esso avrebbe dovuto attenersi, almeno

nell’ordinamento tematico, alle discipline tradizionali:

sociologia, psicologia e gnoseologia. I frammenti raccolti in

questo volume mostrano che abbiamo dovuto rinunciare a

quella fiducia.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Se l’attento studio ed esame della tradizione scientifica (…) è un

momento indispensabile della conoscenza, è entrata d’altra parte in crisi,

nel presente sfacelo della civiltà borghese, non solo l’organizzazione,

ma il senso stesso della scienza. Ciò che i fascisti di ferro ipocritamente

lodano e i docili esperti di umanità ingenuamente eseguono,

l’autodistruzione incessante dell’illuminismo, costringe il pensiero a

vietarsi fin l’ultimo candore verso le consuetudini e le tendenze dello

spirito del tempo. Se la vita pubblica ha raggiunto uno stadio dove il

pensiero si trasforma inevitabilmente in merce e la lingua in

imbonimento della medesima, il tentativo di mettere a nudo questa

depravazione deve rifiutare obbedienza alle esigenze linguistiche e

teoretiche attuali, prima che le loro conseguenze storiche universali lo

rendano del tutto impossibile

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) In contrasto con i suoi amministratori, la filosofia

rappresenta – fra le altre cose – il pensiero che non

capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non

si lascia prescrivere da essa i propri compiti. L’esistente

non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli

interessi materiali, ma anche con la strapotenza della

suggestione. La filosofia non è sintesi, base o

coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla

suggestione, la decisione della libertà intellettuale e

reale.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) In contrasto con i suoi amministratori, la filosofia

rappresenta – fra le altre cose – il pensiero che non

capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non

si lascia prescrivere da essa i propri compiti. L’esistente

non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli

interessi materiali, ma anche con la strapotenza della

suggestione. La filosofia non è sintesi, base o

coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla

suggestione, la decisione della libertà intellettuale e

reale.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

La divisione del lavoro, come si è formata sotto il dominio, non viene

per questo ignorata. La filosofia non fa che penetrare la menzogna per

cui sarebbe inevitabile. Non lasciandosi ipnotizzare dalla strapotenza, le

tiene dietro in tutti gli angoli del meccanismo sociale, che – per prima

cosa – non deve essere rovesciato né diretto ad altri fini, ma compreso al

di fuori dell’incantesimo che esercita. [La filosofia] non riconosce

norme o fini astratti, che si presterebbero ad applicazione in contrasto

coi fini e con le norme vigenti. La sua libertà dalla suggestione

dell’esistente consiste proprio in ciò che essa accetta – senza starci

troppo a pensare – gli ideali borghesi: quelli che sono ancora proclamati

– e sia pure in forma alterata – dagli esponenti dell’attuale stato di cose,

o quelli che sono ancora riconoscibili come significato oggettivo delle

istituzioni, tecniche e culturali, a dispetto di ogni manipolazione.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Essa crede che la divisione del lavoro esiste per gli uomini e che il

progresso conduce alla libertà: e proprio per questo entra facilmente in

conflitto con la divisione del lavoro e col progresso. Essa presta una voce

alla contraddizione di credenza e realtà e si attiene così strettamente al

fenomeno temporalmente condizionato. Per essa il massacro su scala

colossale non conta, come per il giornale, più della liquidazione di alcuni

ricoverati. Essa non antepone l’intrigo dell’uomo politico che si mette

d’accordo coi fascisti a un modesto linciaggio, i turbini di réclame

dell’industria cinematografica all’intimo annuncio di un cimitero. Non ha

nessuna particolare inclinazione per ciò che è «grande». Essa è ad un tempo

estranea all’esistente e capace di comprenderlo intimamente. La sua voce

appartiene all’oggetto, ma senza che questo lo voglia; è la voce della

contraddizione, che, senza di essa, non si farebbe udire, ma trionferebbe

muta.

