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1 IL DESIGN DELL’ARTIGIANATO L’VIII mostra della secessione si aprì il 4 novembre del 1900, e vide riunirsi i più importanti artisti dell’opposizione antiaccademica europea, alcune sale erano allestite da mobili disegnati da Joseph Hoffman architetto e promotore della mostra. Erano mobili dalle linee semplici e pulite, realizzate con asticelle di legno incastrate a vista. L’ambiente era dominato dal bianco ,colore che fa risaltare l’originalità dei mobili scuri inseriti nei pannelli geometrici delle pareti. Degli arredi si è invertito il ruolo: i mobili si ritirano ai confini x diradare lo spazio mentre un portafiori, oggetto tradizionalmente destinato a svolgere funzione di soprammobile occupa il centro della stanza. Il gusto per la semplicità e il geometrismo intanto circolava già a Vienna attraverso vari canali tra cui: la svolta impressa al linguaggio figurativo astrattogeometrica di Gustav Klimt, le suggestioni dell’arte bizantina di città come Ravenna e Venezia, l’innovazione del metodo d’insegnamento accademico promosso da Wagner. Altri impulsi verso la semplicità provenivano poi dall’architettura d’arredamento inglese, conosciuta attraverso le pagine della rivista “The Studio”. Come se ciò non bastasse, Adolf Loos aveva intrapreso una vera e propria crociata volta a far conoscere la semplicità, l’eleganza e la funzionalità, il titolo del suo più celebre scritto “Ornamento e delitto” era nato probabilmente dalla conoscenza dei mobili degli Shaker per i quali l’ornamento era sicuramente peccato. Seguendo tale linea di gusto, Loos avrebbe progettato interni ricercatamente spogli, tra cui il negozio di moda x uomo Goldman&Salatsch e il Cafè Museum. A Glasgow, Mackintosh si era fatto conoscere fin dal 1986 per la sua partecipazione all’esposizione della Art and Crafts di Londra con quello che sarà riconosciuto il suo capolavoro, la Scuola d’arte di Renfrew Street. Tuttavia il successo arriverà soprattutto all’estero in una serie di fortunali appuntamenti espositivi fra cui la Biennale di Venezia, l’VIII mostra della Secessione, e l’esposizione internazionale delle arti decorative di Torino. Mackintosh affretta la nascita di quella tipica versione viennese dell’Art Nouveau viennese, nota come “stile secessione”. Una delle prime conseguenze della svolta linguistica viennese non si verifica in Austria bensì in Germania. Nel 1899, il principe Von Hessen per risollevare le sorti economiche del suo Granducato, aveva progettato la creazione di una sorta di villaggio avrebbero vissuto e lavorato artisti e artigiani intenti a realizzare oggetti di alta qualità in una mostra perennemente esposta al pubblico. Joseph Maria Olbrich era uno dei sette artisti chiamati a realizzare l’iniziativa ma in breve ne divenne il regista assoluto. Dal manifesto che raffigura il palazzo espositivo appariva quanto mai evidente che per Olbrich i riflessi dorati della cupola della casa della secessione, e i motivi floreali della Majolikahause appartenevano a un universo estetico ormai superato. Allontanandosi sempre di più dal decorativismo dell’art Nouveau egli elaborava ormai in architettura, interni e oggetti la lezione di geometrismo appresa a Vienna.

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IL  DESIGN  DELL’ARTIGIANATO  L’VIII  mostra  della  secessione  si  aprì  il  4  novembre  del  1900,  e  vide  riunirsi  i  più  importanti  artisti  dell’opposizione  antiaccademica  europea,  alcune  sale  erano  allestite  da  mobili  disegnati  da  Joseph  Hoffman  architetto  e  promotore  della  mostra.  Erano  mobili  dalle  linee  semplici  e  pulite,  realizzate  con  asticelle  di  legno  incastrate  a  vista.  L’ambiente  era  dominato  dal  bianco  ,colore  che  fa  risaltare  l’originalità  dei  mobili  scuri  inseriti  nei  pannelli  geometrici  delle  pareti.    Degli  arredi  si  è  invertito  il  ruolo:   i   mobili   si   ritirano   ai   confini   x   diradare   lo   spazio   mentre   un   portafiori,   oggetto  tradizionalmente  destinato  a  svolgere  funzione  di  soprammobile  occupa  il  centro  della  stanza.  

Il  gusto  per  la  semplicità  e  il  geometrismo  intanto  circolava  già  a  Vienna  attraverso  vari  canali  tra  cui:   la  svolta   impressa  al   linguaggio  figurativo  astratto-­‐geometrica  di  Gustav  Klimt,   le  suggestioni  dell’arte   bizantina   di   città   come   Ravenna   e   Venezia,   l’innovazione   del   metodo   d’insegnamento  accademico   promosso   da   Wagner.   Altri   impulsi   verso   la   semplicità   provenivano   poi  dall’architettura  d’arredamento  inglese,  conosciuta  attraverso  le  pagine  della  rivista  “The  Studio”.    

Come   se   ciò   non   bastasse,   Adolf   Loos   aveva   intrapreso   una   vera   e   propria   crociata   volta   a   far  conoscere  la  semplicità,  l’eleganza  e  la  funzionalità,  il  titolo  del  suo  più  celebre  scritto  “Ornamento  e  delitto”  era  nato  probabilmente  dalla  conoscenza  dei  mobili  degli  Shaker  per  i  quali  l’ornamento  era   sicuramente   peccato.   Seguendo   tale   linea   di   gusto,   Loos   avrebbe   progettato   interni  ricercatamente  spogli,  tra  cui  il  negozio  di  moda  x  uomo  Goldman&Salatsch  e  il  Cafè  Museum.  

 A   Glasgow,   Mackintosh   si   era   fatto   conoscere   fin   dal   1986   per   la   sua   partecipazione  all’esposizione  della  Art  and  Crafts  di  Londra  con  quello  che  sarà  riconosciuto  il  suo  capolavoro,  la  Scuola  d’arte  di  Renfrew  Street.  Tuttavia  il  successo  arriverà  soprattutto  all’estero  in  una  serie  di  fortunali   appuntamenti   espositivi   fra   cui   la  Biennale  di  Venezia,   l’VIII  mostra  della   Secessione,   e  l’esposizione  internazionale  delle  arti  decorative  di  Torino.  Mackintosh  affretta  la  nascita  di  quella  tipica  versione  viennese  dell’Art  Nouveau  viennese,  nota  come  “stile  secessione”.    

Una   delle   prime   conseguenze   della   svolta   linguistica   viennese   non   si   verifica   in   Austria   bensì   in  Germania.     Nel   1899,   il   principe   Von   Hessen   per   risollevare   le   sorti   economiche   del   suo  Granducato,  aveva  progettato   la   creazione  di  una  sorta  di   villaggio  avrebbero  vissuto  e   lavorato  artisti  e  artigiani  intenti  a  realizzare  oggetti  di  alta  qualità  in  una  mostra  perennemente  esposta  al  pubblico.    

Joseph  Maria   Olbrich     era   uno   dei   sette   artisti   chiamati   a   realizzare   l’iniziativa  ma   in   breve   ne  divenne   il   regista  assoluto.  Dal  manifesto  che  raffigura   il  palazzo  espositivo  appariva  quanto  mai  evidente  che  per  Olbrich  i  riflessi  dorati  della  cupola  della  casa  della  secessione,  e  i  motivi  floreali  della  Majolikahause  appartenevano  a  un  universo  estetico  ormai  superato.  Allontanandosi  sempre  di  più  dal  decorativismo  dell’art  Nouveau  egli  elaborava  ormai  in  architettura,  interni  e  oggetti  la  lezione  di  geometrismo  appresa  a  Vienna.  

 

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1903-­‐1932  La  Wiener  Werkstatte  

Come  abbiamo  detto  L’VIII  mostra  della  secessione  era  stata  promossa  da  Hoffman,  l’obiettivo  di  questa  esposizione  era  avvicinare  gli  artisti  e  gli  artigiani,  ovvero  il  tavolo  da  disegno  e  i  laboratori,  eppure   l’ampia   collaborazione   che  Hoffman  auspicava   tra   progettisti   e  manifatture   viennesi   era  ancora  molto  lontana  da  venire,  e  fu  l’insoddisfazione  per  questo  stato  di  cose  che  fece  maturare  in  lui  l’idea  di  creare  dei  laboratori  in  proprio.    

Il  9  giugno  1903  viene  fondata  quindi  la  Wiener  Wekstatte  che  tra  varie  vicende  resterà  attiva  per  circa   trent’anni   inseguendo   il   difficile   miraggio   dell’arte   totale.   Gli   oggetti   prodotti   raggiunsero  presto   altissimi   livelli   di   diffusione   grazie   anche   a   un’attenta   azione   promozionale,   le   sedie   del  Cabaret  Fledermaus  e  alcuni  arredi  del  sanatorio  di  Purkersdorf    come  la  celebre  sedia  a  dondolo  sono  solo  alcuni  dei  più  noti  pezzi  usciti  dai  laboratori  del  mobile  della  Wiener  Werkstatte.    

Con  Palazzo  Stoclet,  Hoffman     realizza   il  più  completo  progetto  di  arte   totale.   La   sala  da  pranzo  prende   a   modello   quella   disegnata   da   Mackintosh   per   la   Casa   di   un   amatore   d’arte,   marmi   a  scacchi  bianchi  e  neri  formavano  il  pavimento,  mentre  sulle  pareti  Klimt  realizza  uno  straordinario  mosaico  con  pietre  preziose,  oro  e  perle.  Per  esprimersi  al  meglio  Hoffman  aveva  bisogno  di  clienti  facoltosi  e  disposti  a  non  badare  a  spese,  ma  nonostante  gli  altissimi  livelli  di  diffusione  e  l’attenta  azione   promozionale,   vi   furono  momenti   difficili,   in   particolare   durante   e   dopo   la   prima   guerra  mondiale,  e  fu  così  che  nel  pieno  della  sua  espansione  nel  1932  la  Wiener  Werkstatte  fu  costretta  a  chiudere.  

Edoardo   Persico   imputò   la   sconfitta   non   tanto   alla   crisi   del   1929,   quanto   piuttosto   al   fatto   di  essere  un  organo  che  non  era  mai  riuscito  a  produrre  cose  generalmente  utili,  “cose  utili  prima  che  belle”  mentre   forse  sarebbe  stato   il   caso  di   chiedersi   il  perché  di  un  successo   tanto  duraturo.  A  tale  domanda  possiamo  trovare  una  risposta  considerando  che  il  pezzo  unico,  l’artigianato  e  “quel  qualcosa   in   più”(magari   l’ornamento)   che   diversifica   un   prodotto   da   un   altro  malgrado   le   tante  battaglie  x  affermare  la  serialità,  hanno  invece  continuato  ad  affascinare  il  pubblico.  

 

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IL  DESIGN  DELL’INDUSTRIA  

Il  fordismo  a  Detroit  

Poco  dopo  l’Esposizione  Universale  di  Londra  del  1851  l’Inghilterra  vittoriana  avrebbe  riconosciuto  la  necessità  di  accendere  un  dibattito  sulla  riforma  delle  arti  applicate,  che  avrebbe  imboccato  due  strade:   quello   del   rifiuto   della  macchina   avanzato   da   Ruskin   e  Morris   che   si   schierava   a   favore  dell’artigianato,  e  quello  del  consenso  verso  la  macchina  avanzato  da  Henry  Cole.    

Intanto  gli   Stati  Uniti   avrebbero  assunto   il   ruolo  guida  dell’era  della   “meccanizzazione”,   infatti   a  differenza   degli   stati   europei   gli   Stati   Uniti       fin   dall’inizio,   aveva   meccanizzato   attività   più  complesse   grazie   all’introduzione   della   catena   di   montaggio,   che   nasce   tra   il   1860   e   1880  nell’industria   conserviera.   L’ulteriore   passo   in   avanti   per   l’ottimizzazione   del   lavoro   fu   la   teoria  dell’organizzazione   scientifica   dell’industria   di   Frederick     Taylor   ,   secondo   la   quale   nel  procedimento  produttivo  andavano  eliminati  i  tempi  morti  e  le  operazioni  lente  tramite  interventi  mirati  e  rapidi.  

Il  problema  dell’organizzazione  scientifica  del   lavoro  in  realtà  era  già  stato  posto  negli  Stati  Uniti  alla  fine  degli  anni  sessanta  dell’Ottocento,  e  pensando  all’ambiente  domestico  piuttosto  che  alla  fabbrica,   l’emancipazione  della  donna  dalla  schiavitù  dei   lavori  domestici   infatti  era  stata  avviata  dalle  sorelle  Beecher.  Coniugando   le  esigenze  pratiche  dell’economia  domestica  con   i   temi  della  parità  dei  sessi,   il   loro  libro  prendeva  in  considerazione  la  nascita  di  un  nuovo  tipo  di  abitazione,  più  piccola  e  perciò  più  pratica  da  gestire.    

 In   tale  ambito,   la  cucina  aveva  un  ruolo   fondamentale.   Limitando  gli   sprechi,   le   sorelle  Beecher  proposero   un   più   razionale   sfruttamento   dello   spazio   e   del   tempo   destinando   precise   zone   a  precise   funzioni,   in   pratica   era   nata   la   prima   idea   di   cucina   “all’americana”.   Il   lavoro   femminile  negli   Stati  Uniti   era   stato   alleggerito   inoltre  dalle  macchine  per   cucire,   ferri   da   stiro,   nonché  da  lavatrici   e   aspirapolvere.   Cominciavano   ad   apparire   anche   gli   elettrodomestici   da   salotto:   il  telefono   di   Bell,   il   fonografo   a   cilindro   di   Edison.   Le   case   degli   americani   quindi   ,specialmente  quelle  del  ceto  medio,  si  andavano  affollando  di  nuove  invenzioni  meccaniche  x  il  comfort.    

Nelle  strade   intanto,  nuovi  mezzi  di   trasporto  meccanici  avevano  sostituito   le  carrozze,   il   tram  e  l’automobile  elettrica  avevano  fatto  il  loro  ingresso  negli  Stati  Uniti  rispettivamente  nel  1884  e  nel  1892,   quest’ultima   raggiunse   lo   stato   di   prodotto   accessibile   alla  massa   solo   nel   1903,   quando  Henry   Ford   fonda   a   Detroit   la   Ford   Motor   Company.   Si   trattò   di   un   evento   che   attraverso   la  vendita  e  il  consumo,  favorì  la  nascita  del  primo  vero  e  proprio  “oggetto  del  desiderio”  dell’uomo  del  XX  secolo.  

Ford   era   convinto   che   se   un   articolo   è   ben   studiato,   i   cambiamenti   saranno  molto   rari   e   che   si  verificheranno  solo  nelle  grosse  parti  di  giunzione,  e  che  ogni  buona  automobile  dovrebbe  durare  quanto  un  buon  orologio.  Su  questi  pochi  ma  chiari  principi,  dunque,  concepisce  l’idea  di  produrre  un  modello  “universale”,  concretizzandolo  nella  Ford  T,  un’utilitaria  ridotta  agli  elementi  essenziali  ma  comunque  solida  e  comoda.    

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Introdotta  nel   1913,   la   catena  di  montaggio  delle   officine   Ford  passò   attraverso   successivi   stadi  sempre  più  perfezionanti,  si  passò  quindi  dal  montaggio  di  un  solo  esemplare  all’assemblaggio  di  tutta  una  serie  di  vetture.   In  questo  modo   in  soli  due  anni,   il   tempo  di  montaggio  di  una  Ford  T  divenne   di   un’ora   e   mezza   x   vettura,   permettendo   di   produrre   un   milione   di   pezzi   all’anno.   Il  governo  per  far  circolare  la  piccola  utilitaria,  che  ormai  aveva  conquistato  tutti  i  ceti,  fu  spinto  ad  ampliare  l  rete  stradale  nazionale  con  la  costruzione  di  nuove  autostrade.  

Le  vendite  del  modello  T,  rimasto  in  produzione  dal  1908  al  1927,  procedevano  al  ritmo  di  più  di  un  milione  di  esemplari  l’anno,  circa  tre  volte  di  più  rispetto  alla  Chevrolet  prodotta  dalla  General    Motor,  la  diretta  rivale  della  Ford.  Fu  così  che  tra  le  due  case    si  ingaggiò  una  gara  per  superare  gli  incassi.   Ford   lancia   sul  mercato   la  più   raffinata   Ford  A,  primo  esemplare  di   una   serie  di  modelli  rinnovati  ogni  anno  nello  stile  e  nella  forma.    

Di   lì   a   poco   questo   atteggiamento   sarebbe   diventato   l’espediente   adottato   dallo   Styling   per  superare   la   crisi   del   1929   se   è   vero   come   sostiene   Maldonado   che:”  mentre   prima   della   crisi  l’industria  americana  risulta  prevalentemente  orientata  verso  una  politica  di  pochi  modelli  per  una  lunga   durata,   dopo   la   crisi   si   orienta   verso   una   politica   di  molti  modelli   per   una   breve   durata”.  Questa   politica   si   è   dimostrata   vincente   e   lungimirante,   e   potremmo   pensare   che   sia   stato  perdente   il   primo   atteggiamento   di   Ford,   ma   non   è   così   perché   il   fordismo   fu   vincente   nel  momento  storico  in  cui  si  presentò  e  tenne  testa  alla  concorrenza  incarnando  i  principi  basilari  del  design  moderno.  

