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Stato, società e cultura nel nazionalismo sardo del secondo dopoguerra di Gian Giacomo Ortu Alcuni chiarimenti preliminari Il nazionalismo sardo che dalla metà degli anni sessanta è andato assumendo una sua individuata e riconoscibile fisionomia, sol- tanto negli ultimi tempi ha avuto la possibili- tà di giocare un ruolo autonomo nel quadro politico regionale. Nazionalista e dichiarata- mente indipendentista è anzi il partito che esprime l’attuale (settembre 1985) presidente della Giunta regionale, Mario Melis, e cioè il Partito sardo d’Azione (Psd’A). Va tuttavia aggiunto che all’esterno, sui margini e all’interno del nazionalismo pro- prio del Partito sardo s’agita e fluttua un in- sieme inquieto di opzioni, progettualità ed idealità diverse, spesso fortemente divergen- ti. Minimizzare questa complessa fenomeno- logia nazionalista, o persino farla sparire con eleganti escamotages logici, è operazione sol- tanto polemica. Così, molto recentemente, un filosofo della politica ha potuto scrivere che se i nazionalisti sardi partono “dalla pre- messa dell’esistenza (vera o presunta) di un popolo sardo che insegue l’obiettivo della ri- nascenza etnica, cioè della propria realizza- zione come nazione, allora la prospettiva dell’indipendenza-separazione dallo Stato italiano... è una conclusione logicamente ob- bligata”1. Ma il piano delle argomentazioni logiche non coincide sempre con quello della realtà, e si può allora ben diversamente osservare che almeno nella Sardegna di questi anni il nesso nazionalismo-separatismo non ha na- tura meccanica, e che se pure si possa ricono- scere al nazionalismo sardo una certa identi- tà con se stesso, separatismo, indipendenti- smo, federalismo e altro ancora, sono tutte cose diverse e il loro rapporto non è né logi- co, né transitivo, ma politico e dialettico. Precisato questo, tengo comunque ad esprimere subito una personale insofferenza nei confronti della tendenza presente nella gran parte del nazionalismo sardo ad anco- rarsi ad un concetto di “nazione sarda” che si definisce oggettivamente, o per il rapporto ad una etnicità originaria o come espressione antica e sempre riemergente di una qualche volontà popolare e collettiva. In verità, come ho anticipato, il nazionali- smo è in Sardegna d’origine recente, deriva anzi la sua vera ed unica presenza nell’intera vicenda storica dell’isola dal grande disagio della società e della cultura regionali, conse- guente allo scarto abissale tra le aspettative nell’autonomia (e in particolare nel Piano di sviluppo economico e sociale del 1962) e i suoi risultati effettivi. È stato questo scarto a determinare una crisi di legittimità dello Sta- 1 Virgilio Mura, Nazionalità e neo-nazionalismo sardo: un non-sense tira l'altro, in “Ichnusa”, 1985, n. 8, pp. 13- 14. Italia contemporanea”, dicembre 1985, 161

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Stato, società e culturanel nazionalismo sardo del secondo dopoguerra

di Gian Giacomo Ortu

Alcuni chiarimenti preliminari

Il nazionalismo sardo che dalla metà degli anni sessanta è andato assumendo una sua individuata e riconoscibile fisionomia, sol­tanto negli ultimi tempi ha avuto la possibili­tà di giocare un ruolo autonomo nel quadro politico regionale. Nazionalista e dichiarata- mente indipendentista è anzi il partito che esprime l’attuale (settembre 1985) presidente della Giunta regionale, Mario Melis, e cioè il Partito sardo d’Azione (Psd’A).

Va tuttavia aggiunto che all’esterno, sui margini e all’interno del nazionalismo pro­prio del Partito sardo s’agita e fluttua un in­sieme inquieto di opzioni, progettualità ed idealità diverse, spesso fortemente divergen­ti. Minimizzare questa complessa fenomeno­logia nazionalista, o persino farla sparire con eleganti escamotages logici, è operazione sol­tanto polemica. Così, molto recentemente, un filosofo della politica ha potuto scrivere che se i nazionalisti sardi partono “dalla pre­messa dell’esistenza (vera o presunta) di un popolo sardo che insegue l’obiettivo della ri­nascenza etnica, cioè della propria realizza­zione come nazione, allora la prospettiva dell’indipendenza-separazione dallo Stato italiano... è una conclusione logicamente ob­bligata”1.

Ma il piano delle argomentazioni logiche non coincide sempre con quello della realtà, e si può allora ben diversamente osservare che almeno nella Sardegna di questi anni il nesso nazionalismo-separatismo non ha na­tura meccanica, e che se pure si possa ricono­scere al nazionalismo sardo una certa identi­tà con se stesso, separatismo, indipendenti­smo, federalismo e altro ancora, sono tutte cose diverse e il loro rapporto non è né logi­co, né transitivo, ma politico e dialettico.

Precisato questo, tengo comunque ad esprimere subito una personale insofferenza nei confronti della tendenza presente nella gran parte del nazionalismo sardo ad anco­rarsi ad un concetto di “nazione sarda” che si definisce oggettivamente, o per il rapporto ad una etnicità originaria o come espressione antica e sempre riemergente di una qualche volontà popolare e collettiva.

In verità, come ho anticipato, il nazionali­smo è in Sardegna d’origine recente, deriva anzi la sua vera ed unica presenza nell’intera vicenda storica dell’isola dal grande disagio della società e della cultura regionali, conse­guente allo scarto abissale tra le aspettative nell’autonomia (e in particolare nel Piano di sviluppo economico e sociale del 1962) e i suoi risultati effettivi. È stato questo scarto a determinare una crisi di legittimità dello Sta-

1 Virgilio Mura, Nazionalità e neo-nazionalismo sardo: un non-sense tira l'altro, in “Ichnusa”, 1985, n. 8, pp. 13- 14.

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to italiano in Sardegna, l’insórgenza di un senso di distacco che si è appunto espresso nelle forme diverse di un autoriconoscimento etnico-nazionalistico.

Del resto, al di là della specifica vicenda del rapporto tra la Sardegna e lo Stato italia­no, sono tutti i maggiori e più evoluti stati contemporanei a vedere oggi erosa la propria base di legittimazione. Una legittimazione che negli ultimi decenni ancor più che dall’i­deologia dell’unità nazionale-statuale è stata fornita dallo sviluppo economico e dalla dif­fusione di standards di vita più elevati2. Il riemergere prepotente di nuovi fermenti na­zionalistici persino nell’Europa occidentale, culla dello Stato-nazione, non è che una delle espressioni, e certo non la più rilevante, della perdita di credibilità dello Stato in quanto tale.

Ho sinora utilizzato, con disinvoltura, un concetto come quello di “nazionalismo” tut- t ’altro che definito, e anzi carico di ambigui­tà. Il motivo è che non ne trovo uno miglio­re. Mi proverò quindi a chiarire almeno il si­gnificato che gli riconosco, per l’uso che ne ho fatto e ne farò.

In Sardegna, nell’ambito del movimento nazionalistico, è corrente il concetto di “na­zione” canonizzato da Sergio Salvi. Anche se questi, per la verità, trovando il termine “na­zione” troppo compromesso dall’associazio­ne storica e semantica alla statualità, ha pro­posto per le “nazioni proibite” la sua sostitu­zione con il termine “nazionalità” , a indicare “un gruppo umano che abita un territorio determinato e che si differenzia dagli altri

gruppi per un insieme di caratteristiche che possono essere linguistiche, culturali (in sen­so ampio), storiche e socio-economiche, le quali comportano nei membri di questo gruppo la coscienza di un’identità particola­re, non necessariamente esplicita, che si con­creta nella tendenza ad organizzare autono­mamente il proprio spazio politico, culturale e perfino amministrativo (ciò che in determi­nati contesti si chiama Stato)”3.

A legger bene, ma Salvi stesso non lo nega, si tratta di uno sviluppo della classica e cate­chistica definizione di Stalin della nazione come “una comunità stabile, storicamente formatasi, di lingua, di territorio, di vita eco­nomica e di conformazione psichica che si manifesta nella comune cultura”4.

Rispetto all’accezione staliniana, di carat­tere grezzamente sociologico-materialistico, la definizione di Salvi presenta un più di sto­ricità e di politicità, ma come quella manca nettamente la presa sul vero segno distintivo della nazione o della nazionalità (Salvi non mi convince di una sostanziale differenza tra i due termini), e cioè d’essere soprattutto un insieme di comportamenti e di disposizioni collettive — più o meno volontari, più o me­no consapevoli — che si definiscono rispetto allo Stato, ma non a qualunque tipo di Stato, bensì allo Stato moderno come soggetto e si­stema di dominio territoriale5.

E affermare questo non significa ritenere che gli stati moderni siano inevitabilmente nazionali, poiché anzi sono prevalentemente plurinazionali, ma riconoscere che è soprat­tutto il loro processo storico di formazione

2 Cfr. Gianfranco Poggi, La vicenda dello stato moderno, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 209 sgg.3 Sergio Salvi, Patria e mutria, Firenze, Vallecchi, 1978, p. 26. Per una sintesi delle ricerche di Salvi, cfr. il suo Na­zioni ed etnie, in lì mondo contemporaneo. Storia d'Europa, 4, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 1771-78. Una Storia dell’idea di “nazione sarda” sull’ispirazione metodologica di Salvi è stata scritta da Federico Francioni per l’enciclopedia Sardegna, a cura di Manlio Brigaglia, Cagliari, E. Della Torre, 1982, sez. Autonomia, pp. 165-83.4 J. Stalin, Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, Torino, Einaudi, 1974, pp. 52-53.5 Mi rifaccio ad autori di diversa impostazione ideologica, metodologica e disciplinare: Mario Albertini, Lo Stato moderno, Milano, Giuffrè, 1960, in part, ai capp. Ill e IV; José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1962, p. 157-59; Ernest Gellner, Nazioni e nazionalismo, Roma, Editori Riuniti, 1985, pp. 5-10.

