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Il paradosso della green economy Autore: Cacciari, Paolo Se lasciamo ai padroni del vapore il compito di salvare il pianeta e i suoi abitanti cresceranno i consumi dei ricchi e la miseria dei poveri: la crisi ambientale e quella sociale. A proposito di unlibro di A. Cianciullo e G. Silvestrini Siamo ad un passo dall’Eldorado. In barba ai profeti di sventura, ai “quaresimalisti dell’Apocalisse”, come Dario Paccino tanti anni fa apostrofava gli ecologisti imbroglioni, ancora una volta sarà la tecnologia ( green) a salvarci. Magari non tutti lo raggiungeranno in tempo. Qualche decina di milioni di “profughi ambientali” si perderanno per strada, risucchiati dalla “lenta” catastrofe climatica: desertificazione, salinizzazione, erosione e perdita di fertilità dei suoli agricoli. (Non dimentichiamoci che un terzo della popolazione della Terra vive ancora del proprio lavoro contadino). Altri (un altro terzo della popolazione vive inurbata negli inferni degli slum delle megalopoli) non potranno usufruire delle costose opere di mitigazione degli effetti e di adattamento al caos climatico: desalinizzazione dell’acqua del mare, combustibili alternativi, aria condizionata, barriere di difesa contro l’eustatismo, ecc. ecc. Ma per chi ha le risorse economiche sufficienti la meta è a portata di mano. Nei pacchetti anticongiunturali di “stimolo” dell’economia varati da tutti i governi del mondo (a partire da Cina, Usa, Germania, Francia, nell’ordine di grandezza degli impegni) spiccano i programmi di Clean Energy, Low Carbon, Eco-tech, ecc. Una New Deal verde, tanti piani Marshall ambientalisti, una nuova “grande transizione”. Danimarca e Germania hanno già varato piani energetici che prevedono la decarbonizzazione (fossil free) delle loro economie in quarant’anni. Giusto in tempo per fronteggiare l’esaurimento del petrolio (previsto per metà secolo). Il miracolo si chiama efficienza (la riduzione dei flussi di energia e di materie prime impegnate nei cicli produttivi e di consumo) e fonti alternative: eolico, fotovoltaico, biomasse. Chi avrà in mano queste tecnologie non solo salverà sé stesso dalla crisi di approvvigionamento dovuta dalla progressiva, inevitabile rarefazione delle materie prime, senza risentirne, ma anzi potrà vendere brevetti, licenze, macchinari ai competitor più arretrati. Insomma, i più lungimiranti, chi ha più soldi da metterci ora, potrà ricavarne più domani. Il giro di affari della green economy ha raggiunto i 530 miliardi di dollari (il Pil della Svizzera), ci informava il Sole 24 ore. C’è già chi è pronto a giurare che la prossima “bolla speculativa” riguarderà proprio il comparto specializzato dei fondi di investimento “verdi”: Data di pubblicazione: 10.12.2010

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Il paradosso della green economy

Autore: Cacciari, Paolo

Se lasciamo ai padroni del vapore il compito di salvare il pianeta e i suoi abitanti cresceranno i consumi dei ricchi e la miseria dei poveri: la crisi ambientale e quella sociale. A proposito di unlibro di A. Cianciullo e G. Silvestrini

Siamo ad un passo dall’Eldorado. In barba ai profeti di sventura, ai “quaresimalisti dell’Apocalisse”, come Dario Paccino tanti anni fa apostrofava gli ecologisti imbroglioni, ancora una volta sarà la tecnologia ( green) a salvarci. Magari non tutti lo raggiungeranno in tempo. Qualche decina di milioni di “profughi ambientali” si perderanno per strada, risucchiati dalla “lenta” catastrofe climatica: desertificazione, salinizzazione, erosione e perdita di fertilità dei suoli agricoli. (Non dimentichiamoci che un terzo della popolazione della Terra vive ancora del proprio lavoro contadino). Altri (un altro terzo della popolazione vive inurbata negli inferni degli slum delle megalopoli) non potranno usufruire delle costose opere di mitigazione degli effetti e di adattamento al caos climatico: desalinizzazione dell’acqua del mare, combustibili alternativi, aria condizionata, barriere di difesa contro l’eustatismo, ecc. ecc. Ma per chi ha le risorse economiche sufficienti la meta è a portata di mano. Nei pacchetti anticongiunturali di “stimolo” dell’economia varati da tutti i governi del mondo (a partire da Cina, Usa, Germania, Francia, nell’ordine di grandezza degli impegni) spiccano i programmi di Clean Energy, Low Carbon, Eco-tech, ecc. Una New Deal verde, tanti piani Marshall ambientalisti, una nuova “grande transizione”.

Danimarca e Germania hanno già varato piani energetici che prevedono la decarbonizzazione (fossil free) delle loro economie in quarant’anni. Giusto in tempo per fronteggiare l’esaurimento del petrolio (previsto per metà secolo). Il miracolo si chiama efficienza (la riduzione dei flussi di energia e di materie prime impegnate nei cicli produttivi e di consumo) e fonti alternative: eolico, fotovoltaico, biomasse. Chi avrà in mano queste tecnologie non solo salverà sé stesso dalla crisi di approvvigionamento dovuta dalla progressiva, inevitabile rarefazione delle materie prime, senza risentirne, ma anzi potrà vendere brevetti, licenze, macchinari ai competitor più arretrati. Insomma, i più lungimiranti, chi ha più soldi da metterci ora, potrà ricavarne più domani. Il giro di affari della green economy ha raggiunto i 530 miliardi di dollari (il Pil della Svizzera), ci informava il Sole 24 ore. C’è già chi è pronto a giurare che la prossima “bolla speculativa” riguarderà proprio il comparto specializzato dei fondi di investimento “verdi”: acqua, biocarburanti, energie rinnovabili in genere. L’imposizione di standard ambientali (di emissione, di riciclabilità, ecc.) sempre più stringenti creeranno il mercato necessario per piazzare i nuovi prodotti “ecocompatibili”. Sembra una partita win-win: ci guadagna l’ambiente, ci guadagna anche il capitale investito. Così anche l’ultimo negazionista del climate change si è pentito. Nuclei di resistenza sono rimasti solo nel Ministero dell’Ambiente italiano e nelle miniere di carbone in Polonia. Chissà perché?

Vediamo la questione più da vicino con l’aiuto di Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini (La corsa della Green Economy. Come la rivoluzione verde sta cambiando il mondo, Edizioni Ambiente 2010). Non si tratta solo di recuperare e introdurre pratiche virtuose di lotta agli sprechi, autoproduzione decentrata di energia elettrica, riciclo di materiali, ecc. La novità sono i grandi impianti solari nelle aree desertiche sahariane: il progetto del consorzio Desertec capeggiato da imprese tedesche e quello Transgreen capeggiato da imprese francesi per l’installazione di impianti solari a concentrazione con annessa rete “super grid” per rifornire il 15% del fabbisogno elettrico di tutta l’Europa entro il 2050. Per di più tali impianti possono contemporaneamente anche desalinizzare l’acqua del mare, pronta per imbottigliarla e venderla agli Emirati. Vista dal satellite la superficie necessaria per soddisfare con tecnologie solari la domanda elettrica mondiale (un quadrato di 300 Km di lato) appare poca cosa rispetto alla superficie totale dei deserti del pianeta. Fattibile. Stesso scenario per il grande eolico offshore: è stato calcolato che tra vent’anni potrebbe soddisfare il 30% della richiesta elettrica europea. Aggiungiamoci le alghe appositamente coltivate negli oceani per farne biocarburanti e risolveremo anche il problema di cosa mettere nelle automobili (a basso consumo, ibride e a car sharing, si intende) senza sottrarre terra all’agricoltura.Il trionfo della tecnologia verde ci farà uscire dalla crisi economica e ambientale in un colpo solo. Sarà vero?

Data di pubblicazione: 10.12.2010

Ci sono dati di fatto e teorie comprovate che contraddicono l’ottimismo messo in scena dai fautori della industria verde. Il “consumo di natura” procapite, di materiale netto (minerali, combustibili, biomasse, ecc.), (vedi le tabelle Physical imput-output dell’Istat, segnalate da Giorgio Nebbia) continua ad aumentare anche nella “matura” Europa, nonostante diminuisca l’incidenza del costo dei materiali sul Pil. Evidentemente aumenta l’efficienza dei processi di trasformazione, ma ciò fa aumentare – non diminuire - i loro consumi. Si chiama effetto Jevons, dal nome dell’economista che a metà Ottocento non si capacitava del fatto che le nuove caldaie a vapore pur aumentando la resa energetica non facessero diminuisse l’uso del carbone. Se una famiglia risparmia nella bolletta della luce (ad esempio, installandosi un pannello solare) non è affatto detto che sia intenzionata a ridurre i consumi: anzi è più probabile che aumenti la dotazione e l’uso di elettrodomestici vari. Si chiama anche “trappola tecnologica”: l’efficienza energetica e produttiva può accrescere a livello micro, mentre l’aumento del volume complessivo delle merci prodotte fa diminuire l’efficienza macro-economica.

Anche i consumi mondiali delle commodities (riso brillato, mais, zucchero, cotone, semi di soia, rame …) e dei materiali riciclabili (ferro, carta, legno…) sono in enorme aumento, nonostante la crisi. Per non parlare dei consumi di petrolio che continuano ad aumentare ad un ritmo dell’1,2% all’anno: un vero “incubo energetico”, verso l’ Oil Crunch, il raggiungimento del picco della capacità produttiva ipotizzata a 87 milioni di barili all’anno nel 2012. Poi, incomincerà una discesa precipitosa.

Nonostante le molte chiacchiere, non siamo ancora entrati nell’era dell’economia post-materialista, della società dei servizi e al plusvalore “evoluto” estratto solo dalla produzione dei beni cognitivi. I supporti fisici dell’economia sono ancora decisivi. Anche per la auspicata (vedi gli interventi di Guido Viale) riconversione ambientale industriale. Pensiamo solo al silicio (necessario per i pannelli solari), al litio (per le batterie elettriche, il cui valore è passato in pochi anni da 350 a 3.000 dollari la tonnellata), ai minerali e alle “terre rare” (tantalio, tungstenio, ecc.) necessari per microprocessori, telefonini e per tutte le nanotecnologie. Ha ricordato il commissario Ue al Commercio, il belga Karel De Guch (il Sole 24 ore del 19 novembre 2010), che le difficoltà delle imprese europee nell’approvvigionamento di materie prime si stanno facendo sempre più acute: “le carenze rappresentano un rischio sistemico per l’economia”. tanto che: “la Ue ha delineato la possibilità di prevedere ritorsioni economiche (toh!) contro paesi che ostacolano le esportazioni di materie prime”.

Ho l’impressione che se la green economy seguirà le regole dettate dal market sistem poche speranze ci saranno di sfuggire alla catastrofe climatica. Né il mercato, né le tecnologie ci salveranno. La riduzione dell’80% delle emissioni di CO2 nei prossimi 40 anni, il rientro dentro la soglia delle 350 parti per milione di CO2 in atmosfera, il contenimento dell’aumento della temperatura in un grado centigrado a fine secolo… sono tutti obiettivi che non si raggiungono se non mettendo mano al “profilo metabolico” delle nostre società (come dice Juan Martinez Alier) tendo conto della doppia insostenibilità della situazione attuale: verso la natura (limiti delle risorse disponibili) e verso i nostri simili poveri (distribuzione ineguale, ingiusta e disumana delle limitate risorse disponibili). Il sociologo Giorgio Osti, che in passato è stato pure molto critico con i sostenitori della decrescita, ha scritto: “Temo che il potenziamento dell’industria verde, se non intacca il tabù della moltiplicazione delle merci, possa fare ben poco. Il problema consiste nel produrre meno in assoluto e produrre merci che abbiano un valore d’uso” (in Valori).