Il  Deutsher  Werkbund  a  Monaco  

All’Esposizione  Universale  di  Londra  del  1851  a  eccezione  dei  cannoni  di  acciaio  della  Krupp  e  delle  porcellane  ,  i  prodotti  tedeschi  non  erano  stati  degni  di  attirare  l’attenzione  dei  visitatori,  ed  anche  all’Esposizione   di   Filadelfia   del   1876   la   produzione   tedesca   si   distingue   ancora   x   le   funeste  macchine  da  guerra  della  Krupp  mentre   il   resto  della  produzione   industriale  procede  all’insegna  del  buon  prezzo  e  cattiva  qualità.  Gli  Stati  Uniti  appaiono  ormai  come  i  detentori  della  supremazia  nel  campo  della  fabbricazione  di  macchinari  e  prodotti  industriali.  

Prima   che   i   problemi   legati   al   passaggio   dall’artigianato   all’industria  maturassero   nel  Werkbund  verso   la   metà   dell’Ottocento   l’ebanista   prussiano   Michael   Thonet   aveva   avuta   una   precoce  intuizione  del  design  moderno.    Egli  arriva  all’idea  di  restituire  flessibilità  al   legno  umidificandolo  con  il  vapore  acqueo,  di  conferirgli   la  curvature  in  forme  di  metallo  e  infine  di  renderlo  di  nuovo  rigido  essiccandolo  nei  forni.  Ottenuto  il  brevetto  x  tale  procedimento  nel  1841,  Thonet  organizza  un   processo   produttivo   basato   sulla   divisione   del   lavoro,   dando   così   avvio   a   una   lavorazione   in  serie.  Mobili  dalle  linee  sinuose,  anticipazioni  della  morfologia  dell’Art  Nouveau,  vengono  esposti  alla   fiera   di   Coblenza   dove   riscuotono   l’ammirazione   del   principe   Metternich   che   invita   il   loro  autore  a  trasferirsi  in  Austria,  questa  circostanza  determina  il  salto  di  qualità  di  Thonet.  

La  produzione  di  quest’ultimo  abbraccia  ogni  tipo  di  mobili,  ma  viene  ricordata  specialmente  per  la  cosiddetta  “sedia  di  Vienna”.  Thonet  realizza  decine  e  decine  di  modelli  di  sedie  che  sono  tutte  in  sostanza   ispirate  al  modello  più   intelligente  e  moderno  scaturito  dalla  sua  mente:   la  sedia  n.  14;  nata   nel   1859   questa   sedia   si   componeva   di   sole   sei   parti   assemblabili   con   dieci   viti   :   facile   da  

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smontare  imballare  e  trasportare.  Grazie  a  tali  caratteristiche  e  a  una  rete  di  punti  vendita,  l  sedia  n.14  invase  l’Europa  e  l’America.  

In  Germania  alla  fine  degli  anni  novanta  compare  lo  Jugendstil,  versione  tedesca  dell’Art  Nouveau  ,quest’ultimo   fu   importato   dagli   stranieri   tra   cui   Olbrich   e   Van   De   Velde.   Grazie   al   successo  riscosso  dai  suoi  mobili  all’esposizione  di  Dresda  del  1897,  Van  De  Velde  si  stabilisce  in  Germania.  Di   lì   a   poco   la   sua   posizione   teorico-­‐formale   darà   corpo   a   una   delle   due   anime   del  Werkbund:  quella  volta  a  potenziare  la  creatività  artistica  e  l’artigianato.  

Nell’ottobre  del  1907  a  Monaco  di  Baviera  viene   fondato   il  Deutsher  Werkbund,  associazione  di  artisti,   artigiani   e   industriali   accomunati   dall’obiettivo   di   migliorare   la   produzione   industriale.  Hermann  Mutheius   viene   ritenuto   uno   dei   principali   fautori   della   nascita   dell’associazione.   Nel  1907  nella  scuola  superiore  di  commercio  di  Berlino,  Mutheius  aveva   tenuto  una  conferenza  sul  tema  dell’importanza  delle   arti   applicate   che   va   considerata   come   la  più  diretta  premessa  della  fondazione   del     Werkbund.   Accomunati   dal   consenso   verso   gli   stessi   valori,   aderirono   a  quest’associazione   personaggi   di   diversa   provenienza:   politici,   industriali   e   architetti   tra   i   quali  Olbrich,  Hoffman  e  Behrens.  

 Il    Werkbund  eseguirà  una  selezione  delle  forze  migliori  nell’arte,  nell’industria,  e  nell’artigianato.  Esso   rappresenta   il   centro   di   raccolta   per   tutti   coloro   che   sono   disposti   e   capaci   a   svolgere   un  lavoro   di   qualità.   Ben   presto   l’attività   del   Deutsher   Werkbund   comincia   a   esercitare   la   sua  influenza   sull’Europa   intera:   nel   1910   viene   fondato   il   Werkbund   austriaco;   nel   1913   quello  svizzero  e  nel   1915   in   Inghilterra  nasce   la  Design   and   Industries  Association,   con   scopi   analoghi  all’assaciazione  tedesca.    

Il   momento   più   alto   del   dibattito   culturale   animato   dal  Werkbund   fu   quello   della   controversia  sollevata  all’esposizione  di  Colonia  del    1914  dove  si  confrontarono  Van  De  Velde    difensore  della  libera   creatività,   e   di   Mutheius   convinto   sostenitore   della   tipizzazione.   In   definitiva  quest’associazione   fu   destinata   a   diventare   la   più   importante   interprete   dell’oggettività,  conseguenza  necessaria  e  inevitabile  di  qualsiasi  processo  di  industrializzazione.  

1907.  l’AEG  a  Berlino  

Nel   1881   l’industriale   tedesco   Emile   Rathenau   visita   l’esposizione   internazionale   di   elettricità   di  Parigi   e   intuisce   le   prospettive   economiche   offerte   da   questo   settore   ancora   vergine,   così   si  assicura   l’esclusiva   del   brevetto   di   Thomas   Alva   Edison   che   ne   aveva  messo   a   punto   una   delle  versioni   più   perfezionate.   Rathenau   fonda   dapprima   nel   1882   a   Berlino   una   società   di   ricerca  sperimentale  per  il  settore  elettronico  per  poi  impiantare  l’anno  successivo  la  Deg  piccola  fabbrica  specializzata   nella   produzione   di   lampadine.   Incoraggiato   dalla   crescente   domanda   di   mercato  amplia  il  settore  produttivo  e  la  Deg  si  trasforma  nella  Aeg  con  obiettivi  di  ampio  raggio.    

Agli   inizi   del   Novecento,   L’aeg   è   una   delle   fabbriche   più   progredite   del   paese,   ciononostante   si  trova   a   dover   fronteggiare   un’acuta   crisi   concorrenziale   dovuto   all’alto   livello   tecnologico  raggiunto  dalle  industrie  nazionali  e  straniere.  In  tale  clima  Peter  Behrens  viene  convocato  dall’Aeg  per   organizzare   un   azione   promozionale   di   nuovo   tipo,   consigliandogli   di   avvalersi   dell’estetica  

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coma   arma   concorrenziale,   ovvero   di   portare   l’arte   alla   tecnica.   Behrens   era   certamente   la  persona  giusta  per  accogliere  e  concretizzare  questo  suggerimento,  e  fondendo  quindi  il  miraggio  dell’arte   totale   con   l’aspirazione   a   un’armonia   totale,   egli   riorganizza   l’immagine   dell’Aeg    passando  dalla   grafica   pubblicitaria   al   disegno  dei   prodotti.   Il   suo   contributo   rappresenta   la   più  riuscita   applicazione   dei   principi   del     Werkbund,   realizza   la   tipizzazione   invocata   da   Mutheius,  traduce   in   forme  nuove  prodotti   totalmente   industriali   e   colloca  per   la  prima  volta   la  Germania  alla  guida  della  produzione  industriale.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL  DESIGN  DELL’AVANGUARDIA  FIGURATIVA  

Il  Cubismo  Cecoslovacco  

I  primi  anni  del  novecento  sono  interessati  da  due  fenomeni:  l’industrializzazione  che  preme  con  i  suoi   progressi   tecnologici,   e   il   design   che   è   uno   degli   indicatori   più   sensibili   del   cambiamento,  perché  mostra   come   il   mondo   della   macchina   e   non   più   quello   della   natura   stia   diventando   il  nuovo  referente.    

Ogni   avanguardia   figurativa   si   qualifica   scegliendo   i   propri   temi:   il   Cubismo   elabora   una   nuova  plastica  formale,  il  Futurismo  esalta  la  velocità  ,  l’Astrattismo  si  impegna  a  tradurre  la  musicalità  in  colore   e   il   Dadaismo   cerca   di   sbalordire   con   atteggiamenti   ironici   e   dissacratori.   Il   cubismo   è   il  movimento  che  più  ha   influito  sul  design,  spazzando  via  secoli  di  simmetria  e  regolarità.  Proprio  agli   inizi   del   900   infatti,   il   clima   culturale   dei   paesi   centrorientali   subisce   delle   significative  modificazioni.   Tra   gli   artisti   in   grado   di   operare   questa   trasformazione   della   mappa   artistica  europea  va  ricordato  Josip  Plecnik    che   fu  uno  dei  più   importanti  protagonisti  di  quella  stagione  artistica.  

Il  cubismo  viene  accolto  e  sviluppato  a  Praga  nel  1910  dal  gruppo  degli  artisti  figurativi.  Per  offrire  una  concreta  prassi  dell’arredo  cubista,  nel  1912  Pavel  Janak  fonda  le  Officine  Artistiche  Praghesi;  finalità  delle  Pud  era  la  creazione  di  interni  moderni  arredati  con  mobili  artistici  la  cui  espressione  attingeva   al   Cubismo   di   Picasso,   il   gruppo   praghese   tuttavia   fondava   le   sue   teorie     anche  sull’affermazione   della   supremazia   dello   spirito   sulla   materia   e   sull’accentuazione   della   forma  come   principio   creatore.   Infatti   secondo   quanto   esposto   da   Pavel   Janak   in   Prisma   e   Piramide   i  membri  delle  Pud,  accentuando  gli  aspetti   formali  più  che   la  funzionalità   ,  progettano  mobili  dai  quali  vengono  bandite  le  linee  rette  e  le  composizioni  simmetriche.  

La  continuità  della  linea  formale  praghese  venne  infranta  dall’invasione  nazista,  a  cui  seguì  la  lunga  occupazione   sovietica   durante   la   quale   il   design   si   limitò   a   una   produzione   utile  ma   non   certo  esaltante.  È  solo  con  la  caduta  del  muro  che  il  design  ha  potuto  riprendere  il  discorso  interrotto.  Una  delle  prime  iniziative  della  nuova  realtà  politica  fu  quella  di  richiamare  in  patria  intellettuali  e  personalità   creative   emigrate   o   espulse   dal   paese   x   dissapori   con   il   vecchio   regime,   fra   questi  Borek  Sipeck,  il  quale  diventa  l’iniziatore  di  una  nuova  fase  del  design  ceco  che  riprende  e  aggiorna  antichi  temi.  

1915.  La  ricostruzione  futurista  dell’universo  

Il  futurismo,  principale  compagno  di  strada  del  cubismo  esprime  con  atteggiamenti  provocatori  il  culto  della  velocità,  del  moderno,  appunto  del  futuro.  Nel  1909  il  Manifesto  redatto  da  Marinetti  fissa   gli   aspetti   generali   del   movimento,   mentre   il   Manifesto   dell’architettura   futurista   viene  redatto   nel   1914   come   rielaborazione   di   un   precedente   documento   di   Sant’Elia.   L’architettura  futurista  stando  al  manifesto  di  quest’ultimo  traduceva   le   istanze  del  movimento  puntando  sugli  effetti   di   negazione   e   critica.   Forme   architettoniche   dalle   accentuate   linee   dinamiche   venivano  esaltate  dal  movimento  degli  ascensori,  dallo  sfrecciare  dei  treni  e  dalle  strutture  ardite  dei  ponti.  

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L’11   maggio   1915   Giacomo   Balla   e   Fortunato   Depero   pubblicano   La   ricostruzione   futurista  dell’universo  ,  manifesto  con  il  quale  si  impegnano  a  estendere  anche  il  settore  delle  arti  applicate  le  istanze  dell’avanguardia  figurativa.  Balla  e  Depero,  dichiaravano  di  voler  trasformare  l’ambiente  umano   rintracciando  gli   equivalenti   astratti  di   tutte   le   forme  e  di   tutti   gli   elementi  dell’universo  per  ricrearli  insieme  secondo  la  loro  ispirazione.    

I  mobili   creati   da   Balla   soddisfacevano   soprattutto   l’aspetto   ludico   presente   nell’idea   di   arredo  futurista,   mentre   invece   gli   oggetti   disegnati   da   Depero   si   caratterizzavano   per   una   spiccata  attenzione  alla  semplicità  e  alla  tecnica  artigianale.  

Nel   1919   venne   aperta   a   Rovereto   la   Casa   d’arte   futurista  Depero   con   lo   scopo   di   promuovere  contatti   con   l’avanguardia   internazionale   e   ospitare   esposizioni   d’arte.   All’inizio   l’artista   vi  produsse   solo   cuscini   per   i   salotti   borghesi,   più   tardi  prese  a   creare  anche  giocattolo   in   legno  e  mobili  dalle  strutture  dinamiche  e  vivacemente  colorate.  

Sul  tema  del  mobile  e  dell’ambientazione  un  posto  a  parte  spetta  poi  a  Cangiullo,  egli  proponeva  di  ispirare  la  progettazione  dei  mobili  agli  enunciati  dei  manifesti  marinettiani  Tavole  parolibere  e  Alfabeto  a  sorpresa.  Cangiullo  definiva  i  suoi  mobili  “parlanti  e  allegri”.  Oltre  a  Rovereto,  poi  anche  a  Roma  e  Torino  furono  altri   importanti  centri  della  poetica  neofuturista.  A  Torino  Fillia  e  Bracci  nel   1923   fondano   il  movimento   futurista   torinese,  mentre   nella   capitale   Ivo   Pannaggi   e   Vinicio  Paladini   redigono,   nel   1922   il   manifesto   futurista   della   arte   meccanica,   i   cui   principi   verranno  applicati   in   interni   caratterizzati   da   forme   geometriche   regolare   unite   al   dinamismo   tipico   della  corrente  futurista.  

1917.  De  Stijl:  dal  quadro  al  mobile  

In  Olanda  il  rinnovamento  artistico  inizia  nel  1917  con  il  neoplasticismo,  tale  tendenza  derivata  x  via   diretta   dal   cubismo   mira   al   raggiungimento   di   un’arte   che   sia   universalmente   oggettiva,  utilitaria,  astratta  ed  essenziale:  la  composizione  neoplastica  rifiutando  il  referente  naturalistico,  si  serve  unicamente  di  forme  geometriche  e  pura  fantasia.  

Le   principali   tesi   del   movimento   sono   basate   sulla   lotta   all’individualismo   e   sul   rifiuto   del  mimetismo:   di   qui   l’uso   dell’angolo   retto   e   dei   colori   primari   che   nella   loro   qualità   di   elementi  obiettivi   per   eccellenza,   servono   a   sopprimere   ogni   slancio   creativo   individuale,   infine   un   altro  punto   importante   della   poetica   neoplastica   è   l’aspirazione   all’unità   fra   pittura,   scultura,  architettura  e  design.  

Il   design   venne   a   far   parte   del   nuovo   spirito   figurativo   grazie   al   contributo   dell’ebanista   e  architetto  Thomas  Rietveld  il  cui  merito  fu  quello  di  far  diventare  la  sua  sedia  rosso-­‐blu  una  sorta  di  manifesto   del   neoplasticismo.   I   principi   vi   erano   applicati   tutti:   scomposizione   del   volume   in  piani,  adozione  di  equilibri  dinamici,  e  impiego  di  angoli  reotti.    

Realizzata   inizialmente   in   edizione  monocroma,   nel   1923   la   sedia   avrebbe  esibito   anche   i   colori  che  l’hanno  resa  famosa:  giallo,  rosso  e  blu,  ovvero  i  colori  primari  associata  al  nero  che  insieme  al  bianco  venne  definito  dai  neoplastici  un  non  colore.  Tali   colori   con   la   loro  artificialità  avrebbero  coperto  le  venature  del  legno  eliminando  ogni  riferimento  naturalistico.  

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Dei  mobili  di  Rietveld  si  è  detto  più  volte  che  fossero  scomodi  e  raccoglievano  polvere,  tuttavia  i  poche   arredi   neoplastici   continuano   ad   affascinarci   perché   tentano   l’impresa   di   collegare   l’utile  all’artistico,   un’impresa   che   verrà   ricordata   tra   gli   eventi   fondanti   del   moderno   specialmente  grazie  alle  ripercussione  sul  programma  del  Bauhaus.    