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che ha ridisegnato secondo confini e frontie­re nazionali lo spazio, più o meno “natura­le” , “spontaneo”, o comunque “dato” , delle comunità etniche6. E ciò non è contraddetto dal fatto che le comunità etniche restino in qualche modo sempre presenti, capaci di esprimere tensioni e aspirazioni culturali e politiche, poiché queste stesse tensioni e aspi­razioni devono alla fine rapportarsi a un contesto generale di realtà nazionali e statua­li. Qualunque etnicismo, insomma, nel mo­mento stesso in cui emerge, in cui acquista una qualche coscienza di sé e una volontà di riconoscimento istituzionale, diventa un na­zionalismo7.

La comunità etnica può restare fuori del­l’orizzonte del politico soltanto come utopia, come valore che trascende la realtà storica, che può anche farsi “pratico” nell’atteggia­mento di individui o di gruppi limitati, ma mai assumere la consistenza di un’ideologia collettiva. Guardare al presente dalla comu­nità etnica come utopia può anche consentire di vedere meglio il re nudo, di smascherare “la statificazione della vita, l’interventismo dello Stato, l’assorbimento di ogni sponta­neità sociale da parte dello Stato”8, ma non può offrire alcun canone di interpretazione sociale o storica.

Premesso tutto ciò, nel seguito di questo lavoro non mi formalizzerò troppo nell’uso dei termini etnia, nazione, nazionalità, po­polo sardo ecc., né starò a chiedermi oltre se un’etnia o un popolo sardo esistano davvero,

magari richiamando tutti i luoghi comuni sui fattori naturali e storici dell’identità sar­da: l’insularità-isolamento, l’arcaicità e ori­ginalità della vita pastorale, la costante di una resistenza anticoloniale...9. Questa esi­stenza posso anche darla per scontata, ma un’etnia non produce necessariamente del nazionalismo, e in Sardegna sino a que­sti ultimi venti anni non lo aveva mai pro­dotto.

Gli anni del nazionalismo mancato (1943-1964)

C’è un’immagine di Camillo Bellieni, uno dei fondatori del Partito sardo, che può consentirmi di riassumere in breve tutto il tempo della storia della “nazione sarda” che non entra in queste brevi note: la Sarde­gna come “nazione abortiva”, la Sardegna cioè che non ha mai realizzato una sua uni­tà nazionale come unità politica, statuale. L’immagine, ripresa anche da Emilio Lussu — la Sardegna come “nazione fallita” —, esprimesse bene la consapevolezza che il sardismo del primo dopoguerra ebbe di es­sere un movimento regionale10.

Il che non esclude che esso esprimesse an­che fermenti o bagliori di coscienza nazio­nale sarda, e persino marginali tendenze se­paratiste; conferma però che la sua ideologia non fu nazionalista, se non nel senso di un nazionalismo italiano, poiché la sua preoc-

6 Cfr. Charles Wright Mills, L ’immaginazione sociologica, Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 145: “Lo Stato-nazio­ne ha scisso e organizzato, in vario modo e misura, le civiltà e i continenti della terra. L’arco della sua diffusione e gli stadi del suo sviluppo sono elementi fondamentali della storia moderna e, oggi, mondiale”.7 Cfr. Anthony D. Smith, Il revival etnico, Bologna, Il Mulino, 1974, p. 41.8 La citazione è da J. Ortega y Gasset, cit., p. 113.9 Per questi motivi culturali del sardismo in genere cfr. Gian Giacomo Ortu, Storiografia e politica in Sardegna, Cagliari, Cuec, 1984.10 Per Bellieni: I Sardi di fronte all’Italia, in Salvatore Sechi, / / movimento autonomistico in Sardegna, Fos- sataro, Cagliari, 1975, pp. 145-53; per Lussu: L ’avvenire della Sardegna, in “Il Ponte”, 1951, n. 9-10, pp. 957-64. Sull’ideologia del primo sardismo cfr. Gian Giacomo Ortu, Sardismo e antifascismo, in Mario Giova- na (a cura di), Resistenza, autonomia e problemi delle autonomie nell’Italia 1943-45, Roma, Upi, 1985, pp. 111-23.

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cupazione maggiore fu proprio quella del­l’ordinamento democratico, regionale-auto- nomistico, o al più federale, dello Stato ita­liano.

È soltanto nel secondo dopoguerra, e so­prattutto nel periodo che va dalla proclama­zione dell’armistizio alle elezioni per la Co­stituente, che la tradizionale ispirazione au­tonomista del Partito sardo volge a conati di dichiarato indipendentismo. Il fenomeno, di consistenza ragguardevole, soprattutto tra i quadri giovani, si alimenta di un complesso vario di fattori. C’è il disagio economico, ag­gravato, dopo l’8 settembre, dalla brutale espropriazione delle risorse dell’isola per ef­fetto di quella sorta di scambio ineguale che si instaura per la differenza di valore deter­minatasi nel corso della guerra tra la lira cor­rente nella penisola, soggetta ad un forte processo inflazionistico, e la lira corrente nell’isola, alla quale una situazione di merca­to chiuso ha consentito di mantenere un maggiore potere d’acquisto.

Tra i sardisti rimasti immuni dal contagio del regime era poi andato maturando una sorta di astio nei confronti dello Stato italia­no, ritenuto, per l’operazione Gandolfo del 1923, il vero responsabile della fascistizza­zione dell’isola con il soffocamento di ogni sua istanza autonomistica11. L’adesione im­mediata dei ricostituiti partiti democratici, del Partito comunista e della Democrazia cri­stiana in particolare, alle tematiche dell’au­tonomia sembra portare, infine, una minac­cia alla stessa identità ideale e politica del Partito sardo, che di quelle tematiche riven­dica paternità e titolarità.

Tra la fine del 1943 e il principio del 1944 elementi sardisti si vanno così organizzando, autonomamente dal partito, per forzare la si­tuazione politica isolana con la proclamazio­ne di una Repubblica sarda indipendente ed eventuale appello alla Carta atlantica. Non si esclude neppure un’azione di forza per occu­pare i più importanti uffici pubblici. Il pro­getto abortisce sul nascere e lo scontro decisi­vo, nel Partito sardo, tra indipendentisti e fe­deralisti ortodossi avviene nell’agosto del 1944, nel corso del congresso di Macomer, sulla proposta avanzata da Lussu e da Fran­cesco Fancello di una stretta alleanza con il Partito d’Azione.

La frazione separatista è battuta nella sua linea di un’assoluta autonomia del Partito sardo, motivata come rifiuto della stessa par­tecipazione alla lotta politica nazionale. Nel riassetto organizzativo del dopo congresso, via via che si riafferma anche se temporanea­mente l’egemonia del gruppo lussiano, il fronte degli indipendentisti viene rapidamen­te svuotato: alcuni quadri sono riassorbiti nell’ortodossia lussiana (è il caso di Anton Francesco Branca), altri, come nel caso del gruppo cagliaritano di Giovanni Maria An- gioy, vengono emarginati. Non manca tutta­via chi, come ad esempio Peppino Barranu, continuerà a svolgere per qualche anno un ruolo di rilievo nell’organizzazione e nel mo­vimento12.

Che l’indipendentismo del secondo dopo­guerra non sia però soltanto un fuoco fatuo lo dimostrano altri due episodi. Uno è la comparsa, alla vigilia delle elezioni per la Costituente, della Lega sarda di Bastià Pirisi,

11 Gandolfo con la promessa di ampie concessioni all’autonomismo del Partito sardo, era riuscito, sul principio del 1923, a provocare la confluenza di una sua parte nel Pnf: S. Sechi, Dopoguerra e fascismo in Sardegna, Torino, Fon­dazione Einaudi, 1969, al cap. V ili.12 Su queste vicende si veda l’introduzione di Virgilio Lai alla sua raccolta Periodici democratici e numeri unici, Ca­gliari, Edes, 1975, voi. 2 della collana Stampa periodica in Sardegna (1943-49). Vi sono contenuti anche testi del pe­riodico indipendentista “Forza Paris”, diretto da Peppino Barranu. Di questi cfr. la memoria Sardismo, federalismo e separatismo, in Aa.Vv., Lotte sociali, antifascismo e autonomia in Sardegna, Cagliari, E. Della Torre, 1982, pp. 165-71. G.M. Angioy sarà nel 1953 l’organizzatore clandestino dell’Alleanza democratica nazionale in Sardegna, nella battaglia contro la legge truffa.

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vecchio militante sardista del primo dopo­guerra. Le basi di questo gruppo erano state gettate sin dal 1944, a Roma, quando esso aveva anche tentato di stabilire un contatto col Comando alleato. Il caso della Lega sar­da, che alle elezioni del 2 giugno ottiene po­co più del 2% dei voti sardi, è comunque quello di un separatismo conservatore, dalle dubbie motivazioni “sardo-nazionali”, so­stanzialmente antiautonomista, nonostante il riferimento di prammatica all’ipotesi di una Confederazione di stati italiani, che condivide col movimento siciliano di Finoc- chiaro Aprile13.

Più significativa, anche perché destinata a restare nell’alveo ideale del nazionalismo sardo, è l’esperienza, tra il 1943 e il 1944, del Partito comunista di Sardegna, promos­sa da Antonio Cassitta e da Giovanni Antio­co Mura (vecchio e prestigioso organizzatore socialista dei lavoratori delle campagne lo- gudoresi). Il programma di questo gruppo si ricollega alle istanze federaliste del primo periodo clandestino del Pei, ma deriva una sua tendenza libertaria e autonomistica dalla tradizione sindacalista e da quella sardista. Condannata dal Pei nella conferenza di Igle­sias del 1944, l’esperienza si spegne rapida­mente e mentre Cassitta rientra nell’ortodos­sia, Mura continuerà a sviluppare, in solitu­dine, un suo discorso di socialismo radical­mente sindacalista e libertario14.