Theodor W. Adorno

La filosofia che una volta sembrò

superata, si mantiene in vita perché è

stato mancato il momento della sua

realizzazione.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 18

II SEMESTRE

A.A. 2014-2015

J. Habermas, Sul concetto di

partecipazione politica (1958)

L’analisi si attiene alle regole della teoria critica che è

libera proprio perché «accetta gli ideali borghesi, siano

essi quelli ancora coltivati (seppure in senso distorto) dai

rappresentanti della borghesia, o quelli in cui occorre

riconoscere, a dispetto di ogni manipolazione, il

significato oggettivo delle istituzioni tecniche e

culturali.. Essa espone la lingua alla contraddizione tra

fede e realtà e ciò facendo riflette un fenomeno del

tempo».

J. Habermas, Sul concetto di

partecipazione politica (1958)La fede nella libertà politica e nell’influenza politica del cittadino

viene contrapposta alla realtà della situazione attuale. Non si può

avere più alcun dubbio sulla ristrettezza dello spazio in cui è stata

confinata la partecipazione politica del cittadino medio. Questa

partecipazione può concretizzarsi, una volta ogni due anni circa,

nel processo elettorale in parte preformato in parte manipolato

(oppure nella astensione elettorale). Nei libri destinati

all’educazione politica e persino in molti dibattiti delle scienze

politiche la «partecipazione» si condensa in un valore in sé,

mentre l’espressione del voto e l’interesse politico diventano un

feticcio. Questa reificazione rispecchia appunto una buona parte

della realtà deformata.

J. Habermas, Sul concetto di

partecipazione politica (1958)

D’altro lato, il senso obiettivo delle istituzioni esistenti

nel nostro paese è in contraddizione con lo sviluppo

concreto. Sul piano giuridico il popolo è ancora e

sempre sovrano mentre su quello politico continua a

disporre, nel parlamento, di una istituzione fornita di

tutti gli auspicabili crismi costituzionali. Ci si può

chiedere dunque se anche oggi un’autentica

partecipazione dei cittadini alla vita politica, seppure non

effettiva, non sia per lo meno possibile…

J. Habermas, Sul concetto di

partecipazione politica (1958)Occorre (…) stabilire fino a che punto una società riesca a

trasformare il dominio in autorità razionale e cioè a dare

equamente al lavoro ciò che spetta al lavoro e all’esperienza ciò

che spetta all’esperienza, nell’interesse della collettività e sotto

il suo controllo; e inoltre, fino a che punto essa riesca a

superare la separazione fra il potere politico e la riproduzione

apparentemente privata della vita. A parte il suo carattere molto

(e forse troppo) generale questa formulazione indica la via di

un possibile sviluppo storico sul quale noi crediamo oggi di

poter fondatamente misurare il valore della coscienza

politica…

Hannah Arendt, The Human

Condition

Lavoro

Opera

Azione e discorso

Hannah Arendt, The Human

Condition

Lo spazio pubblico o spazio dell’apparenza «si

forma ovunque gli uomini condividano le

modalità dell’azione e del discorso, e quindi

anticipa e precede ogni costituzione formale della

sfera pubblica e delle varie forme di governo, le

varie forme cioè in cui la sfera pubblica può

essere organizzata».

Hannah Arendt, The Human

Condition

…Una vita spesa nell’esperienza

privata, di “ciò che è proprio” (idion),

fuori dal mondo comune, è idiota per

definizione

Hannah Arendt, The Human

Condition

La peculiarità dello spazio pubblico è che

diversamente dagli spazi che sono opera delle

nostre mani, non sopravvive alla realtà del

movimento che lo crea, ma scompare non solo

con la scomparsa degli uomini – come nelle

grandi catastrofi, quando il corpo politico di un

popolo viene distrutto – ma con la scomparsa e la

fine delle loro stesse azioni.