 

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IL  DESIGN  TRA  PEDAGOGIA  E  IDEOLOGIA  All’indomani  del  primo  conflitto  mondiale  la  Repubblica  di  Weimar  manifesta  prima  del  principio  tanto  l’instabilità  politica,  quanto  il  vitalismo  degli  eventi  culturali  che  l’avrebbero  accompagnata.  

Nel   1919   Walter   Gropius   succedendo   ad   Henry   Van   de   Velde   nella   direzione   della   scuola   di  artigianato  artistico  di  Weimar,  unifica  con  questa  scuola,  a  carattere  artigianale,  con  l’Accademia  delle   belle   arti   dando   vita   al   Bauhaus.   L’operazione   didattica   avviene   all’insegna   di   tre   parole:  integrazione,   collaborazione   e   coordinamento.   L’integrazione   va   intesa   come   equilibrio   tra  pensiero  e  azione,  tra  le  esigenze  della  manualità  e  quelle  dell’artisticità.  

Quanto  alla  collaborazione,  fra  artisti  e  artigiani  era  certamente  una  pratica  di  antica  data,  a  cui  il  Bauhaus  aggiungeva  la  novità  di  un  metodo  didattico  bipolare.  Gropius  era  dell’avviso  che  bisogna  apprendere   sotto   la   guida   di   due   insegnanti   diversi,   poiché   gli   artigiani   non   avevano   sufficiente  fantasia,   mentre   gli   artisti   non   possedevano   una   sufficiente   preparazione   tecnica.   Infine   il  coordinamento   s’intendeva   la   coordinazione   di   forma   e   tecnica:   muovere   dall’osservazione   del  processo  tecnico  per  dedurre  la  forma  più  idonea  nel  prodotto.  

I   primi   collaboratori   di  Gropius   furono   il   pittore   Johannes   Itten   e   lo   scultore  Gerard  Marcks.   Lo  svizzero   Itten,  cui  si  deve   l’idea  del  corso  propedeutico,   fu  certamente   la   figura  più  complessa  e  carismatica  del  Bauhaus  di  Weimar,  fra  i  suoi  insegnamenti  vi  era  la  sensibilizzazione  nei  riguardi  di  ogni   genere   di   contrasto   (ruvido-­‐liscio,   duro-­‐morbido,   chiaro-­‐scuro).   Per   la   prima   volta,  contrariamente   a   quanto   avveniva   nelle   altre   scuole,   gli   allievi   non   erano   costretti   a   riprodurre  fedelmente   dei   modelli,   ma   sotto   la   guida   di   Itten,   venivano   spronati   a   cogliere   i   principi  fondamentali  delle  formi  e  dei  colori  e  a  trasferirli  nella  composizione  artistica.  

Il   Bauhaus   superò   la   fase   espressionista   grazie   a   Theo   Van   Doesburg,   che   avendo   avuto  un’impressione  molto  positiva  da  una  visita  al  Bauhaus,  nel  1920,  nell’anno  successivo  decise  di  trasferirsi  a  Weimar.  Qui  da  vita  ad  un  corso  privato  impostato  sui  principi  di  De  Stijl.    

L’influsso  del  movimento  neoplastico  non  tardi  a  farsi  sentire  nella  scuola  di  Gropius,  imprimendo  una   forte   spinta   alla   produzione   degli   oggetti,   depurati   da   qualsiasi   pathos   soggettivo,   la   svolta  impressa  da  De  Stijl  coincise  quindi  anche  con  il  diverso  orientamento  produttivo  dato  da  Gropius  ai   laboratori,   grazie   infatti,   alla   nuova  organizzazione  produttiva,   nei   laboratori   vennero   studiati  prototipi  di  oggetti  tipo  da  rivendere  alle  industrie,  mentre  una  società  a  responsabilità  limitata  si  occupava  della  commercializzazione.  

Nel  1924   i  prodotti  delle  officine,   vennero  esposti   alla   fiera  di   Lipsia,  ma  già  un  anno  prima  era  stata  allestita  una  mostra  destinata  a  fornire  al  pubblico,  un  nuovo  modello  abitativo,  tra  gli  arredi  particolare   interesse   destavano   le   sedie   della   camera  da  pranzo,   l’armadio   per   il   soggiorno   e   la  toilette  nella  camera  della  padrona  di  casa,  con  specchi  rotanti  e  piano  scorrevole,  l’elemento  più  significativo  era   tuttavia   l’armadio  per   i   giocattoli   nella   camera  dei   bambini   progettato  da  Alma  Busher,  i  bambini  ne  potevano  smontare  gli  elementi  per  usarli  come  sgabelli  e  tavoli.  Erano  tutti  mobili  con  palesi  riferimenti  all’estetica  e  al  neoclassicismo.  

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All’indomani   dell’elezione   del   1924,   Gropius   dati   i   contrasti   con   il   nuovo   governo,   pensò   a   un  trasferimento  a  Dessau,  molti  degli  allievi  formatosi  a  Weimar,  essendo  ormai  in  grado  di  assolvere  sia   i  compiti  artistici  che  tecnici,  assunsero  essi  stessi   la  direzione  di  alcuni   laboratori.   Il  caso  più  rilevante   fu   quello   di  Marcel   Breuer,   che   innovò   al   tal   punto   l’officina   di   falegnameria   da   farle  meritare  il  nuovo  appellativo  di  “officina  del  mobile”.  Le  forme  progettate  da  questi  tendevano  a  realizzarsi  non  più  in  legno,  tradizionalmente  legato  alla  pratica  artigianale  bensì  in  metallo.  

 Nel  1925  progetta  e  mette  in  produzione  la  poltrona  B3  usando  tubi  nichelati  e  trafilati  a  freddo,  alla   prima   versione   della   B3   fece   seguito   il   più   innovativo  modello   a   sbalzo   con   la   struttura   del  sedile  dello  schienale  e  dei   sostegni   formata  da  un  unico   tubolare  metallico  curvato.  Le  sedie  di  Breuer,  nel  1926  arredarono  l’aula  magna  del  Bauhaus  di  Dessau  mentre  la  famosa  Barcellona  in  fascia  di  acciaio  cromato  arredò  il  padiglione  tedesco  all’esposizione  di  Barcellona  del  1929.    

Con  gli  arredi   in  tubolare  metallico  si  chiudeva   il  circolo  formato  dai  tre  più   innovativi  esempi  di  mobili  moderni:   quelli   di   Thonet,   partendo  un’invenzione   tecnologica   avevano  dato   avvio   a  una  produzione  di  massa,  quelli  di  Rietveld  avevano  puntato  su  una  componente  figurativa,  capace  di  anticipare   di   parecchi   decenni   l’attuale   design   d’artista.   Le   nuove   “macchine   per   sedere”   non  hanno   né   venature   né   colori   e   le   loro   superfici   lucide,   riflettono   i   colori   e   le   luci   dell’ambiente  circostante.   Nei   laboratori   dei   metalli,   intanto,   venivano   creati   anche   apparecchi   per  l’illuminazione,   in  particolare  Marianne  Brandt  progettò   la   lampada  da   soffitto  a  globo,  quella  a  parete  con  braccio  orientabile,  e  quella  saliscendi.  

La   crisi   prevalentemente   finanziaria   del   1928   portò   alle   dimissioni   di   Gropius,   se   questi   aveva  volutamente  evitato  i  legami  con  il  mondo  politico,  Hannes  Meyer  che  lo  sostituì  ne  fece  invece  il  perno   e   il   sostegno.   Egli   puntava   in   particolare   alla   sociologia,   all’economia   e   alla   psicologia,  infatti,  riorganizza  le  officine  del  Bauhaus  per  produrre  oggetti  il  cui  design  rispondesse  a  esigenze  unicamente  funzionali.  Alla  lunga  però  le  sue  posizioni  politiche  benché  condivise  da  molti  docenti  e   studenti,   lo   costrinsero   alle   dimissioni.   Alla   direzione   del   Bauhaus   gli   succedette  Mies   van   de  Rohe,   che   sospende   l’impegno   sociale   per   trasformare   il   Bauhaus   in   una   scuola   di   architettura  pura,   cui   erano   semplicemente   annessi   alcuni   laboratori.  Ma   in   tutti   i   casi   questa   scuola   aveva  ormai  esaurito  la  propria  spinta  innovativa  e  l’istituto  venne  definitivamente  chiuso  nel  1933  dalle  autorità  naziste.  

All’indomani  della   rivoluzione  di  Ottobre   le  avanguardie  artistiche  si  assumono   il   compito  di  dar  vita  ad  un  arte   libera,  rivoluzionaria  e  socialista.  Ma,  come  era  già  avvenuto  per  tutte   le  riforme  artistiche  dell’Ottocento  anche  questa  volta  si  profila   la  difficoltà  di  risolvere  il  vecchio  contrasto  fra  arte  pura  e  applicata,  ovvero  tra  i  valori  dell’accademia  e  quelli  dell’ingegneria.  Il  tentativo  di  superare  e  integrare  tra  loro  queste  due  culture  è  la  spinta  che  porta  nel  1920  alla  fondazione  del  Vchutemas.  

Quella  del  Vchutemas,   fu   senz’altro  una  grande  esperienza  didattica   fondata   su   tre   innovazioni:  l’introduzione  di  una   sezione  di   insegnamento  preliminare,   l’abolizione  della  pratica  accademica  della   copia   del   vero,   lo   studio   delle   leggi   della   percezione   e   degli   elementi   della   composizione  artistica.   Nei   primi   anni   di   vita   del   Vchutemas   sono   le   facoltà   artistiche   ad   attirare   il   maggior  

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numero   di   studenti,   mentre   dalla   metà   degli   anni   ‘20   in   poi   la   facoltà   di   Architettura   e   le  cosiddette  facoltà  di  produzione  acquistano  un  peso  crescente.  

Il   confronto   tra   la   riforma   artistica   sovietica   e   la   struttura   didattica   del   Bauhaus   è   d’obbligo:  l’Unione   Sovietica   guardava   all’Occidente   come   al   modello   di   un   mondo   tecnologicamente   più  avanzato,  mentre   il   Bauhaus   considerava   la   rivoluzione   d’Ottobre   il   trampolino   di   lancio   per   la  nascita  di  un’arte  al  servizio  del  proletariato.  Un  confronto  tra  Bauhaus  e  Vchutemas  può  risultare  rivelatore   non   tanto   della   fondatezza   di   un   presunto   primato   culturale   quanto   della   vocazione  didattica   del   costruttivismo   contrapposto   all’atteggiamento   sperimentale   del   razionalismo  gropusiano.  Il  design  razionale-­‐funzionalista  del  Bauhaus  aveva  infatti  puntato  sul  miraggio  di  una  nuova  proposta  didattica  completamente  riformata  e  sulla  speranza  di  una  nuova  società  di  uguali.  

Infine  il  tema  dell’utilità  sociale  del  prodotto  troverà  un’ulteriore  formulazione  nella  Germania  del  dopoguerra  grazie  alla  HFG.  L’istituto  entra  in  funzione  nel  1955  in  memoria  dei  fratelli  e  Hans  e  Sophie  uccisi  dai  nazisti  nel  1943.  Progettista  e  primo  direttore  è  l’architetto  svizzero  Max  Bill,  ex  allievo  del  Bauhaus.  

Non   mancheranno   neanche   in   questa   ulteriore   riproduzione   del   Bauhaus   le   polemiche   e   le  discordie   che   avevano   già   caratterizzato   il   modello   di   riferimento,   infatti   i   contrasti  sull’impostazione  della  didattica  porteranno  Bill  a  dimettersi  dalla  carica  di  direttore  nel  1956.  Le  innovazione  riguarderanno  in  primo  luogo  una  graduale  trasformazione  del  corso  inziale  comune  a  tutti   i   rami   di   specializzazione   in   un   altro   che   fosse   capace   di   orientare   fin   dal   principio   verso   i  diversi  tipi  di  laboratori  e  officine,  un’ulteriore  innovazione  sarà  l’introduzione  di  discipline  nuove  (cibernetica,   teoria   dell’informazione,   semiotica   ed   ecc.)   rispetto   a   quelle   tradizionalmente  tecniche  del  Bauhaus.  Infine  connessa  a  queste  innovazioni  è  la  divisione  della  scuola  in  due  grandi  filoni:  quella  della  progettazione  dei  prodotti  e  quella  della  comunicazione.  

Il  rapporto  di  collaborazione  instituito  con  la  grande  industria  divenne  il  tavolo  sul  quale  si  giocò  il  destino   del   HFG,   infatti   in   una   Germania   che   organizzava   la   sua   ricostruzione   sul   modello  produttivistico   americano,   l’orientamento   ideologico   di   sinistra   della   scuola   appariva  anacronistico.   Ciò   che   l’industria   tedesca   voleva   da   questo   istituto   non   era   molto   diverso   da  quanto  aveva  preteso  quattro  decenni  prima  dal  Bauhaus:  contribuire  a  creare  un  alibi  culturale  al  programma   produttivistico,   dal   momento   che   questa   scuola   se   ne   rese   conto   e   adottò   un  atteggiamento  di  rinuncia  e  rivolta  il  suo  destino  fu  segnato.    

Vi  è   l’esistenza  di  una  profonda  analogia  tra   le  caratteristiche  e  vicende  dei  tre   istituti:  Bauhaus,  Vcuthemas   e   HFG   esse   si   sono   situate   nel   punto   d’incontro   tra   pensiero   e   azione,   tra   profitto  individuale   e   interesse   pubblico,   sono   state   scuole   in   continue   movimento   e   siccome   non  cessavano   di   trasformarsi   non   era  mai   chiaro   cosa   fossero   e   ne   cosa   volessero,   non   più   scuole  decorative,   ne   istituti   tecnici,   ne   accademie   delle   belle   arti,   esse   apparivano   impossibili   da  inquadrarsi.  Ciò  spiega  perché  ci  si  ostinava  tanto  su  due  punti:  che  queste  scuole  anormali  fossero  annesse   a   degli   organismi   già   esistenti   oppure   che   fossero   semplicemente   chiuse   per   evitare  qualsiasi  doppione.  

 

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IL  DESIGN  TRA  NOSTALGIA  E  MODERNISMO  La  Francia,  pur  essendo  la  più  progressista  delle  nazioni  europee  ha  sempre  stranamente  esitato  ad   accogliere   le   tendenze   venute   dall’estero.   Non   deve   quindi   meravigliare   che   la   parigina  Esposizione  Internazionale  delle  Arti  Decorative  e  Industriali  Moderne  del  1925,  abbia  sottolineato  ancora  una  volta  il  ritorno  del  “grande  gusto”.  

Le  arti  applicate  francesi  soffrivano  da  tempo  di  complessi  di  inferiorità  specialmente  nei  confronti  della  Germania,  all’indomani  del  primo  conflitto  mondiale  dunque  nutrivano  speranze  di  rivincita:  non   solo   quelle   di   un   concreto   aumento   dell’esportazioni   ma   anche   quelle   della   nascita   di   un  nuovo   stile,   in   grado  di   reggere   il   confronto   con   il   passato.   Si   erano  quindi   formati   almeno  due  schieramenti:   quello   che   insieme   al   Loos   equiparava   l’ornamento   al   delitto   e   quello   che  considerava   l’ornamento   un   piacere   e   il   nuovo   come   l’ultima   fase   della   tradizione.   Dato   che  entrambi   gli   schieramenti   si   consideravano   moderni,   i   critici   del   tempo   definirono   gli   uni  modernisti  a  oltranza  e  gli  altri  neotradizionalisti,  quest’ultimo  indirizzo  si  ispirava  quel  gusto  che  verrà  definito  “Art  Deco”.  

Fu  subito  chiaro  che  l’  Art  Deco  era  la  sintesi  di  differenti  settori  della  cultura  e  del  costume.  Nel  1905  al  Salon  d’Automne,  Henry  Matisse,  e  i  giovani  artisti  definiti  fauve  inaugurarono  una  nuova  tavolozza   di   colori   accesi   e   violenti,   il   cubismo   infatti   aveva  dischiuso   l’orizzonte  della   riduzione  delle  immagini  e  degli  oggetti  alla  geometria,  mentre  il  futurismo  invitava  ad  indagare  sulle  tracce  lasciate   dagli   oggetti   in   movimento.   Questo   legame   con   le   avanguardie   figurative   era   ciò   che  avvicinava   e   allo   stesso   tempo   allontanava   i  modernisti   e   i   tradizionalisti,   li   avvicinava   per   una  comune  partecipazione  dello  spirito  del  tempo,  ma  li  allontanava  per  una  differente  elaborazione  dei   medesimi   contenuti.   Inoltre   grazie   alla   filiale   parigina   della   Wiener   Werkstatte,   il   gusto   di  Hoffman   e   della   secessione   viennese   si   era   profondamente   radicato   a   Parigi.   Ben   presto  molti  elementi   distintivi   dell’architettura   secessionista   vennero   elaborati   e   inclusi   nello   stile   Deco:   ad  esempio  la    corbeille  di  Palazzo  Stoclet  si  trasforma  nella  Rosa  cubista  di  Iribe  e  nel  Cesto  di  fiori  e  frutta  di  Sue  e  Mare.  