Anche valutati nel loro insieme questi tre episodi non manifestano tuttavia l’emergere in Sardegna di un vero e proprio movimento nazionalista. Negli stessi casi più rilevanti, quello del Pcs e quello dell’ala indipendenti­

sta del Partito sardo, i riferimenti teorici e politici sono datati e alquanto basso il livello di una loro rimeditazione. Nel primo caso derivano dal motivo tutto propagandistico e scarsamente credibile della Federazione delle repubbliche socialiste sovietiche d’Italia, che nel Pei era caduto del tutto dopo il congres­so di Colonia del 193115. Nel secondo attin­gono alla querelle sulla soluzione moderata e centralista dell’unificazione italiana, eclet­ticamente alimentata da tutte le sue succes­sive concrezioni storiche, dal federalismo di Cattaneo al repubblicanesimo conseguente di Mazzini, dal meridionalismo di Salvemini al sindacalismo di Sorel; con in più, natu­ralmente, la specifica tradizione democrati­ca sardista (dall’Angioy al Tuveri al Bel- lieni).

È peraltro significativo che questa corren­te, pur senza approfondire né il problema della nazionalità, né quello dello Stato (scon­tato e scarsamente articolato è lo stesso di­scorso sul federalismo che resta all’orizzon­te, quasi una soglia insuperabile per una mal­certa riflessione sul rapporto tra Stato e so­cietà), abbia in sé una genuina tensione so­cialistica e antistatalista16.

Al di là di queste sue espressioni estreme, lo sviluppo nella Sardegna del secondo dopo­guerra di un movimento nazionalista è soffo­cato sul nascere dalla stessa vicenda politica del Partito sardo17. Gravemente indebolito, nel 1948, dalla scissione della componente socialista di Lussu, esso va poi ulteriormente logorandosi nella collaborazione con la De sin dai primi governi regionali. Ribadendo in tal modo una sostanziale soggezione e subal-

13 Una valutazione dell’esperienza della Lega sarda e una antologia del suo periodico, in “La Voce di Sardegna”, nell’op. cit. di Virgilio Lai.14 Sulle vicende del Partito comunista di Sardegna, vedi Piero Sanna, Storia del Pei in Sardegna dal 25 luglio alla Costituente, Cagliari, Della Torre, 1978. Una bibliografia di e su G.A. Musa è in Gianfranco Contu, / / federalismo in Sardegna, Cagliari, Editrice Altair, 1978.15 Cfr. Girolamo Sotgiu, Movimento operaio e autonomismo, Bari, De Donato, 1977, pp. 45-57.16 Si vedano, ad es., due testi di Peppino Barranu, in “Il Solco” del 14 marzo e del 12 aprile 1951.17 Sulle vicende del Psd’A sino al 1949 cfr. Maria Rosa Cardia, Il Solco, Cagliari, Edes, 1975, voli. 10 e 11 della cit. collana Stampa periodica in Sardegna.

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ternità nei confronti della politica governati­va, il Partito sardo finisce col perdere gran parte del suo patrimonio ideale e storico, si­no a ridursi progressivamente ad una mac­china politica18 in mano di un gruppo di no­tabili. La sua stessa consistenza elettorale de­grada rapidamente: ancora compatto ottiene per la Costituente il 15% dei voti sardi, alle regionali del 1949 ha il 10,5%, in quelle del 1953 il 7% (ma alle politiche di una settima­na precedente, schierato con la De e il Psli a favore della legge truffa, raggiunge soltanto il 3,9%)19.

Per quanto riguarda il quadro politico re­gionale, il periodo che va dalla Costituente all’approvazione nel 1962 del Piano di Ri­nascita, pur segnato dall’egemonia democri­stiana, è comunque caratterizzato da una certa tensione regionalista e autonomista. Il riconoscimento, nel 1948, di uno Statuto speciale per l’isola, anche se disattende le aspettative dell’autonomismo più conse­guente, determina l’impegno nella costru­zione dell’Istituto regionale e quindi la mo­bilitazione per l’attuazione del piano di svi­luppo economico e sociale della regione pre­visto dall’art. 13 dello Statuto che polariz­zano successivamente la vita politica regio­nale.

Sono gli anni in cui l’autonomismo, pur confinato nei limiti di una visione regionali­sta e burocratico-amministrativa dei proble­mi dell’isola, esprime forse il massimo delle potenzialità implicite nelle sue premesse sto­riche: tanto di quelle più lontane, gettate dal movimento sardista del primo dopoguerra, quanto di quelle più vicine, tracciate dalla

mobilitazione per la riforma agraria e per la difesa dell’industria mineraria. Queste po­tenzialità emergono in più direzioni, ma so­prattutto in quella di una maggiore cono­scenza della realtà sarda (importanti sono al riguardo le esperienze di alcune riviste, “Ich- nusa”, “Il Bogino”, “Il Democratico” , “Sar­degna Oggi”, e gli stessi studi e dibattiti di preparazione o di contorno all’elaborazione del Piano di Rinascita), e in quella della for­mazione di un quadro politico più preparato, meno legato alle forme del notabilato rurale nel caso della De, ritonificato dall’esperienza sardista e ruralista di Lussu nel caso del Psi, aperto ad un meridionalismo più consapevo­le dei problemi generali dello sviluppo eco­nomico e insieme dello specifico sociale e storico dell’isola nel caso del Pei.

Il separatismo come test (1965-1967)

In occasione del convegno internazionale di studi gramsciani, tenuto a Cagliari nel 1967, Antonio Pigliaru, nel fare un inventario del­l’eredità di Gramsci nella cultura isolana, nota come la sua più autentica lezione appre­sa dagli intellettuali sardi sia stata quella di un autonomismo di respiro meridionalistico e nazionale: iniziativa dal basso, orientamen­to ideale verso il proletariato rivoluzionario, critica di ogni concezione dello sviluppo e della programmazione che veda l’istituto re­gionale come “semplice duplicazione buro­cratica” delle strutture statuali20.

La diagnosi è esatta, ma già fuori tempo. Pigliaru guarda ancora al ruolo moderniz-

18 Nel senso in cui questa espressione è utilizzata da Percy A. Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Tori­no, Einaudi, 1975.19 Per questi dati elettorali e per gli altri che fornirò cfr. Simone Sechi, Storia delle elezioni politiche dal 1848 al 1979 e Storia delle elezioni regionali dal 1949 al 1979, nella cit. enciclopedia Sardegna, rispettivamente alle sez. Storia (pp. 186-204) e Autonomia (pp. 146-54).20 Antonio Pigliaru, L ’eredità di Gramsci e la cultura sarda, in Aa.Vv., Gramsci e la cultura contemporanea, Roma, Editori Riuniti, 1969, vol. I, pp. 515 sgg.

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zante di una intellettualità progressista che si è impegnata a fondo nella battaglia per la Ri­nascita e guarda anche a quelle novità politi­che, di potenziale unificazione autonomisti­ca dei partiti democratici, che hanno indotto la stessa classe dirigente democristiana ad un parziale mutamento di atteggiamento nei confronti del Governo con il lancio di una “politica contestativa” , intesa ad un control­lo più attento dell’attuazione del Piano nei termini delle sue premesse legislative. Già nel maggio del 1966 il Consiglio regionale sardo, consenziente tutto lo schieramento democra­tico e autonomistico, ha fatto proprio, con un suo ordine del giorno, questo nuovo indi­rizzo politico21. Nell’autunno del 1967, alla ripresa dell’attività consiliare il presidente della Giunta, il democristiano Giovanni Del Rio, nella sorpresa generale, segnala il rie­mergere di tendenze separatiste nell’estrema sinistra. Sembra un monito, lanciato allo Stato, della possibile radicalizzazione in sen­so antigovernativo di tutta la politica sarda.

Tornando a Pigliaru, nella sua analisi del­la cultura sarda egli dichiara anche di vedere nel Centro democratico di cultura di Cagliari il suo momento più “in avanti”; e questo perché nei suoi programmi di attività gli sem­bra pienamente operante la funzione libera­trice esercitata da Gramsci sull’intellettuale sardo: la volontà maturata di “uscire dalla necessità di una cultura da villaggio per ap­prodare ad una superiore concezione del mondo”22.

Ancora nel 1967 si verifica un altro fatto di rilievo: la scissione dei repubblicani dal Partito sardo, col quale hanno fino allora

convissuto. Le ragioni? Due: la direzione no- tabiliare e plebiscitaria del Partito sardo (che dal 1960 non tiene più neppure congressi re­gionali) e il rifiuto del gruppo di maggioran­za di marcare il distacco dai separatisti che vanno sviluppando un’iniziativa autonoma nelle strutture del partito.

Ma chi sono questi separatisti che motiva­no il clamoroso discorso di Del Rio, che smentiscono l’ottimismo di Pigliaru sulla sa­lutare penetrazione della lezione gramsciana nella cultura sarda, che provocano la grave rottura interna del Partito sardo?

Prima di rispondere, segnaliamo altri due precedenti episodi, di non grande rilievo og­gettivo, forse, ma che a discorso concluso appariranno di qualche significato e quasi premonitori. Il primo è una vicenda indivi­duale: Peppino Barranu, sempre separatista, nel 1954 esce dal Partito sardo, nel 1957 ri­prende l’attività politica nel Psi, nel 1964 se­gue Lussu nella scissione del Psiup. Insom­nia, visto che non c’è dove stare, in linea di coerenza con l’indipendentismo, Barranu pensa bene di sviluppare a sinistra i contenuti sociali e socialistici del suo nazionalismo.

Il secondo episodio è l’epica lunga marcia Cagliari-Ollolai, Ollolai-Sassari, del sindaco di Ollolai, Michele Columbu, separatista “confesso” da sempre. Columbu vuol testi­moniare dell’impotenza di un amministrato­re comunale di fronte alle burocrazie regio­nali e nazionali, e poiché il suo partito è al governo regionale, anche del suo disagio a rappresentarlo.

