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G. Giappichelli editore – torino

Comitato di direzione

Massimo Basilavecchia, roberto cordeiro Guerralorenzo del Federico, eugenio della Valle, Valerio Ficari

Maurizio logozzo, Giuseppe MariniSalvatore Muleo, Franco paparella

livia Salvini, loris tosi

3-4/2017

Tax Law Quarterly

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Comitato di direzioneMassimo Basilavecchia, roberto cordeiro Guerra, lorenzo del Federico, eugenio della Valle, Valerio Ficari, Maurizio logozzo, Giuseppe Marini, Salvatore Muleo, Franco paparella, livia Salvini, loris tosi

Comitato scientifico dei revisoriniccolò abriani, Francisco adame Martinez, antonia agulló agüero, Jacques au-tenne, Mauro Beghin, pietro Boria, Marc Bourgeois, andrea carinci, Giuseppe cipolla, Silvia cipollina, andrea colli Vignarelli, Gianluca contaldi, daria cop-pa, Giacinto della cananea, adriano di pietro, augusto Fantozzi, andrea Fedele, luigi Ferlazzo natoli, Stefano Fiorentino, Guglielmo Fransoni, Gianfranco Gaffuri, Franco Gallo, cesar Garcia novoa, alfredo Garcia prats, daniel Gutman, pedro h. herrera Molina, Manlio ingrosso, enrico laghi, Salvatore la rosa, carlos lopez espadafor, raffaello lupi, Jacques Malherbe, enrico Marello, Gianni Marongiu, enrico Marzaduri, Giuseppe Melis, Sebastiano Maurizio Messina, Marco Miccinesi, Salvo Muscarà, Mario nussi, carlos palao taboada, leonardo perrone, raffaele perrone capano, Franco picciaredda, Francesco pistolesi, ana María pita Gran-dal, Gianni puoti, José a. rozas Valdés, claudio Sacchetto, Salvatore Sammartino, roberto Schiavolin, roman Seer, Maria teresa Soler roch, paolo Stancati, dario Stevanato, Giuliano tabet, Francesco tesauro, Giuseppe tinelli, edoardo traversa, antonio Uricchio, Juan enrique Varona alabern, Marco Versiglioni, Bjorn West-berg, Giuseppe Zizzo

Comitato di redazioneantonio Viotto (coordinatore), ernesto-Marco Bagarotto, Gianluigi Bizioli, Susanna cannizzaro, pier luca cardella, anna rita ciarcia, Marco di Siena, Stefano dori-go, antonio Marinello, pietro Mastellone, Michele Mauro, annalisa pace, damiano peruzza, Federico rasi, laura torzi, caterina Verrigni

Tutti i contributi pubblicati nella Rivista sono stati sottoposti alla valutazione colle-giale da parte del Comitato di direzione e alla revisione anonima da parte di uno dei componenti del Comitato scientifico dei revisori, in base all’apposito Regolamento (consultabile sul sito www.giappichelli.it/RTDT_regolamento.html)

Amministrazione: presso la casa editrice G. Giappichelli, via po 21 – 10124 torino

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INDICE-SOMMARIO

pag.

Gli Autori e i Revisori 573

Dottrina

I. Cugusi, Il percorso tortuoso nella definizione del concetto di “sede dell’amministrazione” tra emancipazione dal diritto civile e ritorno al diritto tributario (The tortuous path for defining the concept of “place of management” between emancipation from civil law and re-turn to tax law) 577

L. Del Federico-E. Traversa, Il nuovo regime punitivo dell’abuso del diritto in materia tributaria: disciplina nazionale e quadro europeo (The new punitive regime of tax abuse: Italian legislation and Europe-an framework) 597

E. Della Valle, L’imputazione a periodo nella determinazione del red-dito dell’impresa minore “semplificata” (Timing imputation in the income calculation of “simplified” small enterprises) 633

V. Ficari, La nuova disciplina del pagamento parziale dei crediti tribu-tari di cui all’art. 182 ter L. fall. (The new discipline on the partial pay-ment of taxes provided by art. 182 ter of Bankruptcy Law) 653

F. Lorusso, Profili problematici sulla sospensione ai soli fini fiscali dell’efficacia della estinzione delle società (Practical issues linked to the suspension, for mere tax purposes, of companies’ termination effec-tiveness) 675

G. Marini, L’assegno divorzile tra reddito e patrimonio (The divorce check between income and capital) 697

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INDICE-SOMMARIO RTDT - nn. 3-4/2017 572

pag.

F. Pepe, Sulla tenuta giuridica e sulla praticabilità geo-politica della “dottrina Vestager” in materia di tax rulings e aiuti di Stato alle im-prese multinazionali (On the legal validity and the geo-political prac-ticability of the “Vestager doctrine” in the field of tax rulings and State aid to multinational enterprises) 703

R. Rolli, Similes cum similibus congregantur. L’istruttoria tra processo amministrativo e tributario (Similes cum similibus congregantur. The investigation phase between administrative and tax proceedings) 749

D.H. Rosenbloom-P.A. Barnes, La riforma statunitense dell’imposta sulle società – e Wallace Stevens (U.S. corporate tax reform – and Wallace Stevens) 783

A. Tropea, I profili giuridici dell’adempimento collaborativo (Legal aspects of the cooperative compliance regime) 789

A. Viotto, Recenti modifiche normative in tema di accertamenti ban-cari: tra tutela del diritto alla riservatezza ed interesse generale alla repressione dell’evasione (Recent regulatory changes in banking in-spections: between the safeguard of the right to confidentiality and the general interest to combat tax evasion) 819

D. Zardini, Le violazioni relative all’acquisizione dei dati bancari, il principio di legalità dimenticato e le prove illecite (anche in riferi-mento al caso in cui l’illecito sia stato commesso da un privato al-l’estero) (The violations relating to the acquisition of bank informa-tion, the forgot principle of legality and unlawful evidence (also when the offense was committed abroad by an individual)) 853

Giurisprudenza

Cass., sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2054 e 10 febbraio 2017, n. 3562, con nota di F. Pedaccini, Considerazioni sull’art. 20 della legge di registro alla luce della giurisprudenza di Cassazione (Some remarks on art. 20 of the law on registration tax on the basis of the Italian Su-preme Court case law) 885

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GLI AUTORI E I REVISORI

Peter A. Barnes Senior Lecturing Fellow, Duke University School of Law

Isabella Cugusi Docente a contratto di diritto comparato e internazionale tributario, Università degli

Studi di Bergamo

Lorenzo Del Federico Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Chieti-Pescara

Eugenio Della Valle Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma ‘‘La Sapienza’’

Valerio Ficari Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma Tor Vergata

Francesca Lorusso Docente a contratto di Diritto tributario, Università di Catanzaro

Giuseppe Marini Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma TRE

Francesco Pedaccini Docente a contratto di Diritto tributario, Università Cattolica del Sacro Cuore di Pia-

cenza

Francesco Pepe Ricercatore conf. di Diritto tributario, Università di Sassari

Renato Rolli Professore associato di Diritto amministrativo, Università della Calabria

H. David Rosenbloom Director of the International Tax Program, New York University School of Law

Edoardo Traversa Professor of Tax Law, Catholic University of Louvain

Alessandro Tropea Dottorando di ricerca in Diritto tributario, Università di Milano-Bicocca

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GLI AUTORI E I REVISORI RTDT - nn. 3-4/2017 574

Antonio Viotto Professore associato di Diritto tributario, Università Ca’ Foscari di Venezia

Damiano Zardini Avvocato in Venezia

La revisione dei contributi pubblicati è stata effettuata da: Silvia Cipollina (Pro-

fessore ordinario di Diritto tributario, Università di Pavia); Giuseppe Melis (Profes-sore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma-Luiss); Salvatore Muscarà (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Catania); Mario Nussi (Pro-fessore ordinario di Diritto tributario, Università di Udine); Francesco Pistolesi (Pro-fessore ordinario di Diritto tributario, Università di Siena); Salvatore Sammartino (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Palermo); Roberto Schia-volin (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Padova); Francesco Tesauro (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Milano-Bicocca); Giuseppe Zizzo (Professore ordinario di Diritto tributario, Università LIUC-Castel-lanza).

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DOTTRINA

SOMMARIO:

I. Cugusi, Il percorso tortuoso nella definizione del concetto di “sede dell’ammi-nistrazione” tra emancipazione dal diritto civile e ritorno al diritto tributario (The tortuous path for defining the concept of “place of management” between emancipation from civil law and return to tax law)

L. Del Federico-E. Traversa, Il nuovo regime punitivo dell’abuso del diritto in materia tributaria: disciplina nazionale e quadro europeo (The new punitive regime of tax abuse: Italian legislation and European framework)

E. Della Valle, L’imputazione a periodo nella determinazione del reddito del-l’impresa minore “semplificata” (Timing imputation in the income calculation of “simplified” small enterprises)

V. Ficari, La nuova disciplina del pagamento parziale dei crediti tributari di cui all’art. 182 ter L. fall. (The new discipline on the partial payment of taxes provi-ded by art. 182 ter of Bankruptcy Law)

F. Lorusso, Profili problematici sulla sospensione ai soli fini fiscali dell’efficacia della estinzione delle società (Practical issues linked to the suspension, for mere tax purposes, of companies’ termination effectiveness)

G. Marini, L’assegno divorzile tra reddito e patrimonio (The divorce check bet-ween income and capital)

F. Pepe, Sulla tenuta giuridica e sulla praticabilità geo-politica della “dottrina Ve-stager” in materia di tax rulings e aiuti di Stato alle imprese multinazionali (On the legal validity and the geo-political practicability of the “Vestager doctrine” in the field of tax rulings and State aid to multinational enterprises)

R. Rolli, Similes cum similibus congregantur. L’istruttoria tra processo amministra-tivo e tributario (Similes cum similibus congregantur. The investigation phase between administrative and tax proceedings)

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 576

D.H. Rosenbloom-P.A. Barnes, La riforma statunitense dell’imposta sulle so-cietà – e Wallace Stevens (U.S. corporate tax reform – and Wallace Stevens)

A.M.A. Tropea, I profili giuridici dell’adempimento collaborativo (Legal aspects of the cooperative compliance regime)

A. Viotto, Recenti modifiche normative in tema di accertamenti bancari: tra tu-tela del diritto alla riservatezza ed interesse generale alla repressione dell’eva-sione (Recent regulatory changes in banking inspections: between the safeguard of the right to confidentiality and the general interest to combat tax evasion)

D. Zardini, Le violazioni relative all’acquisizione dei dati bancari, il principio di legalità dimenticato e le prove illecite (anche in riferimento al caso in cui l’ille-cito sia stato commesso da un privato all’estero) (The violations relating to the acquisition of bank information, the forgot principle of legality and unlawful evi-dence (also when the offense was committed abroad by an individual))

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Isabella Cugusi

IL PERCORSO TORTUOSO NELLA DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI “SEDE DELL’AMMINISTRAZIONE”

TRA EMANCIPAZIONE DAL DIRITTO CIVILE E RITORNO AL DIRITTO TRIBUTARIO

THE TORTUOUS PATH FOR DEFINING THE CONCEPT OF “PLACE OF MANAGEMENT” BETWEEN EMANCIPATION FROM

CIVIL LAW AND RETURN TO TAX LAW

Abstract Il presente lavoro analizza il concetto di “sede dell’amministrazione”, come criterio di collegamento soggettivo in grado di radicare la residenza fiscale delle società. L’in-dagine prende le mosse dalla genesi civilistica di detto concetto, per poi focalizzarsi sull’accezione peculiare attribuita in ambito tributario, attraverso una selezione della giurisprudenza più significativa. Parole chiave: residenza fiscale, società, sede dell’amministrazione, diritto civile, diritto tributario The present work analyzes the concept of “place of management”, as a subjective con-necting criterion able to determine the tax residence of companies. The research starts from the genesis of this concept in civil law, and then it focuses on the peculiar meaning attributed to it in the tax field, through a selection of the most significant case law. Keywords: tax residence, companies, place of management, civil law, tax law

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’influenza civilistica nella interpretazione del criterio della “sede dell’ammini-trazione”. – 3. L’inversione di rotta verso una definizione “evoluta” di “sede dell’amministrazio-ne” in ambito tributario. – 4. L’evoluzione tecnologica mette in crisi il tradizionale criterio della “sede dell’amministrazione”. – 5. La notifica degli atti impositivi presso la “sede dell’amministra-zione”. – 6. Considerazioni conclusive.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 578

1. Premessa

L’internazionalizzazione dei mercati impone alle imprese di pianificare la propria attività in ambiti sempre più globali. La caratteristica del contribuente globale è, infatti, la collocazione fuori dai confini nazionali della residenza o di altri elementi patrimoniali: il fenomeno della delocalizzazione è un Giano bi-fronte con il suo duplice aspetto, fisiologico o patologico, a seconda della ef-fettività o dell’artificiosità del trasferimento di residenza all’estero.

Nell’ambito del dibattito teso a definire i contorni della nozione di residenza fiscale delle persone giuridiche e ad individuare, quindi, i criteri di collegamen-to

1 con l’ordinamento legittimato all’esercizio del potere impositivo, ha assunto particolare importanza il criterio della “sede dell’amministrazione”.

La lettura e l’analisi di alcune tra le più recenti pronunce della giurispru-denza tributaria di merito

2 conduce – nel solco segnato dalla Suprema Corte in importanti arresti degli ultimi anni

3 – ad una definizione, per così dire, “evo-luta” della “sede dell’amministrazione”, di cui all’art. 73, comma 3, TUIR, of-frendo l’ossigeno ad una problematica ormai bisognosa di nuove riflessioni.

Nelle pagine che seguono verrà posto in disamina il concetto di “sede del-l’amministrazione”, evidenziando come la acritica trasposizione, nel contesto tributario, delle soluzioni interpretative ritagliate dalla giurisprudenza civili-stica intorno alla nozione di “sede effettiva”, non solo non è più in grado di condurre a risultati soddisfacenti ma rischia di degradare la sede dell’ammini-strazione a criterio meramente formale.

2. L’influenza civilistica nella interpretazione del criterio della “sede dell’ammi-nistrazione”

Come è noto, la definizione di sede dell’amministrazione, tradizionalmen-te accolta e riconosciuta dalla giurisprudenza tributaria, è il frutto di un inne-

1 Come noto i “criteri di collegamento”, sono utilizzati dall’interprete per costituire un lega-me tra la società o l’ente e l’ordinamento giuridico, in dipendenza del verificarsi di determinate situazioni di fatto o di diritto. Tale collegamento, una volta realizzatosi, consente di poter appli-care alla fattispecie concreta la norma interna o quella proveniente dalla legge estera, così risol-vendo il potenziale conflitto esistente. La funzione del criterio di collegamento consiste, dunque, nello scegliere l’ordinamento competente a disciplinare la questione o il rapporto controversi.

2 Cfr. CTR Campania, 18 novembre 2015, n. 10249; CTP Verona, 21 luglio 2014, n. 327; CTP Como n. 91/1/2013; CTP Macerata, n. 85/2/2013.

3 Cfr. Cass. pen., sez. III, 30 ottobre 2015, n. 43809; Cass., sez. trib., 7 febbraio 2013, n. 2869.

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Isabella Cugusi 579

sto civilistico: più precisamente, la Cassazione civile nell’interpretare il con-cetto di sede effettiva o principale dell’impresa espresso dalle disposizioni ci-vilistiche (quali, l’art. 46, comma 2, c.c.

4 o l’art. 9 L. fall. 5) ha inteso accordare

prevalenza al dato sostanziale, piuttosto che a quello formale, aderendo alla logica dell’effettività o alla c.d. real seat Theory

6. Si è trattato, pertanto, di ope-rare una differenziazione tra la “sede effettiva o principale” e quella “legale”

7. In una prospettiva funzionalistica tesa, quindi, a differenziare questi due

criteri, la Cassazione civile ha attribuito centralità alla sede dell’amministra-zione quale criterio di natura sostanziale che permette di individuare il centro effettivo di direzione della persona giuridica.

L’identificazione della sede sociale con il centro decisionale è dovuto, nella prospettiva tradizionale, al fatto che l’“impresa”, ex art. 2082 c.c., si sostanzia nella attività economica organizzata esercitata professionalmente dall’imprendi-tore al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi. L’impresa, quindi, è

4 L’art. 46, comma 2, c.c. prevede che «nei casi in cui la sede stabilita ai sensi dell’art. o la sede risultante dal registro è diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest’ultima». Parafrasando la norma appena citata, ove la se-de indicata nello statuto o nell’atto costitutivo o risultante dal registro delle imprese sia me-ramente nominale – ossia, non coincidente con la sede effettiva – la disposizione in esame con-sente di superare le scelte dell’autonomia privata in favore della realtà dei fatti (c.d. “princi-pio di effettività” a tutela dei terzi). La ricerca della “sede effettiva” dovrebbe condurre al luogo «in cui è posto il centro degli affari, e cioè il luogo dal quale l’attività sociale è diretta e nel quale gli affari vengono compiuti. Essa corrisponde, pertanto, al domicilio della persona fisica e alla sede dell’impresa nelle imprese individuali. Normalmente, specie per le società di minore entità, la sede della società coincide con il luogo nel quale è posta l’azienda o lo stabilimento. Ma tale coincidenza non è necessaria: l’azienda o lo stabilimento possono trovarsi in un luo-go diverso da quello in cui si esplica l’attività direttiva». Così FERRI, Società. Commentario del codice civile, a cura di Scialoja-Branca, Bologna, 1981, p. 385.

5 Secondo l’art. 9 L. fall.: «il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l’impren-ditore ha la sede principale dell’impresa». Per la giurisprudenza costante esiste una presun-zione iuris tantum di coincidenza tra la sede legale e quella che deve considerarsi la sede princi-pale dell’impresa. Tale presunzione può essere vinta attraverso la prova che la sede principale si trovi in un luogo diverso rispetto alla sede legale. È però irrilevante, ai fini del superamento di tale presunzione, la prova che in luogo diverso si svolga l’attività produttiva o si trovino i beni aziendali, essendo unicamente rilevante il luogo in cui si svolge l’attività decisionale. (Cfr., inter alia, Cass., 24 marzo 2006, n. 6677; Cass., 12 marzo 2002, n. 3655; Cass., 8 luglio 1986, n. 4455).

6 Per un approfondimento sulla real seat theory (o Sitztheorie, o siège réel) e la differenza con la incorporation theory, (o Gründungstheorie) si rinvia a MELIS, Profili sistematici del “tra-sferimento” della residenza fiscale delle società, in Dir. e prat. trib. int., 2004, p. 13 ss.

7 Sebbene infatti, presuntivamente, la sede dichiarata corrisponda alla sede effettiva, ciò non toglie che tale corrispondenza possa anche mancare.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 580

l’attività che attribuisce a chi la esercita la qualifica di imprenditore 8. In modo

coerente, allora, con l’intonazione dell’ordinamento civilistico-commerciale, che identifica a monte l’imprenditore con il soggetto organizzatore dell’attività d’im-presa, è apparso logico inferire, a valle, che la sede effettiva dell’impresa societa-ria dovesse coincidere con il luogo di c.d. “alta amministrazione” in cui, cioè, risiedono coloro (persona o gruppo di persone) che hanno la rappresentanza della società, esercitano le funzioni di maggior rilievo ed assumono ufficialmente le decisioni strategiche, di natura gestionale o commerciale, per l’impresa

9. Ebbene, per anni la giurisprudenza tributaria, di merito

10 e di legittimità 11,

ha fatto propria la definizione di sede dell’amministrazione elaborata in ambito civile, rinviandovi acriticamente, senza operare i necessari adattamenti di com-patibilità con le peculiarità del diverso contesto tributario.

Molto spesso, infatti, la giurisprudenza tributaria, ricalcando le precedenti definizioni espresse in sede civilistica

12, ha precisato che per “sede effettiva” de-ve intendersi il «luogo ove in concreto hanno svolgimento le attività ammini-strative e direzionali dell’ente, ove cioè risiedono il suo rappresentante, i suoi

8 L’attività di impresa è concepita principalmente dalla normativa civilistica come orga-nizzazione articolata ed operante sotto la direzione dell’imprenditore.

9 Nell’ordinamento italiano è, quindi, radicato un concetto di “sede dell’amministrazio-ne” inteso come luogo di assunzione delle decisioni strategiche, il quale si identifica con il risalente concetto di “central management and control”, proprio della giurisprudenza inglese. Fin dalla sua primigenia interpretazione, originariamente adottata dalle Corti inglesi di inizio Novecento, il concetto di “place of central management and control” – inteso come “sede del-l’amministrazione” – è stato legato in modo esclusivo al luogo in cui vengono adottate le de-cisioni “strategiche” che attengono alla politica aziendale e alle scelte di lungo periodo. Si ve-dano, su tutte, le sentenze Calcutta Jute Mills v. Nicholson (1876) e De Beers Consolidated Mi-nes v. Howe (1906) AC 455 (HL) at 458, citate in HARRIS-OLIVER, International Commercial Tax, Cambridge, 2010, pp. 59-60. Per ulteriori interpretazioni si veda AVERY JONES, Corpo-rate Residence in Common Law: The Origins and Current Issues, in MAISTO (a cura di), Resi-dence of Companies Under Tax Treaties and EC Law, Amsterdam, 2009, p. 122. Secondo parte della dottrina, anziché un’interpretazione sostanziale, tale criterio presenterebbe una radicata interpretazione formale del luogo di esercizio dell’attività amministrativa, derivante da una scelta politica del diritto che predilige elementi di tipo immateriale-intellettuale a discapito della considerazione del luogo ove avviene l’attività di gestione quotidiana (day to day mana-gement), ossia del luogo in cui avviene l’implementazione della strategia, quest’ultima da considerarsi come attività generatrice delle scelte rilevanti per il conseguimento dei fini eco-nomici d’impresa.

10 Si veda CTC, 10 ottobre 1996, n. 4992. 11 Cfr. Cass., 4 agosto 2000, n. 10243; Cass., 12 marzo 2009, n. 6021. 12 Il riferimento è, soprattutto, a due storiche sentenze della Corte di Cassazione civile, ri-

tualmente citate dai giudici tributari: Cass., 31 maggio 1972, n. 5982; Cass., 31 gennaio 1984, n. 1275. In senso conforme Cass., 9 giugno 1988, n. 3910.

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Isabella Cugusi 581

amministratori, si convocano le assemblee» 13. Questa interpretazione è stata,

del resto, favorita anche dalla applicazione dell’art. 4 del Modello di Conven-zione contro le doppie imposizioni redatto in seno all’OCSE che, nel fornire le linee guida per l’individuazione della residenza fiscale delle persone giuridiche, stabilisce che gli eventuali conflitti tra ordinamenti vanno risolti dando premi-nenza alla “sede di direzione effettiva”

14 della società della cui residenza si

13 Anche di recente CTP Trentino-Alto Adige, sez. II, 16 aprile 2015, n. 103 secondo cui richiamando: «l’art. 46, secondo comma c.c., il giudizio riguardante la residenza fiscale di una società, basato su un concetto di sede dell’amministrazione ex art. 75 terzo comma del TUIR comporta sempre un’indagine finalizzata all’individuazione del luogo in cui vengono, effetti-vamente, assunte le scelte dirigenziali ed operative dovendosi prescindere anche dalle previ-sioni contenute nell’atto costitutivo o nello statuto come, ripetutamente e condivisibilmente, affermato dalla Cassazione e della Corte di Giustizia UE».

14 Deve ricordarsi che la necessità di definire i contorni del concetto di “sede di direzione effettiva” in seno all’OCSE, e precisamente all’interno del Commentario, risale al maggio 2003 in occasione della pubblicazione del “Discussion Draft, Place of effective management concept: suggestions for changes to the OECD Model Tax Convention”. In tale documento si proponeva la modifica dell’art. 4, par. 3, del Modello OCSE, mediante la previsione di una serie di criteri sussidiari da applicarsi nella successione ivi indicata, nel caso in cui non fosse stato possibile individuare la “sede di direzione effettiva”:

– nesso economico prevalente oppure luogo dove l’attività è condotta oppure luogo dove vengono prese le decisioni degli amministratori;

– luogo di costituzione della società; – accordo tra le amministrazioni finanziarie in conflitto (mutual agreement). Successivamente, in data 21 aprile 2008, il Centre for Tax Policy and Administration del-

l’OCSE ha pubblicato il documento “Draft Contents of the 2008 update to the Model Tax Con-vention” (Draft Contents), contenente le proposte di modifica al Modello OCSE del 2005 e re-lativo Commentario. Il 18 luglio 2008, con la pubblicazione del documento “The 2008 update to the OECD Model Tax Convention”, sono state apportate le modifiche alla versione del 2005 del Modello OCSE. In particolare, tra le modifiche al Commentario all’art. 4, il Modello OCSE del 2008 ha previsto l’eliminazione, dal suindicato paragrafo 24, del seguente periodo: «(...) La sede di direzione effettiva sarà ordinariamente il luogo in cui la persona o il gruppo di persone che esercitano le funzioni di rango più elevato (a titolo esemplificativo, un CdA) prende uffi-cialmente le sue decisioni, il luogo in cui sono adottate le deliberazioni che devono essere as-sunte dall’ente nel suo insieme (...)». Al contempo, è prevista l’introduzione di un nuovo par. 24.1, il cui obiettivo è di precisare i fattori di riferimento per la determinazione della “sede di direzione effettiva” delle persone giuridiche. Ai fini della determinazione della residenza − pre-cisa il nuovo par. 24.1 – le autorità competenti dovranno tener conto dei seguenti fattori:

– il luogo del day-to-day management della persona giuridica; – il luogo in cui si trova l’headquarter della persona giuridica; – la legislazione applicabile alla persona giuridica; – il luogo in cui è tenuta la contabilità; – il luogo in cui si riuniscono i membri del CdA; – il luogo in cui il CEO normalmente svolge le proprie funzioni.

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controverte, dovendosi intendere per tale il luogo in cui vengono assunte le decisioni-chiave di gestione e amministrazione dell’impresa (c.d. place of effec-tive management

15). Per lungo tempo, dunque, si è assistito ad una completa assimilazione del

concetto fiscale di sede dell’amministrazione a quello civilistico di sede effettiva della società, coincidente con il luogo in cui gli amministratori si riuniscono abi-tualmente per la definizione delle strategie dell’impresa, o con il luogo da cui provengono gli impulsi direttivi o dal quale promanano le reali decisioni

16.

3. L’inversione di rotta verso una definizione “evoluta” di “sede dell’ammini-strazione” in ambito tributario

Deve osservarsi che se, da una parte, la costruzione di una definizione rap-presenta già di per sé operazione insidiosa per l’interprete, dall’altra, può risul-tare ancora più insidioso il trapianto acritico di soluzioni definitorie aliunde ela-borate, che non tenga conto della particolarità del contesto in cui le stesse si vadano ad impiantare

17.

Per una approfondita disamina si rinvia a VALENTE-RIZZARDI, Delocalizzazione, migrazio-ne societaria e trasferimento di sede, Milano, 2014.

15 In tal senso, si riporta il testo, in lingua inglese, dell’art. 4, par. 3. «Where by reason of the provisions of paragraph 1 a person other than an individual is a resident of both Contracting States, then it shall be deemed to be a resident only of the State in which its place of effective mana-gement is situated». Per approfondimenti in merito si rinvia a MOSCHETTI, Origine storica, si-gnificati e limiti di utilizzo del place of effective management, quale criterio risolutivo dei casi di doppia residenza delle persone giuridiche, in Dir. prat. trib., n. 2, 2010, p. 245.

16 A titolo esemplificativo, per individuare la sede dell’amministrazione dell’impresa estera e, pertanto, la residenza ai fini fiscali della società, i giudici tributari hanno, in questi anni, dato rilevanza ai seguenti elementi sintomatici: – l’atto costitutivo e le regole sul fun-zionamento della società estera; – il luogo di riunione degli amministratori e dell’assem-blea dei soci (verbali delle assemblee dei soci, determinazioni dell’amministratore unico e delibere del consiglio di amministrazione); – il luogo dove si svolgono con regolarità le attività dell’impresa; – dove risiedono gli amministratori e se sono in maggioranza italiani o stranieri; – la disponibilità sul territorio nazionale di conti correnti, da cui la società trae le provviste per svolgere le attività sociali; – la disponibilità in Italia o all’estero di contratti ed utenze; – il luogo di recapito delle lettere di convocazione del consiglio di amministra-zione e dell’assemblea dei soci; – la corrispondenza via fax o e-mail dalla quale emergano elementi idonei a dimostrare che la sede di direzione effettiva della società è localizzata sul territorio nazionale. Sul punto si rinvia a SACCHETTO, Esterovestizione societaria, Torino, 2013, p. 12 ss.

17 Per una più approfondita disamina della “atipicità” in senso lato (o particolarità) del diritto tributario, anche sul piano della prova, si rinvia a CUGUSI, Le prove atipiche acquisite

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Ebbene, l’analisi delle più recenti pronunce 18 mostra come, con una clamo-

rosa inversione di rotta, le Commissioni tributarie mettano, oggi, in crisi l’ido-neità del criterio della sede dell’amministrazione, tradizionalmente inteso (di civilistica derivazione), ad identificare la sede della direzione effettiva della società e, quindi, ad attrarre la residenza fiscale nel territorio di un determina-to Stato.

Nelle pronunce passate in rassegna emerge una matrice comune: i giudici tributari hanno accolto il ricorso del contribuente avverso asserite contestazio-ni di esterovestizione mosse dalla Amministrazione Finanziaria attraverso la valorizzazione del criterio del collegamento della sede dell’amministrazione ex art. 73, comma 3, TUIR. L’Agenzia delle Entrate, in particolare, nelle fattispe-cie esaminate, ha ritenuto taluni elementi (come il fatto che la residenza degli amministratori fosse in Italia o che qui fossero state convocate le delibere del Cda o assunte le decisioni strategiche) sufficienti a dimostrare che la sede della direzione effettiva della società estera fosse in Italia e che, pertanto, i ricavi pro-dotti dalla stessa dovessero essere assoggettati alla tassazione nazionale, ne-gligendo però il dato, pur offerto dalle prove assunte nel processo, della effet-tività della attività svolta dalla società estera

19. Parafrasando l’orientamento della più recente giurisprudenza tributaria di

merito, il concetto tradizionale di sede dell’amministrazione risulta ormai ina-deguato, non potendo più essere considerato dirimente ed esclusivo per indi-viduare la residenza fiscale della società e legittimare l’esercizio della potere impositivo di uno Stato. Laddove, ex adverso, lo si volesse ancora considerare risolutivo, si correrebbe il rischio di accordare prevalenza ad un criterio pura-mente formale, con conseguenti storture applicative. Si pensi al rapporto tra società capogruppo (holding) e società che del gruppo fa parte: il fatto che le decisioni più importanti vengano adottate dalla capogruppo appartiene alla nell’interscambio di informazioni e la loro rilevanza nel processo tributario, in AA.VV., Saggi di diritto tributario, Roma, 2017.

18 Cfr. CTR Campania, 18 novembre 2015, n. 10249; CTP Verona, 21 luglio 2014, n. 327; CTP Como n. 91/1/2013; CTP Macerata, n. 85/2/2013.

19 In particolare, in una delle sentenze esaminate, CTP Verona n. 327/2014, cit., l’Agenzia delle Entrate aveva riqualificato come soggetto passivo italiano una società slovacca apparte-nente ad un gruppo societario con capogruppo in Italia, proprio valorizzando il criterio della sede dell’amministrazione di derivazione civilistica. Tra gli indizi ritenuti idonei a dimostrare la sede della direzione effettiva della società estera in Italia, l’Agenzia evidenziava la residenza in Italia degli amministratori e la presenza della documentazione della controllata presso la sede della capogruppo italiana. I giudici tributari hanno accolto il ricorso del contribuente pro-prio richiamando l’orientamento della sentenza della Corte di Giustizia Cadbury-Schweppes, rileggendo l’intera vicenda alla luce del principio di libertà di stabilimento.

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fisiologia del rapporto di coordinazione e controllo che lega la controllata alla controllante

20. Si ritiene che la sede dell’amministrazione, secondo la communis opinio

21, possa conservare una sua validità in ipotesi di patologia, ossia quan-do la delocalizzazione societaria coincida con una esterovestizione. Come no-to, l’esterovestizione

22, che rientra nel più ampio concetto di abuso del dirit-to

23, si configura quando ci si trova di fronte ad una costruzione di puro artifi-cio, non aderente ad una corrispondente e genuina realtà economica

24 e, se-condo il consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria – a parti-re dalla nota sentenza Cadbury-Schweppes della Corte di Giustizia

25 – costitui-sce l’unica eccezione (al divieto di restrizione) della libertà di stabilimento.

La normativa comunitaria 26 non ammette restrizioni alla libertà fondamen-

20 Cfr. Cass. pen., sez. III, 30 ottobre 2015, n. 43809, par. 7.13. Come precisato dalla Cas-sazione, il criterio della “direzione effettiva” quale luogo di individuazione del domicilio fi-scale può non essere sufficiente e può comunque comportare storture applicative nel caso di società controllate ai sensi dell’art. 2359 c.c., comma 1, soprattutto nei casi in cui il capitale sociale della controllata è interamente di proprietà della controllante. Sulle problematiche relative alla individuazione della “sede dell’amministrazione” nell’ambito dei gruppi societari si rinvia a MELIS, Il trasferimento della residenza fiscale nell’imposizione sui redditi, Roma, 2008, p. 231 ss. Si veda, inoltre, MARINO-MARZANO-LUPI, La residenza delle società e controllo tra schemi OCSE ed episodi giurisprudenziali interni, in Dialoghi trib., n. 3, 2008, p. 91 ss.; MARI-NO, La relazione di controllo nel diritto tributario, Milano, 2008.

21 Si allude alla definizione di derivazione civilistica. 22 Secondo la Corte di Cassazione, si intende «la fittizia localizzazione della residenza fi-

scale di una società all’estero, in particolare, in un Paese con un trattamento fiscale più van-taggioso di quello nazionale, allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazio-nale». (Cfr. Cass., 7 febbraio 2013, n. 2869).

23 Cfr. Cass., 7 febbraio 2013, n. 2869. 24 Sostanzialmente si realizza una dissociazione tra residenza reale e residenza fittizia/for-

male del soggetto passivo, che persegue lo scopo di assoggettare i propri redditi a tassazione in un paese o territorio a fiscalità privilegiata. Cfr. Cass. n. 2869/2013 ove si legge «quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sus-sistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l’operazione sia meramente artificiosa (wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica».

25 Corte di Giustizia, 12 settembre 2006 (causa C-196/04) ove si legge: «I cittadini di uno Stato membro, persone fisiche o giuridiche, non possono tentare, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, di sottrarsi all’imperio delle loro leggi nazionali, né possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario».

26 L’art. 49 TFUE (ex art. 43 TCE) stabilisce che: «Nel quadro delle disposizioni che se-guono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territo-rio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro

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tale di stabilimento che, quale articolazione del principio generale di non di-scriminazione, è funzionale ad assicurare l’efficace perseguimento degli obiet-tivi fondamentali dell’integrazione europea in una relazione strumentale con il principio dell’unità del mercato interno. È giurisprudenza costante in mate-ria, che la costituzione di una società in un altro Stato membro allo scopo di beneficiare di una disciplina più favorevole non rappresenta un abuso della li-bertà di stabilimento

27. Per contro, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa solo se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate a sottrarre l’impresa alla legislazione dello Stato mem-bro interessato

28. Se l’ordinamento circoscrive le restrizioni al diritto di stabi-limento alle sole situazioni in cui sussistono pratiche abusive, consegue natu-raliter che non possa essere mossa contestazione di esterovestizione in presenza di uno stabilimento produttivo effettivamente insediato in un altro Stato mem- stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposi-zioni del capo relativo ai capitali».

27 Nella sentenza Cadbury-Schweppes causa C-196/04, cit., la Corte di Giustizia precisa infatti che: «I cittadini parimenti non possono essere provati della possibilità di avvalersi del-le disposizioni del Trattato solo perché hanno inteso approfittare dei vantaggi fiscali offerti dal-le norme in vigore in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede» (vedi in tal senso anche sentenza Centros Ltd. C. Erthvervs-og g Selskabsstyrelsen, causa C-127/97). E ancora, «l’art. 43 Trattato CE impone l’abolizione delle restrizioni alla libertà di stabilimento. Devono essere considerate tali tutte le misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio di tale libertà» (Corte di Giustizia, 15 ottobre 2004, n. 442). È pur vero, però, che restrizioni a tale libertà «sono ammissibili se giustificate da esigenze imperative di interesse generale, le quali devono in ogni caso configurarsi necessarie per il conseguimento dello scopo perseguito ...» (Corte di Giustizia, 6 novembre 2003, n. 243) e che «la Corte ha ritenuto che la necessità di garantire la coerenza di un regime fiscale poteva, in taluni casi, giustificare una normativa tale da restringere le libertà fondamentali (v., in questo senso, sentenze 28 gennaio 1992, causa C-204/90 ... e ... causa C-300/90 ...)» (Corte di Giustizia, 16 luglio 1998, C-264/96). Risulta quindi evidente che, secondo la Corte di Giustizia, il principio della libertà di stabilimento – lungi dal dover sempre e comunque prevalere su qualsiasi altro interesse, anche quello a ostacolare l’evasione fiscale – può subire innumerevoli e legittime deroghe.

In tal senso anche la recente Cass. pen. n. 43809/2015, cit. che ribadisce: «la mera circo-stanza che una società residente crei uno stabilimento secondario, per esempio una control-lata, in un altro Stato membro può fondare una presunzione generale di frode fiscale, né giu-stificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato».

28 L’abuso del diritto di stabilimento si configura, allora, se l’operazione posta in essere sia “meramente artificiosa” in quanto fa riferimento ad una forma giuridica che non riprodu-ce una corrispondente e genuina realtà economica.

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bro. Pertanto, a dover essere valutato è il comportamento del soggetto impo-nibile, tenendo presente che l’obiettivo della libertà di stabilimento è quello fa-vorire l’integrazione di un cittadino di uno Stato membro in uno Stato diverso permettendogli di partecipare, in modo stabile e continuativo, alla vita eco-nomica dello Stato ospite e di esercitarvi la propria attività. Ne consegue che, per essere giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, «una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comporta-menti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effetti-vità economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale»

29. In definitiva, la delocalizzazione 30

societaria va letta ed interpretata alla luce della libertà di stabilimento; mentre fino ad un recente passato è prevalsa una interpretazione in chiave elusiva del fenomeno delocalizzativo

31. Per meglio dire, occorre distinguere tra la deloca-lizzazione societaria legittima e la esterovestizione artificiosa

32. L’applicazione delle guarentigie comunitarie alle persone giuridiche (oltre che fisiche) che si avvalgono delle libertà comunitarie riconosciute dal Trattato istitutivo dell’UE, ha posto extra ordinem qualsiasi tentativo da parte delle autorità nazionali de-gli Stati membri di comprimere la fruizione delle stesse per mere finalità era-riali. Solo ove tale delocalizzazione coincida con una esterovestizione, ossia con

29 Cfr. sentenza Cadbury-Schweppes causa C-196/04, cit. Per un approfondimento si rin-via a BEGHIN, La sentenza Cadbury-Schweppes ed il “malleabile” principio di libertà di stabili-mento, in Rass. trib., n. 2, L, 2007.

30 Il termine “delocalizzazione” fa riferimento al trasferimento di un’attività (nella mag-gior parte dei casi l’attività di produzione) da imprese localizzate sul territorio nazionale ad altre localizzate in altri Paesi (esistenti o di nuova costituzione). Il trasferimento di sede e i processi di delocalizzazione si collocano, frequentemente, nell’ambito di un più ampio pro-getto di internazionalizzazione delle attività produttive attraverso la ricerca di sempre mag-giori economie di scala, di sfruttamento del know-how acquisito nel Paese di origine e ridu-zione dei costi.

31 Così TIEGHI-NANETTI, Dalla “residenza fiscale” alla “libertà di stabilimento”: spunti in tema di “delocalizzazione societaria” ed “estero-vestizione”, in Riv. dir. trib., 2015, 04, p. 6, i quali sot-tolineano come «il fenomeno della “delocalizzazione” è stato inizialmente percepito come illegittimo utilizzo da parte di soggetti residenti di società estere, soprattutto ove queste fos-sero localizzate in paesi a bassa fiscalità. Posto che la ragione sottesa alla costituzione della società estera veniva identificata nel risparmio fiscale, si presumeva anche che il soggetto ita-liano, nella veste di “dominus”, continuasse a “comandare” di fatto, la propria “residenza”, sub specie di “sede dell’amministrazione”, in Italia. Tale quadro di fondo si complicava e si complica in presenza di realtà societarie di maggiore complessità in cui l’esigenza di definire la “sede dell’amministrazione” deve fare i conti sia con la definizione del contenuto e delle modalità con cui tale attività di amministrazione risulta esercitata, sia con lo sviluppo delle tecniche di comu-nicazione che rendono la presenza degli amministratori sempre più ... evanescente».

32 Cfr. Cass. n. 2869/2013, cit.

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una società fittiziamente collocata all’estero, essa potrà essere resa oggetto di contestazione da parte delle amministrazioni finanziarie nazionali

33. Nel caso, quindi, di fittizia localizzazione della residenza fiscale di una so-

cietà all’estero è chiaro che la sede dell’amministrazione tradizionalmente (e civilisticamente) inteso, risulta criterio risolutivo ed esclusivo ai fini della in-dividuazione della residenza fiscale.

Lo spunto dogmatico di rilievo che emerge dall’analisi delle più recenti pro-nunce è questo: il criterio dell’effettività – reinterpretato dalla giurisprudenza tributaria – conduce ad una soluzione diversa da quella cui era approdata la Corte di Cassazione in sede civile. In particolare, il luogo della “direzione ef-fettiva” non può essere dissociato dal luogo di effettiva operatività della socie-tà, in una sorta di contiguità tra il concetto di sede dell’amministrazione e l’oggetto principale.

La nozione di “sede amministrazione” sub specie di centro decisionale ce-de il passo al criterio di nuovo conio di “sede amministrazione” quale luogo ove avviene l’esercizio effettivo dell’attività economica/principale e sostan-ziale dell’ente. In questa ottica, la “sede dell’amministrazione” deve presen-tare quel radicamento nel territorio dello Stato atto a permettere la interre-lazione con le relative infrastrutture così da consentire la fruizione dei servi-zi offerti dalla comunità territoriale. Tale impostazione è coerente con la nozione di stabilimento di cui alle disposizioni del Trattato che implica l’e-sercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeter-minata, in virtù dell’insediamento in pianta stabile in un altro Stato mem-bro

34. Lo stabilimento, e la correlata libertà, presuppone, dunque, un inse-diamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospitante e l’esercizio sul suo territorio di una attività economica reale. Affinché il crite-rio della “sede dell’amministrazione” possa radicare la residenza di una so-cietà in un determinato Stato giustificandone, così, l’esercizio del potere im-positivo occorre un radicamento, permanente e tangibile, che non si può e-saurire nella mera attività decisoria.

L’accertamento della consistenza minima che un insediamento deve avere per non essere considerato costruzione di puro artificio, va condotto secondo i criteri interpretativi che tengono conto delle indicazioni della giurispruden-za comunitaria in tema di diritto di stabilimento. Certamente utile nell’ambi-to di questo accertamento, può essere anche il ricorso ai criteri elaborati dalla Corte di Giustizia per definire il “centro di attività stabile” di cui all’art. 9,

33 Cfr. TIEGHI-NANETTI, op. cit., p. 8. 34 Così Cass. pen. n. 43809/2015, cit., par. 16.68.

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comma 1, Direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE 35, che così recitava: «Si

considera luogo di una prestazione di servizi il luogo in cui il prestatore ha fis-sato la sede della propria attività economica o ha costituito un centro di attivi-tà stabile, a partire dal quale la prestazione di servizi viene resa o, in mancanza di tale sede o di tale centro di attività stabile, il luogo del suo domicilio o della sua residenza abituale».

Sebbene la nuova Direttiva 2006/112/CE 36, che ha sostituito la preceden-

te, faccia ora riferimento alla “stabile organizzazione” in luogo del “centro di attività stabile”, si ritiene che i due concetti rimangano sostanzialmente sovrap-ponibili e possa conservare la sua validità l’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia secondo la quale «si considera luogo di una prestazione di servizi quel luogo in cui il prestatore ha fissato la sede della propria attività economi-ca o ha costituito un centro di attività stabile a partire dal quale la prestazione di servizi viene resa o, in mancanza di tale sede o di tale centro di attività stabile, il luogo del suo domicilio o della sua residenza abituale»

37. Ne deriva che, un centro d’attività possa essere utilmente preso in considerazione, quale criterio della sede di amministrazione, se presenta un grado sufficiente di permanenza ed una struttura idonea, sul piano del corredo umano e tecnico, a rendere pos-sibili in modo autonomo le prestazioni di servizi considerate. In questa dire-zione va, peraltro, l’“Osservazione” al Commentario all’art. 4 del Modello OCSE 2008, presentata dall’Italia la quale ha rilevato che «nel determinare la sede di direzione effettiva deve essere preso in considerazione il luogo ove l’attività principale e sostanziale dell’ente è esercitata»

38. In senso conforme

35 Sesta direttiva del Consiglio in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore ag-giunto.

36 La Direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE è stata abrogata e sostituita dalla Diretti-va 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE – Direttiva del Consiglio relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto.

37 Corte di Giustizia CE, sez. VI, 17 luglio 1997, n. 190 – Soc. Aro Lease BV c. Gerechtshof Amsterdam).

38 Si tratta delle osservazioni presentate dall’Italia ai parr. 24 e 24.1 del Commentario art. 4 che, come precisato nella nota 12 del presente contributo, individua una serie esemplifica-tiva di criteri di collegamento per la determinazione della sede di direzione effettiva. Come affermato nella Risoluzione 5 novembre 2007, n. 312/E, l’Osservazione altro non è che un mero chiarimento della tesi da sempre sostenuta dall’Amministrazione Finanziaria, secondo cui ai fini dell’individuazione della sede di direzione effettiva di una società o ente occorre non solo fare riferimento al luogo di svolgimento della prevalente attività direttiva e amministrati-va, ma anche tener conto del luogo ove è esercitata l’attività principale. Cfr., ex multis, Circolare ministeriale, 8 luglio 2011, n. 32, con cui l’Amministrazione Finanziaria ha precisato che nel campo degli insediamenti o stabilimenti societari sospetti di costituire costruzioni di puro arti-

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all’Osservazione dell’Italia espressa in ambito internazionale si pone l’orienta-mento costante della Corte di Cassazione secondo cui «l’Italia nell’approvare il Modello di Convenzione OCSE ha espresso una riserva all’art. 4, dichiaran-do di non condividere la interpretazione espressa nel paragrafo 24, riguardan-te la persona o il gruppo di persone che esercitano le funzioni di rango più elevato quale esclusivo criterio per identificare la sede di direzione effettiva di un ente, per la cui determinazione deve, invece, essere preso in considerazio-ne il luogo ove l’attività principale e sostanziale è esercitata

39». In definitiva, non appare più risolutivo individuare se nel territorio nazio-

nale si svolga l’attività di c.d. “alta amministrazione” – quella, cioè, inerente alle scelte strategiche – della società estera o dove risiedano gli amministratori ma risulta dirimente accertare se nello Stato estero di costituzione o di trasferimen-to si trovino quegli elementi che rivelano un radicamento più profondo della medesima società, sotto il profilo dell’autonoma capacità organizzativa e di of-ferta a terzi della propria attività.

Come sostenuto dalla più attenta dottrina 40, quando l’insediamento è ef-

fettivo, il place of effective management è il luogo in cui concretamente viene svolta l’attività imprenditoriale e tale attività risulta decisiva ed assorbente ri-spetto agli altri criteri di collegamento previsti ai fini della residenza fiscale.

La più evoluta definizione di sede dell’amministrazione intesa quale luogo di effettivo svolgimento di un’attività economica impatta, inevitabilmente, sul piano della prova. Non potrà ragionevolmente radicarsi la residenza nel luogo amministrativo-decisionale ove sia dimostrato che una società si sia effettiva-mente insediata in un dato territorio sotto il profilo imprenditoriale, con orga- ficio, si deve dare rilievo preminente, alla stregua della giurisprudenza comunitaria, all’attività effettiva e alla effettiva consistenza strutturale della società cui vengono imputati redditi tran-sfrontalieri, per cui società che non presentino una attività o una struttura apprezzabili ..., pos-sono giustificare il sospetto che l’insediamento nello Stato membro prescelto sia privo di ra-gioni economiche diverse dalla finalità di sottrarre quei redditi alla fiscalità dello Stato.

39 Cass. pen., sez. III, 23 febbraio 2012, n. 7080; cfr., in senso conforme, Cass., sez. trib., 7 febbraio 2013, n. 2869 e Cass. pen., sez. III, 8 aprile 2013, n. 16001.

40 La residenza fiscale degli amministratori o il luogo dove materialmente si formano i processi decisionali inerenti l’amministrazione non sono elementi decisivi per determinare il place of effective management della società ma occorre tenere in considerazione il luogo in cui è esercitata l’attività principale dell’ente. Così MELIS, Corporate Tax Residence and Mobility, EATLP Congress 2017, in http://www.intgiurpol.unimi.it; LUPI, Il radicamento al territorio tra strutture operative e holding, in Dialoghi trib., n. 6, 2005; cfr. inter alia COUZIN, Corporate Re-sidence and International Taxation, Amsterdam, 2002, pp. 62-63, il quale cita in tal senso la sentenza della Corte Suprema irlandese: John Hood & Company, Limited v. W.E. Magee (Sur-veyor of Taxes), (1918) 7 TC 327 (High Court of Justice (Ireland), KB Div.).

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nizzazione in loco idonea a rendere fruibile il servizio per la comunità territo-riale, con sufficiente grado di permanenza ed autonomia. È interessante se-gnalare come la CTR Campania, 18 novembre 2015, n. 10249, si sia sofferma-ta proprio sul valore delle indagini finanziarie. In particolare, secondo i giudici tributari, siffatte indagini, da sole, risultano prive dei requisiti di gravità, preci-sione e concordanza se espletate in assenza di «un’attività di verifica “sul po-sto”, cioè nella sede estera della ricorrente», ai fini dello svolgimento di attivi-tà di verifica «sul piano formale (...) e sul piano sostanziale (...)». Si richiede, quindi, che anche l’attività di verifica presenti un carattere sostanziale, posto che la valutazione di taluni elementi non accompagnata da un controllo in lo-co dell’effettivo svolgimento dell’attività economica, offre un quadro comples-sivo parziale se non, addirittura, inattendibile. Nel caso specifico, il Collegio ha censurato l’operato dell’Amministrazione Finanziaria che non aveva forni-to la dimostrazione «di aver disposto [una attività di verifica nello Stato este-ro], pur avendone ampi poteri, per effetto dell’attivazione degli accordi inter-nazionali». Al riguardo si osserva come il carattere “sostanziale” dell’attività di verifica sia legato anche all’utilizzo degli strumenti di cooperazione ammi-nistrativa tra Stati che, negli ultimi anni, hanno assunto una particolare impor-tanza nel raggiungimento degli obiettivi di politica tributaria internazionale.

Infine il Collegio ha rilevato come sia «senza dubbio carente e superficiale asserire che la sede ove vengono assunte le decisioni gestionali ed operative di un’impresa estera detenuta da soggetti residenti in Italia, sia sempre quella di residenza del socio o amministratore, confondendo, in tal modo, il potere di comando e coordinamento della società da parte del titolare con la sua gestio-ne ed amministrazione». Tale conclusione riafferma, da un lato, la distinzione tra il concetto di direzione e coordinamento e quello di gestione dell’ente e, dall’altro, l’insufficienza della residenza degli amministratori quale elemento probatorio

41.

41 In senso conforme si veda CTR Toscana che, nella sent. 3 dicembre 2007, n. 61 ha ri-tenuto che, ai fini dell’individuazione della sede amministrativa di una società, «non si può trarre, sul piano giuridico, alcuna conseguenza da fatti marginali come (...) la residenza ana-grafica degli amministratori» e la CTP di Treviso che, con la sent. 16 ottobre 2012, n. 91, ha affermato come ai fini dell’individuazione della sede dell’amministrazione non rilevi il luogo ove gli amministratori della società controllata estera risiedono.

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4. L’evoluzione tecnologica mette in crisi il tradizionale criterio della “sede dell’amministrazione”

Nell’era della semplificazione, non va, peraltro, trascurato l’impatto dello sviluppo tecnologico quale fattore che, incidendo sulle modalità di assunzio-ne delle decisioni strategiche, concorre a minare la validità del criterio della sede dell’amministrazione, tradizionalmente inteso.

Negli ultimi anni le nuove tecnologie hanno rappresentato un acceleratore del processo di globalizzazione, permettendo ai gruppi di imprese di sfruttare le migliori opportunità per incrementare l’efficienza aziendale nella ricerca con-tinua della ottimizzazione dei costi. La globalizzazione dei mercati, infatti, com-porta anche la ricerca, da parte delle società, di una maggiore uniformità inter-na e di una più rapida organizzazione degli accadimenti amministrativi.

La tie breaker rule del collegamento del luogo di residenza di una persona giuridica al luogo in cui essa è gestita, di fatto, è un concetto creato dalla prassi internazionale, rectius, da un filone di prassi internazionale, e riconducibile, ancor prima, ad una giurisprudenza delle Corti inglesi interessata a ritenere re-sidenti nel proprio paese enti con attività commerciale chiaramente fuori del Regno Unito

42.

42 MOSCHETTI, Origine storica, significato e limiti di utilizzo del place of effective manage-ment, quale criterio risolutivo dei casi di doppia residenza delle persone giuridiche, in Neotera, n. 2, 2009, p. 33 ss. Come osserva l’Autore, l’origine del collegamento della residenza al luogo di gestione viene fatto risalire ad alcune sentenze della House of Lords inglese di fine Otto-cento-primi del Novecento, che stabiliscono nel Regno Unito la residenza di tre società svol-genti attività commerciale in Sud Africa, in India ed in Italia. Il caso più noto è quello della so-cietà di estrazione e distribuzione di diamanti, tuttora esistente, De Beers. Nel 1906 la House of Lords posta di fronte al problema di stabilire dove fosse residente la società:

– registrata in Sud Africa; – che svolgeva l’attività di estrazione di diamanti in Sud Africa; – che teneva la contabilità in Sud Africa; – con ufficio principale (head office) in Sud Africa; – con assemblee generali dei soci in Sud Africa; – con i consigli di amministrazione che si riunivano sia in Sud Africa, sia nel Regno Unito; – avente la maggioranza dei direttori residenti in Regno Unito (nove su sedici);

decise per la residenza nel Regno Unito, dando maggior peso evidentemente al criterio del luogo da cui la società riceveva gli impulsi decisionali più importanti, dove si trovava “la mente gestionale” della società. Anche in un’altra sentenza (Calcutta Jute Mills Company del 2 febbraio 1876), relativa ad una società operante in India, i giudici hanno dato prevalen-za al criterio del luogo di gestione della società, ritenendo fiscalmente residente la società nel Regno Unito, in quanto registrata in Inghilterra ed in quanto ivi gli amministratori si riuni-vano, gestivano e controllavano le operazioni più importanti della società.

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Si tratta, tuttavia, di una vecchia prassi che entra in conflitto con una nuo-va, determinata dall’evoluzione dei tempi.

Nel rinnovato scenario, il riferimento al luogo dove gli amministratori a-dottano collegialmente le decisioni risulta, infatti, sempre più insoddisfacente, poiché concretamente manipolabile. I moderni mezzi di trasporto, di comu-nicazione interpersonale e di trasferimento dei dati hanno condotto alcuni Autori a considerare il criterio della sede dell’attività amministrativa come so-stanziale “in apparenza”, posto che il loro crescente utilizzo consente di collo-care detta attività nel luogo giudicato più conveniente sotto il profilo fiscale, arrivando persino a rendere del tutto evanescente il luogo dove questa viene esercitata

43. La rigida applicazione del criterio della sede di direzione effettiva mostra i suoi limiti più evidenti allorché consente al contribuente di scegliere dove localizzare la residenza societaria «al solo costo di un viaggio aereo o fer-roviario»

44. In ragione della facilità degli spostamenti, il criterio del “place of effective

management” ben si presta ad essere manipolato attraverso la predisposizio-ne di documenti che dimostrino la presenza di amministratori itineranti presso la sede sociale estera, solo per il tempo di una riunione o per l’ado-zione di una delibera

45. Anche l’OCSE ha messo in luce i problemi applica-tivi del criterio del “place of effective management” e la conseguente necessità di correttivi metodologici

46. Tra questi, rientra l’estensione delle maglie in-terpretative della tie breaker rule fino a ricomprendere ulteriori riferimenti quali la localizzazione e le funzioni svolte nelle sedi aziendali, le informazio-ni sulla localizzazione della sede effettiva contenute nella documentazione aziendale, la sede dell’incorporazione, la rilevanza delle funzioni svolte nei

43 Si veda GAFFURI-COVINO, Ancora su residenza fiscale, sede amministrativa e società holding, in Dialoghi trib., n. 1, 2006, p. 77. ZAMBON, La sede dell’amministrazione quale criterio per l’attri-buzione della residenza fiscale, in Il commercialista veneto, n. 227, settembre-ottobre 2015.

44 MANZITTI, Considerazioni in tema di residenza fiscale delle società, in Riv. dir. trib., n. 8, 1998, Parte Quarta, p. 174.

45 Con riguardo anche alle videoconferenze che comportano notevoli conseguenze in termini di individuazione fisica del luogo di riunione giuridicamente rilevante, l’OCSE ha precisato che il place of effective management va individuato in ciascuna giurisdizione in cui siano presenti gli amministratori all’atto della delibera.

46 OCSE, The Impact of the Communications Revolution on the Application of “Place of Ef-fective Management” as a tie breaker rule – Draft for public comment, par. 38. Si veda, per un approfondimento sul tema, ROMANO, The Evolving Concept of “Place of Effective Management” as a Tie-breaker Rule under the OECD Model Convention and Italian Law, in European Taxa-tion, 2001, p. 339 ss.

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diversi Stati e il paese di residenza della maggior parte degli amministratori 47.

Al di là delle varie soluzioni proposte, è evidente che anche l’avvento di-rompente dell’information technology mette in crisi l’efficacia e la validità del criterio della sede dell’amministrazione stricto sensu inteso, rendendo sempre più impellente un suo sostanziale ripensamento.

5. La notifica degli atti impositivi presso la “sede dell’amministrazione”

La risoluzione della questione procedurale relativa alla notifica (rectius al luogo della notifica) degli atti impositivi dipende dalla definizione della que-stione sostanziale, dovendosi stabilire se la sede della direzione effettiva della società estera sia o meno in Italia

48. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza civile, si consi-

dera valida la notifica effettuata nella sede effettiva di una società 49. La Cassa-

zione ha, più volte, chiarito che opera, «ai fini della disciplina della notifica, ex articolo 145 c.p.c., la disposizione di cui all’articolo 46, capoverso, del codice civile, secondo cui qualora la sede legale della persona giuridica sia diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della stessa anche que-st’ultima», precisando, ancora, che «ai fini della equiparazione di fronte ai ter-zi, ex art. 46 c.c., della sede effettiva a quella legale, deve intendersi per sede ef-fettiva il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e dove operano i suoi organi amministrativi o i suoi di-pendenti, ossia il luogo deputato e stabilmente utilizzato per l’accentramento dei rapporti interni e con i terzi in vista del compimento degli affari dell’ente medesimo»

50. La sede effettiva ai fini della notifica degli atti giudiziari civilistici presenta,

47 Cfr. ZAMBON, op. cit. 48 Alla luce del quadro normativo vigente, diviene determinante stabilire dove sia ubicato il

domicilio fiscale della persona giuridica. Ai sensi dell’art. 58, comma 3, D.P.R. n. 600/1973, il domicilio fiscale delle persone giuridiche viene fissato «nel comune in cui si trova la loro se-de legale o, in mancanza, la sede amministrativa; se anche questa manchi, essi hanno il domi-cilio fiscale nel comune ove è stabilita una sede secondaria o una stabile organizzazione all’e-stero e in mancanza nel comune in cui esercitano prevalentemente la loro attività». Nel caso di asserita esterovestizione, la fissazione del domicilio fiscale avviene per mezzo dei medesi-mi criteri sostanziali che vengono valorizzati per determinare la residenza dell’ente in Italia e cioè la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale dell’attività.

49 Per tutte, Cass., sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24842. 50 Cass., 13 aprile 2004, n. 7037; Cass., 24 febbraio 2004, n. 3620.

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chiaramente, profili diversi dalla sede dell’amministrazione da ricercare ai fini della residenza fiscale

51. Alla luce delle riflessioni svolte, infatti, occorre considerare che il criterio

della sede dell’amministrazione tradizionalmente inteso (di matrice civilisti-ca) non è più idoneo a “radicare” la residenza fiscale nel territorio dello Stato italiano, dovendosi ricercare un “radicamento” più profondo, che va ben oltre il luogo in cui viene espletata l’attività decisoria.