Hannah Arendt, The Human

Condition

«Il potere è ciò che mantiene in vita la

sfera pubblica, lo spazio potenziale

dell’apparire tra uomini che agiscono e

parlano»

J. Habermas, Storia e critica

dell’opinione pubblica (1961)

I fondamenti strutturali della «sfera pubblica

borghese»:

1) sistematica astrazione dalle disuguaglianze di

status

2) assenza di limiti al processo di

problematizzazione riflessiva

3) assoluta apertura verso l’esterno

J. Habermas, Storia e critica

dell’opinione pubblica (1961)

La «sfera pubblica borghese» come luogo di

una libera discussione razionale fondata

sulla sola autorità dell’argomento

migliore, una determinazione cooperativa

del bene comune, non distorta da alcun

interesse di parte

J. Habermas, Storia e critica

dell’opinione pubblica (1961)

La sfera pubblica borghese può essere concepita in un

primo momento come la sfera dei privati riuniti come

pubblico; costoro rivendicano subito contro lo stesso

potere pubblico la regolamentazione della sfera pubblica

da parte dell’autorità, per concordare con questa le

regole generali del commercio nella sfera – privatizzata

in linea di principio, ma pubblicamente rilevante – dello

scambio di merci e del lavoro sociale. Peculiare e

storicamente senza precedenti è il tramite di questo

confronto politico: la pubblica argomentazione razionale

J. Habermas, Storia e critica

dell’opinione pubblica (1961)(…) I borghesi sono privati; come tali non «dominano». Le loro

rivendicazioni contro il pubblico potere si indirizzano perciò non

contro la concentrazione del dominio che dovrebbe essere

«spartito»; ma piuttosto attaccano il principio del dominio vigente.

Il principi del controllo contrappostogli dal pubblico borghese, la

pubblicità appunto, mira a modificare il dominio stesso. La

rivendicazione di potere così come si viene delineando

nell’argomentare pubblico, quella rivendicazione che eo ipso

rinunci alla forma di una pretesa di dominio, se si realizzasse

dovrebbe portare a qualcosa di più che a una mera sostituzione

della base di legittimazione di una sovranità conservatesi in linea

di principio

J. Habermas, Storia e critica

dell’opinione pubblica (1961)

(…) Il processo con cui il pubblico di privati che

discutono una funzione critica si appropria della sfera

pubblica autoritariamente regolata e con cui questa viene

istituita come momento della critica al pubblico potere,

si compie con la ristrutturazione delle funzioni di quella

sfera pubblica letteraria già dotata di istituzioni quali il

pubblico e le relative piattaforme di discussione. Tramite

questa mediazione, tutto il contesto delle esperienze

dell’ambito privato riferito al pubblico penetra anche

nell’ambito di una sfera pubblica politica.

J. Habermas, Storia e critica

dell’opinione pubblica (1961)

(…) Con la nascita di una sfera del sociale, per la cui regolamentazione

l’opinione pubblica si batte contro il potere pubblico, il tema

dell’ambito pubblico moderno, paragonato a quello antico, si sposta dai

compiti propriamente politici di una cittadinanza che agisce

com’unitariamente (giurisdizione all’interno e autodeterminazione verso

l’esterno) ai compiti prevalentemente civili di una società che discute

pubblicamente (garanzia dello scambio di merci). La funzione politica

dell’elemento pubblico borghese consiste nel disciplinare la società

civile (civil society, société civile, in contrapposizione a res publica);

con le esperienze di una sfera privata intimizzata alle spalle, essa tiene

fronte all’autorità monarchica stabilita; in questo senso, sin dall’inizio,

essa ha carattere insieme privato e polemico.

J. Habermas, Storia e critica

dell’opinione pubblica (1961)(…) I criteri di universalità e astrattezza che contrassegnano la norma giuridica

dovevano avere peculiare evidenza per i privati che, nel processo di

comunicazione della dimensione pubblica letteraria, si accertano della loro

soggettività, derivata dalla sfera dell’intimità. Infatti, in quanto pubblico, essi

sono già sottoposti a quella legge non formulata che codifica la parità degli

uomini colti, legge la cui astratta universalità è sola a garantire che gli individui

sussulti in modo parimenti astratto sotto di essa come «puri e semplici uomini»

vengano liberati nella loro soggettività proprio per tale via. I clichè di

«eguaglianza» e «libertà», irrigiditi nelle formule della propaganda borghese

rivoluzionaria, conservano qui ancora il loro nesso vivente: il dibattito pubblico

del pubblico borghese si compie, in linea di massima, prescindendo da tutti i

ranghi sociali e politici precostituiti, secondo regole universali che garantiscono

un campo d’azione al dispiegamento letterario nella loro intimità, dal momento

che restano, in quanto tali, assolutamente esteriori agli individui;