La green economy, quindi, si presta a coltivare la grande illusione di poter continuare a produrre e consumare come e più di prima, senza fare i conti con il carico di illegittima appropriazione e distruzione di risorse comuni all’intera umanità (presente e a venire) che ciò comporta. http://www.eddyburg.it/article/articleview/16312/0/285/

Consumi scostumati Data di pubblicazione: 01.12.2010

Autore: Codeluppi, Vanni

40 anni dopo “La società dei consumi” di Baudillard (e 52 anni dopo “La società opulenta” di Galbraith) ci

si interroga su che cosa è cambiato da allora. Il manifesto, 1 dicembre2010

A quarant'anni di distanza dalla sua pubblicazione in Italia, il Mulino riedita La società dei consumi di Baudrillard. Ma vale ancora quella fotografia? Tra le ultime messe a fuoco quella di Saverio Pipitone in Shock Shopping. La malattia che ci consuma(Arianna editrice), quella di Paolo Magrassi in La good-enough society (Franco Angeli) e quella di Andrea Segrè in Last Minute Market (Pendragon)

La riflessione critica sulla società dei consumi non se la passa troppo bene: se escludiamo la letteratura di orientamento ecologista, sono ben poche le voci dissidenti che restano. Sembra che l'espressione «società dei consumi» sia nata negli anni '20 del '900, ma è stato il saggio dal titolo omonimo, pubblicato esattamente quarant'anni fa da Jean Baudrillard, a trasformare questa espressione in una vera e propria etichetta diffusasi in tutto il mondo. Dopo l'edizione francese, il volume La società dei consumi è stato rapidamente tradotto nelle principali lingue, ma ha dovuto aspettare il 1997 per approdare negli Stati Uniti, grazie alla traduzione di George Ritzer. Probabilmente a causa del linguaggio sofisticato che ha adottato a partire dalla metà degli anni '70, un linguaggio assai distante dalle esigenze di una cultura pragmatica, Baudrillard negli Stati Uniti è stato scoperto tardi. Ma ancora nel volume La società dei consumi - che in occasione del quarantennale l'editore Il Mulino ha riproposto in una nuova versione italiana (pp. 240, euro 13) - si esprimeva in modo chiaro, assicurando alle sue analisi efficaci il successo che effettivamente ebbero in tutto il mondo.

Quelle analisi mettevano a fuoco le caratteristiche del boom consumistico che si stava sviluppando negli anni '60 in Europa, evitando di abbandonarsi ai toni apocalittici in voga all'epoca. E si impegnavano con rigore nel tentativo di sviluppare una vera e propria teoria del consumo, basata su concetti ancora oggi attuali: l'idea, per esempio, che la logica del consumo si è andata progressivamente generalizzando sino a coinvolgere tutto, dai media alla politica all'arte, arrivando a investire la sfera del corpo, della sessualità e in generale dell'intimità. O introducendo la fondamentale interpretazione del mondo del consumo come una realtà di tipo miracoloso, il regno della massima abbondanza - scriveva Baudrillard - dove i beni non sono il frutto del lavoro e delle fatiche degli esseri umani, ma regali dispensati da un'istanza mitologica benefica: la tecnica, il progresso. Questa visione miracolistica del consumo si situava agli opposti di quella concezione funzionalistica e utilitaristica del rapporto con i beni che gli economisti proponevano all'epoca. Ma Baudrillard aveva ben compreso che il regno del simbolico non andava confinato nello spazio delle civiltà primitive, perché svolgeva un ruolo centrale anche nelle società occidentali avanzate della seconda metà del '900.

Rinominare i confini

Se il consumatore odierno sente la necessità di sprecare il suo denaro, attuando una pratica non troppo dissimile da quella dei rituali e dei potlach primitivi, e se sente l'esigenza di esibire i suoi beni e i segni del suo benessere, un po' come gli indigeni melanesiani, è perché in fondo spera che tutto ciò si traduca in una funzione propiziatoria, capace di attirargli la felicità.

Baudrillard sosteneva anche che, non diversamente da quanto già accadeva presso i popoli primitivi, la società dei consumi non costituisse altro se non una grande illusione collettiva, perché in essa tutto è ridotto a segno e simulacro. Proprio perciò, d'altronde, se la società dei consumi ha prodotto un livellamento del tenore di vita dal punto di vista concreto dell'acquisizione dei beni e dei redditi disponibili, ha nel contempo reso possibili nuove gerarchie sociali basate, appunto, sulla capacità discriminatoria intrinseca ai segni.

A distanza di quarant'anni l'analisi di Baudrillard può avere ancora una sua validità? È corretto dire che viviamo ancora all'interno di una società dei consumi? Si potrebbe supporre che nell'epoca di Internet e dei social network l'etichetta «società dei consumi» non sia più in grado di dare conto delle nuove forme che la struttura sociale ha assunto, sebbene il futuro di Internet sia strettamente legato alla sua capacità di fornire risposte adeguate alla esigenza di rivitalizzare un mercato basato sui consumi.

Al di là delle utopistiche pretese di ottenere beni gratuiti, la rete potrà garantirsi una sostenibilità economica solamente se avrà la capacità di sviluppare il commercio elettronico, di stabilire sistemi di pagamento realmente affidabili per le prestazioni offerte e di attirare verso di sé ingenti investimenti pubblicitari da parte

delle imprese. Dunque, anche l'attuale società della rete, in fondo, non rappresenta altro che una nuova fase evolutiva della società dei consumi.

Ma, ci si domanda, qualcosa è intervenuto a differenziare questa fase della società dei consumi rispetto a quelle precedenti? Certamente, una prima risposta sta nella presa d'atto della straordinaria accelerazione della velocità con cui vengono diffuse informazioni e prodotti e nella registrazione dell'esponenziale aumento della quantità dei beni consumati. L'accelerazione, naturalmente, è stata resa possibile, insieme alla comparsa della rete, dall'ampliamento e dalla moltiplicazione degli spazi di vendita, che propongono incessantemente nuovi prodotti. Il consumatore, come si sa, è sempre più frequentemente sollecitato a passare dal commerciante conosciuto del piccolo negozio vicino casa agli enormi luoghi deputati alla vendita tramite strategie sempre più spettacolari e coinvolgenti. È questo il tema di cui si occupa Saverio Pipitone in Shock Shopping. La malattia che ci consuma (Arianna editrice, pp. 156, euro 10.80), un volume che ragiona criticamente sulle molteplici forme assunte negli ultimi anni dalla distribuzione e sulle conseguenze sociali prodotte da tale sviluppo. Parla, ad esempio, di come la multinazionale Ikea abbia progressivamente affermato in Italia e nel mondo, nell'ambito dell'arredamento e del design, uno stile e un gusto globali, che si sono imposti sulle tradizioni domestiche di ogni paese. Allo stesso tempo - scrive l'autore - «la falegnameria italiana è quasi scomparsa e i piccoli artigiani vicini a un centro Ikea sono costretti a chiudere».

Effetti analoghi sono stati prodotti anche dall'azione esercitata dalla gigantesca catena distributiva americana Wal-Mart e dagli enormi outlet center, che vengono sempre più velocemente aperti anche in Italia. Tutto ciò sembra configurare il passaggio a una fisionomia sociale omologata il cui aspetto è quello di un gigantesco centro commerciale percorso da strade sempre più simili le une alle altre, dove vengono insistentemente proposti prodotti analoghi, per di più delle stesse marche. Tutto ciò autorizza a dire che siamo ormai davanti a una società dei turbo-consumi», che sembra muoversi più in fretta della capacità umana di tenere il passo, e sembra richiedere inedite forme di adattamento. Basate su un modello sociale che ci costringe, se vogliamo restare sincronizzati con la velocità dei processi di cambiamento, a rinunciare al meglio e all'ottimo, considerati irraggiungibili, le attuali società dei consumi si accontentano di riuscire a ottenere il «buono quanto basta» e vengono perciò definite società del good-enough: lo dice Paolo Magrassi in un volume La good-enough society. Sopravvivere in un mondo quasi ottimo (Franco Angeli, pp. 126, euro 16).

Il modello del good-enough comporta, com'è ovvio, un notevole abbassamento degli standard di qualità e delle prestazioni che i prodotti sono in grado di fornire. E il rischio conseguente a una sempre più diffusa adozione di questo modello implica che i soggetti delle società attuali, anziché cercare quell'aurea mediocritas di cui parlava il poeta latino Orazio, cioè - tradotto nel lessico che ci riguarda - un compromesso accettabile tra qualità e risparmio, sono sempre più disponibili a farsi rifilare paccottiglie di infimo livello.

L'ingrediente etico

Come in tutti gli ambiti, anche in quello dei consumi c'è chi non si accontenta di adeguarsi all'esistente, ma prova a introdurvi nuovi criteri di scelta. Per quanto rappresentanti di una minoranza, i consumatori appartenenti all'articolata area del consumo critico sono oggi in crescita. Ne ha scritto Michele Micheletti in Critical Shopping. Consumi individuali e azioni collettive (Franco Angeli, pp. 240, euro 34), spiegando come l'introduzione di criteri selettivi svolga oggi un ruolo sempre più significativo, e come lo sviluppo della globalizzazione e di Internet faciliti i singoli nella sperimentazione di nuove strategie associative e relazionali mentre rende più difficile alle imprese nascondere le proprie politiche produttive. Un consumatore critico effettua le sue scelte impiegando criteri di valutazione dei prodotti che si basano non soltanto sugli aspetti economici, né solo sulle prestazioni fornite, ma include anche valutazioni di tipo sociale ed etico. Perciò, la qualità di quanto acquista risulta anche dalle strategie di produzione, stretegie che coinvolgono la sostenibilità ambientale del processo produttivo, il coefficiente etico del trattamento riservato ai lavoratori, e così via. Micheletti sembra pensare che questi nuovi criteri di scelta adottati dal consumatore possano assumere la valenza di un impegno politico.

Tuttavia, per quanto lodevole sia scegliere un prodotto «etico» piuttosto che no, non basta certo a arginare i danni che l'attuale modello di «turbo-consumo» sta già arrecando all'ambiente. Un discorso analogo lo meriterebbe il cosiddetto Last Minute Market, un innovativo modello di distribuzione che si propone di recuperare i prodotti invenduti ma ancora utili (alimenti, sementi, farmaci, libri, ecc.) per donarli ai soggetti

sociali più bisognosi. Benche questo modello renda effettivamente più efficiente il sistema economico attuale, riducendone gli sprechi, solo in minima parte è in grado di proporre nuove attitudini comportamentali, ossia l'obiettivo di consumare meno e in maniera più selettiva.