Ma torniamo al 1967. In verità, il riferi­mento più immediato della polemica che si

21 Cfr. Guido Melis, Dal sardismo al neosardismo: crisi autonomistica e mitologia locale, in “Il Mulino”, 1979, n. 263, pp. 425 sgg.22 A conforto di questo riconoscimento Pigliaru cita ampiamente il Discorso inaugurale del Centro, letto da Sandro Maxia, in cui questa nuova volontà mostra di ergersi soprattutto contro quegli “intellettuali sardi che accorrono in soccorso delle tradizioni autoctone, scoraggiano le innovazioni, si fanno difensori dello stile indigeno. Taluni non esitano neppure ad impiegare il dialetto, per manifestare la loro volontà di essere il più vicino possibile al popolo” (Antonio Pigliaru, L ’eredità di Gramsci, cit., pp. 532-33). Quindici anni dopo Maxia ripete, più o meno, le stesse co­se in La repubblica delle lettere e futuribile social-sardista, in “Ichnusa”, 1982, pp. 8-11.

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sviluppa attorno al separatismo non è nessu­no degli indipendentisti del dopoguerra. È bensì Antonio Simon Mossa, algherese, con ascendenze nobiliari, architetto e poliglotta. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1971, sarà insignito dai suoi discepoli del gravoso epite­to di Padre della Patria Sarda. Direttore del Partito sardo nella provincia di Sassari dal 1965, dal principio degli anni Sessanta, più o meno da quando si è reiscritto al partito (ne era uscito attorno al 1950), egli è andato as­sembrando sui fogli di una sua artigianale at­tività editoriale gli elementi storici e concet­tuali di una riflessione sulla nazione sarda23.

Simon Mossa utilizza però il termine “et­nia”, a sottolineare la dimensione pre ed ex­tra statuale delle comunità nazionali che in tutta Europa rivendicano il riconoscimento della propria libertà e autonomia, il diritto all’autodecisione. Nel caso sardo la comuni­tà etnica manifesta in tutti i suoi tratti più ca­ratteristici la forma autentica di una “società pastorale a struttura tribale” . Quella sarda, anzi, è una forma sociale che ha in sé tutti “i germi” per una rapida evoluzione verso strutture originali di tipo moderno, imper­niate sul collettivismo, sia esso di tipo comu­nitario tradizionale o cooperativistico avan­zato.

Una forma sociale che non esclude neppu­re lo Stato, se non come imposizione esterna, in quanto l’etnia sarda può essa stessa affer­marsi come “autorità comunitaria”, come Stato appunto, poiché in ogni caso il mo­mento della direzione e del comando è indi­spensabile per mobilitare un popolo alla rea­lizzazione dei suoi fini comuni, in tutti i cam­

pi, dall’economia alla cultura. Inevitabilità della prospettiva separatista, quindi, o me­glio del movimento di liberazione nazionale, secondo l’esempio algerino, non escluso il ri­corso alla lotta armata.

Come caratterizzare in breve questo coa­cervo teorico? Il concetto di etnia è proprio quello che la letteratura più avvertita rigetta come macchiato dal peccato originale della razza; la prospettiva di svolgimento autono­mo della “forma sociale” sarda è tracciata secondo le linee di uno storicismo piattamen­te evoluzionistico; il rapporto esterno tra le etnie (il federalismo delle etnie) è esemplato su una scontata concezione democrati­co-borghese dei rapporti “liberi” tra indivi­dui; l’immagine della comunità-Stato è al­trettanto scontata e chiusa, poiché è nient’al- tro che l’immagine di un sistema centralizza­to e specializzato di dominio; la strutturazio­ne comunitaria o collettivistica della società che tale Stato sottende è poi tanto rarefatta da lasciar supporre che nessun freno porreb­be alla libera iniziativa degli individui.

Sintomatico e contraddittorio è a questo riguardo il riferimento alla struttura tribale della società pastorale, poiché non c’è forse altra società, come la pastorale, che escluda più radicalmente ogni superfetazione di po­tere, culturale o istituzionale, anzi la stessa specializzazione civile dei ruoli e delle fun­zioni24.

Un’ideologia incoerente non cessa tuttavia di essere un’ideologia e il contributo di Si­mon Mossa allo sviluppo di un movimento nazionalistico sardo è di avere indicato il progetto di un’identità di popolo che può at-

23 Cfr., dal 1966, il periodico “Sardegna Libera”. Nel 1965 le Edizioni di “Sardegna Libera” danno alle stampe L'Autonomia politica della Sardegna, Sassari, con una introduzione di Simon Mossa. Per l’elaborazione teorica di questi si vedano soprattutto gli scritti raccolti in Le ragioni dell’indipendentismo, Sassari, Edizioni “S’Iscola Sarda”, 1984 e la tesi di laurea di Francesca Riggio, Etnia e federalismo in Antonio Simon Mossa, Cagliari, Facoltà di lettere e Filosofia, aa. 1975-76 e l’articolo Indipendentismo federalista, in “Tribuna della Sardegna”, 1967, n. 18. Della bi­bliografia su Simon Mossa cfr. Sergio Salvi, Le nazioni proibite, Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 593 sgg. e Gianfranco Contu, Antonio Simon Mossa e il federalismo delle etnie, in “La grotta della vipera”, 1981, n. 21.24 Cfr. Ernest Gellner, Nazioni e nazionalismo, cit., p. 101.

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tingere il livello della statualità. Visto in que­sta luce, l’uso del termine “etnia” nient’altro è che la segnalazione pregiudiziale di un con­fine culturale tra la nazione sarda e la nazio­ne italiana che nessuna storia ha potuto can­cellare, il confine tra due diverse formazioni etno-antropologiche, ma un confine che nel­l’azione “ecumenica” del popolo sardo po­trebbe anche ridefinirsi come rapporto tra due culture “letterate” dello stesso livello, poiché anche l’etnia sarda ha in sé le poten­zialità per una cultura adeguata alla forma Stato.

Da qui la rilevanza del discorso che Simon Mossa fa sulla lingua e sulla scuola, da qui, soprattutto, il valore coesivo e mobilitante delle sue idee per un partito che, dopo la ca­duta del mito Lussu e nell’esperienza pena­lizzante della complicità con la politica “ita­liana” della De, è andato smarrendo le ragio­ni stesse della propria esistenza come “parti­to dei sardi” .

Quando, sempre nel 1967, l’azione di Si­mon Mossa viene allo scoperto dichiarandosi per la cessazione della collaborazione con la De, essa è già in sintonia con la nuova scelta di campo, a fianco della sinistra, che va pre­cipitando nel Partito sardo. Nella risoluzione della maggioranza del suo Consiglio regiona­le (tenuto ad Oristano nel novembre) che de­termina la rottura con la minoranza repub­blicana, mentre si proclama la sfiducia “nel­la presenza rinnovatrice dello Stato in Sarde­gna”, si rilancia l’idea di “una radicale rifor­ma dello Statuto sardo che dia più precisi e concreti poteri alla Regione intesa come nu­cleo originario e primo avviamento alla ri­forma dello Stato in senso federalistico e co­me preparazione ad una più vasta unità fede­rativa di stati nazionali a livello europeo”25. L’enunciazione del progetto indipendentisti- co è ancora ambigua, ma in una situazione di crisi interna e di difficile rimeditazione del

proprio ruolo politico, il riferimento ultimo centrale ad uno Stato federale europeo sug­gella la chiusura di un’epoca nella vita del Partito sardo.

Nel 1967, in verità, non sono molti, fuori del Partito sardo, a prendere sul serio le idee di Simon Mossa. Eppure il dibattito sul sepa­ratismo è intenso. Simon Mossa è soltanto un pretesto o c’è dell’altro?

Una prima risposta la fornisce un dibatti­to organizzato sulle pagine della “Tribuna della Sardegna” da Michelangelo Pira. Per­ché, si chiede Pira, e nello stesso tempo in­terroga tutta la cultura e la politica isolana, dopo quasi vent’anni di esperienza autono­mistica il Partito sardo assume “l’istanza separatista nella sua coscienza storico-politi­ca”? In breve: il separatismo segnala i limiti e le carenze della democrazia italiana, quali si sono rivelati nel fallimento del Piano di Rinascita. Una democrazia che si è fatta complice o supporto dello strapotere di quei monopoli economici che hanno stràvolto il Piano per la Sardegna, come hanno stravol­to ogni altro intervento a favore del Meri­dione; una democrazia che ha operato la ri- costruzione economica del Paese senza ri­forme sociali; che non ha neppure figura di Stato di diritto, come dimostra l’intervento meramente repressivo-poliziesco nei con­fronti del banditismo sardo; che non ha sa­puto (o voluto) attuare il dettato costituzio­nale sulle regioni (per cui ogni regionalismo “speciale” non può che restare “particolari­stico”). Ma il separatismo è anche un test della capacità delle opposizioni di condurre con coerenza un proprio discorso riformisti- co e meridionalistico. Crisi, quindi, non sol­tanto del meridionalismo “governativo”, quello della riforma agraria, della Cassa per il Mezzogiorno, del Piano di Rinascita ecc., bensì anche del meridionalismo di ispirazio­ne democratica, se non per i suoi errori, per

25 Un estratto della risoluzione del Consiglio regionale del Partito sardo è in “Tribuna della Sardegna”, cit., 1967, n. 20, all’inserto Separatismo.

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la sua inadeguatezza a porre in termini al­ternativi, ma moderni, il problema dello sviluppo. E crisi dello stesso autonomismo, per “l’insufficienza della classe politica sar­da a porsi autonomamente i problemi del­l’edificazione dello Stato in Sardegna”, per la sua tendenza “a scaricare sul potere cen­trale la responsabilità di quello che essa non fa”26, per il fatto, insomma, che la sua azione è rimasta dipendente e particolari­stica.