J. Habermas, Storia e critica

dell’opinione pubblica (1961)(…) Contemporaneamente, ciò che in tali condizioni risulta dal pubblico

dibattito, richiede raziocinio; secondo tale idea, un’opinione pubblica

nata dalla forza dell’argomento migliore aspira a quella razionalità

moralisticamente pretenziosa che cerca di far coincidere giustezza e

giustizia. L’opinione pubblica deve corrispondere alla «natura della

cosa». Perciò le «leggi» che essa vorrebbe stabilire ora anche per la

sfera sociale, possono pretendere, oltre ai criteri formali di generalità e

astrattezza, anche quello materiale della razionalità. In questo senso i

fisiocratici spiegano che soltanto l’opinion publique conosce e rileva

l’ordre naturel perché il monarca illuminato lo possa porre a base del

suo agire nella forma di norme generali. Il potere deve essere portato per

questa via a una convergenza con la ragione.

J. Habermas, Storia e critica

dell’opinione pubblica (1961)

Come privato il borghese è due cose in una: proprietario

di beni e persone, e uomo fra gli uomini: bourgeois e

homme. Questa ambivalenza della sfera privata è anche

l’ambivalenza della sfera pubblica, a seconda cioè che i

privati si intendano tra loro nel dibattito letterario e cioè

da uomini che discutono sulle esperienze della loro

soggettività, o che si intendano fra loro nel dibattito

politico, su come regolare la loro sfera privata, cioè da

proprietari. I componenti di queste due specie di

pubblico non sempre coincidono perfettamente (…).

J. Habermas, Storia e critica

dell’opinione pubblica (1961)

La pubblicità manipolativa:

«La dimensione pubblica viene, per così dire, dispiegata

dall’alto per procurare a certe posizioni un’aura di good will.

Originariamente essa garantiva il nesso del pubblico dibattito

delle idee tanto con la fondazione legislativa del dominio

quanto con il controllo critico del suo esercizio. Ma ormai

essa rende possibile la specifica ambivalenza di un dominio

esercitato sul potere dell’opinione non-pubblica: essa serve

alla manipolazione del pubblico e insieme alla legittimazione

di fronte ad esso. La dimensione pubblica critica è

soppiantata da quella manipolativa».

J. Habermas, Conoscenza e interesse

(1965)Una scienza sociale critica si sforza «di controllare quando le

proposizioni teoriche formulino regolarità invarianti dell’agire

sociale in generale e quando invece rapporti di dipendenza

ideologicamente irrigiditi, ma in principio modificabili. Nella

misura in cui ciò accade, la critica dell’ideologia, come del resto

la psicanalisi, conta sul fatto che l’informazione sulle connessioni

normative mettano in moto un processo di riflessione nella

coscienza dell’interessato stesso. In tal modo il livello di

coscienza irriflessa, che fa pare delle condizioni iniziali di tale

leggi, può essere modificato. Un sapere nomologico criticamente

mediato può così tramite la riflessione se non togliere vigore alla

legge, almeno sospenderne l’applicazione».

J. Habermas, Conoscenza e interesse

(1965)

…Ciò che ci distingue dalla natura è l’unico

dato di fatto che possiamo conoscere per

sua natura: il linguaggio. L’emancipazione

è posta per noi già con la sua struttura. Con

la prima proposizione viene espressa

inequivocabilmente l’intenzione di un

consenso universale e non imposto.