Pertanto, anche ai fini della ritualità della notifica, la localizzazione in Italia della “sede dell’amministrazione” di una società estera, deve tener conto delle nuove coordinate che rendono “effettiva” la sede

52. Va detto che, in questi ultimi anni, l’Amministrazione Finanziaria ha adot-

tato un atteggiamento piuttosto prudenziale, optando per la pluralità di noti-fiche a tutti i soggetti interessati, sia in Italia che all’estero.

Ad ogni modo, come osservato dalla giurisprudenza tributaria, la questione preliminare relativa alla notifica è strettamente collegata a quella sostanziale, perché le obbligazioni tributarie ritenute dall’Ufficio sussistono se ed in quan-to la società abbia la sua sede operativa in Italia

53. Il profilo sostanziale riguar-da, dunque, l’analisi della fattispecie concreta ed il riscontro probatorio della real and tangible connexion al territorio.

6. Considerazioni conclusive

L’orientamento della più recente giurisprudenza tributaria conduce ad al-cune considerazioni finali.

In primo luogo, deve rilevarsi che il contesto di riferimento incide sui con-tenuti di una nozione.

51 In tal senso anche BAGGIO, Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009.

52 Si pensi al caso, in precedenza prospettato, in cui l’Agenzia delle Entrate riqualifichi come soggetto passivo italiano una società slovacca appartenente ad un gruppo societario con capogruppo in Italia, proprio valorizzando il criterio della sede dell’amministrazione di deri-vazione civilistica e giunga, così, a radicare la sede della direzione effettiva della società estera in Italia, valorizzando la residenza in Italia degli amministratori e la presenza della documenta-zione della controllata presso la sede della capogruppo italiana. Qui, la dimostrazione dell’effet-tivo svolgimento dell’attività economica all’estero della società slovacca, condurrebbe ad un vizio della notifica non effettuata nella corretta sede dell’amministrazione.

53 Cfr. CTR Toscana, sez. XXV, 18 gennaio 2008, n. 61. A commento di questa sentenza, STEVANATO, Prova dell’esterovestizione e luogo di effettuazione delle notifiche: viene prima l’uovo o la gallina?, in GT-Riv. giur. trib., n. 5, 2008, p. 429.

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Con la definizione di nuovo conio 54 di “sede dell’amministrazione” la giu-

risprudenza tributaria mostra, certamente, di emanciparsi dalla nozione di de-rivazione civilistica – invece, accolta apoditticamente in passato. Come si è visto, i dati civilistici sono tra loro interdipendenti: dall’identificazione, a mon-te, dell’imprenditore con il soggetto organizzatore dell’attività di impresa di-scende, a valle, l’individuazione della sede della direzione effettiva dell’impre-sa nel luogo in cui si svolge la relativa attività decisionale. Tuttavia, gli innesti di tali dati civilistici nel diverso settore tributario non risultano soddisfacenti ove determinino una svalutazione dell’elemento rappresentato dallo svolgimen-to di una effettiva attività imprenditoriale

55. Quello che, ad avviso di chi scrive, sembra rilevare maggiormente dall’in-

sieme delle pronunce analizzate ed acquisire valore, è il recupero della dimen-sione tributaria che sembrava smarrita. Ciò significa che si è proceduto al ne-cessario, auspicato adattamento della nozione in esame alla specificità, o par-ticolarità, del contesto tributario ove la real and substantial connexion torna ad essere l’effettivo radicamento/insediamento territoriale (tangible and taxable presence) di una attività economica che solo si raccorda con il principio di ca-pacità contributiva, quale valore costituzionale cui adeguare il prelievo fiscale.

In un’ottica europea integrata, dove principio cardine di libertà di stabili-mento funge anche da canone interpretativo per una applicazione equilibrata delle norme degli Stati membri in materia di residenza fiscale, queste pronunce suggeriscono anche il ripensamento di una interpretazione, fin troppo estensi-va, che nel nostro ordinamento è stata data alle norme sulla residenza fiscale. A tal proposito si osserva che le norme in esame, concepite per individuare corret-tamente la residenza

56, ai fini fiscali, delle persone fisiche e giuridiche sono state impiegate, nel tempo, anche in funzione antielusiva, per reprimere, cioè, con-dotte abusive poste in essere dai contribuenti. Se è vero che spesso la realtà del-le vicende concrete ha richiesto di “forzare” l’interpretazione delle norme sulla residenza fiscale in funzione antielusiva, è altrettanto vero che questa “forzatu-ra” ha condotto, spesso, a considerare sostanziali elementi puramente formali

57.

54 Propria, cioè, dell’ambito tributario e coerente con le caratteristiche dello stesso. 55 Cfr. TIEGHI-NANETTI, op. cit., p. 13. 56 Per approfondimenti sul tema si rinvia a MARINO, La residenza nel diritto tributario, Pa-

dova, 1999. 57 Peraltro, la funzionalizzazione alla repressione di condotte elusive, non è stata accom-

pagnata da quelle guarentigie procedurali che le ordinarie norme antielusive, invece, contem-plano, a tutela del diritto all’esercizio della libertà di iniziativa economica in capo, special-mente, ai soggetti imprenditori.

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Orbene, le recenti pronunce sembrano riflettere la necessità sia di ripristinare la tradizionale lettura delle norme sulla residenza fiscale – epurandole dalla “forzosa” interpretazione antielusiva, posto che a tale funzione rispondono nor-me ad hoc esistenti nel nostro ordinamento

58 – sia di rileggere il fenomeno della “delocalizzazione” con la lente comunitaria

59, considerandolo come un valore da tutelare, in quanto accrescitivo dei vantaggi rivenienti dall’integrazione eu-ropea.

In definitiva riflettono la percezione di un diritto non ingessato ma dinami-co, di un diritto quale fenomeno di interpretazione ma anche di governance di una realtà socio-economica in progress.

58 Si allude alle norme sul nuovo abuso del diritto, sulle CFC, sul transfer pricing, ecc. 59 Ciò significa che la delocalizzazione non può essere percepita come sinonimo di este-

ro-vestizione. Come chiarito nelle pagine che precedono, il fenomeno può essere represso solo ove si identifichi in un abuso della libertà di stabilimento, quindi, solo ove la società sia costru-zione di puro artificio.

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Lorenzo Del Federico-Edoardo Traversa *

IL NUOVO REGIME PUNITIVO DELL’ABUSO DEL DIRITTO IN MATERIA TRIBUTARIA:

DISCIPLINA NAZIONALE E QUADRO EUROPEO

THE NEW PUNITIVE REGIME OF TAX ABUSE: ITALIAN LEGISLATION AND EUROPEAN FRAMEWORK

Abstract Per quanto riguarda il caotico tema dell’elusione e dell’abuso la recente riforma, che ha introdotto l’art. 10 bis nello Statuto del contribuente, ha comportato un passo avanti, certamente apprezzabile, anche dal punto di vista del regime puniti-vo. Per i reati tributari è stata ormai inequivocabilmente stabilita l’irrilevanza pena-le dell’elusione/abuso, mentre per l’illecito amministrativo è dubbio che l’ambigua clausola «resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie» (art. 10 bis, comma 13), deponga di per sé nel senso della punibilità tout court. Al ri-guardo assumono rilievo anche alcune norme di garanzia poste dallo Statuto del contribuente, quale limite alla portata interpretativa e retroattiva delle norme tri-butarie. Risulta comunque acclarato che le condotte abusive esprimono un grado di antigiuridicità inferiore rispetto alle condotte evasive. In ragione del fatto che l’art. 10 bis è stato pubblicato prima della Direttiva (UE) n. 2016/1164 (c.d. Diret-tiva ATAD), lo Stato italiano dovrà dare seguito al recepimento della Direttiva o comunque valutare il da farsi, effettuando un “test” basato sul criterio del livello minimo di protezione dell’interesse fiscale. Tuttavia, sembrerebbe che la protezio-ne assicurata dall’art. 10 bis all’interesse fiscale risulti superiore al livello minimo salvaguardato dalla Direttiva. Parole chiave: elusione fiscale, abuso del diritto, reati tributari, illeciti amministra-tivi tributari, Statuto del contribuente

* Lorenzo Del Federico ha scritto la Premessa ed i parr. 1 e 4-8; Edoardo Traversa ha scritto i parr. 2 e 3; le Conclusioni sono state scritte congiuntamente da entrambi gli Autori.

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In relation to the chaotic theme of tax avoidance and abuse of law, the recent reform, which introduced Art. 10-bis in the Taxpayers’ Bill of Rights, has determined a step for-ward, certainly appreciable, even from the point of view of the applicable penalties. For tax crimes, the criminal exclusion of tax avoidance/abuse of law has been unequivocally established, while, for tax administrative penalties it is doubtful if the ambiguous clause «the application of the tax administrative penalties remains unchanged» (art. 10 bis, par. 13) implies a tout court punishability. In this respect, some of the safeguards set out in the Taxpayers’ Bill of Rights are also important, as a limit to the interpretation and retroactive effect of tax rules. However, it is acknowledged that abusive practices express a degree of illegality that is lower than conducts of tax evasion. Because of the fact that art. 10 bis has been adopted before Directive (EU) n. 2016/1164 (the co-called ATAD Directive), Italy must implement the Directive or, in any case, evaluate what to do by making a “test” based on the criterion of the minimum level of protection of the tax interest. However, it seems that the protection provided by art. 10 bis to the State’s tax interest is higher than the minimum level laid down in the Directive. Keywords: tax avoidance, abuse of law, criminal tax penalties, administrative tax pe-nalties, Taxpayers’ Bill of Rights

SOMMARIO: Premessa. – 1. La rilevanza dell’abuso e dell’elusione nel sistema dell’illecito tributario: il pre-gresso dibattito. – 2. Un cenno alla clausola generale antiabuso nella Direttiva ATAD 2016/1164. – 3. Le implicazioni sanzionatorie della clausola generale antiabuso ex Direttiva ATAD 2016/1164. – 4. La punibilità amministrativa delle condotte abusive ex art. 10 bis dello Statuto. – 5. Le ipote-si di violazione della delega. – 6. Il regime transitorio: profili generali. – 7. L’irrilevanza penale delle condotte abusive. – 8. Segue: regime transitorio, favor rei ed abolitio criminis. – Conclu-sioni.

Premessa

Tra i molteplici problemi posti dalla nuova farraginosa disciplina dell’abu-so/elusione quelli relativi alla punibilità appaiono come i più periferici, eppu-re i rapporti tra abuso/elusione e sistema dell’illecito tributario si pongono come terreno ideale per verificare la profonda natura del fenomeno.

Ovviamente in questa sede non ha senso ripercorrere tutte le tappe giuri-sprudenziali e dogmatiche sviluppatesi nell’ampio dibattito articolatosi nel corso dell’ultimo decennio

1. L’obiettivo è infatti quello di inquadrare le im-

1 Per un quadro completo v. comunque i contributi monografici di: AA.VV., Elusione ed

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Lorenzo Del Federico-Edoardo Traversa 599

plicazione della nuova disciplina dell’abuso rispetto al sistema sanzionatorio tributario amministrativo e penale.

Come è noto il D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, sulla base della legge delega 11 marzo 2014, n. 23 ha introdotto nello Statuto dei diritti del contribuente l’art. 10 bis, contenente una clausola generale antiabuso.

La presente indagine è limitata ai principi e criteri direttivi della legge delega di specifica rilevanza, per poi cercare di comprendere per un verso l’effettiva por-tata della asserita persistente punibilità amministrativa, e per l’altro l’esplicitata irrilevanza penale, prestando attenzione al favor rei ed al regime transitorio.

Su ogni altro aspetto della nuova disciplina si rinvia ai notevoli contributi ormai ben noti

2. Per quanto riguarda la legge delega è prevalsa la linea di elaborare una di-

sciplina unitaria della classica elusione (riconducibile all’art. 37 bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) e dell’abuso di matrice giurisprudenziale. Tale op-zione – tutt’altro che scontata

3 – era delineata dagli artt. 5 ed 8, legge delega n. 23/2014:

– l’art. 5 evidenziava l’esigenza di procedere alla «revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto di abuso del diritto»; mediante «una sorta di fusione tra elusione e abuso del diritto, attraverso l’introduzione di una disciplina unitaria destinata a superare l’elencazione dei comportamenti elusivi specifici di cui al citato art. 37/bis abuso del diritto tributario. Orientamenti attuali in materia di elusione e abuso del diritto ai fini dell’impostazione tributaria, a cura di Maisto, Milano, 2009; PIANTAVIGNA, Abuso del diritto fiscale nell’ordinamento europeo, Torino, 2012; BEGHIN, L’elusione fiscale e il principio del divie-to di abuso del diritto, Padova, 2013.

2 V. soprattutto AA.VV., Abuso del diritto ed elusione fiscale, a cura di Della Valle-Ficari-Marini, Torino 2016, ove vengono trattati approfonditamente tutti i temi di rilievo teorico e/o applicativo.

3 Tutt’altro che scontata, giacché in giurisprudenza prevaleva nettamente l’orientamento tendente ad applicare le garanzie dell’art. 37 bis alle sole operazioni potenzialmente elusive contemplate da tale norma (Cass., sez. trib., 28 giugno 2009, n. 15029; Cass., sez. trib., 11 giugno 2010, n. 11162; Cass., sez. trib., 21 gennaio 2011, n. 1372;); inoltre, anche sul profilo punitivo, la giurisprudenza tendeva a circoscrivere la punibilità alla sola elusione codificata, di cui all’art. 37 bis (Cass., sez. trib., 30 novembre 2011, n. 25537, in Riv. dir. fin., 2012, II, p. 85, con nota di ARIATTI, Elusione codificata, abuso del diritto ed illecito tributario). Cionondi-meno la dottrina prevalente era contraria a tale differenziazione ed anzi tendeva già allora a ricondurre l’abuso all’elusione, v. per tutti GIOVANNINI, L’abuso del diritto nella legge delega fiscale, in Riv. dir. trib., 2014, I, p. 231. In merito, a seguito della novella, v. ora ZIZZO, La no-zione di abuso nell’art. 10 bis dello statuto dei diritti del contribuente, e CONTRINO, I confini dell’abuso, entrambi in AA.VV., Abuso del diritto ed elusione fiscale, cit., pp. 1 e 21.

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nonché la logica casistica tipica della categoria dell’abuso del diritto di crea-zione giurisprudenziale»

4; – l’art. 8 (comma 1), in tema di revisione del sistema sanzionatorio, rimar-

cava la distinzione tra «le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale», delegando il Governo a determinare i confini tra le due tipologie di compor-tamenti ed a prevedere differenziate conseguenze sanzionatorie; siccome «nessuna distinzione è prevista tra elusione e abuso del diritto: ne consegue che le uniche due figure da prendere in considerazione ai fini sanzionatori so-no l’elusione e l’evasione ...»

5.

Su tali basi la nuova disciplina dell’abuso, ora contenuta nell’art. 10 bis del-lo Statuto del contribuente, ha unificato abuso ed elusione, affermando la di-mensione legislativa del fenomeno. Sul piano sistematico ciò esprime la chiara e netta voluntas legis di ricondurre l’abuso tributario nell’alveo del diritto legi-slativo, sottraendolo alla creatività del diritto giurisprudenziale. Ed invero la giurisprudenza creatrice della Corte di Cassazione – che aveva superato la let-tera, la ratio e la dimensione storica e legislativa dell’art. 37 bis, giungendo a fondare il concetto di abuso direttamente sull’art. 53 Cost. – è stata sottopo-sta dalla dottrina a poderose critiche, tra le quali spiccava la rottura rispetto al principio di legalità ex art. 23 Cost. e lo stravolgimento della classica conce-zione della norma tributaria come norma a fattispecie esclusiva (ovvero di stretta interpretazione); inoltre sul piano dell’illecito si evidenziava che per le condotte abusive era impossibile identificare il precetto violato

6. Orbene in base alla nuova disciplina non è più consentito concepire fatti-

specie di abuso tributario al di fuori dell’ambito dell’art. 10 bis e delle altre norme tributarie antielusive (o antiabusive che dir si voglia)

7, cioè al di fuori dell’ambito legislativamente delimitato.

4 Così SAMMARTINO, Sanzionabilità dell’elusione fiscale, in Rass. trib., 2015, p. 403. 5 SAMMARTINO, op. cit., p. 404; in senso analogo v. altresì SALVINI, Prospettive di riforma

del sistema sanzionatorio tributario, in Rass. trib., 2015, I, p. 545. 6 V. ad es. Corte di Giustizia UE, 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax, secondo cui

«la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una san-zione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’Iva assolta a monte»; in senso analogo: Corte di Giustizia UE, 9 marzo 1999, causa C-212/97, Centros; Corte di Giustizia UE, 5 luglio 2007, causa C-321/05, Kofoed; Corte di Giustizia UE, 2008, cau-sa C-425/06, Part Service; Corte di Giustizia UE, 10 novembre 2011, causa C-126/10, Foggia.

7 Come ribadisce pleonasticamente l’art. 10 bis, comma 12, secondo cui «l’abuso del di-ritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti conte-stando la violazione di specifiche disposizioni tributarie».

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Lorenzo Del Federico-Edoardo Traversa 601

Altro dato desumibile dai principi e criteri direttivi della legge delega è quello del ridotto disvalore giuridico dell’abuso rispetto all’evasione, compro-vato dalla non punibilità penale dell’abuso e dalla rimborsabilità delle imposte pagate da terzi (e sotto diversi profili vi è palese continuità con la pregressa disciplina dell’art. 37 bis)

8. Sul piano normativo, così come su quello della teoria generale, è pertanto ormai pacifico che l’abuso non coincide, puramen-te e semplicemente, con l’evasione. Anzi, come si avrà modo di evidenziare, l’asserita persistente punibilità dell’abuso con sanzioni amministrative desta perplessità e da corpo a seri dubbi di legittimità costituzionale per violazione della delega.

Questi aspetti, e più in generale il tema della punibilità dell’abuso tributa-rio, sono già stati affrontati in altra sede

9, ma la magmaticità delle questioni trattate, le prime applicazioni giurisprudenziali e soprattutto il dibattito apertosi a livello europeo a seguito della Direttiva ATAD 2016/1164, del 12 luglio 2016 (contro le pratiche di elusione fiscale che incidono sul funzio-namento del mercato interno)

10, rendono opportuna una rivisitazione criti-ca dei percorsi interpretativi delineati a ridosso dell’emanazione del D.Lgs. n. 128/2015.

8 Chiaro sul punto GALLO, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, pp. 1338-1339, in linea con le precisazioni contenute nella Relazione illu-strativa al decreto; in senso analogo: BOLETTO, Riflessioni sull’esclusine della condotta abusiva dall’area di penale rilevanza, in questa Rivista, 2016, p. 539; Si segnala peraltro che GUIDARA, Sulla sanzionabilità delle condotte elusive nel quadro della nuova legge delega, in Riv. dir. trib., 2014, p. 421, stando alla formulazione della legge delega ed ai lavori parlamentari (suffragati da profonde argomentazioni sistematiche) era giunto addirittura a ritenere che emergesse un chiaro indirizzo a favore della assoluta non punibilità delle condotte abusive-elusive; vicever-sa, GIOVANNINI, Abuso del diritto e sanzioni amministrative, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario, diretto da Giovannini, a cura di Giovannini-Di Martino-Marzaduri, Milano, 2016, pp. 1003-1004, evoca, sotto vari profili, l’illegittimità costituzionale della norma che consen-te la punibilità dell’abuso quale illecito amministrativo.

9 DEL FEDERICO, Abuso e sanzioni, in AA.VV., Abuso del diritto ed elusione fiscale, cit., p. 173; questo scritto riprende tale contributo, aggiornandolo alla luce del notevole dibattito apertosi in dottrina e giurisprudenza.

10 Sulla compatibilità tra l’art. 10 bis e gli indirizzi dell’Unione v.: ZIZZO, La nozione di abuso nell’art. 10 bis dello statuto, cit., p. 6; AMATUCCI, La compatibilità dell’art. 10 bis con gli orientamenti europei ed internazionali in tema di abuso del diritto, in Dir. e prat. trib. int., 2016, p. 429.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 602

1. La rilevanza dell’abuso e dell’elusione nel sistema dell’illecito tributario: il pregresso dibattito

Prima di esaminare specificamente il tema in base alla nuova disciplina sca-turita dalla legge delega è opportuna una breve digressione sul dibattito pre-gresso, giacché, negli ultimi anni, il problema della punibilità dell’abuso e del-l’elusione ha impegnato a fondo la dottrina, continuamente sollecitata da cla-morose pronunce giurisprudenziali

11. Inoltre l’individuazione degli orientamen-ti sino ad oggi prevalenti risulta determinante per la corretta soluzione dei profi-li di diritto transitorio, ambiguamente disciplinati dal decreto legislativo.

In via di estrema sintesi e semplificazione, si può dire che erano emersi es-senzialmente due filoni interpretativi, che, a seconda della natura attribuita al-l’art. 37 bis, giungevano a conclusioni diverse in merito alla punibilità dell’elu-sione.

Un primo orientamento (più diffuso in dottrina) affermava la natura me-ramente procedimentale della norma, non ravvisava alcuna violazione di spe-cifici precetti e riteneva quindi inapplicabili le sanzioni a fronte dei compor-tamenti elusivi

12. In tali termini, la norma, essendo indirizzata all’Amministra-

11 V. in particolare: GALLO, Rilevanza penale dell’elusione, in Rass. trib., 2001, p. 321; CORSO, Secondo la Corte di cassazione l’elusione non integra un’evasione penalmente rilevante, in Corr. trib., 2006, p. 3049; MARCHESELLI, Elusione, buona fede e principi di diritto punitivo, in Rass. trib., n. 2, 2009, p. 417; ID., Numerosi e concreti ostacoli si contrappongono alla punibilità di elu-sione fiscale e abuso del diritto, in Riv. giur. trib., 2011, p. 852; NUSSI, Abuso del diritto: profili sostanziali, procedimental-processuali e sanzionatori, ibidem, 2009, p. 324; CARACCIOLI, Note di carattere penal-tributario a margine della questione dell’abuso del diritto, in Riv. dir. trib., n. 5, 2009, p. 81; CASTALDI, Punibilità del comportamento elusivo, in Corr. trib., 2009, p. 2391; CORDEIRO GUERRA, Non applicabilità delle sanzioni amministrative per la violazione del divieto di abuso del diritto, ibidem, 2009, p. 771; FLICK, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quale rilevan-za penale?, in Giur. comm., 2011, p. 465; STEVANATO, Abuso del diritto, imposta di registro ed ap-plicabilità delle sanzioni: continua “l’escalation”, in Dialoghi trib., 2012, p. 671; BASILAVECCHIA, Presupposti ed effetti della sanzionabilità dell’elusione, in Dir. prat. trib., 2012, I, p. 798; CARIN-CI, Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, ibidem 2012, I, p. 785; FIORENTINO, Qualificazione fiscale dei contratti di impresa: abuso e sanzionabi-lità, in Riv. dir. trib., 2012, p. 177; CONTRINO, Sull’ondivaga giurisprudenza in tema di applica-bilità delle sanzioni amministrative tributarie nei casi di ‘elusione codificata’ e ‘abuso/elusione, ibidem, 2012, p. 261; FICARI, Spigolature tributarie sulla rilevanza sanzionatoria della condotta elusiva ed abusiva, ibidem, 2012, p. 1117; DELLA VALLE, Rilevanza sanzionatoria dell’elusione, in AA.VV., Libro dell’anno del diritto, 2013 (www.treccani.it); MARINI, Note in tema di elusione fisca-le, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Riv. trim. dir. trib., 2013, p. 325.

12 V. fra i tanti: CORSO, op. cit.; MARCHESELLI, Elusione e sanzioni, cit., p. 1988; CORDEIRO GUERRA, op. cit., p. 771; BASILAVECCHIA, op. cit., p. 800; CARINCI, op. cit., p. 796; FIORENTINO, op. cit., pp. 183-188; BEGHIN, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso, cit.

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Lorenzo Del Federico-Edoardo Traversa 603

zione Finanziaria, non incideva sul comportamento del contribuente, il quale, in sede di dichiarazione, non doveva “auto” disconoscere eventuali vantaggi fiscali conseguiti per mezzo di comportamenti elusivi.

Un secondo orientamento, invece (sovente avallato dalla giurisprudenza), riteneva l’art. 37 bis norma di natura sostanziale, riscontrava la violazione di-retta del precetto, e giungeva a configurare il comportamento elusivo come vero e proprio illecito, rilevante sul piano sanzionatorio amministrativo e pe-nale

13. Risultava altresì diffusa la tendenza a bilanciare i contrapposti interessi di

Fisco e contribuente mediante approcci di tipo equitativo e/o fondati sulla va-lorizzazione delle esimenti, ma in tali casi la natura dell’art. 37 bis veniva mar-ginalizzata. Taluni escludevano la punibilità dell’elusione, ritenendola l’effetto di due concause: sarebbe censurabile in capo al legislatore l’inadeguata formu-lazione della norma impositiva, ma sarebbe altresì imputabile al contribuente la violazione del dovere di individuare e salvaguardare lo spirito della norma; ciò posto, poiché i principi di buona fede, ragionevolezza e proporzionalità im-pongono che ciascuno si attivi “ragionevolmente” nell’esercizio dei suoi poteri e doveri, nel limite del sacrificio accettabile per preservare le ragioni dell’altra parte, si configurerebbe un’ipotesi di concorso di colpa che impedisce l’appli-cazione della sanzione a carico di un solo soggetto, ossia del contribuente

14. Altri (e per lo più la giurisprudenza) invocavano «l’obiettiva condizione d’in-certezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria» (art. 10 Statuto)

15.

13 Fautori della tesi minoritaria c.d. “sostanzialistica” sono ad es.: GALLO, Rilevanza penale dell’elusione, cit., p. 321. CASTALDI, op. cit.; NUSSI, Abuso del diritto, cit. Per la giurisprudenza v. soprattutto in tema di violazioni amministrative: Cass. n. 25537/2011, cit.; Cass., sez. VI, ord. 30 gennaio 2013, n. 2234; ed in tema di reati: Cass. pen., sez. II, 7 luglio 2011, n. 26723, in Riv. giur. trib., 2011, p. 852; Cass. pen., sez. IV, 3 maggio 2013, n. 19100; e Cass. pen., sez. II, 28 febbraio 2012, n. 7739, in Corr. trib., 2012, p. 1074 (che tuttavia si spinge a qualificare elusiva una cruda esterovestizione societaria, più correttamente qualificabile come semplice condotta evasive – sul punto v. in particolare FIORENTINO, op. cit., p. 185; STEVANATO, Rile-vanza penale dell’elusione, un “obiter dictum” in una vicenda di estero vestizione societaria, in Dialo-ghi trib., 2013, p. 216; ed in ottica penalistica FLORA, Perché l’elusione fiscale non può costituire reato (a proposito del “caso Dolce e Gabbana”), in Riv. trim. dir. pen. economia, 2011, p. 865.

14 In tal senso MARCHESELLI, Elusione, buona fede e principi di diritto punitivo, cit., p. 417, secondo cui «stabilire se un contribuente debba essere o meno punito per una pratica elusi-va corrisponde allora a stabilire se debba prevalere il dovere del contribuente di individuare lo spirito della legge e salvaguardarlo dalla lettera della legge stessa, in supplenza del legisla-tore, ovvero il dovere (o meglio l’onere) del legislatore di formulare leggi coerenti con le loro finalità e con lo spirito che le anima».

15 CTR Lombardia, 25 febbraio 2008, n. 2; CTR Toscana, 1° aprile 2009, n. 26, in Corr.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 604

Il quadro risultava invece alquanto chiaro per quanto riguardava le condot-te abusive, cioè riferibili a fattispecie estranee all’art. 37 bis, giacché dottrina e giurisprudenza erano nettamente orientate ad escludere la sussistenza di un illecito.

La stessa Corte di Giustizia, nel leading case Halifax, ha chiarito che l’accer-tamento di un comportamento abusivo non comporta la punibilità del contri-buente, poiché occorrerebbe, a tal fine, la presenza di un fondamento normati-vo chiaro ed univoco

16; del resto anche nel panorama comparatistico preval-gono di gran lunga gli ordinamenti nei quali per l’abuso è esclusa ogni forma di sanzione punitiva

17. Dal canto suo anche la nostra Corte di Cassazione ha ritenuto non punibili

le condotte meramente abusive, in quanto il “generale divieto antiabuso” non può tradursi in un’imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non previsti dalla legge e quindi in tali casi è ravvisabile – in re ipsa – la sussistenza di ob-biettive condizioni d’incertezza; del resto alla soluzione della non punibilità la Cassazione è giunta armonicamente, sia pure in base ad argomentazione par-zialmente diverse a seconda del profilo amministrativistico o penalistico

18. trib., 2009, p. 2391, con nota critica di CASTALDI, op. cit. In merito v. anche ZIZZO, Leasing infragruppo e abuso del diritto, ibidem, 2009, p. 2359; secondo LA ROSA, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 798, «i risvolti sanzionatori dei comportamenti dei contribuenti dovrebbero trovare il loro naturale referente normativo nell’esimente dell’obiettiva incertezza delle regole»; per analoghe considerazioni v. pure FI-CARI, op. cit.

16 Corte di Giustizia UE, 21 febbraio 2006, causa C-255/02, cit. In merito v. PISTONE, L’abuso del diritto nella giurisprudenza tributaria della Corte di Giustizia, in questa Rivista, 2012, p. 431.

17 Nei paesi europei, tra quelli che hanno introdotto una clausola generale antiabuso (c.d. GAAR), Francia ed Irlanda prevedono l’applicabilità delle sanzioni amministrative, mentre Belgio, Spagna, Germania, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito e Portogallo escludono, di massi-ma, ogni forma di sanzione punitiva. Sul versante dei paesi extra europei, Australia, Argentina, India, Stati Uniti, Turchia, Nuova Zelanda e Brasile prevedono l’applicazione delle sanzioni amministrative, mentre Canada, Sudafrica, Cina e Singapore, escludono, di massima, ogni for-ma di sanzione punitiva.

Per una panoramica europea si rinvia a SEER-WILMS, Surcharges and Penalties in Tax Law, EATLP Annual Congress Milan, 28-30 May 2015, IBFD Amsterdam, 2016, e specificamen-te al General Report, ed ai vari report nazionali.

18 Per quanto riguarda le violazioni amministrative v. Cass., sez. trib., 25 maggio 2009, n. 12042, in Corr. trib., n. 25, 2009, p. 1966, secondo cui, al di fuori dell’art. 37 bis, sono sempre riscontrabili quelle «obbiettive condizioni d’incertezza sulla portata della norma sanzionato-ria, nel cui ambito di applicazione è riconducibile la violazione di un principio di ordine genera-le, come l’abuso del diritto»; per quanto riguarda l’analoga distinzione tra mero abuso (non punibile) ed elusione codificata (punibile) v. in materia penale: Cass. pen. n. 7739/2012, n.

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Lorenzo Del Federico-Edoardo Traversa 605

Risultava quindi ben radicato l’orientamento giurisprudenziale basato sulla distinzione dell’elusione codificata nell’art. 37 bis (punibile), dal mero abuso, riconducibile ad un principio generale non codificato (non punibile)

19.

2. Un cenno alla clausola generale antiabuso nella Direttiva ATAD 2016/1164

In ambito europeo la recente Direttiva ATAD 2016/1164 esprime l’esi-genza – già esplicitata nell’ordinamento italiano con l’introduzione dell’art. 10 bis dello Statuto – di codificazione di un norma generale antiabuso, ed è frutto di un articolato iter politico istituzionale a livello europeo ed internazionale.

In particolare, l’OECD ha in più occasioni raccomandato agli Stati l’intro-duzione di una clausola generale antiabuso nelle convenzioni per evitare le dop-pie imposizioni fondata sul cosiddetto Principal Purpose Test (di seguito PPT).

Secondo tale principio «a benefit under this Convention shall not be granted in respect of an item of income or capital if it is reasonable to conclude, having re-gard to all relevant facts and circumstances, that obtaining that benefit was one of the principal purposes of any arrangement or transaction that resulted directly or indirectly in that benefit, unless it is established that granting that benefit in these circumstances would be in accordance with the object and purpose of the relevant provisions of this Convention»

20. 7739, cit.; Cass. pen., sez. III, 6 marzo 2013, 19100; Cass. pen., sez. III, 12 giugno 2013, n. 33187; Cass. pen., sez. III, 20 marzo 2014, n. 15186; Cass. pen., sez. III, 1° ottobre 2015, n. 40272; per un quadro completo v. G. CONSOLO; Il profilo punitivo dell’elusione e dell’abuso del diritto: origini ed evoluzione del problema fino alla legge delega, in AA.VV., Abuso del diritto e novità sul processo tributario. Commento al D.Lgs. 5 agosto, n. 218, ed al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, a cura di Glendi-Consolo-Contrino, Milano, 2016, p. 8.

19 Distinzione ben puntualizzata da Cass. n. 25537/2011, cit., e, sotto il profilo penalistico, da Cass. pen. n. 7739/2012, cit., sulla quale v.: DEL FEDERICO, Elusione tributaria codificata e sanzioni amministrative, in Giust. trib., 2007, p. 271; ARIATTI, op. cit.; NUSSI, Elusione fiscale “co-dificata” e sanzioni amministrative, in Giur. it., 2012, p. 1936; ma contra: CONTRINO, Sull’ondiva-ga giurisprudenza in tema di applicabilità delle sanzioni amministrative tributarie, cit.; MARINI, op. cit. Al riguardo v. GALLO, La nuova frontiera dell’abuso del diritto, cit., pp. 1337-1338, laddove – in sintonia con quanto affermato dalla Corte di Giustizia nella nota sentenza Halifax, eviden-zia che alla base dell’intervento riformatore vi era «l’indirizzo affermatosi nella più recente giu-risprudenza di legittimità», secondo cui «le operazioni elusive potevano assumere rilevanza penale ... ma solo se contrastanti con specifiche diposizioni. Si è sempre negata in particolare, la punibilità della c.d. “elusione non codificata” sul rilievo che ..., in assenza di un preciso fonda-mento normativo, non potrebbe ritenersi sanzionabile la violazione del principio generale del divieto di abuso del diritto». Anche la Relazione illustrativa al decreto è chiara sul punto.

20 OECD, Preventing the Granting of Treaty Benefits in Inappropriate Circumstances, Action 6 (Final Report), Paris, OECD, 2015, p. 66.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 606

Quanto alla compatibilità astratta di tale clausola con il diritto dell’Unione, la Corte di Giustizia ha già riconosciuto che «la prevenzione dell’evasione fi-scale e dell’abuso del diritto sono obiettivi riconosciuti dal diritto europeo»

21. D’altro canto, la Corte gioca, da sempre, un ruolo assolutamente fonda-

mentale nella creazione di un sistema di contrasto ai comportamenti abusivi e fraudolenti ed ha, altresì, influenzato, direttamente od indirettamente, gli or-dinamenti dei singoli Stati membri. In particolare, il principio anti-abuso, ini-zialmente affermatosi in ambito IVA

22, nel corso del tempo ha assunto una valenza di carattere generale

23: in estrema sintesi, secondo i giudici del Lus-semburgo il diritto dell’UE non può essere “invocato” per finalità abusive o fraudolente

24. Dal punto di vista della previsione di una apposita normativa scritta, la

Commissione europea insiste, sin dal 2012, per l’introduzione di una clausola generale nelle Direttive, negli ordinamenti nazionali e, recentemente, nella Con-venzione per evitare le doppie imposizioni

25.

21 Corte di Giustizia UE, 5 luglio 2007, causa C-321/05, Kofoed, cit., p. 38. 22 Corte di Giustizia UE, C-487/01 e C-7/02, Gemeente Leusden and Holin Groep BV vs.

Staatssecretaris van Financien (2004), ECR I-5337, par. 76; C-255/02, Halifax, cit., p. 71; C-80/11 e C-142/11, Mahagében and Dávid (2012), p. 41; C-285/11, Bonik, pp. 35 e 36; C-643/11, LVK 56, p. 58.

23 Dopo il leading case Halifax, cit., la Corte ha espressamente stabilito che il divieto all’a-buso del diritto è un principio generale dell’Unione (C-321/05, Kofoed, cit., p. 38). Sul tale profilo v. O’SHEA, Tax Avoidance and Abuse of EU Law, in EC Tax Journal, 2011, p. 77; DE LA FERIA, Prohibition of Abuse (Community) Law – The Creation of a New General Principle of EC Law Through Tax, in Common Market Law Review, 2008, pp. 395-441; DE BROE, Interna-tional Tax Planning and Prevention of Abuse: A Study under Domestic Law, Tax Treaties and EC Law in Relation to Conduit and Base Companies, IBFD, Amsterdam, 2008, p. 75. Per un commento critico, v. ARNULL, What are General Principles of EU Law?, in AA.VV., Prohibition of Abuse of Law – A New General Principle of EU Law, a cura di De la Feria-Vogenauer, Ox-ford, 2011, pp. 18-23, nonché SORENSEN, Abuse of rights in Community law: A principle of sub-stance or merely rhetoric?, in Common Market Law Review, 2006, p. 423.

24 Corte di Giustizia UE, 12 maggio 1998, C-367/96, Kefalas v. Elliniko Dimosio, ECR I-2843, p. 20; C-373/97 Diamantis, ECR I-1705, p. 33. In ambito IVA, tra le altre C-32/03 Fini H, 2005, ECR I-1599, p. 32; C-439/04 e C-440/04 Kittel, p. 54. Alcuni Autori (v. nota pre-cedente) identificano l’origine giurisprudenziale del principio antiabuso nel caso Van Bin-sbergen (ECJ, 3 dicembre 1974, 33/74) ECR 1299, in part. p. 13, e/o nel caso Lair v Univer-sität Hannover, 21 giugno 1988, C-39/86, p. 43.

25 Raccomandazione Commissione UE, 6 dicembre 2012, relativa alla pianificazione fi-scale aggressiva, COM(2012) 722. Vd., analogamente, la Comunicazione della Commis-sione UE 28 gennaio 2016 «Paquet de mesures contre l’évasion fiscale: prochaines étapes pour assurer une imposition effective et davantage de transparence fiscale dans l’Union euro-

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Lorenzo Del Federico-Edoardo Traversa 607

Sin dal 2014, il Consiglio si è impegnato per includere questo tipo di di-sposizione della Direttiva interessi e canoni

26 e nel 2015, la Commissione è finalmente riuscita a convincere i 28 Stati membri a modificare la Direttiva sulle società madri-figlie, includendovi disposizioni generali anti-abuso

27. Su tali basi ha preso corpo una clausola generale antiabuso del seguente

tenore: «gli Stati membri non applicano i benefici della ... direttiva a una co-struzione o a una serie di costruzioni che, essendo stata posta in essere allo scopo principale o a uno degli scopi principali di ottenere un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità della ... direttiva, non è genuina avendo riguardo a tutti i fatti e le circostanze pertinenti. Una costruzione può comprendere più di una fase o parte. ... una costruzione o una serie di costru-zioni è considerata non genuina nella misura in cui non è stata posta in essere per valide ragioni commerciali che riflettono la realtà economica».

Infine la recente Direttiva ATAD 2016/1164 prevede, a sua volta, una si-mile disposizione generale, nell’art. 6, rubricato “Norma generale antiabuso”:

«1. Ai fini del calcolo dell’imposta dovuta sulle società, gli Stati membri ignorano una costruzione o una serie di costruzioni che, essendo stata posta in essere allo scopo principale o a uno degli scopi principali di ottenere un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità del diritto fiscale applicabile, non è genuina avendo riguardo a tutti i fatti e le circostanze perti-nenti. Una costruzione può comprendere più di una fase o parte. 2. Ai fini del paragrafo 1, una costruzione o una serie di costruzioni è considerata non ge-nuina nella misura in cui non sia stata posta in essere per valide ragioni com-merciali che rispecchiano la realtà economica. 3. Quando le costruzioni o una serie di costruzioni sono ignorate a norma del paragrafo 1, l’imposta dovuta è calcolata in conformità del diritto nazionale».

A prima vista, il test PPT, proposto dall’OECD nell’“action 6” anti BEPS, sembra in sintonia rispetto alle linee evolutive delle Istituzioni Europee, alle clausole generali antiabuso che vanno implementandosi ed all’art. 6 della Di-rettiva ATAD 2016/1164. Ed è appena il caso di evidenziare che tutte queste péenne», COM/2016/023, Proposition de directive du conseil établissant des règles pour lutter contre les pratiques d’évasion fiscale qui ont une incidence directe sur le fonction-nement du marché intérieur, COM(2016) 26 final.

26 Consiglio Unione Europea, 5 dicembre 2014, doc. n. 16435/14. FISC 221, ECOFIN 1157 – Interinstitutional File: 2013/0400 (CNS), p. 8, b, I.

27 Direttiva UE 2015/121-Consiglio UE, del 27 gennaio 2015 che ha modificato la Diret-tiva 2011/96/UE concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri-figlie.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 608

disposizioni europee sono palesemente ispirate alla giurisprudenza Cadbury Schweppes della Corte di Giustizia

28. Tuttavia, ad un maggiore grado di approfondimento emerge che vi sono

differenze fondamentali tra l’approccio dell’OECD e quello delle Istituzioni Europee. Queste differenze si spiegano, certamente, con riferimento al qua-dro giuridico in cui sono inserite le menzionate disposizioni e le stesse posso-no compromettere l’armonia tra il PPT ed il diritto europeo.

La prima criticità riguarda le nozioni di “oggetto e scopo” adottato in am-bito OECD (PPT Test).

Con l’adozione di questo tipo di clausola, gli Stati contraenti inviano un segnale molto ambiguo ai contribuenti: i vantaggi della Convenzione sono “ac-cessibili” purché i contribuenti non cerchino di beneficiare di questi vantaggi. In altre parole, sussiste una presunzione relativa secondo cui l’ottenimento del vantaggio è la finalità determinante il compimento dell’operazione. Si pre-sume, dunque, che questi “vantaggi” non si ottengono in modo coerente con l’oggetto e lo scopo della (delle) disposizione (disposizioni) del Trattato. Tut-tavia, a parte la riduzione del carico fiscale delle operazioni intercorrenti tra entrambi gli Stati, è molto difficile stabilire qual è lo scopo di una Convenzio-ne o delle disposizioni in essa contenute.

Un’altra criticità riguarda la discrezionalità in capo all’Amministrazione e la mancanza di chiarezza generata dal PPT. Quest’ultimo, infatti, si basa su un’analisi od una valutazione “ragionevole” per l’Amministrazione, con la fi-nalità di stabilire se una determinata operazione, direttamente o indirettamen-te, sia stata realizzata per il solo scopo di godere dei benefici convenzionali. Con riferimento al principio della certezza del diritto, sancito dal diritto eu-ropeo, il PPT sembra lasciare troppo spazio di discrezionalità all’Amministra-zione, creando un pericoloso clima di incertezza giuridica.

Nelle sentenze Siat et Itelcar 29, la Corte di Giustizia ha sottolineato che le

norme giuridiche, soprattutto quando possono determinare conseguenze fi-scali negative per i contribuenti, devono essere scritte in modo chiaro, preciso e prevedibile. Così com’è, il PPT non sembra soddisfare tali requisiti

30 e non pare coerente con la giurisprudenza della Corte, in quanto viene posto l’onere della prova sul contribuente, in contrasto con il principio di proporzionalità:

28 Cadbury Schweppes, C-196/04, 12 settembre 2006, p. 62. 29 Corte di Giustizia UE, SIAT, C-318/10, 5 luglio 2012, ed Itelcar, C-282/12, 3 ottobre

2013, p. 44. 30 PANAYI, Advanced Issues in International and European Tax Law, Oxford-Portland, 2015,

p. 830.

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la circostanza rileva laddove l’Amministrazione non è «tenuta a fornire un benché minimo indizio di prova di frode o di evasione fiscale»

31. Inoltre il PPT sembra fondamentalmente discostarsi dall’abuso di matrice

europea coniato dalla Corte la quale, fino ad oggi, ha fatto dell’artificiosità una condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’esistenza di un abuso. Il test PPT, invece, si basa principalmente sulla volontà del contribuente, e non tie-ne sufficientemente conto dei profili oggettivi dell’operazione.

Infine, il concetto di “benefici” di una disposizione convenzionale solleva ul-teriori interrogativi. Le regole negoziate tra i due Stati, infatti, non costituiscono un “favore” o un “privilegio” concesso solamente ai contribuenti virtuosi.

Tanto premesso, nella speranza di aumentare la certezza del diritto nel mercato europeo, la Commissione UE ha chiesto agli Stati membri di non at-tuare il test PPT proposto dall’OECD.

Questa azione della Commissione va nella giusta direzione, ma sarebbe preferibile applicare più rigorosamente la giurisprudenza della Corte di Giu-stizia, affermando che l’onere della prova grava sull’Amministrazione. Que-st’ultima, per negare l’applicazione di una Convenzione, dovrebbe, quindi, dimostrare che il contribuente utilizza la stessa contro il suo scopo, come “pu-ro artificio” creato a soli fini fiscali.

Le conseguenze della difformità tra il PPT dell’OECD ed il diritto europeo sono difficili da delineare in astratto e comunque per lo più prescindono dal tema esaminato in questa sede.

Nei casi direttamente coperti dal diritto dell’Unione – cioè, delle opera-zioni tra contribuenti residenti in Stati membri diversi, o tra contribuenti eu-ropei e quelli stabiliti in paesi terzi coperti dalla libera circolazione dei capitali – non è da escludere che la Corte di Giustizia possa giungere ad interpretare il PPT in linea con le proprie precedenti decisioni riguardanti l’abuso. Si po-trebbe configurare tale clausola come ostacolo alle libertà fondamentali, al-meno laddove riguardi operazioni che non sono state ritenute abusive con ri-ferimento alle categorie europee.

Nei casi non coperti da diritto europeo (comprese le operazioni puramen-te nazionali degli Stati membri), invece, nulla impone al giudice nazionale di interpretare il PPT in conformità con la giurisprudenza della Corte di Giusti-zia. Tuttavia non sembra auspicabile che la stessa clausola possa essere inter-pretata in maniera diversa a seconda della dimensione territoriale di una ope-razione. Del resto, se così fosse, i principi generali del diritto interno potreb-

31 SIAT, C-318/10, p. 55.

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bero essere invocati dai contribuenti per rivendicare una interpretazione con-forme al canone della coerenza sistematica.

Sembra quindi evidente che il divieto dell’abuso del diritto, nonostante l’introduzione di apposite clausole scritte, continui a mantenere la sua origi-naria natura di principio generale, piuttosto che configurare un vero e proprio precetto normativo.

Ove a ciò si aggiungano i suindicati profili di incertezza, risultano evidenti le proiezioni sul piano della teoria generale del diritto punitivo (v. infra, parr. 3 e 4).

3. Le implicazioni sanzionatorie della clausola generale antiabuso ex Direttiva ATAD 2016/1164

In termini di teoria generale risulta ormai evidente che gli schemi e, conse-guentemente, i comportamenti, abusivi, pur non essendo qualificabili come veri e propri “illeciti” devono essere contrastati sulla base di un principio gene-rale (inizialmente, non scritto) affermatosi, come detto, in virtù della giurispru-denza europea (ed oggi codificato nelle già menzionate Direttive europee).

Proprio per questo si rende doverosa una profonda riflessione circa l’appli-cabilità o meno delle sanzioni amministrative e qualche nuovo elemento in-terpretativo a favore della non punibilità è proprio desumibile dalla Direttiva ATAD:

– la Direttiva da corpo ad un principio generale, ma non ad un vero e pro-prio precetto (comando) normativo, apprezzabile sul piano del principio di legalità;

– l’art. 6 costruisce il contrasto all’abuso come strumento procedimentale, laddove afferma che «gli Stati ignorano una costruzione ...» che non è genui-na (a favore della natura procedimentale depone anche la Relazione alla Pro-posta di Direttiva sub par. 5);

– inoltre, il considerando 11, ammette che «agli Stati membri non dovreb-be essere impedito di imporre sanzioni nei casi in cui è applicabile la norma ge-nerale antiabuso»; il che vuol dire che la punibilità non è il regime naturale del comportamento abusivo, ma risponde ad una possibile opzione politico-legislativa degli Stati.

Con il conforto del diritto dell’Unione prendono, quindi, corpo le teorie del contrasto all’abuso come meccanismo procedimentale e della non punibi-lità per mancanza di precetto.

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È, infine, interessante comprendere il rapporto tra l’art. 10 bis dello Statuto e la Direttiva.

L’art. 10 bis è stato pubblicato prima della Direttiva ATAD 2016/1164, contro le pratiche di elusione fiscale che incidono sul funzionamento del mer-cato interno, pertanto lo Stato Italiano dovrà dare seguito al recepimento del-la Direttiva o comunque valutare il da farsi, effettuando un test basato sul cri-terio del livello minimo di protezione dell’interesse fiscale.

Al riguardo assumono rilievo la connotazione procedimentale della misura di contrasto ed il considerando 11, secondo cui agli Stati membri non è impe-dito di imporre sanzioni nei casi in cui è applicabile la norma generale antia-buso.

Sembra che la protezione assicurata dall’art. 10 bis all’interesse fiscale sia superiore al livello minimo salvaguardato dalla Direttiva, tuttavia il tema del recepimento pone molteplici questioni, rilevanti ben oltre il profilo del regi-me punitivo dell’abuso tributario, per cui in questa sede non sono consentite ulteriori digressioni

32.

4. La punibilità amministrativa delle condotte abusive ex art. 10 bis dello Statuto

Svolte queste brevi riflessioni sul quadro europeo e tornando all’ordina-mento interno, una volta chiarito che la nostra giurisprudenza prevalente ri-teneva inapplicabili le sanzioni amministrative (e penali) in caso di condotta meramente abusiva, fondata cioè sul principio generale di divieto dell’abuso e non su di una base normativa chiara ed univoca (v. retro, par. 1), è utile ram-mentare il percorso normativo delineato nel diritto nazionale per giungere all’applicazione della sanzione nel rispetto del dato positivo e del principio di legalità. In chiusura risulteranno pregnanti le implicazione della Direttiva ATAD 2016/1164.

In merito la Cassazione ha evidenziato che tale «fondamento normativo chiaro ed univoco è attualmente esistente», ed è rinvenibile proprio nell’art. 37 bis, con l’avallo di una piana lettura dell’art. 1, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, rubricato “Violazioni relative alla dichiarazione delle imposte dirette” (per l’IVA v. l’omologo art. 5, D.Lgs. cit.).

32 GUTMAN-PERDELWITZ-RAINGEARD DE LA BRETIERE-OFFERMANNS-SHELLEKENS-GALLO et al., The Impact of ATAD on Domestic System: a Comparative Survey, in European Taxation, IBFD, January, 2017, ove viene esaminato anche il problema del recepimento in caso di preesi-stenti norme nazionali alla luce del test del livello minimo di protezione (op. cit., p. 19).

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Invero tale art. 1, al comma 2 prevede che «se nella dichiarazione è indica-to, ai fini delle singole imposte, un reddito imponibile inferiore a quello accer-tato, o, comunque, un’imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello spettante, si applica la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della maggior imposta o della differenza del credito. La stessa san-zione si applica se nella dichiarazione sono esposte indebite detrazioni d’im-posta ovvero indebite deduzioni dall’imponibile, anche se esse sono state at-tribuite in sede di ritenuta alla fonte»; orbene «da tale disposizione si evince che la legge non considera per l’applicazione delle sanzioni quale criterio scri-minante la violazione della legge o la sua elusione o aggiramento, essendo ne-cessario e sufficiente che voci di reddito evidenziate nella dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o vi siano “indebite” deduzioni o detrazioni, agget-tivo espressamente menzionato nel primo comma dell’art. 37 bis, cit. In so-stanza le sanzioni si applicano per il solo fatto che la dichiarazione del contri-buente sia difforme rispetto all’accertamento»; inoltre «tale conclusione è raf-forzata dal testo del comma 6» dell’art. 37 bis, secondo cui «le maggiori im-poste accertate siano iscritte a ruolo “secondo i criteri di cui all’art. 68, D.Lgs. n. 546 del 1992, concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in corso di giudizio”, rendendo così evidente che il legislatore ritiene l’applica-zione di sanzioni come effetto naturale dell’esito dell’accertamento in materia di atti elusivi»

33. In tale contesto si deve inquadrare l’intervento riformatore di cui all’art. 10 bis:

– il comma 1 pone sostanzialmente in capo al contribuente il divieto abu-so, declinandolo come divieto di effettuare operazioni prive di sostanza eco-nomica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzino essenzial-mente vantaggi indebiti, mediante l’elusione/aggiramento di norme e principi (la Relazione illustrativa parla di condotte che “aggirano” la ratio delle nor-

33 Così Cass. n. 2234/2013, cit., ed in senso analogo Cass., n. 25537/2011, cit. (entrambe in tema di illeciti amministrativi); simili argomentazione sono state svolte, in tema di reati tributari, da Cass. pen. n. 7739/2012, cit., secondo cui «a sostegno della rilevanza penale della condotta elusiva deve osservarsi ... che l’art. 1, lett. f), D.Lgs. n. 74 del 2000, fornisce una de-finizione molto ampia dell’imposta evasa: «la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa di-chiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichia-razione o della scadenza del relativo termine», definizione idonea a ricomprendere l’imposta elusa, che è, appunto, il risultato della differenza tra un imposta effettivamente dovuta, cioè quella della operazione che è stata elusa, e l’imposta dichiarata, cioè quella autoliquidata sul-l’operazione elusiva».

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me). Viene così delineato un nucleo precettivo, seppure privo di adeguata de-terminatezza, come si desume anche dalla farraginosa formulazione dei se-guenti commi 2, 3 e 4, che cercano di dare concretezza alla tipologia della con-dotta abusiva;

– quanto al profilo sanzionatorio il comma 13, si limita ad affermare che «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi pe-nali tributarie» (v. infra) e che «resta ferma l’applicazione delle sanzioni am-ministrative tributarie».

Prima facie sembrerebbe risolta ogni questione interpretativa, nel senso della pura e semplice applicabilità delle sanzioni amministrative a fronte di tutte le condotte poste in essere in violazione del divieto di abuso, giacché nel dire “resta ferma” il legislatore intende dire che la punibilità con le sanzioni ammi-nistrative persiste, ora come allora (o va vagliata ora come allora?). Tuttavia è proprio il presupposto della pregressa punibilità ad essere fallacie

34, quanto-meno per le condotte pregresse meramente abusive, estranee all’ambito ap-plicativo dell’art. 37 bis, cioè estranee all’ambito applicativo della c.d. elusione codificata.

Emerge quindi l’ipotesi di un’interpretazione, suggestiva, ma ardita, che tende a depotenziare la (invero blanda) natura precettiva dell’art. 10 bis: la possibile punibilità sulla base di tale nucleo precettivo, resta ferma, nel senso che non fa passi avanti; mancando una vera e propria tipizzazione della con-dotta e la previsione di una specifica sanzione, resta affidato all’interprete ed alla giurisprudenza il vaglio della punibilità, oggi così come per il passato; del resto, sul piano sanzionatorio l’art. 10 bis, si pone in termini analoghi rispetto al vecchio art. 37 bis; non si rinvengono dati positivi per poter ritenere codifi-cate le soluzioni talvolta affermate dalla giurisprudenza, e ciò, in assenza di un orientamento consolidato, appare alquanto ragionevole. Tuttavia tale inter-pretazione risulta decisamente smentita dalla Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 128/2015.

Qualche nuovo elemento interpretativo a favore della non punibilità è co-munque desumibile dalla Direttiva ATAD 2016/1164 (v. retro, par. 3).

Con il conforto del diritto dell’Unione prendono infatti corpo le teorie del

34 Per una serrata critica agli orientamenti giurisprudenziali favorevoli alla punibilità del-l’elusione codificata v. il fondamentale contributo di GUIDARA, op. cit., p. 415, il quale valoriz-za gli spunti garantistici emergenti dalla legge delega, pur evidenziandone il progressivo de-potenziamento nel corso dell’iter legislativo (sulla prima fase dei lavori v. in particolare MARINI, op. cit., pp. 341-342); sui lavori preparatori v. anche BARDINI, Regime sanzionatorio dell’elusio-ne fiscale, in AA.VV., Il nuovo abuso del diritto, a cura di Miele, Torino, 2016, p. 116 ss.

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contrasto all’abuso come meccanismo procedimentale e della non punibilità per mancanza di precetto.

5. Le ipotesi di violazione della delega

Ovviamente in questa sede è consentito soffermarsi soltanto su emergenti ipotesi di violazione della delega, su talune questioni ancora controverse e sui problemi aperti che presentano peculiare rilievo rispetto al tema dell’illecito tributario.

Una prima questione controversa è quella della natura dell’art. 10 bis, per la quale la dottrina tende a riproporre la tesi, ben nota e risalente, della natura procedimentale, già prospettata a proposito dell’art. 37 bis, ma decisamente avversata dalla giurisprudenza.

Al riguardo si è tornati ad evidenziare che «una condotta meramente inop-ponibile all’Amministrazione Finanziaria e non sanzionata espressamente dal legislatore può dirsi (fiscalmente) inefficace, ma non certamente illecita, tan-to più se si considera che l’art. 10 bis sembra configurare, per la sua formula-zione, una norma di carattere “procedimentale”, che concede particolari pote-ri al Fisco e che non è idonea a prevedere specifici obblighi dichiarativi in ca-po al contribuente»

35. Secondo questa tesi l’inopponibilità all’Amministrazione Finanziaria di de-

terminati comportamenti da cui scaturiscono vantaggi fiscali indebiti, andreb-be collocata nella fase del controllo e dell’accertamento, in armonia con la col-locazione materiale della norma (ieri il D.P.R. n. 600/1972 oggi lo Statuto); viene invocata anche la sua specifica articolazione procedimentale, partico-larmente caratterizzata da quanto previsto circa le modalità con cui l’Ammi-nistrazione deve effettuare il disconoscimento dei vantaggi tributari, e suffra-gata dall’effetto peculiare della definitività dell’atto impositivo, in virtù del quale i soggetti diversi dal contribuente accertato possono richiedere il rimborso delle imposte pagate a seguito dei comportamenti disconosciuti, e, a tal fine, possono proporre istanza di rimborso entro un anno dal giorno in cui l’accer-tamento è diventato definitivo.

In ragione della natura meramente procedimentale della norma il contri-buente non sarebbe tenuto ad applicarla in sede di autoliquidazione. Il disco-

35 Così G. CONSOLO, Profili sanzionatori amministrativi e penali del nuovo abuso del diritto, in Corr. trib., 2015, p. 3966; ma v. soprattutto BEGHIN, Elusione fiscale, abuso del diritto e profili sanzionatori, in Boll. trib., 2015, p. 805.

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noscimento deriverebbe dall’atto di accertamento, per cui si tratterebbe di prelievo per imposta dovuta solo in seguito al controllo; conseguentemente l’abuso, non implicando la infedeltà della dichiarazione, non potrebbe dar luo-go all’irrogazione della relativa sanzione.

Si tratta di tesi meritevole della massima considerazione 36, ma ormai da

anni respinta dalla giurisprudenza, favorevole alla punibilità in base alla con-cezione sostanzialistica dell’art. 37 bis (ed ora dell’art. 10 bis).

Un problema aperto, che presenta tratti di novità, riguarda la compatibilità tra la farraginosa formulazione dell’art. 10 bis ed il principio di determinatezza.

Sul piano del diritto punitivo è stato evidenziato che «per specificare la lo-cuzione “operazioni prive di sostanza economica”, l’art. 10 bis ricorre ad un’e-lencazione di indici indeterminati, al verificarsi dei quali l’operazione dovreb-be considerarsi abusiva ...», ma anche «l’esimente delle “operazioni giustifi-cate da valide ragioni extrafiscali non marginali” non sembrerebbe permettere di inscrivere la condotta entro limiti d’immediata e univoca interpretazione; in-vero, le “valide ragioni extrafiscali non marginali”, non essendo puntualmente individuate, finiscono con l’essere rimesse a valutazioni soggettive ...»

37. Lo spunto risulta quanto mai suggestivo, tuttavia è noto che il principio di

determinatezza trova rigorosa applicazione soltanto nel diritto penale e non anche nel sistema dell’illecito amministrativo; in tale ambito si dovrebbe ope-rare piuttosto muovendo da un approccio sostanzialistico della riserva di leg-ge, intesa come limite rispetto a norme che affidano margini eccessivi di di-screzionalità, apprezzamento ed in fin dei conti arbitrio all’Amministrazio-ne

38. Ma purtroppo si deve prendere atto ancora una volta dell’orientamento giurisprudenziale favorevole alla punibilità dell’elusione codificata

39, per la quale si ponevano problematiche del tutto analoghe a quelle emergenti dalla nuova disciplina dell’abuso di cui all’art. 10 bis.

36 Brillantemente ripresa, e rimodulata sull’art. 10 bis, da BEGHIN, Elusione fiscale, abuso del diritto e profili sanzionatori, cit., cui si rinvia per i tanti spunti teorici ed applicativi, sui quali si dovrà confidare per tentare di innestare mutamenti nella consolidata giurisprudenza avversa.