Centro e periferia, città e campagna (1968-1975)

“Che piaccia o no — scrive Pira chiudendo il suo dibattito — è in corso in Sardegna, e non solo all’interno del Psd’A, un tentativo di fondare, per la prima volta con consapevo­lezza storico-politica, un movimento separa­tista capace di assumere a propri fini l’indi­pendenza e il socialismo”27. È una conclusio­ne che va ben oltre la dicussione sul separati­smo come test della politica della classe diri­gente nazionale e regionale, poiché riconosce all’indipendentismo la consistenza di un pro­getto politico in via di autonoma definizione e, per giunta, informato di un’autentica ispi­razione socialista. Quam mutatum ab illo\ Gli indipendentisti del primo tempo, per quanto s’attribuissero anch’essi delle ragioni socialistiche, anzi ambissero in qualche caso a porsi come il vero Partito socialista sardo, mai erano riusciti a scrollarsi il sospetto d’es­sere in fondo dei passatisti. E ad aggravarlo c’erano lì, nei pressi, Bastià Pirisi e Finoc- chiaro Aprile28. Eppure il riconoscimento di Pira non è uno scoop giornalistico, ma la

diagnosi di un dato politico contingente, ed è anche una valutazione di prospettiva del pos­sibile sbocco di un insieme di fermenti che vanno sommuovendo il quadro sociale dell’i­sola. Fermenti che sono la vera spia del falli­mento della Rinascita e lo smascheramento deciso di una “politica contestativa” nei con­fronti dello Stato fatta di ordini del giorno e di strumentali forza paris consiliari. Entram­bi i livelli di situazione, il quadro politico contingente e il “movimento”, sono illumi­nati a luce meridiana da una serie di inter­venti di Umberto Cardia, segretario regiona­le del Pei.

Il primo intervento, del dicembre 1967, è a caldo, sulle dichiarazioni di Del Rio e sul conseguente dibattito: “Ed ecco dai bassi fondali del sottogoverno e della sottogiunta di centro-sinistra, chiamati al nuovo e strano servizio e un po’ spaventati dai pastori che fanno sul serio e dagli operai che buttano al­l’aria i piani di Rovelli e dell’ingegnere-cal- ciatore Marras, farsi avanti i più strabilianti propagandisti di verbi rivoluzionari... gli or­ganizzatori di zone rosse in montagna e in pianura, i discettatori di pronunziamenti se­paratisti e semiseparatisti e i soppesatori del pro e del contro, se separarsi per unirsi al­l’Europa delle patrie o separarsi per affian­carsi all’Alaska o al Portorico, i mesinisti e gli antimesinisti, i feltrinelliani in libertà e i nipotini occidentali di Simon Bolivar, di Emiliano Zapata, di Pancho Villa... L’obiet­tivo di fondo è comune, è attaccare la demo­crazia, l’autonomia, le basi costituzionali della libertà conquistata dal popolo italiano e dal popolo sardo per avanzare, nella auto­nomia e nella democrazia, verso il socia­lismo” .

26 “Tribuna della Sardegna”, cit, 1967, n. 19, all’inserto Separatismo.27 Ivi, al n. 21.28 Per quanto anche nel separatismo siciliano non mancassero le buone intenzioni sociali, cfr. il recente e bel lavoro di Aurora Corselli e Lidia De Nicola Curto, Indipendentismo e indipendentisti nella Sicilia del dopoguerra, Paler­mo, Vittorietti Editore, 1984.

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Un mese dopo, Cardia deve già ricono­scere cautelativamente che nel dibattito sul separatismo si è espressa una “diffusa, e perciò confusa ed elementare coscienza del fallimento della politica ventennale della De e della recente esperienza del centro-sinistra e della necessità di mutare, radicalmente, strada restituendo alla autonomia i suoi contenuti e valori originari” . Nel marzo del 1968, infine, egli non solo ripropone il con­cetto del separatismo come coscienza del fallimento del Piano di Rinascita, ma deve prendere atto del suo legame con la crisi di identità del Partito Sardo: “L’ala moderata si è staccata e annuncia di voler tornare, con la mediazione del Pri e di La Malfa nel centro-sinistra. L’ala separatista respinge questa ipotesi e sembra sensibile all’esigenza di una larga unità autonomistica e di sini­stra” . E infine: “Ma la maggioranza del Psd’A dove andrà, con La Malfa nel cen­tro-sinistra come nei vent’anni passati, o con i separatisti verso ricerche unitarie, fati­cose ma ricche di aspirazioni profonde e di nuove prospettive?”29. Il Partito sardo se­guirà questa seconda strada, andrà con i se­paratisti, diventerà separatista, nel corso de­gli anni settanta parteciperà alle elezioni po­litiche in liste unitarie con il Pei e nel 1981 contribuirà alla formazione della prima giunta regionale di sinistra.

Ma il primo intervento di Cardia ha ben altro oggetto polemico che il Partito sardo, e il successivo aggiustamento di tiro riguar­da soltanto il quadro politico contingente. Ma al di là c’è il “movimento”: i pastori che si vanno organizzando nell’Arpas per l’at­tuazione di un piano per la pastorizia e la costituzione di un demanio regionale dei pa­

scoli, gli operai che lottano contro i licenzia­menti e le gabbie salariali, gli studenti e le “zone interne” . Ed è quest’ultimo movimen­to che interessa più da vicino il filo del mio discorso. Si tratta di un’agitazione che nelle “zone interne” raggiunge le sue punte più elevate, ma che in realtà interessa una vasta area delle campagne sarde.

La protesta delle comunità della Sardegna centrale, attraversate dalla Rinascita nei suoi aspetti più negativi, emigrazione e recrude­scenza del banditismo, inizia sulla metà de­gli anni sessanta (si può assumere la lunga marcia di Columbu, del 1965, col suo con­torno popolare, come simbolico termine a quo) e si protrae per alcuni anni. Gli episodi culminanti e di maggiore risonanza sono en­trambi del 1969: il primo, una vasta mobili­tazione delle comunità della Barbagia, del- l’Ogliastra e della Baronia contro il progetto di costituzione di un Parco nazionale nell’a­rea del Gennargentu, il secondo, la solleva­zione dell’intera popolazione di Orgosolo, fronte a fronte con l’esercito, contro l’in­stallazione di un poligono di tiro nel territo­rio comunale di Pratobello30.

In questi casi come in altri non si tratta però di esplosioni spontanee di collera popo­lare, poiché il movimento si regge su una estesa rete di circoli culturali. Sorti ad opera prevalente di militanti dei partiti di sinistra, alla ricerca di strumenti non istituzionali per un maggiore coinvolgimento delle popola­zioni sui problemi locali, questi circoli si so­no poi andati radicalizzando nel clima del 1968, sino a recepire le sollecitazioni di tutte le ideologie rivoluzionarie del terzomondi­smo e della dissidenza comunista internazio­nale31. La loro azione politica e culturale si

29 Gli interventi di Cardia sono nell’ordine, al n. 22 del 1967 e ai nn. 1 e 4 del 1968 di “Rinascita Sarda”.30 Sui fatti di Pratobello cfr. “Il Giornale”, 1969-70, nn. 29-31, ad essi dedicato col titolo Soldati ad Orgosolo.31 L’unico lavoro sui circoli culturali è un inedito di Antonello Satta, Circoli culturali e lotte politiche nelle campa­gne sarde; sull’esperienza del circolo di Orgosolo si vedano i materiali raccolti in La repubblica d ’Orgosolo, suppl. ai nn. 21-23, 1968, de “Il Giornale” e in Orgosolo, novembre 1968, Milano, Feltrinelli, 1968, oltre alla memoria di Giovanni Moro, Le lotte di Orgosolo, in Lotte sociali, antifascismo e autonomia, cit., pp. 205-11.

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esprime nelle forme più diverse, deposizioni di giunte comunali, blocchi stradali, intensa attività di informazione, denuncia e propa­ganda (ispirata talora da una straordinaria vena inventiva).

Nell’esperienza complessiva dei circoli, pur fortemente segnata in senso ribellistico e antistituzionale (e l’Istituto regionale paga il suo prezzo né più né meno dello Stato), non è comunque dato di vedere l’emergere di istanze separatiste. E questo perché il proble­ma del rapporto con lo Stato i circoli non lo vedono dall’angolo visuale del popolo sardo, bensì dell’autogoverno locale, della gestione popolare degli interessi comunitari. Siamo, cioè, ad un altro livello del rapporto cen­tro-periferia e il suo scioglimento teori­co-pratico, in senso rivoluzionario, potrebbe avvenire nella direzione della teoria consilia­re o di quella comunitaria. Quest’ultima pe­rò si radica meglio nella persistenza nei paesi dell’isola di forme di gestione collettiva del­l’uso della terra e di consuetudini di vita di ti­po solidaristico. La dimensione locale del vil­laggio riacquista in tal modo una sua valenza positiva e contribuisce ad alimentare una nuova riflessione e sul rapporto politico-isti­tuzionale tra centro e periferia e sul rapporto economico-sociale tra nord e sud, città e campagna. In un caso la tematica dello Stato viene riproposta al di fuori della dialettica accentramento-decentramento burocratico, costante storica delle classi dirigenti italia­ne32, che si è riconfermata anche nelle mo­dalità di attuazione del Piano di Rinascita, nell’altro la frattura fra aree privilegiate e aree penalizzate può essere riletta, e sempre a partire dall’esperienza vissuta della degra­dazione sociale delle campagne, come l’ef­fetto non di un dato storico ineluttabile (l’arretratezza) ma della dipendenza operan­

te da centri esterni di decisione politica ed economica.

È dal movimento delle “zone interne” che trae la sua prima e più vitale ispirazione una delle esperienze più significative del naziona­lismo sardo: il circolo Città-campagna. Nato sul principio del 1968, a Cagliari, anche per incoraggiamento di Feltrinelli, questo circo­lo si proietta subito verso il tentativo di una sintesi politico-culturale delle lotte delle co­munità rurali. I primi tratti della sua fisio­nomia emergono già sul finire del 1967, nel­le pagine del periodico “Il Giornale” , d’area socialista, diretto da Antonello Satta, an- ch’esse apertesi con prontezza al dibattito sul separatismo. Inizialmente, è un articolo dello stesso Satta33 a recepire nei termini le­ninisti del che fare? il problema della tra­sformazione in senso rivoluzionario e socia­lista del discorso separatista. Castro e Gue­vara sembrano offrire un primo modello di esperienza rivoluzionaria che parte dalle campagne.