J. Habermas, Conoscenza e interesse

(1965)

Certamente la comunicazione potrebbe dispiegarsi soltanto

in una società emancipata, che avesse realizzato la maturità

dei suoi membri fino a diventare il dialogo sottratto al

dominio di tutti con tutti, dal quale deriviamo pur sempre

tanto il modello di un’identità dell’io formata nella

reciprocità, quanto l’idea del vero accordo. In questo senso la

verità di una proposizione si fonda sull’anticipazione della

vita riuscita. L’apparenza ontologica di una teoria pura,

dietro cui scompaiono gli interessi guida della conoscenza,

rafforza la finzione che il dialogo socratico sia possibile

universalmente e in ogni momento…

J. Habermas, Conoscenza e interesse

(1965)La filosofia ha supposto che l’emancipazione posta con la

struttura del linguaggio sia non solo anticipata, ma già reale.

Proprio la teoria pura, che vorrebbe derivare tutto da se stessa,

diventa preda dell’esterno rimosso e diventa ideologica. Solo

quando la filosofia scopre nel corso dialettico della storia le tracce

della violenza, che deforma il dialogo continuamente tentato,

continuamente spingendolo fuori dai binari di una comunicazione

senza coazione, porta avanti il processo, di cui altrimenti legittima

la stasi: il progresso del genere umano verso l’emancipazione.

(…) L’unità di conoscenza e interesse si verifica in una

dialettica che ricostruisca l’elemento represso a partire dalle

tracce storiche del dialogo represso.

J. Habermas, Tecnica e scienza come

ideologia (1967)

Con «lavoro» o agire razionale rispetto allo

scopo, intendo o agire strumentale o scelta

razionale oppure una combinazione di entrambi.

L’agire strumentale è organizzato secondo regole

tecniche, che si basano su un sapere empirico.

Esse implicano in ogni caso prognosi

condizionali su eventi osservabili, fisici o sociali;

tali prognosi possono rivelarsi esatte o non vere.

J. Habermas, Tecnica e scienza come

ideologia (1967)Con agire comunicativo intendo una interazione mediata

simbolicamente. Essa è organizzata in base a norme vigenti in

modo vincolante, che definiscono aspettative reciproche di

comportamento e che devono essere comprese e riconosciute da

almeno due soggetti agenti. Le norme sociali sono rese effettive

tramite sanzioni; il loro senso si oggettiva in una comunicazione

nel linguaggio quotidiano. Mentre la validità di regole tecniche e

strategie dipende dalla validità di proposizioni empiricamente vere

o analiticamente esatte, la validità di norme sociali è basata solo

sull’intersoggettività dell’intendersi in base a intenzioni ed è

garantita dal riconoscimento generale di obbligazioni

J. Habermas, Teoria dell’agire

comunicativo (1985)La teoria dell’agire comunicativo è intesa a mettere in luce un

potenziale razionale insito nella stessa prassi comunicativa

quotidiana. Con ciò essa spiana contemporaneamente la strada a

una scienza sociale dal procedere ricostruttivo, che identifica in

tutta la loro estensione i processi di razionalizzazione culturale e

sociale, ripercorrendoli anche oltre la soglia della società

moderne; allora non si avrà più bisogno di ricercare potenziali

normativi solo in una formazione specifica di un’epoca. L’obbligo

di stilizzare le singole espressioni prototipiche di una razionalità

comunicativa incarnata nelle istituzioni viene a cadere in favore di

un intervento empirico, che allenta la tensione del contrasto

astratto tra norma e realtà.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 19

II SEMESTRE

A.A. 2013-2014

Michel Foucault, L’archeologia del

sapere

Potrei definire la mia ricerca come «un’analisi di fatti

culturali che caratterizzano la nostra cultura e, in tal senso, si

tratterebbe di qualcosa come una etnologia della cultura a cui

apparteniamo. Infatti, cerco di situarmi all’esterno della

cultura a cui apparteniamo, di analizzarne le condizioni

formali, per farne, in una certa misura, la critica, non però

nel senso di ridurne i valori, ma per vedere come si sia potuta

effettivamente svolgere. Inoltre, analizzando le condizioni

stesse della nostra razionalità, metto in causa il nostro

linguaggio, il mio linguaggio, di cui analizzo come sia potuto

sorgere».

Michel Foucault, L’archeologia del

sapereQuesta prospettiva si trova davanti «tutto un campo d’indagine.