Lo stesso Andrea Segrè, ideatore di questo modello, sembra esserne consapevole quando scrive nel suo volume Last Minute Market. La banalità del bene e altre storie contro lo spreco (Pendragon, pp. 120, euro 12) che occorre perciò «sostenere una politica che si occupi di ridurre il tempo di lavoro, affinché si riconquisti il senso del tempo trascorso non solo a lavorare e a consumare, ma anche dedicandosi agli affetti, alle passioni, agli hobby, ovvero ai beni spirituali e al benessere psicologico. In altre parole, impegnarsi per ritrovare il tempo di nutrire la propria vita interiore». Perché, come è stato dimostrato da numerose ricerche nel campo della psicologia, solamente arrivando a ridurre l'interesse riservato agli oggetti e alla dimensione della materialità sarà possibile indurre una valutazione maggiore delle proprie risorse psichiche, e dunque accrescere il nostro livello di soddisfazione complessiva.

http://www.eddyburg.it/article/articleview/16274/0/131/

I beni comuni ripensano la democrazia Data di pubblicazione: 26.11.2010

Autore: Cacciari, Paolo

Se il capitalismo è basato sul predominio della proprietà individuale, per cambiarlo occorre partire da un diverso concetto (e una diversa pratica) della proprietà. Il manifesto , 26 novembre 2010

Un nuovo spettro si aggira sul mondo: la socializzazione dei beni comuni. Moltitudini inquiete stanno imparando a riconoscerli. Alcuni gruppi hanno cominciato a rivendicarne l'uso. Altri sperimentano già forme di gestione fuori mercato. Commons movment lo si trova tra le popolazioni indigene delle foreste dell'Amazzonia e nei Free Culture Forum ( digital commons) delle principali città europee, come è nelle innumerevoli vertenze contro il saccheggio del territorio e nei movimenti per una agricoltura contadina, nelle reti di economie solidali e nei gruppi che fanno cooperazione decentrata, nei movimenti per l'acqua pubblica e per la giustizia climatica. Rivendicano l'accesso alla conoscenza, la sovranità alimentare e non solo, l'autonomia nella gestione dei propri bisogni e dei propri desideri. I beni comuni sono stati sdoganati nel mondo scientifico dagli studi del primo premio Nobel donna per l'economia Elinor Ostrom. Sono entrati nelle Costituzioni nazionali grazie all'Ecuador di Evo Morales. Sono osservati e studiati da sociologi e politologi grazie al lavoro di Paul Hawken che ha creato un gigantesco database (www.wiserearth.org ) delle organizzazioni che se ne occupano. Da ultimo sono stati rilanciati da un convegno della fondazione Heinrich Böll Stiftung: " Costructing a Commons-Based Policy Platform", che si è svolto a Berlino i primi di novembre (materiali preparatori, documento finale reperibile nel loro sito e persino un piccolo cartone animato sta girando su: youtube.com/watch?v=WT6vbAu_UjI ) con il contributo anche di studiosi e attivisti italiani come Giovanna Ricoveri e Marco Berlinguer. Cosa accomuna questi movimenti? La scoperta dell'esistenza di beni naturali, cognitivi, relazionali che sono di tutti e non appartengono a nessuno: res communes omnium. Beni speciali, doni del creato e lasciti delle generazioni precedenti di cui tutti necessitiamo e di cui tutti dobbiamo poter beneficiare. Elementi primari, basici. Scrive la fondazione Heinrich Böll: «I beni comuni sono la precondizione di tutti gli obiettivi sociali, inclusi quelli ambientali». Beni e servizi che nessuno può dire di aver prodotto in proprio e che quindi nessuno può arrogarsi il diritto di possedere, comprare, vendere, distruggere. Alcuni, gli ecosistem service, sono semplicemente indispensabili alla preservazione di ogni forma di vita: atmosfera, acqua, suolo fertile, energia, cicli trofici. Altri, i beni cognitivi, sono indispensabili a connettere le relazioni umane: lingue, codici, saperi, istituzioni sociali. Inoltre, vorrei sommessamente ricordare che il sole, l'aria, il territorio, le parole... non sono solo pannelli fotovoltaici, turbine, suolo edificabile, linguaggi tecnici per ottimizzare la produttività sociale, ma anche profumi, fragranze, paesaggi, creatività. Ingredienti anch'essi diversamente utili alla preservazione della salubrità mentale di ciascuno di noi. Chi decide quali sono i beni comuni? L'attività stessa di commoning (come l'ha battezzata Peter Linebaugh),

le pratiche di cittadinanza attiva ( Engin Isin), il fare comunanza, condividere conoscenze, risorse, servizi rendendoli accessibili a tutti. I beni comuni sono ciò che la società stessa sceglie di gestire collettivamente. I beni comuni hanno una essenza naturale ed una sociale. Oggi, da noi, è l'acqua. A dicembre a Cancun sarà di scena il clima. Nelle università e nei centri di ricerca è in gioco la libertà di ricerca. Nei territori colpiti dalla crisi economica è il lavoro (come ha ben scritto la Fiom sui manifesti della manifestazione del 16 ottobre). Pezzo dopo pezzo, momento per momento, i beni comuni sono i tasselli di una idea di società che si prende la libertà di pensare al dopo-crisi o, meglio, al dopo crisi di civiltà e di senso che stiamo vivendo. Il riconoscimento, la rivendicazione e la gestione dei beni comuni rappresentano un rovesciamento dei criteri con cui siamo abituati a pensare il mondo. Dentro i parametri dei beni comuni natura e lavoro non sono più utilizzabili come "carburante" nei processi di produzione e di consumo, fattori da sacrificare all'imperativo della massima resa del capitale investito, ma come il fine stesso dello sforzo cooperativo sociale che deve essere mirato alla rigenerazione delle risorse naturali (preservandole il più a lungo possibile, adoperandosi per rallentare, non per incrementare, l'entropia naturale del sistema) e alla realizzazione della creatività umana, consentendo a ciascuno di apportare un contributo utile al proprio e all'altrui benessere. Niente di meno che una trasformazione delle relazioni sociali a partire da un cambio di modello dell'idealtipo umano assunto come riferimento da qualche secolo a questa parte: da egoista, individualista, proprietario a consapevole, cooperante. Proviamo ad elencare alcuni capisaldi della società dei beni comuni. Essa richiede una salto nell'orientamento del diritto: gli oggetti naturali possono essere titolari di diritti legittimi indipendentemente dagli utilizzatori. Nemmeno lo Stato può essere considerato sopra le leggi che presiedono la conservazione della biosfera che costituisce un patrimonio non disponibile, inviolabile. A Cancun si parlerà della proposta di istituire un tribunale internazionale di giustizia climatica e ambientale. L'orizzonte del diritto tradizionale e della democrazia liberale verrà messo in discussione. Un salto nelle concezioni filosofiche che regolano la scienza con la rinuncia al dominio assoluto dell'uomo padrone e signore sulla natura. La vita sulla terra non è frazionabile, serve una ricomposizione tra bios ed ethos. Le scienze cosiddette post-normali mettono in discussione il riduzionismo e il meccanicismo. Una idea radicale di democrazia orizzontale, non gerarchica, in cui le comunità abbiano la libertà di disporre dei beni di riferimento a loro afferenti. Un'idea di democrazia che va oltre il concetto di sovranità e di proprietà. Nessun "interesse generale", nessuna "maggioranza", nessuna "superiore razionalità tecnica" può giustificare il dominio su altri, la distruzione di beni irriproducibili e insostituibili, unici, come lo siamo ognuno di noi. Qualche tempo fa, rispondendo a Carla Ravaioli, Guido Rossi si lamentava: «Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce? Nessuno ha un'idea in testa» ( il manifesto 31.10.2010). Lo stesso concetto ha sviluppato Slavoj Zizek: «Siamo letteralmente sommersi da requisitorie contro gli orrori del capitalismo: giorno dopo giorno veniamo sommersi da inchieste giornalistiche, reportage televisivi e best-seller che ci raccontano di industriali che saccheggiano l'ambiente, di banchieri corrotti che si ingozzano di bonus esorbitanti mentre le loro casseforti pompano denaro pubblico, di fornitori di catene prêt-à-porter che fanno lavorare i bambini dodici ore al giorno. Eppure, per quanto taglienti queste critiche possano apparire, si smussano appena uscite dal loro fodero: mai infatti rimettono in discussione il quadro liberal-democratico all'interno del quale il capitalismo compie le sue rapine». ( Le Monde Diplomatique, novembre 2010). Ecco, seguire l'idea della gestione collettiva dei beni comuni può servire a costruire un progetto concreto dell'alternativa possibile. http://www.eddyburg.it/article/articleview/16254/0/283/Beni comuni. Un diritto alla libertà oltre lo stato e il mercato Data di pubblicazione: 28.11.2010

Autore: Mattei, Ugo

Una definizione eccezionalmente chiara di “bene comune”, e l’analisi del problema che si pone alla cultura e alla società.di oggi. Il manifesto , 27 novembre 2010

La modernità ha creato le condizioni affinché solo la sovranità nazionale o l'attività delle imprese private potessero gestire al meglio aria, acqua, terra, energia e conoscenza. Una visione meccanicista che nega il fatto che si tratta di diritti e bisogni individuali il cui riconoscimento e affermazione deve vedere la diretta gestione da parte della collettività

I bisogni di bene comune non producono profitti se il diritto non li rende artificialmente capaci di tali profitti. Infatti il bene comune offre servizi dati per scontati da chi ne beneficia e il suo valore si misura soltanto in termini di sostituzione quando esso non c'è più. In un certo senso i servizi essenziali resi dai beni comuni sono simili al lavoro domestico che si nota solo quando non viene fatto. Per esempio, i servizi che le mangrovie o la barriera corallina offrono agli abitanti della costa non sono «apprezzati» perché spesso non sono neppure noti ai loro fruitori: in questo senso i desideri che essi soddisfano non sono «paganti». Quando gli italiani distrussero la barriera corallina in Somalia per consentire alle grandi navi da trasporto di attraccare a Mogadiscio per portar via il bottino coloniale, aprirono un varco per gli squali attratti in frotte dal sangue scaricato in mare dal locale macello. La spiaggia di Mogadiscio divenne uno dei posti più pericolosi del mondo per la balneazione. Per ricreare una barriera capace di trattenere gli squali lontano dalla riva ci vorrebbero moltissimi soldi e moltissima tecnologia. Solo nel momento della sostituzione si può avere un'idea (ancorché molto riduttiva e approssimativa) del valore del bene comune. Discorso analogo vale per le mangrovie, distrutte in gran parte per allevare i famigerati gamberetti: esse svolgevano un servizio inestimnabile per proteggere i villaggi della costa dalle onde di tsunami. Quanto costerebbe costruire artificialmente una simile barriera? La consapevolezza per il valore dei beni comuni può essere creata soltanto attravereso uno specifico investimento sul fronte della domanda lavorando sulla consapevolezza del nostro rapporto con il contesto in cui essi producono il loro servizi. Nell'arena del marketing

I beni comuni sono entità di cui sussiste un bisogno pubblico e privato che non è pagante a causa di tale mancanza della consapevolezza. Proprio l'opposto della maggior parte delle merci prodotte dal capitalismo attuale di cui non susssiste alcun bisogno reale né pubblico né privato. Che bisogno c'è di un modello di automobili esteticamente diverso, di scarpe griffate, o dell'ennesimo telefonino? Di questi beni il bisogno pubblico sussiste soltanto nella misura in cui si accetti un'idea di crescita e di sviluppo totalmente quantitativa (produrre per produrre) ormai evidentemente insostenibile (proprio perché devastatrice dei beni comuni). Il bisogno privato degli stessi viene creato (inventato) lavorando sulla domanda attraverso uno specifico massiccio investimento anche culturale noto come marketing. Il marketing infatti è volto a produrre desideri paganti volti all'accumulo o al consumo di beni privati socialmente inutili o dannosi sovente inventandone l'utilità proprio ai danni di beni comuni (si pensi alla pubblicità per l'acqua minerale che fa restar giovani e belli). Il marketing per lo svilupopo del settore pubblico, peraltro reso indispensabile alla stessa ipertrofia del settore privato (ad esempio le costruzioni di strade e i parcheggi per consentire la vendita di automobili) viene indicato dispregiativamente come propaganda. Il superamento dell'atteggiamento riduzionista proprio dell'equazione fra settore pubblico e Stato offre prospettive non banali. Infatti, il noto ragionamento di Kenneth Galbraith secondo cui la crescita del settore privato (determinata dal marketing) rende necessaria una corrispondente crescita del pubblico (che avviene in modo insufficiente per mancanza di marketing) sconta la fondamentale analogia strutturale fra privato e pubblico interpretati con i tradizionali archetipi di proprietà privata e sovranità statale. La struttura fondamentale di entrambi questi archetipi è infatti il dominio gerarchicamente strutturato del soggetto (persona fisica o giuridica Stato persona) sull oggetto (bene privato territorio). L'opposizione riduzionista a somma zero fra pubblico e privato (più stato=meno mercato; più mercato=meno stato) è tuttavia culturale e politica piuttosto che strutturale perché «inventa» un'opposizione fra pubblico e privato che dal punto di vista strutturale non esiste. In effetti questa falsa opposizione fra due entità che condividono la stessa struttura di dominio esclusivo si colloca pienamente all'interno della logica riduzionista, individualizzante e soprattutto quantitativa propria del paradigma della modernità occidentale. L'afasia dei riduzionisti