È tuttavia, questa, un’apertura terzomon­dista che appare subito ben più incisiva e meditata del richiamo di Simon Mossa al­l’Europa delle etnie, poiché nasce in un con­fronto serrato con la prima contestazione studentesca e con la formazione anche nell’i­sola di gruppi d’estrema sinistra. Tanto più che in questo confronto prima “Il Giornale” e poi il circolo Città-campagna fanno me­moria su una robusta esperienza di militanza nei partiti della sinistra e il loro stesso terzo­mondismo non è che un momento della ri­cerca di orientamenti e strumenti nuovi, di respiro internazionale, per la definizione di una pratica politica tagliata sulla misura del­lo specifico sardo. E non solo di questo, poi­ché gli apporti delle esperienze esterne sono selezionati e messi in opera a partire da un

32 Cfr. Ernesto Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1967, pp. 125-26.33 Separatismo e rivoluzione, “Il Giornale”, 1967, n. 14: cfr. anche Eliseo Spiga, Il cortile interno de! capitalismo, ivi, 1968, n. 15.

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fondo già consolidato di socialismo demo­cratico, libertario e, soprattutto in Satta, dalle forti venature utopistiche34. Si tratta di un’esperienza, insomma, che si radica nella provincia, muove dalla periferia, ma ambi­sce a portare la discussione sul separatismo molto al di là della tradizione sardista, per una riflessione sulla condizione stessa del­l’uomo nel sistema alienante di dominio del capitalismo e del socialismo burocratico.

È meglio dire subito, anzi, che nonostante il nesso stabilito da Satta tra separatismo e rivoluzione socialista, l’esperienza di Cit­tà-campagna non ha come segno distintivo il separatismo. La sua caratterizzazione politi­ca in rapporto al problema dello Stato è piut­tosto il federalismo, come emerge con evi­denza anche dal testo che costituisce un po’ il programma politico del circolo (in verità più come immagine esterna, che come effettiva sintesi della sua esperienza interna e pratica), Sardegna: rivolta contro la colonizzazione, di Eliseo Spiga35, che enuncia il progetto di un’autonomia politica della Sardegna nel quadro di una Repubblica socialista federale italiana. Pubblicato da Feltrinelli, l’opuscolo di Spiga ha una sua involontaria responsabi­lità nel sospetto di una linea diretta tra le at­tività di Città-campagna e le mene guerriglie- re dell’editore milanese.

Questi, in realtà, aveva una frequenza di più antica data con l’isola, per il suo rappor­to professionale con alcuni autori sardi (il poeta Francesco Masala, ad esempio), e sol­tanto alla fine del 1967, e proprio nella prima conferenza organizzata da quel Centro di cultura democratico che abbiamo già visto proiettato in tutt’altra direzione (sarà attra­versato e risucchiato dall’esperienza del

“Manifesto”), pubblicizza il suo personale progetto di innestare l’esperienza della guerri­glia sudamericana sul tronco del banditismo sardo36. Nei mesi successivi Feltrinelli parteci­pa a Nuoro e ad Oristano agli incontri di un car­taceo Fronte rivoluzionario sardo, segretario Pietro Bruno Golosio, tiene una conferenza ad Orgosolo, incontra, ma nessuno lo ha dimostra­to, il bandito Graziano Mesina e quindi, sostan­zialmente deluso, riprende la sua strada.

Tornando al federalismo di Città-campa­gna: anche il riferimento ad una Repubblica socialista federale italiana non dà conto ade­guato di una riflessione sullo Stato, sulla de­mocrazia e sul socialismo che, al di là delle aperture terzomondiste, ha il suo più solido e duraturo riferimento nella tradizione marxi­sta e soprattutto nella discussione, intensissi­ma nell’Italia e nell’Europa del dopo-Unghe- ria sul nesso libertà-giustizia, democrazia-so­cialismo. La concezione federalistica di Cit­tà-campagna sposta infatti l’accento dallo Stato alla società civile, dal problema del­l’organizzazione dello Stato, accentrata o de­centrata, al problema delle condizioni possi­bili della libertà e dell’autonomia dell’indivi­duo, nella giustizia. Nelle specifiche condi­zioni dell’isola (e qui la lettura dei Grundris- se e l’esperienza dei circoli trovano una coe­rente anche se tutt’altro che convincente sal­datura) la persistenza di strutture comunita­rie e solidaristiche di produzione e di esisten­za potrebbe sostanziare un discorso di autogoverno locale che, rilasciando al singo­lo l’organicità pre-statuale dei suoi rapporti con l’altro, ne consentirebbe anche l’eserci­zio diretto del potere. Lo Stato sta comun­que sempre al di là, come presente negativo o come limite da superare.

34 Si veda di Satta la Lettera da Cagliari, in “Tempo presente”, 1969, n. 2, p. 42: “Ma porsi il problema di far vivere una Sardegna che superi il sottosviluppo senza entrare nell’alienazione della civiltà dei consumi è davvero un’u­topia?”.35 Eliseo Spiga, Sardegna: rivolta contro la colonizzazione, Milano, Feltrinelli, 1968. Spiga usa lo pseudonimo di Giuliano Cabitza.36 Cfr. Giovanni Maria Bellu e Roberto Paracchini, Sardegna, storie di terrorismo, Cagliari, Cuec, 1983, pp. 25-35.

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Coerente con questo federalismo forte­mente orientato sul “civile” è l’ipotesi, avan­zata nel 1971, di una università contadina11, dove l’analisi critica della funzione del siste­ma di istruzione ufficiale, statuale, conclude nella proposta del dimensionamento comu­nitario dei processi di apprendimento, in un superamento della frattura scuola-lavoro. Anche qui c’è un modello esterno, la rivolu­zione culturale cinese, ma soprattutto l’in­tento di un radicamento della scuola nelle forme tradizionali di apprendimento della società contadina e pastorale.

L’obiettivo ultimo è sempre lo stesso: su­perare la distanza tra cultura popolare e cul­tura “superiore” , tra la cultura che scaturisce dalle esigenze della vita produttiva e civile e la cultura che serve le funzioni di dominio dello Stato. Analoga caratura ha la rilettura della vicenda dell’isola come vicenda colo­niale, dove i riferimenti esterni, l’origine co­loniale dell’economia mondo37 38, e le teorizza­zioni sul sottosviluppo (Baran, Sweezy, Gun- der Frank, Jaffe ecc.) consentono una pro­spettiva comparativa e l’ausilio di discorsi strutturati, ma il filo conduttore resta quello della resistenza di un nocciolo duro di espe­rienze comunitarie radicate nella terra, sulle quali ricostruire un tipo di gestione delle ri­sorse, comunitaria e sociale, che contrasti la logica accumulativa e mercificante del capi­talismo39.

E ha ancora questo significato la parola d’ordine, nei primi anni settanta, di un “rientro politico” degli emigrati, un controe­sodo che ripopolando le campagne operereb­

be sulla terra una pressione tale da costringe­re l’istituto regionale ad indirizzare le risorse finanziarie dell’isola verso il sostegno di aziende e comunità collettive di produ­zione40.

L’identità nazionale come costruzione (1976-1980)

L’esperienza di Città-campagna si esaurisce alla metà degli anni settanta. Nonostante l’impegno organizzativo nei confronti dei circoli e degli emigrati e lo sforzo di stabilire un canale di comunicazione con altre espe­rienze meridionali, esso si è andato via via configurando come un laboratorio di ricer­ca. Al suo interno si sviluppa quindi il dis­senso sugli sbocchi politici dell’attività, in particolare fra quegli elementi di formazione marxista-leninista che ne hanno recepito so­prattutto il discorso anticolonialista. Per co­storo si ripropone la questione del che fare?, che risolvono, tra il 1972 e il 1973, con la for­mazione di un nuovo gruppo, dotato di un periodico, Su populu sardu, e di una struttu­ra di tipo partitico, benché si proponga come movimento41. Su populu sardu punterà sem­pre, in effetti, alla costruzione di un Partito dei lavoratori di Sardegna, ma lo farà senza settarismi, per non pregiudicare il confronto con gli altri gruppi dell’area nazionalista.

Il suo programma costituisce una forte no­vità nel quadro del nazionalismo sardo, poi­ché sposta con decisione la sua attenzione verso la realtà operaia42; ribadisce, sì, il pro-

37 Circolo città-campagna, Per una università contadina, Cagliari, Sardegna Nuova-Giornale, 1971.38 Per questo concetto Immanuel Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Bologna, Il Mulino, 1982, voli. l e II.39 Circolo città-Campagna, Sulle tesi del Manifesto e sul Nordismo, in “Quaderni Calabresi”, 1971, nn. 17-18, pp. 33-56.40 Idem, Emigrazione e colonialismo, Nuoro, 1971.41 Cfr. Gianfranco Pintore, Sardegna: regione o colonia?, Milano, Mazzotta, 1974, all’Appendice.42 Su populu sardu ha una significativa presenza nel polo industriale di Ottana, nel centro della Sardegna, “dove il patrimonio politico e culturale appartenente alla società agro-pastorale” non si è posto “in opposizione agli operai”,

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getto di una “repubblica autonoma sarda nel quadro di una repubblica socialista federati­va”, ma ne intende la realizzazione come processo, attraverso una progressiva conqui­sta da parte del popolo sardo della possibilità dell’autodecisione (il che comporta il rigetto del concetto di “separatismo”); si rifà ad un ambito teorico di riflessione sulla “nazione sarda” ortodossamente leninista (Pimperiali- smo come fase suprema del capitalismo), at­tingendo conseguentemente i suoi modelli dal comuniSmo della terza internazionale piuttosto che dal terzomondismo o dal revi­val etnico. Al di là degli elementi di ortodos­sia marxista-leninista e di un ribadito classi­smo — nonostante l’adozione della scredita­ta dizione di “popolo” (del resto una sua ac­cezione classista la ritrova in Teoria dell’in­surrezione di Lussu) — l’originalità propria di Su populu sardu sta in una maggiore capa­cità di scendere immediatamente sul terreno di un confronto politico e culturale di respiro complessivo. Su populu sardu percorre inol­tre, con decisione, la strada del bilinguismo e sonda in profondità la possibilità di una ri­lettura in chiave anticoloniale della storia dell’isola (scelte intese come decisive per la costruzione di una coscienza nazionale sar­da) e cerca con determinazione dei legami nazionali (soprattutto con i circoli degli emi­grati) e internazionali (è uno dei firmatari della Carta di Brest sulle minoranze naziona­li, di ispirazione leninista). Nonostante la sua compattezza di gruppo, Su populu sardu fi­nirà tuttavia nel vicolo cieco della sua dupli­ce e ambigua ortodossia: la nazione sarda e la forma-partito, la fedeltà alla tradizione sardo-nazionale (che non può non coincidere nella gran parte con la vicenda del Partito

sardo) e la fedeltà alla tradizione marxista-le­ninista (dove appunto la risposta al che fare? si ripropone sempre nei termini dell’organiz­zazione partitica). Inevitabile, ma anche traumatico, alla fine, nel 1980, il suo sciogli­mento e la confluenza di gran parte dell’ap­parato nel Partito sardo.