Un campo sterminato, ma definibile: è costituito infatti

dall’insieme di tutti gli enunciati effettivi (sia parlati che scritti),

nella loro dispersione di avvenimenti e nell’istanza propria a

ciascuno di loro. Prima di occuparsi, con piena certezza, di una

scienza, o di romanzi, o di discorsi politici, o dell’opera di un

autore oppure di un libro, il materiale che si deve trattare nella sua

originaria neutralità è costituito da tutta una folla di avvenimenti

nello spazio del discorso in generale. Si delinea in tal modo il

progetto di una descrizione pura degli avvenimenti discorsivi

come orizzonte per la ricerca delle unità che vi si formano».

Michel Foucault, L’archeologia del

sapere

Compito dell’analisi dei discorsi è quello di considerare

questi ultimi come «delle pratiche che formano

sistematicamente gli oggetti di cui parlano.

Indubbiamente i discorsi sono fatti di segni, ma fanno

molto di più che utilizzare questio segni per designare

delle cose. E’ questo di più che li rende irriducibili alla

langue e alla parole. E’ questo di più che bisogna

mettere in risalto e bisogno descrivere…» (p. 67).

Michel Foucault, L’archeologia del

sapere

Il «discorso» può essere definito: insieme degli

enunciati che appartengono a uno stesso sistema

di formazione; in questo modo potrò parlar di

discorso clinico, di discorso economico, di

discorso della storia naturale, di discorso

psichiatrico…

Le «regole» del discorso «definiscono» «il

regime degli oggetti»

Michel Foucault, L’archeologia del

sapere

L’archeologia, mostra che le

le regole di formazione di un discorso «si

collocano non nella “mentalità” e nella coscienza

degli individui, ma nel discorso stesso,

conseguentemente, e secondo una specie di

anonimato uniforme, si impongono a tutti gli

individui che incominciano a parlare in quel

campo discorsivo» (p. 83).

Michel Foucault, L’ordine del discorso

Il soggetto è una figura del

discorso

Michel Foucault, La volontà di sapere

La genealogia del potere:

Con il termine potere mi sembra che si debba intendere

innanzitutto la molteplicità dei rapporti di forza immanenti al

campo in cui si esercitano e costitutivi della loro

organizzazione; il gioco che attraverso lotte e sconti

incessanti li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che

questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da

formare una catena o un sistema, o, al contrario, le

differenze, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri.

Michel Foucault, La volontà di sapere

La genealogia del potere:

In ogni punto del corpo sociale, tra un uomo e una

donna, nella famiglia, tra maestro ed allievo, tra colui

che sa e colui che non sa, passano delle relazioni di

potere che non sono la proiezione pura e semplice del

grande potere sovrano sopra gli individui; esse sono

piuttosto il terreno mobile e concreto su cui quello si

ancora, le condizioni necessarie affinché possa

funzionare.

Michel Foucault, La volontà di sapere

Il potere è ovunque «non perché avrebbe il

privilegio di raggruppare tutto sotto la sua

invincibile unità, ma perché si produce in ogni

istante, in ogni punto o piuttosto in ogni relazione

fra un punto ed un altro. Il potere è dappertutto;

non perché inglobi tutto ma perché viene da ogni

dove».

Michel Foucault, La volontà di sapereNon voglio dire che lo Stato non sia importante; quel che voglio dire è

che i rapporti di potere e di conseguenza l’analisi che se ne deve fare

deve andare al di là del quadro dello Stato. Deve farlo in due sensi:

innanzitutto perché lo Stato, anche colla sua onnipotenza, anche con i

suoi apparati, è ben lungi dal ricoprire tutto il campo reale dei rapporti

di potere; e poi perché lo Stato non può funzionare che sulla base di

relazioni di potere preesistenti. Lo Stato è sovrastrutturale in rapporto a

tutta una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la

sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc. (…)

Questo metapotere con funzioni di interdizione non può realmente aver

presa e non può reggersi che nella misura in cui si radica in tutta una

serie di rapporti di potere che sono molteplici, indefiniti, e che sono la

base necessaria di queste grandi forme di potere negativo.