37 G. CONSOLO, Profili sanzionatori amministrativi e penali del nuovo abuso, cit., p. 3967. 38 Sulla scia del Conseil Constitutionnel Francese, che con decisione 29 dicembre 2013,

n. 685, resa in sede di controllo preventivo, ha ritenuto contraria alla Costituzione francese la nuova definizione di abuso di diritto di cui all’art. L64 del Livre des procédures fiscales. In base alla disciplina censurata, l’abuso del diritto non si sarebbe più verificato in presenza di atti che non possono essere giustificati da nessun altro motivo se non quello di evitare o at-tenuare il carico fiscale, ma sarebbe stato sufficiente il fine principale di risparmio fiscale. Se-condo i giudici costituzionali Francesi, le nuove disposizioni, attribuendo un eccessivo margine di discrezionalità all’Amministrazione Finanziaria, confliggono con il principio di legalità.

39 V. la giurisprudenza indicata retro alle note 18 e 19.

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Un problema alquanto nuovo riguarda la quantificazione delle sanzioni am-ministrative a fronte delle condotte abusive ex art. 10 bis, rilevante anche dal punto di vista di una possibile violazione delle legge delega.

Invero – come chiarito in premessa – risulta legislativamente affermato ed ormai indiscutibile che le condotte abusive esprimono un grado di antigiuri-dicità inferiore rispetto alle condotte evasive

40. Diventa quindi doveroso per l’Agenzia delle Entrate motivare analiticamente la quantificazione delle san-zioni amministrative irrogabili a fronte delle condotte abusive in ragione del loro minore disvalore rispetto alle condotte evasive e dei criteri di cui all’art. 7 D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. Tuttavia tale disposizione (rubricata “Criteri di determinazione della sanzione”) offre qualche margine di apprezzamento in merito al grado di disvalore soltanto nel comma 1, laddove prevede che «nel-la determinazione della sanzione si ha riguardo alla gravità della violazione de-sunta anche dalla condotta dell’agente, all’opera da lui svolta per l’eliminazio-ne o l’attenuazione delle conseguenze, nonché alla sua personalità e alle con-dizioni economiche e sociali».

Il Governo ha quindi mancato una buona occasione – e verosimilmente in ciò ha violato la delega disattendendola – laddove intervenendo sull’ultimo comma del citato art. 7 si è limitato ad espungere dal testo originario la parola “eccezionali”, così da consentire che – in via ordinaria – «qualora concorrano circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo»

41. Sarebbe bastato dare rilievo anche alla sproporzione rispetto alla gravità della violazione o comunque fare riferimento alle condotte abusive ai fini della quantificazione della sanzione al di sotto del minimo edittale.

Risulta quindi frustrata l’aspettativa per una revisione del sistema sanzio-natorio realmente basata sul principio di proporzionalità, che pure permeava l’intera Delega per l’intervento sul sistema sanzionatorio. Basti ricordare che tra i criteri direttivi di cui all’art. 8 (comma 1) della legge delega spiccavano:

40 Rilievo ovvio in virtù di quanto previsto dalla legge delega e dalla formulazione dell’art. 10 bis, v. ad es.: SAMMARTINO, op. cit., p. 406; G. CONSOLO, Profili sanzionatori amministrativi e penali del nuovo abuso, cit., p. 3969; ID., La sanzionabilità amministrativa dell’abuso del dirit-to fiscale nella nuova clausola generale, in AA.VV., Abuso del diritto, cit., pp. 62-64. Per la nega-zione di uno specifico disvalore del comportamento abusivo, differenziabile dalle condotte evasive e dal legittimo risparmio d’imposta, v. le radicale e profonde riflessioni di VERSIGLIO-NI, Abuso del diritto e Costituzione: “imposta impossibile” e “sanzione possibile”, in AA.VV., Abu-so del diritto ed elusione fiscale, cit., pp. 47 e 69-74.

41 Intervento effettuato mediante l’art. 16, D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, dedicato alla Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’art. 8, comma 1, L. 11 marzo 2014, n. 23.

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– «l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasio-ne fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie»; – «la revisione del re-gime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le san-zioni all’effettiva gravità dei comportamenti».

Entrambi i criteri sono stati clamorosamente disattesi: – per quanto ri-guarda le sanzioni amministrative non vi è stata alcuna individuazione dei con-fini tra elusione ed evasione; anzi (salvo che per il penale) l’elusione viene so-spinta tout court verso l’area dell’evasione; – per quanto riguarda il rilievo del principio di proporzionalità e dell’effettiva gravità della violazione, risulta evi-dente l’inadeguatezza dell’intervento effettuato sull’art. 7, ult. comma, cit., so-prattutto rispetto all’esigenza di distinguere significativamente l’elusione dal-l’evasione nell’ambito del sistema sanzionatorio amministrativo

42. Emergono quindi seri dubbi sulla legittimità costituzionale per violazione

e mancata attuazione della legge delega. Infine, sul piano applicativo, è opportuno evidenziare che in ragione della

particolare disciplina di cui all’art. 10 bis, centrata su condotte aggiratorie – elu-sive di norme e principi (e di ratio ...) –, l’Amministrazione Finanziaria è tenu-ta ad assolvere significativi oneri probatori. Ciò fa si che per i casi di abuso il problema dell’elemento soggettivo nell’accertamento dell’illecito non possa essere banalizzato e ridotto alla tradizionale concezione minimalista, secondo cui a fronte della violazione di leggi e regolamenti la colpa si presume (in sen-so analogo si esprime la stessa Relazione illustrativa al decreto).

Invero, come è noto, si ritiene, in genere, che la colpa possa essere presun-ta ove l’agente abbia violato il precetto pur avendo avuto l’astratta possibilità di osservarlo, per cui l’Amministrazione può prescindere da complessi accer-tamenti inconciliabili con le esigenze dell’azione impositiva; sul piano proce-dimentale e processuale «l’assunzione della colpa come limite minimo di re-sponsabilità si traduce nell’onere, posto a carico del contribuente, di dare la prova dell’assenza di colpa» senza necessità di alcuna prova specifica da parte dell’Amministrazione

43.

42 In una prospettiva palesemente difforme dagli indirizzi della legge delega, che, secondo una parte della dottrina, deponeva a favore dell’assoluta inapplicabilità non solo delle san-zioni penali, ma anche di quelle anche amministrative (GUIDARA, op. cit.). A supporto dei dubbi sulla legittimità costituzionale per violazione della delega v. altresì: SAMMARTINO, op. cit., pp. 406-407; SALVINI, op. cit., p. 549; BEGHIN, Elusione fiscale, abuso del diritto e profili sanzionatori, cit.; GIOVANNINI, Abuso del diritto e sanzione, cit.

43 Così GALLO, Tecnica legislativa ed interesse protetto nei nuovi reati tributari: considerazio-

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Viceversa, il contesto delle condotte abusive è piuttosto differenziato, in quanto non ci si trova di fronte ad un precetto assistito da adeguata determi-natezza e soprattutto non ci si trova di fonte alla violazione diretta di un pre-cetto, ma all’aggiramento/elusione di norme e principi. Pertanto, per poter ir-rogare le sanzioni, l’Amministrazione dovrà istruire e motivare specificamente non solo i vari profili della condotta abusiva, ma anche il requisito soggettivo della colpa (o del dolo) atto a configurare l’aggiramento/elusione dal punto di vista soggettivo.

È chiaro che in tale contesto assumeranno particolare rilievo anche le obiettive condizioni di incertezza sulla norma tributaria e le altre cause di non punibilità di cui all’art. 6, D.Lgs. n. 472/1997.

6. Il regime transitorio: profili generali

Il regime transitorio pone problemi diversi, a seconda che si faccia riferi-mento agli illeciti amministrativi ovvero al diritto penale tributario.

A regime, l’art. 10 bis, nel comma 13, prevede che «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie», ma «re-sta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie».

Mentre dal punto di vista del vero e proprio diritto transitorio, in base all’art. 1, ult. comma, D.Lgs. n. 128/2015, le disposizioni dell’art. 10 bis hanno efficacia a decorrere dal 1° ottobre 2015 «e si applicano anche alle operazioni ni di un tributarista, in Giur. comm., 1984, I, p. 304, in relazione ai reati contravvenzionali, sul-la scia del diffuso – quanto criticabile – orientamento secondo cui poiché nella normalità dei casi chi realizza materialmente un fatto contravvenzionale agisce quantomeno con colpa, ove manchino circostanze che lascino pensare ad una situazione eccezionale in cui il soggetto abbia agito senza colpa, in base alle comuni massime di esperienza, si dovrà ritenere sussi-stente l’elemento soggettivo – fra le tante v.: Cass. pen., 8 marzo 1974; Cass. pen., 26 novem-bre 1975 (Gentile); Cass. pen., 2 giugno 1980, in Arch. giur. circol. e sin., 1981, p. 28; in senso analogo, con specifico riferimento al D.Lgs. n. 472/1997 v.: BATISTONI FERRARA, Principio di personalità, elemento soggettivo e responsabilità del contribuente, in Dir. prat. trib., 1999, I, p. 1509; Min. Fin. Circ., 10 luglio 1998, n. 180-E. La giurisprudenza è giunta ad analoghe conclu-sioni anche in relazione alla L. n. 689/1981, osservando che «il principio posto dall’art. 3 ..., secondo cui per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è richiesta la coscienza e vo-lontà della condotta attiva o omissiva, sia essa dolosa o colposa, deve essere inteso nel senso della sufficienza dei suddetti estremi, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo e della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa» (Cass., sez. un., 6 ottobre 1995, n. 10508, in Foro it., 1995, I, c. 3458; cui adde Cass., 2 giugno 1998, n. 5421 e Cass., 4 novembre 1998, n. 11054).

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poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo».

Orbene, limitando (per ora) l’analisi dei problemi al settore dell’illecito am-ministrativo si deve partire dal dato normativo: oggi alle condotte abusive so-no applicabili le sanzioni amministrative; esse danno luogo a violazioni ricon-ducibili sostanzialmente all’ambito applicativo della sanzione per infedele di-chiarazione, così come avviene per le condotte evasive (artt. 1 e 5, D.Lgs. n. 471/1997).

Tuttavia, come si è avuto modo di accennare, nel dire “resta ferma” il legi-slatore forse intende dire che la punibilità amministrativa persiste, ora come allora, ma tale formulazione è ambigua, erronea e comunque va sottoposta a doverosa specificazione interpretativa.

In primo luogo non è possibile affermare che la punibilità delle condotte elusive con sanzioni amministrative era prima d’oggi pacifica e consolidata; an-zi, a fronte di alcune sentenze di legittimità favorevoli, vi era un diffuso orien-tamento avverso nella giurisprudenza di merito supportato dalla dottrina pre-valente e dalla giurisprudenza comunitaria (caso Halifax)

44. Inoltre anche le sentenze favorevoli all’applicazione delle sanzioni ammini-

strative delimitavano inequivocabilmente la punibilità alle sole condotte ricon-ducibili alla c.d. elusione codificata, cioè a quelle rientranti nell’ambito appli-cativo di cui all’art. 37 bis, D.P.R. n. 600/1973; mai nessuna sentenza di legit-timità ha ritenuto applicabili le sanzioni amministrative anche alle condotte abusive, cioè non contemplate dall’art. 37 bis, cit., ma qualificabili come abu-sive soltanto in base al principio generale di divieto di abuso del diritto di ma-trice pretoria.

Del resto è ovvio che con la nuova disciplina dell’abuso tributario il legisla-tore non intende agire retroattivamente, introducendo ex novo la punibilità amministrativa di condotte cui in precedenza non erano applicabili le sanzio-ni amministrative: depongono chiaramente in tal senso i principi e criteri di-rettivi della legge delega, i lavori parlamentari, le nuove norme e soprattutto la formula “resta ferma ...”, che, seppur di dubbia portata, non sarebbe mai con-ciliabile con una asserita voluntas legis improntata alla innovazione retroattiva.

Esclusa de plano tale ipotesi, con il dire “resta ferma” al legislatore possono essere riferite soltanto altre tre possibili opzioni:

44 Al riguardo v. soprattutto: CONTRINO, Sull’ondivaga giurisprudenza in tema di applicabi-lità delle sanzioni amministrative tributarie, cit.; FIORENTINO, op. cit., p. 183; GUIDARA, op. cit., pp. 414-418.

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a) resta ferma, per le condotte pregresse, l’applicazione delle sanzioni am-ministrative tributarie soltanto laddove esse fossero ritenute punibili in base al dato normativo previgente rispetto all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 128/2015. Ciò vuol dire che per il presente si ipotizza la punibilità sulla base del nucleo pre-cettivo di cui all’art. 10 bis, ma, mancando una vera e propria tipizzazione della condotta e la previsione di una specifica sanzione, resta affidato all’interprete ed alla giurisprudenza l’apprezzamento della punibilità, così come per il passato, in quanto non si è inteso procedere alla codificazione delle soluzioni talvolta affer-mate dalla giurisprudenza, in assenza di un orientamento consolidato;

b) resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie lad-dove esse erano già ritenute applicabili dalla pregressa giurisprudenza di legit-timità, e quindi soltanto in caso di elusione codificata ex art. 37 bis. Pertanto il legislatore avrebbe recepito l’indirizzo giurisprudenziale, dando corpo oggi ad un nucleo precettivo simile a quello previgente ex art. 37 bis, cit.;

c) resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie per tutte le condotte elusive ed abusive, codificate o meno. Tale opzione interpre-tativa potrebbe essere astrattamente giustificata non come pura e semplice innovazione retroattiva, ma come norma implicitamente interpretativa.

Pur emergendo una certa preferenza per la prima, le due opzioni, a) e b), restano sul campo, risultano entrambe plausibili e sarà la giurisprudenza a trovare le soluzioni più ragionevoli e soprattutto più rispettose del principio di legalità, e dei corretti rapporti tra legge delega e decreto delegato (tuttavia l’opzione sub b) sembra latu sensu interpretativa, anche se in modo meno di-rompente rispetto a quella sub c)).

La terza opzione, sub c), è invece assolutamente inaccettabile, in quanto a norma dell’art. 1, comma 2, dello Statuto del contribuente, «l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di in-terpretazione autentica». Orbene è di tutta evidenza che la legge delega non contemplava alcun intervento interpretativo, e che comunque mancano la clausola di rafforzamento qualificatorio, il caso eccezionale, come presuppo-sto, e la legge ordinaria, come contenitore (di certo non si può concepire un intervento interpretativo attuato direttamente ed unilateralmente dal Gover-no, mediante un mero decreto).

Queste considerazioni riguardano l’art. 10 bis, comma 13, che per l’appun-to si pone come norma di strisciante portata interpretativa, ma, come antici-pato, la vera e propria norma transitoria si rinviene nell’art. 1, ult. comma, D.Lgs. n. 128/2015, secondo cui le nuove norme sull’abuso tributario, entrate in vigore il 1° ottobre 2015, «si applicano anche alle operazioni poste in esse-

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re in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo».

Sul piano sanzionatorio è opportuno chiarire che in base al principio di le-galità ex art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 472/1997, «nessuno può essere assogget-tato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della com-missione della violazione». Ora a prescindere dalla base costituzionale (art. 23 o art. 25 Cost.), è chiaro che si tratta di un principio generale del nostro or-dinamento, supportato dall’art. 7, comma 1 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, per cui una deroga sarebbe di dubbia legittimità, ma so-prattutto dovrebbe essere esplicita. Nella normativa in esame non è rinvenibi-le alcuna deroga esplicita all’art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 472/1997, per cui ri-sulta agevole argomentare in favore di un’interpretazione costituzionalmente orientata, anche in ossequio alla CEDU, volta ad escludere la punibilità delle condotte abusive poste in essere prima della data di entrata in vigore della nuova disciplina (15 ottobre 2015)

45. Quanto alle condotte riconducibili alla c.d. elusione codificata – già precedentemente ritenute punibili secondo alcu-ne sentenze di Cassazione – il problema si pone nei termini suesposti a propo-sito della natura interpretativa o meno della formula «resta ferma l’applica-zione delle sanzioni ...» (v. retro).

Viceversa è ragionevole ritenere che soltanto per le norme procedimentali possa operare la regola transitoria sui generis, secondo cui le nuove norme si applicano anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro effi-cacia, per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impo-sitivo. Per quanto riguarda il nucleo essenziale della nuova clausola generale antiabuso (art. 10 bis, commi 1, 2 e 3) il regime transitorio si delinea differen-temente a seconda della sua natura procedimentale o sostanziale (v. retro, parr. 1, 2 e 3): aderendo alla tesi che configura la norma antiabuso come pro-cedimentale troverebbe applicazione la speciale regola transitoria di cui all’art. 1, ult. comma, D.Lgs. n. 128/2015; optando, invece, per la tesi sostanzialistica dovrebbe trovare applicazione la normale e fondamentale regola di cui all’art. 3 dello Statuto

46.

45 In tal senso v. pure FRANSONI, La “multiforme” efficacia nel tempo dell’art. 10 bis dello Statuto su abuso ed elusione fiscale, in Corr. trib., 2015, p. 4362, il quale aggiunge acutamente che «la Legge delega non autorizzava il legislatore delegato a introdurre norme retroattive o a sancire l’ultrattività di quelle previgenti. Quindi ... l’interprete dovrebbe orientarsi ad escludere qualunque deroga agli ordinari principi di diritto intertemporale al fine di evitare sospetti di incostituzionalità per violazione dell’art. 76 Cost.».

46 Al riguardo è sufficiente ricordare alcuni capisaldi dello Statuto dei diritti del contri-

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7. L’irrilevanza penale delle condotte abusive

Sul fronte penalistico la problematica si pone in modo più lineare, giacché l’art. 10 bis, nel comma 13, prevede, tout court, che «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie».

Ovviamente l’art. 1, ult. comma, D.Lgs. n. 128/2015, pone questioni di di-ritto transitorio simili a quelle già trattate a proposito delle sanzioni ammini-strative, tuttavia il contesto penalistico risulta molto più chiaro, saldamente ancorato all’art. 25 Cost., all’art. 2 c.p. ed all’art. 7 CEDU, ma, soprattutto, ali-mentato da una matura esperienza giurisprudenziale

47. Non a caso in merito è già intervenuta, in modo tempestivo, esauriente e

convincente la sezione III della Corte di Cassazione penale, con la recente sent. 7 ottobre 2015, n. 40272 (v. infra).

Questa limpida pronuncia, accolta positivamente dalla unanime dottrina 48,

non si lascia certo travolgere dall’affermata irrilevanza penale delle condotte abusive

49, laddove precisa che: buente: – secondo l’art. 3 (Efficacia temporale delle norme tributarie) «salvo quanto previ-sto dall’art. 1, comma 2, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono» (comma 1); – secondo l’art. 1 (Principi generali) «le disposizioni della presente legge, in at-tuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’or-dinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali» (comma 1); ma soprattutto «l’adozione di norme interpretative in materia tributa-ria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica» (comma 2).

Per quanto riguarda la qualificazione e la natura delle altre diverse disposizioni e norme contenute nell’art. 10 bis, v.: FRANSONI, La “multiforme” efficacia nel tempo dell’art. 10 bis, cit. p. 4365; TABET, Sull’efficacia temporale della nuova disciplina dell’abuso in materia fiscale, in Rass. trib., 2016, I, p. 11; MASTROIACOVO, L’efficacia nel tempo della disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione d’imposta: tra regole di diritto intertemporale e specifici regimi transitori, in AA.VV., Abuso del diritto ed elusione fiscale, cit., p. 207.

47 V. le anticipatrici considerazioni di G. CONSOLO, Profili sanzionatori amministrativi e penali del nuovo abuso, cit., e DONELLI, Irrilevanza penale dell’abuso del diritto tributario: entra in vigore l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, in Dir. pen. cont., 2015, in www.penale-contemporaneo.it.

48 GALLO, La nuova frontiera dell’abuso del diritto, cit., p. 1348; FRANSONI, La “multifor-me” efficacia nel tempo dell’art. 10 bis, cit.; MUCCIARELLI, Abuso del diritto e reati tributari: la Corte di Cassazione fissa limiti e ambiti applicativi, in Dir. pen. cont., 2015, in www.penale-contemporaneo.it.

49 Che sembra invece sovraesposta da Cass. pen., sez. III, 28 ottobre 2015, n. 43809, sin troppo garantisticamente proiettata verso la qualificazione dell’esterovestizione come con-

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a) in ragione del «nuovo art. 10 bis ... l’abuso del diritto può essere confi-gurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di disposizioni del d.lgs. n. 74 del 2000, ovvero la violazione di altre disposizioni» (il dato ermeneutico si ricava immediatamente dal comma 12 del citato art. 10 bis, che funge da condizione negativa per la configurabilità dell’abuso);

b) l’abuso «postula l’assenza, nel comportamento elusivo del contribuen-te, di tratti riconducibili ai paradigmi, penalmente rilevanti, della simulazione, della falsità o, più in generale, della fraudolenza», e ciò «imprime alla disci-plina dell’abuso caratteri di residualità», rimanendo «impregiudicata la pos-sibilità di ravvisare illeciti penali – sempre, naturalmente, che ne sussistano i requisiti – nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perse-guano finalità antielusive ...»; «parimenti rimane salva la possibilità di ritenere, nei congrui casi che ... operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione»

50.

Pertanto, come chiarito dalla dottrina, affinché una condotta sia penalmente rilevante occorre che la stessa sia sussumibile sotto una figura d’incrimina-zione; ma «alla definizione della tipicità contribuisce ora anche l’art. 10 bis ... che ridisegna per sottrazione le fattispecie di reato, escludendo dal loro peri-metro i comportamenti rientranti nella nozione di abuso del diritto. Sicché, coerentemente con il principio informatore dettato dall’art. 8 legge delega (per il quale la reazione penale deve essere riservata soltanto ai «comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo della documen-tazione falsa»), dovranno considerarsi abusive (e dunque estranee al rilievo dotta abusiva (in merito v.: TOMASSINI, Esterovestizione irrilevante penalmente senza la prova della costruzione artificiosa, in Corr. trib., 2015, p. 4584, ed IMPERATO, La sentenza “Dolce e Gabbana” (ri)afferma il primato del diritto penale sul diritto tributario, in Il Fisco, 2016, p. 139)

50 Questo passaggio della motivazione suscita qualche perplessità ed invero è stato for-temente criticato. Secondo FRANSONI, La “multiforme” efficacia nel tempo dell’art. 10 bis, cit., p. 4366, tale spunto «può ritenersi astrattamente corretto solo nella misura in cui costituisca il mero riconoscimento del fatto che, in precedenza, la giurisprudenza ha utilizzato l’argo-mento dell’elusività come passepartout per evitare di impegnarsi nella dimostrazione e nella motivazione delle ragioni giustificatrici delle proprie decisioni favorevoli alle pretese del-l’Amministrazione. È infatti evidente che non basta qualificare talvolta come elusiva un’ope-razione per imporre di qualificarla sempre come tale. Viceversa, la qualificazione di un’opera-zione come abusiva deve dipendere da caratteri oggettivi (con tutte le difficoltà interpretati-ve che ciò comporta), ma, una volta che si pervenga a tale qualificazione, deve rimanere fer-mo che ciò implica necessariamente l’esclusione del suo carattere simulatorio nonché, co-munque, la sua inidoneità a integrare il fatto tipico previsto dalle leggi penali tributarie».

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penale) condotte» rilevanti esclusivamente sotto il profilo dell’art. 10 bis 51.

Merita quindi particolare attenzione la nuova complessa formulazione dell’art. 1, D.Lgs. n. 74/2000 (come modificato dall’art. 1, D.Lgs. n. 158/2015) che definisce le operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente come «le operazioni apparenti diverse da quelle disciplinate dall’art. 10-bis».

Prima facie sembrerebbe emergere un genus delle operazioni “apparenti” di cui quelle abusive rappresentano una species, per cui sarebbero punibili tutte le operazioni ricomprese in tale genus, diverse da quelle appartenenti alla spe-cies delle operazioni abusive.

Viceversa, secondo autorevole dottrina, «la lettura maggiormente con-forme alla elaborazione ... che si colloca a monte della novella normativa do-vrebbe condurre a ritenere che anche questa disposizione, conformemente al principio direttivo di cui all’art. 8 ... sia diretta a sottolineare “i confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale”, sancendo, appunto, la radi-cale incompatibilità fra simulazione e apparenza, da un lato, e abuso del dirit-to, dall’altro»

52. Ed invero il novellato art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 74/2000, la lett. g bis) pre-

vede che per «“operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” si in-tendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’articolo 10-bis ..., poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti»; la lett. g ter) chiarisce poi che «per “mezzi fraudolenti” si intendono condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà».

In buona sostanza – semplificando al massimo – l’apparenza, declinata in termini di difformità tra quanto viene rappresentato ai terzi e quanto è invece voluto (realizzato) dalle parti, assume rilievo penale

53, mentre la strumenta-

51 Così MUCCIARELLI, op. cit.; in senso analogo: DONELLI, op. cit.; GALLO, La nuova fron-tiera dell’abuso del diritto, cit., p. 1348; DI VETTA, Abuso del diritto nella prospettiva penale, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario, cit., p. 1005.

52 FRANSONI, La “multiforme” efficacia nel tempo dell’art. 10 bis, cit., p. 4366; ID., Abuso di diritto, simulazione e elusione: rapporti e distinzioni, in Corr. trib., 2011, p. 13; in un analogo ordine di idee v. gli spunti di GALLO, La nuova frontiera dell’abuso del diritto, cit., e l’inqua-dramento penalistico di MUCCIARELLI, op. cit., e DONELLI, op. cit.

53 Nel nuovo delitto di dichiarazione fraudolenta mediante artifizi, la difformità si confi-gura come il risultato di «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero ... di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria», con dichiarazione di «elementi attivi per un am-montare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi»; vi-

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lizzazione reale ed effettiva, delle forme negoziali e/o delle lacune normative, in cui rappresentato e voluto (realizzato) coincidono nella loro effettività e materialità, ha mero rilievo amministrativo.

Questa schematizzazione risulta pienamente soddisfacente sul fronte della dichiarazione fraudolenta (art. 3, D Lgs. n. 74/2000), ma è poco appagante sul fronte della dichiarazione infedele (art. 4, D.Lgs. cit.). Tuttavia l’insieme degli interventi di assestamento effettuati sulla disciplina del reato di dichiarazione infedele consente di comprendere meglio la complessiva ratio della riforma, sep-pure in presenza di un dato normativo alquanto ambiguo e criptico (che sul punto denota un pessimo esercizio della Delega da parte del Governo

54). Pertanto, come già evidenziato in dottrina, si può ritenere che le condotte

abusive siano estranee al reato di dichiarazione infedele, così come riformula-to nel nuovo art. 4, «non soltanto per la sostituzione del termine “fittizi” con “inesistenti” (ciò che in prima approssimazione sembra decretare la fine del dibattito circa il valore semantico di fittizio, in costante bilico tra la lettura che vi scorgeva un tratto di decettività e quella che lo rivendicava sinonimo di non esistente), ma anche per il nuovo comma 1 bis, che introduce una serie di sub-fattispecie dichiarate esplicitamente estranee alla figura incriminatrice ... ac-comunate tutte da una componente valutativa pur non corretta sul versante fiscale, ma attinenti a sottostanti situazioni reali ...»

55. A ciò aggiungasi che un ulteriore elemento di differenziazione tra il reato e l’illecito amministrativo di dichiarazione infedele può rinvenirsi proprio nel nucleo precettivo di cui all’art. 10 bis. ceversa nel nuovo delitto di dichiarazione infedele la difformità si configura in presenza di una dichiarazioni con «elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od ele-menti passivi inesistenti ...», ma (con l’inserimento del comma 1 bis) «non si tiene conto del-la non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali».

54 Al riguardo sono stati posti dubbi sul piano della legittimità, non solo in riferimento al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., ma anche in riferimento all’eccesso di delega ed alla natura assoluta della riserva di legge in materia penale (ex artt. 25, comma 2, e 76 Cost.), che riconosce il ruolo prioritario del Parlamento (in merito v. BOLETTO, op. cit., pp. 546-551).

55 Così MUCCIARELLI, op. cit.; in senso analogo, oltre alla Relazione illustrativa al decreto, v.: FINOCCHIARO, Sull’imminente riforma in materia di reati tributari: le novità contenute nello ‘schema’ di decreto legislativo, in Dir. pen. cont., 2015, www.penalecontemporaneo.it; CAVALLINI, Osservazioni “prima lettura” allo schema di decreto legislativo in materia penaltributaria, ibidem; BARDINI, op. cit., pp. 120-121; PERINI, La riforma dei reati tributari, in Dir. pen. proc., 2016, p. 18; DI VETTA, op. cit., p. 1069.

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Sotto altro profilo, l’argomento del nucleo precettivo è stato ripreso per sostenere che «rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali per le ipotesi di elusione, cioè per i casi di operazioni contrastanti con disposi-zioni specifiche che perseguono finalità antielusive ...» (arg. ex art. 10 bis, com-ma 12); su tali basi si è giunti a ritenere che «le pratiche elusive espressamen-te qualificate da specifiche disposizioni tributarie che ne disconoscono i sin-goli vantaggi fiscali rimangono estranee alla previsione del comma 13 dell’art. 10 bis, cit. e possono quindi rientrare, ricorrendone i presupposti, nell’area di penale rilevanza», come per le operazioni relative alle controlled foreign com-pany, al transfer pricing o all’esterovestizione

56. Si tratta di tesi errata, da rigettare con estrema decisione. A parte l’eterogeneità delle operazioni astrattamente indicate (come è no-

to l’esterovestizione è totalmente estranea all’abuso 57), tale interpretazione ri-

sulta palesemente in contrasto con la legge delega e con la chiara formulazio-ne dell’art. 10 bis, secondo cui “le operazioni abusive” (tout court) «non dan-no luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie» (e non le sole ope-razioni abusive configurabili come tali secondo la norma in questione). Del resto risulta fuorviante anche il riferimento all’elusione codificata, cioè quella apprezzata dal legislatore come potenzialmente antigiuridica e quindi rilevan-te sul piano della embrionale tipizzazione delle condotte; infatti sino ad oggi l’elusione codificata veniva contrapposta al mero abuso (ritenuto pretoriamen-te rilevante dalla giurisprudenza come principio generale, disancorato da una specifica norma di legge), ma erano configurabili come elusione codificata sia l’art. 37 bis, sia le norme antielusive speciali

58, così come oggi sono qualifica-bili come abuso/elusione codificata sia l’art. 10 bis, sia le norme speciali.

Prospettiva ben diversa sarebbe quella della «possibilità di ravvisare ille-citi penali – sempre, naturalmente, che ne sussistano i requisiti – nelle opera-zioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antie-

56 Così BOLETTO, op. cit., pp. 542-543, che nella nota 18 esplicita i casi ed evoca Cass. pen. n. 40272/2015, cit. (con riferimento a quel passo della motivazione che ha suscitato profonde perplessità nella dottrina maggioritaria – v. retro, nota 50); qualche spunto in sen-so analogo sembrerebbe desumibile da Cass. pen., sez. III, 5 aprile 2016, n. 35575, in ma-teria di reati doganali, che tuttavia presenta una motivazione estremamente confusa e con-traddittoria. In merito v. altresì, sia pure problematicamente, DI VETTA, op. cit., pp. 1078-1080; contra, mediante la valorizzazione dell’art. 10 bis come norma comprendente principi generali riferibili anche alle norme antielusive specifiche, CONTRINO, I confini dell’abuso, cit., pp. 28-30, 44-45.

57 V. le note 13 e 49. 58 V. retro, note 18 e 19.

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lusive ...» 59: ma sia chiaro che questi “requisiti” possono sussistere soltanto

in caso di commistione tra operazioni abusive ed evasive, laddove la falsa rappresentazione dei fatti colori penalmente la fattispecie.

Invero il problema è sempre il solito e ruota sulla esistenza/inesistenza dei fatti: la difformità tra quanto viene rappresentato ai terzi – falsamente – e quan-to è invece voluto (realizzato) dalle parti, è penalmente rilevante, mentre la stru-mentalizzazione delle forme negoziali e/o delle lacune normative, in cui rap-presentato e voluto (realizzato) coincidono, ha mero rilievo amministrativo

60. L’insoddisfazione dell’interprete (e degli operatori) a fronte di tale quadro

normativo, risulta aggravata dalla tendenziale divaricazione tra imposta evasa in sede amministrativa e penale, e dalla distonia della dichiarazione infedele come illecito amministrativo e come reato. Sarebbe stato molto più ragione-vole, semplice e lineare distinguere sino in fondo l’abuso/elusione dall’evasio-ne, escludendone tout court la punibilità, dando corpo ad un percorso norma-tivo di attuazione della Delega di certo consentito dai principi e dai criteri di-rettivi (ed altresì conforme con la giurisprudenza europea).

8. Segue: regime transitorio, favor rei ed abolitio criminis

Come si è avuto modo di anticipare emergono in materia penale questioni di diritto transitorio simili a quelle già trattate a proposito delle sanzioni am-ministrative, tuttavia lo scenario normativo e la giurisprudenza offrono sup-porti ben più consistenti rispetto a quanto avviene per il settore dell’illecito amministrativo tributario.

Per un verso l’art. 10 bis, nel comma 13, prevede che «le operazioni abusi-ve non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie», ma,

59 Clausola cautelativa che si rinviene spesso nelle recenti sentenze, v. ad es.: Cass. pen. n. 40272/2015, cit.; Cass. pen. n. 35575/2016, cit.

60 In tal ordine di idee v. Cass. pen. n. 43809/2015, soprattutto Cass. pen., sez. III, 20 aprile 2016, n. 48293, in Il Fisco, 2017, p. 71, nonché Cass. pen., sez. III, 5 ottobre 2016, n. 41755. Tuttavia la sent. n. 41755, seppure in linea con il tema della contrapposizione falso/ve-ro (di cui nel testo), si proiettata sino a cogliere la rilevanza dei negozi affetti da nullità civili-stiche affianco ai negozi simulati ed alle dichiarazioni false, laddove precisa che «può definir-si elusiva, e pertanto ... penalmente irrilevante, solamente un’operazione che, pur principal-mente finalizzata al conseguimento di un vantaggio tributario, sia tuttavia caratterizzata da una effettiva e reale funzione economico sociale meritevole di tutela per l’ordinamento ...»; si apre così la prospettiva dei negozi elusivi, privi di causa in concreto (o per altro verso gra-vemente confliggenti con il diritto civile) tanto da dare corpo ad una nullità civilistica, che in quanto tale riverbera sulla contrapposizione falso/vero.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 628

per altro verso, l’art. 1, ult. comma, D.Lgs. n. 128/2015, pone una peculiare regola di diritto transitorio, affermando che le nuove norme «si applicano an-che alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia», purché «alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo». Si tratta di vagliare la tenuta di questa barriera temporale e procedimentale rispetto al-l’art. 2 c.p. ed ai principi generali del diritto penale, nazionali e sovranazionali.

Il tema può essere subito inquadrato alla luce di una recente, autorevole e convincente sentenza, resa dalla sezione III della Corte di Cassazione penale, pochi giorni dopo l’entrata in vigore della riforma.

Si tratta della nota sentenza 7 ottobre 2015, n. 40272, con la quale la Corte chiarisce che il principio della retroattività della legge penale più favorevole, ex art. 2 c.p., non subisce limitazioni laddove sia stato già notificato l’atto im-positivo da parte dell’Agenzia delle Entrate

61. L’iter argomentativo su cui si basa la sentenza risulta ben ancorato ai prin-

cipi del diritto penale nazionale e sovranazionale:

– la legge delega non conteneva alcun principio e criterio direttivo volto a li-mitare nel tempo l’irrilevanza penale delle operazioni abusive; pertanto la pecu-liare regola di diritto transitorio di cui all’art. 1, ult. comma, D.Lgs. n. 128/2015, non può incidere in alcun modo rispetto all’art. 2 c.p., potendo operare solo sul piano procedimentale amministrativo;

– l’art. 117, comma 1, Cost., da rilievo al presidio dettato dall’art. 15, com-ma 1, del Patto Internazionale relativo ai Diritti Civili e Politici

62 che stabili-sce la retroattività delle leggi penali più favorevoli, in sintonia con l’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo

63;

61 La dottrina ha accolto la sentenza con estremo favore, v. per tutti i commenti di FRAN-SONI, La “multiforme” efficacia nel tempo dell’art. 10 bis, cit., e MUCCIARELLI, op. cit.

62 Come noto l’art. 117, comma 1, Cost. impone al legislatore di conformarsi agli obbli-ghi derivanti dai trattati internazionali ratificati dall’Italia. Ed è chiaro che ai nostri fini spicca il Patto Internazionale (reso esecutivo in Italia con L. 25 ottobre 1977, n. 881). L’art. 15, com-ma 1, dispone che «se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applica-zione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne»; del resto, come evidenziato dalla Corte, tale disposizione ha valore assolutamente cogente, giacché l’art. 4 consente agli Stati di derogare agli obblighi imposti dal Patto solo in caso di pericolo pubblico eccezionale che minacci l’esistenza del paese e nei limiti in cui la situazione strettamente lo esiga, ma esclude espressamente l’ammissibilità di qualunque deroga al principio in questione.

63 Quanto all’art. 7 CEDU, la Grande Camera della Corte europea nella sentenza 17 set-tembre 2009 (Ric. n. 10249/03, Scoppola c. Italia), ha chiarito che tale disposizione sancisce non solo «il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicita-mente, il principio della retroattività della legge penale meno severa», e che «se la legge penale

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– a fronte della giurisprudenza costituzionale Italiana, secondo cui il legi-slatore può introdurre – con il limite della ragionevolezza – deroghe o limita-zioni al principio di retroattività della legge più favorevole (stante, sul punto, il silenzio del nostro art. 25 Cost.), la Corte pone in evidenza che l’art. 15 del Patto Internazionale “non ammette deroghe” e che, comunque, nella fattispecie «una deroga ... non risponderebbe al principio di ragionevolezza»

64.

Il problema del favor rei deve ritenersi, quindi, risolto positivamente, nel senso che l’art. 10 bis, comma 13 (secondo cui «le operazioni abusive non dan-no luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie»), opera retroatti-vamente in modo normale, senza subire deroghe di sorta da parte dell’art. 1, ult. comma, D.Lgs. n. 128/2015, che pone una regola di diritto transitorio estra-nea all’ambito penale.

Un ultima questione, quanto mai complessa, riguarda la configurabilità di una vera e propria abolitio criminis

65. In dottrina è stato acutamente evidenziato che la sent. n. 40272/2015 non

assume una posizione esplicita al riguardo, «ma il dispositivo è suggestivo ... la formula terminativa è “il fatto non è più previsto dalla legge come reato” ... e, soprattutto, la trama argomentativa dà conto di una costruzione ermeneutica nella quale le condotte abusive vengono colte come estremi non più compresi nelle fattispecie astratte»

66. Comunque, a prescindere dai molteplici spunti offerti dalla Corte di Cas-

sazione, l’art. 10 bis dà corpo ad una sub-fattispecie destinata a integrare – in negativo, per sottrazione – le figure incriminatrici che prima contemplavano (o meglio alcune sentenze hanno ritenuto che contemplassero) anche le con-dotte abusive/elusive, ora esplicitamente private di qualsivoglia (ipotetica) rilevanza penale

67. Ci si trova quindi quindi «al cospetto di una abolitio crimi- in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato» (conf. Corte europea, 27 aprile 2010, Ric. n. 21743/07, Morabito c. Italia).

64 La nostra Corte costituzionale ha espressamente riconosciuto che anche il principio di irretroattività della legge penale meno severa sancito dall’art. 7 CEDU, così come interpreta-to dalla Corte europea, è riconducibile, in virtù dell’art. 117 Cost., fra i principi fondamentali cui deve conformarsi il legislatore italiano, pur con la facoltà di introdurre deroghe o limita-zioni, che devono però essere espresse e ragionevoli (sent. 22 luglio 2011, n. 236).

65 In merito v. DONELLI, op. cit., e MASTROIACOVO, op. cit., p. 220. 66 Così MUCCIARELLI, op. cit. 67 In tal senso v.: FINOCCHIARO, op. cit.; CAVALLINI, op. cit.; DONELLI, op. cit.; MUCCIA-

RELLI, op. cit.; DI VETTA, op. cit., pp. 1074-1076.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 630

nis parziale, dal momento che ad essere espunta dall’ordinamento non è una figura di reato nella sua interezza, ma soltanto un tratto della fattispecie astrat-ta, che il legislatore ha per tal modo ridisegnato, delimitandone i confini in modo diverso (e ridotto)»

68. Tale convincente ricostruzione in termini di abolitio criminis, rinviene nella

novella una valenza retroattiva ex art. 2 c.p., idonea a travolgere il giudicato, aprendo scenari di notevole complessità, che tuttavia assumono una rilevanza puramente penalistica.

Conclusioni

Tenendo conto del quadro teorico, del dibattito sviluppatosi a seguito della novella e delle prime importanti applicazioni giurisprudenziali è possibile con-cludere delineando alcune soluzioni e taluni ulteriori percorsi interpretativi.

Sul versante dell’illecito amministrativo non è affatto detto che l’ambigua clausola «resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie» (art. 10 bis, comma 13), deponga di per se nel senso della punibilità tout court.

La spinta del Governo Delegato è chiaramente indirizzata a favore di tale soluzione, ma il rispetto dei principi e criteri direttivi forniti dal Parlamento De-legante, offre ampi spunti in senso opposto; del resto è proprio il sistema dello Statuto che resiste ad interventi manipolatori del genere. Inoltre in favore del-la non punibilità amministrativa, almeno parziale (cioè circoscritta ai casi di comportamenti, ante novella, meramente abusivi) depongono vari altri ar-gomenti. Ma è indubbio che si tratta di percorso alquanto arduo (l’argomento desumibile dalla Direttiva ATAD 2016/1164 aiuta, ma non risolve).

Sul versante dei reati tributari è stata ormai inequivocabilmente stabilita l’irrilevanza penale dell’elusione/abuso rispetto all’evasione.

Risulta pertanto acclarato che le condotte abusive esprimono un grado di antigiuridicità inferiore rispetto alle condotte evasive.

Parte della giurisprudenza indugia sulla possibilità di ravvisare ipotesi di reato in caso operazioni elusive macroscopiche e/o contrastanti con specifi-che disposizioni antielusive, ma ciò è concepibile soltanto in caso di commi-

TABET, op. cit., p. 16, parla di una denegatio criminis, di valore meramente dichiarativo, in quanto la norma si riferisce a fattispecie già in precedenza escluse dall’area della responsabili-tà penale (almeno secondo la giurisprudenza dominante).

68 MUCCIARELLI, op. cit.

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Lorenzo Del Federico-Edoardo Traversa 631

stione tra operazioni abusive ed evasive, laddove la falsa rappresentazione dei fatti colori penalmente la fattispecie.

In ragione del fatto che l’art. 10 bis è stato pubblicato prima della Direttiva ATAD 2016/1164 lo Stato Italiano dovrà dare seguito al recepimento della Direttiva o comunque valutare il da farsi, effettuando un test basato sul crite-rio del livello minimo di protezione dell’interesse fiscale.

Come si è avuto modo di evidenziare, prima facie la protezione assicurata dall’art. 10 bis all’interesse fiscale sembra superiore al livello minimo salvaguar-dato dalla Direttiva, tuttavia il tema del recepimento presenta variegati profili di problematicità

69. Certo è che per quanto riguarda il caotico tema dell’elusione e dell’abuso

l’art. 10 bis ha comportato un passo avanti, certamente apprezzabile, anche dal punto di vista del regime punitivo. Forse ci sarebbe voluto più coraggio nel-la razionalizzazione della materia ed in un più ponderato bilanciamento tra gli interessi in gioco. Si sarebbe potuta escludere la punibilità amministrativa o, meglio, si sarebbe potuta consentire la riduzione delle sanzioni al di sotto del minimo edittale, in ragione della effettiva gravità della violazione (o comun-que facendo riferimento alle condotte abusive).

Ma quando le regole vengono scritte dal Governo, e non dal Parlamento, e quindi il potere esecutivo prevale su quello legislativo, bisogna accontentarsi.

69 GUTMAN-PERDELWITZ-RAINGEARD DE LA BRETIERE-OFFERMANNS-SHELLEKENS-GALLO et al., op. cit.

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Eugenio Della Valle

L’IMPUTAZIONE A PERIODO NELLA DETERMINAZIONE DEL REDDITO DELL’IMPRESA MINORE “SEMPLIFICATA”

TIMING IMPUTATION IN THE INCOME CALCULATION OF “SIMPLIFIED” SMALL ENTERPRISES

Abstract La legge di bilancio per il 2017 è intervenuta sulla determinazione del reddito delle imprese minori in regime di contabilità semplificata sottraendo all’operare del prin-cipio di competenza, tra l’altro, l’area della gestione caratteristica. Ne consegue un sistema di determinazione del reddito delle imprese in questione, ritenuto mag-giormente conforme al principio di capacità contributiva, di natura ibrida in cui opera un mix di cassa e competenza; una conferma della tensione riscontrabile al-l’interno del predetto principio tra l’esigenza di conformare l’imponibile delle im-poste sui redditi a quello determinabile secondo le scienze economico-aziendali, siccome maggiormente affidabile, e l’interesse a che il contribuente sia in grado di pagare le imposte medesime senza attingere al proprio patrimonio ovvero ricorrere all’indebitamento. Senza peraltro considerare a tal fine il ruolo in taluni caso svolto dalla progressività. Parole chiave: imprese minori, contabilità semplificata, criteri di cassa e di compe-tenza, presunzione di incasso e pagamento, doppia imposizione Budget Law 2017 impacts on the income calculation of small enterprises adopting “sim-plified” bookkeeping rules by subtracting, inter alia, from the application of the “accru-al” imputation method the operational management area. This determines a system of income calculation of small enterprises, considered more compliant as to the ability-to-pay principle, having an hybrid nature as characterized by a mix of “cash flow” and “accrual” imputation methods; a confirmation of the tension observable within such principle between the necessity to shape the income tax base to the one determined ac-cording to the economic-entrepreneurial sciences, which is more reliable, and the need that the taxpayer is able to pay income taxes not being forced to use own assets or getting into

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 634

debt. Leaving out for this purpose the fundamental role of progressive taxation in certain cases. Keywords: small enterprises, simplified bookkeeping, “cash flow” and “accrual” impu-tation methods, presumption of collection and payment, double taxation

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’evoluzione normativa: cenni. – 3. La ratio della novella e la natura ibrida del criterio di imputazione temporale. – 4. La presunzione di incasso e/o di pagamento. – 5. La dop-pia imposizione ed i salti d’imposta nel passaggio di regime. – 6. Conclusioni.

1. Premessa

La legge di bilancio per il 2017, quanto alle imprese in contabilità semplifi-cata, è come noto intervenuta sulla determinazione della base imponibile del tributo sul reddito e dell’IRAP con previsioni che, muovendo da invocate esi-genze di semplificazione

1, incidono profondamente sulla c.d. imputazione temporale sottraendo l’intera area della gestione caratteristica, oltreché quella coperta dall’art. 89 TUIR, all’operare del principio di competenza

2. Il risultato è una base imponibile dei predetti soggetti ancorata, con più di

qualche temperamento, ai flussi finanziari in ritenuta maggiore conformità al principio di capacità contributiva.

A ciò conducono le disposizioni di cui all’art. 1, commi da 17 a 23, L. 11 dicembre 2016, n. 232, le quali, per un verso, introducono modalità di deter-minazione del reddito (e del valore della produzione netta) delle imprese am-messe alla tenuta della contabilità semplificata “improntate” al principio di cassa e, per altro verso, intervengono sugli obblighi strumentali ad esse facenti capo.

1 Cfr. la Relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio integrato. 2 In tema di imputazione temporale del reddito v., oltre al classico contributo di CROVA-

TO, L’imputazione a periodo nelle imposte sui redditi, Milano, 1996, passim, CARINCI, Il fattore temporale nell’imposta sui redditi: tra disciplina e definizione delle ipotesi categoriali e del reddito complessivo, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2000, I, p. 618 ss.; che la competenza, così come la cassa, costituisca un “principio” giuridico in senso stretto ovvero, diversamente, un “criterio”, una mera “regola” di imputazione temporale è questione che esula dal contenuto di questo scrit-to (di seguito dunque si useranno, in relazione alla competenza ed alla cassa, indifferente-mente i predetti termini).

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Eugenio Della Valle 635

La novella trae origine dalla legge delega n. 23/2014, la quale, nel quadro dell’ennesimo disegno di riforma del sistema tributario, prevedeva uno specifico percorso di semplificazione per i contribuenti di minori dimensioni

3, percorso entro cui probabilmente poteva essere ricondotta anche la revisione di alcune delle regole dedicate alla determinazione della base imponibile dei tributi di du-rata, incluso evidentemente il profilo che attiene all’imputazione temporale

4. La delega è sul punto rimasta inattuata ed è soltanto con la legge di bilancio

per il 2017 che il legislatore ha posto mano alla disciplina della determinazione del reddito e del valore della produzione delle imprese in regime di contabilità semplificata: ed invero, con la riformulazione del comma 1 dell’art. 66 TUIR (applicabile anche ai fini IRAP), si prevede che il reddito d’impresa dei suddetti soggetti «è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei ricavi di cui all’art. 85 e degli altri proventi di cui all’art. 89 percepiti nel periodo d’imposta e quello delle spese sostenute

5 nel periodo stesso nell’esercizio dell’attività d’impresa» 6.

3 L’art. 11, comma 1, lett. b), L. n. 23/2014, prefigurava, in particolare, la «istituzione di regimi semplificati per i contribuenti di minori dimensioni».

4 Sul regime tributario delle c.d. imprese minori, senza pretesa di completezza, v. DI PIE-TRO, Il reddito delle imprese minori, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo testo unico, coor-dinati da Uckmar-Magnani-Marongiu, Padova, 1988, p. 643 ss.; FILIPPI, Le imprese minori, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo testo unico, cit., p. 633 ss.; ID., Considerazioni sulla de-terminazione del reddito delle imprese minori, in AA.VV., Commentario al Testo Unico delle im-poste sui redditi e altri scritti. Studi in memoria di Antonio Emanuele Granelli, Roma-Milano, 1990, p. 511 ss.; LUPI, Imprese minori (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, XVIII, 1990, p. 1 ss.; MARCHETTI, Nozione e trattamento dell’impresa minore nel sistema tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1987, I, p. 515 ss.; PERRONE, La dimensione e la quantificazione del reddito, in AA.VV., La dimensione fiscale dell’impresa tra ordinamento e mercati. Atti del Convegno per Roberta Rinaldi, a cura di Di Pietro, Bari, 2014, p. 59 ss.; ID., La dimensione e la quantificazione del reddito, in Rass. trib., 2014, p. 679 ss.; RINALDI, Le imprese minori nel testo unico delle imposte sui redditi, in Piccola impresa/Small business, fasc. n. 3, 1988, p. 63 ss.; ID., Alcune considerazioni in tema di impresa minore nell’imposta sul reddito (tra norme vigenti e prospettive di riforma), in Rass. trib., 2006, p. 515 ss.; TOSI, Le imprese minori, in AA.VV., L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in TESAURO (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, tomo II, Tori-no, 1994, p. 921 ss.

5 Sul piano strettamente letterale occorre considerare che, mentre per i componenti posi-tivi il passaggio alla cassa è reso palese dalla sostituzione del pregresso riferimento al conse-guimento dei proventi con quello alla percezione degli stessi, per i componenti negativi è ri-masto il riferimento alle spese “sostenute nel periodo stesso”. Ciò che non risulta particolar-mente rilevante attesa l’eliminazione dal testo della disposizione di ogni rinvio ai primi due commi dell’art. 109 TUIR (che governano, appunto, la competenza): una conferma viene dalla Relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio 2017 laddove si legge che il nuovo assetto implica una deroga «al criterio della competenza, sia per i ricavi che per le spese».

6 Sulle novità di cui alla legge di bilancio per il 2017, v. MORETTI, Il nuovo principio di cas-

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 636

Or dunque, al pari di quanto avviene in materia di determinazione del red-dito di lavoro autonomo, l’imputazione temporale, quanto alle imprese mino-ri in regime di contabilità semplificata, segue, a partire dal 1° gennaio 2017, il principio di cassa, principio la cui applicazione soffre tuttavia numerose dero-ghe: è il caso, tra l’altro, delle plusvalenze e delle minusvalenze, delle soprav-venienze attive e passive derivanti dallo storno o dall’integrazione di compo-nenti positivi o negativi che concorrono a formare il reddito per competenza, degli ammortamenti dei beni materiali ed immateriali e dei canoni di leasing (incluso il maxi-canone), degli accantonamenti di quiescenza e previdenza, dei proventi di cui all’art. 90, comma 1, TUIR, derivanti da immobili diversi da quelli strumentali e da quelli merce, del valore normale dei beni “autocon-sumati”, assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impre-sa, delle perdite di beni strumentali e delle perdite su crediti, delle spese per prestazioni di lavoro e degli oneri di utilità sociale, delle spese pluriennali di cui all’art. 108 TUIR e della remunerazione dovuta in base ai contratti di as-sociazione in partecipazione e a quelli di cui all’art. 2554 c.c. se è previsto l’ap-porto di opere e servizi (cfr. la seconda parte del comma 1 ed il comma 2 dell’appena citato art. 66 TUIR)

7. Sul piano degli adempimenti contabili viene poi interamente riscritto l’art.

18, D.P.R. n. 600/1973, prevedendosi l’obbligo di annotare in due distinti re-gistri i ricavi percepiti e le spese sostenute nell’esercizio dell’attività d’impresa “con riferimento alla data di pagamento” (cfr., in particolare, il comma 2 del predetto art. 18).

Imprenditori individuali, società di persone a forma commerciale ed enti non commerciali con attività commerciale, laddove non siano evidentemente superate le soglie di accesso alla tenuta della contabilità semplificata

8, posso- sa per le imprese minori: tra vecchie e nuove questioni, in Rass. trib., 2017, p. 984 ss.; FERRANTI, Reddito d’impresa “per cassa” per le imprese minori, in Corr. trib., 2016, p. 3517 ss.; ID., Regime di cassa per le imprese minori: i primi chiarimenti dell’Agenzia, in Il Fisco, 2017, p. 707 ss.; ID., Adempimenti da chiarire per le imprese che adottano il nuovo regime di cassa, in Il Fisco, 2017, p. 907 ss.; ID., Regime di cassa: gli ultimi chiarimenti dell’Agenzia, ivi, 2018, p. 716 ss.; RIZZARDI, Le imprese minori si confrontano con il calcolo dei redditi per cassa, in Corr. trib., 2017, p. 813 ss.; ID., La tassazione per cassa delle imprese minori: i rischi conseguenti all’irrilevanza delle rima-nenze, in Corr. trib., 2017, p. 345 ss.; BELOTTI-QUARANTINI, Principio di cassa per imprese mi-nori: un ulteriore passo verso il superamento della competenza, in Il Fisco, 2016, p. 4336 ss.

7 Quanto all’IRAP è stato introdotto nell’art. 5 bis, D.Lgs. n. 446/1997 il nuovo comma 1 bis, secondo il quale, «per i soggetti di cui al comma 1, che determinano il reddito ai sensi dell’articolo 66 del testo unico delle imposte sui redditi [...] la base imponibile di cui al comma 1 del presente articolo è determinata con i criteri previsti dal citato articolo 66».

8 Per effetto di quanto previsto dall’art. 7, comma 2, lett. m), D.L. 13 maggio 2011, n. 70,

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no comunque anche oggi optare per il regime ordinario con i conseguenti ef-fetti in punto di determinazione della base imponibile (cfr. il successivo com-ma 8).

Il set delle opzioni contabili è completato dal comma 5 dello stesso art. 18, che, previo esercizio di un’opzione vincolante per almeno un triennio, con-sente ai contribuenti in parola di tenere i registri IVA senza operare annota-zioni relative ad incassi e pagamenti. L’effetto associato a tale opzione consi-ste in ciò che, «per finalità di semplificazione si presume che la data di regi-strazione dei documenti coincida con quella in cui è intervenuto il relativo in-casso o pagamento»: una conferma, questa, della specialità del criterio di impu-tazione temporale che oggi governa la determinazione del reddito delle im-prese minori in regime di contabilità semplificata posto che, non solo per tali imprese convivono cassa e competenza, ma vi è anche una convergenza (pre-sunta) di momenti (registrazione e manifestazione numeraria) che altrove con-servano la loro individualità.

2. L’evoluzione normativa: cenni

Prima di esaminare alcuni degli aspetti più interessanti della novella, qual-che cenno sull’evoluzione del sistema relativo all’imputazione temporale dei componenti di reddito delle imprese di minori dimensioni muovendo dalla grande riforma dei primi anni ’70.

Orbene, l’art. 72, D.P.R. n. 597/1973 stabiliva, come noto, che il reddito del-l’impresa minore “semplificata” fosse pari alla differenza tra l’ammontare com-plessivo dei ricavi, delle plusvalenze e delle sopravvenienze attive e l’ammon-tare complessivo dei costi indicati nella norma stessa o comunque documen-tati; veniva, inoltre, fatta salva la deducibilità di una percentuale forfettaria calcolata sui ricavi a fronte di oneri non documentati

9. conv., con modificazioni, dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, le soglie per l’accesso alla tenuta del-la c.d. contabilità semplificata sono state elevate a 400.000 euro per le imprese aventi ad og-getto prestazioni di servizi e a 700.000 euro per le imprese aventi ad oggetto altre attività; per un commento alle novità recate dal c.d. decreto sviluppo in materia di imprese in contabilità semplificata, v. GAVELLI-VALCARENGHI, Il decreto sviluppo amplia la platea dei “semplificati”, in Corr. trib., 2011, p. 1891 ss.

9 Per quanto riguarda le imprese di minori dimensioni, la legge delega n. 825/1971 pre-vedeva la generalizzazione dei principi relativi alla determinazione del reddito in base a scrittu-re contabili ipotizzando, al contempo, «particolari semplificazioni, per quanto attiene alla con-tabilità obbligatoria e alla determinazione del reddito» (cfr., in particolare, il punto 18 dell’uni-co comma dell’art. 2).

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Sul piano del criterio di imputazione temporale, non essendoci deroghe e-spresse ai principi generali in materia di determinazione del reddito d’impre-sa, trovava piena applicazione il principio di competenza allora regolato dal-l’art. 74, D.P.R. n. 597/1973

10. Con il TUIR si opta per un sistema diverso che, tuttavia, non vedrà mai

compiuta applicazione 11. Il superamento del principio di competenza, ivi con-

templato, infatti, rimane lettera morta in ragione vuoi della sospensione del-l’applicazione della nuova disciplina, vuoi, a far tempo dal 1° gennaio 1989, del ripristino dello status quo ante.

In particolare l’originaria versione del comma 1 dell’art. 79 TUIR stabiliva che «il reddito d’impresa dei soggetti che secondo le norme del DPR 29-9-1973, n. 600 sono ammessi al regime di contabilità semplificata e non hanno optato per il regime ordinario è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei ricavi [...] conseguiti nel periodo d’imposta [...] e l’ammontare delle spese do-cumentate sostenute nel periodo stesso».

A tale previsione faceva da pendant il comma 6 del medesimo art. 79 che, riprendendo il contenuto dell’ultimo comma dell’allora vigente art. 18, D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 2, comma 11, D.L. n. 853/1984

12, stabiliva che l’impu-

10 In questo senso v. POTITO, L’ordinamento tributario italiano, Milano, 1978, p. 274; GRA-NELLI, Ancora sull’imposizione del reddito delle minori e minime imprese, in Boll. trib., 1978, p. 737; FILIPPI, Considerazioni sulla determinazione del reddito delle imprese minori, cit., p. 513; quanto alla prassi giurisprudenziale, cfr. Cass., sez. trib., sent. 28 novembre 2001, n. 15083, in Il Fisco, fasc. n. 1, 2002, p. 1210.

11 Si legge nella nota illustrativa ministeriale all’art. 79 del progetto di Testo unico del 1986 (reperibile ne Il Fisco, 1988, p. 1604) che «la regola della competenza non soltanto non è fa-cilmente applicabile in mancanza del bilancio, e della serie dei bilanci annuali, ma mal si con-cilia con i diversi criteri che a norma del decreto n. 633 del 1972 presiedono alla contabiliz-zazione nei registri IVA, i soli che le imprese minori devono tenere. Ne deriva uno sfasamento anche per quanto attiene alla imputazione dei costi e dei ricavi al periodo d’imposta; e que-sto sfasamento è ulteriormente complicato dal fatto che il computo del volume-limite di ri-cavi dev’essere effettuato, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 18 del decreto n. 600, sulla ba-se non dei ricavi di competenza bensì dei corrispettivi delle operazioni annotate nei suddetti registri ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Per questi motivi, del resto, la regola della competenza è stata esplicitamente abbandonata nell’ambito della disciplina temporanea sta-bilita dal decreto n. 853 (vedi art. 2, comma undicesimo)».