Gli   arredi   che  popolavano   i   padiglioni   francesi   dell’esposizione   coniugavano  motivi   del   presente  con  altri  del  passato,   il  senso  del  decoro  era  ora  interpretato  in  più  di  una  sfumatura:  come  arte  dell’arredatore,  come  attitudine  a  combinare  i  colori,  come  capacità  di  riprendere  antiche  tecniche  tradizionali.  Tra  queste  ultime  venivano  predilette  l’arte  dell’  impiallacciatura  e  della  laccatura.    

Nella  prima  eccelse  Jacques  Emile  Ruhlmann,  il  più  celebre  designer  di  mobili  in  stile  Deco.  Da  un  punto  di   vista   tecnico   i   suoi  arredi   si  distinguevano  per  un  solido   schema  portante  costituito  da  legni  molto  resistenti,  tale  ossatura  veniva  ricoperta  con  un  primo  rivestimento  di  sottili  strisce  di  legno  dalle  venature  discoste   in  direzione  contraria  a  quelle  dei   legni  sottostanti,  questa  tecnica  era  usata  per  preservare  i  mobili  dalle  variazioni  di  temperatura  dell’umidità.  Invece  da  un  punto  di  vista  formale  i  mobili  di  Ruhlmann  si  distinguevano  in  esemplari  generalmente  sollevati  da  terra  mediante   uno   zoccolo,   oppure   in  mobili   leggeri,   slanciati   d’inspirazione   settecentesca   con   piedi  sottili  e  allungati.  

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L’arte   orientale   della   laccatura   ebbe   invece   il   più   interessante   interprete   Jean   Dunand,   egli  preferiva   volumi   elementari   e   levigati,   sicché   l’attualità   delle   sue   opere   si   rivelava   attraverso  mobili  e  oggetti  assolutamente  monocromi  come  la  toilette  rosso  bruna  a  cassetti  ruotanti.  

L’Art  Deco  almeno  in  Europa  non  durò  a  lungo,  a  Parigi  nel  1925  aveva  raggiunto  il  suo  punto  più  alto  e  non  poteva  che   iniziare  quindi   la  fase  calante,   inoltre  sarebbe  poi  sopraggiunta   la  crisi  del  1929  a  dare   il  colpo  di  grazia  ad  ogni   lusso.  Tuttavia  proprio  negli  Stati  Uniti,   la  nazione   in  cui  si  verificò  il  tracollo  finanziario,  il  Deco  fu  invece  accolto  e  rilanciato.  In  una  società  attenta  al  mondo  dell’immagine   come   quella   statunitense   si   comprese   infatti   che   occorreva   conquistare   il  consumatore   attraverso   la   forma   seducente   dei   prodotti.   Dunque   se   la   strategia   economica   del  New  Deal  fu  la  risposta  alla  crisi  del  1929,  lo  styling  fu  certamente  una  delle  più  riuscite  iniziative.  Con  il  termine  styling  si  intende  la  tendenza  a  dare  ad  ogni  oggetto  una  forma  aereodinamica  così  che  la  bella  forma  decorata  venuta  da  Parigi,  possa  sposarsi  perfettamente  con  quella  a  goccia  o  a  cometa  prescritta  dagli  studi  di  aereodinamica.  

Tuttavia  è  stata  più  volta  messa  in  dubbio  l’appartenenza  del  Deco  al  mondo  del  Design,  le  accuse  si   basano   sull’incapacità   di   tradursi   in   produzione   di   massa,   sullo   sguardo   rivolto   al   passato   e  specialmente  sull’eccesso  di  decorazione.  In  realtà  che  si  sia  trattato  solo  di  un  fenomeno  di  lusso  è  smentito  dal  fatto  che  parallelamente  all’offerta  di  costosissimi  oggetti  per  pochi,  ne  esistessero  altri  a  buon  mercato  accessibili  a  molti  nei  grandi  magazzini.  

Infine  quanto   all’accusa  di   essere  uno   stile   inattuale   ciò   è   dovuto   al   fatto   che   la   storia   essendo  scritta   dai   vincitori   una   volta   decretata   la   vittoria   del   razionalismo,   il   Deco   è   stato   volutamente  ignorato.  

Parigi:  un  Modernismo  integrale  

Quello  che  veniva  definito  Modernismo  Integrale  risaliva  a  molto  prima  della  metà  degli  anni  20,  “Ornamento  e  delitto”  di  Adolf  Loos  era  già  stato  tradotto  sul  secondo  numero  L’Esprit  Noveau.  Francis   Jourdain   può   essere   considerato   il   capofila   del   Design   Moderno   Francese,   con   molto  anticipo  sui  tempi  e  sulle  iniziative  di  altri  architetti  europei,  nel  1902  egli  concepisce  una  linea  di  arredi  per  la  casa  basata  sui  prodotti  di  serie.  Fedele  a  questi  principi,  al  Salon  d’Automne  del  1913  Jourdain   espone   gli   arredi   ideati   per   il   proprio   appartamento   parigino,   tuttavia   una   parte   della  critica  non  gli  risparmia  giudizi    severi,  bollandolo  persino  come  costruttore  di  bare.  In  realtà  altri  ambivano  a  raggiungere  obbiettivi  analoghi  a  quelli  di  Jourdain:  Mallet-­‐Stevens  nell’ispirare  i  suoi  arredi  alla  semplicità  di  quelli  giapponesi,  Djo  Bourgeois  con  la  sua  costante  ricerca  di  arredi  che  facessero   corpo   con   la   struttura   muraria,   per   non   parlare   infine   di   Le   Corbusier   che   grazie  all’invenzione   delle   casiers   standard   del   Padiglione   dell’   Esprit   Noveau   finirà   con   l’occupare   un  posto  di  primo  piano  nella  storia  del  design.  

Il  padiglione  di  Le  Corbusier  riassumeva  tre  anni  di  studio  stesi  nel  definire  quella  cellula  che  nata  come  casa  Citrohan,  era  stata  via  via  perfezionata  in  Immeblue  Villa  ossia  in  una  tipologia  standard  riproducibile  industrialmente  e  destinata  in  definire  il  modulo  abitativo  della  villa  contemporanea.  Nel   padiglione,   Le   Corbusier   aveva   tradotto   in   pratica   le   sue   idee,   l’arredamento   stesso   della  cellula  duplex  rappresentava  una  parte  del  programma  espositivo,  egli  aveva  svuotato  il  soggiorno  

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al  piano  terra  eliminando   la  maggior  parte  dei  mobili   tradizionali  e   lasciandovi  solo  alcune  sedie  Tonet,   un   tavolo,   alcuni   quadri   puristi   alle   pareti   e   tappeti   orientali   sul   pavimento,   per   il   resto  l’arredamento  era  formato  dalla  casiers  standard  con  la  quale  la  battaglia  anti-­‐decorativa  di  Loos  segnava   un’altra   vittoria.   I   casiers   standard   grazie   alla   loro   modularità   e   alla   loro   variabilità  funzionale  (potevano  avere  cassetti,  ripiani,  ante)  offrivano  una  più  ampia  gamma  di  destinazione  fino  a  fungere  essi  stessi  come  pareti  divisorie,  non  si  trattava  più  di  mobili  ma  di  attrezzature.  

Egli   intendeva   ridefinire   il   concetto   stesso  di   arte  decorativa,   infatti   si   chiedeva  “non   sarà   che   il  fatto  che  questa  attività  è  talmente  priva  di  esattezza  che  come  tale  è   impossibile  definirla?”.   In  definitiva  ogni  epoca  artistica  ha  maturato  una  certa  idea  sull’argomento,  quindi  ora  toccava  a  Le  Corbusier   imbattersi   in   ciò   che   considerava   il   paradosso   del   proprio   tempo:   definire   arte  decorativa  quell’universo  di  oggetti  utili  che  invece  a  suo  dire  sarebbe  stato  più  logico  considerare  alla  stregua  di  attrezzi.  

Dal   momento   che   molti   sono   i   modi   di   sedersi   egli   pensava   sono   necessarie   forme   di   sedie  differenti,  così  come  differenti  devono  essere  i  tavoli  che  corrispondo  alla  forma  di  appoggiare.  In  quest’ottica  dal  1927  in  collaborazione  con  Pierre  Jeannarette  egli  inizierà  a  progettare  macchine  da   riposo  e   tavoli,   tutti  questi  oggetti   verranno  presentati     al   Salon  des  artistes  decorateurs  del  1929  mentre  il  Salon  del  1930  ospiterà  la  sezione  del  Wekbund  organizzata  da  Gropius.  Strutture  metalliche,  perni,  cerniere  accomunavano   i  mobili   razionalisti   francesi  ai  mille  oggetti  meccanici,  grandi  e  piccoli,  che  ormai  facevano  parte  della  quotidianità  a  pieno  titolo.    

Tramontato  il  referente  naturalistico,  lo  spirito  della  macchina  era  diventato  il  simbolo  di  un  epoca  da  esprimere  con  forme  e  materiali  tanto  attuali  da  indurre  a  considerare  tutta  la  casa,  come  dice  Le   Corbusier,   una   macchina   da   abitare.   La   lamiera   stampata,   l’acciaio   e   in   particolare   il   vetro,  materiale   resistente   ed   elegante,   divennero   un   ulteriore   punto   di   forza   dei   modernisti.   Sul  versante   della   sperimentazione   di   questi   materiali   antitradizionali,   la   Francia   poteva   contare  specialmente   sui   fratelli   Adnet.  Un   ruolo   significativo  nel   panorama  del  modernismo   francese   è  quello  di  Eileen  Gray,   l’artista   la   cui  portata   innovativa  è  apprezzata  più  oggi   che  allora,   verso   il  1925  da  avvio  ad  una  personale   linea  di  mobile  metallico,   ispirata  alle  carrozzerie  di  Bugatti.  Dal  1927  la  sua  famosa  chaise  lounge  realizzata  in  legno,  cuoio  e  cerniere  d’acciaio,  da  considerare  in  assoluto  la  prima  chaise  lounge  moderna.  Soluzioni  rispondenti  ai  problemi  di  soluzioni  di  vita,  in  ambienti  ristretti,  come  la  cabina  di  una  nave,  sembravano  essere  il  contributo  più  rilevante  degli  arredi   di   Eileen   Gray   che   per   la   propria   casa   E-­‐1027   disegna   il   famoso   armadio   di   alluminio,  funzionante  da  separazione  tra  l’angolo  toilette  e  la  camera  da  letto.  

Anche  Jeane  Prouvè  fin  dal  1923  aveva  avviato  una  ricerca  sulla  tecnica  dello  stampaggio  e  della  piegatura   della   lamiera   metallica   per   mobili,   con   modalità   molto   simili   a   quelle   dell’industrie  automobilistiche.  Tutti  questi  artisti  daranno  vita  alla  Uam  (Unione  degli  artisti  moderni).  Quasi  a  scopo   dimostrativo   nel   1934   la   Uam   in   collaborazione   con   l’Otua   (Officina   tecnica   per  l’utilizzazione   dell’acciaio)   presenta   al   Salon   d’Automne   alcune   arredamenti   di   cabine   navali,  realizzati   in   acciaio   cromato.   Fu   forse   in   tale   occasione   che   venne   coniato   l’appellativo   di   stile  “transatlantico”  che  bollò  prima  i  mobili  del  gruppo,  per  poi  essere  esteso  al  mobile  razionalista  in  generale.  

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1920-­‐30:  Italia  delle  Biennali  tradizionaliste  alle  Triennali  razionaliste  

Nell’Italia  degli  anni  ’20  l’eco  del  Weirkbund  e  del  Bauhaus,  così  come  anche  l’Art  Deco  (Stile  1925)  risultavano   affievoliti.   Il   nostro   paese   non   aveva  mai   intrapreso   una   riforma   dell’arte   applicate,  lontanamente   paragonabile   a   quelle   inglese   o   tedesca.   Tuttavia   nel   1907   era   stata   varata   una  riforma  per  gli  istituti  professionali  basata  sulla  centralità  dell’insegnamento  artistico.  Seguendo  gli  esempi  di  Londra,  Vienna  e  Berlino  a  tali   istituti  erano  stati  anche  affiancati  alcuni  musei  di  arte  industriale.  La  società  umanitaria  fondata  a  Milano  nel  1899  movendo  da  un  riferimento  dell’Arts  and  Crafts  inglesi,  divenne  uno  dei  primi  centri  di  divulgazione  dello  stile  Liberty.    

 A  Torino  con  la  prima  esposizione  di  arte  decorativa  moderna,  si  respirava  finalmente  un  aria  di  internazionalismo:  Carlo  Bugatti,  Eugenio  Quarti,  Ernesto  Basile  potevano  confrontarsi  fra  gli  altri  con   Behrens,  Mackintosh   e  Olbrich.  Ma   in   questa   occasione   vennero   anche   alla   luce   i   contrasti  culturali,  fra  i  sostenitori  e  gli  oppositori  della  moda  proveniente  da  fuori:  i  sostenitori  guidati  da  Camillo  Boito  e  Alfredo  Melani  diffondevano   il   linguaggio   floreale,  mentre   il  partito  del  dissenso  schierato   per   la   difesa   del   tradizionalismo   era   invece   guidato   dalla   figura   di   Ugo  Ojetti   che   nel  Liberty  vedeva  il  pericolo  di  un’invadenza  culturale  straniera.  

Malgrado  il  fervore  del  dibattito,  la  ventata  di  rinnovamento  fu  costretta  ben  presto  a  smozzarsi.  Neppure   i   movimenti   d’avanguardia   figurativa   potranno   scalfire   la   venerazione   per   le   radici  artistiche   soprattutto   quelle   rinascimentali.   Quindi   quello   che   potremmo   definire   il  neotradizionalismo  italiano  finì  per  seguire  in  sostanza  due  indirizzi:  l’uno  basato  sulla  ripresa  delle  forme  artistiche  regionali,  l’altro  incanalato  nel  rilancio  delle  varie  stagioni  del  classicismo,  rispetto  a  tali  indirizzi  le  primi  Biennali  di  Monza  registrarono  consensi  e  opposizioni.  

Nel   1923   Marangoni   darà   vita   alla   prima   Biennale   internazionale   di   arti   decorative   di   Monza,  malgrado  lo  statuto  espositivo  escludesse  la  copia  dei  modelli  antichi  e  la  ripresa  dell’arte  rustica  popolare,   la   proposta   di   un   rinnovamento   non   veniva   neanche   presa   in   considerazione,  preferendo  piuttosto  le  produzioni  regionali  di  artigianato.  A  Parigi   l’Italia  aveva  dato  il  peggio  di  se  con  il  padiglione  di  Brasini,  un  ingombrante  parallelepipedo  classicheggiante  tra  il  romano  e  il  cinquecentista  sproporzionato  e  di  sgradevole  aspetto.    

A   Monza   tanto   nella   Biennale   del   1923   quanto   in   quella   del   1925,   Duilio   Cambellotti   si   era  dimostrato   capace   di   sprovincializzare   il   tema   del   recupero   della   tradizione   popolare.   L’artista  romano   infatti   aveva   riconosciuto  nell’arredo   contadino   laziale   la   sintesi   tra   arte  e   società   a   cui  aspirava   il  movimento   di  Morris   da   lui  molto   ammirato.   Accanto   ai   consueti  mobili   laccati   e   ai  virtuosissimi  roccocò  soffiati  nel  vetro  si  distingueva  la  ripresa  dell’arte  muranese.  L’arte  vetraria  muranese  non  tradiva  la  propria  tradizionale  inventiva.  

Nel  1928  Napoleone  Martinuzzi  inventa  il  vetro  Pulegoso,  opaco  di  aspetto  pesante  e  costellato  di  bollicine   iridescenti,  mentre  dalla   ricerca    Venini  escono   i   vetri   Sommersi  e   i  Diamantati.   Inoltre  alla  Biennale  di  Venezia  del   1930  Ercole  Barovier   presenta   il   vetro  Rostrato  e  quello  Primavera.  Infine  nelle  fornaci  dei  fratelli  Toso  si  mette  appunto  la  tecnica  della  mezza  filigrana  e  quelle  dei  vetri  colorati  sommersi  in  limpido  cristallo.  

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Tornando  alle  Biennali  monzesi,  la  manifestazione  del  1927  sottrae  spazio  all’artigianato  artistico  e  all’arte   contadina   per   concederne   alla   creatività   degli   allestitori.   Il   programma   della  mostra   era  volto  a  valorizzare  non  solo  l’oggetto  ma  anche  la  sua  cornice  espositiva,  è   in  tale  occasione  che  emerge   la   figura   di   Gio   Ponti,   progettista   di   arredi,   egli   seguiva   il   modello   francese   e   quello  viennese  anzi  seguiva  soprattutto  quello  francese  con  il  suo  doppio  indirizzo  dell’arredo  di  lusso  e  dell’arredo   a   buon   mercato   studiato   per   i   grandi   magazzini.   Al   primo   indirizzo   era   improntato  l’allestimento  della  sala  del  labirinto.  Il  labirinto  interpretava  il  gusto  dell’alta  borghesia  lombarda  per  la  quale  Ponti  progettava  palazzi  e  ville  decorati  da  timpani  allungati  e  da  obelischi.  