Il marketing del pubblico gerarchico e burocratico è in effetti propaganda nella misura in cui (come quello del privato) non introduce alcun aspetto relazionale (o dialogico) capace di produrre trasformazione qualitativa (sviluppo del capitale sociale?) del significante e del ricettore ma emette segnali solipsistici volti a stimolare una domanda di consumo in un soggetto passivo. In realtà l'opposizione strutturale autentica è quella fra la logica riduzionistica e meccanicistica della modernità condivisa da proprietà privata e Stato e quella fenomenologica, relazionale, partecipativa e critica propria del «comune». Soltanto quest'ultima logica supera il riduzionismo cartesiano soggetto-oggetto ed il conseguente delirio storico della modernità che ha portato l'umano (soggetto astratto) a collocarsi al di fuori

della natura, autoproclamandosi suo dominus. In questo diverso quadro, la consapevolezza del bene comune (e la conseguente trasformazione motivazionale del soggetto) non può essere prodotta dal marketing ma al contrario deve passare attraverso la logica dialettica del sapere critico. In altre parole, per raggiungere la consapevolezza del bene comune occorre una trasformazione del soggetto, una rivoluzione nei suoi apparati motivazionali, una visione del mondo autenticamente rivoluzionaria. Mentre la logica del marketing (o della propaganda) produce motivazioni allineate alla produzione di ideologia dominante riduttivista e incentrata sullo status quo, quella del sapere critico di base produce la trasformazione qualitativa essenziale per la stessa percezione dei beni comuni. Tra natura e cultura

In definitiva l'investimento necessario per creare domanda di beni comuni (prima di tutto la percezione della loro esistenza e vulnerabilità) si chiama cultura critica ed è a sua volta un bene comune. È cioè la stessa contrapposizione strutturale soggetto\oggetto che deve smettere di fare i suoi danni epocali perchè ad essa è seguita, inevitabilmente, la mercificazione di entrambi. Il bene comune, a differenza del bene privato (cose) e di quello pubblico (demanio, patrimonio della Stato) non è un oggetto meccanico e non è riducibile in merce. Il bene comune è una relazione qualitativa. Noi non «abbiamo» un bene comune (un ecosistema, dell'acqua) ma in gran misura «siamo» il bene comune (siamo acqua, siamo parte di un ecosistema urbano o rurale). Ecco perché alcune delle tassonomie che cominciano ad emergere sui beni comuni quali per esempio quella fra beni comuni naturali (ambiente, acqua, aria pura) e beni comuni sociali (beni culturali, memoria storica, sapere) devono essere oggetto di riflesione critica approfondita e vanno maneggiate con consapevolezza. Esse veicolano in qualche modo la vecchia logica meccanicistica della separazione fra soggetto ed oggetto che rischia di produrre mercificazione. I beni comuni, la loro stessa percezione e la loro difesa passa necessariamente attraverso una piena posa in opera politica della rivoluzione epistemologica prodotta dalla fenomenologia e dalla sua critica dell'oggettività. Il soggetto è parte dell'oggetto (e viceversa). È per questo che i beni comuni sono legati inscindibilmente ai diritti fondamentalissimi, della persona, del gruppo, dell'ecosistema, della natura e in ultimo del pianeta vivo. E arriviamo così ad un riepilogo sulla vera rivoluzione culturale necessaria per la declinazione del comune come categoria del politico e del giuridico. La separazione riduzionista fra soggetto ed oggetto tipica della tradizione cartesiana (e scientistica da Galileo in avanti) ha strutturato la filosofia dell'«avere» alle cui radici stanno gli appetiti acquisitivi primordiali che spiegano le origini ed il succeso storico della proprietà privata individuale e dello stato sovrano territoriale. Tanto la struttura del giuridico quanto quella del politico istituzionalizzano la logica dell'avere che è poi quella della concentrazione del potere. Esse hanno strutturato istituzionalmente l'idea dell'umano separato dal naturale e di una oggettiva res extensa separata dalla res cogitans: in altre parole di una realtà oggettiva separata dal suo interprete. È noto come la fenomenologia contesti radicalmente questi presupposti ma come tale critica non abbia ancora trovato una declinazione istituzionale. La cultura giuridica non è riuscita a proporre quindi assetti giuridici alternativi a quelli della modernità, rappresentati dal «regime di legalità» (rule of law) ossia dall'illusione che si possa essere governati da leggi (oggettive e ontologicamente esistenti di per sé) e non da uomini che comunque le interpretano introducendo l'inevitabile componente soggettiva. Una relazione negata

Il comune è invece nozione che può comprendersi solo in autentica chiave fenomenologica ed olistica ed è quindi incompartibile con la logica riduzionistica dell'avere (e del potere). Si può rendere quest'idea con la locuzione «il comune siamo anche noi». Il comune non è solo un oggetto (un corso d'acqua, una foresta, un ghiacciaio) ma è anche una categoria dell'essere, del rispetto, dell'inclusione e della qualità. È una categoria relazionale fatta di rapporti fra individui, comunità, contesti ed ambiente. In altri termini il comune è categoria ecologica-qualitativa e non economico-quantitativa come proprietà e sovranità statale. Per questo il comune non è riducibile ad un diritto (categoria dell'avere: io ho un diritto) ma si collega inscindibilmente con la possibilità effettiva di soddisfazione di diritti fondamentali che è ad un tempo esperienza di soddisfazione soggettiva e di partecipazione oggettiva alla comunità ecologica. Nella logica del comune scopaiono le barriere fra soggetto ed oggetto e anche quelle fra natura e cultura. Un ambiente visto come bene comune non è un' entità statica ma è allo stesso tempo natura e cultura, fenomeno globale e locale, tradizione e futuro. In una parola il comune è civiltà: proprio come l' acqua che stiamo difendendo dalla primordiale logica del potere, della predazione e del saccheggio di cui invece si nutre il capitale.

Scaffale Uno statuto giuridico ancora tutto da sviluppare

Il presente scritto fa parte del volume La Società dei beni comuni a cura di Paolo Cacciari [edito da Ediesse e Carta], che sta per arrivare in edicola e che contiene numerosi importanti interventi. Una prima posa in opera del «bene comune» come genere alternativo rispetto alla proprietà privata e a quella pubblica si ritrova nei lavori della cosiddetta «Commisione Rodotà». Si vedano: Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica (a cura di U. Mattei, E. Reviglio e S.Rodotà, Il Mulino), I Beni pubblici. Dal governo democratico dell'economia alla riforma del codice civile (materiali editi dalla Academia Nazionale dei Lincei). Per un inquadramento ampio della tematica: Privato Pubblico Comune. Lezioni dalla Crisi Globale (volume collettivo curato da Laura Pennacchi per Ediesse). Infine, va segnalato l'importante contributo storico-comparativo di Filippo Valguarnera Accesso alla Natura fra ideologia e diritto (Giappichelli). http://www.eddyburg.it/article/articleview/16259/0/283/Il bene comune del territorio Data di pubblicazione: 25.11.2010Autore: Bevilacqua, Piero

L'articolo di Asor Rosa sul manifesto del 17 novembre ...

L'articolo di Asor Rosa sul manifesto del 17 novembre merita non solo di essere ripreso, ma dovrebbe dare avvio a una discussione generale che ponga al centro i caratteri del nuovo ambientalismo e i problemi generali del territorio italiano. Quello che Asor Rosa definisce nuovo ambientalismo è l'arcipelago frastagliato dei comitati e movimenti che in tutti questi anni sono nati a livello locale per contrastare iniziative, centralistiche per lo più ( ma non solo) mirate, ad esempio, alla privatizzazione dell'acqua, o destinate a sconvolgere gli assetti ambientali di vaste aree, o a minacciare la salute degli abitanti. Di queste centinaia di esperienze – che qui non si possono enumerare – credo che il nuovo evocato da Asor Rosa consista essenzialmente in due fenomeni tra loro intrecciati. Il primo attiene alla modalità delle lotte e alla loro organizzazione. In quasi tutti i comitati di cui parliamo – da quello contro la centrale a carbone di Civitavecchia alla “comunità” No-Tav della Val di Susa, per intenderci – il movimento, nato dal basso, da gruppi di cittadini e associazioni, si è organizzato in forme di democrazia deliberativa che hanno inaugurato un modo originale di fare politica.Presidi territoriali in cui i cittadini sono diventati attori autonomi di una prolungata resistenza. Su questo punto, io credo, qualcuno dei protagonisti dovrebbe intervenire e dar conto di successi e problemi. La seconda novità consiste nel ruolo che competenze scientifiche, spesso di alto livello, hanno svolto nell'individuare le minacce ambientali ed anche , spesso, nell'indicare soluzioni alternative possibili. Queste competenze, che si sono messe al servizio dei cittadini organizzati, rappresentano una forma nuova di rapporto tra sapere e politica, tra professioni e democrazia, che meriterebbero una focalizzazione meno occasionale di quanto non si sia fatto. Ma il nuovo ambientalismo, dovrebbe anche caratterizzarsi per qualcos'altro. A mio avviso, dovrebbe oggi fornire una dimensione nazionale alle esperienze e modalità locali e al tempo stesso farsi promotore di un progetto generale di un nuovo modo di utilizzare e vivere nel territorio italiano. Partiamo dalla configurazione fisica della nostra Penisola. Se noi escludiamo le Alpi, possiamo osservare che la gran parte del territorio abitato è costituito da aree altamente instabili. La Pianura padana è l'enorme catino in cui confluisce la moltitudine dei fiumi alpini, formando il più complesso e intricato sistema idrografico d'Europa. L'ordine di questa pianura è il risultato di opere secolari di bonifiche e regimazioni delle acque da parte delle popolazioni. «Un immenso deposito di fatiche», la definiva Cattaneo, ora densamente abitata e gremita di costruzioni. Quest'area, dove è insediata tanta parte della nostra economia, non è assolutamente al sicuro dai fenomeni atmosferici estremi che ci attendono nei prossimi anni. Com' è noto, stagioni di grande caldo e siccità ed altre fredde o intensamente piovose sono destinate a scandire l'ordine metereologico del nostro incerto avvenire. In Pianura padana ci sono vaste aree sotto il livello del mare, che vengono tenute artificialmente asciutte grazie all'opera di gigantesche macchine idrovore. Il Po, nonostante il saccheggio delle sue acque, ha mostrato negli ultimi anni le esondazioni di cui è capace sotto l'azione di piogge intense. E abbiamo appena visto di che cosa sono capaci anche fiumi minori, come il Bacchiglione. Ma se noi osserviamo l'intero stivale cogliamo un' altra caratteristica saliente del nostro paesaggio fisico. Una ininterrotta dorsale montuosa, l'Appennino, attraversa l'Italia e continua anche in Sicilia. Come ben