12 L’art. 2, comma 11, D.L. n. 853/1984 prevedeva in particolare che «i ricavi [...] si consi-derano conseguiti, le plusvalenze si considerano realizzate e le spese si considerano sostenute nel periodo d’imposta in cui le relative operazioni sono state o avrebbero dovuto essere regi-strate o annotate ai fini dell’imposta sul valore aggiunto e a norma del terzo comma dell’artico-lo 18 del decreto del D.P.R. 29 settembre 1973, numero 600, ovvero, per i contribuenti che effettuano soltanto operazioni non soggette a registrazione ai fini dell’imposta sul valore ag-giunto, nel periodo d’imposta in cui si è verificata la percezione o l’erogazione [...]».

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tazione al periodo d’imposta dei ricavi e proventi e delle spese avrebbe dovuto essere basata sugli stessi criteri rilevanti ai fini IVA

13. In tal modo venivano a coincidere il momento in cui i ricavi e proventi si

considerano conseguiti e le spese si considerano sostenute con quello in cui tali eventi gestionali sono annotati nei registri prescritti dalle disposizioni vi-genti in materia di IVA

14. Le disposizioni appena richiamate rivestono grande interesse giacché le

stesse, sebbene non abbiano mai trovato concreta applicazione 15, costituisco-

no l’archetipo di quelle previste dall’odierno comma 5 dell’art. 18, D.P.R. n. 600/1973.

A partire dal 1° gennaio 1989, terminato il periodo di vigenza delle regole dettate dall’art. 2, comma 11, D.L. n. 853/1984, si torna alla competenza: il comma 1 dell’art. 79, siccome modificato dall’art. 7, comma 2, D.L. 2 marzo 1989, n. 69, conv. nella L. 27 aprile 1989, n. 154, prevedeva infatti che «il reddito d’impresa dei soggetti che secondo le norme del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sono ammessi al regime di contabilità semplificata e non hanno optato per il regime ordinario è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei ricavi [...] conseguiti nel periodo d’imposta e l’ammontare delle spese docu-mentate sostenute nel periodo stesso»; quanto al criterio di imputazione tem-porale, il successivo comma 2, elencando le disposizioni applicabili in sede di determinazione del reddito dell’impresa minore, menzionava espressamente i commi 2 e 3 dell’art. 75 dell’allora vigente TUIR che regolavano il principio di competenza.

L’impianto emerso alla fine degli anni ’80, eccettuata la diversa collocazio-ne della normativa di riferimento

16, si è così conservato intatto fino alla fine del 2016.

13 Si riferiva chiaramente al criterio di cassa la seconda parte del comma 6 del citato art. 79 laddove, in particolare, si prevedeva che, «per i soggetti che effettuano soltanto operazio-ni non soggette a registrazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, e in ogni caso per gli interessi, i compensi di lavoro subordinato e gli oneri fiscali, contributivi e di utilità socia-le», l’imputazione temporale si ha «nel periodo d’imposta in cui se ne è verificata la perce-zione o l’erogazione».

14 Secondo RINALDI, Le imprese minori nel testo unico delle imposte sui redditi, cit., p. 73, il criterio di imputazione temporale all’epoca vigente non era «né di competenza, né di cassa, ma appare piuttosto un criterio ibrido».

15 Con riguardo alle disposizioni applicabili nel quadriennio 1985-1988, v. l’art. 2, com-ma 1, D.L. n. 853/1984, e l’art. 6, comma 1, D.L. 14 marzo 1988, n. 70, conv., con modifica-zioni, nella L. 13 maggio 1988, n. 184.

16 In occasione della riforma che ha portato all’introduzione nel nostro ordinamento del-l’IRES la normativa un tempo recata dall’art. 79 si rinviene oggi nell’art. 66 TUIR.

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Non che nel lungo periodo di vigenza della regola cristallizzata dal Testo unico (in sostanza dal 1° gennaio 1989 al 31 dicembre 2016) non vi siano sta-ti atteggiamenti oscillanti del legislatore in punto di imputazione a periodo e reddito di impresa.

In questo lasso di tempo, infatti, si hanno regimi alternativi a quello regola-to dal TUIR, che, rivolgendosi alla platea dei piccolissimi imprenditori, dero-gano espressamente al principio di competenza.

Si pensi al caso dei c.d. contribuenti minimi 17 per i quali il comma 104

dell’unico articolo della L. 24 dicembre 2007, n. 244 stabiliva che «il reddito di impresa [...] è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei ricavi o com-pensi percepiti nel periodo di imposta e quello delle spese sostenute nel perio-do stesso nell’esercizio dell’attività di impresa [...] concorrono, altresì, alla formazione del reddito le plusvalenze e le minusvalenze dei beni relativi all’impresa»

18. In altre parole, il reddito prodotto dai c.d. contribuenti minimi risultava es-

sere pari alla differenza tra i ricavi “percepiti” e le spese sostenute nel periodo d’imposta, differenza cui andavano aggiunte e sottratte, rispettivamente, le plusvalenze e le minusvalenze dei beni relativi all’impresa. Assumevano inol-tre rilevanza, stando almeno all’art. 4, comma 1, lett. a), del decreto attuativo (ossia il D.M. 2 gennaio 2008), tanto le sopravvenienze attive quanto quelle passive

19.

17 Fino alle modifiche apportate dal D.L. n. 98/2011, il regime dei c.d. contribuenti minimi era caratterizzato da una serie di semplificazioni contabili, dall’applicazione di un’imposta sosti-tutiva dell’imposta sui redditi e delle addizionali regionali e comunali pari al 20%, all’esenzione da IRAP ed alla non applicabilità degli studi di settore (per un esame dell’originaria disciplina dei c.d. contribuenti minimi, v. ROSSI, Il nuovo regime fiscale per i contribuenti minimi, in AA.VV., Finanziaria 2008. Saggi e commenti, a cura di Fransoni, Milano, 2008, p. 273 ss.).

18 Al regime dei c.d. contribuenti minimi potevano accedere tutte le persone fisiche eser-centi attività di impresa ovvero arti e professioni che, al contempo: a) nell’anno solare pre-cedente: 1) hanno conseguito ricavi ovvero hanno percepito compensi, ragguagliati ad anno, non superiori a 30.000 euro; 2) non hanno effettuato cessioni all’esportazione; 3) non han-no sostenuto spese per lavoratori dipendenti o collaboratori, anche assunti secondo la moda-lità riconducibile a un progetto, programma di lavoro o fase di esso, né erogato somme sotto forma di utili da partecipazione agli associati; b) nel triennio solare precedente non hanno effettuato acquisti di beni strumentali, anche mediante contratti di appalto e di locazione, pure finanziaria, per un ammontare complessivo superiore a 15.000 euro.

19 L’ampliamento del novero dei componenti di reddito rilevanti destava serie perplessità giacché, in sostanza, una norma di rango regolamentare finiva con il derogare «alla disciplina di cui al comma 104 dell’art. 1 della Finanziaria che, invece, conferisce rilevanza reddituale ai soli ricavi e compensi, alle spese, nonché alle plusvalenze e minusvalenze»: così ROSSI, op. cit., p. 288, nota 47.

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Interessante evidenziare al riguardo l’irrilevanza sia dell’ammortamento del costo dei beni strumentali (tale costo veniva, infatti, imputato per intero al pe-riodo d’imposta nel corso del quale è avvenuto il pagamento

20) che della valuta-zione delle rimanenze finali (l’intero costo dei beni merce veniva imputato sem-pre e comunque al periodo d’imposta in cui è avvenuto il pagamento a nulla rile-vando il fatto che, al termine dello stesso, tali beni risultassero ancora giacenti).

Si trattava, in poche parole, di un regime basato sul criterio di cassa 21.

3. La ratio della novella e la natura ibrida del criterio di imputazione temporale

Vediamo dunque i contenuti più interessanti della novella cercando di met-terne a fuoco la ratio e l’esito.

A tal fine occorre prendere le mosse dalla Relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio per il 2017 laddove, tra l’altro, si legge che «l’introduzione di un regime di contabilità semplificato improntato al criterio di cassa, determina una revisione delle regole di tassazione dei redditi delle piccole imprese, nel-l’ottica della semplificazione»

22. Alla base della riscrittura del comma 1 dell’art. 66 TUIR sembrerebbero

esservi dunque mere esigenze di alleggerimento degli adempimenti gravanti sui contribuenti di minori dimensioni.

Che sia questa la reale intenzione del legislatore, tuttavia, è lecito dubitare se si guarda alla nuova disciplina contabile di cui all’art. 18, D.P.R. n. 600/1973.

Rispetto al passato, infatti, le imprese minori “semplificate” devono farsi carico di ulteriori rilevazioni contabili dovendo, in specie, annotare in due di-stinti registri i ricavi percepiti e le spese sostenute nell’esercizio dell’attività d’impresa (così il vigente comma 2, art. 18, D.P.R. n. 600/1973).

20 In ipotesi di fuoriuscita dell’asset dalla cerchia dei beni relativi all’impresa, la plusvalenza, pari all’intero prezzo di cessione, concorreva alla formazione del reddito del periodo d’impo-sta in cui si registrava la relativa manifestazione finanziaria.

21 Il concetto di sopravvenienza può non essere incompatibile con l’operare del criterio di cassa giacché vi sono alcune tipologie di sopravvenienze, si pensi al caso della liberalità (so-pravvenienza attiva), che, a seconda del concetto di reddito di impresa volta a volta accolto dal legislatore, concorrono a formarlo; diversamente, riterrei, incompatibile con l’applicazione del suddetto criterio (eccettuati i casi di transizione da un regime di imputazione temporale ad un altro) la rilevanza di plusvalenze e minusvalenze.

22 In realtà le regole che attengono alla determinazione del reddito, incluso il criterio di imputazione temporale, e le regole contabili potrebbero operare e nella specie operano su piani differenti.

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In alternativa, peraltro, i suddetti contribuenti possono sì optare per la te-nuta della contabilità ordinaria, ma trattasi di un regime contabile di gran lun-ga più complesso di quello c.d. semplificato.

Quale dunque la ragione che induce a ritenere le nuove regole una sempli-ficazione sul piano degli adempimenti?

Probabilmente la semplificazione è ritenuta consistere in ciò che sia possi-bile, previo esercizio di apposita opzione, tenere i registri IVA senza operare annotazioni relative ad incassi e pagamenti posto che, appunto, «in tal caso, per finalità di semplificazione si presume che la data di registrazione dei docu-menti coincida con quella in cui è intervenuto il relativo incasso o pagamen-to» (così, testualmente, il secondo periodo del comma 5 del più volte citato art. 18, D.P.R. n. 600/1973).

Senonché, nonostante l’espressa menzione nell’art. 18, comma 5, D.P.R. n. 600/1973 della finalità di semplificazione, occorre considerare la natura op-zionale del regime contabile da ultimo evocato, il c.d. regime di “registrazione IVA”, regime che, proprio perché facoltativo, non può giustificare un sistema che comporta, all’opposto, un appesantimento degli adempimenti posti a carico delle imprese di minori dimensioni

23. Se dunque il riferimento alle istanze di semplificazione non è totalmente

convincente, come spiegare la novella di cui alla legge di bilancio per il 2017? È opinione di chi scrive che dietro la scelta di relegare in ambiti più angusti

la competenza si nasconda la consapevolezza dei suoi limiti in presenza di im-prese di minori dimensioni: non è tanto un problema di semplificazione degli adempimenti contabili, quanto, piuttosto, di corretta misurazione di un esito reddituale che, frequentemente, è frutto di un processo di produzione che si risolve entro un orizzonte temporale circoscritto e che non necessita di essere apprezzato su scala pluriennale.

In altri termini, il riferimento al flusso finanziario netto apprezzato su base annua consente di quantificare in modo diretto ed immediato il risultato red-dituale evitando processi valutativi che in capo alle imprese di cui trattasi as-sumono in genere rilievo trascurabile

24.

23 Si può anzi ritenere che sia proprio la previsione di un regime opzionale con finalità di semplificazione a dimostrare che il regime naturale comporta un aggravio nella gestione degli adempimenti contabili.

24 Secondo l’Agenzia delle Entrate, «la determinazione del reddito con il criterio di cassa per le imprese in contabilità semplificata risponde all’esigenza di evitare gli effetti negativi deri-vanti dai ritardi cronici di pagamento e dal c.d. credit crunch. In tal modo, il legislatore ha inteso, altresì, avvicinare il momento dell’obbligazione tributaria alla concreta disponibilità di mezzi

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Ed è proprio in questa prospettiva che può spiegarsi la valorizzazione di un criterio di imputazione temporale, quello di cassa che maggiormente si con-forma al principio di capacità contributiva nella sua declinazione in termini di effettività

25. Ciò detto, occorre chiedersi se la legge di bilancio per il 2017 ci consegni

un criterio di imputazione temporale unitario (quello di cui al nuovo art. 66 TUIR), seppure ibridato da un’estesa operatività del principio di competenza, o, invece, una pluralità di criteri influenzati, a loro volta, dalle scelte compiute dai contribuenti in punto di adempimenti contabili.

A favore della prima conclusione militano almeno due argomenti 26.

In primo luogo la circostanza che il comma 5, art. 18, D.P.R. n. 600/1973, nell’introdurre una presunzione di avvenuto incasso e/o pagamento (alla data di registrazione del documento contabile ai fini IVA), non mette in discussio-ne il principio secondo cui il reddito delle imprese minori, quanto all’area del-la gestione caratteristica, è pari alla differenza tra ricavi/proventi percepiti e finanziari evitando – analogamente a quanto già previsto per le attività professionali – esbor-si per imposte dovute su proventi non ancora incassati» (così, testualmente, la Circolare 13 aprile 2017, n. 11/E, in Boll. trib., 2017, p. 628 ss.; sui contenuti della Circolare v. FERRANTI, L’Agenzia delle entrate chiarisce i criteri di determinazione del reddito delle imprese minori, in Il Fisco, 2017, p. 1807 ss.).

Trattasi di opinione non totalmente convincente giacché gli effetti negativi derivanti dai ritardi nei pagamenti e dal moltiplicarsi delle forme di insolvenza riguardano, con differenzia-zioni territoriali più o meno significative, tutto il mondo dell’impresa. Spiegare la novella, che interviene in un particolare settore (quello cioè delle imprese di minori dimensioni) muoven-do da un problema che interessa trasversalmente l’intero mondo imprenditoriale, significa giu-stificare un’oggettiva ed irragionevole differenziazione nel trattamento impositivo riservato a soggetti che, avuto riguardo alla monetizzazione dei flussi reddituali, si trovano in una condi-zione assolutamente identica.

25 In questo senso v. LUPI, Riflessioni sul ‘reddito liquido’, tra superamento del principio di competenza e garanzia di effettività della ricchezza da assoggettare a tassazione, in Dialoghi trib., 2015, p. 408, il quale osserva che il principio di cassa costituisce «la scelta più corretta anche sul piano della coerenza costituzionale con il principio di capacità contributiva, implicando di fatto l’adozione di un sistema di tassazione basato sulla valorizzazione degli incassi effettivi e delle spese realmente sostenute»; conf. ZIZZO, Un fisco sostenibile per le imprese, in Corr. trib., 2018, p. 449 ss., secondo cui il criterio di cassa «si connota positivamente sotto i profili della semplicità applicativa, della certezza e dell’equità» pur se il criterio della competenza economi-ca non attribuisce al tributo una forma collidente con il principio di capacità contributiva.

26 Diversamente orientato appare FERRANTI, Adempimenti da chiarire per le imprese che adot-tano il nuovo regime di cassa, cit., p. 912, secondo il quale la disposizione di cui al comma 5, art. 18, D.P.R. n. 600/1973 introduce un criterio a se stante segnando l’abbandono del prin-cipio di cassa; in termini più sfumati si esprime la Relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio laddove si allude ad una parziale deroga al regime di cassa.

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spese sostenute: esso si limita, infatti, è bene nuovamente sottolineare, ad in-dividuare in via presuntiva il momento in cui la manifestazione finanziaria si considera realizzata

27. In secondo luogo, in termini più generali, la considerazione per cui devesi

tendenzialmente escludere che una norma di natura procedimentale (e tale è quella di cui all’art. 18, D.P.R. n. 600/1973) possa disciplinare un criterio di imputazione temporale ossia un criterio che attiene al profilo temporale della determinazione del reddito di categoria.

Acclarata così l’unicità del criterio di imputazione temporale che oggi pre-siede alla determinazione del reddito dell’impresa minore “semplificata”, ci si deve così interrogare sulla sua effettiva latitudine e sulla portata delle numero-se deroghe previste dal TUIR

28. Come si è visto, permangono, infatti, nella corrente trama regolamentare

ambiti entro cui continua a trovare applicazione (forse neppure in chiave de-

27 Trattasi di presunzione ritenuta “assoluta” dalla citata Circolare Ag. Entrate n. 11/E/2017; secondo FERRANTI, Regime di cassa: gli ultimi chiarimenti dell’Agenzia, cit., la presunzione è asso-luta con riguardo all’assolvimento dell’obbligo della registrazione ai fini dell’IVA e “relativa” ai fini della determinazione del reddito, maturando tale convincimento dal fatto che la stessa Agenzia si è espressa nel senso che le perdite su crediti sono deducibili per competenza, ai sensi dell’art. 101, comma 5, TUIR, anche se relative a crediti rilevati in contropartita dei ricavi in caso di opzione per il regime di cui al comma 5, art. 18, D.P.R. n. 600/1973 e che la presunzio-ne in questione è «ispirata a esigenze di semplificazione contabile ma non tale da costringere a pagare le imposte su ricavi non effettivamente percepiti, a maggior ragione nell’ambito di una disciplina che intende avvicinare il momento dell’obbligazione tributaria alla concreta disponi-bilità di mezzi finanziari, evitando di pagare le imposte su proventi non incassati».

28 A differenza di quanto accadeva in passato, il testo del riformato art. 66 TUIR non reca alcun rinvio alle disposizioni che nel TUIR regolano il principio di competenza (oltreché quel-lo di certezza e di oggettiva determinabilità dei componenti di reddito) ossia ai primi due commi dell’art. 109, circostanza, questa, come detto, che dovrebbe deporre a sostegno della tesi secondo cui il principio che oggi governa l’imputazione a periodo dei singole componen-ti reddituali è quello di cassa. Una conferma sembra venire anche dall’incipit della Relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio 2017 laddove, in particolare, si legge che per le im-prese individuali e per le società di persone in regime di contabilità semplificata si introdu-cono disposizioni volte a far sì che la determinazione del reddito abbia luogo «secondo il criterio della cassa, in sostituzione del criterio della competenza».

Senonché la stessa Relazione prosegue nel senso che, come sopra rilevato, assumono ri-lievo i ricavi percepiti e le spese sostenute e «si deroga, quindi, al criterio della competenza, sia per i ricavi che per le spese. Restano ferme, invece, le regole di determinazione e imputa-zione temporale dei componenti positivi e negativi quali le plusvalenze, minusvalenze, so-pravvenienze, ammortamenti e accantonamenti». Sembra, in sostanza, assistersi ad un rove-sciamento di prospettiva che porta l’estensore della Relazione ad ipotizzare che il criterio di imputazione temporale sia rimasto quello della competenza con un’apertura, in chiave dero-gatoria e per i soli componenti di reddito indicati, alla cassa.

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rogatoria), il criterio della “maturazione” (alias: competenza) dei singoli com-ponenti di reddito

29 e tale circostanza va ovviamente valorizzata tenuto anche conto delle notevoli ripercussioni sul piano operativo e di gettito

30. Or dunque, l’affidarsi ad un criterio di imputazione a periodo, contaminato

dalla competenza, costituisce o meno una via necessitata quanto alle imprese di minori dimensioni?

Per la negativa depone l’inesistenza di ostacoli all’utilizzazione di modelli di tassazione che guardino al momento in cui si registra la movimentazione fi-nanziaria collegata all’atto di gestione volta a volta posto in essere dall’impre-sa in questione.

Ben si può pensare, in buona sostanza, ad un criterio di imputazione tem-porale che, quanto agli investimenti in beni strumentali, attribuisca esclusivo rilievo alla data in cui risulta essere stato pagato il fornitore ovvero, specular-mente, guardi alla percezione del corrispettivo nel caso di vendita dei beni me-desimi

31. Una conferma viene del resto dal ricordato regime dei c.d. contribuenti

minimi che, come si è visto, risultava essere egualmente basato sul principio di cassa: in particolare la lett. b), comma 1 dell’art. 4 del sopra citato decreto attuativo del 2 gennaio 2008 prevedeva che «il costo di acquisto di beni stru-mentali è deducibile dal reddito dell’esercizio in cui è avvenuto il pagamento; la plusvalenza derivante dalla cessione degli stessi beni è pari al corrispettivo pattuito e concorre alla formazione del reddito dell’esercizio in cui lo stesso è percepito»

32.

29 Sul punto v. FERRANTI, Regime di cassa per le imprese minori: i primi chiarimenti dell’Agen-zia, cit., p. 712, e la già citata Circolare Ag. Entrate n. 11/E/2017 laddove si precisa che il re-gime di determinazione del reddito delineato dal nuovo art. 66 TUIR non è «un regime di cassa “puro”, bensì un regime “misto” cassa-competenza».

30 Nella Relazione tecnica al disegno di legge di bilancio per il 2017 si legge che, ai fini della stima degli effetti in termini di gettito delle modifiche apportare all’art. 66 TUIR, «so-no stati considerati: – i ricavi di cui al comma 1, lett. a) e b) e al comma 2 dell’art. 85 TUIR e gli altri proventi considerati ricavi (righi RG02 + RG03) in quanto si ritiene essere gli importi potenzialmente interessati allo “spostamento di cassa”; – i costi per l’acquisto di materie pri-me, sussidiarie, semilavorati e merci (rigo RG15) in quanto la normativa proposta esplicita-mente esclude i componenti negativi di natura pluriennale mentre altre tipologie di compo-nenti positive o negative sono da ritenersi non interessate (è il caso, ad esempio, della conta-bilità di magazzino o dei costi per il personale)».

31 Sebbene la generalizzata applicazione del principio di cassa dovrebbe essere temperata dalla previsione di correttivi idonei a stemperare l’impatto negativo prodotto, in ambito IR-PEF, dall’operare della progressività.

32 Su tale regime v. le Circolari Ag. Entrate, 21 dicembre 2007, n. 73/E, in Boll. trib., 2008, 85 ss., e 28 gennaio 2008, n. 7/E, in Boll. trib., 2008, p. 231 ss. In quest’ultima, in parti-

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In senso contrario si potrebbe, invero, sostenere che anche nell’ambito dei redditi di lavoro autonomo, categoria entro cui trova tradizionalmente spazio il principio di cassa, si rinvengono talune deroghe di natura analoga a quelle previste dal vigente art. 66 TUIR (si pensi alla deducibilità dei canoni dei beni acquisiti con contratti di leasing e delle quote di ammortamento dei beni stru-mentali per l’esercizio dell’arte o della professione, cui si riferiscono, rispetti-vamente, i commi 2 e 3 dell’art. 54 del Testo unico, ovvero, ancora, alla dedu-cibilità delle quote di accantonamento al fondo di trattamento di fine rappor-to per le indennità di quiescenza e previdenza dei dipendenti maturate nel pe-riodo d’imposta, cui si riferisce il comma 6 del predetto art. 54

33). In realtà il mix cassa/competenza che caratterizza la determinazione del

reddito derivante da alcune fonti produttive dimostra la normale tensione ri-scontrabile all’interno del principio di capacità contributiva tra l’esigenza di conformare l’imponibile delle imposte sui redditi a quello determinabile se-condo le scienze economico-aziendali, siccome maggiormente affidabile, e l’in-teresse acché il contribuente sia in grado di pagare le imposte medesime senza attingere al proprio patrimonio ovvero ricorrere all’indebitamento; senza considerare che anche la progressività, in taluni casi, svolge un ruolo rilevante.

4. La presunzione di incasso e/o di pagamento

Non contrasta con l’affermazione di cui sopra il comma 5 del citato art. 18, D.P.R. n. 600/1973 che consente alle imprese minori in regime di contabilità semplificata (trattasi di opzione vincolante almeno per un triennio) di tenere i registri IVA senza operare annotazioni relative ad incassi e pagamenti presu-mendosi, in questo caso «che la data di registrazione dei documenti coincida con quella in cui è intervenuto il relativo incasso o pagamento». colare, si legge che «non possono trovare applicazione, in linea generale, il principio di com-petenza ordinariamente previsto dalle norme del TUIR in sede di determinazione del reddi-to d’impresa ed, in particolare, tutte le disposizioni che prevedono una specifica disciplina ai fini della determinazione del reddito (ad esempio rateizzazione delle plusvalenze, deduzioni in più periodi d’imposta sulla base di una ripartizione forfetaria). Pertanto, le spese di manu-tenzione e riparazione non saranno soggette alla disciplina dell’art. 102, comma 6, del TUIR e saranno deducibili nell’esercizio di sostenimento per l’intero importo effettivamente pagato».

33 Cfr., sul punto, tra gli altri, BOLETTO, Sub art. 54, in AA.VV., Commentario breve alle leggi tributarie, tomo III, Testo unico delle imposte sui redditi e leggi complementari, a cura di Fan-tozzi, Padova, 2010, p. 283 ss.

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Trattasi, come detto, di un meccanismo presuntivo su base opzionale che, sulla scorta di quanto già in passato previsto dall’art. 2, comma 11, D.L. n. 853/1984, individua il momento di realizzazione dell’incasso e/o del paga-mento in quello di annotazione dei documenti comprovanti l’effettuazione del-l’operazione ai fini IVA, come detto, senza che ciò possa considerarsi un au-tonomo e distinto criterio di imputazione temporale.

La previsione di una siffatta opzione risponde evidentemente alla necessità di evitare che i maggiori adempimenti richiesti per gestire il regime di cassa di-ventino un boomerang.

Il risultato è per certi aspetti finanche eccessivo. Come noto, infatti, ai sensi di quanto previsto dal comma 1 dell’art. 24,

D.P.R. n. 633/1972, l’emittente la fattura dispone di quindici giorni di tempo per annotarla nell’apposito registro IVA vendite

34; quanto invece alla registra-zione degli acquisti, il contribuente deve annotare le fatture e le bollette do-ganali «entro il termine di presentazione della dichiarazione annuale relativa all’anno di ricezione della fattura e con riferimento al medesimo anno» (così, testualmente, il secondo periodo del comma 1 dell’art. 25, D.P.R. n. 633/1972 siccome modificato dall’art. 2, comma 2, D.L. 24 aprile 2017, n. 50).

Può dunque accadere che, quanto alle operazioni attive, il corrispettivo sia percepito prima della fine del periodo d’imposta e che la fattura attiva sia regi-strata nella contabilità IVA agli inizi del nuovo anno con conseguente rinvio del momento di realizzazione del ricavo al successivo periodo d’imposta.

Stesso discorso con riferimento alle fatture passive: l’“imprenditore mino-re”, ricevuta la fattura che certifica l’avvenuta effettuazione dell’operazione di acquisto del bene o del servizio, può decidere di differirne la registrazione nel-l’apposito registro IVA acquisti così selezionando il periodo d’imposta nel cor-so del quale quel componente negativo concorrerà alla formazione del reddi-to d’impresa

35.

34 La stessa cosa è a dirsi per la registrazione dei corrispettivi posto che l’art. 6, comma 4, D.P.R. 9 dicembre 1996, n. 695, stabilisce che «le operazioni per le quali è rilasciato lo scon-trino fiscale o la ricevuta fiscale, effettuate in ciascun mese solare, possono essere annotate, anche con unica registrazione, nel registro previsto dall’articolo 24 del decreto del Presiden-te della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, entro il giorno 15 del mese successivo».

35 Secondo l’Agenzia delle Entrate, così espressasi in occasione dell’incontro con la stam-pa specialistica del 2 febbraio 2017, «laddove il contribuente registri la fattura di acquisto entro i termini previsti dall’articolo 19 del D.P.R. n. 633 del 1972 per la detrazione dell’im-posta attribuitagli in rivalsa, ai fini delle imposte sul reddito tale data di registrazione coinci-derà con la presunta data dell’avvenuto pagamento» (v. la risposta al quesito 8.5 riprodotta nella Circolare 7 aprile 2017, n. 8/E, reperibile in Boll. trib., 2017, p. 530 ss.; sul punto v. anche

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Un risultato eccessivo questo? Il criterio di imputazione temporale, per definizione, serve ad individuare il

momento con riferimento al quale i singoli componenti di reddito devono con-correre alla formazione dell’imponibile di periodo; nel caso che ne occupa, in-vece, il contribuente, come detto previo esercizio di apposita opzione, può li-beramente disporre del momento di imputazione a periodo scegliendo quando registrare le fatture attive ovvero quelle passive e ciò senza rischiare una con-testazione di abuso ai sensi dell’art. 10 bis, L. n. 212/2000 posto che è la stessa legge che gli attribuisce una siffatta facoltà.

E comunque perché ammettere all’opzione soltanto le imprese di minori dimensioni e non gli esercenti arti e professioni nonostante il fatto che anche questi ultimi determinano il reddito con modalità improntate al principio di cassa? Si può, in effetti, dubitare della ragionevolezza di una misura che finisce con l’introdurre una rilevante differenziazione nel trattamento riservato a sog-getti che possono trovarsi ad operare, e spesso operano, nelle stesse condizioni.

5. La doppia imposizione ed i salti d’imposta nel passaggio di regime

Per completare queste brevi note in ordine alla portata della novella, qual-che parola su alcune questioni legate alla migrazione da e verso un regime di competenza o di cassa.

L’art. 1, comma 19, L. n. 232/2016 stabilisce che, in caso di passaggio da un regime di competenza ad uno “improntato” alla cassa e viceversa, al fine di evitare salti o duplicazioni di imposizione, «i ricavi, i compensi e le spese che hanno già concorso alla formazione del reddito, in base alle regole del regime di determinazione del reddito d’impresa adottato, non assumono rilevanza nel-la determinazione del reddito degli anni successivi».

In buona sostanza, e volendo considerare l’ipotesi del passaggio dal “vec-chio” regime di competenza al “nuovo” regime di cassa, non concorrono alla formazione del reddito di periodo tutti i componenti (tanto positivi quanto negativi) che abbiano già concorso a formare il reddito in base al principio di competenza e che, per le ragioni più varie, si manifestano dal punto di vista fi-nanziario in un periodo d’imposta successivo. la di poco successiva Circolare n. 11/E/2017. Sui chiarimenti dell’Agenzia resi nel corso de-gli incontri con la stampa specializzata del 24 gennaio e del 1° febbraio 2018 v. il citato con-tributo di FERRANTI, Regime di cassa: gli ultimi chiarimenti dell’Agenzia).

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Eugenio Della Valle 649

Anche in questo caso, tuttavia, la normativa di riferimento presenta talune smagliature: ed invero, il citato comma 19 non considera l’ipotesi opposta os-sia quella in cui talune componenti di reddito, pur avendo avuto manifesta-zione numeraria in un precedente periodo d’imposta, non hanno concorso al-la formazione del reddito per difetto di competenza

36. Ebbene, mancando una espressa regolamentazione di tale ipotesi, si potreb-

be concludere nel senso dell’irrilevanza di questi componenti di reddito. Se-guendo questa traiettoria interpretativa si approda, tuttavia, ad un esito rico-struttivo che, alimentando fenomeni di doppia non tassazione di componenti positivi ovvero di doppia non deduzione di componenti negativi, si appalesa del tutto irragionevole finendosi con il trattare in modo diverso casi sostan-zialmente analoghi

37. Ancora a proposito delle conseguenze associate al passaggio da un regime

all’altro, occorre ricordare quanto previsto dal comma 18 dell’unico articolo del-la legge di bilancio per il 2017 che, limitatamente al primo periodo d’imposta in cui si applica il nuovo regime, stabilisce che il reddito riferito a tale periodo «è ridotto dell’importo delle rimanenze finali che hanno concorso a formare il red-dito dell’esercizio precedente secondo il principio della competenza».

Di primo acchito la sterilizzazione delle rimanenze finali ed il loro concor-so (in qualità di componente negativo) alla formazione del reddito del perio-do d’imposta immediatamente successivo possono essere considerati una con-seguenza necessitata del passaggio da un regime di competenza ad uno di cassa.

Anche su questo fronte si registra, tuttavia, un evidente problema di coor-dinamento che, a sua volta, è il portato di una più generale, e tuttora irrisolta, questione legata alle modalità di impiego delle perdite di periodo sofferte da-gli imprenditori individuali che non adottano la contabilità ordinaria, perdite che, ai sensi di quanto previsto dall’art. 8 TUIR, sono utilizzabili esclusiva-mente in compensazione “orizzontale” ossia in abbattimento dei redditi delle altre categorie posseduti nel medesimo periodo d’imposta.

36 A questo caso si riferisce anche l’Agenzia delle Entrate, che tuttavia, stimando priva di significato la sua mancata considerazione, ritiene che «i componenti reddituali – per i quali sia mutato il criterio di imputazione temporale in occasione del cambio di regime – che non abbiano concorso alla determinazione del reddito in applicazione delle regole previste dal regime di “provenienza” concorreranno alla formazione del reddito dei periodi di imposta suc-cessivi ancorché non si siano verificati i presupposti di imponibilità/deducibilità previsti dal regime di “destinazione”» (così, testualmente, la varie volte citata Circolare n. 11/E/2017).

37 Ed una chiara conferma nel senso indicato nel testo si ricava dalla lettura dell’art. 1, comma 112, L. n. 244/2007 che, occupandosi del passaggio dal regime ordinario e quello dei contribuenti minimi, prendeva espressamente in considerazione entrambe le ipotesi consi-derate nel testo.

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Può, in poche parole, accadere che la “deduzione” integrale e definitiva di un ingente stock di rimanenze finali comporti l’emersione di una perdita di pe-riodo che, in presenza di un reddito complessivo incapiente, è destinata a non essere utilizzata

38. Ebbene, sul piano sistematico si potrebbe osservare che non c’è nulla di cui

dolersi trattandosi della naturale conseguenza di una combinazione di previ-sioni che, a loro volta, rispondono a logiche diverse.

L’obiezione non sembra, tuttavia, cogliere nel segno e ciò per almeno due ragioni.

In primo luogo perché è tutt’altro che agevole individuare la ratio sottesa a limitazioni palesemente irragionevoli sul piano della coerenza complessiva del sistema di imposizione sul reddito prodotto dalle persone fisiche.

In secondo luogo, con specifico riguardo alla limitazione in materia di uti-lizzo delle perdite, perché la novella poteva essere l’occasione per mettere ma-no all’anacronistico divieto di riporto in avanti delle perdite sofferte dagli im-prenditori individuali in contabilità semplificata superando una limitazione che, proprio sul piano del rapporto tra il fattore tempo e la determinazione del red-dito complessivo, comporta l’inevitabile assoggettamento a tassazione di una ca-pacità contributiva inesistente

39.

6. Conclusioni

Volendo concludere questa rapida rassegna dei contenuti più interessanti della novella, che, sia detto per inciso, interessa un’enorme platea di sogget-ti

40, essa contribuisce senz’altro ad alimentare un dibattito che, stimolato an-che dalle vicende economiche dell’ultimo decennio, induce parte della dottri-

38 Al riguardo si è espresso anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze che, dando riscontro ad un’interrogazione in occasione della seduta della Camera del 23 marzo 2017, ha riconosciuto l’esistenza di alcune criticità «con particolare riguardo alla questione del riporto delle perdite e del computo delle rimanenze finali ai fini della determinazione della base impo-nibile», ponendo al contempo l’accento sulla necessità che la questione trovi adeguata solu-zione in sede legislativa (cfr., in particolare, Atto Camera n. 5/10836 – XVII legislatura).

39 In questo senso v., per tutti, PERRONE, Le perdite nell’imposta sul reddito delle persone fi-siche, in Rass. trib., 2012, p. 1169 s.

40 Trattasi di una disposizione che interessa, tra imprenditori individuali e società di per-sone, oltre 2.000.000 di contribuenti: cfr., sul punto, sia le analisi statistiche, aventi ad ogget-to le dichiarazioni dei redditi riferite al periodo d’imposta 2015, di recente diffuse dal Dipar-timento delle Finanze del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che la Relazione tecnica al disegno di legge di bilancio per il 2017.

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Eugenio Della Valle 651

na, sulla scorta degli studi esteri relativi alla c.d. Cash Flow Taxation, ad ipo-tizzare il superamento di uno dei cardini del sistema di imposizione sul reddi-to di impresa ossia la tassazione per competenza

41. Non siamo certo al cospetto di una svolta. Del resto alla competenza sono

tuttora fortemente ancorate le imprese diverse da quelle minori “semplificate”, incluse quelle in regime c.d. OIC compliant, come quelle soggette agli stan-dard contabili internazionali in “derivazione rafforzata” ai fini della determina-zione dell’imponibile.

Ed anche per le imprese minori “semplificate” l’estesa area in cui opera la competenza fanno del nuovo criterio di imputazione temporale in realtà un cri-terio misto che, si è detto, relega la cassa sostanzialmente ai componenti di red-dito riconducibili alla sola gestione caratteristica (ed ai proventi di cui all’art. 89 TUIR), criterio nel quale, atteso il numero e la significatività delle deroghe stesse, rende non semplice al contribuente districarsi

42. E ciò senza considerare che le opzioni contabili poste a corredo del nuovo

assetto (se ne contano ben tre) complicano ulteriormente il sistema di riferi-mento talvolta sovrapponendo piani che andrebbero tenuti distinti.

Ne deriva un quadro piuttosto articolato che, nel tentativo di conciliare le esigenze di gettito con l’avvertita necessità, soprattutto nell’attuale momento storico, di collegare il prelievo a grandezze liquide, offre ulteriori argomenti nel senso di una rivisitazione organica delle modalità di determinazione del reddito delle imprese capace di garantire la sostenibilità del prelievo sotto il profilo del-la semplicità applicativa, della certezza e dell’equità

43.

41 Il riferimento è alle proposte avanzate da VERSIGLIONI, La tassazione a partire dal “red-dito liquido”, in Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2015, p. 28, e ID., Il ‘reddito liquido’: lineamenti, ar-gomenti ed esperimenti, in Riv. dir. trib., 2015, I, p. 741 ss.; in argomento v. anche il confronto dialettico compendiato in LUPI-VERSIGLIONI, Il “reddito liquido” e la relativizzazione del prin-cipio di competenza, in Dialoghi trib., 2015, p. 407 ss.

42 Una conferma in questo senso si ricava dalla lettura della recentissima Circolare n. 11/E/2017 in cui l’Agenzia delle Entrate elenca i componenti di reddito cui si applica il criterio di cassa e quelli cui, di contro, si applica il criterio della competenza. Lo sforzo dell’Agenzia è meritorio, ma talvolta discutibili gli esiti ricostruttivi cui si perviene: ed invero, per uno stesso componente di reddito (il riferimento è alle spese relative a più esercizi) si è costretti ad am-mettere che, se le spese in parola hanno natura pluriennale, si applica il criterio di competenza; se, di contro, manca il presupposto per la capitalizzazione, allora si applica il criterio di cassa.

43 Per un’analisi dei diversi modelli teorici v. il citato contributo di ZIZZO, op. loc. ult. cit.

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Valerio Ficari

LA NUOVA DISCIPLINA DEL PAGAMENTO PARZIALE DEI CREDITI TRIBUTARI DI CUI ALL’ART. 182 TER L. FALL.

THE NEW DISCIPLINE ON THE PARTIAL PAYMENT OF TAXES PROVIDED BY ART. 182 TER OF BANKRUPTCY LAW

Abstract Il nuovo testo dell’art. 182 ter L. fall. ha recepito le indicazioni date dalla Corte di Giustizia UE nel caso Degano Trasporti, consentendo di ridurre anche l’importo do-vuto per IVA e ritenute qualora il valore di liquidazione dell’attivo del contribuente debitore sia inferiore a quanto offerto. Il ruolo dell’asseveratore assume grande im-portanza in quanto volto a garantire la migliore soddisfazione dell’interesse pubblico. Parole chiave: transazione fiscale, IVA, ritenute, riduzione, valore di liquidazione dell’attivo The new text of art. 182 bis of Bankruptcy Law has implemented the indications given by the CJEU in the Degano Trasporti case, admitting the reduction of the amount due for VAT and for withholding taxes, but only in the event that the taxpayer-debtor’s as-set liquidation value is less than the amount offered. The role of the asseverator is of great importance as it seeks to ensure the best satisfaction of the public interests. Keywords: fiscal transaction, VAT, withholdings, reduction, asset liquidation value

SOMMARIO: 1. Gli antefatti storici e giuridici della modifica normativa. – 2. I punti fondamentali della modi-fica. – 2.1. Obbligatorietà della presentazione dell’istanza di transazione fiscale in sede di con-cordato preventivo. – 2.2. La possibile riduzione e non più solo dilazione dell’IVA e delle ritenu-te. – 2.3. La valutazione oggettiva della convenienza di un pagamento parziale. – 2.3.1. I riferi-menti normativi. – 2.3.2. Segue: l’individuazione del ricavato dalla liquidazione dei beni e diritti “al valore di mercato”. – 2.3.3. La maggiore “convenienza” e le “alternative concretamente prati-cabili” nella proposta di transazione fiscale in seno ad un accordo di ristrutturazione. Il coinvol-

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gimento più esteso dell’attestatore e quello nuovo del Tribunale. – 2.3.4. L’eliminazione del con-solidamento. – 3. Il nuovo art. 182 ter L. fall. ed i criteri segnati dalla CGE nel caso Degano Tra-sporti. – 4. Segue: altre questioni non ancora risolte. – 4.1. L’entrata in vigore e il dies a quo nelle diverse procedure. – 4.2. I riflessi sulla sanzionabilità penale dell’avvenuta transazione con parti-colare riguardo all’individuazione degli importi dovuti ed alla soglia di punibilità. – 4.3. L’impu-gnabilità del diniego di transazione fiscale. – 5. Pagamento parziale dei crediti tributari ed altri strumenti di ristrutturazione dei debiti tributari. – 5.1. La L. n. 3/2012. – 5.2. Le società di per-sone ed i soci persone fisiche.

1. Gli antefatti storici e giuridici della modifica normativa

La novella legislativa di cui all’art. 1, comma 81, L. 11 dicembre 2016, n. 232 in vigore dal 1° gennaio 2017, nel mutare significativamente il contenuto del-l’art. 182 ter L. fall., conclude un rapido percorso evolutivo che ha coinvolto, nell’interpretazione ed applicazione dell’istituto della c.d. transazione fiscale, sia la giurisprudenza nazionale e comunitaria sia la dottrina.

a) Senza poter ripercorrere nel dettaglio le alterne e successive vicende del dibattito

1 è sufficiente ricordare come la giurisprudenza di legittimità 2 si è re-

sa consapevole che il principio della disponibilità del credito tributario era osta-colato, nella specie, dalla lettera normativa del previgente testo dell’art. 182 ter il quale prevedeva la non falcidiabilità dell’IVA e delle ritenute fiscali a se-guito dell’emotiva convinzione di un generale divieto comunitario alla «rinun-cia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accerta-mento e verifica» in materia di IVA.

A fronte di ciò la Suprema Corte ha fatto breccia in tale muro, distinguendo, in continuità con la maggioranza della giurisprudenza di merito, due diverse procedure (il concordato preventivo con e il concordato preventivo senza tran-sazione fiscale) e, quindi, ammettendo la riduzione dell’IVA e delle ritenute quale conseguenza dell’assoggettamento del creditore tributario alle regole del-la maggioranza e, quindi, ad una piena parità all’interno del ceto creditorio se-condo la disciplina del consenso ex art. 177 L. fall.

La Corte di Cassazione, nella sua funzione nomofilattica, ha teorizzato una

1 Da ultimo e per tutti le si legga efficacemente sintetizzate in VELLA, La (in)disponibilità dei crediti tributari nelle procedure concorsuali tra diritto interno e principi dell’Unione europea, in Riv. dir. trib., 2016, IV, p. 171 ss.

2 Puntualmente richiamata da VELLA, op. cit., p. 134 ss.

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Valerio Ficari 655

procedura di ristrutturazione alternativa a quella “con transazione fiscale” ed ha, quindi, permesso di superare l’ostativo dato letterale normativo.

b) L’onore di aver aperto il cammino alla completa rivisitazione della di-sciplina, già auspicata nelle Conclusioni dell’Avvocato Generale Sharpston è, però, da riconoscersi alla sentenza CGE 7 aprile 2016, C-546/14, caso Degano Trasporti

3. All’indomani di questa si è, infatti, accesa una nuova luce sul rapporto tra il

principio di buon andamento dell’attività amministrativa ex art. 97 Cost. – nelle sue declinazioni di economicità ed efficienza – e la funzione della riscossione, ora da leggersi in termini di effettività del gettito e di presenza di oggettive ga-ranzie di una misura del pagamento certa anche se diversa da quella accertata

4. c) La giurisprudenza già da tempo aveva avanzato la necessità di una con-

siderazione unitaria della ristrutturazione dei debiti tributari, anche con ri-guardo ad eventuali vincoli comunitari, rispetto a procedure specifiche (es. l’esdebitazione ex art. 142 L. fall. della persona fisica dichiarata fallita) nella cui regolamentazione non è stata dedicata espressa letterale attenzione ai de-biti tributari.

Si ricordi la sent. 16 marzo 2017, causa C-493/15 a seguito della remissio-ne da parte della Corte di Cassazione

5 in cui i giudici comunitari hanno rite-

3 Tra l’altro in Riv. trim. dir. trib., 2016, p. 979 ss. con nota di ARIATTI, Il diritto europeo non osta alla falcidia dell’IVA nel concordato preventivo, in Corr. trib., 2016, p. 1550 ss. con nota di FICARI, La Corte UE ammette la riduzione dell’IVA mediante la transazione fiscale, ma su di es-sa anche BORIA, La pronuncia europea sulla falcidia dell’IVA, in Riv. dir. trib., 2016, I, p. 461 ss. nonché, ex multis, PERRINO, Ad impossibilia nemo tenetur: tra eccesso di zelo e stupita sorpresa in tema di falcidiabilità dell’IVA, in Foro it., 2016, IV, c. 274; FICARI, Transazione fiscale e di-sponibilità del “credito” tributario: dalla tradizione alle nuove “occasioni” di riduzione “pattizia” del debito tributario, in Riv. dir. trib., 2016, I, p. 492 ss.

4 Sul punto vedi VELLA, op. cit., p. 121 ss. anche per l’esposizione dettagliata dell’evoluzio-ne del principio dell’indisponibilità cui si aggiunga, in precedenza, già FICARI, Transazione fiscale e disponibilità del “credito” tributario, cit., p. 481 ss.

In anticipo rispetto alla modifica normativa e proprio nel solco tracciato dalla CGE si col-locata la Cassazione la quale, nelle sentenze a sez. un., 27 dicembre 2016, n. 26988 e 13 gen-naio 2017, n. 76 (in Fall., 2017, p. 267 ss. con nota di STASI, La transazione fiscale secondo le Sezioni Unite della Cassazione) ribadisce la piena falcidiabilità dell’IVA in sede di concordato senza transazione fiscale concludendo, così, definitivamente il percorso nomofilattico intra-preso muovendo dalle c.d. sentenze gemelle nn. 22931 e 22932/2001, percorso nel quale la Suprema Corte aveva, però, continuato a ribadire la non riduzione dell’IVA in presenza di una specifica istanza di transazione fiscale: cfr. Cass., 22 settembre 2016, n. 18561, in Corr. trib., 2017, p. 181 ss. con nota di FICARI, Falcidia dell’IVA e transazione fiscale: per la Corte di Cassazione la sentenza “Degano trasporti” è tamquam non esset.

5 Cass., ord. 6 maggio 2015-1° luglio 2015, n. 13542 in ordine alla riduzione del debito

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nuto compatibile con la disciplina comunitaria in materia di IVA la dichiara-zione di inesigibilità del credito IVA alle condizioni di meritevolezza fissate dal-la legge nazionale.

2. I punti fondamentali della modifica

Il novellato art. 182 ter L. fall. senza dubbio costituisce una tempestiva no-vità per la rapidità con la quale il legislatore nazionale si è conformato alla sen-tenza della Corte di Giustizia rispetto alle procedure in corso e da attivare

6. La modifica apportata al titoletto della disposizione normativa in esame,

intestata non più “Transazione fiscale” ma ora “Trattamento dei crediti tributari e contributivi”, esprime il retropensiero di rendere sempre meno diversi i cre-diti tributari e previdenziali da quelli di altra natura; in realtà le conseguenze delle modifiche sono nel senso della piena equiparazione con evidente messa in crisi di quelle differenze quantitative nella misura della falcidia che l’Inps imponeva sulla base di atti normativi secondari.

A quest’ultimo riguardo si deve evidenziare la criticità della definizione delle modalità applicative, dei criteri e delle condizioni quantitative di accet-tazione delle istanze di transazione fiscale (rectius previdenziale) di cui al De-creto interministeriale (Min. del Welfare e dell’Economia) del 4 agosto 2009, emanato a seguito dell’art. 3, D.L. n. 85/2008 il quale, già nella vigenza della precedente versione dell’art. 182 ter cit., predeterminava il limite minimo di pagamento in palese violazione della delega nonché dello stesso art. 23 Cost. IVA per il fallito che sia ammesso alla procedura di esdebitazione di cui agli artt. 142 ss. L. fall. (vedi in Fall., 2016, p. 448 ss. con nota di DEL FEDERICO-ARIATTI, Esdebitazione ed IVA: tra equivoci e vincoli europei, a margine dell’infalcidiabilità del tributo nel concordato preventivo).

A favore della riduzione dell’IVA alla luce del valore di liquidazione nella procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento tribunale di Pistoia decreto del 26 aprile 2017.

6 Per una prima applicazione del novellato disposto vedi il decreto di ammissione al con-cordato preventivo del Trib. Ancona, 17 febbraio 2017; conforme, in precedenza il decreto del Trib. Milano, 29 dicembre 2016 ed il decreto del Trib. Livorno, 13 aprile 2016, in Dir. fall., 2016, p. 1631 ss. con nota di DAMI, La falcidiabilità di IVA e degli altri tributi all’indoma-ni della sentenza della Corte di Giustizia CE: prime esperienze applicative.

In dottrina si era ipotizzato, nelle more dell’auspicato adeguamento della normativa na-zionale, che l’infalcidiabilità riguardasse solo la quota IVA destinata effettivamente al finan-ziamento europeo così come desumibile dal Reg. Consiglio CE, 29 maggio 1989, n. 1533 artt. 3 e 5 (cfr. già DEL FEDERICO, Articolo 182 ter. Transazione fiscale, in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare, II, Bologna, 2007, p. 2561 e, quindi, ARIATTI, Il diritto europeo, cit., p. 997 ss.

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che pone una riserva di legge sì relativa ma inidonea ad attribuire ad una fonte secondaria una limitazione ad accordi disciplinati per intero su base legislativa.

Il riferimento ora chiaro al valore di liquidazione dell’attivo come parame-tro per adottare decisioni il più possibile intese alla tutela dell’interesse pub-blico all’effettività della riscossione del credito pubblico di natura sia tributa-ria che previdenziale rafforza la convinzione della illegittimità di tale modalità di regolamentazione dal punto di vista sia formale che sostanziale; non solo tale limite avrebbe richiesto una base legislativa ma esso si rivela del tutto in-coerente e confliggente con la ratio dell’istituto che non pone limiti prede-terminati ma solo valutazione ex post da effettuarsi alla luce dell’eventuale va-lore di liquidazione degli assets del debitore tributario e previdenziale.

Confermando un’esigenza immanente di parità del ceto creditorio, la no-vella, contestualmente all’ammissibilità di un pagamento ridotto, rimarca co-me tempi, percentuali e garanzie dei pagamenti a favore dell’erario e degli enti previdenziali non possano essere né “inferiori” né “meno vantaggiosi” di quel-li offerti a creditori di grado inferiore o omogenei per posizione giuridica; in analoga prospettiva il legislatore si è mosso con riguardo al concordato pre-ventivo nella parte in cui ha espressamente chiarito, come già la migliore pras-si, che il debito non assolto in caso di credito tributario o previdenziale privi-legiato debba andare a formare una apposita classe per poter accedere allo stesso trattamento dei crediti chirografari non pubblici.

Ciò premesso, le novità meritevoli di segnalazione paiono le seguenti.

2.1. Obbligatorietà della presentazione dell’istanza di transazione fiscale in sede di concordato preventivo

Il comma 1 del nuovo art. 182 ter condiziona espressamente qualsiasi pa-gamento parziale e/o rateizzato di tributi e contributi previdenziali alla presen-tazione di una istanza di transazione fiscale ai sensi della medesima disposi-zione.

Ne consegue, pertanto, il chiaro superamento di quella alternativa, osteg-giata dall’Agenzia delle Entrate ma consolidatasi, invece, nella giurisprudenza, secondo la quale la riduzione del debito tributario e previdenziale in sede di concordato preventivo era raggiungibile anche solo a seguito dell’omologa del piano concordatario a seguito dell’esito della votazione e della formazione del-l’accordo con la maggioranza dei creditori (diversi dall’Erario e dall’INPS).

Si tratta, probabilmente, di un chiarimento volto a confermare il principio di relativa disponibilità del credito tributario e della necessità di strumenti ad hoc che estraggano, per così dire, il medesimo dall’ambito creditorio generale

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per dedicargli, con la novella, un regime particolare rispettoso del principio della par condicio creditorum

7. Se così è, per il futuro occorrerà verificare in che termini l’esternalizzazione

della transazione con l’Erario e l’INPS attraverso un procedimento di ristrut-turazione speciale quanto a tipologia di creditore e debito possa condizionare la rilevanza della volontà transattiva della maggioranza dei creditori e la com-posizione delle posizioni dei diversi creditori, a questo punto non più neces-sariamente da coordinarsi nell’adunanza e con una votazione di scelte comuni su base maggioritaria e con vincoli generalizzati.

2.2. La possibile riduzione e non più solo dilazione dell’IVA e delle ritenute

Il punto senza dubbio più importante della riforma è rappresentato dall’e-liminazione del divieto di falcidia dell’IVA e delle ritenute che così tanto ave-va condizionato il buon esito di ristrutturazioni ex artt. 182 bis e 12 ter e fatto discutere giudici di merito e di legittimità in occasione di concordati con o senza istanza di transazione fiscale.

La novità è rapida e netta ma se ne percepisce l’origine e la giustificazione. Ne discende, ora, la piena equiparazione, ai fini dei margini quantitativi

della ristrutturazione, tra l’IVA e le ritenute e le altre voci di debito di natura tributaria corrispondenti, nella maggior parte dei casi, alle imposte sui redditi ed all’IRAP.

2.3. La valutazione oggettiva della convenienza di un pagamento parziale

In chiaro ossequio e ottemperanza alla sentenza comunitaria il legislatore nazionale ha introdotto un parametro di riferimento di natura quantitativa ed oggettiva che potesse consentire una valutazione comparativa sulla conve-nienza in termini di maggiore tutela dell’interesse pubblico tra l’accettazione della somma proposta e l’aggredibilità del patrimonio del debitore tributario e previdenziale ai fini di soddisfazione coattiva della pretesa.

2.3.1. I riferimenti normativi Rinviando al prosieguo la verifica della effettiva e piena corrispondenza tra

il nuovo testo italiano ed i principi esposti nella sentenza della CGE, si evi-

7 Per alcuni approfondimenti sul ruolo della copertura legislativa nella concreta procedi-mentalizzazione della disponibilità del credito tributario vedasi FICARI, Transazione fiscale e disponibilità del “credito” tributario, cit., p. 485 ss.

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denzia come l’art. 182 ter, comma 1 condiziona la proponibilità della riduzio-ne e/o dilazione alla circostanza che quanto sia offerto garantisca al creditore pubblico «la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ra-gione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista» asseveratore.

Altrimenti detto, occorre:

– verificare se vi siano beni liquidabili e se su di essi vi siano cause di prela-zione;

– in caso positivo valorizzare i beni ad un valore di mercato; – che l’asseveratore faccia suo tale valore nella propria asseverazione e sot-

to responsabilità penale; – quindi, confrontare tale valore con quello corrispondente all’ammontare

complessivo dei debiti che il contribuente intende pagare falcidiando la diffe-renza.

Qualora, invece, la proposta di transazione fiscale abbia luogo nell’ambito di un accordo di ristrutturazione, il comma 5, art. 182 ter L. fall. offre un di-verso riferimento circa la valutazione che l’ufficio dovrà fare; nel dettaglio, in-fatti, il legislatore ha onerato l’attestatore di rappresentare la «convenienza del trattamento proposto rispetto alle alternative concretamente praticabili» ri-mettendo al Tribunale il dovere di fornire una «specifica valutazione».

In assenza di esperienza, l’esatta definizione di questa specifica valutazione giudiziale, al momento, oscilla tra una mera presa d’atto o, invece, un più cir-costanziato ed autonomo giudizio sostanziale; questa seconda, come si vedrà, sembra da escludersi.

Il riferimento al valore di mercato per la transazione fiscale in sede di con-cordato preventivo già era ricavabile in via interpretativa dall’analogo dispo-sto dell’art. 160 L. fall. in ordine al contenuto della relazione allegata alla do-manda di concordato preventivo; lo stesso è, ora, ex novo elemento fondamen-tale della relazione e dell’istanza e parametro necessario per la scelta che gli uffici dovranno adottare per il miglior perseguimento dell’interesse pubblico.

2.3.2. Segue: l’individuazione del ricavato dalla liquidazione dei beni e diritti “al valore di mercato” L’art. 182 ter sancisce la convenienza del pagamento dei debiti tributari me-

diante una ristrutturazione con transazione fiscale rispetto al pagamento otte-nibile a seguito della riscossione coattiva fissando un parametro di valutazione oggettiva non del tutto chiaro, almeno ad una prima impressione.

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Le espressioni lessicali “liquidazione” e “valore di mercato” avrebbero, forse, meritato una maggiore chiarezza in ragione del loro significato plurimo e, al-meno apparentemente, non necessariamente coincidente e coerente.

Le stesse, peraltro, nella identica espressione letterale, sono presenti nel comma 2, art. 160 L. fall. nella parte in cui è tipizzato il contenuto della pro-posta per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo.

A) Il termine “liquidazione”, trattandosi di un debitore fallibile in quanto imprenditore ex art. 1 L. fall., andrebbe interpretato in modo tecnico ma a tal riguardo si prospettano esiti diversi tra la liquidazione volontaria dei beni o quella, invece, concorsuale.

I termini non sono equivalenti a causa delle diverse condizioni “ambientali” che, come vedremo, influenzano la formazione del prezzo dell’eventuale ven-dita o trasferimento.

Una soluzione interpretativa pare quella di richiamare il confronto tra l’al-ternativa misura di soddisfazione che resterebbe, in termini ipotetici, al credi-tore pubblico se non accettasse il massimo offerto ed asseverato e gli interessi pubblici che andrebbero da questi apprezzati nella sua scelta.

Più chiaramente: al creditore erariale e previdenziale che vanti debiti sia a ruolo che non a ruolo e non intenda accettare quanto proposto non restereb-be che agire in via esecutiva sui beni del debitore nei limiti in cui questi esista-no e siano espropriabili in base alle regole fissate dagli artt. 49 ss., D.P.R. n. 602/1973.

B) Quanto, invece, al termine “valore di mercato” esso, come si intuisce im-mediatamente, è diverso a seconda della diversa tipologia di liquidazione cui si intenda fare riferimento.

a) Nella liquidazione volontaria, infatti, i valori di scambio dei diversi assets del debitore non sono affatto condizionati dalla situazione di crisi e, quindi, il soggetto che intendesse venderli per assegnare ai soci il ricavato sarebbe me-no pressato e, comunque, meno disponibile a ridurre le proprie richieste; pa-rimenti, i beni probabilmente continueranno a mantenere una certa utilità se di natura strumentale uti singuli o, addirittura, se coordinati in una azienda o ramo aziendale non trattandosi, la liquidazione volontaria, di una circostanza tale da far scomparire la società dal mercato degli operatori.

Lo stesso mercato di riferimento per modalità di scambio e soggetti inte-ressati all’acquisto sarebbe scevro da condizionamenti legati ad eventuali crisi o insolvenze dell’offerente.

b) Ben altra realtà si verifica, invece, se, nell’interpretazione dell’inciso di cui al novellato art. 182 ter, ci si riferisse alla liquidazione concorsuale o, co-

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munque, alla vendita dei beni e diritti in sede di aste e procedure similari dal momento che in esse il prezzo di trasferimento e di aggiudicazione non corri-sponde a quello oggettivo di un mercato senza crisi.

È indubbio che la necessità di liquidità in tempi rapidi costringe i debitori esecutati o esecutandi a tollerare trasferimenti a prezzi bassi e che le proposte egli interessati sono sempre lontane dalle quotazioni proprie di tempi senza crisi.

La lettura di alcune delle disposizioni contenute negli artt. 49 ss., D.P.R. n. 602/1973, in particolare gli artt. 52, 68, 79 ss. indicherebbe la formazione di un prezzo di vendita in progress cioè tendente al ribasso partendo da un valore che non corrisponderebbe, in ogni caso a quello di mercato, salvo che risulti specificamente da un listino di borsa o di mercato (art. 68) o da una perizia ad hoc; in ogni caso, laddove al primo incanto i beni non fossero liquidati a tale valore il successivo e più probabile valore di trasferimento sarà significativa-mente più basso.