Sotto   il   marchio   domus   nova,   Ponti   e   Emilio   Lancia,   presentavano   invece   un  modello   abitativo  destinato   alla   media   borghesia,   venivano   perciò   proposti   ambienti   di   semplice   decoro   e  soprattutto  così  completi  da  evitare  ai  compratori   incertezza  dell’accostamento  tra  un  arredo  ed  un   altro,   quelli   della   domus   nova   venivano   pubblicizzati   come  mobili   economici   ed   estetici   allo  stesso  tempo.  

La   svolta   si   configura   finalmente   nel   1930   quando   l’esposizione   monzese,   divenuta   istituzione  permanente,   acquista   una   scadenza   triennale   configurandosi   come   la   prima   in   cui   si   parla  esplicitamente  di   arti  decorative  e   industriali  moderne.  Alla   IV  Triennale  1930  accanto  al   salone  allestito  da  Munzio,  con  sfoggio  di  marmi   intarsiati,  accanto  alla  casa  di  Ponti  e  Lancia,  arredata  con   mobili   della   Domus   Nova,   la   Casa   Elettrica   e   la   Sala   130   sembravano   introdurre   una   nota  insolita.   La   Casa   Elettrica   si   distingueva   per   l’allestimento   dell’ambiente   cucina,   dove   il   tema  dell’elettrificazione   aveva   consentito   di   applicare   i   criteri   sull’organizzazione   razionalizzata   del  lavoro  domestico.  La  Sala  130  invece  era  stata  realizzata  per  ospitare  alcuni  oggetti  in  metallo.  

Nel   1933   la   V   Triennale   si   rinnova   completamente.   Lasciata   Monza   per   Milano   si   insedia   nel  palazzo   d’arte   progettato   da   Giovanni  Munzio.   L’edificio   è   circondato   da   ampio   parco   dove   gli  organizzatori   propongono   una   rassegna   di   un   architettura  moderna   internazionale   attraverso   la  realizzazione  di  33  modelli  abitativi.  Solo  l’edificio  di  Griffini  e  Bottoni  affrontava  i  problemi  della  casa   popolare,   negli   altri   padiglioni   invece   erano   studiati   per   l’artista,   lo   sportivo,   insomma   gli  stereotipi.  Un  discorso   a   parte  merita   la   casa   a   struttura   d’acciaio,   la   costruzione   era   un   saggio  dimostrativo  delle  libertà  compositive  ottenibili  grazie  ai  nuovi  materiali  e  alle  nuove  tecniche,  in  particolare  negli  arredi  venivano  accostati  materiali  tradizionali  e  materiali  lussuosi.  

La   promozione   di   una   produzione   seriale   e   l’elaborazione   di   nuovi   modelli   abitativi   sarà  l’obbiettivo   principale   a   cui   il   comitato   organizzativo   cercherà   di   tener   fede   nella   VI   Triennale.  Questa   volta   contrariamente   all’edizione   precedente     gli   alloggi   tipo   coprivano   una   gamma  abbastanza   completa   della   composizione   sociale   del   momento.   La   trasformabilità,  l’intercambiabilità   e   la   scomponibilità   dell’arredamento,   ottenute   grazie   ad   elementi   modulari  rappresentavano   i   punti   di   forza,   tanto   per   gli   appartamenti   per   il   ceto   borghese   quanto   per  l’alloggio  popolare.  

Infine  la  VII  Triennale  si  apre  nel  1940  poco  prima  dell’entrata  in  guerra  dell’Italia.  Si  tratta  di  una  sorta  di  ritorno  all’ordine,  che  per  i  giovani  architetti  innovatori  equivale  a  veder  sfumare  il  mito  di  un   fascismo   rivoluzionario   per   il   quale   progettare   un   nuovo   ambiente   di   vita,   tuttavia   se  l’architettura  appare  compressa  e  mortificata,   il  design  ne  uscirà   invece  avvantaggiato.  E’   il   caso  

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della   sezione   dedicata   alla   produzione   in   serie   in   cui   Pagano   aveva   riunito   i   migliori   prodotti  dell’industria  nazionale  da  quelle  pesanti   (Fiat   e  Caproni)   a  quelle   leggere   (Borletti   e  Olivetti).   Il  caso  Olivetti  merita  un  discorso  a  parte.    

Negli   anni   30   questa   fabbrica   aveva   conosciuto   una   svolta   per   così   dire   internazionale,   per  contrastare  le  conseguenze  della  crisi  del  1929,  Adriano  Olivetti  riorganizza  l’azienda  concentrato  ormai   sulla   produzione   di   macchine   per   ufficio,   ma   la   novità   più   importante   introdotta   da  quest’ultimo  è  la  fondazione  di  un  ufficio  progetti  e  studi  centrato  sulla  collaborazione  fra  artisti,  architetti  e  tecnici.  Da  questo  momento  la  Olivetti  guadagna  un  posto  privilegiato  nella  storia  del  design  italiano,  grazie  ad  una  serie  di  macchine  per  ufficio:  nel  1931  entra  in  produzione  la  M40,  nel  1932  Alberto  Magnelli  progettando  la  MP1  inaugura  la  serie  di  macchine  da  scrivere  a  sviluppo  orizzontale.    

Mentre   l’efficienza   e   la   funzionalità   restavano   le   parole   d’ordine   degli   oggetti   tecnologici  all’interno  degli  uffici,  la  casa  degli  italiani  soffriva  invece  di  inerzia.  Il  mobile  pratico  smontabile  e  imballabile  lasciava  indifferente  la  borghesia  pronta  a  relegare  le  novità  tecnologiche  nel  bagno  e  nella  cucina  per  continuare  a  preferire  il  decoro  della  tradizione  negli  ambienti  di  rappresentanza.  

In   tale   ottica   acquista   maggior   rilievo   lo   sforzo   compiuto   alla   triennale   del   1940   nella   mostra  dell’apparecchio  radio,  nella  manifestazione  milanese,  il  radioricevitore  modello  547  si  distingueva  per   la   sua  portata   straordinaria.   I   progettisti   avevano   infatti   ridotto   l’involucro   ad  una   semplice  scocca  protettiva  nera  su  cui  venivano  evidenziati  l’altoparlante  e  la  tastiera  con  il  sintonizzatore.  Date   le   ridotte   dimensioni,   l’apparecchio   radio   era   diventato   mobile   anche   in   un   altro   senso:  facilmente   spostabile   aveva   conquistato   un   posto   sulle   scrivanie   insieme   al   telefono   e   alla  macchina  da  scrivere.  

L’ultima  Triennale  prima  della  censura  bellica  costituiva  un   tassello  essenziale  nella  maturazione  del  design  nel  nostro  paese.  Le  Biennali  e  le  Triennali  si  erano  configurate  come  una  palestra  per  tenere   allenati,   quei   nomi   che   avevano   scelto   il   modernismo   internazionale   contro   il  tradizionalismo  nazionale  e  che  avrebbero  trovato  nel  dopoguerra  il  ruolo  centrale  di  designer.  

 

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LA  COSTELLAZIONE  SCANDINAVA  Per   gli   oggetti   fabbricati   in   Svezia,   Danimarca,  Norvegia   e   Finlandia   si   corre   sempre   il   rischio   di  sbagliare   data:   infatti   appaiono   talmente   familiare   da   indurre   a   pensare   che   siano   sempre   stati  nelle  nostre  case  e  sotto   i  nostri  occhi,  visto  che   i  paesi  nordici  hanno  costantemente  nutrito  un  vero   e   proprio   culto   per   il   calore   dell’ambiente   domestico.   In   Svezia   nel   1845,   in   Finlandia   nel  1875,  in  Danimarca  nel  1907  e  in  Norvegia  nel  1908  erano  nate  varie  organizzazioni  con  la  finalità  di  portare  avanti  esperimenti  sulla  produzione  artigianale  in  collaborazione  con  le  forze  artistiche  del  paese.  

Agli   inizi  del   ‘900  gli   Scandinavi  guardavano  specialmente    alla  Wiener  Werkstatte,   infatti   con   la  cultura   austriaca   essi   condividevano   l’amore   per   l’arte   nazionale,   il   culto   per   il   classicismo   e   la  permanenza   di   un   artigianato   di   alto   livello.   Mediatore   fra   le   culture   dei   due   mondi   era   Josef  Frank.  Per  quest’ultimo  i  mobili  non  potevano  essere  ridotti  al  semplice  dominio  della  funzione  ma  dovevano   restituire   all’abitare   i   legami   con   la   propria   storia.   Tale   atteggiamenti   furono  evidenti  nell’Esposizione   Parigina   del   1925.   Anche   se   il   Bauhaus   andava   diffondendo   la   visione   estetico-­‐ideologica   in   tutt’Europa,   Svezia   e   Danimarca   non   sentirono   la   necessità   di   accogliere   i  rivoluzionari  modelli  di  vita  suggeriti  dalla  scuola  di  Gropius  ma  avanzarono   invece  proposte  più  moderate  e  comunicative.  

Il   contributo   più   significativo   era   rappresentato   dalla   chaise   lounge   Senna   con   la   quale   Gunnar  Asplund   si   rifaceva   al   rigore   dello   stile   direttorio.   Il  maestro   del   neoclassicismo   nordico   in   quel  momento  aveva  già  preso  le  distanze  dalla  cultura  contadina,  ispiratrice  dei  mobili  progettati  nel  1917,   e   stava   per   approdare   a   quel   razionalismo   che   avrebbe   caratterizzato   tutta   la   sua  produzione  a  partire  dagli  anni  ’30.  

All’Esposizione  di  Parigi  del  1925  Kay  Fisker,  il  progettista  del  padiglione  della  Danimarca,  dimostrò  come  il  culto  del  passato  classico  potesse  legarsi  con  quel  del  passato  nazionale.  In  quel  occasione  fu  chiaro  che  tra  le  caratteristiche  del  passato  nazionale  vi  era  una  sorta  di  orgoglio  della  modestia,  infatti   già   nell’Ottocento   compensando   la   povertà   del   paese   con   l’inventiva   dei   suoi   artisti,   la  Danimarca  si  era  distinta  per  aver  creato  la  versione  nazionale  dello  stile  Impero.  

Kaare   Klint   è   ritenuto   il   capofila   del   designer   danese,   tra   i   tanti   periodi   storici   da   cui   trarre  ispirazione   egli   preferì   quello   del   comfort   .   Klint   esaminò   e   confrontò   innumerevoli  modelli   del  passato   e   del   presente,   dai   mobili   degli   Shaker   a   quelli   dell’Ottocento   inglese,   così   la   sua  poltroncina  Safari  prendendo  spunto  da  un  modello  di  età  coloniale,  riuscì  a  emulare   la  N.  14  di  Thonet  per  la  linea  sobria  e  pulita  e  per  la  smontabilità  dei  suoi  elementi.  

Wegner  pur  non  essendo  stato  diretto  allievo  di  Klint,  ne  adottò   la   lezione  perfezionando  alcuni  esempi  sedimentari  nella  memoria  e  nell’uso  collettivo.  La  sedia  rotonda  è  certamente  l’esemplare  più  noto  infatti  si  tratta  di  un  modello  cinese  che  si  distingue  per  l’armoniosa  fusione  di  schienale  e  braccioli,  altri  modelli  progettati  da  Wegner  sono:  la  sedia  Pavone,  la  sedia  sdraio  512  e  la  sedia  Y.  

Nel  secondo  dopoguerra   la  ditta  Hansen  si  specializzò  nella   lavorazione  di  serie   in   legno  curvato  sul  modello   Thonet   con   l’introduzione   di   alcune   novità   rispetto   ai  modelli   viennesi,  ma   la   vera  

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rivoluzione   della   ditta   Hansen   avvenne   dopo   l’incontro   con   Jacobsen.   Da   questo   sodalizio  nacquero  arredi  destinati  a  rompere  radicalmente  con   la  tradizione  del  mobile  danese  di  origine  artigianale.  

Con  la  sedia  Myren  a  tre  gambe  e  con  la  sua  variante  3107  a  quattro  gambe,  si  ebbero  per  la  prima  volta   arredi   compatibili   con   le   tecniche   di   produzione   industriale   su   larga   scala.   Le   sedie   di  Jacobsen   hanno   conosciuto   successo   e   diffusione   pari   solo   alla   n.14   di   Thonet.   Gli   arredi   di  Jaccobsen   caratterizzati   dagli   insoliti   accostamenti   (acciaio   e   materiali   naturali)   divennero   ben  presto  un’immagine  inconfondibile  degli  anni’50,  a  conferire  al  design  scandinavo  un  carattere  in  equilibrio  fra  il  nazionalismo  e  l’internazionalismo  fu  infine  l’esperienza  progettuale  di  Alvar  Aalto.  

L’incontro  più  significativo  di  Aalto  con  i  problemi  del  design  prese  definitivamente  l’avvio  con  la  costruzione  del   sanatorio  di  Paimio  per   il  quale  progettò   il   “lavabo  silenzioso”   (posizionato  a  45  gradi   rispetto   alla   parete   per   evitare   rumore   e   schizzi   d’acqua),   l’armadio   a   doppia   valva,   le  maniglie  alle  quali  non  potevano  impigliarsi   i  camici  dell’infermiere,  e  soprattutto,  una  varietà  di  poltroncine  e  sedie  dapprima  realizzate  con  struttura  in  metallo  e  seduta  in  legno  e  poi  totalmente  in  legno  ed  elastici  fogli  di  compensato  curvato.  

la  prima  poltrona  elastica  in  legno,  si  ispirava  concettualmente  alla  Wassily  (B3)  di  Marcel  Breuer,  la   seduta   in  compensato  curvato  a  S   la   rendevano  molto  più  confortevole  grazie  al  molleggio   in  grado   di   assecondare   i   movimenti   del   corpo.   Con   la   sua   sagoma   sinuosa   dava   inoltre   l’avvio   a  quella   linea   formale   irregolarmente   organica   che   Aalto   tenderà   a   riproporre   in   ogni   materiale  mutuandola.  Ispirandosi  quindi  ai  mobili  di  Thonet,  Aalto  abbandona  del  tutto  l’uso  dell’acciaio  per  preferire   quello   del   legno   di   betulla.   Riabilitando   così   un   materiale   messo   un   po’   in   crisi  dall’acciaio,   egli   compie   decisive   esperienze   grazie   alla   collaborazione   con   la   fabbrcica   di   Otto  Khoronen.  

Aalto  fonda  la  ditta  Artek  per  la  produzione  e  distribuzione  dei  suoi  arredi,  usciti  oramai  dalla  fase  prettamente   sperimentale.   Generalmente   si   usa   classificare   la   produzione   di   Aalto   secondo   tre  periodi   fondamentali   ruotanti   rispettivamente   intorno   al   1929,   1947   e   al   1954.   Tali   epoche  corrispondono   a   tre   differenti   tipi   di   piegatura   a   L   o   a   “ginocchio”   a   Y   o   “binata”   a   X   o   a  “ventaglio”.   Il   sistema   a   “ginocchio”   garantiva,   dunque   la   lavorazione   più   semplice   da   esso  derivarono  gli  altri  e  a  esso  furono  improntati  tutti  i  modelli  d’arredo  progettati  fino  al  1939.    

Aalto   sosteneva   che   il   legno   è   il   più   antico  materiale   da   costruzione   utilizzato   dall’uomo   e   una  struttura  di   legno  nella  quale   il   legno  perde   il   suo  carattere  è   inaccettabile.  Tali  parole  rischiano  oggi   di   rendere   inattuale   tutta   la   ricerca   di   Aalto,   dal   momento   che   la   difesa   della   natura   è  diventato   uno   degli   obiettivi   prioritari   dei   nostri   tempi.   A   tal   proposito   va   anche   ricordato   che  malgrado   le   sue   preferenze   per   la   naturalità   del   legno,   Aalto   non   esitava   a   sottoporlo   ancora  fresco  ad  una  seria  di  trattamenti  chimici  per  ottimizzarne  la  resistenza.    

I   designer   scandinavi   nell’eleggere   la   natura   a   referente   delle   proprie   forme   espressive,   si   sono  spinti  ben  aldilà  degli  artisti  del  Art  Noveau.  I  vasi  Savoy  disegnati  da  Aalto  e  da  Aino  Marsio  nel  1936  sembrano   riflettere   i  profili  e   i   colori  dei   laghi  e  delle   foreste   finlandesi,  non  a  caso   infatti  “Finlandia”  è  il  nome  scelto  tra  Timo  Sarpaneva  per  una  seria  di  oggetti  che  grazie  ad  una  tecnica  

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assolutamente  innovativa  rendono  la  superfice  del  vetro  del  tutto  simile  ad  un  blocco  di  ghiaccio.  Il   paese   delle   lunghe   notti   ha   saputo   far   tesoro   tanto   della   luce   naturale   quanto   di   quella  artificiale.   Nel   1926   il   designer   danese   Poul   Henningsen   diede   avvio   ad   una   linea   di   lampade  anticonvenzionale,  pensata  per  esaltare  e  sfruttare  al  massimo  la  fonte  luminosa.  Le  lampade  PH  di  Henningsen  economiche,  scientificamente  ineccepibili  e  soprattutto  belle  ancora  oggi  prodotte  ben  presto  invasero  tutta  l’Europa.  