sapevano già ingegneri idraulici dell'800, l'Appennino è la chiave di volta dell'equilibrio dell'Italia peninsulare. Le acque e i potenti fenomeni che modellano continuamente i due versanti, tendono a trascinare materiali a valle e ad interrare le aree sottostanti. In una parola, l'Appennino e le alture pedemontane tendono a franare per necessità naturale. Non a caso almeno il 45% dei comuni italiani risulta interessato da fenomeni franosi di varia gravità. Orbene, tale discesa verso valle è stata per secoli controllata e filtrata dall'opera delle popolazioni contadine. Queste oggi sono scomparse. Ma nel frattempo ben oltre il 66% della popolazione italiana si è insediata lungo la fascia costiera dello stivale. E qui si concentrano non solo gli abitati, ma le attività produttive, le infrastrutture, i servizi. Ebbene, è evidente che all'interno di un territorio di così singolare e complessa fragilità, negli ultimi decenni gli italiani hanno operato - con le loro scelte localizzative, con le loro costruzioni, con gli abbandoni delle aree interne – per creare una condizione futura di altissimo rischio e di certissimo danno. Tutto è stato fatto in modo che in condizione di prolungata piovosità, nel catino della Valle padana o ai margini collinari e pianeggianti dell'Appennino, l'acqua possa produrre alluvioni e frane di eccezionale gravità. Si è operato cioé perché la ricchezza accumulata in decenni di fatica e di investimenti possa essere distrutta in pochi giorni per effetto di eventi eccezionali che si prevedono sempre più frequenti. Così, anche nell'impronta antropica sul nostro territorio, è possibile vedere gli esiti che la libertà sbandierata da un ceto politico famelico e privo di qualunque cultura hanno predisposto per il presente e per l'avvenire dei nostri figli. Ora, solo avendo bene in mente questo quadro, si può comprendere come, in Italia, la cementificazione di un solo metro quadrato costituisca oggi la sottrazione di un bene comune raro e rappresenti la predisposizione di un danno certo. Il territorio verde, capace di assorbire l'acqua meteorica, dovrebbe costituire agli occhi di tutti gli italiani una risorsa preziosa, da difendere con ogni mezzo, per conservare la ricchezza nazionale storicamente insediata nel territorio. Ma sappiamo che tali perorazioni, sempre necessarie, sortiscono, tuttavia, flebili effetti. Ciò che oggi il nuovo ambientalismo dovrebbe mostrare è che i territori interni oggi abbandonati, costituiscono aree per la diffusione di nuove economie. Non sono una diseconomia nell'età trionfante dello sviluppo. Nelle colline interne possono risorgere le agricolture tradizionali, le policolture di un tempo, che vantavano una biodiversità agricola (soprattutto di frutta) senza pari in Europa e forse nel mondo. Oggi potrebbero dar vita a produzioni di altissima qualità. Qui è possibile riprendere o sviluppare la selvicultura, producendo legname di pregio, utilizzare in modi ecologicamente compatibili, quantità immense di biomassa. Chi si ricorda, poi, che queste aree sono ricche di acqua, che possono dar luogo a svariate forme d'uso? E quanti allevamenti, ad esempio avicoli, si possono realizzare, bandendo le forme intensive convenzionali? Non dimentichiamo che il paesaggio ereditato dal passato, e che vogliamo difendere, è stato creato esattamente da forme consimili di attività produttive e uso del territorio.I bassi valori fondiari di queste aree consentono inoltre la possibilità di rimettere in sesto grandi dimore padronali, spesso in abbandono, e farne sedi di ricerca scientifica, ostelli per la nostra gioventù. Ed ovviamente un diverso e meno consumistico turismo potrebbe fare scoprire i mille «tesori sconosciuti» del nostro Appennino. Io credo che occorrerebbe lavorare con i sindaci, le comunità montane, il sindacato, i nostri giovani, le associazioni di extracomunitari per ricreare queste nuove economie. Gli extracomunitari che oggi vengono cacciati e perseguitati potrebbero fornire un contributo prezioso alla rinascita di queste terre. E il movimento dei comitati potrebbe più operosamente cooperare con altre forze oggi in campo, da Slow Food alla Coldiretti. A tale scopo, ovviamente, è necessario intervenire tanto a livello locale quanto nazionale ed europeo. E' ora di finirla, e per sempre, con la teoria neoliberista, finita nell'ignominia di una crisi senza sbocchi, secondo cui lo stato deve limitarsi ad arbitrare le regole del gioco. Lo stato, parte del gioco, deve piegare le regole a vantaggio del bene comune. Il libero mercato porta a rendere convenientissimo trasformare i terreni agricoli in abitazioni o centri commerciali. Ma per la generalità dei cittadini italiani tale convenienza costituisce una perdita netta e drammatica, opera per il danno certo della presente e delle prossime generazioni. Qui si vede come il mercato è vantaggio immediato e provvisorio per pochi e danno futuro e durevole per tutti. Se lo lasciamo alla sua «libertà» nel giro di un ventennio non avremo più suoli agricoli. E qui si dovrà combattere una battaglia di valore universale, di cui l'Italia, il Bel Paese, può costituire l'avanguardia. Occorrono nuove leggi, imposte dai cittadini, all'Italia e all'Europa, che rappresentino finalmente di nuovo l'interesse generale, che seppelliscano per sempre l'infausta stagione di un diritto pensato per la libertà delle merci e per gli appetiti disordinati e devastatori dei poteri dominanti. www.amigi.org

L'articolo di Piero Bevilacqua uscirà anche sul manifesto http://www.eddyburg.it/article/articleview/16247/0/142/

Il neoambientalismo italiano di Alberto Asor Rosa.Il professor Asor Rosa ha pubblicato su "Il Manifesto" del 17 Novembre ultimo scorso questo importante contributo che invita tutti noi ad una riflessione "ragionata e propositiva". Il dibattito aperto da questo documento può essere sviluppato anche attraverso il nostro forum on line oppure dal blog della Rete dei Comitati per la difesa del territorio, accessibile dal sito http://www.territorialmente.it/blogspot.htm .  In un suo recente articolo (il manifesto, 7 novembre) Guido Viale ci invita a «cambiare dal basso». Provo a mettermi il più direttamente possibile sulla sua lunghezza d'onda. Da più di quattro anni dirigo, coordino, assisto (la varietà delle prestazioni dipende dai gusti e dalle circostanze) una singolare organizzazione, che si è denominata: Rete dei Comitati per la difesa del territorio (da due anni divenuta anche Associazione, regolarmente «registrata» come tale). Sulla singolarità di tale organizzazione conviene soffermarsi un momento, perché ne deriva tutto il resto del ragionamento.

La Rete nasce dalla scelta spontanea e volontaria di un certo numero di Comitati di base, legati a loro volta all'identità di alcune battaglie locali (locali, ma non necessariamente di limitate dimensioni: basti pensare a casi come il sottoattraversamento Tav di Firenze o l'Autostrada tirrenica), di federarsi stabilmente in una sorta di mappa organizzata delle esperienze e delle strategie. La costituzione della Rete ha favorito l'incontro dei Comitati con alcune volonterose forze intellettuali, che ne rappresentano al tempo stesso la struttura di servizio e un luogo di originale elaborazione strategica. I due momenti non sono minimamente dissociabili; e non si rapportano fra loro in una specie di nuova gerarchia del potere (spesso, infatti, l'elaborazione strategica nasce in corso d'opera all'interno anche di un singolo Comitato, magari particolarmente avvertito). La Rete dei Comitati, intesa e praticata in questa forma, è ciò che noi siamo abituati a definire «neoambientalismo italiano», per distinguerlo dall'esperienza storica (per carità, positivissima) di altre associazioni ambientaliste più centralizzate e gerarchizzate.

La Rete è nata ed diffusa prevalentemente in Toscana, ma ha agganci e rapporti con situazioni liguri, venete, umbre, marchigiane, romane, laziali. Dialoga con le altre Associazioni (Italia nostra, Legambiente, Wwf), di volta in volta incontrandosi e distinguendosi. Ha rapporti eccellenti con il Fai. Recentemente ha aperto un canale di confronto e di scambio con un altro movimento, diverso ma consimile, «Stop al consumo di territorio», presente a sua volta soprattutto in Piemonte e Lombardia (ma anche altrove). Ma esperienze di Comitati sono attive in Italia ovunque. Anzi, più esattamente, ce ne sono in giro centinaia, di dimensioni che vanno dal microscopico ai supermassimi (NoTav di Val di Susa). Confinano o talvolta s'integrano con altre esperienze analoghe (Forum dell'acqua); invadono autorevolmente il campo istituzionale (lista «Per un'altra città», ben insediata nel Consiglio comunale di Firenze).

Insomma, i Comitati per la difesa del territorio, variamente organizzati e coordinati, sono una forma nuova di concepire e vivere la democrazia italiana. Anche per il solo fatto di esserci, appunto. Ma qualche ragionamento ulteriore può essere fatto. Gli ostacoli al cambiamento dal basso - per tornare all'indicazione di Viale - sono, a giudicare dalle mia esperienza, variabili e molteplici, ma tre sempre e ovunque risaltano. Sono: 1) Il conflitto inesauribile e insanabile, piccolo o grande che sia, con i poteri forti dell'economia, della speculazione e dello sfruttamento, che si manifestano in mille modi, da quello dichiaratamente delinquenziale a quello puttanescamente istituzionale; 2) la debolezza della risposta ad parte di una larga parte dell'opinione pubblica, e della maggior parte dei grandi mezzi di uno stravolto e magari morente (ma tuttora micidiale) modello di sviluppo (ancora Viale); 3) la pressoché totale sordità nei confronti di queste tematiche da parte di tutte (ripeto per brevità: tutte, ma potrei anche specificare) le forze politiche di livello nazionale. Il primo dovrebbe essere il nemico naturale di ogni difesa del territorio, della conservazione dei beni culturali, più in generale di una buona qualità della vita. Gli altri due, invece, nemici occasionali, episodici e dunque potenzialmente recuperabili: ma come? Ma quando?

Perché questi due obiettivi, che sono decisivi, si concretizzino e si avvicinino, bisogna secondo noi (qui esprimo il parere collettivo della Rete) imprimere alla battaglia ambientale un'accelerazione sia culturale che politica (il binomio qui è meno formale che altrove). Tale battaglia ruota sempre di più intorno alla nozione di «bene comune» (mi permetto di richiamare a tal proposito un mio articolo apparso nel dicembre 2008 su la

Repubblica): le eredità culturali e artistiche, l'ambiente, il paesaggio, vanno intesi alla lettera, al pari dell'aria e dell'acqua, come patrimonio inalienabile delle generazioni umane presenti e anche, o forse soprattutto, future (si vedano, anche, gli studi e le proposte legislative elaborati in varie fasi da Stefano Rodotà). Su questo fondamento, una volta acquisito e diffuso, si possono basare una nuova cultura e una nuova politica, intese anch'esse nel senso più vasto.

In una recente riunione (Roma, 6 novembre) del Consiglio scientifico di cui la Rete si è dotata e della sua Giunta (illustrati, l'uno e l'altra, dalla presenza di molti dei più prestigiosi studiosi e specialisti del settore), sono state assunte due iniziative che si muovono nel senso predetto. La prima è la convocazione di una Conferenza nazionale dei Comitati che si occupano ovunque di difesa del territorio: l'obiettivo potrebbe esser quello di creare, non una Rete nazionale, ma una Rete di Reti, coerentemente con lo spirito del neoambientalismo, che non prevede, né in loco né fuori, rapporti gerarchici di direzione. La seconda è l'avvio della preparazione d'un grande Convegno, anch'esso nazionale, tematizzato su quello che potremmo sinteticamente definire: «Il disastro Italia», nel quale convogliare, in termini sia analitici sia di denuncia sia di progettualità propositiva, la grande risorsa intellettuale dei Comitati, accompagnata e intrecciata con quella dei molti studiosi e specialisti che l'hanno accompagnata, e che speriamo sia destinata a rafforzarsi ancor di più nel prossimo futuro.