2.3.3. La maggiore “convenienza” e le “alternative concretamente praticabili” nella proposta di transazione fiscale in seno ad un accordo di ristrutturazione. Il coinvolgimento più esteso dell’attestatore e quello nuovo del Tribunale Con riguardo alla proposta di ristrutturazione in una sede non concordata-

ria ma prettamente consensuale e contrattuale, l’art. 182 ter, comma 5, L. fall. richiama la necessità di una valutazione comparativa tra soluzioni (le “alterna-tive concretamente praticabili”) e, quindi, anche tra valori e possibilità di con-creta soddisfazione del credito.

Nel disporre in tal senso, però, la norma – in chiara coincidenza con quanto indicato dalla sentenza Degano Trasporti – si preoccupa di garantire l’interesse pubblico attraverso un doppio grado di sicurezza.

Da un lato, infatti, la “convenienza del trattamento proposto” deve essere at-testato espressamente non essendo, quindi, più sufficiente che essa sia espres-sa ed argomentata nella sola proposta.

Dall’altro, come se la responsabilità penale dell’asseveratore non fosse già sufficiente, il legislatore tributario, con un eccesso di prudenza, al comma 5 del-l’art. 182 ter onera il debitore di depositare in Tribunale la proposta con gli allegati necessari compresa all’asseverazione al fine di ottenere una conforme “specifica valutazione da parte del tribunale” stesso.

a) In ordine all’attestatore, ne discende un quadro di doveri in funzione dell’interesse pubblico più complesso di quello passato.

La responsabilità penale dell’asseveratore ex art. 236 bis c.p., in quanto funzionale a garantire all’Erario la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del

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piano di pagamento 8 dovrebbe coinvolgere, a questo punto, anche la falsa at-

testazione del valore di liquidazione del patrimonio; difatti, la convenienza per il creditore pubblico si fonda proprio sul rapporto tra tale valore e quanto of-ferto in rispetto alla classificazione e natura dei diversi crediti tra i quali quelli erariali.

Si deve, peraltro, osservare come le best practices nella redazione dell’asse-verazione in esame già confermassero e confermino tuttora l’opportunità di un confronto con il valore di liquidazione patrimoniale e, più in generale, sul-l’analisi degli assets di proprietà del contribuente debitore.

b) In ordine, invece, alla posizione del Tribunale si ha una radicale alterna-tiva tra ipotizzare una mera presa d’atto ed automatica opinione adesiva alle risultanze dell’attestazione oppure una piena autonomia di dissenso rispetto a quanto asseverato anche sulla convenienza.

Riteniamo che questa ultima eventualità sia da escludersi; essa legittime-rebbe un sindacato giudiziario in contraddizione con la responsabilità penale dell’asseveratore ed esorbitante rispetto alla tutela dell’interesse pubblico, in tale procedimento altamente contrattualizzato e privatistico, rimesso alle scel-te dell’ufficio.

In ogni caso è fondata l’impressione, già in precedenza evidenziata 9, che

l’accennata oggettivizzazione delle alternative rispetto ad un valore certo di liquidazione restringa in modo ancora più chiaro i margini di possibile rifiuto dell’accordo e renda parimenti ardua una congrua motivazione del diniego; a ciò si aggiunga la recente posizione della giurisprudenza amministrativa

10 la quale ha ricondotto alla giurisdizione tributaria l’impugnazione del diniego e la questione dell’eventuale doverosità dell’accettazione trattandosi di contro-versia tributaria

11.

8 Per approfondimenti cfr. FICARI, Transazione fiscale e disponibilità del “credito” tributa-rio, cit., p. 500 ss.

9 Più ampiamente in FICARI, Transazione fiscale e disponibilità del “credito” tributario, cit., p. 508 ss.

10 Cons. Stato, sez. IV, 28 settembre 2016, Pres. Griffi, Rel. D’Angelo (da leggersi anche in Il Caso.it).

11 Per il citato Consiglio di Stato nel valutare se perfezionare una transazione fiscale si de-ve effettuare «un giudizio valutativo circa il miglior grado di soddisfazione che la stessa pretesa troverebbe per il tramite della via transattiva rispetto all’eventuale fallimento, con conseguenti valutazioni di merito ed opportunità rispetto alle quali non è possibile l’esercizio di un sindaca-to del giudice amministrativo»; il potere dell’Agenzia sarebbe sì discrezionale ma legato non «all’esercizio di un potere pubblico autoritativo nel senso tradizionale del termine, quanto alla valutazione, del tutto economica, inerente alla pretesa tributaria e alla modalità di soddisfazio-ne della medesima».

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2.3.4. L’eliminazione del consolidamento La lettura del novellato testo dell’art. 182 ter L. fall. permette di rilevare l’o-

bliterazione del c.d. consolidamento: al comma 2 della citata disposizione è stato, infatti, eliminato il periodo «al fine di consentire il consolidamento del debito fiscale» presente nel precedente testo normativo dopo la previsione degli oneri gravanti sul contribuente debitore di deposito della istanza e dei relativi allegati presso il tribunale, l’ufficio e l’agente della riscossione.

Ad una prima impressione non pare che la scomparsa del periodo finale impatti sulla dinamica e sui momenti procedimentali successivi alla presenta-zione della istanza.

La certezza della situazione debitoria, nelle due diverse species del tributo dovuto ma non ancora iscritto a ruolo e del tributo dovuto ma già iscritto a ruolo, continua, infatti, ad essere garantita:

– per il lato della Direzione provinciale delle Entrate dalla doverosa «li-quidazione dei tributi risultanti dalle dichiarazioni» e «notifica dei relativi av-visi di irregolarità, unitamente a una certificazione attestante l’entità del debi-to derivante da atti di accertamento ancorché non definitivi per la parte non iscritta a ruolo, nonché dai ruoli vistati, ma non ancora consegnati all’agente della riscossione»;

– per quello dell’agente della riscossione dal dovere di «trasmettere al debi-tore una certificazione attestante l’entità del debito iscritto a ruolo o sospeso».

In altri termini, non è venuta meno la necessità per il debitore tributario di ricevere dall’ente creditore e dall’agente della riscossione la finale individua-zione dello stato debitorio rispetto al quale eventualmente modificare la pro-pria ricostruzione e adeguare il piano di rientro.

Senza dubbio in passato si riconosceva all’atto del consolidamento l’ido-neità a fissare definitivamente il quantum debeatur; la sopravvenuta scomparsa nel testo letterale della norma del consolidamento potrebbe essere intesa co-me una modifica in peius per il debitore il quale, se così fosse, resterebbe espo-sto ad una successiva attività accertatrice.

La possibile attività accertativa ex post rispetto alla liquidazione ed alla per-fezione della transazione sarebbe coerente con la circoscrizione dell’effetto pre-clusivo alla sola riliquidazione ex artt. 36 bis e 36 ter ma non anche al profilo strettamente accertativo

12.

12 Così, tra gli altri, RANDAZZO, Il “consolidamento” del debito tributario nella transazione fi-scale, in Riv. dir. trib., 2008, p. 839 ss.; si aggiunga MARINI, La transazione fiscale: profili proce-

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Questa ipotesi ci sembra, però, contrastante con la ratio dell’istituto il qua-le, nella sua funzione definitoria dell’indebitamento, attraverso una condivi-sione di cifre, importi e modalità di pagamento, non può certo coabitare con una situazione di astratta pendenza accertativa che renderebbe instabile la stes-sa fattibilità di cui all’asseverazione.

3. Il nuovo art. 182 ter L. fall. ed i criteri segnati dalla CGE nel caso Degano Trasporti

Sia le Conclusioni dell’Avvocato Generale Sharpston che le motivazioni della sentenza della CGE nel caso Degano Trasporti (causa C-546/14) hanno chiaramente sancito la relatività dell’obbligo (del tentativo) della riscossione integrale soprattutto quando ciò possa differenziare le categorie creditorie identiche.

Il novello legislatore ha recepito l’indicazione di garantire parità all’interno del ceto creditorio, senza distinzione alcuna tra privato e pubblico, ed ha e-spressamente regolato la necessità che gli uffici, a fronte di un oggettivo stato di difficoltà finanziaria, debbano verificare se e in che termini l’ammontare dei crediti possa essere soddisfatto con il patrimonio del debitore.

La sentenza comunitaria consente di apprezzare al meglio, nella concreta esperienza, l’interesse pubblico all’effettività della riscossione inducendo i sin-goli uffici a valutazioni prognostiche delle possibilità di pari soddisfazione in sede fallimentare.

Si deve, peraltro, evidenziare come gli estensori hanno sempre assunto che il valore di liquidazione alternativo, nel giudizio di comparazione, a quello of-ferto in sede di transazione fiscale fosse da intendersi come quello di natura fallimentare essendo la sede fallimentare quella dove si troverebbe l’imprendi-tore contribuente che non riuscisse a definire la ristrutturazione in sede di concordato o di accordo.

Se così è, è evidente che l’adozione di un parametro diverso sarebbe con-fliggente con le stesse linee guida della sentenza Degano da cui si è mossa la novella legislativa in esame.

dimentali e processuali, in AA.VV., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, a cura di Paparella, Milano, 2013, p. 672 ss.

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4. Segue: altre questioni non ancora risolte

Per quanto la novella abbia senza dubbio il pregio di aver eliminato il divie-to di falcidia dell’IVA e delle ritenute, restano ancora dei profili applicativi di controversa soluzione.

L’occasione sarebbe stata propizia, infatti, per meglio definire sia lo spazio temporale di applicazione della modifica sia i rapporti tra la transazione e la punibilità (rectius gli effetti del trattamento dei crediti tributari a seguito del-l’accordo e la sussistenza delle condizioni per la sanzionabilità penale dell’o-messo versamento) sia, infine, possibili profili di tutela.

4.1. L’entrata in vigore e il dies a quo nelle diverse procedure

L’evidente favore che la novella esprime per il debitore tributario induce a meglio definire a quali istanze si applichi la modifica.

A tal fine, con riguardo alla transazione fiscale nell’ambito di un accordo di ristrutturazione ex art. 182 bis L. fall., si possono distinguere quelle:

i) presentate per la prima volta dopo il 1° gennaio 2017; ii) già presentate al 31 dicembre 2016 ma in attesa di una valutazione da

parte della Direzione provinciale; iii) in attesa, invece, del parere conforme della Direzione regionale delle

Entrate.

Se per le prime è indubbia l’applicabilità della falcidia, per quelle ancora ad un primo livello di procedimentalizzazione, soprattutto ove il fabbisogno fi-nanziario per un pagamento completo rateale sia stato con molta difficoltà as-severato, non è da escludersi un revirement da parte del debitore istante, di in-dubbia utilità soprattutto ove collegato a situazioni di indebitamento di grup-po: è chiaro che alla riduzione dell’importo dovrà accompagnarsi una nuova asseverazione

13. Quanto, invece, alle istanze che abbiano già superato il primo vaglio del-

l’ufficio provinciale, se questo sia stato positivo, l’eventuale passo indietro del contribuente, in ipotesi possibile, dovrebbe, però, essere formalizzato con una espressa rinunzia e rinnovazione dell’istanza e, quindi, solo attraverso un ri-torno ex novo alle posizioni di confronto dalle quali aveva preso le mosse pri-mo seppur non ancora concluso procedimento.

13 Condivisibilmente in questi termini Tribunale di Milano decreto n. 98/2016.

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Qualora l’esito della valutazione della Direzione provinciale sia stato nega-tivo, pur a fronte dell’offerta dell’integrale pagamento, ma il procedimento non si sia ancora concluso in attesa del finale (ma probabilmente scontato) parere regionale, il contribuente ben potrebbe rinnovare il tutto con una of-ferta.

L’offerta, sebbene lontana ancora di più dalle richieste dell’ufficio, potreb-be, forse, avere maggiore probabilità di successo in ragione dei limiti valutativi molto più stringenti per l’ufficio dettati, come visto, dall’espresso riferimento normativo ad una valutazione comparativa tra l’offerto ed il valore di liquida-zione (fallimentare) dell’attivo del contribuente fallibile.

Più in particolare, infatti, è da escludersi in seno al sub-procedimento di transazione fiscale una consumazione del potere di proposta di accordo se non per desistenza del contribuente.

La rinnovazione della proposta in ordine alla falcidia dell’IVA e delle rite-nute con una riduzione supportata dal confronto valoriale con il possibile esi-to di una procedura liquidatoria (fallimentare) meno favorevole per il credi-tore pubblico ben dovrebbe essere ammessa e, soprattutto, apprezzata dagli uffici.

Per questi, peraltro, l’oggettivizzazione della valutazione a seguito della novella legislativa dovrebbe garantire una maggiore propensione alla rivisita-zione anche di posizioni di rigetto sebbene sub iudice in attesa del parere della DRE.

Da ultimo ci pare possibile, anche se più difficile, una modifica in itinere delle condizioni di falcidia nelle ipotesi in cui la procedura di concordato pre-ventivo si sia aperta ma non sia ancora conclusa soprattutto ove la strada scel-ta (probabilmente non con grande diffusione in ragione dei superati indirizzi giurisprudenziali) sia stata quella di presentare ricorso per concordato pre-ventivo con istanza di transazione fiscale.

Nel caso in cui la gestione della ristrutturazione tributaria sia stata scelta nei termini del procedimento ad hoc (i.e. quello ex art. 182 ter) nei termini di cui sopra si potrebbe, infatti, avere una rinnovazione in melius delle condizioni in virtù del novellato testo normativo.

4.2. I riflessi sulla sanzionabilità penale dell’avvenuta transazione con particolare riguardo all’individuazione degli importi dovuti ed alla soglia di punibilità

Un fronte nel quale resta ancora una grave incertezza sulle conseguenze giuridiche della definizione dell’accordo è quello penale tributario il quale avreb-be meritato, in un logico coordinamento tra piani normativi, un apposito inter-

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vento in seno alle disposizioni contenute nel D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 già modificato nel 2015.

La legislazione procedimentale ammette un trattamento dei tributi tale per cui il pagamento di tutti i debiti sia definibile concordemente con l’ente credi-tore in termini di riduzione quantitativa spesso molto significativa rispetto al-l’importo originariamente accertato e/o iscritto a ruolo e rispetto alla cui enti-tà l’ufficio abbia provveduto alla segnalazione cui sia seguito un processo pe-nale tributario.

Nonostante ciò, la normativa penaltributaria, pur aprendo la prospettiva delle cause di non punibilità e non più quella delle circostanze attenuanti ha, però, mantenuto nel nuovo art. 13, D.Lgs. n. 74/2000 (“Cause di non punibili-tà. Pagamento del debito tributario”) il generico riferimento alle «speciali pro-cedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tribu-tarie” nonché la condizione che l’«integrale pagamento degli importi dovuti» abbia luogo «prima della dichiarazione di apertura del dibattimento».

È senza dubbio apprezzabile che la legge abbia considerato gli effetti del-l’accordo nella prospettiva non più delle circostanze attenuanti e della ridu-zione della pena fino ad un terzo come prevedeva il testo previgente alle mo-difiche apportate dall’art. 11, comma 1, D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158

14 ma della punibilità o meno della condotta; sussistono, però, dei seri problemi applicativi e di coordinamento bisognosi di soluzione.

A) In primo luogo, la mancata comprensione della transazione fiscale nella tipizzazione delle procedure è un dato facilmente superabile in via di interpre-tazione

15 anche alla luce del mutato disposto dell’art. 13, D.Lgs. n. 74/2000 e della recente legittimazione normativa della falcidia indiscriminata dei tributi accertati nella più ampia funzionalizzazione della parziale rinunzia alle impo-ste accertate al concreto incasso e, quindi, all’effettività della riscossione.

All’interno del lemma “procedure conciliative” sarebbe, quindi, compresa la peculiare procedura di cui alla transazione fiscale ex art. 182 ter L. fall.

16.

14 Cfr. FICARI-SCANU, “Soglie di punibilità, “accordi” deflativi e transazione fiscale, in Riv. dir. trib., 2014, I, p. 937 ss.; per un primo commento alle novità per tutti MASTROIACOVO, Ri-flessi penali delle definizioni consensuali tributarie e riflessi fiscali delle definizioni bonarie delle ver-tenze penali, ivi, 2015, I, p. 143 ss. e MELIS, La nuova disciplina degli effetti penali dell’estinzione del debito tributario, in Rass. trib., 2016, p. 589 ss.

15 Specificamente leggasi BELLI CONTARINI, Transazione fiscale ed eventuali riflessi penali, in Riv. dir. trib., 2017, III, p. 4 ss. il quale rimarca la natura di subprocedimento amministrati-vo/concorsuale con finalità di mera riscossione.

16 Che la riduzione a seguito di una conciliazione giudiziale sia idonea a configurare una causa di non punibilità condivisibilmente sostenuto da MELIS, op. cit., p. 600 ss.; desume l’ap-

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B) Il mutato scenario (da attenuazione a non punibilità) dimostra, quindi, l’avvenuto apprezzamento da parte del legislatore penale della rilevanza sostan-ziale dell’accordo ex art. 182 ter e, quindi, della non eguaglianza delle posizio-ni tra chi ha transatto e chi, invece, non lo abbia voluto o potuto fare

17. Resta, però, grave aver circoscritto la non punibilità «all’integrale paga-

mento degli importi dovuti» che dovrebbe avvenire prima dell’apertura del di-battimento: la condizione dell’integrale pagamento prevista in tale sede non si attaglia affatto alle modalità attuative del ripianamento.

Il riferimento, in via interpretativa, al dovere di pagamento può avere due diverse fisionomia fra loro alternative.

a) Da un lato, la norma potrebbe riferirsi al dovere di pagare il quantum del tributo così come accertato e liquidato nell’atto impositivo.

Se così fosse, lo spazio temporale fissato dalla norma penale (prima dell’a-pertura del dibattimento) renderebbe la non punibilità non configurabile poi-ché il piano di rateazione concordato tra le parti ex art. 182 bis e ter L. fall. op-pure omologato dal Tribunale in sede di concordato preventivo ha, in tutti i casi, una durata molto più lunga in assoluto e in via relativa se confrontata con il piano sostenibile nei casi di riduzione post accertamento con adesione e conciliazione giudiziale.

Questo ostacolo letterale senza dubbio è superabile se non in via interpre-tativa promuovendo per il tramite giudiziale una questione di legittimità co-stituzionale oppure riconoscendo esistere una ipotesi di sospensione del pro-cesso penale fino al momento dell’integrale pagamento

18. b) Dall’altro, invece, è necessario che la disposizione sia contestualizzata

alle vicende dell’obbligazione tributaria che discendono dall’evento pattizio e consensuale in cui si sostanzia il trattamento dei crediti tributari (e previden-ziali) di cui all’art. 182 ter.

L’aggettivizzazione “dovuti” di cui all’ultimo testo del citato art. 13 è, infat-ti, declinabile anche facendo riferimento alle posizioni giuridiche conseguenti alla perfezione dell’accordo transattivo ex art. 182 ter L. fall. ammettendo che questo, come pare, sia, in qualche modo, autonomo rispetto ai singoli atti im-positivi relativi alle imposte non versate.

Altrimenti detto: se la ristrutturazione del debito tributario attraverso la partenenza al novero degli istituti dalla esistenza nel D.Lgs. n. 74/2000 del reato di “falso nella procedura di transazione fiscale”; BELLI CONTARINI, op. cit., p. 2 ss.

17 Cenni già in FICARI-SCANU, op. cit., pp. 944-945 e in SCANU, ibidem, p. 953 ss. 18 Così BELLI CONTARINI, op. cit., p. 7.

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Valerio Ficari 669

procedura transattiva di cui all’art. 182 ter assume valenza obbligatoria per le parti mediante l’«adesione alla proposta» che sia dalla Direzione provinciale «espressa, su parere conforme della competente direzione regionale, con la sottoscrizione dell’atto negoziale da parte dell’ufficio» e se il debitore assume l’obbligo di pagare alle “scadenze previste” nella proposta con allegata l’asseve-razione, pena la risoluzione di diritto, pare essere di fronte ad un fenomeno novativo nel quale vecchi doveri sono sostituiti da nuovi e vecchie cifre cedo-no il passo a nuove cifre.

In questa seconda prospettiva l’atto con il quale le parti (il contribuente debitore, il creditore erariale) “trattano” specificamente le sorti del credito tri-butario rispetto alla astratta ma incerta riscossione del quantum cristallizzato dalla probabile definitività della maggior parte degli atti impositivi a seguito del-la loro mancata impugnazione avrebbe una chiara natura sostitutiva, nella re-golamentazione dell’obbligazione, rispetto a tutti gli atti le cui risultanze for-mano l’indebitamento tributario complessivo ante ristrutturazione.

I singoli uffici giungerebbero alla perfezione dell’accordo, in ipotesi, dopo un’attenta valutazione della positiva sussistenza di un interesse pubblico all’ef-fettività della riscossione ex art. 97 Cost. che dovrebbe garantire la conformità dell’operato pubblico anche ad un corretto riparto dei carichi pubblici ex art. 53 Cost.

19. La valenza novativa dell’accordo

20 avrebbe, quindi, la conseguenza di sosti-tuire il titolo debitorio senza impattare sulla ricostruzione e qualificazione del fatto.

Un importante precedente argomentativo è, in tal senso, costituito dalla ri-levanza dell’avvenuto accoglimento dell’istanza di rateizzazione al fine dell’am-missione alle gare pubbliche quale negozio novativo ex art. 1230 del c.c.

21 aven-te una connotazione anche abdicativa.

Le circostanze, infatti, che (i) l’esistenza sì di un debito ma da pagarsi a ra-te non sia un ostacolo ai fini delle gare pubbliche e che (ii) l’istanza la cui ac-cettazione da parte dell’ufficio fonda il pagamento costituisca il nuovo titolo del pagamento inducono a ritenere che anche la transazione fiscale abbia in sé una valenza novativa/sostitutiva: non a caso, a questo punto, il comma 5 del-l’art. 182 ter L. fall. ne prevede la risoluzione di diritto in caso di mancato pa-gamento delle singole rate entro novanta giorni dalle scadenza.

19 Cenni anche in MASTROIACOVO, op. cit., p. 177 ss. 20 Non esclude questa ipotesi BELLI CONTARINI, op. cit., p. 8. 21 Lo ricorda BELLI CONTARINI, op. cit., p. 8 e nota 13 per precedenti giurisprudenziali

conformi.

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Tale ricostruzione è conforme, peraltro, anche alla recente giurisprudenza penale tributaria

22 la quale ha espressamente riconosciuto alla transazione omologata la dignità di nuovo “titolo del pagamento”.

C) Un ulteriore aspetto 23, è costituito dalle conseguenze dell’avvenuta ri-

determinazione del quantum debeatur in sede di transazione rispetto alla sus-sistenza confermata o insussistenza sopravvenuta della soglia di punibilità pe-nale così come issata, per le diverse fattispecie criminali, dal D.Lgs. 24 settem-bre 2015, n. 158.

Se, infatti, a seguito della transazione fiscale la somma degli importi dovuti a titolo di imposte venisse fissata, anche a seguito della corrispondente asse-verazione, al di sotto della soglia di punibilità, la natura novativa/sostitutiva dell’accordo sull’entità del debito dovuto e la abdicazione/rinunzia da parte dell’ente creditore tributario alla parte falcidiata dovrebbero di per sé giustifi-care l’immediata non punibilità per venir meno di un elemento costitutivo del reato, il superamento della soglia, per l’appunto.

D) Qualora, invece, tale riduzione non fosse sufficiente ad eliminare la ri-levanza dell’entità del debito tributario non assolto, l’ostacolo rappresentato dalla finestra temporale (la mancata apertura del dibattimento) entro la quale il pagamento del debito tributario andrebbe effettuato ai fini della non punibi-lità ex art. 13, D.Lgs. n. 74/2000 resterebbe difficilmente superabile e biso-gnoso, probabilmente, di un intervento normativo abrogativo o di una sen-tenza di incostituzionalità.

Il “corto circuito” tra regola temporale pattizia definita anche dal creditore pubblico e limite temporale di durata massima annuale desumibile dalla nor-ma penale (che, peraltro, dovrebbe tutelare lo stesso interesse pubblico che il creditore ha inteso tutelare accettando i termini della transazione sic!) stimo-lano la fantasia giuridica.

Si potrebbe, infatti, immaginare che, garantito l’interesse erariale dalla fat-tibilità asseverata del piano di rientro con falcidia e riduzione in un lasso tem-porale ad es. decennale, il termine molto più stringente di cui al testo letterale dell’art. 13 cit. possa essere rispettato per raggiungere l’agognata non punibili-tà attraverso l’intervento di un terzo soggetto (es. una società controllante o, comunque, parte del gruppo) che si accolli il debito per sorte capitale come

22 Cass. pen., 13 febbraio 2017, n. 6591. 23 Che per ora prescinde dalla concreta fattibilità del pagamento nel termine fissato dal-

l’art. 13, D.Lgs. n. 74/2000, nella maggior parte dei casi affatto coincidente con quello defini-to dalla stessa Agenzia in sede di accettazione dell’istanza di transazione o di quello omologato dal Tribunale in sede di concordato preventivo.

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Valerio Ficari 671

cristallizzato a seguito dell’accettazione dell’istanza o omologa del concordato ai sensi dell’art. 8, L. n. 212/2000 che ammette l’accollo non liberatorio dei debiti tributari.

L’ipotesi non sembra peregrina laddove si condividesse la definitività del-l’assetto debitorio post ristrutturazione a seguito di accordi di ristrutturazione o concordato preventivo omologato e la permanenza della garanzia del credi-tore erariale in ragione dell’effetto non liberatorio dell’accollo stesso.

4.3. L’impugnabilità del diniego di transazione fiscale

La nuova versione dell’art. 182 ter L. fall. rafforza la convinzione che il livel-lo di tutela del contribuente debba essere proporzionale agli elementi oggetti-vi che la legge introduce nel procedimento amministrativo valutativo al cui esito l’ufficio si determina ad accettare o meno il contenuto della proposta di ristrutturazione di cui alla transazione fiscale.

Il contenuto dell’asseverazione relativo alla veridicità dei dati aziendali ed alla fattibilità del piano di rientro e l’esistenza di un reato proprio specifico con-sistente nel “Falso in attestazioni e relazioni” ex art. 236 bis c.p. già in passato inducevano a ritenere apprestata una forte garanzia dell’interesse pubblico al-la certezza del pagamento del debito ristrutturato tale da rendere difficilmente configurabili motivi per il rifiuto.

Questa convinzione, come visto, aveva già ricevuto conforto e sviluppo dalla sentenza CGE 7 aprile 2016, C-56/14 (Degano Trasporti) nella parte in cui i giudici comunitari avevano collegato la falcidiabilità dell’IVA (e, quindi, la sus-sistenza di un più generale potere di abdicazione/rinuncia) alla comparazione tra effettività della riscossione in sede di transazione e soddisfazione alternati-va del credito erariale a seguito della liquidazione del patrimonio del debitore.

Con la novella il parametro oggettivo della “liquidabilità” (in sede fallimen-tare) diventa allo stesso tempo componente necessaria della proposta e della asseverazione ma anche, sebbene non espressamente detto, ragione dell’accet-tazione o del rifiuto dell’istanza, peraltro ora necessario ed esclusivo strumen-to per la ristrutturazione del debito tributario.

Se così è, laddove in termini incontestabili (se non attraverso una querela di falso e la denuncia per falsa attestazione) il valore offerto, sebbene a rate (quand’anche attualizzato), fosse superiore a quello ottenibile in un futuro fal-limento (e per questo valore anche questo in qualche modo da attualizzare), il diniego di (accettare l’istanza di) transazione ben difficilmente troverebbe ra-gioni fondate e legittime e, di conseguenza, potrebbe prestarsi ad un sindaca-to giurisdizionale davanti alla commissione tributaria provinciale alla luce di

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 672

un riparto giurisdizionale da ultimo ribadito dal grado più elevato della giusti-zia amministrativa

24.

5. Pagamento parziale dei crediti tributari ed altri strumenti di ristrutturazione dei debiti tributari

Un cenno merita di essere dedicato all’impatto delle modifiche normative rispetto a procedure esterne alla Legge fallimentare e ad alcune problemati-che di raccordo tra la Legge fallimentare e le regole di tassazione del reddito delle società di persone.

5.1. La L. n. 3/2012

Una prima ipotesi è quella della ristrutturazione del debito tributario quan-do il contribuente non sia un soggetto fallibile ai sensi dell’art. 1 L. fall. o non sia un imprenditore agricolo al quale è riconosciuto di accedere alla proce-dura ex art. 182 ter L. fall. ai sensi dell’art. 23, comma 43, D.L. 6 luglio 2011, n. 98 conv. con modifiche nella L. 15 luglio 2011, n. 111.

Si tratta, quindi, dei casi dei soggetti non fallibili ai quali si dedica la L. 27 gennaio 2012, n. 3 per i casi della c.d. crisi da sovraindebitamento.

Il divieto di falcidiare l’IVA e le ritenute fiscali, ancora previsto dal disposto letterale dell’art. 7, comma 1, L. n. 3/2012, è da ritenersi superato in base ad una ricostruzione sistematica fondata sia sul nuovo testo dell’art. 182 ter sia sui recenti orientamenti della giurisprudenza comunitaria che, dopo la sen-tenza Degano, hanno escluso qualsiasi limite anche nel caso della procedura di esdebitazione dell’imprenditore fallito ex art. 143 L. fall.; sarebbe, infatti, del tutto incostituzionale ritenere che il dettato attuale dell’art. 7 possa sopravvive-re nel suo divieto di riduzione quando questo sia stato completamente espunto da tutte le procedure di ristrutturazione accessibili ai contribuenti fallibili

25.

5.2. Le società di persone ed i soci persone fisiche

Resta ancora da chiarire quale sia la procedura da seguire nei casi in cui il debito tributario sia riferibile alle imposte dovute sui redditi prodotti dall’im-

24 Cons. Stato, sez. IV, 28 settembre 2016, Pres. Griffi, Rel. D’Angelo (da leggersi anche in Il Caso.it). Nel senso dell’impugnabilità CTP Roma, 1° dicembre 2017, n. 26135.

25 Così anche STASI, op. cit., p. 273.

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Valerio Ficari 673

presa societaria e derivanti dall’inadempimento agli obblighi tributari di una società di persone diversi da quelli propri riferibili all’IVA incassata e non ver-sata ed alle ritenute operate e non versate.

Più in particolare, infatti, le note modalità di tassazione del reddito prodot-to attraverso l’esercizio di impresa commerciale nella forma di una società di persone espresse dal c.d. principio di trasparenza comportano una netta cesu-ra tra i debiti tributari.

Le imposte sui redditi sono dovute dai singoli soci ex art. 5, comma 1, TUIR 22 dicembre 1986, n. 916 e non, invece, dalla società soggetto fallibile tenuta alla dichiarazione del reddito complessivo ma estraneo al pagamento dei tributi dovuti, invece, pro quota dai soci; i debiti relativi all’IVA incassata ma non versata e quelli derivanti dall’omesso versamento delle ritenute opera-te restano di esclusiva spettanza e riferibilità del soggetto societario.

Pertanto, e più nel dettaglio, mentre la ristrutturazione del debito corri-spondente all’IVA ed alle ritenute ben potrà essere attuata attraverso una tran-sazione fiscale ex art. 182 ter L. fall. in ragione e a condizione che la società sia fallibile secondo i requisiti fissati dall’art. 1 della stessa legge, il debito tributa-rio relativo alle imposte sui redditi dovrebbe essere gestito con altra procedu-ra corrispondente a quella riferibile al socio della società di persone.

La fallibilità di cui all’art. 1 potrebbe essere affiancata, ai fini di verificare l’ac-cessibilità o meno alla procedura ex artt. 160/182 bis e 182 ter L. fall. dei soci di una società di persone, a quella che l’art. 147, comma 1 della medesima de-finisce con riguardo alle “Società con soci responsabilità illimitata” laddove in-troduce la c.d. fallibilità per estensione dei «soci, pur se non persone fisiche, il-limitatamente responsabili» a seguito della dichiarazione di fallimento della società stessa

26. Se si seguisse questa prima eventualità, a fronte della sola fallibilità per esten-

sione il socio non imprenditore commerciale potrebbe accedere alla transa-zione fiscale ex art. 182 ter per definire la propria posizione.

Con questa soluzione applicativa, da un lato, si potrebbero coordinare po-sizioni soggettive debitorie fra loro evidentemente conseguenziali e legate; dal-l’altro, però, si attenuerebbe la rilevanza assoluta del pre-requisito di cui alla fallibilità ex art. 1 cit.– peraltro oggetto di necessaria dimostrazione da parte dell’istante e dell’asseveratore – estendendo l’ambito di soggettiva applicazione

26 Cfr. Trib. Cassino, decreto 14 settembre 2016 e Trib. Milano, decreto 18 agosto 2016, in Fall., 2017, p. 197 ss. con nota critica di PASQUARIELLO, L’accesso del socio alle procedure di sovraindebitamento: una grave lacuna normativa.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 674

della transazione fiscale in sede di concordato preventivo e di accordi di ristrut-turazione, seguendo la scia dell’apertura alle imprese agricole di cui alla men-zionata L. 15 luglio 2011, n. 111.

Ove, invece, si ritenesse che l’art. 1 debba costituire l’unico riferimento, si dovrebbe conseguentemente applicare al socio non fallibile ex art. 1 (anche se fallibile per estensione ex art. 147) la L. n. 3/2012 con tutte le sue regole pro-cedimentali

27. La conclusione in base alla quale la procedura naturale per la ristruttura-

zione del debito tributario per le imposte sui redditi sarebbe quella di cui alla L. n. 3/2012 discende anche dalla riferibilità dei medesimi esclusivamente al socio e non alla società; la peculiarità del meccanismo di imputazione del reddito per trasparenza ex art. 5 TUIR si risolve, infatti, nella logica della tas-sazione esclusiva in capo al socio e non, invece, di una tassazione in via solida-le/dipendente.

Ai fini della ristrutturazione del debito tributario e dell’individuazione del-la corretta procedura da seguire l’interpretazione del requisito della fallibilità dovrebbe essere coordinata e meglio definita apprezzando la rilevanza decisi-va dell’imputazione soggettiva del reddito cui si riferiscono i tributi non pagati.

La tassazione per trasparenza dei redditi prodotti in forma di società di per-sone costituisce un caso probabilmente unico e sconosciuto al diritto comune il quale non pare conoscere ipotesi nel quale all’obbligo di manifestare la di-mensione quantitativa dell’obbligazione non corrisponda un analogo e propor-zionato obbligo di pagare; il legame tra la società di persone fallibile e il socio si scinde, infatti, nel momento dell’effettivo prelievo che grava esclusivamente sul socio in base alla misura del reddito societario che gli spetta e che è per lo stesso imponibile a prescindere anche dall’effettiva erogazione del denaro.

Per la individuazione della procedura di ristrutturazione del debito tributa-rio che deriva dall’impresa commerciale societaria ma che corrisponde alla quo-ta di reddito dichiarata dal socio ed a lui imputabile ex lege si deve, pertanto, tenere in considerazione che il debito de quo non è societario ma del socio e, pertanto, estraneo alla gestione societaria né derivante da un inadempimento della società.

27 In questo secondo senso Trib. Prato, decreto 16 novembre 2016 tra l’altro in Fall., 2017, p. 197 ss.

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Francesca Lorusso

PROFILI PROBLEMATICI SULLA SOSPENSIONE AI SOLI FINI FISCALI DELL’EFFICACIA DELLA ESTINZIONE DELLE SOCIETÀ

PRACTICAL ISSUES LINKED TO THE SUSPENSION, FOR MERE TAX PURPOSES, OF COMPANIES’ TERMINATION EFFECTIVENESS

Abstract La sospensione dell’efficacia della cancellazione delle società dal Registro delle im-prese ai soli fini fiscali per determinati atti provoca numerosi problemi interpreta-tivi. Tra questi, si segnalano il problema della notificazione degli atti presso la ces-sata sede sociale e nella persona dell’ex liquidatore, la questione della legittimazio-ne processuale e dell’interesse ad agire degli ex soci nel caso di prosecuzione di processi pendenti nei confronti della società estinta, e l’irretroattività della nuova disciplina del 2014. I problemi restano aperti. Parole chiave: società estinte, notificazione, legittimazione processuale, interesse ad agire, irretroattività The suspension of the effective cancellation from the Register of Companies just for tax purposes and for certain acts causes several problems. Among these issues, there are the notification of tax acts at the company’s abandoned legal seat and in the person of the former liquidator, the procedural legitimacy and the interest of former members to con-tinue proceedings against the extinct company, and the non-retroactivity of the 2014 discipline. Many problems still remain open. Keywords: extinct companies, notification, procedural legitimacy, interest in acting, non-retroactivity

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 676

SOMMARIO: 1. Le recenti stratificazioni normative. – 2. Il problema della notificazione degli atti. – 3. La que-stione della legittimazione processuale e dell’interesse ad agire. – 4. I discussi profili circa l’irre-troattività dell’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175/2014. – 5. Conclusioni.

1. Le recenti stratificazioni normative

L’estinzione delle società rappresenta, come noto, il risultato finale di una fattispecie a formazione progressiva che comprende tre fasi: verificarsi di una causa di scioglimento, fase di liquidazione e cancellazione della società dal re-gistro delle imprese

1. La determinazione del momento in cui si verifica l’estin-zione è stata da sempre questione controversa anche se la riforma del diritto societario del 2003

2 ha fornito importanti chiavi di lettura. Nella vigenza dell’art. 2456 c.c. e prima della riforma del diritto societario,

la consolidata giurisprudenza riteneva che la cancellazione delle società dal re-gistro delle imprese avesse un’efficacia meramente dichiarativa

3 di pubblicità. Di conseguenza, l’atto formale di cancellazione di una società commerciale dal registro delle imprese non ne determinava l’estinzione ove non fossero ancora esauriti i rapporti giuridici facenti capo alla società stessa e da questa intratte-nuti con i terzi

4. Si configurava, dunque, secondo l’orientamento pre-riforma, una prosecu-

zione della capacità giuridica e della soggettività della società stessa, anche dopo il suo scioglimento, la liquidazione del suo patrimonio e la cancellazione

1 L’iscrizione della cancellazione deve essere richiesta in adempimento del dovere di dili-genza gravante sui liquidatori, non oltre il tempo ragionevolmente necessario per la sua re-dazione e documentazione (DIMUNDO, sub art. 2495, in AA.VV., Gruppi, trasformazione, fu-sione e scissione, scioglimento e liquidazione, società estere, in LO CASCIO (a cura di), La riforma del diritto societario, IX, Milano, 2003, p. 206 s.).

2 D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. 3 Tesi sostenuta per anni anche dalla giurisprudenza di legittimità. Cfr. Cass., 12 marzo

1966, n. 764; Cass., 7 agosto 1972, n. 2639; Cass., 23 maggio 1979, n. 2983; Cass., 28 luglio 1979, n. 3614; Cass., 12 aprile 1984, n. 2359; Cass., 6 novembre 1985, n. 5394; Cass., 5 mar-zo 1987, n. 2311; Cass., 6 febbraio 1997, n. 1122; Cass., 26 marzo 1997, n. 2700; Cass., 24 luglio 1997, n. 6925; Cass., 5 agosto 1997, n. 7208; Cass., 9 settembre 1997, n. 8795; Cass., 13 settembre 1997, n. 9075; Cass., 14 gennaio 1998, n. 255; Cass., 30 gennaio 1998, n. 969; Cass., 12 novembre 1998, n. 11419; Cass., 27 novembre 1999, n. 13246; Cass., 11 dicembre 2000, n. 15596.

4 V. in particolare Cass., 18 agosto 2003, n. 12078, in Mass. Giur. it., 2003.

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Francesca Lorusso 677

dal registro: ciò permetteva ai creditori sociali rimasti insoddisfatti di aggredire, di fatto, la società fino al pagamento di tutti i debiti sociali

5. Viceversa, parte della dottrina

6 riconosceva efficacia costitutiva alla cancellazione della società dal registro delle imprese, con la conseguenza che la stessa doveva ritenersi e-stinta a prescindere dall’effettiva definizione di tutti i rapporti giuridici pendenti.

In virtù della richiamata riforma, attraverso la modifica dell’art. 2456 c.c. 7 e

l’inserimento nel comma 2 dell’art. 2495 c.c. dell’inciso «ferma restando l’e-stinzione della società», la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese, successivamente al 1° gennaio 2004, determina l’estinzione del-l’ente, indipendentemente dalla definizione di tutti i rapporti giuridici ad esso facenti capo

8. Con riferimento alle società di persone la giurisprudenza ha classicamente

ritenuto che la società non può dirsi estinta fino a quando non si sia esaurito l’ultimo rapporto giuridico pendente

9; pertanto la cancellazione dal registro

5 Sul tema, cfr. LONGO, Gli effetti processuali della cancellazione di società dal registro delle imprese, in Riv. dir. proc., 2013, p. 914.

6 Cfr. MARCHEGIANI, Sulla soggettività delle società personali e sulle estinzione della collettiva regolare, in Giust. civ., 1999, p. 2971; SPERANZIN, Recenti sentenze in tema di estinzione di società: osservazioni critiche, in Giur. comm., 2000, II, p. 281 ss.; FUMAGALLI, Società di persone e cancel-lazione dal registro delle imprese, in Società, 2006, p. 712 ss.

7 L’art. 2456 c.c. ante riforma disponeva al comma 1 che, approvato il bilancio finale di li-quidazione, i liquidatori dovevano chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese; al comma 2 disponeva inoltre che dopo la cancellazione della società i creditori sociali non soddisfatti potevano far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento era dipeso da colpa di questi. Il comma 2 del nuovo art. 2495 c.c., invece, dispone che «ferma restando l’estinzione della società», dopo la cancella-zione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi.

8 Sul punto, la giurisprudenza di legittimità non è stata sempre unanime, giacché una par-te di essa, minimizzando la portata innovativa della riforma, riteneva che il mero atto formale della cancellazione di una società dal registro delle imprese non determinava l’estinzione in pendenza di rapporti giuridici (Cass. n. 646/2007; Cass. n. 4652/2006). A dirimere il con-trasto venutosi a creare sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con tre sentenze (nn. 4060/2010, 4061/2010, 4062/2010 inerenti rispettivamente ad una s.n.c., ad una s.r.l. e ad una cooperativa) che, con identica motivazione, hanno affermato che attraver-so l’iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese si produce l’estinzione delle so-cietà, riconoscendo a pieno titolo le innovazioni apportate dalla riforma.

9 Cass., 24 settembre 2003, n. 141417, in Mass. Giust. civ., 2003, p. 9; Cass., 4 luglio 2003, n. 10606, in Mass. Giust. civ., 2003, pp. 7-8; Cass., 1 luglio 2000, n. 8842, in Mass. Giust. civ., 2000, p. 1478.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 678

delle imprese ha natura dichiarativa 10. Tale orientamento ha il chiaro obietti-

vo di rafforzare la tutela dei creditori prolungando la vita della società fino al-l’estinzione di qualsiasi rapporto pendente

11. Ma, anche alla luce della novella legislativa, si è posta la questione della pos-

sibile estensione dell’art. 2495 c.c. alle società di persone al fine di garantire un identico trattamento di tutti i creditori delle imprese individuali e collettive di qualsiasi tipo. La questione è stata affrontata dalle Sezioni Unite della Cor-te di Cassazione

12, la quale ha ritenuto che per le società di persone, esclusa l’efficacia costitutiva della cancellazione iscritta nel registro, «per ragioni logi-che e di sistema, può affermarsi l’efficacia dichiarativa della pubblicità della cessazione dell’attività dell’impresa collettiva, opponibile dal 1° gennaio 2004 ai creditori che agiscano contro i soci ai sensi degli articoli 2312 e 2324 cod. civ.» dai quali si desume la presunzione del venir meno della capacità e legit-timazione di esse.

Pertanto, secondo la Suprema Corte 13, la natura costitutiva riconosciuta dal-

la legge alla cancellazione delle società di capitali e cooperative comporta an-che per quelle di persone, che, a garanzia di parità di trattamento di terzi cre-ditori di entrambi i tipi di società, si abbia una vicenda estintiva analoga con la loro estinzione contestuale alla pubblicità

14, la quale resta dichiarativa degli effetti da desumere dall’insieme delle norme pregresse e di quelle novellate che per analogia juris determinano una interpretazione nuova della disciplina pregressa

15. La correlazione tra cancellazione dal registro delle imprese ed estinzione

10 Cfr. CATALDO, Gli effetti della cancellazione della società per i creditori, in Fall., 2010, p. 1407; ROSSANO, La cancellazione dal registro delle imprese e la società di persone, in Giur. comm., 2010, II, p. 707 ss.

11 Cfr. UNGARI TRASATTI, Gli effetti della cancellazione dal registro delle imprese delle società di persone e la continuazione dell’impresa in forma individuale del socio superstite, in Riv. not., n. 4, 2005, p. 814.

12 Cass., sez. un., sent. 22 febbraio 2010, n. 4060. 13 A commento delle tre sentenze delle Sezioni Unite, cfr. ALLECA, Le Sezioni Unite e

l’estinzione delle società a seguito della cancellazione, in Riv. dir. civ., 2010, II, p. 637 ss.; DALFI-NO, Le Sezioni Unite e gli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, in So-cietà, 2010, p. 1011 ss.; ROSSANO, op. cit., p. 707 ss.

14 Tale enunciato è coerente con l’art. 10 L. fall., poiché, garantendo una soluzione unita-ria al problema degli effetti dell’iscrizione della cancellazione di tutti i tipi di società o impre-se collettive, fa comunque decorrere dalla data di iscrizione della cancellazione stessa l’anno per la dichiarazione di fallimento evitando dunque incertezze su tale punto (Cass., sez. un., n. 4060/2010).

15 Di recente in tal senso cfr. anche Cass., sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26196.

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Francesca Lorusso 679

della società – sia essa di persone o di capitali – fa sorgere importanti conse-guenze sul piano delle obbligazioni sociali esistenti al momento della cancel-lazione

16 e sulla disciplina fiscale da applicare ai rapporti pendenti in capo alla società cancellata.

Con riferimento a tale argomento, bisogna anche considerare che i mo-menti di inizio e cessazione di un’impresa collettiva nella normativa civilistica differiscono da quelli individuati nella normativa fiscale

17 e che, a causa di tale divergenza, parallelamente alla mancanza di norme precise in materia, nume-rose sono le pronunce della Cassazione che in passato hanno affermato l’i-nopponibilità al Fisco dell’estinzione societaria, come definita nella normativa civile, in presenza di obblighi fiscali insoluti.

Sulla sorte dei rapporti giuridici facenti capo alla società estinta, a seguito della cancellazione, sono intervenute importanti pronunce delle Sezioni Uni-te della Corte di Cassazione

18, inquadrando – non senza che ciò non corri-spondesse a precise opzioni ermeneutiche tra le diverse soluzioni possibili – la fattispecie quale particolare fenomeno successorio dei rapporti giuridici fa-centi capo alla società estinta, in forza del quale i soci rispondono delle obbli-gazioni della società estinta nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquida-zione od illimitatamente (a seconda che fossero limitatamente o illimitatamen-te responsabili per i debiti sociali della società); e, come logica conseguenza, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa

19.

16 Cfr. NICCOLINI, Gli effetti della cancellazione della società di capitali dal registro delle im-prese recenti sviluppi e questioni ancora irrisolte, in Riv. dir. soc., 2012, p. 690 ss., SELICATO, I riflessi fiscali della cancellazione delle società dal registro delle imprese, in Rass. trib., 2010, p. 868 s.

17 Sul tema, con maggiori analisi sulle vicende delle imprese individuali, v. STEVANATO, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994.

18 Cfr. Cass., sez. un., nn. 6070/2013, 6071/2013, 6072/2013, con nota di CONSOLO-GODIO, Le Sezioni Unite sull’estinzione di società: la tutela creditoria “ritrovata” (o quasi), in Corr. giur., 2013, p. 691 s., ove riferimenti alle varie opzioni interpretative. Sulla questione v. an-che TAGLIAPIETRA, La pretesa successione dei soci alla società cancellata, in Dir. prat. trib., 2016, I, p. 1474 s. Nel solco delle tre sentenze gemelle si è posta la successiva giurisprudenza: cfr., ad es., Cass., sez. III, 28 giugno 2016, n. 13290 o Cass., sez. trib., 28 settembre 2016, n. 19142. A commento di quest’ultima v. IACCARINO, L’estinzione delle società commerciali: riflessioni sugli effetti processuali e sostanziali dell’ordinanza della Corte di Cassazione, sezione VI, n. 19142 del 28.9.2016, in Innovazione e Diritto, 2017, p. 136 s.

19 Come precisato dalla Corte, con l’esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione nel bilancio finale di liquidazione avrebbe richiesto un’attività ulteriore, giudiziale o extragiudiziale, il cui mancato espletamento da parte del liquidatore permette di desumere che la società vi abbia rinuncia-to, per conseguire una più rapida conclusione del procedimento di liquidazione stesso.

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È poi intervenuto il c.d. decreto semplificazioni del 2014 20, con il quale il

legislatore ha apportato notevoli modifiche alla disciplina tributaria prevista per le società estinte.

Tale decreto, difatti, ha introdotto una vera e propria deroga al regime or-dinario

21, sancendo all’art. 28 che una società, cancellata dal Registro delle imprese e, dunque, definitivamente estinta in base al nuovo regime previsto dall’art. 2495 c.c., rimanga in vita nei cinque anni successivi alla cancellazione, ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi, contributi, sanzioni e interessi.

La norma, marcatamente di favore per l’Amministrazione Finanziaria, pre-vedendo una sospensione di cinque anni ai soli fini fiscali dell’effetto estintivo della cancellazione delle società, ha anzitutto dato origine ad una netta e ovvia disparità di trattamento tra l’Erario e tutti gli altri creditori della società.

Infatti, per il primo l’estinzione avrebbe effetto decorsi cinque anni dalla cancellazione, mentre per i secondi sarebbe contestuale alla cancellazione del-la società dal Registro delle imprese.

Questa “agonia” 22 fiscale delle società di capitali estinte implica una parzia-

le sopravvivenza di quest’ultime alla stessa estinzione, per profili fiscali deli-neati dall’art. 28, D.Lgs. n. 175/2014

23. Oltre a disciplinare gli effetti fiscali relativi alle società estinte e ad effettua-

re questa significativa modifica, che diverge dalla disciplina ordinaria, il c.d. decreto semplificazioni è anche intervenuto modificando l’art. 36, D.P.R. n. 602/1973.

In particolare, quest’ultimo è frutto di un’evoluzione normativa che trae

20 Il D.Lgs. n. 175/2014 è stato emesso in attuazione della legge delega n. 23/2014, che aveva indicato che gli interventi del Governo, mediante l’adozione di decreti legislativi in mate-ria di semplificazione, fossero orientati «alla revisione degli adempimenti, con particolare riferimento a quelli superflui o che diano luogo a duplicazioni, ovvero a quelli che risultino di scarsa utilità per l’Amministrazione finanziaria ai fini dell’attività di controllo o di accertamen-to, o comunque non conformi al principio di proporzionalità, nonché alla revisione delle fun-zioni dei centri di assistenza fiscale, i quali debbono fornire adeguate garanzie di idoneità tecni-co-organizzative».

21 Sul punto CARINCI, L’estinzione delle società e la responsabilità tributaria di liquidatori, amministratori e soci, in Il Fisco, 2015, p. 2843.

22 Per adoperare l’efficace termine adottato da GUIDARA, Sull’asserita agonia fiscale delle società di capitali estinte: una (diversa) interpretazione dell’intervento legislativo di fine 2014, in Riv. dir. trib., 2015, p. 375.

23 Tale norma risulta applicabile ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liqui-dazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi.

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Francesca Lorusso 681

origine dall’art. 14, R.D. 28 gennaio 1929, n. 360 24, norma che per prima rico-

nobbe la responsabilità fiscale dei liquidatori, per poi svilupparsi attraverso l’art. 45, R.D. 17 settembre 1931, n. 1608, nel quale venne trasfuso il citato art. 14, e quindi in forza delle disposizioni stabilite dall’art. 256 T.U., 29 gennaio 1958, n. 645.

L’art. 36, D.P.R. n. 602/1973, in specie, ha posto maggiori garanzie a van-taggio del Fisco, per il quale ha previsto la possibilità di rivalersi su tre catego-rie di soggetti sociali (liquidatori, soci e amministratori)

25, diminuendo for-temente la probabilità di insoddisfazione dei crediti vantati dall’Amministra-zione Finanziaria nei confronti del contribuente.

Tale norma non ha considerato il puro e semplice inadempimento dell’ob-bligazione tributaria, che in ogni caso si ha quando non si effettua il pagamen-to dell’imposta dovuta dalla società per il periodo della liquidazione e per i pe-riodi precedenti, attribuendo piuttosto rilevanza alla circostanza che fossero stati soddisfatti, con le attività della liquidazione, crediti di ordine inferiore a quelli tributari o si fosse proceduto all’assegnazione di beni a soci e associati pri-ma di avere soddisfatto crediti tributari

26. Il decreto semplificazioni del 2014 non ha inciso sulla responsabilità di tali

soggetti (già prevista nella precedente formulazione della norma 27), ma ne ha

esteso la portata, ora prevista non solo per le imposte sui redditi, ma anche per tutte le pretese tributarie erariali nonché per le relative sanzioni ed accessori

28. Inoltre, non secondari problemi di tenuta del sistema sono derivati dall’in-

troduzione dell’inversione dell’onere della prova sui fatti costituitivi della re-sponsabilità del liquidatore per il mancato pagamento dei debiti tributari con le attività della liquidazione

29, per cui i liquidatori rispondono in proprio se

24 In merito alla responsabilità ai fini tributari dei liquidatori della società, l’art. 14 del ci-tato R.D. n. 360/1929 specificava, infatti che gli stessi «sono responsabili in proprio».

25 Per un inquadramento della disciplina ante modifica v. TASSANI, La responsabilità di so-ci, amministratori e liquidatori per i debiti fiscali della società, in Rass. trib., 2012, p. 359 s.

26 Sul tema cfr. RAGUCCI, La responsabilità tributaria dei liquidatori di società di capitali, Torino, 2013, p. 101 s.

27 Cfr. TASSANI, Estinzione delle società e residui attivi da liquidazione: profili fiscali, in Rass. trib., 2014, p. 1012 s., per la sottolineatura della già esistente responsabilità del liquidatore per comportamenti colposi o dolosi.

28 Come evidenziato da GUIDARA, op. cit., p. 375. 29 Sul punto RAGUCCI, La responsabilità tributaria dei liquidatori di società di capitali dopo

le modifiche apportate dal D.lgs. n. 175/2014 (art. 28), in AA.VV., Commento al Decreto sulle semplificazioni (D.Lgs. n. 175 del 2014), a cura di S. Muleo, Torino, 2015, p. 141, nonché ID., Onere della prova sull’Agenzia in caso di cancellazione della società dal registro delle imprese, in

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 682

non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegna-zione di beni ai soci od associati, o se non dimostrano di aver soddisfatto cre-diti di ordine superiore a quelli

30. Mentre nella precedente formulazione incombeva sull’Amministrazione

Finanziaria l’onere di provare che i liquidatori non avessero adempiuto al sod-disfacimento dei crediti erariali, nell’attuale enunciazione spetta ai liquidatori stessi fornire tale prova e dimostrare di aver curato la fase della liquidazione se-condo quanto previsto dalle disposizioni normative appena ricordate.

L’intervento legislativo del 2014, oltretutto poco chiaro nella sua formula-zione letterale e volto a rafforzare la tutela del credito tributario, ha creato no-tevoli problemi: da un lato l’Amministrazione Finanziaria parrebbe non sog-giacere alle regole dettate dal codice civile in tema di cancellazione delle società dal Registro delle imprese, continuando, solo per quest’ultima, una sorta di ana-biosi fiscale della società civilisticamente estinta, ai soli fini della validità ed ef-ficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso dei tributi e contri-buti, sanzioni ed interessi; dall’altro la responsabilità dei liquidatori, ammini-stratori e soci prevista dal ricordato art. 36, D.P.R. n. 602/1973 è stata note-volmente ampliata, nei termini appena esposti.

Così facendo, però, si è creato un vero e proprio scollamento tra disciplina civilistica e disciplina tributaria, dal quale del resto è scaturita una regolamenta-zione che ha posto pesanti questioni, che hanno iniziato a richiedere risposte giurisprudenziali. Potrebbe anzi affermarsi che, nel compendio, i problemi ab-biano sopravanzato le soluzioni, come d’altronde segnalato dalla pressoché to-talità della dottrina che si è interessata dell’argomento. Tanto che non sono mancati auspici per un ulteriore intervento legislativo al fine di porre rimedio alle distorsioni venutesi a creare con le diverse stratificazioni normative, né per un intervento della Corte costituzionale sul citato art. 28, D.Lgs. n. 175/2014

31. Corr. trib., 2015, p. 2493 s., ove l’A. ha rimarcato come sia onere dell’Amministrazione Finan-ziaria provare sia la sussistenza del presupposto imponibile in capo alla società sia la esistenza del presupposto specifico, consistente nella distribuzione ed effettiva percezione del residuo attivo della liquidazione in capo all’ex socio; non ha mancato di sottolineare, altresì, che, qua-lora la notifica dell’avviso di accertamento sia avvenuta prima della cancellazione della società, sarà di fatto impossibile che la motivazione dell’atto possa esporre la rettifica del risultato di una liquidazione non ancora conclusa, alla cui allegazione e prova è subordinata la successione dei soci nel debito della società.

30 Art. 28, comma 5, lett. a), D.Lgs. n. 175/2014. 31 Sul tema GLENDI, E intanto prosegue l’infinita “historia” dell’estinzione delle società cancel-

late dal Registro delle imprese (sul versante tributaristico, ma non solo), in GT-Riv. giur. trib., 2015, p. 767. V. pure PEPE, Le implicazioni fiscali della morte (e resurrezione?) delle società can-cellate dal registro delle imprese, in Riv. dir. trib., 2016, I, p. 39 s.

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Francesca Lorusso 683

Con tali premesse si esamineranno qui appresso alcuni aspetti causati dalla nuova disciplina, sottolineando che il filo conduttore delle censure movibili ad essa concerne la violazione del diritto di difesa, tutelato ex art. 24 Cost. ed art. 47 della Carta di Nizza-Strasburgo comunitarizzata, per via della stridente finzione giuridica costruita con la sospensione quinquennale della efficacia del-la cancellazione della società, in un quadro peraltro di mescolanza concettuale con le risultanze della elaborazione civilistica sopra cennata.

2. Il problema della notificazione degli atti

Tra le criticità determinate dalla addizione del 2014 si annovera certamen-te il problema della efficacia della notificazione degli atti impositivi.

Nel sistema previgente la riforma del diritto societario del 2003 gli atti im-positivi relativi ad una società cancellata dal Registro delle imprese erano no-tificati dall’Amministrazione Finanziaria alla stessa società nella persona del-l’ex liquidatore o dell’ex amministratore, dando luogo ad una reviviscenza del-la società qualora vi fossero stati rapporti societari non risolti. Di conseguenza si configurava una sorta di permanenza della capacità di ricevere atti da parte dell’ex liquidatore o dell’ex amministratore, e l’Amministrazione Finanziaria fa-ceva valere le relative pretese nei confronti della società, con atto impositivo notificato al soggetto che la rappresentava prima della cancellazione.

Nel sistema post riforma, anche grazie al solco tracciato dalle pronunce della Suprema Corte, all’estinzione della società, correlata alla cancellazione della stessa dal Registro delle imprese, seguivano l’immediato venir meno della le-gittimazione attiva e passiva nonché la conseguente perdita della soggettività giuridica della stessa. Gli atti impositivi notificati in capo alla società estinta, per via della cancellazione, dovevano ritenersi viziati e, dunque, privi di ogni effetto giuridico; l’atto che non si uniformava a tali principi era stato qualifica-to dagli stessi giudici di legittimità

32 quale atto “inesistente”. Con il nuovo art. 2495 c.c. e la codificazione dell’efficacia costitutiva della cancellazione, dal 1° gennaio 2004, tutti gli atti impositivi relativi alla società estinta andavano no-tificati agli ex soci e ai liquidatori, con una motivazione “rinforzata”: oltre ai presupposti di fatto e di diritto della pretesa tributaria l’atto doveva illustrare le ragioni per le quali si riteneva il socio o il liquidatore od amministratore re-sponsabile fiscalmente ricorrendo le condizioni previste dall’art. 2495 c.c. e

32 Cfr. Cass., sez. un., nn. 4060/2010, 4061/2010, 4062/2010, cit.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 684

dall’art. 36, D.P.R. n. 602/1973. Pertanto l’Amministrazione Finanziaria, per esercitare la propria azione, doveva notificare un autonomo atto ai liquidatori, amministratori o soci, e solo dopo aver verificato la reale sussistenza di un de-bito d’imposta e il mancato rispetto dei requisiti delle norme in esame, emet-teva un apposito avviso di accertamento, in via autonoma.