Il  design  Scandinavo,  grazie  alla  sua  capacità  di  attraversare  tempi  senza  risultare  ne  datato  ne  alla  moda,   conquistò   rapidamente   l’Europa  ma   fu   ancor   più   apprezzato   negli  USA.  Dopo   il   successo  delle  due  esposizione  internazionale  nel  1954  la  mostra  Design  in  Scandinavia  percorse  per  3  anni  tutto  il  Nord  America,  a  riprova  del  favore  incontrato  dal  Danish  Modern  e  Swedish  Modern.  Nel  1960  le  sedie    di  Wegner  furono  persino  scelte  per  arredare  lo  studio  televisivo  della  CBS.  

Il   successo   del   design   Scandinavo   durò   almeno   fino   alla   fine   degli   anni   ’60   e   non   mancò   di  influenzare   le   forme   di     Eames   ed   Eero   Saarinen,   i   due   più   importanti   designer   americani.  L’impostazione   democratica   della   società   Scandinava,   facendo   convergere,   l’attenzione   su   beni  primari,   come   la   casa   e   i   suoi   arredi,   facilitò   un   design   a   basso   costo   e   dai   buoni   standard  qualitativi.  Ciò  spiega  oggi  un  fenomeno  come  IKEA  l’ultimo  erede  dello  stile  svedese.  

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IL  DESIGN  MADE  IN  USA  

1940.  Una  svolta  nel  furniture  design  

Il  concorso  “Organic  Design  in  Home  Furnishing”  è  un  evento  giustamente  ricordato  come  segno  di  svolta  nel  design  statunitense,  fu  bandito  nel  1940  dal  Dipartimento  di  Industria  Design  del  Moma,  la   giuria   includeva   nomi   dello   spessore   di   Alvar   Aalto,  Marcel   Breur   e   Frank   Parrish.   I   vincitori  furono  Charles  Eames  ed  Eero  Saarinen  per   i  progetti  di  ben  due  categorie:  sedute,  e  mobili  per  ambienti   di   soggiorno.   Il   modello   più   famoso   è   la   poltrona   di   conversazione,   la   sua   sagoma  avvolgente   fonde   in   un'unica   scocca   la   seduta,   i   braccioli   e   lo   schienale,   fatto   in   modo   da  funzionare  anche  come  poggiatesta.  La  novità  sostanziale  consiste  nella  ricerca  di  un  prodotto  dal  costo  di  fabbricazione  assai  contenuto  e  quindi  dal  basso  prezzo  di  vendita.  

Molti   dei   maestri   del   Bauhaus   si   erano   trasferiti   negli   USA   a   seguito   dell’avvento   del   regime  hitleriano,   tra   questi   il   viennese   Frederik   Kiesler,   egli   si   cimenta   in   più   di   un   ambito   creativo  (scenografia,   scultura,  pittura)  e  affida   la   sua   testimonianza  progettuale  agli   spazi  plasticamente  modellati   della   Endless   House   (Casa   Infinita).   A   sua   volta   Richard   Neutra   emigra   negli   USA   nel  1923,  il  suo  merito  è  quello  di  aver  saputo  unire  i  principi  architettonici  con  le  caratteristiche  della  tradizione  americana,  infatti  ben  presto  assieme  al  connazionale  Rudolf  Michael  Schindler,  diventa  uno  dei  principali  esponenti  della  cosiddetta  scuola  californiana,  tendenza  grazie  alla  quale  le  sue  ville  raggiungono  in  sintesi,  fra  artificio  e  natura.  

Infine   il   caso   di   Eliel   Sarinen  merita   un   discorso   a   parte,   fondatore   del   romanticismo   nazionale  finlandese,  nel  1922  vince   il   secondo  premio  del  concorso  per   il  progetto  della  sede  del  Chicago  Tribune.  Il  successo  ottenuto  in  quest’occasione  lo  spinse  a  trasferirsi  negli  USA,  qui  egli  crea  case,  laboratori,  scuole  e  studi  in  cui  artisti  e  artigiani  possono  esprimere  la  loro  creatività  nello  spirito  dell’   Arts   e   Crafts   inglesi   e   della  Wiener  Werkestatte   viennese.   In   questo   istituto   si   formerà   la  generazione  di  designer  attiva  nel  secondo  dopoguerra,  tra  cui  Eero  Saarinen  e  Charles  Eames.  Nel  1932   fu  organizzata   l’   International     Exhibition  of  Modern  Architecture,   dedicata   all’architettura  europea  ed  americana  del  decennio  1922-­‐32,  questa  manifestazione  avrebbe  prolungato  l’eco  del  suo  successo  grazie  al   libro  “The   International  Style”:   l’aggettivo   International  derivava  dal   titolo  del  primo  libro  del  Bauhaus  pubblicato  da  Gropius,  mentre  il  termine  Style  era  invece  il  contributo  con   il   quale   gli   autori   intendevano   dimostrare   come   la   produzione   architettonica   dell’ultimo  decennio   avesse   ormai   raggiunto   lo   status   di   tendenza   riconosciuta,   così   come   il   gotico,   il  rinascimento,  il  barocco  ed  ecc.  

Allora   fra   gli   architetti   più   importanti   dell’International   Style   ricordiamo     Le   Corbusier,   Pier  Jeannerette  e  Mies  Van  de  Rohe.  Dal  novero  degli  architetti  più  rappresentativi  dell’Internationa  Style  erano  stati  esclusi  quelli  della  prima  generazione  (Loos  Hoofmann,  Bahrensm,  Van  de  Velde,  Perret),   l’esclusione   più   clamorosa   riguardava   Wright   scartato   con   la   motivazione   che   fin   da  quanto   era   un   discepolo   di   Sullivan   era   ed   è   rimasto   un   individualista,   egli   invece   di   sviluppare  qualcuna  delle  maniere  da   lui   stesse  avviato,   ha   sempre   ricominciato  da   capo   con  un  materiale  nuovo  o  con  un  diverso  problema.  Nel  suo  rifiuto  di  vincolarsi  di  stile  ben  definito,  egli  ha  creato  un   illusione   di   infiniti   possibili   stili.   Eppure   proprio   l’individualismo   di  Wright   è   l’elemento   che  

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caratterizza  la  sua  produzione,  ciò  che  infatti  colpisce,  fra  i  primi  e  gli  ultimi  interni  di  Wright  è  la  difficoltà   di   distinguere   il   mondo   degli   arredi   da   quelli   degli   involucri   murari.   Si   può   dire   che   i  mobili  di  Wright  denunciano  il   loro  essere  progettate  solo  per   le  case  di  Wright,  anzi  ciascuna  di  essi  mostra  di  essere  stato  progettato  per  quella  casa  in  particolare.  In  tale  visione  l’idea  di  design  e   di   arredamento   del   maestro   americano   si   rivelato   certamente   estranea   ai   requisiti  dell’internazionalismo,  inteso  come  estetica  egualitaria  e  ideologica  da  estendere  alle  masse.  

L’organicismo  proponendosi  come  una  sorta  di  reazione  allo  styling  della  frase  precedente  fu  uno  dei   tempi  portanti  del  design  americano  degli  anni   ’40  e   ’50.  Per  organico,   la  cultura  americana,  intendeva  quel  principio  di  una  sana  democrazia  professato  da  Sullivan,  Wright  e  da  scrittori  come  Emerson.  Un  design  può  essere  definito  organico  se  vi  è  in  esso  una  armonica  organizzazione  delle  parti  nel  tutto  secondo  la  struttura,  il  materiale  e  l’uso.  In  ambito  critico,  il  concetto  di  organicità  ha  orbitato  intorno  a  due  parametri:  formale  e  ideologico  esistenziale,  entrambi  in  opposizione  al  razionale.   Il   concetto  di   organicità   ha   finito  quindi   per   essere   il  modello   in   grado  di   fornire  una  chiave  interpretativa  per  una  fenomenologia  il  più  delle  volte  senza  confini  ben  definiti,  e  che  ciò  sia  vero  lo  testimonia  proprio  la   linea  International  Style  degli  arredi  di  Eames  e  Saarinen.  Infatti  dopo   l’esordio   al  Moma,   in   cui   riuscirono   a   fondere   l’organicità   di   Aalto   con   il   razionalismo   di  Breuer,   sia   Saarinen   che   Eames   proseguono   con   la   ricerca     negli   elementi   dei   mobili,   ma  interpretandola   secondo   il   proprio   pensiero.   La   linea   concava  di   Eames   sfrutta   lo   sviluppo  della  tecnologia  dei  materiali  plastici  che  rendono  possibile  la  creazione  di  poltrone  e  sedie  dalla  tipica  forma   a   conchiglia.   Tuttavia   egli   non   trascura   neanche   l’utilizzo   del   compensato   curvato   per  realizzare  altri  arredi,  fra  cui  Dining  Chair  e  l’ancora  più  famosa  Upholstered  Lounge  Chair  in  legno  di   rosa   laminato.   Infine   nel   caso   della   celebre   Wire   Mesh   Chair   tutta   in   metallo,   interverrà   il  disegno  dell’imbottitura  a  introdurre  una  nota  di  discontinuità,  inoltre  mentre  gli  sbalzi  in  tubolare  d’acciaio   tendevano   a   dare   l’impressione   che   le   sedie   razionaliste   levitassero   nell’ambiente,   il  sistema  strutturale  dei  mobili  di  Eames  funziona,  invece  da  soldo  ancoraggio  visivo  al  pavimento.  

Saarinen   fu   invece   l’inventore  della   celebre   tipologia   di   arredi   ad  una   sola   gamba.   Sulla   base  di  idee  e  schizzi  risalenti  agli  anni  ’50  egli  realizzo  nel  1957  la  serie  Tulipano  in  cui,  sedie,  poltrone  e  tavoli,  poggiavano  su  pavimento  grazie  ad  un  sostegno  svasato.   Lo  scopo  di  Saarinen  consisteva  nel  recuperare  la  continuità  delle  parti  del  singolo  arredo  e  l’equilibrio  dell’intero  ambiente  dove  i  sobri   elementi   dall’unico   appoggio   avrebbero   sgombrato   lo   spazio   dalla   chiassosa   folla   delle  gambe  dei  tavoli  e  delle  sedie.  

Il  Furniture  Design  in  ragione  di  queste  componenti  culturali  e  dell’assetto  produttivo  statunitense  conquistò  un  nuovo  status.   I  mobili  di  Gropius,  Breuer  e  Mies  Van  de  Rohe  verranno  si  prodotti  negli   USA   ma   con   un   cambiamento   di   destinatario.   Non   saranno   più   i   quartieri   operai   ne  l’accogliente  casa  scandinava  a  ospitare   il   tubolare  metallico  e   il   legno  curvato,  ora  sono   le  case  degli  intellettuali  e  gli  uffici  dei  grandi  manager  ad  accoglierli  insieme  ai  nuovi  arredi  progettati  dai  designer  americani.  Una  volta  elaborata  dalla  fantasia  e  dalla  matita  dei  designer  statunitensi,   la  linea  europea  si  sarebbe  trasformata  nel  Furniture  Design,  lussuoso  e  costoso  negli  anni  ’60.  

Tra  le  industrie  che  seguirono  questa  linea  rivestivano  un  ruolo  speciale  la  Knoll  International  e  la  Herman  Miller  Furniture  Company.  La  prima  nacque  con  la  dimensione  di  un  modesto  laboratorio  

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avviato  nel  1928  dal  tedesco  Hans  Knoll,  successivamente  nel  1951  nascerà  la  Knoll  International,  l’azienda  produrrà  mobili  di  Eero  Saarinen  e  di  Henry  Bertoia  senza  trascurare  quelli  di  Mies  Van  de  Rohe  e  Marcel  Breuer.  La  Herman  Miller  era  stata  fondata  nel  1905  e  si  era  specializzata  nella  produzione  degli  arredi  in  stile  ma  ben  presto  grazie  al  contributo  del  designer  Gilbert  Rodhe  prese  a   puntare   su   prodotti   di   alto   livello   destinati   agli   uffici,   ma   sarà   George   Nelson   il   personaggio  destinato  a  imprimere  una  svolta  decisiva  alla  produzione  della  Herman  Miller.  Grazie  al  Gran  Prix  de   Rome   vinto   nel   1932   egli   divenne   designer-­‐director   della   Herman   Miller.   Egli   ritenne  definitivamente  superata  la  lavorazione  semiartigianale  di  arredi  in  legno  dell’azienda  su  una  linea  progettuale   orientata   al   successo   commerciale,   una   linea   volta   ad   esaltare   la   responsabilità   del  designer  come  avveniva  negli  USA  fin  dagli  anni  ’30.  

Riprendendo  il  discorso  dei  mobili  di  Eames,  egli  durante  il  conflitto  bellico  aveva  acquistato  una  notevole   esperienza   nella   lavorazione   del   legno   compensato,   in   particolare   egli   accolse  suggerimenti   da   tecniche  messe   a   punto   dall’azienda   automobilistica   Chrysler,   grazie   alla   quale  sperimentò   speciale   sistemi   di   incollaggio   a   impulsi   elettronici,   e   servendosi   di   dischetti   di  neoprene  per  conferire  elasticità  ai  componenti  delle  sedie  in  legno.  Presto  furono  messe  appunto  altre  materie  plastiche:  l’americano  John  W.  Hayt  nel  1869  inventò  la  celluloide  mentre  nel  1909  il  chimico   belga     Leo   Hendrik   Backeland   arrivò   all’invenzione   della   materia   plastica   interamente  sintetica   che   venne  battezzata  bachelite.   Con   l’avanzare  degli   studi   dalla   fine  degli   anni   ’20   alla  metà  degli   anni   ’40   la   ricerca   sui  materiali   plastici   progredì   rapidamente:   il   neoprene   sostituì   la  gomma  naturale,  poi  vennero  il  plexiglass,  il  nylon,  il  polistirolo  ed  ecc.,  tutti  materiali  destinati  a  trovare  ampie  applicazioni  nell’architettura  e  nell’arredamento.  

Negli  anni  ’50  il  materiale  venne  invaso  dalla  plastica,  non  tardò  quindi  ad  entrare  nelle  case,  sia  sotto  forma  di  oggetti  sia  di  arredi.  Tuttavia  essa  suscitò  anche  violente  antipatie,  tanto  che  Roland  Barthes   la  definì  un  materiale  sgraziato,  un   ibrido   fra   la  gomma  e   il  metallo.  Eppure  basterebbe  considerare  gli  arredi  di  Eames  e  Saarinen  per  concludere  che  la  plastica  era  invece  un  materiale  pari  al   legno  e  al  marmo.  Si  era  inoltre  rivelata  come  materiale  più  idoneo  a  una  lavorazione  del  tutto  industrializzata.  Oltre  ad  entrare  nei  living  di  lusso  sotto  forma  di  tavoli,  divani  e  poltrone,  la  plastica   invase   anche   la   cucina,   il   regno   delle   casalinghe   americane,   attratte   dal   miraggio   del  consumismo   e   del   progresso   del   comfort.   Questo   materiale   allegro   e   colorato   si   armonizzava  benissimo  con   i  nuovi  elettrodomestici  dell’industria  americana,   in  particolare,  a  metà  degli  anni  ’50  la  Whirpool  e  la  General  Motors  lanciarono  la  Miracle  Kitchen  e  la  Kitchen  of  Tomorrow.    

L’antagonismo  rispetto  ai  materiali  naturali  era  stato  fin  dall’inizio  il  vero  problema  della  plastica,  ma   l’esposizione   Plastic   as   Plastic   tenutasi   nel   1968   mise   finalmente   in   risalto   la   conquistata  autonomia   di   questo   materiale   liberato   dalla   schiavitù   imitativa.   Appariva   ormai   chiaro   che   la  plastica   poteva   funzionare   come   incentivo   per   indurre   le   aziende   a   convertire   i   propri   impianti  adeguandoli   ad   una   produzione   industriale.   In   seguito   nonostante   le   periodiche   crisi   dovute   ai  rincari  del  petrolio,  la  plastica  non  ha  conosciuto  tramonto,  tanto  è  vero  che  in  anni  recenti  sono  stati  proprio  i  materiali  plastici  ad  attirare  la  maggior  attenzione  di  progettisti  e  industrie.  Quindi  concludendo  a  50  anni  di  distanza  si  può  dire  che  le  critiche  di  Roland  Barthes  nei  confronti  della  plastica  appaiono  dunque  ribaltate.  