Michel Foucault, Sorvegliare e punire

La microfisica del potere:

L’ambito argomentativo dell’analisi del potere è costituito allora dalle

relazioni d’azione che «non sono univoche, ma definiscono

innumerevoli punti di scontro, focolai di instabilità di cui ciascuno

comporta rischi di conflitto, di lotte e di inversioni, almeno transitorie,

dei rapporti di forza. Il rovesciamento di questi “micropoteri” non

obbedisce dunque alla legge del tutto o niente, né è conseguito una volta

per tutte da un nuovo controllo degli apparati o sa un nuovo

funzionamento o da una distruzione delle istituzioni; in cambio, nessuno

dei suoi episodi localizzati può inscriversi nella storia, se non attraverso

gli effetti che induce su tutta le rete in cui è preso».

Michel Foucault, La volontà di sapere

L’Occidente ha conosciuto a partire dall’età classica una

trasformazione molto profonda di questi meccanismi di

potere. Il «prelievo» tende a non esserne più la forma

principale, ma solo un elemento fra gli altri che hanno

funzioni di incitazione, di rafforzamento, di controllo, di

sorveglianza, di maggiorazione e di organizzazione delle

forze che sottomette; un potere destinato a produrre delle

forze, a farle crescere e ad ordinarle piuttosto che a

bloccarle, a piegarle o a distruggerle

Michel Foucault, La volontà di sapere

Concretamente, questo potere sulla vita si è sviluppato in due

forme principali a partire dal XVII secolo; esse non sono

antitetiche, costituiscono piuttosto due poli di sviluppo legati da

tutto un fascio intermedio di relazioni. Uno dei poli, il primo

sembra ad essersi formato, è stato centrato sul corpo in quanto

macchina: il suo dressage, il potenziamento delle sue attitudini,

l’estorsione delle sue forze, la crescita parallela della sua utilità e

della sua docilità, la sua integrazione a sistemi di controllo efficaci

ed economici, tutto ciò è stato assicurato da meccanismi di potere

che caratterizzano le discipline: anatomo-politica del corpo

umano.

Michel Foucault, La volontà di sapere

Il secondo, che si è formato un po’ più tardi, verso la

metà del XVIII secolo, è centrato sul corpo-specie, sul

corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che

serve da supporto ai processi biologici: la proliferazione,

la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata di

vita, la longevità con tutte le condizioni che possono

farla variare; la loro assunzione si opera attraverso tutta

una serie di interventi e di controlli regolatori: una bio-

politica della popolazione.

Michel Foucault, La volontà di sapere

«Non c’è (…), rispetto al potere, un luogo del grande Rifiuto (…) ma

esistono resistenze, e di svariati tipi: possibili, necessarie, improbabili,

spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente,

irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali; per

definizione non possono esistere che nel campo strategico delle

relazioni di potere. (…) Come la trama delle relazioni di potere finisce

per formare uno spesso tessuto che attraversa gli apparati e le istituzioni

senza localizzarsi esattamente in essi, così la dispersione dei punti di

resistenza attraversa le stratificazioni sociali e le unità individuali. Ed è

probabilmente la codificazione strategica di quei punti di resistenza che

rende possibile una rivoluzione, un po’ come lo Stato riposa

sull’integrazione istituzionale dei rapporti di potere».

Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione (1977-78)

« Con la parola «governamentalità» intendo tre cose: primo, l’insieme di

istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono

di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha

nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma

privilegiata di sapere, e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico

essenziale. Secondo, (…) la tendenza, la linea di forza che, in tutto

l’Occidente e da lungo tempo, continua ad affermare la preminenza di

questo tipo di potere che chiamiamo governo su tutti gli altri – sovranità,

disciplina –, col conseguente sviluppo, da un lato di una serie di apparati

specifici di governo, e di una serie di saperi. Infine, per governamentalità

bisognerebbe intendere il processo, o piuttosto il risultato del processo,

mediante il quale lo stato di giustizia nel Medioevo, divenuto stato

amministrativo nel corso del XV e XVI secolo, si è trovato gradualmente

governamentalizzato.”».