Crescere dal basso dunque si può, ma solo se si contestualizzano e si organizzano, su di un orizzonte strategico più vasto, gli innumerevoli focolai locali. Il «salto di scala» è necessario perché ognuno di essi acquisti forza, allargando intorno a sé il consenso popolare e premendo in maniera decisamente più autorevole sulle forze politiche, locali e nazionali: cambiandone anche, cammin facendo, la natura. Mentre si studiano i modi per far fuori il cadavere di Berlusconi, e al tempo stesso si aprono le grandi manovre per assicurare la perpetuazione indefinita del berlusconismo, potrebbe essere questa una delle strade più serie e responsabili per garantire, insieme con la salvezza imprescindibile del territorio italiano, anche un salto in avanti di tutta la nostra democrazia.

Ambiente e poteri forti nella città Data di pubblicazione: 21.11.2010

Autore: Berdini, Paolo

Prosegue il dibattito sul “che fare” per invertire lea devastante tendenza in atto, nel mondo e in Italia. Tre cose da fare per partire dalle città. Il manifesto, 21 novembre 2010

Alberto Asor Rosa nel delineare i caratteri di un nuovo ambientalismo ( manifesto del 17.11) sottolinea «il conflitto inesauribile e insanabile con i poteri forti dell'economia, della speculazione e dello sfruttamento». Concordo, e la sua analisi permette di ridare spessore all'elaborazione della sinistra. Provo ad articolare il ragionamento nel campo delle città e del territorio, dove si possono misurare quattro novità che hanno mutato i contorni del conflitto e impongono dunque di mutare strategia. Innanzitutto la lacerazione dello storico "patto" tra cittadini e forze economiche dominanti . Lo sviluppo delle città era affidato ai piani regolatori e la tutela dell'ambiente ai vincoli previsti dalle prerogative costituzionali dell'Articolo 9. Nonostante scempi e violazioni, c'era comunque un sistema di regole che garantiva un quadro di legittimità. Il neoliberismo ha sostituito ogni regola con gli "accordi di programma" che mutano caso per caso il disegno delle città e azzerano i vincoli paesaggistici. La proprietà fondiaria, un ristrettissimo numero di persone, edifica dove e come vuole. La seconda novità riguarda il carattere teoricamente infinito dell'offerta di nuove costruzioni. Si continua a ricoprire di cemento l'Italia perché "c'è mercato". Uno dei pilastri dell'economia liberale classica sono le regole del gioco e nell'Europa civile le nuove costruzioni vengono programmate salvaguardando gli interessi pubblici. Non ci sono altrimenti dubbi che se si costruisse sulle colline ancora integre della Toscana, in ogni valle alpina o sulle coste ancora scampate dal cemento, si troverebbero potenziali acquirenti nei 50 milioni di ricchi russi, nei 200 milioni di nuovi ricchi cinesi. Poi verranno gli indiani e i brasiliani. Non c'è chi non comprenda il baratro che si è aperto nell'aver supinamente accettato la favola del "mercato": rischiamo la cementificazione del paese e non serve a fermarla neppure la tragica serie di alluvioni e frane. Oltre all'insipienza culturale dei gruppi dirigenti della sinistra, si dovrà mettere a fuoco l'intreccio perverso tra i proprietari delle aree da urbanizzare, le grandi banche e l'informazione (Messaggero, Mattino, Corriere

della sera, Tempo, Gazzetta di Parma e un'infinità di giornali locali). La terza novità è una diretta conseguenza della sinergia tra le due precedenti. Se non ci sono più regole e se non esiste più un limite all'ipertrofia urbana, si sta creando un corto circuito economico che porterà al collasso il tessuto produttivo del paese. La speculazione fondiaria ha davanti una comoda autostrada per rendere edificabili i terreni agricoli. Vengono comprati a 10 - 15 euro al metro quadrato e non appena l'accordo di programma li rende edificabili raggiungono il valore di almeno 200 euro. Con dieci ettari di terreno che cambia destinazione, la speculazione si mette in tasca 20 milioni di euro senza nessun beneficio per la collettività perché non si crea neppure un posto di lavoro. Il lavoro, la ricchezza per le città e per tanti lavoratori si crea costruendo. In Europa obbligano a farlo su terreni già edificati, dove i valori immobiliari sono elevati e chi costruisce guadagna soltanto sulle sue capacità imprenditoriali. Chi mai investirà nel difficile mestiere dell'imprenditore o dell'artigiano se stando comodamente seduti può mettersi in tasca una fortuna? E veniamo infine all'ultima tragica novità italiana. I comuni non hanno più risorse per realizzare servizi sociali, parchi, trasporti scuole. Per tenere in piedi i bilanci, i comuni e le loro società strumentali hanno fatto ricorso all'indebitamento sottoscrivendo quei titoli spazzatura che hanno portato al tracollo l'economia occidentale. Roma ne ha sottoscritti per oltre un miliardo di euro. Milano un'altra valanga, e così via. Afferma Loretta Napoleoni che le pubbliche amministrazioni «invece di cercare di risparmiare, sono andate dalle banche d'affari. La banca dice: tu devi pagare queste fatture per i prossimi due anni? Bene: me le compro io, ti do subito i soldi, e intanto emetto obbligazioni che poi vendo in borsa». Per tenere in piedi i bilanci, poi, tutti i sindaci, di qualsiasi colore politico, affermano che l'unico modo è quello di moltiplicare all'infinito nuove costruzioni. Ma se non ci sono più soldi sarebbe interesse di tutti bloccare l'espansione senza fine che ha interessato le città italiane nell'ultimi sedici anni. Come si può pensare di costruire nuovi quartieri quando non si hanno neppure i soldi per costruire l'illuminazione pubblica e quando ci sono infinite aree produttive dismesse e case vuote? Se questa è la diagnosi, non bastano vecchie ricette. Occorre cambiare gioco e provo ad elencare le mosse che dovremmo mettere in campo al più presto. Primo. Occorre bloccare per legge ogni espansione urbana, vincolando i comuni a ricollocarle all'interno delle aree già edificate e in stato di abbandono. Il settore delle costruzioni è un pilastro dell'economia dei paesi europei, ma per aprire una fase virtuosa anche in Italia occorre rompere per sempre il circuito infernale della rendita assoluta. Questa legge potrebbe partire dal basso, seguendo la proposta di Guido Viale, raccogliendo firme in ogni angolo dell'Italia violentata dal cemento e contrastata dai mille comitati spontanei. Secondo. Concludere per sempre la criminale stagione degli accordi di programma: basta un semplice articolo. Strillerà (molto) il manipolo di speculatori che nel periodo del trionfo berlusconiano hanno conquistato le città e distrutto l'ambiente. Terzo. Occorre restituire ai comuni - in un quadro di rigoroso controllo della spesa- i soldi tagliati per metterli in grado di governare le città. Non so se questa proposta sia collocabile nel comoda casella "dell'estremismo": lascio questo inutile esercizio alla fallimentare politica di questi anni, utilizzata ancora di recente dopo la splendida vittoria di Pisapia nelle primarie di Milano. So soltanto che è l'unica ricetta per ristabilire un futuro al nostro paese: ridare voce al popolo derubato in questi anni dei beni comuni per eccellenza, le città e l'ambiente. http://www.eddyburg.it/article/articleview/16233/0/307/Cambiare dal basso Data di pubblicazione: 07.11.2010

Autore: Viale, Guido

Una proposta politica ragionevole e coerente per uscire dalla crisi dell’economia, della democrazia e dell’ambiente. Il manifesto, 7 novembre 2010

Per chi guarda alla crisi in corso dal punto di vista di un mondo diverso alcune questioni già ampiamente dibattute in altre sedi possono essere date per scontate. Innanzitutto, se c'è o ci sarà una "ripresa" dalla crisi - il che è ancora da vedere - non sarà granché; dei tre principali indicatori con cui si misura l'andamento economico (Pil, profitti e occupazione), la ripresa potrà riguardare il Pil di alcuni paesi, i profitti di una parte, e una parte soltanto, delle imprese; ma sicuramente non riguarderà l'occupazione e i redditi da lavoro. Meno che mai possiamo pensare di andare incontro a una nuova fase di espansione economica, come quella dei cosiddetti "Trenta gloriosi" (1945-1975); per lo meno nella parte del mondo che ci riguarda. Investimenti e profitti sono ormai irreversibilmente disgiunti da occupazione e migliori condizioni di lavoro.

Il pianeta Terra è sull'orlo di un baratro dovuto all'eccessivo consumo di ambiente, sia dal lato del prelievo delle risorse che da quello dell'emissione di scarti, residui e rifiuti. Crisi economica e crisi ambientale sono indissolubilmente legate. Per questo, per garantire reddito e condizioni di vita e di lavoro dignitose a tutti è necessario un profondo cambiamento sia dei nostri modelli di consumo che dell'apparato produttivo che li sostiene. Consumi e struttura produttiva sono indissolubilmente legati: fonti energetiche rinnovabili, efficienza energetica, risparmio e riciclo di suolo e di risorse, mobilità sostenibile e agricoltura biologica, multiculturale, multifunzionale e a km0 sono i capisaldi del cambiamento necessario. Questo cambiamento impone una radicale inversione di paradigma nei processi economici, per sostituire alle economie di scala fondate su grandi impianti e grandi reti di controllo economico e finanziario (come il ciclo degli idrocarburi, dalla culla alla tomba) i principi del decentramento, della diffusione, della differenziazione territoriale, dell'integrazione attraverso un rapporto diretto, anche personale, tra produzione di beni o erogazione di servizi e consumo. L'esigenza di rilocalizzare e "territorializzare" produzioni e consumi riguarda ovviamente le risorse e i beni fisici (gli atomi) e non l'informazione e i saperi (i bit); ma questo corrisponde perfettamente al criterio guida di pensare globalmente e agire localmente.

Le attuali classi dirigenti, sia politiche (di maggioranza e di opposizione) che manageriali o imprenditoriali non sono attrezzate né sostanzialmente interessate a un cambiamento del genere. La crisi potrebbe sviluppare processi sia di compattazione autoritaria che di disgregazione del tessuto connettivo dell'economia e della società. In entrambi i casi, pericolosi per tutti. C'è pertanto bisogno di una diversa forza trainante, non solo per essere realizzare, ma anche solo per concepire e progettare nelle loro articolazioni qualsiasi trasformazione sostanziale.

Una forza del genere oggi non c'è, ma nel tessuto sociale di un pianeta globalizzato si sono andate sviluppando nel corso degli ultimi due decenni pratiche, esperienze, saperi e consapevolezze nuove, anche se prive di una "voce" commisurata alla loro consistenza o di collegamenti adeguati; sia per mancanza di risorse e di accesso ai media, sia, soprattutto, per le loro caratteristiche ancora in gran parte locali o settoriali. Ma per una riconversione di vasta portata non bastano la difesa, la rivendicazione e il conflitto; servono anche progettualità, valorizzazione dei saperi e delle competenze mobilitabili, aggregazione non solo dell'associazionismo, ma anche di imprenditorialità e di presenze istituzionali. Una aggregazione del genere delinea un perimetro variabile, ma essenziale, di una democrazia partecipativa - compatibile e per molto tempo destinata a convivere con le rappresentanze istituzionali tradizionali - le cui forme non potranno necessariamente essere simili dappertutto.