 

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L’ITALIAN  STYLE  

1946-­‐1980  Il  recupero  del  tempo  perduto  

Nel  1946  la  Rima  (Riunione  italiana  per   le  mostre  di  arredamento)  celebra   l’apertura  del  palazzo  delle  triennali  con  il  tema  dell’alloggio  popolare,  nel  1947  riprendono  anche  le  manifestazione  di  quest’ultima   la   cui   VIII   edizione   celebra   il   valori   dell’arredo   popolare   e   dell’industrializzazione  edilizia.  Tuttavia  questi  valori  devono  scontrarsi  con  la  cultura  borghese  e  tradizionalista  la  quale  rifiuta  di  accettare  forme  avvertite  come  estranee  e   imposte  dall’alto.  Questa  tensione  ideologia  tuttavia  sarà  presto  destinata  a  smorzarsi  nel  1948.    

In  Italia  a  partire  dal  secondo  dopoguerra  si  è  avuta  infatti  una  intensa  accelerazione  produttiva  e  uno   dei   primi   settori   ad   essere   interessato   è   stato   quello   dei   trasporti.   Tra   le   tante   novità  importate   dagli   USA   all’indomani   della   liberazione,   vi   fu   un   nuovo   tipo   di   veicolo:   lo   scooter.  L’esperienza  accumulata  dalla  Piaggio  nel  settore  aereonautico  fu  sfruttato  da  Corradino  d’Ascanio  per  creare  la  Vespa  un  veicolo  riconoscibile  per  la  sagoma  da  insetto  risolta  in  curve  riconducibile  allo   styling   americano,  mentre   la   produzione  di   tubi   in  metallo   della   Innocenti   suggerì   a   Cesare  Pallavicino  e  a  Pierluigi  Torre  la  linea  della  Lambretta,  una  moto  in  cui  prevaleva  l’idea  strutturale  dello   scheletro   portante,   formato   da   un   grosso   tubo   curvato.   La   Vespa   e   la   Lambretta   per   la  particolarità   di   promuovere   una   posizione   di   guida   prossima   alla   seduta   si   rivelavano   assai   più  comode  della  motocicletta  adattandosi  sia  alla  conduzione  maschile  e  sia  quella  femminile.  Dalle  2500  unità  prodotte  dalla  Pioggia  e  dalla  Innocenti  nel  1946  in    meno    in  un  decennio  si  arrivò  alla  quota  di  centinaia  di  migliaia  di  esemplari.  In  definitiva  nel  settore  dei  veicoli  si  trattò  un  successo  paragonabile  forse  solo  a  quella  della  Ford  T.  

Il  piano  Marshall  aveva  consentito  la  ricostruzione  e  il  rinnovamento  di  molte  industrie  italiane  tra  cui   la   FIAT.   Nel   1955   al   salone   di   Ginevra   fu   quindi   presentata   la   600   diretta   erede   della  piccolissima   500   Topolino   a   due   posti.   Progettata   dall’ingegnere   Dante   Giacosa   la   600   fu  pubblicizzata  come  la  prima  utilitaria  italiana  a  4  posti  e  rimase  in  produzione  fino  al  1970.  Ma  la  più   famosa   resta   la   sempre   la  nuova  500  progettata  dallo   stesso  Giacosa,   rimasta  praticamente  insuperata  fu  lanciata  nel  1957  e  resistette  sul  mercato  fino  al  1975.  Per  l’armoniosa  sagoma,  per  le   notevoli   doti   di   prestazione   e   la   buona   abitabilità   la   500     riuscì   a   rendere   la   vita   difficile   alla  Isetta  la  piccola  utilitaria  prodotta  dalla  Iso  di  Bresso  nel  1953.  

Dal  punto  di  vista  progettuale  la  grande  industria  italiana  non  faceva  troppe  distinzioni  tra  il  design  e   l’ingegnerizzazione   del   prodotto,   specialmente   nel   settore   ferroviario   si   era   rivelata  determinante   la   cooperazione   fra   lo   staff   tecnico   e   il   designer.   Nel   1947   la   Breda,   molto  danneggiata   dalla   guerra,   lancia   l’elettrotreno   ETR300,   meglio   conosciuto   con   il   nome   di  Settebello.   Il   Settebello   sfrecciò   per   la   prima   volta   sulla   linea   Roma-­‐Milano   in   occasione  dell’inaugurazione  dell’anno  santo  del  1950.  

Gli   anni   ’50-­‐60   vengono   ricordati   come  quelli   del  miracolo   economico.   I   risultati   erano   evidenti  nell’incremento   del   volume   dell’esportazioni   e   in   quello   della   produzione   industriale   che   tra   il  1958   e   il   1963   risultò   più   che   raddoppiata:   i   settori   degli   elettrodomestici   riuscì   addirittura   a  

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detronizzare  gli  USA.  La  macchina  per  cucire  BBU  della  Necchi  comparsa  agli  esordi  degli  anni  ’50  offrì  alle  casalinghe  alcune  prestazioni  tipiche  dei  macchinari  di  uso  industriale,  un  intera  epoca  fu  contrassegnata  poi  dall’apparecchio  radio  a  doppia  valva  TS502  e  dai  televisori  ALGOL  11  disegnati  da  Marzo  Zanuso.  Intanto  nel  mondo  del  lavoro,  facevano  il  loro  ingresso,  macchine  per  scrivere  e  calcolatrici   di   nuova   linea.   La   calcolatrice   NC4S,   disegnata   da   Nizzoli   può   essere   considerata   la  capostipite  di  una  seria  di  fortunati  modelli  (Elettrosumma  14,  Divisumma  14  e  Summa  15)  sfociati  nella  famosa  Divisumma  24.  

L’Italian  Style  deve  la  sua  fama  soprattutto  a  quella  forza  collettiva  a  metà  strada  fra  artigianato  e  industria   che   ha   trovato   il   suo   campo   di   applicazione   specialmente   nel   settore   dell’arredo,   tale  modalità  di  produzione  pure  essendo  animata  da  un  orientamento  verso  la  serialità  ne  ha  tuttavia  trasformato   il   concetto   grazie   ai   mezzi   di   lavorazione   di   cui   si   serve,   le   prestazione   di   tali  macchinari  infatti  consentono  di  programmare  serie  di  prodotti  anche  molti  differenziati  tra  loro.  Le   condizioni   favorevoli   al   suo   sviluppo   di   delinearono   nel   secondo   dopoguerra   quando   per   la  maggior   parte   delle   aziende   il   passaggio   da   un   sistema   artigianale   ad   uno   industrializzato   fu  favorito   dall’incontro   di   un   produttore   con   un   designer   oppure   dall’intraprendenza   di   un  produttore-­‐designer  postosi  a  capo  di  un  equipe  specializzata.  

In   quest’ultimo   raggruppamento   troviamo   la   Tecno,   fondata   nel   1952  da  Osvaldo  Borsali,   l’Arte  Luce  di  Gino  Sarfatti,   L’Azucena   riconoscibile  per   la  produzione  di  arredi  di  alta  qualità  e  di  alto  costo.   Invece  per  quanto  riguarda  l’incontro  di  un  produttore  con  un  designer  solo  per  ricordare  qualche  nome  possiamo  certamente  includere  la  Cassina  il  cui  incontro  con  Poggi  è  stato  il  primo  di  una  seria  di  fortunati  appuntamenti  con  i  nomi  dei  più  prestigiosi  del  design   italiano  e   l’Arflex    che  insieme  con  Zanuso  ha  sperimentato  nuovi  materiali  quali  la  gomma  piuma.  La  poltrona  Lady  e  la   poltrona   Martingala,   arredi   disegnati   da   Zanuso   e   prodotti   dall’Arflex   segnano   non   solo   un  importante  passaggio  nell’evoluzione  produttiva  del  mobile  artigianale  a  quello  di  serie,  ma  con  la  loro  sagoma  mobile  e  avvolgente  configurano  anche  un  immagine  inconfondibile  del  gusto  italiano  di   quegli   anni.   Queste   collaborazione   artistiche   industriali   diedero   vita   fin   agli   anni   ’50   a  interessanti   soluzioni   progettuali,   il   design   divenne   in   poco   tempo   una   realtà   emergente  soprattutto   a   Milano   dove   i   giovani   designer   trovarono   il   modo   per   farsi   conoscere   negli  appuntamenti   espositivi   della   Triennale.   Inoltre   come   riconoscimento  di   lunghi   sforzi   del   design  italiano   nella   ricerca   della   qualità   fu   celebrato   con   l’istituzione   nel   1954   del   premio   Compasso  d’Oro.  

Il   Good   Design   Italiano   includeva   nella   continuità   con   la   tradizione   l’uso   dei   materiali   naturali,  primo   fra   tutti   il   legno,   che   malgrado   la   concorrenza   dei   materiali   sintetici   non   aveva   mai  conosciuto   delle   vere   crisi.   In   tale   contesto   rimangono  memorabile   la   Superleggera   di   Ponti,   la  poltrona  Conca  progettata  da  Roberto  Mango,  il  tavolo  di  Alvini.  Tuttavia  dagli  inizi  degli  anni  ’60  fino  alla   crisi   energetica  del  1973   la  plastica   trionfò   in  modo  assoluto  nel  design   italiano,   tavoli,  librerie   componibili   e   televisori   recavano   tra   le  altre   le   firme  di  Mario  Bellini,   Ignazio  Gardella  e  Marco  Zanuso.    

All’apice   della   proprio   evoluzione   e   del   proprio   successo   il   Good   Design   Italiano   fu   costretto   a  scontrarsi   con   una   nuova   realtà   progettuale.   Le   prime   reazioni   si   fecero   sentire   attraverso   la  

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rivalutazione  della  storia  e  il  recupero  dell’ornamento.  Qualche  progettista  cominciò  allora  a  trarre  ispirazione   da   un   passato   più   o   meno   prossimo:   riferimenti   molto   discreti   che   nulla   o   quasi  avevano  a  che  fare  con  quanto  più  tardi  sarà  etichettato  con  il  nome  di  Postmoderno.  La  lampada  Taccia   rimandava   ad   un   decantato   gusto  Neoclassico  mentre   la   cosiddetta   tradizione   dell’uomo  appartenevano   la  poltrona  San  Luca  e   la  poltrona  Cavour.  La  vera  e  propria  crisi  si  sarebbe  però  verificata   alla   fine   degli   anni   ’60   quando   la   linea   del   design   italiano   tesa   ad   interpretare   la  continuità  con  il  moderno  dovette  subire  gli  attacchi  della  controparte.  Ambasz  mise  a  confronto  le  due  realtà  progettuali  operanti   in  quegli  anni  nel  nostro  paese:   il  design  della  generazione  dei  maestri   è   quella   della   generazione   emergente.   Inoltre   distinse   tre   atteggiamenti   di   fondo   nel  design  italiano:  quello  conformista,  quello  riformista  e  quello  di  contestazione.  

Quest’ultimo  era  nato  qualche  anno  primo  a  opera  di  giovani  architetti,  battezzato  contro  design  o  radical  design,   si  presentava  con  una  articolata  varietà  di  atteggiamenti  provocatori,   riassumibili  nella  rivendicazione  di  un  aerea  di  esercizio  della  libera  creatività.  Il  mondo  apparve  sotto  una  luce  diversa:   le   certezze   del   razionalismo   si   dimostrarono   troppo   limitative   rispetto   all’emozioni   e  all’irrazionalità   che   costituivano   parte   integrante   della   realtà.   All’inizio   si   cominciò   con  atteggiamenti   eversivi:   si   progettavano   mobili   dall’uso   impossibile   e   dalla   chiara   discendenza  dadaista   (sedie   zoppe,   tavoli   inginocchiati,   letti   chiodati)   divulgati   specialmente   dalla   rivista  Casabella.   Verso   la   metà   degli   anni   ’70   però,   i   radical   designer,   avrebbero   abbandonato  l’atteggiamento   gratuito   dell’avanguardia   per   imboccare   la   strada   di   una   collaborazione   con   il  mondo   produttivo.   Così   con   qualche   compromesso   in   più   il   design   da   radicale   diventa  commerciale,  dando  vita  al  cosiddetto  Neo-­‐modernismo  degli  anni  ’80.  

Il   Neo-­‐modernismo   riempì   le   pagine   patinate   delle   riviste,   le   mostre   di   settore   e   i   negozi   di  arredamento   con   tavoli   dai   piani   sorretti   da   gambe   contorte,   con   centrotavola   in   celluloide   dai  colori  sfacciati,  con  letti  a  forma  di  ring  ed  ecc.  Le  proposte  del  Neo-­‐modernismo  hanno  trovato  la  loro   giustificazione   nella   aver   smosso   le   acque   troppo   tranquille   del   Good   Design,   nell’aver  generato   uno   svecchiamento   di   quest’ultimo   e   infine   nell’essere   state   capaci   di   venire   incontro  all’esigenze  del  decorativo.  

 

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IL  CASO  DEL  GIAPPONE

Dal  1854  a  oggi:  un  postmoderno  dal  cuore  antico    

Come   spesso   accade,   le   idee   più   fortunate   nascono   per   caso.   Si   dice   infatti   che   nel   1979   un  giovane   tecnico   della   Sony,   per   riuscire   ad   ascoltare   la   musica   durante   l'ora   di   pausa,   abbia  costruito   un   piccolo   apparecchio   per   uso   personale   modificando   un   precedente   modello   di  registratore.   Nasceva   così   il   walkman,   un   oggetto   destinato   a   incontrare   un   successo   davvero  clamoroso   se   si   pensa   che   dopo   soli   quattro   anni   ne   erano   già   stati   venduti   quattro  milioni   di  esemplari;  ma   anche   un   oggetto   in   grado   di   cambiare  molte   nostre   abitudini   consentendoci   un  piacevole  e   temporaneo   isolamento  dal  mondo  grazie  a  un  ascolto   individuale  e  "tascabile".  Nel  1957   la   stessa   casa   aveva   lanciato   la   prima   radiolina   portatile   a   transistor   facendo   seguito   alla  produzione  di  apparecchi  televisivi  e  anticipando  quella  di  stereo,  videogiochi  e  videoregistratori.  È  innegabile,   quindi,   che   se   oggi   riusciamo   ad   ascoltare  musica   ad   alta   fedeltà   con   la   stessa   resa  acustica  dei  migliori   teatri   del  mondo,   se   ci   è  permesso  di   assistere  a   spettacoli   cinematografici  esclusivi   senza   spostarci  dalla  nostra  poltrona,   se   siamo   in  grado  di  viaggiare   su  auto  di  provata  sicurezza   e   di   prezzo   accessibile,   se   fotografiamo   rapidamente   con   gli   effetti   dei   grandi  professionisti   dell'obiettivo;   se   comunichiamo   con   il   telefono   cellulare   a   livelli   sempre   più  apprezzabili,  lo  dobbiamo  in  gran  parte  al  design  giapponese.    

Ma   se   l'indiscutibile   successo   di   quest'ultimo   è   sotto   gli   occhi   di   tutti,   meno   evidente   appare  invece  la  natura  di  tale  successo,  tant'è  che  talvolta  gli  è  stato  mosso  il  rimprovero  di  essere  più  denso  di  problemi  che  di  soluzioni.  Tuttavia,  a  noi  sembra  che  quella  del  Sol  levante  si  collochi  tra  le   esperienze   di   design   più   interessanti   del   nostro   tempo,   in   quanto   il   Giappone   è   riuscito   a  sfruttare  positivamente  quella  che  Sartre  definiva  «l'unità  contraddittoria  delle  culture  di  origine  e  storia  diversa».    

Per   individuare   l'inizio   dell'occidentalizzazione   del   Giappone   (o   della   giapponesizzazione  dell'Occidente?)  non  bisogna  andare  troppo  indietro  nel  tempo:  basta  fermarsi  al  1854,  anno  dello  sbarco  del   commodoro  Matthew  Calbraith  Perry  nella  baia  di  Uraga.  Quest'azione  di   forza  degli  Stati  Uniti  nasceva  principalmente  dalla  necessità  di  ottenere  scali  di  rifornimento  a  metà  rotta  tra  la  California  e  la  Cina,  apertasi  alle  relazioni  con  l'estero  dopo  la  "guerra  dell'oppio"  (1840-­‐42).  Ma  anche  al  Giappone  conveniva  avviare   rapporti   commerciali   con  gli   Stati  Uniti,   visto   che   secoli   di  ostinato   isolamento   avevano   condannato   il   paese   all'arretratezza   materiale   e   al   pericolo   della  perdita  di   indipendenza.  Cause  così  determinanti  spinsero   il  principe  Mutsuhito  a   intraprendere,  nel   1868,   un'opera   di   modernizzazione   a   tutto   campo   ponendo   termine,   in   primo   luogo,   al  dominio  dei  capi  militari  locali  (shogun).  Nell'epoca  definita  Meiji  (illuminata)  e  durata  fino  al  1912,  la   capitale   viene   spostata   da   Kyoto   all'antichissima   città   di   Yedo   ribattezzata,   per   l'occasione,  Tokyo.  E  mentre  il  rapido  sviluppo  demografico  e  industriale  spingeva  il  Giappone  ad  accarezzare  mire   espansionistiche   nei   confronti   del   resto   dell'Asia,   il   processo   di   mimetizzazione   con  l'Occidente  diventava  l'obiettivo  principale  di  tutto  un  popolo.  Nel  settore  economico  si  adottava  il  sistema   capitalistico,   in   quello   politico   venivano   promulgate   costituzioni   sui   modelli   di   quella  francese   prima   (1869),   e   di   quella   prussiana   poi   (1889);   in   politica   estera   si   perseguiva   una  

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penetrazione  politica  e  commerciale  nel  continente.  Ben  presto  fu  inevitabile  che  anche  la  cultura  seguisse   lo   stesso   indirizzo,  anzi,   in  questo  campo,   fra  Oriente  e  Occidente  si  avviò  un  singolare  processo  di  osmosi.    