Con la novella dell’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175/2014, invece, le socie-tà, seppur estinte da un punto di vista strettamente civilistico, sopravvivono “ai soli fini fiscali” per un periodo di cinque anni dalla richiesta di cancellazio-ne dal Registro delle imprese.

Se nel sistema antecedente la riforma societaria del 2003 alla società pote-vano essere notificati atti impositivi (ovviamente nel rispetto dei termini di legge), nell’attuale impianto, la società, seppur estinta, potrà essere destinata-ria di atti di «liquidazione, accertamento, sanzionatori, di riscossione e del contenzioso» nei cinque anni successivi alla richiesta di cancellazione dal Re-gistro.

La norma inserita nel decreto semplificazioni ha operato, in realtà, una semplificazione a senso unico: la ratio cercata dal legislatore trapela dalla Re-lazione tecnica al decreto, in cui è stato evidenziato che l’art. 2495 c.c., fun-zionale a garantire tempi brevi e certi della cancellazione e della realizzazione dei conseguenti effetti, rende di difficile realizzazione i controlli e le azioni di recupero fiscale, regolati da disposizioni che ne prevedono lo sviluppo e, a vol-te, l’avvio in tempi successivi a quelli previsti dall’art. 2495 c.c. per l’estinzione della società. Nella stessa Relazione illustrativa è stato altresì ribadito che la norma introdotta dall’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175/2014 è, quindi, tesa ad evitare ai contribuenti particolari turbative conseguenti alla concentrazione dei controlli nel periodo di scioglimento e liquidazione, con evidenti effetti an-che sull’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa, prevedendo che, ai fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, con-tenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società abbia effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro delle imprese.

Come è stato immediatamente segnalato 33, il nuovo assetto creatosi alla

luce della novella legislativa del 2014 ha notevoli ripercussioni per quel che concerne la notificazione degli atti impositivi, con evidenti lesioni del diritto di difesa, garantito dall’art. 24 Cost. e dall’art. 47 della Carta di Nizza-Stra-

33 Cfr. FRANSONI, L’estinzione postuma della società ai fini fiscali ovvero della società un poco morta e di altre amenità, in Rass. trib., 2015, p. 47 ss.

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sburgo comunitarizzata, nella quasi generalità dei casi, se sol si pensi che l’e-stinzione civilistica della società comporta, come naturale conseguenza, il ve-nir meno dell’intera struttura sociale.

L’assenza di un legale rappresentante e di una sede materiale fa sorgere il problema di come possa, ai sensi del citato art. 28, efficacemente avvenire la notificazione degli atti previsti dallo stesso

34. La finzione giuridica appare decisamente troppo forte e stridente: la per-

manenza della società nella sede e la rinvenibilità in quest’ultima dell’ex liqui-datore sembrano appartenere alla patologia e non sono riferibili a quell’id quod prelumque accidit che permette ad una finzione giuridica di non mostrarsi co-me fattispecie marchiatamente estranea alla quasi totalità delle realtà fattuali. In altri termini, qualora nonostante la dichiarata cessazione della liquidazione la società, ad opera dell’ex liquidatore, continuasse ad esercitare l’attività nella cessata sede sociale, sussisterebbero ordinari strumenti per inquadrare il fe-nomeno entro normali moduli accertativi

35. Quindi, sebbene la norma preveda una immaginaria sopravvivenza della

società trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro, nella realtà è impensabile che i locali e la struttura sociale sopravvivano.

Gli atti richiamati dall’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175/2014 sono però cer-tamente recettizi

36, ed ipotizzare che essi si considerino come notificati, anche se la notifica è tentata in luogo in cui è altamente probabile che non vada a buon fine, significa incidere irrimediabilmente sul diritto di difesa del soggetto.

Ma, potendo gli atti richiamati dal detto art. 28 essere notificati alla società estinta, ci si è chiesti come possa essere superata l’assenza di un legale rappre-sentante pro tempore e la mancanza (fisica) di una sede in cui recapitare gli atti impositivi, senza che tale costruzione immaginaria si riverberi in una lesione del diritto di difesa del contribuente, che non riuscirebbe ad avere effettiva conoscenza degli atti.

Una possibile soluzione è stata prospettata nel senso di far sopravvivere, oltre che la società, anche la sede ed il legale rappresentante

37; ma la stessa

34 Ancora FRANSONI, op. cit. 35 Sviluppando le osservazioni di FICARI, Cancellazione dal Registro delle imprese, “abuso

della cancellazione” e buona fede nei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente, in Riv. dir. trib., 2010, p. 1045 s., non si tratterebbe tanto di procedere all’inopponibilità fiscale della cancellazione della società, ma di contestare la continuazione della attività denunciata come cessata.

36 Per la condivisibile sottolineatura v. CARINCI, op. cit., p. 2843. 37 Ancora FRANSONI, op. cit., p. 47 ss.

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dottrina ha coerentemente segnalato che ciò comporterebbe il mantenimento non solo dell’organo, ma anche dell’assemblea (che presumibilmente conti-nuerebbe ad operare in ragione delle vecchie quote di partecipazioni sociali), nonché la capacità di assumere obbligazioni almeno per le spese del giudizio; in altri termini, causerebbe il mantenimento anche civilistico del vincolo sociale, mostrando così di essere incamminati su un terreno a dir poco impervio

38. La soluzione sopra prospettata, però

39, mostra tutte le lacune del sistema derivato a seguito dell’intervento del legislatore del 2014, non essendo stata prevista nel D.Lgs. n. 175/2014 un’espressa disciplina circa la notifica degli atti previsti dall’art. 28.

Un’eventuale soluzione con gli strumenti dell’ordinamento, che tenga con-to della realtà effettiva conseguente alla cancellazione delle società dal Registro delle imprese, potrebbe essere quella di trasformare uno strumento facoltati-vo

40 quale l’elezione di domicilio prevista dall’art. 60, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/1973, in uno strumento necessitato. E per far ciò occorrerebbe ovvia-mente un apposito intervento legislativo.

Ma, a ben vedere, si tratterebbe comunque di una soluzione parziale, poiché non risolverebbe, ad esempio, il problema della sostituzione del domiciliatario in caso di sua scomparsa né i problemi civilistici conseguenti all’assunzione di obbligazioni per la difesa. Con che pare dimostrata l’impossibilità di rimedia-re all’infelice formulazione normativa senza intervenire anche civilisticamente, almeno per i profili su riportati.

3. La questione della legittimazione processuale e dell’interesse ad agire

L’art. 2495 c.c. nulla afferma circa la sorte dei processi pendenti in cui la società – estinta civilisticamente – rivestiva la qualifica di parte processuale.

Parte della dottrina 41 ha indicato come conseguenza della cancellazione l’e-

stinzione dei processi in corso, data la mancanza di capacità processuale della società estinta.

38 Di tutte queste conseguenze non si è data peso la Circolare Ag. Entrate, 19 febbraio 2015, n. 6/E, che ha semplicemente affermato la permanenza della sede e dell’ex liquidatore.

39 Come rappresentato dallo stesso FRANSONI, op. cit. 40 Caldeggiato dalla ricordata Circolare Ag. Entrate, 19 febbraio 2015, n. 6/E. 41 In tal senso, GLENDI, L’estinzione postliquidativa delle società cancellate dal registro delle im-

prese. Un problema senza fine?, in Corr. giur., 2013, p. 10; ID., Cancellazione-estinzione della società e cessazione della materia del contendere nei giudizi in corso, in GT-Riv. giur. trib., 2011, p. 751.

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La Corte di Cassazione 42, invece, ha disposto che, qualora all’estinzione del-

la società, conseguente alla sua cancellazione dal Registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un particolare fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale le obbligazioni si trasferiscono ai soci, che ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali.

Secondo la Suprema Corte, invero, la cancellazione della società dal Regi-stro delle imprese determina, in capo ai soci, un fenomeno di tipo successorio ai sensi dell’art. 110 c.p.c. Sicché i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono

43, ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, o illimitatamente, a seconda del tipo sociale adottato; e ciò al fine di evitare che venga sacrificato ingiustamen-te il diritto dei creditori sociali.

L’estinzione della società sarebbe quindi lato sensu equiparabile alla morte della persona fisica, generando un fenomeno successorio sui generis in capo ai soci, ai sensi dell’art. 110 c.p.c., con l’interruzione del processo pendente in cui la società era parte. La cancellazione della società dal Registro delle impre-se in tale ricostruzione è, dunque, condizione necessaria e sufficiente per di-chiarare l’estinzione (sostanziale) della società.

La conseguenza è che il processo può esser proseguito dagli (o nei con-fronti degli) ex soci e, se l’estinzione non è stata rilevata e l’interruzione non si è verificata, l’impugnazione della sentenza deve essere proposta da o nei con-fronti dei soci. Il processo, in altri termini, continuerà, su impulso delle parti, tra parti processuali diverse da quelle originarie.

Secondo la Suprema Corte la ratio della norma di cui all’art. 2495 c.c. è quel-la di impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale che sfugge al controllo del debitore, espropriare il diritto di que-st’ultimo. Le Sezioni Unite hanno riconosciuto che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo ovviamente i limiti della responsabilità previsti. In altri termini, il venir meno della struttura organizza-tiva su cui si fonda la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa emergere il substrato personale che, in ogni caso ed in qualche misura, ne è comunque al-la base, rendendo plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini succes-

42 Cfr. Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072. 43 Cfr. Cass., sez. trib., n. 5735/2016.

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sori. Quindi, venuta meno la società, i soci restano gli effettivi titolari dei debi-ti nei limiti della responsabilità che essi avevano secondo il tipo societario prescelto

44. Tale essendo il quadro generale, per quanto concerne la materia tributaria,

tuttavia, le caratteristiche proprie del procedimento di accertamento in parte provocano una differenziazione dalla ricostruzione appena riportata: la respon-sabilità dei soci per i debiti tributari della società, a norma dell’art. 36, D.P.R. n. 602/1973, deve essere accertata con atto motivato ai sensi dell’art. 60, D.P.R. n. 600/1973.

I presupposti sui quali si fonda la responsabilità della società e del socio in ambito tributario sono, infatti, diversi: la prima è strettamente connessa alla violazione di una norma tributaria, mentre la seconda, diversamente, si fonda sulla percezione da parte dei soci, negli ultimi due periodi d’imposta prece-denti alla messa in liquidazione, di danaro o altri beni sociali. Alla luce di ciò, appare insuperabile l’obiezione di quella dottrina

45 che, commentando uno de-gli esiti giurisprudenziali appresso esposti, ha rilevato che la stessa struttura del processo tributario e la conseguente fissità del thema decidendum compor-tano, in realtà, un ostacolo insormontabile alla prosecuzione in capo agli ex soci del giudizio pendente per la società, poiché dovrebbe esser aggiunto l’elemen-to ulteriore della (allegazione, prima, e quindi della) prova del riparto, ma ciò equivarrebbe ad un’inammissibile integrazione della motivazione dell’atto im-positivo notificato alla società. E tale rilievo sembra comunque pertinente qua-lunque sia la soluzione adottata in tema di legittimazione processuale e di in-teresse ad agire.

La giurisprudenza, difatti, come cennato, si è articolata. Secondo un orientamento giurisprudenziale

46 – che richiama a sostegno

44 La sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 2013, richiamando l’art. 40, D.Lgs. n. 546/1992, ha statuito che «il debito del quale, in situazioni di tal genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s’identifica col medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la pro-pria originaria natura giuridica». In sostanza, una volta riassunto il processo, i soci o il liqui-datore dovranno rispondere per il debito sociale maturato nei confronti dell’Erario, verificati i presupposti ed i limiti quantitativi di cui detto in precedenza ex artt. 2495 c.c. e 36, D.P.R. n. 602/1973.

45 RAGUCCI, Onere della prova sull’Agenzia in caso di cancellazione della società dal registro delle imprese, in Corr. trib., 2015, p. 2493 s.

46 Tra le tante, cfr. Cass., sez. trib., 16 maggio 2012, nn. 7676 e 7679. Si veda anche, con differenti sfumature, Cass., ord. 23 novembre 2016, n. 23916 e, in precedenza, 26 giugno 2015, n. 13259, in Corr. trib., 2015, p. 2493 s. con nota di RAGUCCI, Onere della prova sull’Agenzia

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dell’interpretazione seguita l’art. 2495 c.c. e la ricordata sentenza della Corte di Cassazione, sez. un., n. 6070/2013 – a seguito dell’estinzione della società, difatti, si ha la legittimazione processuale del socio solo se questi abbia riscos-so somme a seguito della liquidazione, e nei limiti di ciò

47. Secondo altro indirizzo giurisprudenziale

48, invece, il limite di responsabi-lità dei soci di cui all’art. 2495 c.c. non incide sulla legittimazione processuale dei soci, ma, al più, sull’utilità concreta per il creditore di far valere le proprie ragioni e, dunque, sull’interesse ad agire. E, come cennato, qualora l’estinzio-ne della società intervenga in pendenza di un giudizio di cui essa è parte, si de-termina un evento interruttivo del processo, che, se non fatto constatare con gli strumenti ordinari, comporta che l’impugnazione della sentenza resa nei ri-guardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena di inammissibi-lità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti.

Un recente arresto giurisprudenziale 49, peraltro, ha ulteriormente afferma-

to, pur sempre richiamando le sentt. nn. 6070 e 6072/2013, di cui ha fornito però diversa lettura, che l’aver goduto di un riparto in base al bilancio finale di liquidazione non sarebbe dirimente nemmeno in relazione all’interesse ad agi-re, poiché il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio credito, non potendosi scartare l’eventualità che si possano verificare in futuro delle sopravvenienze attive o si possa scoprire l’esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio finale di liquidazione. Tale pronuncia – che è stata in genere mal decifrata dalla stampa, che ne ha persino tratto la conse-guenza, ovviamente mai enunciata in sentenza, della responsabilità illimitata dei soci di società di capitali

50 – ha apertamente preso le mosse da una visione in caso di cancellazione della società dal registro delle imprese, cit., ed in Riv. dir. fin., 2015, p. 61 s. con nota di MINUTOLI, Considerazioni sistematiche sulla responsabilità dei soci per debiti tri-butari di società estinte. Con riferimento alla sussistenza della legittimazione ad causam, v. in maniera esplicita Cass., 31 gennaio 2017, n. 2444, a commento particolare della quale v. PIAN-TAVIGNA-MARIELLA, La responsabilità dei soci per i debiti della società estinta, in Corr. trib., 2017, p. 2236 s. nonché BIANCHI, Le conseguenze sui processi tributari pendenti dell’incerta suc-cessione universale dei soci di una società cancellata, in G.T.-Riv. giur. trib., 2017, p. 672 s. V. an-che Cass., 9 ottobre 2015, n. 20358 con nota di GALLIO, Gli effetti processuali in caso di estin-zione di una società di capitali, in Corr. trib., 2016, p. 546.

47 Per la negazione della legittimazione processuale dell’ex liquidatore della società estin-ta cfr. Cass., sez. VI, 4 settembre 2017, n. 20752.

48 Cfr. Cass., sez. trib., 8 marzo 2017, n. 5988. 49 Cfr. Cass., sez. trib., 7 aprile 2017, n. 9094 nonché Cass., sez. trib., 16 giugno 2017, n.

15035. 50 Anche le considerazioni di CANCELLIERE-FERLITO, Società estinte, confini incerti sulla re-

sponsabilità degli ex soci, in Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2017, non sembrano convincenti.

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dinamica dell’interesse ad agire, che prescinde dalla considerazione dello stes-so allo stato degli atti.

È proprio questo fulcro del ragionamento giudiziale a costituirne il punto delicato. Difatti, l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. va valutato in ragione del-la domanda di parte e con riferimento al momento della presentazione della stessa, seppur debba sempre continuare a sussistere durante il corso del giudi-zio. Ciò che qui potrebbe esser messo in dubbio è il requisito della concretez-za e dell’attualità di un interesse ad agire in un giudizio in cui, secondo la stes-sa ipotesi di lavoro effettuata, non solo non si intravede una utilità immediata, ma nemmeno si può tratteggiare fondatamente una utilità con un certo grado di probabilità. Il dichiarato intento della Corte di proteggere l’interesse eraria-le “a procurarsi un titolo nei confronti dei soci”, rilevando che si tratterebbe comunque di un titolo condizionato ad eventuali (non escludibili ma nem-meno prevedibili) riparti futuri rende, a nostro sommesso avviso, evanescente lo stesso interesse ad agire, per mancanza di attualità. Occorre peraltro anche interrogarsi circa la compatibilità, con le norme processuali tributarie, di un’a-zione che consisterebbe, di fatto, in un accertamento

51, per giunta condizio-nato, di un debito.

È ben comprensibile che, nel ragionamento della Corte, sull’altro piatto della bilancia c’è da valutare che, argomentando diversamente, il creditore so-ciale Fisco potrebbe essere privato del proprio diritto di recuperare le somme vantate nei confronti della società estinta in caso di sopravvenienze attive, pur avendo, il creditore stesso, interesse al recupero del proprio credito. Il timore nasce ovviamente dalla considerazione degli ordinari termini di decadenza per effettuare gli accertamenti in capo agli ex soci.

Tuttavia, la questione non appare dissimile da quanto avviene in ambito civilistico per i normali creditori sociali, i quali per giunta potrebbero anche essere assoggettati a prescrizioni brevi in ragione della natura del loro credito. Ed allora non si vede perché non si possa adottare la soluzione prospettata dalla giurisprudenza civilistica

52, che, condizionando l’esperibilità dell’azione nei

51 Sulla inesperibilità di un’azione di accertamento dinanzi al giudice tributario v. TESAU-RO, Manuale del processo tributario, Torino, 2017, p. 55 s.; BASILAVECCHIA, Funzione impositi-va e forme di tutela, Torino, 2013, p. 47 s.

52 Cfr., ad es., Trib. Milano, 20 maggio 2013, Cass., sez. III, 23 settembre 2013, n. 21714, e Cass., sez. I, 8 novembre 2013, n. 25217, con nota di SANNA, Gli effetti della cancellazione dell’impresa e della società dal Registro delle imprese, in Giur. comm., 2015, p. 80 s. Tali senten-ze, riferite a vicende di imprenditori individuali, hanno applicato analogicamente (soprattut-to la sentenza del Tribunale di Milano) il comma 2 dell’art. 2495 c.c.

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confronti degli ex soci al verificarsi della conoscenza delle sopravvenienze at-tive, quale presupposto per la responsabilità degli stessi ex soci, espone i credi-tori sociali al pericolo di infruttuosità dell’azione per decorso del tempo.

Va anche richiamata una dottrina radicale 53, che, in aperto contrasto con la

giurisprudenza richiamata, ha sostenuto che la tesi della successione dei soci dopo l’estinzione post liquidativa della società non è fondata; pertanto, esclu-dendo la prospettabilità di ogni tipo di successione, è giunta ad affermare, come naturale conseguenza, la dichiarazione di cessazione della materia del contendere per i giudizi in corso, spettando in tal caso al creditore l’instaura-zione di un nuovo giudizio (in sede civile) o l’attivazione di altre procedure accertative (in ambito tributaristico), con possibile seguito dinanzi al giudice tributario. Venuta meno la società ed il correlato apparato economico che la supporta, non bisognerebbe lasciare in vita uno spettro e far continuare pro-cessi che non prendono atto della realtà fattuale ed anzi se ne distaccano for-temente. Tale tesi è approdata alla constatazione che gli sforzi legislativi do-vrebbero essere orientati all’aumento delle misure repressive nei confronti di chi effettua delle liquidazioni contra legem e non alimentare prospettive di ac-certamento e contenzioso nei confronti di soggetti non più esistenti.

4. I discussi profili circa l’irretroattività dell’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175/2014

Una ulteriore questione interpretativa si è posta con riferimento allo spet-tro temporale di applicazione delle nuove regole, giacché, non appena la rego-la dell’art. 28, D.Lgs. n. 175/2014 è entrata in vigore, un’interpretazione del-l’Amministrazione Finanziaria

54 ha sostenuto che essa, in quanto norma pro-cedurale che disciplinava le fasi di attuazione del tributo, trovasse applicazione anche per le attività di controllo riferite a società che avevano già chiesto la cancellazione dal Registro delle imprese o già cancellate dallo stesso Registro prima di quella data, nonché per attività di controllo riguardanti periodi pre-cedenti a tale data, dando alla stessa efficacia retroattiva.

Questa interpretazione cercava il suo appoggio anche in quella giurispru-denza di legittimità che aveva riconosciuto natura procedurale ed effetto re-troattivo a norme sopraggiunte in materia di accertamento da indagini finan-

53 Sempre in tal senso, GLENDI, L’estinzione postliquidativa delle società cancellate dal regi-stro delle imprese, cit., passim; ID., E intanto prosegue l’infinita “historia” dell’estinzione delle so-cietà cancellate dal Registro delle imprese, cit., p. 767.

54 Circolare Ag. Entrate, 19 febbraio 2015, n. 6/E.

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ziarie, da redditometro o, in via generale, da accertamenti di tipo induttivo. La Corte di Cassazione

55 ha, di contro, affermato che il ricordato art. 28 reca disposizioni di natura sostanziale sulla capacità delle società cancellate dal Registro delle imprese, non avendo, la stessa, valenza interpretativa, neppu-re implicita

56, ed ha ribadito la non retroattività della norma. La conseguenza è che il differimento quinquennale – operante nei soli con-

fronti dell’Amministrazione Finanziaria con riguardo a tributi e contributi – de-gli effetti dell’estinzione della società derivanti dall’art. 2495, comma 2, c.c., si applica esclusivamente ai casi in cui la richiesta di cancellazione della società dal Registro sia stata presentata nella vigenza della nuova disciplina dettata dal D.Lgs. n. 175/2014.

La norma – non risolvendosi in una diversa regolamentazione dei termini processuali o dei tempi e delle procedure di accertamento o di riscossione e ri-guardando piuttosto un ampliamento delle sfere di responsabilità dei soggetti ivi contemplati – deve difatti essere inquadrata quale norma sostanziale.

A sostegno di ciò, la Suprema Corte ha condivisibilmente richiamato due canoni ermeneutici fondamentali: l’art. 3, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale afferma che le disposizioni tributarie, salvi i casi di in-terpretazione autentica, non hanno effetto retroattivo, e l’art. 11 delle preleg-gi, secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire e non ha di regola effet-to retroattivo.

Entrambe tali norme di principio, pur potendo essere disattese da succes-sive norme di pari grado gerarchico per via della mancata costituzionalizzazione dello Statuto, costituiscono un criterio interpretativo di fondo

57, operante per i casi dubbi, qualora la disposizione tributaria successiva di pari grado nulla preveda espressamente circa la sua efficacia temporale. Come appunto è av-venuto.

55 Cfr. Cass., sez. trib., 2 aprile 2015, n. 6743, con nota di RAGUCCI, Le nuove regole sulla cancellazione delle società dal registro imprese valgono solo “pro futuro”, in Corr. trib., 2015, p. 1626 s., ove anche approfondimenti in ordine alla disciplina desumibile per le cancellazioni del-le società antecedenti il 1° gennaio 2004. In senso conforme, da ultimo, Cass., sez. VI, 4 set-tembre 2017, n. 20752.

56 In accordo con l’art. 1, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente. 57 È ben noto che l’impostazione dell’autorevole dottrina che ha affidato allo Statuto, e

massimamente alle sue prime norme, il compito di garantire «una disciplina tributaria scritta per principi, stabile nel tempo, affidabile e trasparente» (MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2010, p. 51 s.) ha avuto una forte eco nella giurisprudenza di legittimità, che ha spesso assegnato alle prime disposizioni dello Statuto una certa superiorità assiologica (cfr., tra le tante, Cass., sez. trib., 10 dicembre 2002, n. 17576 e 22 settembre 2011, n. 19377).

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E, peraltro, secondo la Suprema Corte, il legislatore delegato non avrebbe avuto neppure in astratto il potere di derogare i principi regolatori della mate-ria, perché la legge delega n. 23/2014 ha imposto il rispetto chiaro ed esplicito della L. n. 212/2000, che all’art. 3 statuisce l’irretroattività delle norme tribu-tarie.

Il tentativo di sostenere la tesi della retroattività alla luce della supposta na-tura procedimentale dell’atto, peraltro, come già evidenziato

58, non ha trova-to appigli testuali che potessero far concludere in tal senso

59, atteso che la so-spensione dell’efficacia della cancellazione non può nemmeno equipararsi, ad esempio, ad una proroga dei termini di accertamento.

5. Conclusioni

Si può quindi affermare che gli arresti giurisprudenziali formatisi successi-vamente all’intervento legislativo del 2014 hanno dimostrato, ove mai ve ne fosse bisogno, che la riforma in tema di estinzione delle società e di responsa-bilità dei liquidatori, amministratori e soci non è stata particolarmente felice.

Invero, l’intento dichiarato della semplificazione è apparso piuttosto mira-to all’ampliamento della sfera dei soggetti verso i quali rivolgere le pretese tri-butarie, in taluni casi oltre i limiti.

Ancora, come contrappeso alla asserita semplificazione si è già verificato un aggravamento delle procedure giudiziali, giacché la particolarità della noti-ficazione degli atti in luogo in cui non esistono più riferimenti fisici atti a ga-

58 Cfr. RAGUCCI, Le nuove regole sulla cancellazione delle società dal registro imprese valgono solo “pro futuro”, cit., che ha sottolineato che la natura sostanziale della disposizione è anche rivelata dal riferirsi alla capacità della società cancellata e non all’attività di accertamento.

59 La conclusione della irretroattività della disposizione introdotta dall’art. 28, comma 4, D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, è stata ribadita da Cass., sez. trib., ord. 23 maggio 2017, n. 12953. Peraltro, in tale ordinanza la Suprema Corte ha svolto affermazioni non convincenti, laddove, proprio partendo dalla non applicabilità della novella del 2014, ha concluso per la sus-sistenza del debito dei soci quali “successori” della sas senza prendere atto della notificazione a soggetto (debitore principale per IVA ed IRAP) estinto; ed ha ripetuto monotonamente il pur giusto refrain della responsabilità del socio per i debiti sociali secondo il modello di respon-sabilità previsto per il relativo tipo sociale senza tener conto che, trattandosi pur sempre di re-sponsabilità sussidiaria, occorre una regola derogatoria al principio generale per poter afferma-re che non sia applicabile il beneficio d’escussione ex art. 2304 c.c. (e non convince, per vero, a tal fine l’orientamento giurisprudenziale – pur nutrito e nel cui solco cfr. Cass., sez. trib., ord. 6 luglio 2016, n. 13805 sempre in tema di debiti fiscali della sas e del socio accomandatario – per cui detto beneficio operi solo limitatamente alla fase esecutiva).

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rantire la conoscibilità degli atti stessi da parte dei destinatari comporta una vi-stosa lesione del diritto difesa, che è fisiologicamente denunciata allorché in momenti successivi i soggetti previsti dalla norma sono chiamati personalmen-te a rispondere delle obbligazioni tributarie.

La stessa divaricazione delle posizioni giurisprudenziali è certamente il frutto di una disciplina positiva per certi versi carente, per altri eccessiva e per-sino ambigua.

Ciò può desumersi, ad esempio, dal conflitto tra la specificazione effettuata dalle Sezioni Unite

60 – secondo cui i soci andrebbero inquadrati quali successo-ri a titolo universale della società, nei limiti delle somme riscosse in base al bi-lancio finale di liquidazione, e non quali creditori della liquidazione che in ipo-tesi abbiano ricevuto più del dovuto, e perciò esposti ad una azione di arricchi-mento – ed il non condivisibile principio derivabile dalle ultime pronunce

61, che vedono i soci esposti ad un accertamento condizionato del debito fiscale pro futuro sebbene non abbiano riscosso in sede di liquidazione alcunché.

Lo stesso ampliamento della responsabilità dei liquidatori, se comprensibi-le nella sua logica, diventa fonte di forte contraddizione con i principi civilisti-ci e comunque di complicazione nonché di fisiologico allungamento dei ter-mini di chiusura delle liquidazioni societarie.

Difatti, come noto, secondo la disciplina modificata nel 2014, l’estinzione della società ai fini della liquidazione ha effetto, sotto i profili tributari, tra-scorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro delle imprese. Ed, in sostanza, il liquidatore di una società di capitali diventa responsabile personalmente del pagamento delle imposte accertate a carico della società se la liquidazione presentava un attivo e questo sia stato distribuito.

Una regola siffatta ha l’effetto di cristallizzare per cinque anni gli assetti delle società in liquidazione, almeno in tutti i frequenti casi in cui le persone dei liquidatori non siano corrispondenti agli ex amministratori, spingendo i liquidatori a non procedere a riparti sino a quando l’Amministrazione Finan-ziaria non abbia effettuato gli accertamenti o sino a quando i termini per effet-tuarli non siano decorsi

62. Il risultato della spinta legislativa pare eccessivo. In ultima analisi, l’intervento normativo che ha generato una così rilevante

60 Sempre Cass., sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070. 61 Cfr. Cass., sez. trib., n. 9094/2017. 62 Si può immaginare che i liquidatori di società, essendo il periodo di accertamento pro-

rogato al quinto anno successivo dalla data della richiesta di cancellazione della società, una volta realizzato l’attivo attenderanno il decorso dei termini per l’accertamento prima di pro-cedere al riparto dell’attivo stesso ed alla richiesta di cancellazione della società.

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Francesca Lorusso 695

difformità tra disciplina civilistica e disciplina fiscale della liquidazione delle società deve essere probabilmente verificato anche alla luce del principio di proporzionalità, sia per l’eccesso del mezzo rispetto al fine sia per il difetto di tutele generato

63. La tematica, quindi, pare bisognosa di migliorie normative e di interventi del-

la Corte costituzionale.

63 Su cui v. MOSCHETTI, Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nel diritto tributario, Padova, 2017, p. 169 s.

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Giuseppe Marini

L’ASSEGNO DIVORZILE TRA REDDITO E PATRIMONIO

THE DIVORCE CHECK BETWEEN INCOME AND CAPITAL

Abstract Il presente lavoro analizza una recente decisione della Corte di Cassazione relativa ai profili fiscali dell’assegno divorzile. In base all’art. 5, L. n. 898/1970, il Tribunale può ordinare ad un coniuge di pagare un assegno periodico (c.d. assegno di man-tenimento) in favore dell’altro. Siffatto assegno divorzile è fiscalmente deducibile per il coniuge erogante, in base all’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 917/1986; dall’altro lato, il coniuge ricevente deve dichiarare detti pagamenti come reddito ai sensi dell’art. 50, D.P.R. n. 917/1986. Invece dell’assegno di mantenimento, in ba-se all’art. 5, comma 8, L. n. 898/1970 è possibile che la corresponsione avvenga in un’unica soluzione in favore del coniuge che ha necessità di ricevere tale supporto. Detta corresponsione unica non è fiscalmente deducibile. La Corte rileva che que-ste disposizioni sono in linea con la differenza concettuale che intercorre tra “red-dito” e “capitale”. Parole chiave: assegno divorzile, reddito, capitale, deducibilità, indeducibilità The present paper analyzes a recent decision of the Italian Supreme Court concerning the issue of spousal support taxation. Pursuant to art. 5, par. 6, Law n. 898/1970, the Tribunal may order to one of the spouses a periodical payment in favour of the other (“alimony”). Such divorce check is tax deductible for the paying spouse, pursuant to art. 10, par. 1, lett. c), Presidential Decree n. 917/1986; on the other hand, the recipient spouse must report those payments as income according to art. 50 of Presidential Decree n. 917/1986. Instead of periodic payments, art. 5, par. 8, Law n. 898/1970 gives the possibility to make a unique lump sum payment to the spouse entitled to receive support. Such a one-off payment is not tax deductible. The Court considers that these provisions are consistent with the conceptual difference between “income” and “capital”. Keywords: divorce check, income, capital, deductible, non-deductible

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SOMMARIO: 1. La disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio. – 2. Trattamento tributario dei due asse-gni e dubbi di costituzionalità. – 3. Infondatezza dei dubbi di costituzionalità conseguente alla di-versa natura dei due assegni.

1. La disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio

La L. 1° dicembre 1970, n. 898 recante “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio” prevede all’art. 5, comma 6, che, congiuntamente alla senten-za con cui viene pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto di talune circostanze in tale artico-lo specificate (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo per-sonale ed economico dato da ciascuno alla condizione familiare ed alla forma-zione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimo-nio), disponga l’obbligo per un coniuge di «somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».

In alternativa a tale assegno che può definirsi “periodico”, il comma 8 dello stesso art. 5 stabilisce che su accordo delle parti la corresponsione possa av-venire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale, preclu-dendo in tale caso la proposizione di qualsiasi successiva domanda di conte-nuto economico.

2. Trattamento tributario dei due assegni e dubbi di costituzionalità

Il trattamento tributario dell’“assegno periodico” è diverso da quello rela-tivo all’assegno una tantum, essendo previsto espressamente solo per il primo che esso rappresenti per il coniuge erogante un onere deducibile ex art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 917/1986 e corrispondentemente per l’accipiens un reddito di lavoro dipendente ex art. 50, comma 1, lett. i), D.P.R. cit.

1.

1 Cfr. sul tema per una recente e dettagliata ricostruzione sistematica: TURCHI, La fami-glia nell’ordinamento tributario. Tra favore e limiti del sistema, Torino, 2015, p. 243 ma spec. pp. 259 ss. e 271 ss.; inoltre, tra i tanti, senza pretesa di completezza: FALSITTA, Principio di uguaglianza e rifiuto di tutela del diritto al giusto riparto (a proposito dell’arbitrario doppio re-

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Giuseppe Marini 699

L’interrogativo che pone una disciplina siffatta riguarda la sua legittimità costituzionale sotto l’aspetto della violazione sia del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. che di quello di capacità contributiva enunciato dall’art. 53 Cost.

2. Riguardo al primo parametro, è stato detto e ripetuto che limitare la dedu-

cibilità, dal reddito complessivo IRPEF dell’erogante, soltanto agli assegni pe-riodici verrebbe a comportare una discriminazione tra contribuenti che assol-vono, pur se con modalità diverse (periodicamente o una sola volta), lo stesso obbligo derivante dall’art. 5 della legge citata

3.

Mentre il principio di capacità contributiva sarebbe violato dal fatto che l’indeducibilità, in capo al solvens, dell’assegno una tantum avrebbe l’effetto di sottoporre a tassazione un reddito lordo e non già quello al netto del costo rappresentato dall’assegno con la conseguenza che in tal modo si verrebbe a tassare un reddito non effettivo

4.

3. Infondatezza dei dubbi di costituzionalità conseguente alla diversa natura dei due assegni

Ora, non a caso si può parlare, con l’ordinanza in commento, di diritto vi-vente in relazione a quello diretto ad affermare, dopo un iniziale contrasto di giurisprudenza, la deducibilità al coniuge divorziato soltanto delle correspon-sioni periodiche con esclusione di quelle effettuate in unica soluzione

5. gime fiscale dell’assegno divorzile, in ID., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, p. 275 ss.; GIOVANNINI, La rilevanza dei rapporti familiari nelle imposte sui redditi, in AA.VV., Il nuovo diritto di famiglia, Milano, 2015, p. 387 ss.; TARIGO, Profili tributari della separazione e del divorzio, in Riv. dir. trib., 2002, I, p. 263 ma spec. p. 281 ss.; VANZ, Trattamento, ai fini dell’imposizione diretta, dell’assegno una tantum corrisposto al coniuge divorziato, in Rass. trib., 1996, p. 1371 ss.; PEVERINI, Considerazioni in tema di legittimità costituzionale del doppio re-gime dell’assegno divorzile, in Rass. trib., 2009, p. 1055 ss.

2 Per una sintesi delle varie censure, ed in particolare riguardo a questi due parametri co-stituzionali: cfr. ancora TURCHI, op. cit., p. 255 ss.; PEVERINI, op. cit., p. 1058 ss.

3 Su questi aspetti della violazione del principio di uguaglianza v. FALSITTA, Principio di uguaglianza, cit., p. 282 ss.; VANZ, op. cit., p. 1379; PEVERINI, op. cit., p. 1065 ss.

4 Su questo profilo ed altri ad esso connessi v. FALSITTA, Principio di uguaglianza, cit., p. 276 ss.

5 La giurisprudenza più autorevole ha sempre sostenuto l’indeducibilità (e relativa intas-sabilità) dell’assegno divorzile erogato una tantum: cfr. Corte cost., 6 dicembre 2001, n. 383; Corte cost., 29 marzo 2007, n. 113; Cass., 12 ottobre 1999, n. 11437; Cass., 22 novembre 2002, n. 16462; Cass., 6 novembre 2006, n. 23659; Cass., 8 maggio 2015, n. 9336.

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La presenza di un diritto vivente 6 rende infatti definitivamente superata la

contraria giurisprudenza teorica e pratica 7.

Giurisprudenza, sia detto incidentalmente, che omette di considerare l’es-senziale diversità tra reddito e patrimonio

8: il primo caratterizzato, diversa-mente dal secondo, dal rilievo che in esso assume l’elemento del tempo. Il pa-trimonio, è stato efficacemente detto, è una realtà statica, il reddito invece è un fenomeno dinamico e cioè un flusso destinato a mutare a seconda del tempo che si prende in considerazione

9. Conclusivamente si può dire che mentre il reddito è un flusso di ricchezza

segnato dal decorso del tempo, il patrimonio è espressivo della ricchezza di un soggetto in un dato momento.

Da qui, come si è detto, il carattere dinamico del reddito rispetto a quello statico del patrimonio.

6 Ed è sufficiente citare in proposito l’ordinanza della Sezione filtro della Corte di Cassa-zione del 28 giugno 2012, n. 11022 che configura il principio in termini di ius receptum e la conforme decisione di cui all’ordinanza in commento.

7 L’aspetto centrale dell’intera problematica si incentra nel dover stabilire se assegno pe-riodico ed assegno una tantum abbiano quella identità di natura che verrebbe a legittimare l’identità di trattamento fiscale. E nonostante una autorevole opinione contraria (Falsitta), tale identità (dei due assegni) deve essere esclusa. Questo punto è sostanzialmente pacifico nella dottrina civilistica: cfr. QUADRI, Divorzio nel diritto civile e internazionale, in Dig. disc. priv., sez. civ., 1990, p. 537, spec. p. 541; GIACOBBE-VIRGADAMO, Il matrimonio. Separazione personale e divorzio, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, II, Torino, 2011, p. 72 ma spec. p. 78 ss.; BIANCA, La famiglia. Diritto civile, 2.1, Milano, 2014, p. 307 ss. Del resto tanto la Corte di Cassazione quanto la Corte costituzionale si sono orientate a ritenere che la de-ducibilità dell’assegno al coniuge divorziato è accordata soltanto alle corresponsioni periodi-che e non già a quelle effettuate in unica soluzione proprio in forza della sostanziale differen-za che intercorre tra l’assegno erogato una tantum e quello periodico.

8 Si veda Corte cost., 6 dicembre 2001, n. 383 ove l’Avvocatura sosteneva, nel difendere la legittimità costituzionale della disciplina tributaria della indeducibilità dell’assegno eroga-to una tantum, che la «corresponsione dell’importo in unica soluzione realizzerebbe una at-tribuzione patrimoniale cui non potrebbe essere riconosciuta la natura di reddito»; nello stesso senso poi si veda Cass., 12 ottobre 1999, n. 11437 che afferma come «all’oggetto della liquidazione si addice maggiormente la qualificazione dell’attribuzione patrimoniale una tan-tum piuttosto che quella di reddito»; v. anche Cass., 22 novembre 2002, n. 16462; Corte cost., 29 marzo 2007, n. 383; in dottrina anche VANZ, op. cit., pp. 1381 e 1382. Contra proprio su questo aspetto FALSITTA, Principio di uguaglianza, cit., p. 279 che sostiene che con questo argomento «l’Avvocatura erariale individua il nodo della questione ma sbaglia risposta».

9 Così TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, parte speciale, Milano, 2012, p. 11; altresì MARELLO, Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, Milano, 2006, p. 8 ss.; inoltre MAFFEZZONI, Profili di una teoria generale dell’imposta, Milano, 1969, p. 28 ss. che identifica il patrimonio in un «fondo di ricchezza a disposizione di un dato soggetto in un dato momento» e MARINI, Contributo allo studio dell’imposta comunale sugli immobili, Milano, 2000, p. 124 ss.

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Giuseppe Marini 701

Ne consegue la diversità dell’assegno c.d. periodico rispetto a quello in unica soluzione

10 e la legittimità di una disciplina differente per i due assegni senza ricorrere al comodo, forse troppo comodo, rifugio della discrezionalità del le-gislatore che non può essere intesa nel senso di fare ciò che al legislatore più aggrada.

Da ultimo, una valutazione positiva va riservata alla concisione dell’ordi-nanza in commento che è uno dei modi, e non certo l’ultimo, con cui si realiz-za il principio costituzionale, costantemente invocato e, duole dirlo, costan-temente disatteso, della ragionevole durata del processo. E se mi è consentito aggiungere un modo che si traduce in una esortazione al giudice di giudicare senza fare sfoggio, il più delle volte a tempo perso, di cultura giuridica.

10 La natura dell’assegno una tantum non può venir meno a seguito di una sua rateizza-zione (che tra l’altro potrebbe porre, sul piano civilistico, dei dubbi di legittimità in quanto la rateizzazione lascerebbe pendente una situazione che proprio la tipologia di assegno do-vrebbe rendere definitiva): il punto è approfondito da GIACOBBE-VIRGADAMO, op. cit., p. 79 e nota 119.

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Francesco Pepe

SULLA TENUTA GIURIDICA E SULLA PRATICABILITÀ GEO-POLITICA DELLA “DOTTRINA VESTAGER” IN MATERIA DI TAX RULINGS E AIUTI DI STATO ALLE

IMPRESE MULTINAZIONALI

ON THE LEGAL VALIDITY AND THE GEO-POLITICAL PRACTICABILITY OF THE “VESTAGER DOCTRINE” IN THE

FIELD OF TAX RULINGS AND STATE AID TO MULTINATIONAL ENTERPRISES

Abstract Il lavoro intende mostrare come l’utilizzo da parte della Commissione europea del-la normativa sugli aiuti di Stato al fine di contrastare pratiche di “concorrenza fisca-le dannosa” attuate mediante rulings fiscali in materia di transfer pricing, pur for-malmente coerente con la normativa europea, in realtà – per le tensioni che essa genera sul versante geo-politico, in specie nell’area UE – possa frustrare il fine ultimo dell’Unione stessa: l’“integrazione” tra gli Stati membri. Da qui la necessità – giuri-dica, fondata sui Trattati, e non semplicemente politica – di un suo ridimensiona-mento. Parole chiave: UE, aiuti di Stato, transfer pricing, concorrenza fiscale dannosa, im-prese multinazionali This work aims at showing how the use, by the European Commission, of the rules on State aid in order to tackle “harmful tax competition” practices implemented through tax rulings relating to transfer pricing, although formally in line with European legisla-tion, in reality – because of the tensions it generates on the geo-political side, especially in the EU – it may frustrate the ultimate aim of EU itself: the “integration” between the Member States. Hence the need – legal, founded on the Treaties, and not just political – of its downsizing. Keywords: EU, State aid, transfer pricing, harmful tax competition, multinational en-terprises

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 704

SOMMARIO: I. INTRODUZIONE. – 1. Premessa: il nuovo approccio della Commissione europea ai tax rulings in favore delle MNEs (c.d. “dottrina Vestager”). – 2. La “dottrina Vestager”: il contesto. – 3. I tratti caratterizzanti la “dottrina Vestager”: novità apparenti (la presunta sovrapposizione di “vantaggio” e “selettività” dell’aiuto e la loro asserita valutazione unitaria) ... – 4. Segue: ... e novità reali (la ma-trice propriamente individuale ed amministrativa dell’aiuto). – II. IL RILIEVO GEO-POLITICO DEI RISVOLTI GIURIDICI DELLA “DOTTRINA VESTAGER”. – 5. L’assunzione da parte della Commissio-ne di un potere di accertamento tributario: infondatezza sul piano giuridico e formale ... – 6. Se-gue: ... ma sostanziale veridicità. L’alterazione in fatto delle competenze e dei rapporti tra Unione e Stati membri. – 7. La divergenza nella declinazione dell’ALP: il carattere marginale delle que-stioni giuridiche ... – 8. Segue: ... ed il maggior spessore dei relativi riflessi geo-politici. – 9. La non gestibilità procedurale “a regime” della “dottrina Vestager”: rischi e problemi geo-politici legati alla preventiva notificazione dei rulings ed all’eventuale recupero dell’aiuto. – III. IL RILIEVO GIURIDICO DEI RISVOLTI GEO-POLITICI DELLA “DOTTRINA VESTAGER”. – 10. La rilevanza giuridica dei risvolti geo-politici delle azioni delle istituzioni europee: una breve premessa. – 11. Segue: l’evoluzione del diritto UE nel quadro dei c.d. processi di “integrazione politica internazionale”. – 12. Segue: l’inte-grazione tra gli Stati membri come fine ultimo e ragion d’essere fondante l’UE: riflessi sul piano dell’interpretazione del diritto UE e dell’implementazione delle politiche europee. – IV. CONSI-DERAZIONI CONCLUSIVE. – 13. I rischi geo-politici della “dottrina Vestager” e l’esigenza di un suo ri-dimensionamento. Una proposta.

I. INTRODUZIONE

1. Premessa: il nuovo approccio della Commissione europea ai tax rulings in favore delle MNEs (c.d. “dottrina Vestager”)

È noto come, sin dal suo insediamento sotto la presidenza Juncker, ed in coerenza con le linee programmatiche di quest’ultimo

1, il Commissario euro-peo alla concorrenza Margrethe Vestager abbia espresso la ferma intenzione di perseguire quegli Stati membri che – attraverso rulings fiscali – consentono a

1 Tra i punti qualificanti del programma politico del presidente Jean-Claude Juncker vi è anche la necessità di una «maggiore equità nel mercato interno. Ferma restando la competen-za degli Stati membri in materia di regimi fiscali nazionali, dovremmo intensificare l’impegno di lotta all’evasione e all’elusione fiscali per assicurare che ciascuno versi il giusto contributo»: così, nel suo discorso di insediamento, JUNCKER, Un nuovo inizio per l’Europa. Il mio programma per l’occupazione, la crescita, l’equità e il cambiamento democratico, Strasburgo, 15 luglio 2014, p. 7, reperibile, in versione italiana, su http://ec.europa.eu/priorities/sites/beta-political/files/ juncker-political-guidelines-speech_it.pdf.

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Francesco Pepe 705

gruppi multinazionali (multi-national enterprises: MNEs) di scontare sui pro-pri profitti globali una imposizione irrisoria, se non nulla, a danno delle imprese domestiche (stand-alone enterprises: SAEs) concorrenti, strutturalmente inca-paci di “sfruttare” analoghi benefici

2. È altrettanto noto come ad una simile dichiarazione di intenti abbia fatto se-

guito una azione concreta della Commissione, sfociata, da un lato, nelle deci-sioni relative ai casi delle imprese Fiat-FCO, Starbuck’s, al regime fiscale belga di esenzione degli “utili in eccesso” (Excess Profit Exemption) e, soprattutto, al ca-so Apple, coinvolgenti – rispettivamente – Lussemburgo, Paesi Bassi, Belgio e Irlanda; dall’altro, nell’avvio di indagini formali nei confronti di McDonald’s, Amazon e GDF Suez (“Engie”), per rulings loro concessi dal Lussemburgo

3. Da queste decisioni e dagli altri procedimenti di indagine, nonché da una

serie di documenti successivamente pubblicati dalla stessa Commissione 4, sem-

bra emergere un nuovo approccio alla fiscalità delle MNEs in Europa, una vera e propria “dottrina” dotata di una sua razionalità e coerenza interna. L’aspetto interessante di tale linea di azione sta nel fatto che essa – oltre ad essere oggetto di discussione quanto alla propria fondatezza giuridica – ha attirato l’attenzio-

2 Si veda VESTAGER, Speech at High Level Forum at Member States, 18 dicembre 2014, discor-so di insediamento del Commissario Vestager, reperibile su http://ec.europa.eu/commission/ 2014-2019/vestager/announcements/speech-high-level-forum-member-states-margrethe-vestager- commissioner-competition-18-december-2014_en: «I’m therefore glad that the working group has focused some attention on compliance issues, and I warmly welcome its recommendations on those points. But we need to go further. It is not just a matter of formal compliance, but of ensuring that prac-tices such as tax treatment of large multinationals or firms in difficulty are truly in line with the State aid rules. Therefore, I will take swift and decisive action against breaches of the rules, as in the case of the EU-wide investigation on tax rulings that I have announced. And I will expect Member States to follow up effectively and in a timely manner whenever the Commission orders recovery of State aid paid contrary to the rules»; nonché, da ultimo, e più ampiamente, ID., The EU State aid rules: working together for fair competition, 3 giugno 2016, reperibile su http://ec.europa.eu/commission/ 2014-2019/vestager/announcements/eu-state-aid-rules-working-together-fair-competition_en.

3 Per un quadro sintetico delle decisioni e dei procedimenti di indagine formale avviati dalla Commissione in relazione a citati casi di tax rulings, si consulti http://ec.europa.eu/ competition/state_aid/tax_rulings/index_en.html; per una analisi critica, cfr. CACHIA, Analy-sing the European Commission’s Final Decisions on Apple, Starbucks, Amazon and Fiat Finance & Trade, in EC Tax Review, n. 1, 2017, p. 23.

4 Si vuol far riferimento, in special modo, a DG COMPETITION, Working paper on state aid and tax rulings, 3 giugno 2016, reperibile su http://ec.europa.eu/competition/state_aid/ legislation/working_paper_tax_rulings.pdf; COMMISSIONE EUROPEA, Comunicazione della Com-missione sulla nozione di aiuto di Stato di cui all’articolo 107, paragrafo 1, del trattato sul funzio-namento dell’Unione europea, 19 luglio 2016 (2016/C 262/01), spec. par. 169 ss. reperibile nella versione italiana su http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX: 52016XC0719(05)&from=EN.

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ne dei commentatori soprattutto per il suo potenziale impatto sul piano geo-politico. Questo il focus principale non solo – come è ovvio che sia – dei media e degli analisti di politica internazionale

5, ma anche di alcuni giuristi, i quali (per lo più a margine del caso Apple) hanno posto l’accento sulle ripercussio-ni che il “cambio di rotta” della Commissione – in passato “tollerante” verso si-mili tax rulings – può avere sul versante dei rapporti internazionali

6, in specie nei rapporti con gli Stati Uniti, indirettamente coinvolti in tali contenziosi

7. Sul punto si tornerà in prosieguo. Ciò che qui si vuole evidenziare è che

questo interesse per i profili politici della “dottrina Vestager”, anche da parte di giuristi, sembra del tutto ragionevole. A sommesso avviso di chi scrive, in-fatti, si intuisce correttamente come la tenuta giuridica di quest’ultima non pos-sa che essere valutata prendendo in considerazione anche (e forse soprattutto) la sua praticabilità sul piano politico-internazionale. Come si tenterà di mostrare

8, il combinare analisi giuridica e geo-politica – sebbene possa apparire tale – non costituisce in realtà una indebita “invasione di campo” del giurista in aree scien-

5 ARESU, La globalizzazione dopo il caso Apple-Irlanda-Ue, in limesonline.com, 8 settembre 2016; MINASI, L’Ue e il fascino indiscreto degli aiuti di Stato, in http://www.affarinternazionali.it/ articolo.asp?ID=3629.

6 Cfr. GREGGI, Usa-Ue: partita a scacchi sulle tasse delle imprese, 2 settembre 2016, in http://www.lavoce.info/archives/42637/usa-ue-partita-a-scacchi-sul-fisco/; BASTIANON, La vicen-da Apple e gli aiuti di Stato irlandesi: la mela, il bastone e la carota, in Eurojus, n. 3.3, 2016, re-peribile su http://rivista.eurojus.it/la-vicenda-apple-e-gli-aiuti-di-stato-irlandesi-la-mela-il-bastone-e-la-carota/; D’AGNONE, Illegal State Aids and Multinational Companies: The European Com-mission Decision on the Apple – Ireland Tax Ruling, in European Papers, 20 settembre 2016, re-peribile su http://www.europeanpapers.eu/en/europeanforum/illegal-state-aids-and-multinational- companies#_ftnref12; LOVDHAL GORMSEN, Has the Commission Taken Too Big a Bite of The Apple?, in European papers, European Forum, 20 dicembre 2016, reperibile su http:// www.europeanpapers.eu/it/system/files/pdf_version/EP_EF_2016_I_060_Liza_Lovdahl_ Gormsen.pdf; ROSSOLILLO, Mercato, fiscalità, sovranità: il trattamento fiscale di Apple in Irlan-da, in SIDIBlog, 26 settembre 2016; BAL, Tax Rulings and State Aid Investigations: The Apple Case, in IBDF White Paper, 1° ottobre 2016. In generale, sottolinea la dimensione essenzial-mente politica del problema relativo al contrasto dell’elusione e delle frodi fiscali internazio-nali AUJEAN, Fighting Tax Fraud and Evasion: In Search of a Tax Strategy?, in EC Tax Review, n. 2, 2013, pp. 64-65.

7 Si veda la formale rimostranza del governo statunitense avverso la “nuova” linea di azione intrapresa dalla Commissione europea in materia di tax rulings e MNEs; linea conte-stata non solo sul piano del suo fondamento giuridico, ma anche per la sua capacità di com-promettere i rapporti tra USA, OCSE e UE: US DEPT. TREASURY, The European Commission’s recent state aid investigation of transfer pricing rules, in White Paper, 24 agosto 2016; sul punto, CHOI, US Treasury Department espresse concerns with Europena Commission’s State aid investi-gation, in IBDF, 12 ottobre 2016, reperibile su www.ibdf.org.

8 Cfr. infra, spec. par. 12.

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tifiche ad egli estranee. Certamente, ciò impone a quest’ultimo di affrontare problemi (attinenti all’analisi delle relazioni internazionali) che altri hanno eletto ad oggetto specifico del proprio studio e che quindi meglio conoscono

9. Tuttavia trattando queste tematiche ci si trova, in qualche misura, costretti ad allargare in tale direzione l’orizzonte conoscitivo. Potrebbe dirsi – anzi – che è proprio un’analisi nella prospettiva del diritto europeo (quindi giuridica) ad im-porre una metodologia di indagine “integrata” (giuridica e geo-politica) o, se si preferisce, “contestualizzata”

10. Prima di mettere in luce le ragioni sostanziali e metodologiche di tale affermazione, occorre tuttavia evidenziare i tratti ca-ratterizzanti la “dottrina Vestager”.

2. La “dottrina Vestager”: il contesto

In estrema sintesi, il “nocciolo” della linea di azione della Commissione eu-ropea sta nella necessità che simili accordi – in maggioranza costituenti ad-vanced pricing agreement (APA) a carattere unilaterale – per non incappare in una violazione della normativa UE sugli aiuti di Stato (artt. 107 ss. TFUE), siano rispettosi del c.d. arm’s lenght principle (ALP); apprezzino cioè le rela-zioni economiche intra-gruppo come se fossero poste in essere tra imprese in-dipendenti

11. Questo approccio è stato ricondotto dalla stessa Commissione 12

entro il più ampio quadro delle azioni finalizzate ad una imposizione “equa ed effettiva” nell’ambito del mercato comune predisposte dall’Unione

13 ed in

9 Sviluppa questa tematica, in particolare, da ultimo, RING, Who is Making International Tax Policy? International Organizations as Power Players in a High Stakes World, in Fordham International Law Journal, n. 3, 2010, 33, p. 649 ss.; GRINBERG, The New International Tax Diplomacy, in The Georgetown Law Journal, 2016, 104, p. 1137 ss.

10 Sulla esigenza di uno studio del diritto tributario internazionale non solo in una pro-spettiva gius-economica (incentrata sul solo valore della “efficienza”), ma nella considerazio-ne altresì dei fattori storici, politici, sociali, istituzionali, si veda COCKFIELD, Purism and Con-textualism within International Tax Law Analysis: How Traditional Analysis Fails Developing Countries, in Journal of Tax Research, n. 2, 2007, p. 199 ss., spec. p. 214, nota 57 per un’ampia rassegna degli Autori che seguono tale approccio.

11 In tal senso, si rinvia a DG COMPETITION, op. cit., par. 13 ss. 12 Cfr. COMMISSIONE EUROPEA, La Commissione decide: i vantaggi fiscali selettivi concessi a

Fiat in Lussemburgo e a Starbucks nei Paesi Bassi sono illegali ai sensi delle norme UE sugli aiuti di Stato (comunicato stampa del 21 giugno 2015), reperibile in versione italiana su http:// europa.eu/rapid/press-release_IP-15-5880_it.htm; ID., Aiuti di Stato: l’Irlanda ha concesso ad Apple vantaggi fiscali illegali per un totale di 13 miliardi di EUR (comunicato stampa del 30 agosto 2016), reperibile in versione italiana su http://europa.eu/rapid/press-release_IP-16-2923_it.htm.

13 Si intende far riferimento, molto sinteticamente, al Codice di condotta sulla tassazione delle

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stretta connessione al progetto BEPS (Base Erosion and Profits Shifting) elabo-rato dall’OCSE

14. Ciò che qui si tenta di “colpire” è, infatti, quello che costi-tuisce il normale escamotage contabile-fiscale di (artificiale) “de-localizzazione” dei profitti delle MNEs.

Il processo di internazionalizzazione dell’economia, essenzialmente conno-tato dall’abbattimento degli ostacoli al commercio e dalla libertà di localizza-zione della propria impresa tra i vari Stati

15, ha inevitabilmente messo in com-petizione i diversi ordinamenti giuridici nazionali e, in specie, gli ordinamenti tributari

16. La variabile fiscale “locale” (intesa in senso lato) 17 ha finito così per

assumere – dal punto di vista di una grande impresa che intenda operare in una prospettiva trans-nazionale

18 – un ruolo determinante nelle proprie scelte or- imprese (1998) ed alla attività di monitoraggio svolta dal relativo Gruppo (“Primarolo”); al sempre più intenso impiego della disciplina europea in materia di aiuti di Stato per contrastare regimi fiscali preferenziali (a partire dalla Comunicazione sulla nozione di “aiuto di Stato” del 1998 fino ad oggi); all’Action Plan For Corporate Taxation (2015); al recente Anti Tax-Avoidance Package (ATAP, 2016).

14 Cfr. in particolare l’OECD Report on Harmful Tax Practices (1998, 2001) ed al citato progetto BEPS (Action Plan 2013; Package 2015).

15 Il processo di “internazionalizzazione” dell’economia e dei mercati – sebbene a volte pre-sentato come tale – costituisce non un “naturale” sviluppo dell’economia, ma pur sempre il frutto di ben precise scelte politiche, adottate a livello sovra-nazionale ed ispirate ad un model-lo economico fortemente liberista, tutt’altro che irreversibili (come sembra dimostrare l’in-dirizzo “protezionistico” assunto dalla neo-insediata amministrazione Trump al governo de-gli Stati Uniti). Sul tema, si veda la ricostruzione storica di V. TANZI, Globalization and Taxa-tion: A Brief Historical Survey, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, I, p. 3 ss.; ID., Coordinamento dei Sistemi Tributari e Tentativi di Riforme, in AA.VV., Per un nuovo ordinamento tributario, I, ed. provv., Fondazione A. Uckmar, s.d. (ma 2016), p. 31 ss.; nonché, più in generale, sullo svi-luppo del commercio internazionale quale conseguenza di accordi tra Stati nazionali, FOCA-RELLI, Economia globale e diritto internazionale, Bologna, 2016; MARRELLA, Manuale di diritto del commercio internazionale, Milanofiori Assago, 2017.

16 CIPOLLINA, Armonizzazione vs. competizione fiscale: il trade-off Europa-Italia, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2004, p. 93 ss.; ID., I confini giuridici del tempo presente. Il caso del diritto fiscale, Mi-lano, 2003, p. 113 ss.

17 Ad incidere sulle scelte di “localizzazione” di una impresa, quanto meno sul versante tributario, non è solo la dimensione quantitativa del prelievo (tax burden), ma anche (e a volte soprattutto) altri fattori di ordine politico, organizzativo, procedurale e giudiziario: la sem-plicità del sistema fiscale, la certezza del diritto, l’efficienza della giustizia tributaria, il modo di esplicarsi dei rapporti tra contribuenti e fisco, la possibilità di avvalersi di strumenti di tax compliance, ecc.