Ho evitato finora di nominare termini come decrescita, democrazia a Km0, conversione ecologica, socialismo, lotta di classe, partito e simili: parole che possono dividere. Cercando di porre l'accento su quello che unisce o può unire uno schieramento di idee, di pratiche e di organizzazioni più ampio possibile. Qui di seguito, invece, prendo posizione su questioni che possono non trovare più tutti d'accordo.

Innanzitutto ritengo che lo Stato e gli Stati siano la controparte e non gli agenti di una trasformazione come quella delineata, che non può essere governata o gestita, ma nemmeno progettata, dall'alto e in forma centralizzata. Tanto meno possono svolgere un ruolo del genere la finanza internazionale o gli organismi che la rappresentano a livello planetario o quelli in cui si articola il loro potere.

In secondo luogo, ritengo sacrosanta e irrinunciabile la difesa dell'occupazione e del reddito sui luoghi di lavoro, ma se si svolge senza mettere in discussione logica e tipologia dei beni e dei servizi prodotti, al di fuori di una prospettiva di riconversione della struttura produttiva e dei modelli di consumo vigenti, è una lotta perdente. Per esempio non porta a nulla chiedere che la Fiat produca più auto, che ne produca di più in Italia, che produca modelli a più alto valore aggiunto, cioè di lusso, che produca "auto ecologiche" (peraltro un ossimoro). Per questo ritengo fulcro della riconversione il passaggio dall'accesso individuale ai beni e ai servizi a forme sempre più spinte di consumo condiviso. Non si tratta di "collettivizzare" i consumi, ma di associarsi per migliorarne l'efficacia e ridurne i costi. Gli esempi a portata di mano sono i Gas (gruppi di acquisto solidale) che nel corso degli ultimi due anni si sono diffusi in modo esponenziale; quelli più promettenti sono l'associazionismo per gestire il risparmio energetico, installare impianti di energia rinnovabile o promuovere la mobilità flessibile. È un modello che può investire tutti i servizi pubblici locali:

trasporti, energia, rifiuti, acque, manutenzione del territorio, welfare municipale. E poi cultura, spettacolo, istruzione, formazione professionale e permanente; ma anche riuso di beni dismessi o da dismettere, attraverso la promozione di una cultura e di una pratica della manutenzione.

Certamente c'è bisogno di un quadro programmatico generale, non solo di livello nazionale, ma anche internazionale. Ma in mancanza di soggetti e agenti in grado o disponibili a farsene carico - e comunque impossibilitati a realizzarlo nelle sue articolazioni territoriali - è a livello locale che si gioca la partita; oggi un disegno programmatico generale può nascere solo dal concorso di iniziative a carattere locale, ancorché concepite con un approccio e un pensiero globali. Per questo la salvaguardia o la riconquista di un ruolo fondamentale per i poteri locali - municipalità e i loro bracci operativi - assume una valenza strategica generale: cosa che la campagna contro la privatizzazione dell'acqua ha messo in evidenza.

Niente a che fare con il "federalismo" sbandierato dalla Lega. Non c'è mai stato tanto accentramento e tanta espropriazione dei poteri locali - dall'Ici alle decisioni sulla localizzazione degli impianti nucleari; dal sequestro dei fondi Fas al taglio dei trasferimenti e all'accentramento degli interventi straordinari nelle mani della Protezione civile, cioè della Presidenza del consiglio, cioè della "cricca" - come da quando la Lega è al governo. Ma la minaccia e l'ostacolo maggiori per qualsiasi prospettiva di cambiamento radicale dello stato di cose presente sono rappresentati dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali, promossa e portata avanti sotto le false sembianze della loro "liberalizzazione". Non solo perché essa sostituisce il profitto alla valenza e alle finalità sociali dei "beni comuni". Ma soprattutto perché il divieto o la limitazione dell' in house providing, lungi dal promuovere l'efficienza dei servizi, innescano processi di aggregazione e finanziarizzazione delle gestioni; e con esse un progressivo e violento allontanamento dei poteri decisionali dal territorio di riferimento in attività che sono essenzialmente "servizi di prossimità", la cui efficacia dipende dal grado di controllo e di condizionamento - ma anche di partecipazione e di coinvolgimento - che l'utenza riesce a esercitare su di essi. La vicenda dei rifiuti urbani della Campania, la cui gestione era stata affidata nella sua interezza a una multinazionale estranea al territorio, dopo essere stata sottratta, con l'istituto del Commissario straordinario e con la militarizzazione del territorio, al già debole controllo delle rappresentanze istituzionali e della contestazione dal basso, è un caso da manuale. Come lo è la vicenda del sequestro del servizio idrico privatizzato in provincia di Latina.

Per questo la promozione di forme nuove di consumo condiviso - che vuol dire controllo o condizionamento sulle condizioni in cui il bene o il servizio vengono prodotti, distribuiti o erogati - è al tempo stesso via e risultato di una democrazia partecipata che coinvolga la cittadinanza attiva e la faccia crescere in numero e capacità di autogoverno: protagonisti ne dovrebbero diventare, secondo le modalità specifiche proprie di ciascun attore, i lavoratori e le loro organizzazioni, il volontariato e l'associazionismo di base, le amministrazioni locali o qualche loro segmento, le imprese sociali e quelle, anche private, soprattutto se a base locale, disponibili al cambiamento. La progettazione e la realizzazione di questo passaggio richiede comunque un confronto aperto tra tutti gli interlocutori potenziali; un confronto che nella maggior parte dei casi andrà imposto con la lotta; ma che in altri potrà essere favorito dal precipitare della crisi.

Le proposte maturate e già sperimentate in anni di riflessione e di pratiche in seno ai movimenti sono vincenti. In un confronto aperto e trasparente non possono che prevalere. Il che non significa che si impongano anche le soluzioni proposte: tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.

http://www.eddyburg.it/article/articleview/16150/0/283/La strategia del saccheggio nell'urbanistica di Berlusconi Data di pubblicazione: 05.12.2010

Autore: Salzano, Edoardo

Analisi del progetto berlusconiano e dell’ideologia che alimenta la devastazione urbanistica. COMetA, trimestrale di critica della comunicazione, n. 5, dicembre 2010

Un progetto, a suo modo coerente, di sostituzione del privato al pubblico ha caratterizzato la politica urbanistica di Berlusconi. Ne sono esempi principali il

cosiddetto piano-casa e gli interventi per il post terremoto all'Aquila. Linea comune è stata l'abbandono delle regole pubbliche, utili a costruire nel territorio un insieme sistemico, e il privilegio dato ad una visione individualistica dello spazio. Dimenticando che città e società sono due aspetti della stessa realtà: una non vive senza l'altra. Il consenso a questa politica l'ha trovato cambiando gli strumenti della formazione: non più scuola, parrocchia e casa del popolo, ma televisione commerciale.

Uomo di poche letture e pochi pensieri Berlusconi doveva affidarsi, anche per la sua politica urbanistica, alle pulsioni individuali e alle esperienze personali. Ecco allora i suoi due principi: ognuno è proprietario a casa sua, e fa della sua terra ciò che vuole; i problemi delle città si risolvono costruendo attorno a ciascuna di quelle esistenti una Citta Due, come ha fatto lui a Milano. Questi due principi non sono rimasti mere dichiarazioni. Si sono tradotti in coerenti politiche.

Il pilastro della visione urbanistica

Il pilastro dell’azione del Cavaliere è costituito dalla distruzione del primato dell’autorità pubblica nel governo del territorio.

É da alcuni secoli che le democrazie liberali hanno compreso che non tutti i problemi della società sono risolti dal mercato e che alcune dinamiche, come la crescita e le trasformazioni delle città e dei territorio, dovevano essere governate da un potere esterno al mercato: un potere pubblico. Il territorio è un insieme sistemico, in cui la modifica di un elemento comporta modifiche in tutti gli altri: non si possono sistemare le fabbriche se si trascura l’inquinamento che producono e le infrastrutture che devono alimentarle; non si possono localizzare le abitazioni e le scuole se non si organizzano in loro funzione ferrovie e strade; non si possono localizzare le urbanizzazioni senza sapere che risorse naturali ci sono sotto la superficie. Ecco che allora, già agli albori del XIX secolo, le democrazie borghesi inventarono la pianificazione urbanistica (poi estesa al territorio): un insieme di metodi e strumenti anch’esso, appunto, di carattere sistemico.

La pianificazione urbanistica, in un regime democratico, consente anche trasparenza (maggiore o minore) nella regolazione dei conflitti che nascono tra le diverse utilizzazioni possibili del suolo: conflitti inevitabili nel regime economico e patrimoniale attuale nel mondo capitalistico. Quali che siano comunque gli interessi che si vogliono privilegiare, le leggi delle borghesie liberali disponevano comunque che, in caso di contrasto tra interesse pubblico e interesse privato nell’uso del territorio, fosse il primo a prevalere. Ed è esattamente in questo spirito che le prime leggi urbanistiche del XIX secolo (e in Italia, dal 1865 fino alla legge urbanistica del 1942) determinavano l’esproprio per pubblica utilità, il pagamento di indennità che non remuneravano il maggior valore derivante dalle opere e le decisioni pubbliche, il prelievo fiscale di una quota dei plusvalori derivanti da queste. E adottavano, come quadro prescrittivo di tutte le trasformazioni della città (poi del territorio) la pianificazione.

La demolizione della pianificazione urbanistica è al fondo della visione urbanistica del Cavaliere proprio per le stesse ragioni che ne hanno storicamente motivato nascita e consolidamento. Lo è perché la pianificazione esprime un insieme di regole dettate dal potere pubblico, e lo è perché esprime una visione olistica della politica (quindi antagonista rispetto alla pratica discrezionale del caso per caso e del “quando voglio faccio”). L’odio per la pianificazione urbanistica si esprime in numerosi atti di governo, e in dichiarazioni pubbliche che hanno, nella società attuale, altrettanto valore di una norma.

La continua riproposizione dei condoni dell’abusivismo edilizio e urbanistico ha costituito un invito quasi esplicito a disprezzare piani e regole, “tanto prima o poi ogni abuso sarà condonato”. L’allentamento dei controlli edilizi (dalla concessione edilizia, via via, fino all’autocertificazione dell’intervento) ha significato passare gradualmente dal principio “il potere pubblico stabilisce che cosa si può fare e che cosa si può fare sul territorio e poi il privato agisce e viene penalizzato se contravviene”, al principio “fai quello che vuoi e se violi qualche legge poi, se ho tempo e voglia, provvederò eventualmente a penalizzarti”. Il trasferimento della potestà deliberativa su scelte rilevanti per l’organizzazione del territorio dagli organi elettivi collegiali agli organi di maggioranza e a quelli monocratici (dai consigli alle giunte e ai sindaci e presidenti), hanno vanificato la capacità di controllo da parte delle minoranze e di conoscenza da parte dei cittadini, sacrificando la democrazia al mito della governabilità. L’impoverimento degli strumenti della funzione pubblica, obbligati a ridurre la quantità e la qualità del personale e delle strutture, a cominciare da quelle

addette alla pianificazione del territorio e alla vigilanza su di esso ha reso via via impossibile governare efficacemente anche quelle amministrazioni (e non sono molte) che hanno cercato di andare controcorrente. Si è addirittura giunti ad attribuire funzioni rilevantissime, geloso appannaggio dell'amministrazione pubblica, a soggetti ( commissari) scelti in ragione della loro fedeltà al gruppo di potere dominante, con pieno potere di sostituzione agli organi democratici e di deroga dalle procedure di legge. La privatizzazione e commercializzazione dei beni pubblici è stata la conseguenza patrimoniale di quelle azioni sui dispositivi [1].