A  partire  dall'apertura  delle  frontiere  nipponiche,  in  Europa  il  japanisme  soppianta  nel  gusto  degli  europei   la  predilezione  per   le   chinoiseries  di  moda   fin  dal   Seicento.   Lanterne  di   carta,  mobiletti  bassi,  paraventi  laccati,  stuoie  e  ventagli  affollano  le  dimore  più  alla  moda  mentre  il  culto  del  Sol  levante  è  alimentato  da  libri  sull'arte  nipponica  quali  Utamaro  (1891)  e  Hokusai  (1896),  di  Edmond  de  Goncourt,  o  da  romanzi  come  Madame  Chrysanthème  (1887)  di  Pierre  Loti.    

Con  più  probabilità,   invece,  quello  giapponese  è  stato  un  Good  design  ante   litteram,  e  per  varie  ragioni:   il   legame   con   la   tradizione   non   è  mai   degenerato   in   forme   dialettali,   come   dimostra   il  celebre   sgabello   Butterfly   di   Sori   Yanagi   (1915),   premiato   alla   Triennale   di   Milano   del   1957;   il  rapporto   con   la   storia   non   è  mai   scaduto   in   soggezione   verso   la   cultura   alta   e,   quindi,   è   stato  vissuto  con  serenità  e  distacco  –  si  pensi  che  il  disegno  delle  imposte  in  legno  e  quello  dei  pannelli  scorrevoli  della  villa  imperiale  Katsura  hanno  ispirato  il  fronte  della  radio  da  tavolo  National  (1953)  di  Zenichi  Mano;   il   rispetto  per   il   lavoro  artigianale  ha  consentito  di  apprezzare  come  altrettanti  pregi   l'imperfezione,   l'irregolarità   e   l'asimmetria   e,   d'altra   parte,   ha   evitato   il   complesso  d'inferiorità   nei   confronti   della   lavorazione   meccanica,   come   dimostra   il   fiorente   settore   del  migliore   japanisme   attuale.   Infine,   una   naturale   predisposizione   alla   decorazione   e   all'uso   del  colore,  assieme  all'utilizzo  della  citazione,  si  è  rivelata  valida  nella  manipolazione  di  forme  di  varia  estrazione,   tant'è   che   negli   anni   ottanta,   i   designer   giapponesi   poterono   conquistare   la  Milano  capitale   del   Neomodern   interpretando   tale   tendenza  meglio   dei   designer   italiani   che   l'avevano  inventata.  Lo  conferma  la  poltrona  Wink  (1980)  progettata  da  Toshiyuki  Kita,  con  una  seduta  bassa  per  ricordare  l'uso  giapponese  di  sedere  sul  pavimento  e  uno  schienale  all'occidentale,  per  di  più  rallegrato   da   orecchie   colorate   piegabili   in   varie   posizioni.   Per   queste   e   altre   ragioni   si   può  azzardare   che   il   design   giapponese,   in   fin   dei   conti,   abbia   dato   da   sempre   lezioni   di  modernità  all'Occidente,   motivo   per   cui,   a   differenza   di   quest'ultimo,   non   ha   neppure   avuto   il   bisogno   di  mettere   in  crisi   il  moderno:  a  ben  vedere,   infatti,  era  fin  troppo  chiaro  che  esso  conteneva   in  sé  anche  i  germi  di  quello  che  verrà  definito  postmoderno.    

Infine,  se  uno  dei  punti  di  forza  del  design  giapponese  è  stato  proprio  il  rapporto  con  la  tradizione,  c'è  da  chiedersi  se  e  come  sia  riuscito  a  utilizzarla  anche  per  oggetti  nati  dall'alta  tecnologia,  che  con   la   tradizione  non  avevano   invece  alcun   rapporto.  Come  è   stato   recentemente  osservato:   In  un'economia  interamente  proiettata  verso  l'esportazione,  e  per  contro  il  più  possibile  chiusa  alle  importazioni,   il   problema   della   forma   dei   prodotti   industriali   si   è   posto   come   individuazione   di  modelli   capaci   di   interpretare   un   generico   gusto   "moderno"   che   non   è   frutto   della   cultura  d'origine,  ma  solo  una  strategia  di  mercato.  La  forma  che  ne  è  derivata,  garantita  dall'azzeramento  delle  differenze,  è  stata  legittimata  unicamente  dalla  prepotente  identità  tecnica  degli  oggetti.  Si  potrebbe  addirittura  parlare  di  una  "forma  della  tecnica",  rimasta  però  espressione  della  struttura  economica  giapponese,  non  della  cultura  del  Giappone."    

Tale  giudizio  è   certamente   condivisibile,   anche   se   con  qualche   riserva.  Maneggiamo  di   continuo  calcolatrici,   cineprese,   computer,  macchine   fotografiche   su   cui   spiccano   i  marchi   Sharp,   Canon,  

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Nikon,  Olympus,  Sony.  Con  le  loro  forme  compatte,  pulite  ed  essenziali,  questi  oggetti  sono  entrati  a   far   parte   della   nostra   vita;   non   li   sentiamo   assolutamente   estranei:   anzi,   li   cerchiamo   come  presenze  amiche.  Forse  perché  –  come  asseriscono  i  componenti  del  gruppo  di  design  GK,  fondato  negli  anni  cinquanta  –,  per  i  giapponesi  immettere  il  "cuore"  e  lo  "spirito"  nei  dogu  (attrezzi)  non  è  che  la  creazione  di  una  relazione  intimamente  profonda  fra  l'uomo  e  gli  oggetti.    

Ma,   al   di   là  di   sensibilità   e   filosofie  orientali,   probabilmente   gli   oggetti   tecnologici   giapponesi   ci  piacciono  per  quel  carattere  di  minimalismo  che  pure  è  parte  integrante  della  tradizione  nipponica  e  che,  anche  in  campo  architettonico,  fornisce  prove  apprezzabili  come  la  più  recente  produzione  di   Tadao   Ando.   Grazie   a   questo   aspetto,   il   design   nipponico   non   solo   è   riuscito   a   conquistare  quell'"orgoglio   della   modestia"   tanto   caro   al   moderno   europeo,   ma   soprattutto   quella  "internazionalizzazione  del  gusto"  che  è  forse  il  risvolto  più  positivo  dell'odierna  globalizzazione.    

 

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EPILOGO    

Fine  1900-­‐inizio  2000:  cosa  è  cambiato?    

A   metà   degli   anni   ottanta,   anche   per   il   design   parve   essere   giunto   il   momento   di   mettere   in  discussione  alcune  delle  incrollabili  certezze  che  lo  avevano  guidato  per  gran  parte  del  secolo.  Una  delle   occasioni   di   verifica   fu   posta   dalla   mostra   tenuta   al   Centre   Pompidou   di   Parigi   nella  primavera  del  1985.  Il  materiale  espositivo  era  stato  scelto  da  Jean-­‐Frannois  Lyotard  che,  sotto  il  titolo  Les  Immateriaux,  aveva  raccolto  pitture  luminose,  audiovisivi,  ricerche  di  computer  graphics,  ologrammi  e  videogame,  ovvero  tutti  quei   fenomeni  di  smaterializzazione,  di  superficializzazione  dell'esperienza   e   di   trasformazione   del   rapporto   dei   soggetti   con   il   mondo   recentemente  trasformati  dalla   tecnoscienza   in   sofisticati   strumenti  di   comunicazione:   sarebbero   state  queste,  dunque,  le  nuove  entità  materiche  con  cui  la  postmodernità  avrebbe  dovuto  confrontarsi.    

Qualche   anno   prima,   lo   stesso   Lyotard   aveva   alimentato   il   dibattito   sulla   fine   della   modernità  distinguendo   la   sua  posizione  da  quella  del  pensatore   tedesco   Jurgen  Habermas:   infatti,  mentre  quest'ultimo   riteneva   che   il   progetto   moderno   nato   con   l'Illuminismo   avesse   ancora   qualche  possibilità   di   attuazione,   Lyotard,   per   converso,   giudicava   definitivamente   archiviata   la   pretesa  universalità   di   tale   progetto   e   dei   sistemi   filosofici   che   lo   avevano   sostenuto.   In   altri   termini,  stimava   tramontato   il   disegno   di   una   logica   lineare   e   globalizzante   che,   tendendo  all'emancipazione   dell'umanità,   contemplasse   lo   sviluppo   razionale   delle   scienze   e   delle   arti   in  equilibrio  con  i  fondamenti  della  morale,  del  diritto  e  della  cultura.  E  se,  in  campo  filosofico,  la  fine  delle   "grandi   narrazioni"   -­‐   non   a   caso   gli   anni   ottanta   avrebbero   assistito   al   crollo   dei   grandi  sistemi   ideologici  e  politici,  al  prevalere  dell'individualismo  sulla  collettività,  alla   frammentazione  del   reale   con   conseguente   moltiplicazione   dei   punti   di   vista   -­‐   veniva   sostituita   dal   "pensiero  debole",  dall'ermeneutica  e  dallo  sperimentalismo,   in  campo  artistico,  come  proponeva  Lyotard,  andava   esaltato   specialmente   il   ruolo   dirompente   di   quelle   avanguardie   decise   a   contrastare   il  sapere  ufficiale  della  società  dell'informatizzazione.  Come  scriveva  infatti  il  pensatore  francese:    Il  tema  della  postmodernità  era  strettamente  connesso  con  quello  della  condizione  postindustriale,  anche  se  la  prospettiva  di  un  ritorno  al  modello  agrario  tipico  delle  società  preindustriali  appariva,  ovviamente,   debole   e   anacronistica.   Più   convincente,   invece,   risultava   l'atteggiamento   che  identificava   questa   condizione   con   l'avanzare   spedito   delle   nuove   tecnologie   —   l'elettronica,  l'informatica  e  la  telematica  —  ormai  avviate  al  sorpasso  di  quelle  della  tradizione  meccanica.    

Sorretto   dal   grande   racconto   di   un'ideologia   etico-­‐estetica   e   dalla   fiducia   nel   progresso   della  meccanizzazione,  anche  il  design  moderno  aveva  coltivato  i  suoi  miti,  riassunti  in  quella  più  volte  ricordata   logica   lineare   che,   puntando   sulla   diffusione   dei   prodotti   alle  masse,   si   poneva   come  obiettivi  primari  la  qualificazione,  la  quantificazione,  il  basso  costo  di  produzione  e,  più  di  tutti,   il  basso  prezzo  di  vendita.    

Per   una   serie   di   cause,   tale   programma   è   rimasto   irrealizzato;   tuttavia,   sebbene   siano  mancate  linearità   e   compattezza   in   tutte   le   proposte   successive,   i   suoi   argomenti   vanno   ancora   tenuti  presenti  come  altrettanti  termini  di  paragone  rispetto  ai  quali  valutare  le  trasformazioni  (eventi  e  relative  conseguenze)  dell'attuale  design.    

Anche   le  brillanti   riflessioni   socio-­‐semiologiche  di  Barthes  e  di  Baudrillard  hanno  contribuito  alla  pars  destruens  della  critica  ai  consumi.  Nondimeno,  gli  stessi  critici  della  società  eterodiretta  non  mancavano  di  notare  come  la  forza  persuasiva  della  pubblicità,  in  definitiva,  fosse  meno  potente  

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di   quanto   si   pensasse,   come   le   varie   propagande   finissero   con   il   neutralizzarsi   reciprocamente,  come   il   comando   o   la   persuasione   provocassero   resistenze,   contro   motivazioni   e   reazioni   alla  ridondanza  dei  messaggi.  Sia  come  sia,  con  il  passare  degli  anni  la  critica  al  consumismo  è  passata  a  più  miti   consigli  acquistando   la  consapevolezza  che,  a  meno  di  non  aggravare   i  problemi  della  disoccupazione  che  affligge  gran  parte  del  globo,  i  consumi  non  possono  essere  ridotti,  ma  al  più  ricondotti  nell'alveo  del  sostenibile,  e  che  l'etero  direzione  va  piuttosto  incanalata  in  una  dialettica  criticamente   avvertita   fra   produttori   e   consumatori.   Da   più   parti,   infatti,   si   è   fatto   strada   il  convincimento  che   la  critica  al  mondo  delle  merci  è   tutto  sommato  un  discorso  da  ventre  sazio,  visto  che  il  vero  male  del  consumismo  sta  nel  fatto  che  solo  una  piccola  parte  del  mondo  ne  gode,  mentre  tutte  le  altre  ne  rimangono  escluse."    

La  quantificazione,   altro   caposaldo  del   design  moderno,   puntava   su  un  prodotto  dai   costi   tanto  equilibrati  da  renderne  accessibile  il  prezzo  senza  caduta  della  qualità.  Oltre  a  quelle  politiche  ed  economiche,   una   delle   principali   cause   per   cui   questo   programma   è   rimasto   irrealizzato   è  certamente   il   fatto   che   ormai   si   può   considerare   tramontata   l'idea   stessa   di  massa.   Con   buona  pace   dei   sociologi   della   scuola   di   Francoforte,   la   massa   non   è   più   l'oceano   uniforme   che   si  supponeva   bensì   un   variegato   arcipelago   battuto   da   disordinate   componenti   comportamentali.  Per   cui   oggi,   paradossalmente,   dobbiamo   fronteggiare   un  magma   di   prodotti   capricciosamente  diversificati   piuttosto   che   fruire   di   quelli   attentamente   studiati   per   la   "massa"   tradizionalmente  intesa.   Tuttavia,   anche   se   grazie   alle   nuove   tecniche   ciascuno   può   giovarsi   di   varietà   mai  conosciute  prima,  è  pur  vero  che  bisogna  scontrarsi  con  livelli  di  uniformità  mai  raggiunti  prima.  Il  mondo   delle   automobili   ci   offre   esempi   sintomatici:   tutti   i   modelli   di   marche   differenti   si  somigliano   in   maniera   impressionante,   anche   se   ogni   fabbrica   si   affanna   a   proporre   al  consumatore  una  personalizzazione  del  colore  della  carrozzeria  e  dell'interno.    

Nondimeno,  di  fronte  al  proliferare  dei  prodotti  e  degli  "ismi"  con  i  quali  essi  vengono  etichettati,  di   fronte  alla  perdita  della  massa   come  destinatario  privilegiato,  è   spontaneo  chiedersi   a   chi   sia  destinato   tanto   design.   E,   per   rispondere   a   tale   domanda,   conviene   porsi   nell'ottica   di   quel  variegato  arcipelago  di   fruitori  che  ha  sostituito   la  massa.  Design   funzionalista,  organico,  Radical  design,   Neomodern,   Ecodesign,   linea   hard   o   linea   soft,   sono   tutti   soggetti   e   nomi   agitati   dagli  addetti  ai  lavori  ma  che  lasciano  totalmente  indifferente  il  pubblico  dei  disinformati.  Termini  quali  antropocentrismo  e  società,   tanto   invocati  da  designer  e  critici,   si   risolvono  solitamente   in  mere  astrazioni,  che  non  tengono  conto  delle  reali  esigenze  di  comunità  condizionate  storicamente  da  tradizioni,   economie   e   specifici   usi   e   consumi.   Il   consumatore   medio,   infatti,   percepisce   il  "fenomeno   design"   non   come   la   presunta   e   globale   esperienza   cui   si   è   teso   in   lunghi   anni   di  battaglie,   bensì   come   un   valore   aggiunto   pertinente   a   ogni   specifico   campo:   quello   della  carrozzeria  quando  acquista  un'automobile;  quello  dell'arredamento  quando  acquista  un  mobile;  quello  degli  elettrodomestici  quando  acquista  una  lavatrice,  e  così  via.    

Rispetto  all'evoluzione  del  gusto,  il  pubblico  ha  percepito  essenzialmente  come  fenomeno  di  moda  il   Razional-­‐Funzionalismo,   il   successivo   diffondersi   dell'organico  mobile   svedese,   i   prodotti   della  società  opulenta  degli  anni  sessanta,  le  ironie  del  design  Neomodern,  la  linea,  infine,  degli  oggetti  nati  dalle  nuove  tecnologie,  dei  quali  non  coglie  le  costose  difficoltà  produttive  ma  solo  l'alto  costo  al  consumo  e,  in  fondo,  la  viltà  dei  materiali.  L'informazione,  peraltro,  non  dirada  minimamente  le  nebbie  della  sua  confusione:  chi  apre  una  qualsiasi  rivista  di  design,  prima  del  corpus  dedicato  agli  specialisti  si  imbatte  in  una  ridda  di  pagine  pubblicitarie  che,  illustrando  indistintamente  di  tutto  –  dal  prodotto  autentico  a  quello  compromesso  con  la  commerciabilità  più  esplicita.