18 Come noto, esistono diversi gradi di “penetrazione” di una impresa nei mercati esteri (e, correlativamente, di “internazionalizzazione” dell’impresa): i) dal semplice operare come esportatore, senza avvalersi di alcuna struttura estera, passando per ii) l’installazione di una “sede fissa d’affari” nel territorio straniero, giuridicamente non indipendente dalla “casa madre” (branch), tuttavia suscettibile di assumere la consistenza di “stabile organizzazione” ai fini fisca-

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Francesco Pepe 709

ganizzative e strategiche, rendendo fondamentale una adeguata attività di tax planning su base internazionale. In particolare, la possibilità di “disarticolare” la propria value chain

19 in più entità giuridiche formalmente autonome rispet-to al titolare dell’impresa, ma da esso controllate (controlled foreign companies: CFCs) – oltre a comportare alcuni vantaggi sul piano aziendalistico (in ter-mini di efficienza economica)

20 – fornisce alle MNEs diverse opportunità di ri-duzione del proprio carico fiscale complessivo

21. In primo luogo, è possibile organizzare la topografia del gruppo in modo

da sfruttare: (a) sia eventuali “disallineamenti” nel trattamento fiscale riserva-to – nell’ambito di diverse tax jurisdictions, su base nazionale o convenzionale – a specifiche operazioni economiche “cross-border”, che (b) “disallineamenti” nel-lo statuto tributario di determinate strutture (forme societarie, atti e negozi giuridici) che, in un’ottica trans-nazionale, appaiono dunque c.d. “ibride” (hy-brid mismatch arrangements: HMAs)

22. Il tutto al fine di realizzare risultati espri- li (permanent establishment: PE), si arriva al massimo grado di internazionalizzazione, costi-tuito per l’appunto dalle iii) MNEs, gruppi di società, ciascuna delle quali è formalmente au-tonoma e dislocata in diverso ordinamento, ma sottoposta al controllo (diretto o indiretto) ed alla direzione unitaria da una holding. Qui ed in prosieguo il discorso riguarerà esclusiva-mente quest’ultima ipotesi.

19 Per utilizzare l’espressione coniata da PORTER, Competitive Advantage: Creating and Su-staining Superior Performance, New York, 1985.

20 In specie, la segmentazione del rischio d’impresa, la specializzazione delle singole fun-zioni (ove ripartite tra le varie subsidiaries), la semplificazione dei rapporti con la Pubblica Am-ministrazione e gli operatori locali, la possibilità di meglio implementare politiche di svilup-po locali, ecc.

21 Sul tema, si veda, anche per ampi riferimenti, CIPOLLINA, I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, I, spec. p. 27 ss., ove in particolare si rileva come la forme di pianificazione fiscale aggressiva realizzate dalle MNEs da sempre siano esistite; tuttavia, la recente più incisiva internazionalizzazione dell’econo-mia, nonché la de-materializzazione della ricchezza (attraverso il ruolo sempre più rilevante degli intangibles) abbia incrementato tali prassi e le abbiano rese molto più difficili da contra-stare (in specie, per la complessità, se non impossibilità di determinare un valore normale “oggettivo” nei confronti di un ampio ventaglio di beni immateriali); nonché PICCIOTTO, International Business Taxation. A Study in Internationalization of Business Regulation, Cambrid-ge, 1992 (rist. elettr. 2013), reperibile su http://www.taxjustice.net/cms/upload/pdf/Picciotto% 201992%20International%20Business%20Taxation.pdf; SALVINI, I regimi fiscali e la concorren-za tra imprese, in Giur. comm., 2016, I, p. 130, spec. p. 135 ss.; PISTONE, La pianificazione fi-scale aggressiva e le categorie concettuali del diritto tributario globale, in Riv. trim. dir. trib., 2016, p. 395 ss.; CALDERÒN CARRERO-QUINTAS SEARA, The Concept of ‘Aggressive Tax Planning’ Laun-ched by the OECD and the EU Commission in the BEPS Era: Redefining the Border between Le-gitimate and Illegitimate Tax Planning, in Intertax, n. 14, 2016, p. 206 ss.

22 OECD, Le Strutture Ibride (Hybrid Mismatch Arrangements), OECD marzo 2015, repe-ribile su www.oecd.org.

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mibili in termini di doppie deduzioni (del medesimo costo), di deduzione/non imposizione (rispettivamente di un costo e del corrispondente provento), ov-vero di generazione artificiosa di crediti d’imposta per redditi esteri.

In secondo luogo, ed anche in presenza di regimi fiscali nazionali perfet-tamente simmetrici, un diverso tax burden (gravante sulla ricchezza che il sin-golo elemento concorre a formare) può spingere ad una manipolazione dei c.d. “prezzi di trasferimento” nell’ambito di operazioni infra-gruppo, alimen-tata dall’assenza di reale contrasto di interessi tra le parti correlate, la cui so-vra- o sotto-valutazione consente infatti di “dirottare” ampia parte dei profitti d’impresa verso giurisdizioni fiscali meno onerose (c.d. politiche di transfer pricing: TP).

In tale contesto, non essendo ancora maturi i tempi per una armonizzazio-ne dei sistemi impositivi nazionali, è ben presto emersa, sia in sede OCSE che UE, l’esigenza di dare almeno una regola alla “competizione fiscale” tra i vari ordinamenti, una regola che cioè ne eliminasse gli aspetti “dannosi” per un cor-retto funzionamento del mercato unico

23. Il diritto tributario, anche grazie all’opera di analisi svolta in seno ad orga-

nizzazioni internazionali (OCSE, UE), da tempo conosce questi aspetti e ha implementato (e sta implementando) strumenti in grado di incidere, più o me-no efficacemente, su ciascuno di essi

24: (i) incentivando “a monte” una gradua-le riduzione delle asimmetrie legislative tra i vari paesi

25; (ii) vietando normati-

23 Sul punto, per un’analisi dell’approccio assunto in sede UE, si rinvia a MELIS, (voce) Coordinamento fiscale nell’Unione europea, in Enc. dir., Annali I, 2007, spec. p. 406 ss.

24 Su ciascuno di questi aspetti, si rinvia sin d’ora, anche per ampi riferimenti, a AMATUCCI, L’adeguamento dell’ordinamento tributario nazionale alle linee guida dell’OCSE e dell’UE in mate-ria di lotta alla pianificazione fiscale aggressiva, in Riv. trim. dir. trib., 2015, p. 3 ss., nonché alla più recente manualistica di diritto tributario internazionale ed europeo, ed in specie a: CORDEIRO GUERRA, Diritto tributario internazionale. Istituzioni2, Milanofiori Assago, 2016; SACCHETTO (a cura di), Principi di diritto tributario europeo e internazionale2, Torino, 2016; TOSI-BAGGIO, Li-neamenti di diritto tributario internazionale, Milanofiori Assago, 2016; BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2015; nonché i diversi contributi in AMATUCCI-CORDEIRO GUERRA (a cura di), L’evasione e l’elusione fiscale in ambito nazionale e internazionale, Canterano, 2016.

25 Sotto questo profilo, si segnala, in area UE, la proposta di istituire una Common Consoli-dated Corporate Tax Base (c.d. CCCTB) già formulata dalla Commissione europea nel 2011 [COM(2011) 121/4] e recentemente ripresa e rilanciata come uno degli elementi chiave del c.d. Corporate Tax Reform Package dell’ottobre 2016 [cfr. la Chapeau Communication COM (2016) 682 final]. A differenza di quanto avvenne nel 2011, la realizzazione della CCCTB è stata articolata in due fasi, la prima delle quali prevede l’introduzione di una Common Corporta-te Tax Base (c.d. CCTB) [COM(2016) 685 final], destinata poi a sfociare in una base non solo comune, ma anche “consolidata” [COM(2016) 683 final]. Per ogni informazione e docu-mento su tali proposte, si consulti il sito web http://ec.europa.eu/taxation_customs/business/

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Francesco Pepe 711

vamente l’abuso del diritto e lo “sfruttamento” dei disallineamenti tra sistemi impositivi

26; (iii) incentivando o imponendo lo scambio sistematico di infor-mazioni tra Amministrazioni Finanziarie nazionali

27; (iv) agevolando l’assisten-

company-tax/common-consolidated-corporate-tax-base-ccctb_en. In ambito internazionale, ri-leva invece la spinta verso un approccio multilaterale nella stipula delle convenzioni interna-zionali in materia fiscale, promosso dal progetto BEPS-OCSE (Action 13) e destinato a ri-durre i disallineamenti emergenti dal network di DTCs bilaterali stipulate dagli Stati, spesso foriere di arbitraggi fiscali (c.d. treaty shopping): cfr. al riguardo OECD, Developing a Multila-teral Instrument to Modify Bilateral Tax Treaties, Action 15-2015 Final Report, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, Paris, 2015, reperibile su http://www.oecd.org/tax/ developing-a-multilateral-instrument-to-modify-bilateral-tax-treaties-action-15-2015-final-report- 9789264241688-en.htm.

26 Si veda, in particolare, in area UE, la Direttiva (UE), n. 2016/1164 del Consiglio del 12 lu-glio 2016, recante “norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul funzio-namento del mercato interno” (c.d. Anti Tax Avoidance Directive: ATAD), volta all’introduzione negli ordinamenti dei singoli Stati membri di regole omogenee in materia di: CFCs, HMAs, clausola generale anti-abuso, imposizione “in uscita” e deducibilità degli interessi di fonte estera. Sul punto, per ogni informazione si consulti il sito web http://ec.europa.eu/taxation_customs/ business/company-tax/anti-tax-avoidance-package/anti-tax-avoidance-directive_en; sulla ATAD, si veda NAVARRO-PARADA-SCHWARZ, The Proposal for an EU Anti-avoidance Directive: some preli-minary thoughts, in EC Tax Review, n. 3, 2016, p. 123 ss.; sulla genesi e sulle caratteristiche della clausola generale anti-abuso italiana, oggi confluita nell’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente (introdotta dall’art. 1, D.Lgs. n. 128/2015, in attuazione dell’art. 5, legge delega n. 23/2014 e sulla scia di quanto richiesto dalla COMMISSIONE EUROPEA, Raccomandazione sulla pianificazione fiscale aggressiva, C(2012) 8806 final, 6 dicembre 2012), si veda in special modo GALLO, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, p. 1315; RUS-SO, Profili storici e sistematici in tema di elusione ed abuso del diritto in materia tributaria: spunti cri-tici e ricostruttivi, in Dir. prat. trib., 2016, I, p. 1; STEVANATO, Elusione fiscale e abuso del diritto nell’ambigua formulazione dell’art. 10-bis della L. 212/2000, in MIELE (a cura di), Il nuovo abuso del diritto. Analisi normativa e casi pratici, Torino, 2016, p. 49 ss.; sui sistemi di contrasto all’uso di CFCs a soli fini tributari, si veda, per una analisi comparata, BIZIOLI-GRANDINETTI, I modelli legislativi in materia di controlled foreign companies, in AMATUCCI-CORDEIRO GUERRA (a cura di), op. cit., p. 563 ss.

27 Lo scambio di informazioni tra Amministrazioni Finanziarie assume, nella prospettiva internazionale, una rilevanza sempre maggiore, non solo al fine di garantire l’effettività della tassazione interna ove legata a “fattispecie con elementi di estraneità” e di consentire una corretta applicazione delle DTCs, ma altresì – oggi – per contrastare il fenomeno della eva-sione ed elusione fiscale internazionale. Non a caso a tale scambio è stato assegnato un ruolo fondamentale dai Paesi del G-20 (vertice di Londra del 2 aprile 2009), da cui è scaturita, in sede OCSE, la ridefinizione, in funzione della loro maggiore o minore trasparenza, della no-zione di “tax haven” e la previsione a tal fine di uno standard internazionale informativo mol-to stringente (da rispettare cioè per acquisire lo status di “giurisdizione collaborativa”). Quanto allo sviluppo della regolamentazione dello scambio di informazioni, a livello interna-zionale si considerino: i) la progressiva emancipazione dell’art. 26 Modello OCSE di DTC, volto a regolare lo scambio di informazioni tra le parti contraenti, dallo scopo e dall’oggetto

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za alla riscossione dei crediti fiscali all’estero 28; (v) contrastando, normativa-

della convezione; art. 26 cit. inizialmente circoscritto infatti alle sole informazioni necessarie per la corretta applicazione della convenzione nell’interesse quindi del solo contribuente e limitatamente ai tributi che ne erano oggetto (versione 1963); poi esteso alle informazioni necessarie al contrasto di illeciti fiscali (versione 1977) e ad ogni tributo ancorché non com-preso nella DTC (versione 2005), relative anche a soggetti non residenti negli Stati con-traenti (versione 2014, per come intesa dal Commentario al Modello OCSE); ii) la predi-sposizione da parte dell’OCSE di un Modello di convenzione sullo scambio di informazioni in materia tributaria (Model Agreement on exchange of information on tax matters del 2002), funzionale alla stipula di Tax Information Exchange Agreements (TIEAs), sia in forma bilate-rale che multilaterale; iii) la stipula (nel 1998) e l’entrata in vigore (nel 1995, con la raggiun-ta ratifica da parte di 5 Stati) della Convenzione sulla mutua assistenza amministrativa in ma-teria tributaria (c.d. Convenzione MAAT), promossa dall’OCSE e dal Consiglio d’Europa, attualmente ratificata da 61 Stati e di natura multilaterale (modello da ultimo aggiornato ai nuovi standard fissati a seguito del G-20 del 2009, con la ratifica nel 2010 di un Protocollo modificativo). In area UE, si considerino: iv) il sistema VIES (VAT Information Exchange System) di raccolta e condivisione automatica di informazioni relative ai soggetti ed alle ope-razioni IVA, istituito nel 1992 ed attualmente disciplinato dal Reg. (UE) 7 ottobre 2010, n. 904/2010; v) le forme di cooperazione amministrativa nel settore fiscale sancite inizialmen-te dalla Direttiva 77/799/CEE, da ultimo abrogata e sostituita dalla Direttiva 2011/16/UE del Consiglio del 15 febbraio 2011 (in Italia attuata dal D.Lgs. n. 29/2014), tesa a valorizzare uno scambio obbligatorio ed automatico di informazioni fiscalmente rilevanti tra gli Stati membri; direttiva successivamente potenziata dalla Direttiva 2014/107/UE del Consiglio del 9 dicembre 2014 e dalla Direttiva (UE) 2015/2376 del Consiglio del 8 dicembre 2015 (quest’ultima istitutiva del Country-by-Country Reporting, sistema di rendicontazione distinta per Paese dei redditi prodotti dalle MNEs); (vi) le regole di circolazione delle informazioni relative a redditi finanziari fissate dalla Direttiva 2003/48/CE (c.d. Direttiva risparmio), modi-ficata dalla Direttiva 2014/28/UE del Consiglio del 24 marzo 2014 di adeguamento ai mec-canismi di scambio stabilità dalla Direttiva 2011/16/UE cit., e da ultimo abrogata dalla Di-rettiva (UE) n. 2015/2060. Quanto alle modalità di scambio, emerge la tendenza a valoriz-zare sempre più le forme di scambio c.d. automatico (in luogo dello scambio “a richiesta” e “spontaneo”): si pensi al Foreign Account Tax Compliance Act (FATCA) introdotto negli Stati Uniti nel 2010 e teso ad imporre agli istituti di credito stranieri ed ai soggetti non finanziari stranieri di trasmettere automaticamente all’IRS tutte le informazioni relative ai correntisti statunitensi a loro disposizioni, pena il subire una ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 30%; all’introduzione nel 2014 da parte dell’OCSE del Common Reporting Standard (CRS), con cui si invitavano gli Stati ad acquisire informazioni finanziarie dagli istituti di credito e trasmetterle automaticamente ed ogni anno agli altri Stati sulla base delle regola fissate dal Multilateral Competent Authority Agreement on automatic exchange of information (MCAA). Su tutti questi interventi, per più ampie considerazioni e per ulteriori riferimenti bibliografici, si rinvia a GREGGI-AMMADEO, Lo scambio di informazioni in materia tributaria, in AMATUCCI-CORDEIRO GUERRA (a cura di), op. cit., p. 645 ss.; MASTELLONE, Lo scambio di informazioni tra amministrazioni finanziarie, in CORDEIRO GUERRA, op. cit., p. 249 ss.; DORIGO, L’ordinamento italiano e la cooperazione fiscale internazionale, in SACCHETTO (a cura di), op. cit., p. 155 ss.

28 Si veda al riguardo, in ambito internazionale: i) l’art. 27 Modello OCSE di DTC; ii) l’art. 11 della Convenzione MAAT cit. In ambito UE: iii) da ultimo, la Direttiva 2010/24/UE del Consiglio del 16 marzo 2010 (in specie, art. 10). Sul tema, si rinvia a MASTELLONE, La mutua

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mente e politicamente, i c.d. paradisi fiscali (tax havens) 29 e le politiche na-

zionali di c.d. harmful tax competition (HTC) 30; (vi) infine, tentando di “conte-

nere” – appunto – quelle pratiche di de-localizzazione degli imponibili attuate attraverso politiche di TP o, più in generale, di artificiale riparto degli imponibi-li tra le entità appartenenti al gruppo multinazionale, siano esse realizzate uni-lateralmente dalle MNEs che avallate dagli Stati.

Fondamentale, sotto quest’ultimo profilo, è stata l’elezione del c.d. arm’s lenght principle (ALP) a criterio generale di giudizio delle stime operate dalle MNEs nelle relazioni infra-gruppo; un criterio – questo – certamente arbitra-rio, spesso di difficilissima applicazione, ma sul quale tuttavia per molto tem-po si è registrato un consenso politico a livello internazionale (OCSE) ed eu-ropeo (UE), tanto da aver assunto in rango – secondo alcuni – di international customary law

31. Ebbene, è proprio su di esso (ALP) che – come accennato – la Commissione fonda oggi la propria azione in materia di tax rulings alle MNEs, in termini in parte noti, in parte innovativi, su cui occorre brevemente focalizza-re l’attenzione.

assistenza nella riscossione dei tributi all’estero, in CORDEIRO GUERRA, op. cit., p. 322 ss.; DORIGO, op. cit., p. 171 ss.

29 Identificati, dopo G-20 di Londra 2009, in funzione del deficit di trasparenza informati-va: cfr. retro, nota 27.

30 Questo contrasto attuato attraverso un mix diversamente equilibrato di soft law ed hard law. Da tempo, in ambito UE, il monitoraggio (pur non vincolante) sui regimi fiscali “dannosi” operato dal c.d. Gruppo Primarolo in base al codice di condotta, da un lato, e l’uso della di-sciplina europea in materia di aiuti di Stato, dall’altro, costituiscono gli strumenti (rispetti-vamente di soft law e di hard law) che l’Unione si è data per contrastare politiche nazionali di HTC: sul punto, si rinvia a TERRA-WATTEL, European Tax Law, Alphen aan den Rijn, 2012, p. 232 ss.; sulla disciplina europea in materia di aiuti di Stato, si veda sin d’ora, senza pretesa di completezza, QUIGLEY, European State Aid Law and Policy, Portland, 2009; HANCER-OTTERVANGER-SLOT (Eds.), EU State Aids, London, 2012; BACON, European Union Law of State Aid, Oxford, 2013; nonché, in letteratura italiana, ex multis, FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, Pisa, 2007; SALVINI (a cura di), Aiuti di Stato in materia fiscale, Padova, 2007; INGROSSO-TESAURO (a cura di), Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, Napo-li, 2009.

31 In tal senso, in particolar modo, AVI-YONAH, International Tax as International Law, in Law & Economics Working Paper, paper #04-007 (2004), spec. pp. 23-24; in senso contrario, tuttavia, CHRISTIANS, Hard law, soft law, and international taxation, in Wisconsin International Law Journal, n. 2, 2017, p. 329 ss.

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3. I tratti caratterizzanti la “dottrina Vestager”: novità apparenti (la presunta sovrapposizione di “vantaggio” e “selettività” dell’aiuto e la loro asserita va-lutazione unitaria) ...

Della “dottrina Vestager” si è sottolineata innanzitutto l’innovatività. In specie, a detta delle imprese e degli Stati direttamente o indirettamente coin-volti in tali vicende (vedi USA), l’attenzione della Commissione europea nei confronti dei tax rulings rivolti alle MNEs costituirebbe un radicale cambio di rotta rispetto alla precedente prassi decisionale. Sembra opportuno verificare con attenzione la fondatezza di tale affermazione, non solo perché – sul piano teorico e scientifico – ciò serve a chiarire meglio i tratti dell’odierna linea di azione della Commissione, ma anche perché – più concretamente – a tale af-fermazione è ancorata la richiesta delle parti di “not recovery” dell’aiuto; ri-chiesta giustificata da un preteso legittimo affidamento che la prassi precedente avrebbe ingenerato nelle parti.

Ebbene, tralasciando momentaneamente il problema del legittimo affida-mento, si può sin d’ora affermare che – effettivamente, a sommesso di chi scrive – le recenti decisioni di Bruxelles presentano tratti di spiccata novità, ma – si osservi – per ragioni molto diverse da quelle comunemente addotte dalle par-ti interessate e da diversi commentatori. Questi ultimi infatti, nell’esaminare criticamente tali decisioni, hanno ravvisato il punto di rottura col passato nel (presunto) nuovo metodo di giudizio che la Commissione avrebbe assunto. Più esattamente, si sostiene essa avrebbe “fuso” la valutazione in ordine alla sussi-stenza del “vantaggio” economico con quella relativa alla “selettività” della mi-sura; avrebbe cioè abbandonato la consueta distinta analisi di tali elementi per abbracciare una loro “valutazione unitaria”

32. Non a caso – si sottolinea – an-che concettualmente l’indagine viene indirizzata sulla sussistenza di un unico (indistinto) “selective advantage”, identificato – poi – in ogni deviazione “verso il basso” dall’ALP, pur approssimativamente determinato

33. In realtà, l’idea di “fusione” tra i due elementi (peraltro non del tutto scono-

sciuta alla giurisprudenza della Corte di Giustizia) 34 appare, ad una più appro-

32 BASTIANON, op. cit., par. 5; LOVDHAL GORMSEN, Has the Commission Taken Too Big a Bite of The Apple?, cit., p. 3; nonché US DEPT. TREASURY, op. cit., p. 5 ss.

33 LOVDHAL GORMSEN, EU State Aid Law and Transfer Princing: A Critical Introduction to a New Deal, in Journal of European Competition Law & Practice, n. 6, 2016, p. 374 ss., per la quale, nel nuovo approccio della Commissione, i requisiti del “vantaggio” e della “selettività” sarebbero divenuti oramai “two sides of the same coin”.

34 Osserva infatti BACON, op. cit., p. 70, nota 432 come, seppur nella prassi della Commis-

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fondita analisi, frutto più di una “illusione ottica” dell’interprete che di un rea-le nuovo approccio metodologico della Commissione. Sembra a chi scrive che non sia venuta meno la necessità di provare gli elementi costitutivi della no-zione di “aiuto di Stato” (vantaggio per l’impresa, intervento dello Stato, impiego di risorse statali, “selettività” del vantaggio, impatto sugli scambi tra Stati mem-bri e distorsione della concorrenza), come peraltro espressamente affermato dalla stessa Commissione nelle sue decisioni. Più semplicemente, sono i caratteri peculiari dei tax rulings che portano a centralizzare l’attenzione sul solo requi-sito del vantaggio, marginalizzando l’analisi degli altri elementi (che dunque appaiono in esso “assorbiti”). Ed infatti: a) l’oggetto fiscale dei rulings per defi-nizione comporta l’imputabilità allo Stato della misura e l’impiego di risorse sta-tali, ove suscettibile di determinare una riduzione del prelievo tributario; b) l’essere i rulings indirizzati a società appartenenti a gruppi multinazionali li ren-de naturalmente idonei ad incidere sul mercato comune, alterandone scambi e concorrenza; c) la dimensione individuale dei rulings ne implica – anche qui in modo pressoché “automatico” – la “selettività”, proprio perché indirizzati ad una singola impresa

35. In particolare, proprio quest’ultimo aspetto mostra come la “selettività” dei rulings, più che essere sovrapposta al “vantaggio”, ne sia in real-tà presupposta

36; presupposta però non perché “assorbita” in esso (vantaggio), atteso che ben potrebbe il singolo ruling risultare “svantaggioso” per l’impre-sa

37; bensì in quanto logicamente implicata nell’individualità del ruling 38. Ma

non solo. Se osserviamo più da vicino il modo in cui la Commissione verifica la con-

creta sussistenza del “vantaggio”, possiamo notare anche qui una tendenziale continuità con la prassi da essa seguita in materia di aiuti di Stato. Si consideri infatti come, dinanzi ad una misura fiscale individuale, qual è quella consacra- sione le indagini sul “vantaggio” e sulla “selettività” siano sempre state formalmente separate, in molte pronunce della Corte di Giustizia sia dato ravvisare una valutazione (appunto) “unita-ria” di tali elementi (ivi per riferimenti).

35 CACHIA, op. cit., p. 31. 36 In tal senso, cfr. Tribunale UE, sez. III, 30 novembre 2009, cause riunite T-427/04 e T-

17/05, France Télécom, punto 231; Corte di Giustizia UE, sez. I, 4 giugno 2015, causa C-15/14 P, MOL, punto 60.

37 In tal senso, ISMER-PIOTROWSKI, The Selectivity of Tax Measures: A Tale of Two Consi-stencies, in Intertax, n. 10, 2015, p. 564.

38 In tal senso, in particolare, LYAL, Transfer Pricing Rules and State Aid, in Fordham Inter-national Law Journal, n. 4, 2015, p. 1042; DOUMA-KARDACHAKI, The Impact of the European Union Law on the Possibilities of European Union Member States to Adopt International Tax Rules to the Business Models of Multinational Enterprises, in Intertax, n. 10, 2016, p. 748.

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ta in un tax ruling, l’indagine sulla “vantaggiosità” per l’impresa possa essere astrattamente compiuta adottando (alternativamente) uno tra due diversi ben-chmark: (i) raffrontando il trattamento fiscale concesso nel ruling al trattamen-to concesso in tutti gli altri rulings emessi nei confronti di altre MNEs in con-dizioni legali e fattuali simili (dunque un benchmark circoscritto al comparto delle sole MNEs); ovvero (ii) raffrontando il trattamento fiscale sancito dal ruling nei confronti della singola impresa che sia parte di una MNE al tratta-mento fiscale “ordinario” comunemente applicato ad imprese analoghe, ma indipendenti, prive di legami di gruppo (SAEs).

Ebbene, tralasciando per ora qualunque giudizio sulla minore o maggiore adeguatezza di ciascuna delle due opzioni, è un dato di fatto la scelta nel se-condo senso da parte della Commissione. Il riferimento all’ALP notoriamente si giustifica, infatti, proprio per la volontà di mettere a raffronto (e “parificare” fiscalmente) società appartenenti a MNEs e SAEs, evitando che le prime pos-sano beneficiare di un prelievo inferiore (quindi relativamente più vantaggio-so) rispetto alle seconde. Ma ciò – a sua volta – presuppone che tra società appartenenti a MNEs e SAEs vi sia una similarità sia in fatto che in diritto e, quindi, innanzitutto che la “generale” normativa in materia di business and corporate taxation possa leggersi nel senso di non operare una distinzione tra imprese in ragione della loro appartenenza ad un gruppo. Sotto quest’ultimo profilo, la scelta della Commissione – si dirà

39 – appare certamente opinabile, ma allo stato innegabile e, per quanto qui di interesse, comunque in linea con la sua prassi decisionale e con la giurisprudenza della Corte di Giustizia (le quali da sempre assumono la generale fiscalità d’impresa come reference system per valutare la sussistenza del “vantaggio” e della “selettività” delle misure fiscali sottoposte al loro vaglio)

40. Si tratta allora di comprendere dove si annidi la (reale) novità della “dottrina Vestager”.

4. Segue: ... e novità reali (la matrice propriamente individuale ed amministra-tiva dell’aiuto)

Ebbene, non può non osservarsi come la Commissione certamente ripren-da alcuni spunti già presenti nella sua casistica e, pur limitatamente, nella giu-

39 Sul punto, si veda infra, par. 8. 40 Cfr. ex multis, Corte di Giustizia UE, 8 settembre 2011, cause riunite C-78/08 e C-

80/08, Paint Graphos, punto 50.

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risprudenza della Corte di Giustizia. Non ignote – né poche – sono state in passato le decisioni aventi ad oggetto misure fiscali rivolte a MNEs (spesso in-dividuate con specificità settoriali, dimensionali, territoriali); misure che – in quanto disallineate dall’ALP – si è ritenuto dessero luogo a selective advantages vietati

41. E vero è che essa – come anche la Corte di Giustizia – si è occupata altresì di tax rulings individuali. In queste ipotesi però – se si osserva bene – og-getto di valutazione è stata sempre la base legale del ruling, piuttosto che que-st’ultimo, ritenuta “selettiva” o perché circoscritta solo ad alcune MNEs, indi-viduate in base a specificità territoriali, settoriali o dimensionali

42; ovvero per-ché suscettibile di dar luogo de iure (per la rigidità o per la scarsa ragionevo-lezza dei criteri legali di valutazione)

43 o de facto (per l’eccessiva “discreziona-lità” concessa all’Amministrazione)

44 ad una sistematica sottovalutazione dei profitti imputabili all’impresa.

Nelle più recenti decisioni, ciò che invece darebbe luogo ad un “aiuto” è proprio l’atto amministrativo e – si noti – esclusivamente quest’ultimo. La Com-missione non mette infatti in dubbio la “compatibilità” delle diverse discipline nazionali in materia di APAs, ed anzi ne sottolinea espressamente l’utilità in termini di certezza dei rapporti tributari. Nei casi sottoposti al vaglio di Bru-xelles non si fa cioè questione di disciplina legale dei ruling, ma esclusivamente di “confezione” in concreto del ruling; ruling il quale dunque non è apprezzato come atto di concretizzazione di un privilegio astrattamente insito nella legge regolatrice dell’accordo, ma come causa unica ed immediata di quest’ultimo. In ciò sembra stare – a sommesso avviso di chi scrive – la vera novità della “dot-trina Vestager”

45. E di novità sembra trattarsi anche rispetto alla consolidata prassi della Com-

missione in materia di aiuti di Stato individuali. Nella pressoché totalità casi

41 Nello specifico si trattava di particolari sistemi di riparto degli imponibili tra società appartenenti a gruppi multinazionali, ovvero tra società e la propria PE, per lo più avvalendo-si del c.d. cost-plus method.

42 Decisione del 10 luglio 2002 (2002/937/EC), punti 50-52; Decisione del 17 febbraio 2003 (2003/515/EC).

43 Decisione del 22 agosto 2002 (2003/81/EC), punti 28-29; Decisione del 5 settembre 2002 (2003/512/EC), punti 22-28; Decisione del 17 febbraio 2003 (2003/755/EC), punto 89; Decisione del 13 maggio 2003 (2004/76/EC), punti 50-56; Decisione del 24 giugno 2003 (2004/77/EC); nonché Corte Giustizia UE, 22 giugno 2006, cause riunite C-182/03 e C-217/03, Forum 187, punti 90-97.

44 Decisione del 16 ottobre 2002 (2003/438/EC), punti 43-44; Decisione del 16 ottobre 2002 (2003/501/EC), punti 47-50; Decisione del 30 marzo 2006 (2005/77/EC), punti 56-57.

45 In tal senso, in special modo, ROSSI MACCANICO, Fiscal State Aids, Tax Base Erosion and Profit Shifting, in EC Tax Review, n. 2, 2015, pp. 73-74.

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tali aiuti scaturivano infatti da misure non fiscali; circostanza, questa, che – si noti – marca una netta differenza con la linea di azione oggi intrapresa in ma-teria di tax rulings. L’approccio adottato in relazione alle misure (individuali, ma) non fiscali al fine di valutare la sussistenza di un “aiuto” appare infatti in-comparabile a quello richiesto per analoghe misure, ma di natura fiscale: il ben-chmark impiegato per le prime (c.d. private investitor or creditor test) è infatti inutilizzabile in contesti, come quello impositivo, nei quali lo Stato agisce al di fuori di dinamiche di mercato, attraverso assetti autoritativi

46. Quanto sin qui detto, fa ovviamente sorgere una domanda: se, riprenden-

do una questione accennata in apertura del presente paragrafo, questo aspetto di novità possa ritenersi sufficiente ad ingenerare un “legittimo affidamento” degli Stati e MNEs. Ovviamente, un simile interrogativo non può essere risol-to in questa sede, né sembra peraltro oggettivamente risolvibile a priori. Deve tuttavia rilevarsi come, allo stato della giurisprudenza europea, ossia delle in-dicazioni di massima che essa fornisce per stabilire quando una simile condi-zione sussiste, ciò appaia decisamente improbabile. Al legittimo affidamento è stato dato spazio solo in ipotesi eccezionali, intese in termini molto stringen-ti

47 e comunque sul presupposto del rispetto dell’obbligo di notifica preventi-va della misura

48. Cosa qui certamente mancante. Certo, non si può escludere un qualche ripensamento, proprio nei casi di

tax ruling qui considerati. L’entità delle imposte da recuperare ed il rischio di

46 In tal senso, cfr. SCHÖN, State Aid in the Area of Taxation, in HANCER-OTTERVANGER-Slot (Eds.), op. cit., p. 337; BACON, op. cit., p. 31. Vero è che in alcune delle decisioni sui tax rulings qui considerate un simile criterio è evocato dalla Commissione. Tuttavia, come eviden-ziato in dottrina, esso lo è impropriamente (ed inopportunamente), dovendo intendersi in ben altro senso: come parametro di valutazione della condotta non dello Stato, ma delle impre-se controllate nelle loro transazione, dunque null’altro che la riaffermazione (pur concettual-mente diversa) dell’ALP: sul punto, cfr. GUNN-LUTS, Tax Rulings, APAs and State Aid: Legal Issues, in EC Tax Review, n. 2, 2015, pp. 123-124; DE BROE, The State Aid Review against Agressi-ve Tax Planning: ‘Always Look a Gift Horse in the Mouth’, in EC Tax Review, n. 6, 2015, p. 292.

47 Affinché possa ammettersi la presenza di un legittimo affidamento occorre che questo sia stato ingenerato da un atto dell’Unione (Corte di Giustizia UE, 19 maggio 1983, causa C-289/81, Mavridis, punto 21; 10 maggio 1992, causa C-177/90, Kùhn, Rombi e Arkopharma, punto 14) o che via sia stato un precedente giudizio positivo della Commissione (Trib. I° grado, 5 giugno 2001, T-6/99, ESF Elbe) ovvero che, nel valutare una misura, quest’ultima agisca con significativo ritardo (Corte di Giustizia UE, 24 novembre 1987, causa C-223/85, RSV, punto 17); situazione quest’ultima tuttavia ritenuta del tutto eccezionale, da interpretarsi quindi in modo stringente poiché strettamente legata al contesto della misura (Corte di Giusti-zia UE, 29 aprile 2004, causa C-298/00 P, Repubblica Italiana c. Commissione, punto 90).

48 Corte di Giustizia UE, 29 aprile 2004, causa C-278/00, Repubblica ellenica c. Commis-sione, punto 104 e giurisprudenza ivi citata.

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“rappresaglie” commerciali da parte delle MNEs potrebbe indurre i giudici europei – già interpellati sul punto – ad ammettere un certo grado di non “re-troattività” delle decisioni; ma – si noti – ciò verrebbe ad essere legato ad esi-genze di opportunità “politica”, più che di correttezza giuridica e, comunque, sarebbe interessante capire come una simile eventuale decisione verrebbe poi motivata.

Con a mente questo aspetto di novità (la matrice individuale ed ammini-strativa dell’“aiuto”) è possibile ora chiarire la reale natura di alcuni presunti profili di criticità giuridica della “dottrina Vestager”, criticità che a ben vedere si collocano più che sul tale piano (giuridico), su quello geo-politico.

II. IL RILIEVO GEO-POLITICO DEI RISVOLTI GIURIDICI DELLA “DOTTRINA VESTAGER”

5. L’assunzione da parte della Commissione di un potere di accertamento tri-butario: infondatezza sul piano giuridico e formale ...

La prima critica rivolta alla Commissione europea è quella di agire alla stregua di una “super-autorità” fiscale, di esercitare cioè un proprio potere di accertamento nei confronti delle MNEs, sovrapponendosi alle Amministra-zioni nazionali ed invadendo quindi una prerogativa degli Stati membri. Questa critica, espressamente rigettata dalla stessa Commissione, se restiamo sul piano strettamente formale e giuridico, appare effettivamente poco fondata sotto due profili.

Da un lato, la Commissione non stigmatizza in sé la “deviazione” dal-l’ALP nei tax rulings – come invece accade in sede di applicazione, da parte delle Amministrazioni nazionali, delle normative sul TP domestiche (per la legislazione italiana, cfr. l’art. 110, comma 7, TUIR) e convenzionali (cfr. art. 9 Modello OCSE) – ma solo per le conseguenze che essa (deviazione) ge-nererebbe in concreto. Il “grimaldello” giuridico qui utilizzato – correttamente si sottolinea – non è infatti una ipotetica normativa “europea” sull’accerta-mento delle violazioni fiscali in ordine a tali stime (che non esiste), ma pur sempre la disciplina in materia di aiuti di Stato, alla luce della quale una erro-nea valorizzazione fiscale dei rapporti infra-gruppo può – sì – assumere ri-lievo, ma solo nella prospettiva delle distorsioni che eventualmente provoca sugli scambi nel mercato.

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Dall’altro, e correlativamente, l’azione di Bruxelles risulta orientata al con-trasto non di una “aggressiva” pianificazione fiscale operata dalle MNEs, ma di una HTC realizzata dallo Stato emettitore del ruling. Nel primo caso, infat-ti, lo Stato subisce l’erosione del proprio imponibile (è per l’appunto aggredito fiscalmente dall’impresa e, può ragionevolmente pensarsi, è interessato a con-trastare tale condotta); nei casi in esame, gli Stati avallerebbero invece la pre-sunta “erosione” proprio attraverso i contestati rulings che, “deviando” dal-l’ALP, opererebbero secondo una logica “captativa” tipica delle forme di “com-petizione fiscale” tra Stati. Ciò che si contesta non è la condotta dell’impresa, ma l’intervento dello Stato nell’economia, sebbene per mezzo di un ruling fiscale, in una prospettiva riconducibile più che ad un potere impositivo alle forme di vigilanza antitrust

49. Anche da questo punto di vista sembra potersi escludere quindi una formale identità (e “sovrapposizione”) tra potere di accertamento fi-scale degli Stati membri e controllo qui operato dalla Commissione. Se la di-versità formale di poteri permane, tuttavia la peculiarità della fattispecie ogget-to d’indagine ne rende la sostanza molto simile.

6. Segue: ... ma sostanziale veridicità. L’alterazione in fatto delle competenze e dei rapporti tra Unione e Stati membri

Innanzitutto, la dimensione individuale, la natura fiscale e la riferibilità ad una MNE del ruling – implicando in sé selettività, imputabilità allo Stato, im-piego di risorse statali e distorsività della misura – come già osservato, appiat-tiscono il giudizio circa la sussistenza di un “aiuto” sulla sola verifica del “van-taggio” per la singola impresa. Quest’ultimo (vantaggio) è poi declinato, nelle decisioni qui considerate e nella recente Comunicazione sulla nozione di aiuto di Stato, nei termini di: (i) errata applicazione della normativa fiscale nazionale (misapplication of law); (ii) applicazione di un trattamento fiscale più favore-vole rispetto a contribuenti in una situazione di fatto e di diritto similare (cir-costanza che si verificherebbe in presenza di stime non approssimativamente conformi all’ALP)

50. Il che di fatto avvicina di molto – nell’oggetto e nel mo-do – le indagini della Commissione a quelle di una qualsivoglia Amministra-

49 In tal senso, cfr. WATTEL, Stateless Income, State Aid and the (Which?) Arm’s Lenght Principle, in Intertax, n. 11, 2016, p. 792; BASTIANON, op. cit., par. 6.

50 COMMISSIONE EUROPEA, Comunicazione della Commissione sulla nozione di aiuto di Stato, cit., spec. par. 174.

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zione Finanziaria nazionale, il non rispetto dell’APL essendo anch’esso inqua-drabile nella erronea interpretazione e/o applicazione della legge

51. La matrice amministrativa del “vantaggio” – il suo scaturire dal ruling e non

dalla sua “base legale” – porta quindi ad erigere proprio quest’ultimo (nella sua singolarità) ad oggetto di valutazione della Commissione; una valutazione – si noti – sulla sua legittimità, finendo per trasformare quest’ultima (e, di riflesso, la Corte di Giustizia) in una autorità fiscale di secondo grado: una sorta di Dire-zione “Europea” delle Entrate, gerarchicamente superiore e deputata al control-lo delle singole decisioni amministrative delle autorità fiscali nazionali consa-crate negli APAs

52. La “dottrina Vestager” – indirizzando il potere della Commissione sul sin-

golo atto di amministrazione attiva del prelievo – giunge così ad alterare in fat-to il riparto delle attribuzioni tra istituzioni europee e nazionali: solo queste ultime (istituzioni nazionali) possono infatti giudicare della legittimità degli atti amministrativi interni, avendo le istituzioni europee – e la stessa Corte di Giustizia – esclusivamente il compito di garantire la corretta interpretazione e la (effettiva) applicazione del diritto dell’Unione

53. Si noti: alterare in fatto, giu-ridicamente non mutando nulla, poiché – come evidenziato – da un lato, la Commissione formalmente agisce pur sempre nell’ambito del controllo sul ri-spetto del divieto di aiuti di Stato, ossia nelle sue competenze; dall’altro, l’ef-fetto della sua decisione non determina di per sé l’eliminazione dell’atto dal panorama giuridico (i.e. il suo annullamento). L’obbligo di recupero della (mi-nor) imposta versata da parte dell’autorità nazionale – pur con tutte le sue pro-

51 Anche l’esercizio della “discrezionalità tecnica” (ma le virgolette sono d’obbligo ...) implicata nella determinazione del TP secondo l’ALP può dirsi pur sempre attinente all’ap-plicazione della legge nazionale, tale criterio potendosi annoverare tra le c.d. “clausole gene-rali del diritto”, sebbene tesa a rinviare non a prassi sociali o a principi etici, ma a metodi “tec-nici” di stima e che amministrazione e giudici sono chiamati a “riempire”. In tal senso, con spe-cifico riferimento all’ALP, qualificato espressamente come open norm, cfr. GUNN-LUTS, op. cit., p. 121; sul tema, si veda in generale, FABIANI, (voce) Clausola generale, in Enc. dir., Annali V, 2012, p. 183 ss.

52 In tal senso, LYAL, op. cit., p. 1041; ROSSI MACCANICO, op. cit., p. 74. 53 In tal senso, a margine del caso McDonald’s, caso nel quale la Commissione mostra di

arrogare a sé il potere di stabilire essa la “corretta” interpretazione di una DTC tra Stati Uniti e Lussemburgo, v. WATTEL, op. cit., pp. 797-798; DOUMA-KARDACHAKI, op. cit., pp. 752-753; vero è che spesso la Corte di Giustizia valuta altresì la compatibilità del diritto interno con il diritto dell’Unione (per come da essa interpretato), ma ciò solo sostanzialmente ed indiretta-mente, effetto della formulazione del quesito di rinvio e della relativa decisione nella forma “osta/non osta”: sul punto, si veda, anche per riferimenti, a MELIS, L’interpretazione del dirit-to tributario europeo e internazionale, in SACCHETTO (a cura di), op. cit., pp. 24-25.

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blematiche, di cui si dirà 54 – tuttavia conduce al medesimo risultato, aspetto

questo certamente percepito dagli Stati membri e, come tale, capace di ingene-rare tensioni tra di essi e l’Unione.

7. La divergenza nella declinazione dell’ALP: il carattere marginale delle que-stioni giuridiche ...

Un’ulteriore critica rivolta alla Commissione attiene all’impiego del crite-rio dell’ALP in chiave squisitamente “europea”, non necessariamente colliman-te cioè con quanto sancito a livello OCSE

55; circostanza che, in specie secon-do il Department of Treasure statunitense, creerebbe una “frattura” – giuridica e politica, a livello internazionale – tra le due istituzioni e, di riflesso, tra USA e UE

56. Questa critica in linea di principio coglie nel segno, ma – a sommesso avviso di chi scrive – anche qui essa si connota più per aspetti geo-politici che giuridici, atteso che sotto quest’ultimo profilo essa si presta ad essere fortemen-te ridimensionata.

Che nella valorizzazione fiscale dei rapporti infra-gruppo l’ALP possa as-sumere un senso differente in ambito OCSE ed UE, così come anche in ambi-to nazionale, è infatti logico ed inevitabile, data la differente funzione che, in questi contesti, il (medesimo) criterio è chiamato a svolgere

57. In area OCSE, la scelta dell’ALP – ed il suo progressivo affinamento, specie in ambito del progetto BEPS – rappresenta la soluzione che la comunità internazionale ha inteso dare al problema della identificazione dello Stato cui riconoscere il di-ritto di tassare, onde evitare (nel contempo) situazioni di doppia imposizione e di doppia non imposizione internazionale. In tale ottica, l’ALP assume una di-mensione prettamente inter-statale, esprime cioè un parametro attraverso cui ripartire (tra i vari ordinamenti coinvolti) il potere impositivo sui diversi flussi di ricchezza cross-border; un parametro di cui – almeno in linea di principio

58 –

54 Sul punto, si veda infra, par. 9. 55 LOVDHAL GORMSEN, Has the Commission Taken Too Big a Bite of The Apple?, cit., pp. 3-5. 56 US DEPT. TREASURY, op. cit., p. 17 ss. 57 Cfr. OECD, Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Admini-

strations, July 2017, reperibile su www.oecd.org, par. 1.2, ove si evidenzia come l’ALP non sia qui adottato per finalità di contrasto a forme di evasione/elusione fiscale, seppur spesso im-piegato anche per tali obiettivi.

58 Quanto alla posizione degli Stati membri dell’UE rispetto alla “disponibilità” dell’ALP convenzionale, si veda infra, nel testo.

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gli Stati sono e restano pur sempre i “padroni”: lo sono “a monte” liberamente accogliendolo e variamente declinandolo nelle convenzioni contro le doppie imposizioni (DTCs) da loro sottoscritte; lo sono “a valle” altrettanto libera-mente potendolo disattendere (ad esempio) in sede di “procedura amichevole” ex art. 25 Modello OCSE (Mutual agreement procedure: MAP), quando ciò do-vesse alle parti apparire utile per dare soluzione alla controversia tra gli Stati

59. La “dottrina Vestager” espressamente assume invece l’ALP ai soli fini della

disciplina sugli aiuti di Stato. In tal senso, il criterio appare chiamato a rivesti-re un ruolo completamente diverso, di mezzo cioè per evitare “discriminazioni” fiscali tra società appartenenti a MNEs e SAEs, ossia non per distribuire il pote-re impositivo tra Stati (ciò dipendendo dalle discipline convenzionali), ma so-lo per evitare che questi ultimi – all’interno del loro proprio ordinamento “do-mestico” – possano ammettere (de iure o de facto) un trattamento fiscale diver-so tra le imprese in funzione del loro semplice appartenere o meno ad un grup-po a rilevanza trans-nazionale (ciò che, per Bruxelles, rappresenterebbe una inammissibile alterazione del gioco della concorrenza). In tale ottica, l’ALP as-sume una dimensione prettamente intra-statale ed appare criterio indisponibile (seppur, si dirà a breve, solo relativamente)

60. Ebbene, se diversi sono i fini dell’ALP, in linea di principio diverso sarà

quindi il modo in cui è declinato nei rispettivi contesti. Innanzitutto, differen-te sarà il benchmark di riferimento: nel primo caso (OCSE), esso è infatti in-dividuato nel (ragionevole) legame della ricchezza col territorio nazionale, costi-tuendo la ripartizione dell’imponibile di gruppo in funzione del (l’ideale) con-tributo dello Stato alla sua creazione indiscutibile ed accettato principio di ra-zionalità ed equità fiscale, particolarmente valorizzato dal progetto BEPS (Ac-

59 La valutazione operata dagli Stati contraenti, parti di una DTC, e tesa a risolvere il pro-blema di definizione del TP in conformità con l’ALP, secondo la procedura “amichevole” ex art. 25 Modello OCSE, infatti: (i) è adottata senza partecipazione della MNE; (ii) la deci-sione è presa in modo riservato; (iii) vincola sia la MNE che i giudici nazionali, trattandosi di “accordo internazionale in forma semplificata”; conseguentemente il merito della decisione (i.e. la quantificazione del corretto TP) resta nelle esclusive mani degli Stati coinvolti, che ben potrebbe innestare la discussione su elementi extra-tributari. Sul punto, si veda, in parti-colare, CHRISTIANS, How Nations Share, in Indiana Law Journal, 2012, 87, p. 1407 ss., spec. p. 1426 ss., ove si rileva come – a parte il caso della judicial review, unico rimedio (domestico) di hard-law – le altre vie di risoluzione delle controversie internazionali in materia tributaria assegnano alle competenti autorità statali ampia discrezionalità nella decisione, a tal fine non costituendo un vincolo legale nemmeno la stessa DTC da loro sottoscritta (without-law revi-ew); proprio in tal prospettiva, si definisce la procedura MAP una «standard form of the in-formal diplomatic dispute resolution» (ivi, p. 1433).

60 WATTEL, op. cit., p. 792 ss.

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tions 8-10); nel secondo caso (disciplina europea sugli aiuti di Stato), il ben-chmark è dato invece – per quanto emerge dai casi fino ad oggi trattati – dal regime fiscale nazionale delle SAEs. Ma se diversi sono i fini e diversa la pro-spettiva di riferimento, molto probabilmente diverso sarà il metodo di stima più coerente all’ALP nei due casi. In quest’ottica, il rischio di violazione degli accordi internazionali sul TP appare reale, con tutte le conseguenze che ciò comporta. La duplice declinazione dell’ALP pone gli Stati membri in una po-sizione astrattamente “insostenibile”, perché in ipotesi costretti (per rispetta-re la disciplina sugli aiuti di Stato) ad adottare metodologie di quantificazione del TP non necessariamente corrispondenti a quelle più adatte al rispetto del-le DTCs, e rispondenti alle linee guida OCSE.

Anche qui tuttavia, non tutto è ciò che sembra. Il dilemma giuridico – vio-lare la normativa europea sugli aiuti di Stato ovvero violare la normativa convenzionale sul TP – ad uno sguardo più attento si rivela infatti più appa-rente che reale. In primo luogo, la Commissione europea, nelle decisioni in materia di tax rulings e nella sua Comunicazione sulla nozione di aiuto di Stato è la prima ad assegnare alle linee guida OCSE un ruolo centrale, ritenendo che il rispetto di quest’ultime – pur non vincolanti – faccia presumere una corretta applicazione dell’ALP anche ai fini dell’art. 107 TFUE

61. Il che ri-dimensiona di molto, in concreto, il rischio di conflitti tra stime in funzione della disciplina europea e di quella convenzionale, potendo emergere solo in casi eccezionali, che la Commissione avrebbe peraltro l’onere di giustificare accuratamente

62. In secondo luogo, l’ALP nel contesto della disciplina sugli aiuti di Stato as-

sume una valenza relativa. L’esigenza di non assegnare alle società appartenenti a MNEs un trattamento fiscale più favorevole rispetto alle SAEs “similari” – esi-genza che detto criterio intende soddisfare – a ben vedere non discende dalla

61 Non a caso si è ritenuto, contrariamente all’opinione più comune, che la Commissione – attraverso il ripetuto rinvio alle linee guida OCSE in materia di TP – incontri difficoltà ad elaborare una nozione “pienamente europea” di aiuto di Stato: in tal senso, D’AGNONE, op. cit., p. 2.

62 WATTEL, op. cit., p. 801; LYAL, op. cit., pp. 1041-1042. Va evidenziato come, anche in area UE, la prospettiva sia quella di creare una sistema impositivo orientato alla ripartizione dei profitti delle MNEs secondo il criterio della value creation. Tuttavia, questo obiettivo appare ancora lontano dal realizzarsi, rivelandosi l’azione delle istituzioni europee (legislatore UE, Commissione e Corte di Giustizia) ad oggi di fatto contraddittoria e, a volte, casuale nelle sue decisioni: in tal senso, per ampi riferimenti ed avuto riguardo anche alle recenti decisioni della Commissione in materia di tax rulings, si rinvia a SMIT, International Income Allocation under EU Tax Law: Tinker, Tailor, Soldier, Sailor, in EC Tax Review, n. 2, 2017, p. 67 ss.

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direttamente normativa europea (in specie, dall’art. 107, par. 1, TFUE, pur frequentemente evocato), ma dalla struttura della disciplina nazionale “ge-nerale” in materia di business and corporate taxation

63. La necessità di valuta-re – negli APAs e attraverso l’ALP – le transazioni tra parti correlate come se fossero compiute tra parti indipendenti poggia le basi sulla non differenziazione fiscale tra le imprese in ragione della loro appartenenza ad un gruppo multina-zionale a livello di normativa interna. Ove dunque uno Stato membro deci-desse al contrario di introdurre un simile duplice trattamento “generale” (ad esempio prevedendo per le MNEs un regime “naturale” di consolidamento), verrebbe meno il presupposto implicito e l’utilità di impiego dell’ALP e le possibilità di conflitto giuridico con quanto sancito in sede OCSE

64. Dove quindi i profili di criticità?

8. Segue: ... ed il maggior spessore dei relativi riflessi geo-politici

L’esigenza di operare stime del TP rispettose dell’ALP, al fine di evitare una violazione della normativa sugli aiuti di Stato, a ben vedere impatta su “aree di azione politica” gelosamente custodite dagli Stati.

In primo luogo, e come accennato, se è vero che dell’impiego (ex ante) e del rispetto (ex post) dell’ALP nelle DTCs gli Stati restano pur sempre “padroni” (potendo optare per altre forme di riparto degli imponibili in sede di negozia-zione dei trattati ovvero potendo disattendere tale criterio in sede di MAP), è altresì vero che ciò vale fino ad un certo punto quando siamo dinanzi a Stati membri UE. Se, da un lato, ed in linea di principio, agli Stati membri spetta de-cidere della distribuzione del loro potere impositivo attraverso DTCs

65, dall’al-tro, è principio oramai stabile nella giurisprudenza della Corte di Giustizia l’im-

63 Come rilevato in dottrina, nella definizione del reference system, ai fini della valutazione in ordine alla “selettività” di una misura fiscale, due sono le alternative teoriche: (i) la definizio-ne di un normal tax system direttamente a livello UE, opzione certamente preferibile, ma pos-sibile solo per tributi armonizzati o in presenza di benchmark comuni e condivisi (ad es. in sede OCSE); (ii) il riferimento al normal tax system nazionale; delle due la Corte di Giustizia ha inteso adottare, nell’area della tassazione diretta, il secondo: cfr. Corte di Giustizia UE, 8 set-tembre 2011, cause riunite C-78/08 e C-80/08, Paint Graphos, punto 50; 18 luglio 2013, causa C-6/12, P Oy, punti 19 ss.; 9 ottobre 2014, causa C-522/13, Navantia, punti 35, 40. Sul te-ma, per ulteriori riferimenti, cfr. altresì SCHÖN, op. cit., p. 337 ss.

64 Tale aspetto non sembra invece colto da LOVDHAL GORMSEN, EU State Aid Law and Transfer Princing, cit., p. 379 ss., che pare qui fondare l’impiego dell’ALP direttamente ed esclusivamente sull’art. 107 TFUE.

65 Corte di Giustizia UE, 12 maggio 1998, causa C-336/98, Gilly, punti 30-32.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 726

possibilità di invocare un qualsivoglia obbligo convenzionale per sottrarsi ai do-veri imposti dal diritto dell’Unione

66; doveri tra cui annoverare certamente il rispetto della normativa sugli aiuti di Stato e quindi – oggi – altresì l’adozione di criteri di stima nelle transazioni infra-gruppo coerenti con l’ALP. Ciò però inci-de sui margini di “negoziazione” in materia di prezzi di trasferimento, riducen-done la possibilità anche laddove ciò dovesse risultare in concreto utile – ad esempio – alla soluzione “amichevole” della controversia tra gli Stati contraenti (soluzione che, nel gioco riservato delle relazioni internazionali, nella possibi-le asimmetria di potere negoziale delle parti, nella eventuale e concomitante emersione di altri interessi contingenti, potrebbe imporre “concessioni” sul versante tributario di uno Stato in favore dell’altro, da realizzare mediante “al-terazioni” di quello che sarebbe il “giusto” prezzo di trasferimento)

67. La Com-missione, entrando a gamba tesa sul modo in cui le autorità nazionali defini-scono il TP (pur nel corretto esercizio del potere di vigilanza in materia di aiuti di Stato) “espropria” quindi – in fatto – gli Stati membri di un flessibile strumento di politica internazionale

68. In secondo luogo, situazione analoga si verifica in relazione ai tax rulings i

quali, per la complessità tecnica ed estrema opinabilità nella scelta dei metodi 69 e

per la loro tendenziale segretezza 70, consentono infatti alle parti coinvolte (Stati

e MNEs) di innestare nel processo decisionale – accanto ai fisiologici aspetti tecnici di scelta del metodo di determinazione del TP – anche valutazioni di altro genere, in specie di politica economica, commerciale, occupazionale

71.

66 Corte di Giustizia UE, 14 dicembre 2006, causa C-170/05, Denkavit, punto 53; 8 no-vembre 2007, causa C-379/05, Amurta, punto 55.

67 Si veda CHRISTIANS, How Nations Share, cit., p. 1427 ss., ove si rileva come non a caso gli accordi conclusi tra Amministrazione Finanziaria statunitense (IRS) e contribuente (an-che in materia di TP) siano non soggetti agli obblighi di trasparenza stabiliti dal Freedom of Information Act (FOIA); ciò a causa della loro duplice natura: legale (di atti amministrativi) e non legale (di accordi diplomatici, la cui negoziazione «reflects considerations other than inter-pretation of the substantive law»: così ivi p. 1428).

68 Non a caso il governo statunitense paventa il rischio che gli Stati membri, per effetto di quella che qui si è detta “dottrina Vestager”, possano non avere la capacità di onorare appie-no le DTCs stipulate con gli Stati uniti: cfr. US DEPT. TREASURY, op. cit., p. 22 ss.

69 Sul fatto che al formale consenso (internazionale ed europeo) sull’ALP, dovuto alla sua vaghezza ed ampia elasticità, si accompagni un sostanziale dissenso in ordine alle concrete mo-dalità applicative, si veda PICCIOTTO, Indeterminacy, Complexity, Technocracy and the Reform of International Corporate Taxation, in Social & Legal Studies, n. 2, 2015, 24, p. 180.

70 CHRISTIANS, How Nations Share, cit., p. 1435. 71 In tal senso, LANG, Tax Rulings and State Aid Law, in British Tax Review, n. 3, 2015, pp.

394-395.

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Francesco Pepe 727

Che poi il “dirottamento” degli imponibili consentito (concesso?) dallo Stato sia pre-ordinato ad una contropartita, in specie di tipo occupazionale, affiora in termini abbastanza nitidi anche dalle decisioni commentate

72. Frequentemen-te, la percezione dell’enorme potere economico di alcune MNEs (per mole di investimenti sul territorio)

73, del vantaggio che esse possono apportare all’eco-nomia nazionale, nonché alla loro elevata mobilità (capacità di “fuga” in altri paesi), spinge gli Stati – in sede di valutazione del TP – a “negoziare” con esse trattamenti fiscali individuali (per così dire ...) più adatti alle loro “esigenze”, in cambio di una loro “permanenza” sul mercato interno (c.d. sweetheart deals)

74. Ebbene, anche qui, l’approccio sostanzialmente “vincolante” della Com-

missione in ordine ai criteri di stima del TP di fatto neutralizza un mezzo (oc-culto) di politica economica e commerciale degli Stati membri

75, con ciò toc-cando interessi spesso considerati più importanti anche del recupero di ingen-ti quote di gettito. Non a caso – per citare l’esempio più significativo – l’Irlan-da, nella nota vicenda Apple, pur ammessa al recupero di circa 13 miliardi di euro (!), ha comunque ritenuto di ricorrere dinanzi i giudici europei contro la decisione della Commissione

76. In terzo luogo, l’innesto dell’ALP nella disciplina europea sugli aiuti di Sta-

to, il dover rispecchiare tale criterio un approccio metodologico avallato dalle istituzioni europee (Commissione e, in seconda battuta, Corte di Giustizia), la vincolatività giuridica di tale disciplina per gli Stati membri ed il conseguente “indurimento” (hardening) dell’ALP in area UE

77, il rappresentare l’UE la più grande organizzazione economica e commerciale “regionale” al mondo; tutto

72 Cfr. in particolare COMMISSIONE EUROPEA, Decisione C(2014) 3606 final, Apple, spec. par. 2.3.

73 Sul potere “politico” delle MNEs nell’attuale contesto economico “globale”, si veda, per ampi riferimenti, FOCARELLI, op. cit., spec. pp. 243-245, ove tuttavia nel senso di non ri-tenerli autonomi soggetti di diritto internazionale.

74 Cfr. PICCIOTTO, Indeterminacy, Complexity, Technocracy, cit., pp. 169-170, il quale ri-conduce le incertezze sottese all’applicazione dell’ALP in materia di TP all’ampio grado di astrattezza (liberal legality) che contraddistingue la previsione di tale principio.