“Piano-casa” e dopo-terremoto

I casi più rappresentativi della visione urbanistica berlusconiana sono rappresentati da due avvenimenti: il famoso “piano-casa”, la gestione del dopo terremoto in Abruzzo.

Chiamare “piano-casa” quel singolare provvedimento, più mediatico che strutturale, lanciato da Berlusconi nel marzo 2009 è stato già di per sé un bluff. Il provvedimento annunciato con quel titolo non è un programma finalizzato alla realizzazione di alloggi per quelle fasce di abitanti della Repubblica che non riescono a trovare soddisfazione rivolgendosi al mercato privato (come fu per tutti i provvedimenti che si sono susseguiti dalla Liberazione a Prodi), ma semplicemente l’incentivo a chi possedeva già un’abitazione, o comunque un volume edificato, di ampliare la sua proprietà immobiliare e trasformarla nelle sue utilizzazioni, derogando esplicitamente da tutti i regolamenti e i piani nonché (almeno in una prima fase) dalle stesse norme di prevenzione dai rischi o di tutela dei beni culturali e del paesaggio.

Era facile comprendere che aumentare le cubature e le superfici delle costruzioni esistenti in deroga a piani (per di più già spesso sovradimensionati) avrebbe significato compromettere tutte le condizioni della vivibilità: peggiorare le condizioni del traffico, il carico delle reti dell’acqua e delle fogne, ridurre l’efficienza delle scuole, del verde, dei servizi sociali, peggiorare le condizioni dell’aria e dell’acqua, ridurre gli spazi pubblici, rendere più difficile la convivenza. E avrebbe significato privilegiare, nell’economia, le componenti parassitarie rappresentate dalla speculazione immobiliare rispetto a quelle della ricerca, dell’innovazione dei sistemi produttivi, dell’utilizzazione delle risorse peculiari della nostra terra.

Tutti sono caduti nella trappola. Dimenticando la realtà (cioè l’esistenza di un vero “problema della casa”, che quel provvedimento non affrontava neppure marginalmente), trascurando l’impatto che quella linea d’azione avrebbe avuto sulle condizioni delle città, ignorando perfino la sua evidente incostituzionalità [2], tutti accettarono per moneta sonante il “piano-casa”; tranne pochissime eccezioni. Fu addirittura una “regione rossa”, la Toscana, ad adeguare per prima la sua normativa al dictat berlusconiano. Certo, limandone le punte più aspre, ma accettando comunque quel tema: arricchire l’edilizia privata, consolidare il “blocco edilizio”, premiando gli immobiliaristi piccoli e grandi invece di affrontare il problema di chi la casa non ce l’ha.

La “ricostruzione” dei luoghi colpiti dal terremoto in Abruzzo (l’altra scelta emblematica del regime berlusconiano) è una sintesi dell’immaginario urbanistico del Cavaliere. Già nei primi giorni del dopo-terremoto aveva colpito il modo in cui il premier aveva afferrato l’occasione del terremoto per farsi propaganda. Ha colpito gli osservatori più attenti il divario tra la sicumera delle promesse sui tempi e sull’ampiezza della ricostruzione e i tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le voci delle infiltrazioni mafiose negli “affari” della ricostruzione, agevolati dalla logica discrezionale dell’emergenza straordinaria e del ricorso al commissariamento. Hanno colpito le condizioni di vita nelle tendopoli: una vita più simile a quella di un campo di concentramento che al riparo provvisorio d’una comunità di cittadini.

Ma la vera tragedia è stata nel modo adottato dal governo (e sostanzialmente accettato dall’opposizione) di procedere alla ricostruzione in riferimento soprattutto a due scelte, tra loro strettamente collegate: l’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la ricostruzione “altrove” delle case distrutte.

Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è

rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.

Con la seconda scelta si è deciso sostituire, alla ricostruzione della città danneggiata dal sisma, un paio di decine di lottizzazioni su aree scelte casualmente senza nessuna logica territoriale e sociale. Lottizzazioni per di più senza attrezzature sociali, senza luoghi di aggregazione: “con una cura maniacale dell’interno degli alloggi”, come scrivono gli autori del rapporto che per primo ha rotto il velo roseo che avvolgeva l’operazione [3], che rivela come per l’ideologia di Berlusconi (le esigenze dell’uomo si riducono a quello dell’individuo: la società cui appartiene non esiste e non interessa. Anzi, può essere minacciosa. Che ciascuno sia solo nel suo guscio, naturalmente alimentato da un televisore.

Le scelte del dopo-terremoto hanno colpito direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città svuotata della società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive, non è una città più di quanto lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione) privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi.

Questa, del resto, è la direzione di marcia dell’attuale maggioranza, debolmente e inefficacemente contrastata dall’opposizione. L’impiego del ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Non aveva promesso Berlusconi una “new city” per ogni capoluogo di provincia?

Come per il “piano-casa” anche per la cosidetta “ricostruzione” in Abruzzo l’opposizione è caduta in pieno nella trappola mediatica. Per molti mesi, quando i progetti erano chiarissimi nella loro impostazione e nel loro svolgimento, perfino la stampa più ostile esprimeva lodi per il comportamento della coppia Berlusconi-Bertolaso. Il fatto è che entrambi i versanti dello schieramento politico e culturale condividono le stesse preferenze: privilegiare la governabilità sulla democrazia, scegliere la tempestività dell’intervento trascurando ricerca laboriosa della soluzione più idonea, cancellare la storia e dimenticare così gli ammaestramenti del passato.

L’urbanistica di Berlusconi esprime, in larghissima misura, una strategia che non può che definirsi bipartisan. Una strategia che assume una certa idea di “sviluppo” come l’obiettivo generale cui tendere e cui ispirare l’intera dinamica della società, che vede nel mercato lo strumento capace di misurare, meglio d’ogni altro, non solo il “valore di scambio” delle merci, ma ogni valore che abbia un senso, e che infine nega, o nasconde, o riduce al massimo, la dimensione pubblica privilegiando al massimo quella privata. Ma Berlusconi innesta una marcia in più: assume privatisticamente i poteri pubblici, utilizzando per gestirli i suoi commissari. Les jeux sont faits; il mito del mercato è stato utilizzato per sostituire a quest'ultimo il potere monopolistico di un monarca assoluto.

La strategia del saccheggio

Nella concezione berlusconiana dell’uso del territorio (e più in generale dei beni comuni) l’obiettivo si specifica con chiarezza, esprimendosi in quella che si può definire la strategia del saccheggio[4]. Bisogna far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa. Bisogna negare l’esistenza di beni non riducibili a merci, perchè se ogni cosa è “merce”, ogni cosa è soggetta al calcolo economico e il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte. Bisogna abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie.

Ecco allora che il suolo deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non

chiede né lavoro, né imprenditività, nè rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Devono essere privatizzati gli elementi del paesaggio la cui “valorizzazione” può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.

Naturalmente, come abbiamo visto, si devono distruggere le regole. Ma farlo non si può senza ottenere il consenso necessario, poiché (e finché) si opera in un contesto nel quale bisogna rispettare le forme della democrazia. Allora bisogna cambiare la testa della gente. Via lo spirito critico, via la conoscenza, via il sapere diffuso. Via la memoria, se il passato recente ricorda ai più anziani che cosa era stato conquistato e che cosa ci stanno togliendo. E via la storia, magistra vitae e testimonianza del fatto che non tutto è già scritto e che il futuro non è necessariamente appiattito sul presente (non è vero che “There Is No Alternatives”).

Per cambiare le teste basta cambiare gli strumenti della formazione: non più la scuola, la parrocchia, la casa del popolo, è la televisione commerciale che foggia le teste e le coscienze della gente da almeno trent’anni. E allora, disponendo di questo strumento si può far diventare pensiero corrente gli slogan utili alla strategia del saccheggio (“meno stato più mercato”, “privato è bello”, “padrone a casa mia”, “meno tasse per tutti”) e far credere alla “gente” che benessere significa modernizzazione, sviluppo significa crescita, democrazia significa votare una volta tanto, privato è meglio che pubblico, Io è meglio che Noi.

[1]A proposito delle iniziative di Berlusconi nel settore immobiliare (quindi nel campo del territorio e dell'urbanistica), Walter Tocci osserva che «l'insieme di questi provvedimenti configura una coerente politica nazionale, forse l'unica che può fregiarsi di questo titolo, poiché in nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di obiettivi e di realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia tra destra e sinistra». "L’insostenibile ascesa della rendita urbana", Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 27.

[2]Vincenzo Cerulli Irelli, Luca De Lucia, “Il secondo 'piano casa': una incostituzionale depianificazione del territorio”, Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 106-116.

[3]Comitatus Aquilanus, L’Aquila. Non si uccide così anche una città?, a cura di Georg Frisch, Clen, Napoli 2009

[4]Questi temi sono affrontati più ampiamente nel sito web eddyburg.it. Vedi in particolare l'”eddytoriale” n. 143. http://www.eddyburg.it/article/articleview/16296/0/14/Se il mondo perde il senso del bene comune Data di pubblicazione: 10.08.2010

Autore: Rodotà, Stefano

La lotta per la difesa e la conquista dei beni comuni (dall’acqua alla conoscenza) è il centro nevralgico della politica dei nostri anni, in Italia e nel mondo. La Repubblica, 10 agosto 2010

Pochi giorni fa l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale di ogni persona. L’anno scorso il Parlamento europeo ha parlato di un diritto fondamentale di accesso ad Internet. Apparentemente lontane, queste due importanti prese di posizione di grandi istituzioni internazionali si muovono sullo stesso terreno, quello dei beni comuni, attribuiscono il rango di diritti fondamentali all’accesso di tutti a beni essenziali per la sopravvivenza (l’acqua) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza).

Nell’ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti, Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva: «Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della

proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono appunto i beni comuni – dall’acqua all’aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e ambientali – al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.

Tra India e Pakistan è in corso una guerra dell’acqua; in Italia la questione dell’acqua è divenuta ineludibile dopo che un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la richiesta di un referendum; il parlamento islandese ha deciso che Internet debba essere il luogo di una libertà totale, uno sterminato spazio comune dove sia legittimo rendere pubblici anche documenti coperti dal segreto. Il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, e non può essere affrontato senza una riflessione culturale e politica.

Un misero esempio italiano di questi giorni ci mostra l’inadeguatezza degli schemi tradizionali e i rischi che si corrono. Da poco dichiarate dall’Unesco patrimonio dell’umanità, le Dolomiti sono oggetto di una mortificante contabilità, che sarebbe ridicola se dietro di essa non si scorgesse lo sciagurato "federalismo demaniale" che, trasferendo agli enti locali beni importantissimi, mette questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi mercantili o privatizzati o comunque destinati "a far quadrare i conti". E proprio questa eventualità mostra la debolezza dell’argomento, usato per l’acqua, secondo il quale basta che un bene rimanga in mano a un soggetto pubblico perché venga salvaguardato. Non è questione di etichette. È la natura del bene a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell’umanità".

Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla "ragionevole follia" dei beni comuni. Questo ossimoro, che dà il titolo a un bel libro di Franco Cassano, rivela un compito propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai stabilito tra beni comuni e diritti del cittadino. Un bene come l’acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l’argomento della crescita della produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l’oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l’accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?

Così i beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall’innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l’effetto ben può essere quello di "un’erosione delle basi morali della società", come ha scritto Carlo Donolo. In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s’erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell’estrema individualizzazione degli interessi, s’incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell’uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell’eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell’accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d’ogni persona.

Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con problemi interamente nuovi. Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie dei passato. Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la proprietà dev’essere resa "accessibile a tutti" e quando, nell’articolo 43, indica una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata. Qui è l’ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano. http://www.eddyburg.it/article/articleview/15635/0/373/