Eppure nella seconda metà degli anni set­tanta il movimento nazionalista sardo cono­sce la sua stagione più felice. A sostenerne la nuova offensiva è soprattutto una intensa at­tività pubblicistica. E benché questa si misuri su tutto il fronte dei problemi dell’isola, e per il movimento nel suo insieme si faccia più pressante l’esigenza di un approdo istituzio­nale, anche in termini di presenza elettorale, l’impegno maggiore è rivolto ora alla ricerca sull’identità come storia, cultura e lingua.

L’identità nazionale come costruzione, quindi, secondo la via già segnalata da Cit­tà-campagna e rilanciata nel 1976 da un con­vegno cagliaritano su “Cultura e scuola nel­l’identità del popolo sardo”, organizzato dall’associazione Sardegna Cultura, nuova spoglia del circolo: la “formazione di una co­scienza nazionale sarda” , con una elabora­zione teorico-culturale che attraversi tutti i sedimenti storici che la impediscono43.

Il più coerente, su questa strada, è il perio­dico “Nazione Sarda” , fondato nel 1977 da Sardegna Cultura e che incontra l’adesione di numerosi intellettuali di prestigio, di varia formazione e appartenenza politica, ma tutti “disorganici” : l’archeologo Giovanni Lilliu, gli scrittori Francesco Masala e Antonio Cossu, lo scultore Costantino Nivola, la pe­dagogista Elisa Spanu Nivola, il medico-sto­rico Gianfranco Contu ecc. Né partito, né movimento, il gruppo della rivista concen-

anzi dalla nuova realtà sociale è stato portato a “livelli nuovi e incisivi”: La centralità operaia di Ottona, “Su populu sardu”, aprile 1977; in questo stesso numero il documento più significativo del programma del gruppo: Autodecisio­ne e socialismo. Da tener presente la memoria di Mario Carboni, Gli anni di Ottona, in Lotte sociali, antifascismo e autonomia, cit., pp. 213-17.43 Cfr. la relazione al convegno Cultura e scuola nell’identità del popolo sardo, Cagliari, 1976.

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tra tutto il suo impegno sull’identità sarda, sulla ricerca delle espressioni, dei materiali, delle tracce anche appena riconoscibili di una sua presenza nella storia e nel presente, colta proprio al confine con l’altro, con le culture dominanti-statuali deliberi come dell’oggi. Non c’è in questo impegno, anche così con­cepito, né la volontà di una chiusura provin- cialistica (tutte le riviste dell’identità sono del resto attente alla realtà delle altre minoranze nazionali), né l’intenzione di inventariare ed ammassare meccanicamente i tratti specifici della cultura sarda, quanto piuttosto il pro­posito di una loro risignificazione all’interno di un discorso complessivo su una vita e una società a misura d’uomo. In questo senso la ricerca di “Nazione Sarda” può anche infir­mare o capovolgere le proprie premesse na­zionalistiche, e il suo obiettivo ultimo mo­strarsi, in controluce, come una ricerca sulla cultura in sé, una cultura non pregiudicata dal potere. “Noi pensiamo all’autonomia — scrive Spiga per tutti — non come ad una via per rifondare lo Stato, ma come riconquista di diritti collettivi e individuali espropriati dallo Stato, come affermazione della società civile in tutti i campi, come ambito in cui ogni comunità ed ogni singolo possano go­vernare direttamente la cultura, l’economia, i rapporti internazionali”44.

Diversa, ma convergente, è esperienza della rivista “Sa Sardigna”, fondata nel

197645 dal giornalista Gianfranco Pintore e dall’artista Pinuccio Sciola. Quest’ultimo già da anni, con la sua attività scultoria e murali- stica, che prende corpo anche simbolico nel “paese museo” di S. Sperate, va verificando tutte le possibilità di un’arte popolare e so­ciale, “sardista”, di alto livello estetico46. In “Sa Sardigna”, rispetto a “Nazione Sarda”, c’è un maggiore coinvolgimento politico, in consonanza sostanziale con Su populu sar- du, ma anche la sua attività di informazione e contro-informazione sui problemi dell’iso­la e la sua apertura al dibattito culturale si configurano come un altro momento della ri­cerca ormai comune sull’identità47.

Sono queste due riviste, assieme a “Sarde­gna Europa”, pubblicazione del Movimento federalista europeo diretta da Giuseppe Usai, a promuovere alla fine del 1977 una proposta di legge di iniziativa popolare per l’applicazione nell’isola di un regime di bilin­guismo italiano-sardo. La questione della lingua, sempre presente nella tradizione sar­dista e risollevata a metà anni sessanta da Si­mon Mossa (un suo allievo, Giampiero Mar- ras, fonda nel 1973 l’istituto di lingua sarda “S’Iscola Sarda”), aveva un clamoroso rilan­cio nel 1971, in seguito ad una risoluzione del Consiglio della Facoltà di lettere di Cagliari, propiziata soprattutto dal linguista Antonio Sanna e da Giovanni Lilliu48. Subito dopo, a Nuoro, si costituiva l’Associazione per la di-

44 II neosardismo è una formula inesistente, in “Nazione Sarda”, 1979, n. 1, nell’inserto Ricerche. Per il programma politico della rivista cfr. la Carta dell’autogoverno dei Sardi, ivi, 1978, nn. 5-6. Una panoramica sulle posizioni dei collaboratori del periodico è fornita dagli interventi di Giovanni Lilliu, Antonio Cossu, Eliseo Spiga e Antonello Sat­ta su “Nationalia”, 1978, v. Ili, Abadia de Montserrat, pp. 5-94.43 “Sa Sardigna” viene in realtà rifondata nel 1977, dopo la rottura con l’editore, l’Alfa Editrice di Gianfranco Pin­na, che nello stesso anno avvia la pubblicazione di “Sa repubblica sarda”, impresa individuale più che collettiva, ma che raccoglie molte collaborazioni dell’area nazionalista.46 Sull’esperienza di S. Sperate si veda il n. 14, 1979, de “La grotta della vipera”, ad essa dedicato. Uno studio im­portante dell’opera di Sciola è in Placido Cherchi, Percorsi materici, Cagliari, Stef, 1982. Lo stesso Cherchi ha fatto una lettura critica della esperienza muralistica con il suo De murali eloquentia, in “La grotta della vipera”, 1980, nn. 18-19, pp. 27-33.47 Un contributo importante alla ricerca sull’identità, e non solo della “minoranza” sarda, fornisce anche il cit. tri­mestrale di cultura “La grotta della vipera”, diretto da Antonio Cossu. '48 Una valutazione di ampio respiro della risoluzione della Facoltà di lettere di Cagliari è in A. Satta, Lingua sarda e subnazione, in “Studi Sardi”, 1971-72, v. XXII, pp. 642-90.

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fesa della lingua e della cultura sarda, il cui statuto richiedeva l’attuazione da parte dello Stato italiano dell’art. 6 della Costituzione, col riconoscimento della lingua sarda come lingua nazionale della Sardegna.

Negli anni successivi la pratica del bilin­guismo nell’attività pubblicistica e politica del movimento nazionalista e i dibattiti e le sperimentazioni su una possibile koinè del sardo, che era stata anzi prospettata come necessità da Sergio Salvi49, sensibilizzavano gran parte dell’opinione pubblica in senso favorevole al riconoscimento istituzionale della lingua sarda. Non è eccessivo sostenere, anzi, che nei confronti del sardo in molti in­tellettuali si fosse verificata una sorta di rivo­luzione psicologica che superava disagi e re­sistenze fortemente introiettati al suo uso scritto e nella conversazione extra-familiare o extra-comunitaria. Si spiega così come l’i­niziativa delle tre riviste, subito approdata ad un Comitato per la lingua sarda, cui ade­risce, con maggiore o minore convinzione, un ventaglio molto ampio di forze politiche e sociali (Partito sardo, Psi, Pr, Dp, Su popu- lu sardu, alcune federazioni sindacali e varie associazioni culturali), costituisca l’occasio­ne di una eccezionale mobilitazione dell’opi­nione pubblica su tutte le questioni dell’iden­tità. E questo a prescindere dai contenuti particolari, più o meno discutibili, della pro­posta di legge popolare e dal suo difficile ap­prodo istituzionale50.

La battaglia per la lingua degli anni 1977- 1980 costitusce però anche il punto alto di una parabola che il movimento per l’identità comincia da allora a discendere rapidamen­te, quasi abbia esaurito le possibilità estreme

di un’offensiva antistituzionale condotta tut­ta sul terreno culturale. E presto si chiude, tra il 1979 e il 1981, anche la stagione delle ri­viste dell’identità, con la cessazione successi­va delle pubblicazioni di “Su populu sardu”, “Sa Sardigna” e “Nazione Sarda”.

II partito pigliatutto (1981-1985)

Nelle elezioni regionali del 1979 il Partito sardo, con il 3,4% dei voti e l’elezione di tre consiglieri, mostra una prima tendenza alla ripresa dopo una lunga fase regressiva che nella seconda metà degli anni settanta lo ave­va portato all’esclusione dall’Assemblea re­gionale. Nelle elezioni del 1974, infatti, con il 3,1% dei voti aveva eletto un solo consiglie­re, il suo leader, Giovanni Battista Melis, de­ceduto il quale era subentrato nel 1977 Bru­no Fadda, un dissidente che aveva già dato origine a un suo Movimento autonomista popolare sardo. L’abbraccio elettorale, per le politiche, del Pei e lo sviluppo di una sini­stra nazionalista culturalmente più agguerri­ta, nonostante una ritrovata identità ideolo­gica con Simon Mossa, sembrano destinare il Partito sardo alla scomparsa. Nelle stesse re­gionali del 1979, del resto, esso si presenta con Su populu sardu sotto la sigla Libertade e socialismu.

Intanto anche il gruppo di “Nazione Sar­da” corre l’alea elettorale con Democrazia proletaria, che da qualche tempo si è decisa­mente orientata, nell’isola, in senso sardista e federalista51. Insomma, proprio quando la battaglia per il bilinguismo è al suo acme e il movimento per l’identità nel suo insieme

49 Si veda il cap. La minoranza di lingua sarda, pp. 175-204, del suo Le lingue tagliate, Milano, Rizzoli, 1975.50 Cfr. E. Spiga, I! neo-sardismo, alla sez. Autonomia della cit. enciclopedia Sardegna, in part, alle pp. 144-45. La proposta di legge di iniziativa popolare è presentata il 13 luglio 1978 al Consiglio regionale della Sardegna, che la accantona e approva una sua proposta di legge al Parlamento. Nel frattempo l’originaria proposta è fat­ta propria e presentata al Parlamento da tre deputati democristiani. Entrambe sono ferme presso le commissio­ni competenti.51 Cfr. gli atti del suo seminario di Tonara, 1978, Questione sarda. Materiali per il dibattito, Cagliari, Dps, 1979.

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sembra destinato ad uno sviluppo ulteriore, tutte le formazioni maggiori del nuovo sardi­smo, indipendentisti da una parte e federali­sti dall’altra, tentano l’approdo istituziona­le. E subiscono un grave scacco. Su populu sardu non vede eletto alcun suo candidato nelle liste di “Libertade e socialismu”, men­tre il cartello federalista non raggiunge il quorum di voti necessario per la presenza in Assemblea.

Per converso il Partito sardo che nei suoi congressi del 1979 (Oristano) e del 1981 (Por- totorres) rende più esplicito il suo indipen­dentismo, riacquista con progressione im­pressionante la sua originaria figura di parti­to di massa. Mentre proliferano in tutta l’i­sola le nuove sezioni col vessillo dei Quattro mori, esso raggiunge il 9,5% dei voti sardi nelle politiche del 1983 (con due suoi seggi autonomi, uno alla Camera e uno al Senato) ed il 13,7% nelle regionali del 1984 (e poco prima, alle europee, un suo rappresentante, Michele Columbu, viene eletto al Parlamen­to di Strasburgo). Nella storia delle regionali italiane è una crescita senza precedenti (il 400% in più dal 1979 al 1984)52; ed è altret­tanto sorprendente la modificazione della di­stribuzione territoriale e sociale del voto sar­dista: dalle campagne alle aree urbane e di recente industrializzazione (a Portotorres raggiunge il 27,5%).

Le interpretazioni più correnti, nell’isola e fuori, dell’ondata elettorale del Partito sardo ora la riconducono, in negativo, a fattori di crisi sociale e di disorientamento dell’opinio­ne pubblica, ora, in positivo, a fenomeni post-moderni, il revival folclorico, l’ecologi­

smo, il discredito della “politica”53. In en­trambe le letture c’è del vero, soltanto che es­se tendono a lasciare in ombra la vicenda specifica del nazionalismo sardo, quella sua storia recente che ho cercato di ricostruire nelle pagine precedenti.

In realtà il nazionalismo sardo, non il “nuovo” ma l’unico, poiché non ce n’è stato mai un altro, nasce a metà anni sessanta co­me reazione a quella sorta di cataclisma che è stata Pindustrializzazione, o la modernizza­zione, della società isolana negli anni della Rinascita54, e perciò si è ideologicamente co­struito anche in opposizione a questa moder­nizzazione, riattingendo dal passato i model­li, le possibili linee di resistenza55 all’invan- denza espropriatrice e alienante di uno svi­luppo senz’anima e senza cervello. Anche, ma non soltanto, poiché esso ha pure espres­so i lineamenti, per quanto sfumati, di un programma di sviluppo economico fondato sulle vocazioni e risorse, naturali e storiche, dell’isola, e più in là, di un progetto di una società più democratica, giusta e a misura d’uomo. E questo con una ricerca, pur fati­cosa e non lineare, che si svolge sempre nella comunicazione con quanto di nuovo e vivo si muove, via via, altrove: dal “maggio” fran­cese alla defascistizzazione della Spagna, dalle rivoluzioni nella grande periferia del Terzo mondo agli etnicismi ed ecologismi più recenti.

La “mobilitazione etnica”56 nella Sarde­gna degli anni settanta si caratterizza però soprattutto sul terreno culturale, e lo stesso problema del potere, dello Stato, è posto sol­tanto a livello teorico. Separatismo, indipen-

52 Arturo Parisi, Un’analisi del voto sardo. Da dove soffia il vento sardista, in “Ichnusa”, 1984,n .7 , pp. 12-21.53 Luigi Manconi, Il risultato del Psd'A, un segnale post-moderno, ivi, pp. 8-9.54 Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1972, p. 400: “Una situa­zione rivoluzionaria o una situazione di pericolo nazionale trasforma in presa di posizione cosciente i rapporti preco­scienti con la classe e la nazione che prima erano solamente vissuti, l’impegno tacito diviene esplicito”.55 Erich J. Hobsbawm, La funzione sociale del passato, in “Comunità”, 1974, n. 171,pp. 13-27.56 Per questo concetto, Paolo Pistoi, Identità etnica e mobilitazione politica, in “Rassegna italiana di sociologia”, 1983, pp. 79-104.

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dentismo e federalismo sono tutte opzioni “politicamente” (e cioè nel presente) imprati­cabili, a meno del ricorso a forme di lotta ar­mata.

Ma questa, esclusa in linea stessa di princi­pio dalle premesse ora democratico-sociali ora radical-liberali dello strato grosso del movimento nazionalistico sardo (l’unica am­biguità al riguardo è nel lascito di Simon Mossa), può essere affacciata come possibili­tà, e praticata, soltanto ai suoi margini estre­mi (quando non è provocata dall’esterno57). La responsabilità politica non può essere co­munque elusa; avviene così che lo scacco elettorale del 1979 e la successiva empasse istituzionale cui approda la battaglia per il bilinguismo, portino il movimento per l’i­dentità a un bivio: o continuare a credere nella forza autonoma delle idee, pensate an­che in solitudine, o risolvere al modo classico il solito interrogativo sul che fare?. In questo secondo caso, c’è lì il Partito sardo, con una tradizione, un simbolo, un apparato che è riuscito in qualche modo a salvaguardare, a fornire una risposta a molti (Mario Carboni di Su populu sardu, Gianfranco Pintore di “Sa Sardigna”, Eliseo Spiga di “Nazione

Sarda”, Peppino Barrami...). Nel primo ca­so si deve accettare di stare “alla macchia”, poiché alla fine l’utopia è lo spazio sempre aperto del possibile, e come tale può anche consentire dei ritorni non compromissori sul­la realtà (con il progetto nuovo, ad esempio, di un federalismo non come modo d’essere dello Stato, ma della società, della comunità e dell’individuo)58.

C’è anche, naturalmente, chi non ha scelto né una strada né l’altra, si fanno e disfanno altri gruppi, nascono e muoiono altri perio­dici59, si ondeggia tra folclore e folclorismo, ma intanto, nel 1985, la verità è che il Parti­to sardo si è preso quasi tutto, ha raccolto quanto il nazionalismo ha seminato60. E questo deve ora affidare alle concrete scelte politiche di quello gran parte del suo futu­ro. Gli ha fornito una cultura, quella dell’i­dentità, una nuova base sociale, ora anche operaia, un modello di socialismo democra­tico e libertario: un patrimonio che in una nuova ̂ contrattazione degli interessi sardi con lo Stato italiano potrebbe essere arric­chito, ma anche sperperato.

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57 Alludo alle recenti polemiche sviluppatesi attorno al processo ad un gruppo di indipendentisti, e che ha visto lo stesso Presidente della Giunta regionale, Mario Melis, chiamare in causa Gheddafi e i servizi segreti italiani; cfr. al riguardo II complotto separatista e le congiure antisardiste, in “Ichnusa”, 1985, n. 8, pp. 27-39.58 Si veda la prefazione di Antonello Satta a G. Contu, Il federalismo in Sardegna, cit., pp. 5-9. Dello stesso Satta vanno tenuti presenti La storia della questione sarda, in “Il Messaggero sardo”, luglio-agosto 1983 e Fastidiar, il ruo­lo del neosardismo, in “11 Quadrifoglio” , aprile 1984.59 Si possono qui ricordare “Sardigna e libertade” e “Iskra” che derivano sostanzialmente dal tronco di Su populu sardu, “Sa bardana”, e “Huturà Hutalabì” che mostrano un curioso adattamento sardo-nazionale di Autonomia operaia.60 Nel 1984 è ricomparso nelle edicole “Il Solco”, il vecchio periodico del Partito sardo. Nella redazione sono pre­senti Michele Columbu, Mario Carboni, Gianfranco Pintore, Eliseo Spiga..., ma la rivista è ancora lontana da una sintesi politica e culturale adeguata alle esperienze che vi confluiscono.