75 Sull’uso degli APAs come strumenti di negoziazione tra Stato e MNE (se unilaterali) o tra più Stati e MNE (se multilaterali), nonché sulla capacità di tali accordi di spostare la go-vernance fiscale internazionale dal livello sovranazionale al livello statale, si veda BREM-TU-CHA, Globalization, Multinationals, and Tax Base Allocation: Advance Pricing Agreements as Shifts in International Taxation?, in READ-GREGORIOU (Eds.), International Taxation Hand-book. Policy, Practice, Standards, and Regulation, Oxford, 2007, p. 111 ss.

76 D’AGNONE, op. cit., pp. 2-3; ROSSOLILLO, op. cit., pp. 2 e 5. 77 Sulle relazioni tra hard law e soft law in materia tributaria, si veda GRIBNAU, Soft law and

taxation: EU and international aspects, in Legisprudence, n. 2, 2008, 2, p. 67 ss.

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questo conferisce a Bruxelles – di fatto, sul piano politico – una enorme forza “trainante” nell’evoluzione della disciplina del TP non solo nei rapporti tra Stati membri, ma anche tra di essi e paesi terzi e, quindi, in seno all’OCSE. L’UE – mettendo l’ALP al centro della disciplina sugli aiuti di Stato ove appli-cata alle MNEs – finisce cioè per assumere unilateralmente un ruolo “egemo-ne” in materia, divenendo sostanzialmente una sorta di “giudice ultimo” della corretta declinazione del principio. Circostanza questa che pone un evidente pro-blema di politica internazionale

78, emergendo il rischio che la Commissione un domani – forte anche qui dell’ampia opinabilità del criterio – possa intenzio-nalmente (ma occultamente) “manipolare” gli standard di giudizio dei tax ru-lings, non tanto per meglio attuare i fini del diritto dell’Unione, quanto per acquisire un maggior potere negoziale nelle relazioni economiche e commer-ciali con i paesi terzi. Solo un rischio, certo, ma che in una dimensione geo-politica nessuno Stato è disposto ad accettare a priori, come mostrato dall’im-mediata e aperta reazione degli Stati Uniti.

A quanto sin qui detto, devono aggiungersi alcune brevi considerazioni su un particolare aspetto dell’ALP in sé. Come già osservato, tale criterio, in quan-to orientato alla “parificazione” fiscale tra società appartenenti a MNEs e SAEs, presuppone che tra queste vi sia una similarità in fatto ed in diritto. Tra-lasciando la prima assunzione (similarità in fatto, sicuramente opinabile)

79, l’ac-

78 Non solo per l’attrito con la “soft obligation” in capo agli Stati membri dell’OCSE posta dalle Guidelines sul TP da quest’ultima elaborate, ma anche nei rapporti tra UE e tale istituzione ed in specie con gli Stati Uniti, da sempre paese maggiormente attivo in essa: sul punto, cfr. VEGA, International governance through soft law: The case of OECD transfer pricing guidelines, in TranState Working Papers, n. 163, 2012, reperibile su http://hdl.handle.net/10419/59530.

79 La “similarità” in fatto tra società appartenenti a MNEs e SAEs è ampiamente discussa. Ovviamente, non è questa la sede per affrontare un simile problema. Vale la pena tuttavia incidentalmente osservare come trattasi – anch’esso ed in ultima analisi – di questione “poli-tica” in senso lato (in ordine alle voci di dissenso nei confronti dell’ALP, provenienti in spe-cie da attori esterni agli “specialisti del TP”, nonché sulle ragioni di carattere squisitamente politico ad esse sottese, si veda, in special modo, GRINBERG, Breaking BEPS: The New Interna-tional Tax Diplomacy, Working Draft, 10 settembre 2015, reperibile su http://scholarship. law.georgetown.edu/facpub/1787, p. 18 ss.), se non addirittura ideologica, risolvendosi nella scelta (più o meno ragionevole e convincente) degli aspetti strutturali e funzionali dell’im-presa da prendere in considerazione nel raffronto tra SAEe e MNEs ai fini del giudizio di si-milarità o meno tra le stesse (ritengono le MNEs non comparabili con le SAEs, tra i tanti, CIPOLLINA, I redditi “nomadi”, cit., spec. pp. 35-37, 62-63; BASTIANON, op. cit., par. 5; US DEPT. TREASURY, op. cit., p. 9 ss.; LUJA, Just a Notion of State Aid: How (Not) to Create a Fiscal State Aid Doctrine, in Intertax, n. 11, 2016, p. 789). In questa prospettiva si collocano le recenti proposte di abbandono del separate entity approach (presupposto concettuale dell’ALP) in fa-vore di un unitary approach fiscale alle MNEs, teso a determinare in modo unitario l’impo-

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cettabilità della seconda (similarità in diritto) è stata in alcuni casi messa for-temente in dubbio. Più esattamente, si è affermata la possibilità di utilizzare l’ALP come benchmark di riferimento solo se esso risulta incorporato nella le-gislazione fiscale nazionale. In caso contrario – si sostiene – la Commissione finirebbe infatti per fondare il giudizio di “selettività” della misura sulla base non del sistema fiscale nazionale per come è, ma di un parametro dalla stessa autonomamente elaborato: di un “European arm’s lenght”

80. Probabilmente, sot-to questo aspetto, le criticità sono minori di quanto sembra. Atteso il fine “pa-rificatore” dell’ALP, affinché il suo impiego come benchmark del giudizio di “selettività” sia coerente con il sistema tributario interno è sufficiente che la “ge-nerale” normativa in materia di business and corporate taxation non operi una distinzione tra imprese in ragione della loro appartenenza ad un gruppo; ciò senza necessità (anche) di una esplicita previsione legislativa di tale criterio. Tuttavia, ove non si volesse accogliere una simile lettura del rapporto tra ALP e sistema nazionale, l’intervento della Commissione apparirebbe come teso a contestare non tanto il ruling, quanto – più profondamente – il sistema tribu-tario nazionale. Con tutto ciò che rischia di derivarne in termini di relazioni po-litiche tra Stato membro e UE

81.

nibile di gruppo ed a ripartirlo tra le diverse giurisdizioni fiscali coinvolte (cfr. ex multis PIC-CIOTTO, Is the International Tax System Fit for Purpose Especially for Developing Countries?, in ICTD Working Paper, 13, settembre 2013, p. 27 ss.; AVI-YONAH, Advanced Introduction to International Tax Law, Cheltenham, 2015, p. 90 ss.). Va aggiunto come sempre più spesso, nelle relazioni tra Stati e MNEs, queste siano apprezzate alla stregua di autonomi soggetti politici. Paradigmatica in tal senso la nomina, da parte del governo danese di un ambasciato-re “digitale”, Anders Samuelsen, appositamente incaricato di gestire i rapporti economici tra la Danimarca e le MNEs del web: SERAFINI, Laboratorio Danimarca: primi al mondo ad avere un ambasciatore «digitale», in Corriere della Sera, 7 febbraio 2017, reperibile su http://www. corriere.it/esteri/17_febbraio_08/laboratorio-danimarca-primi-mondo-ad-avere-l-ambasciatore-digitale-fd22efb6-ed6d-11e6-9982-e7f0326adfad.shtml.

80 Così SMIT, op. cit., p. 73; analogamente, CACHIA, op. cit., pp. 33-34, osservazioni da en-trambi formulate in riferimento al caso Apple, essendo l’Irlanda l’unico paese tra quelli coin-volti nelle indagini della Commissione in materia di tax rulings a non aver assunto esplicita-mente nel proprio ordinamento tributario l’ALP.

81 In questo senso, sempre in relazione al caso Apple, si veda ad esempio BASTIANON, op. cit., par. 6.

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9. La non gestibilità procedurale “a regime” della “dottrina Vestager”: rischi e problemi geo-politici legati alla preventiva notificazione dei rulings ed all’e-ventuale recupero dell’aiuto

Vi sono poi due ulteriori profili di criticità della “dottrina Vestager”, an-ch’essi contraddistinti non tanto da aspetti giuridici, quanto – soprattutto – organizzativi e geo-politici.

Innanzitutto, da più parti si è evidenziato come la collocazione dei rulings fiscali sotto il “cappello” della normativa sugli aiuti di Stato implicherebbe “a regime” – regolamento di procedura alla mano – una loro (preventiva) notifi-cazione “in massa” alla Commissione europea, in quanto potenziali “aiuti di nuova istituzione”

82. Questa circostanza – oltre a frustrare la ratio stessa degli APAs (che da strumenti di certezza dei rapporti tributari si trasformerebbero in fattori di incertezza)

83 – esporrebbe le istituzioni europee a due concrete evenienze (o, se si vuole, effetti collaterali): (i) da un lato, che l’attività di con-trollo della Commissione possa incepparsi per l’enorme mole delle notifiche, possa risultare cioè lenta, inefficace ed inadeguata, sia rispetto alla più celere tempistica richiesta per le scelte di investimento delle imprese (con ciò crean-do quindi un sostanziale freno burocratico allo sviluppo economico nell’U-nione), sia rispetto alla possibilità di recovery dell’aiuto, atteso che un signifi-cativo ritardo nella risposta da parte della Commissione integrerebbe, secon-do giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia, un caso paradigmatico di “legittimo affidamento”

84; (ii) dall’altro, ed in particolar modo, al rischio di incentivare la pratica di rulings “orali”, gentlemens’agreements non scritti, con-cordati tra MNEs ed alti funzionari delle Amministrazioni nazionali, attraver-so cui garantire ad esempio – alle condizioni fissate nell’accordo verbale – la concreta assenza di verifiche fiscali da parte dell’autorità statale

85. Con ciò ot-tenendo di fatto il medesimo risultato, evitando tuttavia – in assenza di un at-to formale – un controllo da parte della Commissione. Quest’ultima eventua-lità – si noti – trasformerebbe una competizione fiscale (più o meno dannosa,

82 In tal senso, LUJA, op. cit., p. 790; ROSSI-MACCANICO, Fiscal State Aids, cit., p. 74. 83 Si parla in dottrina, a tal proposito, di State Aid risk, intendendosi per tale il rischio che,

pur raggiunto l’accordo tra Stato membro e MNEs, questo possa successivamente, di fatto, essere rimesso in discussione e completamente vanificato dalla Commissione europea, a segui-to di una verifica sul rispetto della normativa sugli aiuti di Stato: in tal senso, ex multis, ROSSI-MACCANICO, op. ult. cit., p. 74.

84 Cfr. retro, par. 4. 85 WATTEL, op. cit., p. 801.

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ma comunque) esplicita in una competizione fiscale occulta, aspetto che – ol-tre ad avvantaggiare molto probabilmente gli Stati “più piccoli” (con Ammi-nistrazioni più “snelle” e facilmente controllabili dalla politica) – potrebbe ali-mentare un clima di sfiducia reciproca e di rivendicazione tra Stati membri, a detrimento del processo di integrazione europea.

Ad accentuare tale clima vi sono le possibili conseguenze – sul piano dei rapporti tra Stati membri e tra di essi e paesi terzi (in specie, Stati Uniti) – de-rivanti dall’esecuzione della decisione di recupero della (minor) imposta ver-sata dalle MNEs per effetto del ruling

86. Come noto, se da un lato la Commis-sione dispone di poteri ampiamente discrezionali non solo nella valutazione in merito alla sussistenza di un aiuto di Stato

87, ma anche nella richiesta di re-cupero delle somme corrisposte alle imprese (e degli interessi su di esse)

88; dal-l’altro, gli Stati (rectius: le Amministrazioni fiscali nazionali ed i giudici interni) dinanzi ad una eventuale decisione in tal senso non possono esimersi dall’at-tuarla (pena la sottoposizione ad una procedura di infrazione e l’eventuale ir-rogazione di una sanzione pecuniaria)

89. Nel caso Apple, questo obbligo è de-clinato in termini del tutto peculiari a causa della specifica architettura socie-taria sottoposta al vaglio della Commissione. Il dirottamento di imponibili dall’Irlanda verso società del gruppo “apolidi” ed il relazionarsi di queste ulti-me con società del gruppo residenti in altri Stati membri e negli Stati Uniti aprono alla possibilità di rettifica degli imponibili (e di recupero a tassazione) da parte di altre autorità nazionali. Onde evitare una duplicazione di prelievo nei confronti della medesima quota di profitti, la Commissione precisa dun-que il potere (dovere?) dell’Irish Revenue Office di ridurre l’ammontare delle imposte non versate da recuperare verrebbe delle maggiori imposte sugli utili

86 Sui poteri della Commissione e delle autorità amministrative e giurisdizionali naziona-li, in ordine al recupero degli aiuti di Stato, si veda AMATUCCI, Il ruolo del giudice nazionale in materia di aiuti fiscali, in Rass. trib., 2008, p. 1282 ss.; nonché, da ultimo, MAITROT DE LA MOT-TE, The Recovery of the Illegal Fiscal State Aids: Tax Less to Tax More, in EC Tax Review, n. 2, 2017, p. 75 ss.

87 Il successivo ed eventuale controllo da parte della Corte di Giustizia, in sede di impugna-zione della decisione da parte dello Stato o delle imprese coinvolte, limitandosi «alla verifica del rispetto delle regole di procedura e di motivazione, nonché al controllo dell’esattezza mate-riale dei fatti presi in considerazione e dell’assenza di errori di diritto, di errori manifesti nella valutazione dei fatti o di sviamento di potere» (così, Corte di Giustizia, 29 aprile 2004, causa C-372/97, Italia c. Commissione, p. 83): sul punto, AMATUCCI, op. ult. cit., p. 1282 ss.; MAI-TROT DE LA MOTTE, op. ult. cit., p. 87.

88 MAITROT DE LA MOTTE, op. ult. cit., p. 80 ss. 89 MAITROT DE LA MOTTE, op. ult. cit., p. 79 ss.

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registrati da Apple Sales International e Apple Operations Europe eventualmen-te richieste da altri Stati; così come analoga riduzione andrebbe operata «se le autorità degli Stati Uniti dovessero imporre ad Apple di versare [...] importi maggiori alla società madre statunitense per il finanziamento delle attività di ricerca e sviluppo», essendo tali attività «svolte negli USA da Apple per conto di Apple Sales International e Apple Operations Europe, che effettuano già a tal fine versamenti annuali»

90. Questa eventualità, se da un lato rende ancor più evidente la non adegua-

tezza della normativa in materia di aiuti di Stato a contrastare forme di HTC attuate per mezzo di rulings fiscali riguardanti MNEs (la disciplina relativa alla recovery dell’aiuto appare infatti pensata in funzione di situazioni confinate entro singole giurisdizioni fiscali)

91; dall’altro, può creare i presupposti per un “contenzioso” tra Stati in ordine all’an ed al quantum di recupero, certamente idoneo ad alimentare tensioni tra di essi.

III. IL RILIEVO GIURIDICO DEI RISVOLTI GEO-POLITICI DELLA “DOTTRI-NA VESTAGER”

10. La rilevanza giuridica dei risvolti geo-politici delle azioni delle istituzioni europee: una breve premessa

Quanto sin qui detto mette in luce quello che, a sommesso avviso di chi scrive, costituisce il fattore di specificità – teorica e pratica – delle questioni sollevate dalla “dottrina Vestager”. Molte delle pretese criticità sul piano giu-ridico in realtà possono essere fortemente ridimensionate. In fondo, l’agire della Commissione appare grosso modo in linea con le sue prerogative, per come letteralmente tracciate dai Trattati e dal diritto europeo “derivato”. Essa agi-sce nell’esercizio dei poteri conferitegli dalla disciplina sugli aiuti di Stato, si

90 Così il Comunicato stampa della Commissione del 30 agosto 2016 (IP/16/2923). 91 Correttamente rileva SMIT, op. cit., p. 73 come in tal caso l’effetto vantaggioso per Ap-

ple discenda da un disallineamento tra ordinamento tributario statunitense ed ordinamento tributario irlandese, ma – proprio per questo (l’essere frutto di un “mismatch” tra le due nor-mative) – detto effetto non può essere imputato solo ad uno dei due paesi. Il che solleva la que-stione circa il paese con diritto di recuperare l’imposta, questione che la Commissione risolve “salomonicamente” (ma molto opinabilmente) prendendo una recovery da parte irlandese con possibilità di riduzione in presenza di richieste da parte di altri Stati.

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occupa di una misura fiscale individuale che – indubbiamente – può favorire le MNEs rispetto alle SAEe, utilizza un criterio (l’ALP) condiviso a livello in-ternazionale e, almeno in linea di principio, senza espressamente rigettare le guide-lines OCSE in materia. Insomma, formalmente e sul piano giuridico, la Commissione appare difficilmente attaccabile. Eppure, si è visto, a causa della peculiarità dei casi (l’essere l’aiuto fiscale scaturente direttamente da un atto amministrativo a carattere individuale), la sostanza della sua azione appare su-scettibile di generare una serie di “tensioni” sul piano geo-politico: (i) tra Stati membri e UE, sia in relazione alla posizione che la Commissione finisce per as-sumere rispetto alle Amministrazioni tributarie nazionali (di autorità di se-condo grado), che alla riduzione dei margini di eventuale “negoziazione” del-le liti sorte nell’ambito di DTCs, nonché per la neutralizzazione dei tax rulings quali strumenti (seppur occulti) di politica economica e commerciale; (ii) tra Stati membri, in relazione al rischio che alcuni di essi possano – nel futuro – seguire la via dei rulings “orali”, alimentando un clima di sospetto e sfiducia reciproca; (iii) tra UE e paesi terzi, in relazione al ruolo “egemone” unilate-ralmente acquisito dalle istituzioni europee in materia di TP ed al rischio di un “uso” di tale ruolo per meri fini di politica internazionale (e non sempli-cemente di tutela del mercato comune europeo).

Ora, come accennato in apertura ed a sommesso avviso di chi scrive, questi aspetti – pur attenendo ad una dimensione non propriamente giuridica – a ben vedere interessano (o dovrebbero interessare) anche il giurista, potendo essi a certe condizioni incidere sulla tenuta giuridica della “dottrina Vestager”. Il discorso impone ovviamente un approfondimento sulle dinamiche che ca-ratterizzano il processo di integrazione europea e sulle molteplici implicazioni di queste ultime; dinamiche che possono essere comprese se contestualizzate entro il quadro dei c.d. processi di “integrazione politica internazionale”.

11. Segue: l’evoluzione del diritto UE nel quadro dei c.d. processi di “integra-zione politica internazionale”

Pur se frenati o ritardati dalle imprevedibili oscillazioni del pendolo della storia, i processi in questione solitamente si sviluppano su due fronti: (a) da un lato e per definizione, attraverso il trasferimento di “autorità” dagli Stati na-zionali ad un ente sovranazionale, ossia l’attribuzione a quest’ultimo del potere di scegliere come allocare i “valori” all’interno dei vari sistemi nazionali (nella sua fase, per così dire, ascendente); (b) dall’altro, e necessariamente, imponen-do – o quanto meno rendendo “permeabili” – gli ordinamenti nazionali alle scelte

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normative politiche e valoriali sancite a livello sovranazionale (fase discendente): quella che, nel contesto dell’Unione, è stata efficacemente definita “europeiz-zazione” del diritto interno

92. Prendendo ad esempio proprio l’integrazione europea – caso più eclatante

e più studiato dei processi di “integrazione politica internazionale” 93 – la sto-

ria ha mostrato, infatti, come il suo svolgersi, in entrambe le sue fasi e nel cor-so del tempo, inevitabilmente generi sotto aspetti sempre diversi “tensioni” po-litiche tra i vari attori in gioco

94: (i) tensioni interne ai singoli Stati nazionali, esposti a più o meno significative “resistenze” (ora burocratiche

95, più spesso) democratiche, non sempre riuscendo il governo nazionale a rendere ragione al

92 Sul tema, e sulla nozione di “integrazione politica internazionale”, si rinvia a ATTINÀ-NATALICCHI, L’Unione europea. Governo, istituzioni, politiche, Bologna, 2007, spec. pp. 15 ss. e 139 ss., i quali, assumendo il modello teorico delineato da SCHMITTER, A revised theory of re-gional integration, in LINDBERG-SCHEINGOLD (a cura di), Regional Integration. Theory and Re-search, Cambridge, Mass., 1971, p. 232 ss., mettono in luce le tre dimensioni della realtà spa-ziale-giuridica su cui un simile processo impatta: (i) la dimensione territoriale, identificativa di quali e di quanti Stati nazionali sono coinvolti nel progetto di integrazione politica, nonché delle eventuali “deroghe” previste in favore di alcuni di essi (si pensi alle clausole di opting-out di cui fruiscono attualmente diversi Stati membri dell’UE, e su cui cfr. infra, nel testo); (ii) l’ambito di autorità, ovvero la descrizione della c.d. “sfera delle competenze” (o “attribuzio-ni”) assegnate all’istituzione sovranazionale, le materie cioè su cui quest’ultimo può legifera-re (o concorrere a legiferare); (iii) il livello di autorità, le c.d. “regole del gioco”, ossia i diversi sistemi di regole tese a definire la tipologia di poteri necessari all’integrazione, il loro riparto tra ente sovranazionale e Stati nazionali (espressa, nel contesto dell’UE, dalla articolazione tra competenze “esclusive”, “concorrenti” e “parallele”), nonché le forme ed i principi dei processi decisionali. Sul processo di “europeizzazione” dell’ordinamento tributario italiano, con particolare riferimento ai profili di attuazione del prelievo ed alle forme di tutela del con-tribuente, si veda, su tutti, DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica eu-ropea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010.

93 I più importanti studi sul tema generale della “integrazione politica internazionale” hanno ad oggetto proprio l’esperienza europea: si vedano in particolare ROSAMOND, Theories of European Integration, Basingstoke, 2000; WIENER-DIEZ (a cura di), European Integration Theory, Oxford, 2004.

94 Sulla storia dell’integrazione europea, si veda: NUGENT, Governo e politiche dell’Unione europea, I, Storia e teorie dell’integrazione, Bologna, 2008; MORELLI, Storia dell’integrazione euro-pea, Milano, 2011; MAMMARELLA-CACACE, Storia e politica dell’Unione europea, Roma-Bari, 2013; GILBERT, Storia politica dell’integrazione europea, Roma-Bari, 2008; PAPA, Storia dell’u-nificazione europea. Dall’idea di Europa al Trattato per una nuova Costituzione europea, Mila-no, 2006; OLIVI-SANTANIELLO, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda ai giorni nostri, Bologna, 2015.

95 Attesa la naturale tendenza degli apparati burocratici a divenire nella loro azione “auto-referenziali” e, quindi, a porre freni ad ogni tentativo di cambiamento del proprio assetto: sul tema, si veda POGGI, La burocrazia. Natura e patologie, Roma-Bari, 2013, spec. p. 55 ss.

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corpo elettorale della “cessione di sovranità” operata in favore dell’Unione 96;

(ii) tensioni tra i vari Stati membri, i cui “rapporti di forza” appaiono sempre esposti ad indesiderate alterazioni via via che l’integrazione prende forma (con necessità, a volte, di “compensazioni” su altri fronti); (iii) tensioni tra gli Stati e le stesse istituzioni europee, sia nella scelta delle linee politiche comuni da seguire che nella loro successiva attuazione. Sotto quest’ultimo profilo sem-bra utile evidenziare come anche scelte pienamente condivise tra gli Stati non siano al riparo – giusta la fase della loro concreta implementazione – dalla possibi-lità di causare aspri conflitti. Da un lato, infatti, l’ottica della partecipazione degli Stati membri al processo in questione è pur sempre utilitaristica: si entra nell’UE perché ciò appare vantaggioso (sotto uno o più profili, economici e non), ma l’utilità iniziale potrebbe sempre venir meno

97. Dall’altro, l’imposta-

96 Sin dalla bocciatura, da parte dell’Assemblea francese (1954), del Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED), con conseguente fallimento del progetto di Co-munità politica europea (il più ambizioso tentativo di integrazione politica in Europa dal se-condo dopoguerra), fino alla mancata ratifica (per via referendaria) del Progetto di Costituzio-ne Europea da parte di Francia e Olanda (2005), passando per la costante scarsa affluenza alle elezioni del Parlamento europeo (1999, 2004, 2009), oltre alla progressiva diffusione di par-titi e movimenti politici di ispirazione “anti-europeista” (su tutti questi fatti, cfr. MAMMAREL-LA-CACACE, op. cit., pp. 72 ss., 284 ss., 319 ss., 322 ss., 344; GILBERT, op. cit., pp. 33 ss., 65 ss.; ATTINÀ-NATALICCHI, op. cit. p. 144 ss.), il problema del “consenso” democratico appare afflig-gere da sempre il processo di integrazione europea. Il che può spiegarsi con il carattere conflit-tuale che sembra emergere tra quelle che taluno, efficacemente, ha definito le “tre Europe”: i) l’Europa dei popoli (ossia quella società inter-culturale, priva di formalizzazione geo-politica, giuridica ed istituzionale, ma storicamente esistente); ii) l’Europa degli Stati (dei 54 Stati che la compongono, eterogenei, ma uniti sotto il cappello della CEDU); infine, iii) l’Europa dei Capi di Stato e dei Governi, ossia l’UE, realtà ben più circoscritta e definita nei suoi contorni geografici e valoriali dai Trattati dell’Unione. Sul punto, si rinvia a VIOLA, Europa: diritti e identità, in STRAZZERI (a cura di), Identità e diritti in Europa, Padova, 2004, p. 56 ss., spec. p. 60 ss., ove si evidenzia come l’iniziale “pacifica” coesistenza di tali realtà – legata ad un tacito riparto delle rispettive competenze (rappresentanza democratica, diritti fondamentali, econo-mia e mercato) – sia stata compromessa dall’evoluzione dell’UE, in quanto sempre più pro-tesa alla tutela dei diritti ed a ridurre il proprio deficit democratico, con sovrapposizione delle diverse “Carte dei diritti” (costituzioni nazionali, CEDU, Carta di Nizza). In particolare, que-st’ultimo aspetto è stato autorevolmente ricondotto entro il quadro del c.d. multilevel con-stitutionalism (si veda PERNICE, Multilevel Constitutionalism in the European Union, in Wal-ter Hallstein-Insitute Paper n. 5, 2002, reperibile su http://www.whi-berlin.de/documents/ whi-paper0502.pdf), formula che ha avuto ampio successo per la sua (innegabile) capacità esplicativa, ma che – tuttavia – non ha eliminato la conflittualità tra i diversi sistemi “costitu-zionali”, il cui rapporto – proprio perché non gerarchico – finisce per collocarsi sul (ben più incerto) terreno assiologico e politico (in tal senso, cfr. MAESTRO BUELGA, La crisi dell’inte-grazione: economica e costituzionale, in CANTARO (a cura di), Il costituzionalismo asimmetrico dell’Unione. L’integrazione europea dopo il Trattato di Lisbona, Torino, 2010, pp. 38-41).

97 Sul punto, in generale, in relazione alla logica sostanzialmente utilitaristica della parte-

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zione funzionalistica che da sempre connota il processo di integrazione euro-pea per sua natura implica, nel suo c.d. spilling over, il rischio di conseguenze impreviste (unintended consequences), a volte utili a rinfocolare l’avvicinamen-to tra gli Stati

98, altre volte però fortemente divisive, capaci cioè di frenare o addirittura far regredire tale processo

99. (iv) Infine, tensioni nei rapporti con i cipazione di qualunque Stato ad una organizzazione internazionale, si veda A. TANZI, Intro-duzione al diritto internazionale contemporaneo, Padova, 2016, pp. 602-603; nonché, in una prospettiva storiografica ed in relazione al processo di integrazione europea, v. MILWARD, The European Rescue of the Nation State, London, 2000; MORAVCSIK, The Choice for Europe: So-cial Purpose and State Power from Messina to Maastricht, Ithaca (N.Y.), 1998, per i quali la partecipazione degli Stati membri a tale processo avrebbe – per l’appunto – un carattere squisi-tamente utilitaristico (e non ideale).

98 Esclusa la praticabilità politica di una rivoluzione “federalista”, idealmente identificabile nel “Manifesto di Ventotene” di A. Spinelli (1941), tesa alla completa eliminazione degli Sta-ti nazionali (additati a responsabili delle due guerre mondiali) attraverso l’istituzione di un governo mondiale (c.d. federalismo integralista) ovvero di uno Stato federale costituito dalle sole comunità regionali; abbandonata altresì l’idea di una Unione o Confederazione di Stati nazionali cooperanti tra di loro, la soluzione pratica alla volontà (politica) di creare una “unio-ne” tra i principali Stati europei del secondo dopoguerra venne individuata nell’impostazione c.d. funzionalista; impostazione elaborata teoricamente dall’economista rumeno D. Mitrany (nel saggio MITRANY, A Working Peace Sistem. An Argument for the Functional Development of International Organization, London, 1943) e messa per la prima volta in pratica grazie all’ap-porto politico di J. Monnet e R. Schumann, ispiratori e principali artefici della Comunità Eu-ropea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), istituita il 18 aprile 1951 (sul punto, si veda MAM-MARELLA-CACACE, op. cit., spec. pp. 45-53). L’approccio funzionalista ribalta completamente la logica dei federalisti e degli unionisti-confederali: sposta l’accento dalla dimensione strut-turale del progetto unificativo (modifica degli assetti istituzionali attraverso l’eliminazione o ri-allocazione delle competenze dello Stato-nazione) alla sua dimensione – appunto – fun-zionale, attraverso l’attribuzione ad una autorità sovra-nazionale della competenza a “gestire” specifici settori di attività di originaria pertinenza degli Stati. L’idea di fondo (o forse la spe-ranza) alla base del metodo funzionalista stava nella presunta capacità di auto-espansione (self-expanding) e di “ramificazione” del processo di integrazione che esso avrebbe generato. La creazione di una politica comune in un settore si riteneva infatti avrebbe prodotto non solo gli effetti di integrazione previsti ed implicati nel trasferimento di competenza, ma anche ef-fetti imprevisti (unintended consequences); nuovi problemi comuni che avrebbero spinto ver-so ulteriori interventi comuni (c.d. effetto spill-over), nel senso o di un ampliamento dei set-tori oggetto di integrazione (sul versante dell’ambito dell’autorità) o del trasferimento all’en-te sovranazionale di una fetta maggiore di autorità nei medesimi settori (sul fronte del livello di autorità). Sul funzionalismo, sui suoi caratteri, sulle sue diverse declinazioni, sulle critiche ad esso opposte, si rinvia a ATTINÀ-NATALICCHI, op. cit., p. 75 ss., ove per ampi riferimenti.

99 L’esempio storico paradigmatico è dato dalla Politica Agricola Comune (PAC), la cui implementazione provocò – per mano di De Gaulle – la più grande crisi del processo di inte-grazione europea, comunemente detta “della sedia vuota”. Sul punto, si rinvia a MAMMARELLA-CACACE, op. cit., p. 110 ss.; GILBERT, op. cit., p. 66 ss.; sulle finalità, sui problemi e sull’evo-luzione della PAC, si veda ATTINÀ-NATALICCHI, op. cit., p. 199 ss.; nonché NUGENT, Governo e politiche dell’Unione europea, III, Politiche e processi, cit., p. 109 ss.

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Paesi terzi, essendo gli esiti del processo legati a doppio filo non solo al conte-sto interno, ma anche (e forse soprattutto) al contesto esterno, ossia dallo scenario politico ed economico internazionale; scenario il quale anzi, in alcuni momenti cruciali della storia dell’integrazione europea, ha giocato un ruolo determinante, ancor più delle relazioni e delle esigenze degli stessi paesi eu-ropei

100. Ebbene, non può non rilevarsi come sia stata proprio l’esigenza di “gestire”

tali tensioni e conflitti – di contenerli cioè, e per quanto possibile, nel quadro del processo di integrazione – a rappresentare la cifra costitutiva del diritto europeo e del suo progressivo sviluppo.

Questo aspetto è emerso in termini sempre più netti ed evidenti man ma-no che l’integrazione si è sviluppata nella sua dimensione territoriale, con l’in-gresso (Consiglio Europeo di Copenaghen del dicembre 2000) degli Stati del-l’area baltica, balcanica e scandinava. Il maggior numero di partecipanti, non-ché la loro marcata differenziazione culturale, politica ed economica rispetto ai sei Stati fondatori (molti dei nuovi membri appartenevano infatti all’ex-blocco sovietico), non poteva non rendere più incerta e fragile l’opera di integrazione europea

101. In questa prospettiva, negli anni concomitanti e immediatamente successivi a tale allargamento, vi è stata una azione da parte dell’Unione tesa, da un lato, a ridurre tali differenze (aiuti concessi agli Stati dell’ex-blocco sovie-tico

102, “politiche di coesione” 103); dall’altro, ed in particolare, a neutralizzare,

100 Si pensi ai rapporti tra USA e URSS, durante la Guerra fredda. È dato tendenzialmen-te pacifico tra gli storici il fatto che ad incentivare e sostenere, inizialmente, il processo di in-tegrazione europea furono gli Stati Uniti. L’esigenza di evitare una “bolscevizzazione” del-l’Europa (ed in primis della Germania) – circostanza probabile attese le condizioni di estre-ma povertà cui versava l’Europa nel secondo dopoguerra – spinse l’allora presidente Truman a sposare una politica “interventista” nel Vecchio continente (dottrina Truman), così da legare gli Stati ad esso appartenenti al proprio modello economico e culturale (piano Marshall) ed a sottoporli al proprio “cappello militare” (Patto Atlantico) (sul punto, si veda MAMMARELLA-CACACE, op. cit., p. 25 ss.); ma si pensi altresì all’allargamento dell’Unione, a partire dal 2000 agli Stati dell’ex-est europeo, legata soprattutto alla necessità di ri-collocare geo-politicamen-te l’Europa, acquisendo un ruolo “paritario”, tra USA e Russia e nell’ambito della stessa NA-TO (sul punto si rinvia a DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali, III, Dalla fine della guerra fredda a oggi, Roma-Bari, 2016, p. 153 ss.).

101 Sul punto, GILBERT, op. cit., p. 208 ss. 102 Ossia gli aiuti elargiti attraverso la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo,

la Banca Europea per gli Investimenti ed il programma Phare per l’assistenza tecnica e scien-tifica: v. GILBERT, op. ult. cit., p. 208.

103 L’art. 2 ex TCE poneva infatti l’obiettivo dello sviluppo “armonioso” dell’economia at-traverso la realizzazione del mercato unico; cosa che non avrebbe potuto però realizzarsi ove i principi della libera concorrenza fossero stati acriticamente applicati in modo uniforme ad

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secondo varie strategie, i potenziali fattori di conflitto e tensione tra gli Stati mem-bri che queste ultime differenze avrebbero potuto generare ove non eliminate.

Sotto quest’ultimo profilo – fallito il tentativo di una “integrazione c.d. iden-titaria” (per mezzo del progetto di Costituzione europea)

104 – si consideri, in specie: (a) il mutamento del paradigma di integrazione, da un funzionalismo c.d. unitario e simmetrico, di ispirazione monnetiana (certamente adatto ad un contesto ristretto ed omogeneo di Stati), ad un funzionalismo c.d. flessibile ed asimmetrico, consacrato nel Trattato di Lisbona, ed espresso dalla possibilità di differenziazione del diritto europeo a seconda delle concrete capacità dello Stato membro di procedere nella convergenza verso il sistema comune (clau- aree contraddistinte da forti disparità economiche ed infrastrutturali. Da qui l’esigenza di ri-durre tali disparità, come noto manifestatesi soprattutto a seguito dell’allargamento dell’U-nione ai paesi dell’est europeo. Sull’evoluzione delle “politiche di coesione” nell’ambito del-l’UE (ex CE), nonché sulla loro (tuttavia) scarsa efficacia, si veda ATTINÀ-NATALICCHI, op. cit., p. 209 ss.

104 L’originario approccio “funzionalista”, basato sullo spill-over settoriale aveva nel tempo provocato una serie di conseguenze: (i) aveva dato luogo tra gli Stati dell’Unione (ex Comuni-tà) europea ad un processo di integrazione monodirezionale (dall’alto verso il basso) e pretta-mente economica-giuridica; (ii) aveva generato una duplice e speculare conseguenza: l’integra-zione-unificazione dell’economia europea al suo interno, ma – specularmente – la sua “chiu-sura” verso l’esterno (c.d. de-internazionalizzazione dell’economia Europea); (iii) aveva dato sem-pre più spazio, nella sua dimensione regolatrice della comunità politica, ad una visione an-tropologica dell’uomo (individualista ed economicistica) profondamente diversa da quella (personalista) propria delle costituzioni nazionali del secondo dopoguerra. Tutto ciò aveva sollevato un problema di carattere identitario (antropologico), democratico (di legittimazione dell’azione delle istituzioni europee “dal basso”) ed economico-globale (di rapporti commer-ciali con i paesi terzi, in primis con gli Stati Uniti). La soluzione a questi problemi è stata così individuata nella promulgazione di una “Costituzione europea”, che consentisse un cambio di marcia radicale – quanto alla sua “filosofia” di fondo – del processo di integrazione, legando quest’ultimo non più a meri interessi economici, ma ad un “comune senso di appartenenza”, ad una presunta identità culturale e valoriale “comune” agli Stati ed ai popoli europei, che avrebbe fatto loro da “collante”. L’idea di una “unità nella diversità” (unità di valori nella diver-sità delle tradizioni) ha rappresentato così la formula base della Dichiarazione di Laeken (15 dicembre 2001), dei lavori della Commissione Giscard d’Estaing ed infine del progetto di Trattato Costituzionale, firmato a Roma il 29 ottobre 2004. Ragioni di politica interna, paure e preoccupazioni dinanzi alla prospettiva di un eccessivo allargamento (si pensi alla allora que-stione dell’ingresso della Turchia), nonché – forse – una eccessiva accentuazione dei profili di sovra-nazionalità dell’Unione, portarono tuttavia alla bocciatura del Trattato da parte di Fran-cia e Olanda (2005), ponendo fine alle possibilità di una sua ratifica. Sul punto, per una analisi storica, si veda MAMMARELLA-CACACE, op. cit., p. 315 ss.; DI NOLFO, op. cit., p. 158 ss.; NU-GENT, Governo e politiche dell’Unione europea, I, cit., p. 70 ss.; sulla diversa “filosofia” dell’inte-grazione sottesa al progetto costituzionale europeo, in una prospettiva giuridica, si rinvia a CANTARO, Le “filosofie” dell’integrazione sovranazionale, in CANTARO (a cura di), Il costituzio-nalismo asimmetrico dell’Unione, cit., spec. p. 14 ss.

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sole di opting-out, cooperazioni rafforzate) 105; ciò nella speranza di uno spill-

over (non più settoriale, ma) geografico, con i paesi più “veloci” a far da traino a quelli più “lenti”

106; (b) il progressivo ri-orientamento – a partire da Maastri-cht sino ad oggi – del livello di autorità verso gli Stati membri, espresso oltre che dalla già menzionata possibilità di “cooperazioni rafforzate”, altresì dalla conferma del metodo inter-governativo in alcune aree di politica comune ben definite (PESC, GAI) ad alto “tasso di nazionalità”

107, nonché, per quelle ma-terie nella competenza (anche esclusiva) dell’Unione, dalla valorizzazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità (art. 5, par. TUE)

108; oltre che da altri aspetti meno evidenti

109; (c) il sempre più significativo ruolo del Parla-

105 Su tali elementi, si rinvia a ADAM-TIZZANO, Manuale di diritto dell’Unione europea, To-rino, 2014, p. 31 ss.

106 Sul punto, si veda CANTARO, Le “filosofie”, cit., pp. 16-18, ove si evidenzia la consape-volezza e l’implicita accettazione del “potenziale secessionistico” sotteso a tale ultimo ap-proccio. Rischio manifestatosi oggi non più solo teorico, ma reale (Brexit).

107 Come noto, il processo di integrazione, nella sua logica funzionalista, segue un itinera-rio inverso rispetto al processo di creazione dello Stato-nazionale: mentre quest’ultimo si trova ad assumere immediatamente, alla sua nascita, le funzioni essenziali di governo della comunità (legge, giustizia, ordine), per poi eventualmente estendere la propria azione verso altri setto-ri (ad esempio, politiche sociali, occupazionali, secondo il più maturo modello del welfare state), il processo di integrazione può realisticamente operare – basandosi pur sempre sul libe-ro “compromesso” tra Stati sovrani – solo partendo da low politics (ad esempio, la regolazio-ne degli scambi sul mercato), per poi eventualmente aprirsi a higher politics (ad esempio, po-litica estera, difesa comune, giustizia): sul punto, ATTINÀ-NATALICCHI, op. cit., pp. 78-79.

Peraltro, proprio in questa prospettiva sembra comprendersi la svalutazione dei diritti fon-damentali nel diritto UE, seppur considerati principi generali (art. 6, par. 3 TUE; CDFUE). Piuttosto che costituire essi (diritti) elementi per ripensare e ri-plasmare le condizioni di tu-tela delle libertà economiche (come è avvenuto nel costituzionalismo moderno), sono state tali libertà ad assumere – in linea di principio – priorità assiologica rispetto ai diritti fondamentali, dei quali cioè si è data una “lettura economica”; una loro tutela solo se e nella misura in cui ciò non frustri l’effettivo funzionamento del mercato unico, così da ridurre i margini di po-tenziale conflitto tra individui e sistema euro-unitario: sul punto, si veda MAESTRO BUELGA, op. cit., pp. 34-36; nonché, se si vuole, PEPE, Ne bis in idem “europeo” e sanzioni relative a tri-buti armonizzati: tentativi di dialogo e possibili “attriti” tra giudici nazionali e giudici europei, in federalismi.it, n. 19, 5 ottobre 2016, spec. pp. 10-12.

108 Ma si veda il Protocollo (n. 2) annesso al TUE, ove si prevede una specifica procedura volta a coinvolgere i Parlamenti nazionali nella valutazione del rispetto del principio di sussidia-rietà, principio la cui violazione da parte delle istituzioni europee è oggi direttamente giustifi-cabile dinanzi la Corte di Giustizia: sul punto, si veda ADAM-TIZZANO, op. cit., p. 444 ss., spec. p. 447, i quali rilevano come una simile valutazione abbia carattere “più politico ed economico, che giuridico” (a conferma della rinnovata volontà degli Stati di ri-assumere un ruolo centrale nel processo di integrazione, a scapito della sovra-nazionalità).

109 Cfr. ATTINÀ-NATALICCHI, op. ult. cit., p. 71, per i quali anche l’inserimento dell’Alto

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mento europeo nella definizione delle scelte normative a livello sovranaziona-le, nell’evidente prospettiva di garantire una maggior “legittimazione” democra-tica dell’azione politica dell’Unione

110.

12. Segue: l’integrazione tra gli Stati membri come fine ultimo e ragion d’essere fondante l’UE: riflessi sul piano dell’interpretazione del diritto UE e dell’im-plementazione delle politiche europee

La storia dell’ultimo secolo mette in luce alcuni aspetti centrali del proces-so di integrazione europea. Innanzitutto, questo processo appare da sempre improntato al gradualismo, alla prudenza ed al pragmatismo

111. Ciò ha impres-so al diritto dell’Unione – che ne costituisce strumento – la sua originalità: non semplice (statico) insieme di regole, ma espressione di un processo storico-politico a carattere dinamico ed evolutivo (che esso stesso contribuisce poi a de-finire)

112. Ma – si osservi – secondo un percorso tutt’altro che lineare, ed anzi rappresentante (nominato dal Consiglio) nella Commissione sarebbe indice di una “intrusione intergovernativa” in essa.

110 L’evoluzione delle procedure normative all’interno dell’Unione riflette il diverso ruolo che si è inteso attribuire al Parlamento europeo: si è così passati da una semplice funzione con-sultiva (parere sulle proposte della Commissione), ad una procedura di c.d. “cooperazione”, introdotta con l’AUE (1986) con le altre istituzioni (secondo parere sulla posizione comune emersa in seno al Consiglio), via via soppiantata da una vera e propria forma di c.d. “codeci-sione”, prima prefigurata dal Trattato di Maastricht come iter parallelo alla “cooperazione”, poi estesa nel suo ambito dal Trattato di Amsterdam, infine resa generale dal Trattato di Li-sbona, tanto da costituire oggi la “procedura legislativa ordinaria” dell’Unione (art. 289 TFUE). Sul tema, si rinvia ampiamente a ADAM-TIZZANO, op. cit., pp. 190 ss. e 204 ss.

111 Come evidenziato, gli Stati membri e le istituzioni europee si sono sempre ritenuti “li-beri dai modelli” nella costruzione dell’impianto euro-unitario: pur con lo sguardo fermo sul-la “stella polare” dell’integrazione, hanno cioè sempre “navigato a vista”, senza escludere al-cuna soluzione normativa ed istituzionale, nella consapevolezza che un simile itinerario può imporre cambi di rotta, scelte nuove e imprevedibili, anche di rottura rispetto al passato, ove imposto dalle circostanze politiche. Aspetto – proprio questo – che ha reso l’esperienza euro-pea unica nel suo genere, non incasellabile in nessun modello istituzionale del passato, e che «ha permesso al processo di integrazione di subire le più profonde evoluzioni ed al tempo stesso mantenere una condizione di almeno apparente continuità»: sul punto, ed in tali ter-mini, si veda ADAM-TIZZANO, op. ult. cit., p. 5 ss., spec. p. 6.

112 Il diritto dell’UE può infatti ascriversi alla più generale categoria del diritto internazio-nale (sul punto, da ultimo, si veda FOIS, L’Unione europea è ancora un’organizzazione interna-zionale?, in Riv. dir. int., 2016, p. 371 ss.). Come tale, anch’esso si pone non solo come sistema di regole, in tal caso finalizzato a disciplinare la relazioni tra Stati membri e Unione (sul pre-supposto di una loro formale parità) ed il loro processo di integrazione, ma anche e soprat-

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contraddistinto da crisi e riconciliazioni, da tensioni politiche e risoluzioni, da (si passi l’espressione) stop and go, che mai tuttavia hanno frenato il cammino di unificazione, in una logica efficacemente definita “auto-rigenerativa”. In se-condo luogo, e conseguentemente, questo percorso sembra esprimere una sottostante volontà di far procedere comunque l’integrazione (potrebbe dirsi qua-si ad ogni costo!)

113. Di ciò appare sintomatica la ultra-cinquantennale ricerca, predisposizione ed implementazione di strumenti normativi per la “gestione” politica delle (attuali o potenziali) tensioni tra Stati membri, Unione e paesi terzi. In questa prospettiva, l’evoluzione del diritto dell’Unione mostra come in esso in un certo senso non vi siano mai state “vacche sacre”: ogni acquisi-zione normativa, ogni principio generale o assetto istituzionale, anche nei suoi tratti fondamentali, ha sempre manifestato l’attitudine ad essere ri-negoziato; come Lisbona dimostra, a volte anche “passi indietro” nel percorso verso la “so-vra-nazionalità” – paradossalmente – possono essere più utili (se non necessa-ri) a consolidare o non disperdere la “solidarietà di fatto” sin lì creatasi tra gli Sta-ti. Infine, sebbene ciò non sempre venga percepito nitidamente, il vero “mo-tore” del processo di integrazione nell’Unione è sempre stato rappresentato dall’azione (prima politica, poi normativa specialmente attraverso la revisione dei trattati) degli Stati membri, piuttosto che delle istituzioni europee (con la sola eccezione della Corte di Giustizia, limitatamente alla fissazione dei c.d. principi generali di diritto europeo)

114. Ebbene, a sommesso avviso di chi scrive è proprio la persistente volontà di

integrazione – e la sua riferibilità in ultima analisi agli Stati membri – a dare il tutto come codice comunicativo, come “linguaggio” che tali attori oggi adottano in vista del loro futuro interagire, sulla base delle “aspettative” di condotta emergenti dalle scelte adotta-te: sulla natura del diritto internazionale come “codice comunicativo” di interazione tra Stati, si veda A. TANZI, op. cit., p. 3 ss., nonché ONUF, Rule and Rules in International Relations, 24 aprile 2014, reperibile su http://www.helsinki.fi/eci/Events/Nicholas%20Onuf_Rule%20and %20Rules%20%204-2-14.pdf; ID., Institutions, intentions and international relations, in Review of International Studies, 2002, 211; REISMAN, International Law-making: A Process of Commu-nication, in Yale Law School Faculty Scholarship Series, 1981, paper 713, p. 100, reperibile su http://digitalcommons.law.yale.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1719&context=fss_papers.

113 O, per usare la celebre espressione del presidente della BCE Mario Draghi, pronunciata nel giugno 2012 a margine degli interventi della BCE di contrasto alla crisi nella zona Euro, “whatever it takes”: cfr. https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2012/html/sp120726.en.html.

114 In tal senso, per una accurata disamina di questo aspetto, si veda da ultimo FOIS, Gli sviluppi del processo di integrazione europea dal Trattato di Roma ad oggi. Il ruolo degli Stati membri, in Studi integrazione europea, 2017, p. 249 ss. Per una analisi dei diversi principi ge-nerali elaborati dalla Corte di Giustizia e per la loro rilevanza in specie nell’ordinamento tri-butario nazionale, si rinvia a DEL FEDERICO, Tutela del contribuente, cit., spec. p. 9 ss.

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senso ultimo ad ogni disciplina giuridica europea ed a tracciare le linee del suo possibile sviluppo. È – ciò – un dato di fatto storico e politico (nonché cultu-rale e sociologico)

115, che tuttavia mostra altresì una valenza normativa: orien-tando la scelta degli strumenti normativi verso una sempre più diffusa forma di soft law

116 e nel rendersi canone di interpretazione e criterio orientativo dello sviluppo del diritto dell’Unione.

In particolare, da quest’ultimo punto di vista, ogni lettura, ogni linea di in-terpretazione, di applicazione, di implementazione, di “modernizzazione” dell’ordinamento giuridico europeo (da parte della Commissione

117, a volte della Corte di Giustizia) sembra infatti tacitamente sollevare un interrogativo preliminare: se ed in che misura le opzioni proposte possano – tenuto conto del loro impatto sulle relazioni politiche tra Stati membri, UE e, se del caso, paesi terzi – effettivamente agevolare il processo di integrazione ovvero rischino di fru-strarlo. La questione si pone perché, se il fine ultimo dell’Unione, del suo agi-re e in ultima analisi del diritto UE è di creare quella “solidarietà di fatto” tra gli Stati, una linea di azione delle istituzioni europee pur giuridicamente inecce-pibile sul piano formale e de iure condito, dovrebbe pur tuttavia abbandonarsi. E questo – si noti – per una ragione che appare interna al diritto europeo stesso; perché ciò contrasterebbe la propria ragion d’essere (ratio) costitutiva, espressa in primo luogo dagli stessi trattati: l’essere mezzo di integrazione (e non di “dis-integrazione”) degli ordinamenti nazionali

118.

115 Sul processo di integrazione quale elemento insito nel “dna” del continente europeo, cfr. VIOLA, Europa: diritti e identità, cit., p. 70, per il quale «in effetti l’Europa è dal punto di vista sociologico una realtà interculturale. Ed è proprio per questo che l’obiettivo dell’inte-grazione, che si pone l’UE, ha un senso, altrimenti si tratterebbe di una forzatura, di una vio-lenza nei confronti degli orientamenti valorativi e degli stili di vita dei popoli europei»; da qui l’illustre Autore afferma l’idea dell’integrazione quale “obiettivo obbligato” e si pone l’interro-gativo circa il modo in cui dovrebbe essere perseguito.

116 Sul tema, si veda TERRA-WATTEL, op. cit., p. 232 ss.; GRIBNAU, Improving the Legitima-cy of Soft Law in EU Tax Law, in Intertax, 2007, p. 30 ss.; DEAN, Neither Rules Nor Standards, in Notre Dame Law Review, 2013, p. 537, reperibile su http:77scholarship.law.nd.edu/ndlr/ vol87/iss2/2; con riferimento all’uso della soft law nel contesto del diritto europeo, SEDEN, Soft Law in European Community Law; its relationship to legislation, Oxford, 2003; in generale, sull’impiego nel diritto internazionale di strumenti di soft law, nonché sul loro diverso modo di interagire, si veda SHAKER-POLLACK, Hard vs. Soft Law: Alternatives, Complements, and An-tagonists in International Governance, in Minnesota Law Review, 2010, p. 706 ss.; OLSSON, Four Competing Approaches to International Soft Law, in Scandinavian Studies in Law, n. 58, 2013, p. 177, reperibile su http://www.scandinavianlaw.se/pdf/58-9.pdf.

117 Organo infatti istituzionalmente deputato a rappresentare gli interessi dell’Unione nella sua unitarietà.

118 Non a caso, si osservato criticamente da alcuni studiosi di economia come uno dei di-

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Questa considerazione trova un primo generale riscontro nella centralità del metodo sistematico-teleologico adottato dai giudici del Lussemburgo

119, che sembra potersi estendere nella sua ampiezza, dando rilievo non solo alla fun-zione o “scopo” specifico delle discipline di volta in volta considerate (PAC, aiu-ti di stato, ecc.), cui certamente l’interprete “europeo” deve orientare la pro-pria attività ermeneutica, ma anche e soprattutto al fine ultimo e generale del diritto dell’Unione, ossia – si ripete – l’essere pur sempre asservito all’effettiva integrazione tra Stati; scopo che potrebbe dirsi costituire la “ragione delle ra-gioni” o, se si preferisce, la “giustificazione ultima” di tutto il sistema giuridico europeo

120. In fondo, sembra collocarsi in questa prospettiva proprio l’evolu- fetti dell’attuale modo di gestire il processo di integrazione europea stia nella confusione tra mezzi e fini, nella sostanziale elevazione di alcune regole a fini da tutelare sempre e comunque (si pensi ai vincoli di finanza pubblica), non rendendosi conto del loro ruolo invece meramente strumentale (in tal senso, cfr. CIRAVEGNA, Unione europea: divario fra i principi e la gestione poli-tica, in LBE Working Papers, 2016-2/22-LBE, reperibile su http://workingpapers.iuse.it). Sulla integrazione tra gli Stati membri, quale finalità ultima dell’ordinamento europeo, suscettibile di permeare anche l’attività interpretativa del diritto dell’unione ad opera della Corte di Giu-stizia, si veda già PESCATORE, Les objectifs de la Communauté européenne come principe d’inter-prétation dans la jurisprudence de la Cour de justice, in Miscellanea W.J. Ganshof van der Meer-sch, II, Bruxelles-Paris, 1972, p. 325 ss.

119 Sulla centralità del metodo sistematico-teleologico nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, strettamente legato al carattere finalistico dell’ordinamento europeo, sulla dottrina del c.d. effetto utile, nonché sulla funzione peculiare della Corte di Giustizia (organo chiamato anch’esso a contribuire al processo di integrazione tra gli Stati membri) si rinvia a KUTSCHER, Alcune tesi sui metodi di interpretazione del diritto comunitario dal punto di vista d’un giudice, in Riv. dir. europ., 1977, pp. 3-24; MERTENS DE WILMARS, Réflexions su les méthodes d’interpré-tation de la Cour de Justice des Communautées euroéennes, in Cahiers de droit européen, 1986, n. 5; BENGOETXEA, The Legal Reasoning of the European Court of Justice. Towards a European Ju-risprudence, Oxford, 1993, p. 233 ss.; JOUSSEN, L’interpretazione (teleologica) del diritto comu-nitario, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 493; nonché, da ultimo, cfr. l’ampia disamina di INGRA-VALLO, Interpretazione del diritto europeo e sovranità degli stati membri, in DI STEFANO (a cura di), Un diritto senza terra? Funzioni e limiti del principio di territorialità nel diritto internaziona-le e dell’UE, Torino, 2015, p. 203 ss., spec. pp. 207-208 e, in relazione al settore della fiscalità europea, MELIS, L’interpretazione del diritto tributario europeo e internazionale, cit., p. 25 ss., Autori a cui si rinvia per ampi riferimenti giurisprudenziali.

120 Anche i trattati istituivi dell’UE (attualmente il TUE ed il TFUE) vanno interpretati conformemente a quanto sancito dagli artt. 31 e 32 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, disposizioni tese a valorizzare oltre al testo del trattato, al contesto entro cui es-so è stato stipulato, soprattutto il relativo oggetto ed il suo scopo e che oramai, come confer-mato dalla giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia, assumono valenza di con-suetudini internazionali (A. TANZI, op. cit., p. 340). In quanto tali (customary law) ad esse deve conformarsi altresì il diritto dell’Unione e le sue istituzioni (al riguardo, in generale, cfr. ADAM-TIZZANO, op. cit., pp. 149-150). In tal senso, si veda altresì TESAURO, Alcune riflessioni sul ruo-lo della Corte di giustizia nell’evoluzione dell’Unione europea, in Dir. Un. Eur., 2013, spec. pp.

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zione della disciplina degli aiuti di Stato. Come condivisibilmente osservato in dottrina, gli scopi lato sensu “aggregativi” sanciti dai trattati (artt. 2, 3 TUE), rendendo irrinunciabile un qualche intervento dello Stato nell’economia, non potevano che imporre un sostanziale mutamento della ratio alla base della suddetta disciplina, dalla realizzazione di una “fiscalità (quanto più) neutrale” ad una “fiscalità funzionale” (rispetto ai fini ultimi dell’Unione)

121. D’altro canto, se – come è stato rilevato – la “sovranità” (i.e. il consenso politico) de-gli Stati membri (vero “motore” dell’integrazione)

122 costituisce pur sempre li-mite insormontabile anche all’interpretazione teleologica della Corte di Giu-stizia

123, allora, a maggior ragione, analogo limite si imporrebbe altresì all’a-zione “motrice” della Commissione

124. Tutto questo conduce all’interrogativo che qui interessa: se la “dottrina

Vestager” davvero contribuisca al processo di integrazione tra gli Stati membri ovvero se le tensioni geo-politiche e geo-economiche che (specialmente al-l’interno dell’Unione) sta generando o può generare “a regime” non ne possa-no suggerire l’abbandono o, quanto meno, un ridimensionamento. Si ripete: ben poco senso avrebbe infatti sostenere una rigorosissima linea applicativa del-la disciplina sugli aiuti di Stato che – pur coerente con i principi e regole finora 489-490; TIZZANO, Il nuovo ruolo della corte suprema nell’ordinamento politico e istituzionale: la Corte di giustizia dell’UE, in Dir. Un. Eur., 2012, spec. pp. 833-834.

Sulla esigenza – oggi, in un contesto contraddistinto dalla subordinazione della legisla-zione a costituzione e diritto internazionale ed europeo – di interpretare la legge alla luce an-che (ed innanzitutto) dei principi e degli obiettivi generali dell’ordinamento; sulla tendenziale autonomia, quindi, della giustificazione della norma rispetto alla descrizione della condotta ed alla sua qualificazione normativa; sulla conseguente centralità del metodo teleologico-sistema-tico e sulle inevitabili scelte assiologiche (politiche?) degli interpreti, ma sulla insuperabilità – in ogni caso – del dato testuale (pur nella sua massima estensibilità semantica), si rinvia sin d’ora alle ampie e qui condivise osservazioni di VIOLA, Interpretazione e indeterminatezza del-la regola giuridica, in Diritto privato 2001-2002, p. 49 ss. ed altresì reperibile su http://www 1.unipa.it/viola/Indeterminatezza_del_diritto.pdf.

121 In tal senso, si rinvia, anche per ampi riferimenti, allo studio di DEL FEDERICO, Considera-zioni generali sulla finanza pubblica per le aree colpite da calamità: profili europei e comparatistici, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2016, I, spec. p. 126 ss.; nonché MICELI, La metamorfosi del divieto di aiuti di Stato nella materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2015, I, p. 31 ss.; più in generale, si veda COPPOLA, Il fisco come leva ed acceleratore delle politiche di sviluppo, Padova, 2013, spec. p. 71 ss.

122 FOIS, Gli sviluppi del processo di integrazione europea, cit. 123 In tal senso, si rinvia a INGRAVALLO, op. cit., p. 217 ss. 124 Sul consenso degli Stati membri, quale fattore ultimo e determinante ai fini della buo-

na riuscita del processo di integrazione europea, nonché sulla conseguente natura dell’UE quale sistema politico di “secondo livello”, si veda CANNIZZARO, Riflessioni sull’ordinamento dell’Unione come sistema politico di doppio livello, in CANTARO (a cura di), Il costituzionalismo asimmetrico dell’Unione, cit., spec. pp. 27-28.

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assunti in materia – di fatto, per i conflitti che genera tra gli attori europei, fini-sca per alimentare una dimamica “disgregativa” dell’Unione stessa, tradendo il senso ultimo del diritto europeo. Più che mai, in questo contesto, il motto fiat iustitia et pereat mundus appare inaccettabile.

IV. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

13. I rischi geo-politici della “dottrina Vestager” e l’esigenza di un suo ri-di-mensionamento. Una proposta

Quanto sin qui evidenziato intende mettere in luce alcuni profili di quella che si è qui chiamata “dottrina Vestager” in materia di aiuti di Stato: (i) il suo differenziarsi rispetto alla precedente prassi della Commissione, ma non sotto il profilo del metodo di giudizio, bensì per il suo oggetto, in quanto qui foca-lizzata sulla decisione contenuta nell’atto di amministrazione individuale del prelievo (tax ruling) e non sulla sua “base legale”; (ii) la sua tendenziale com-patibilità con il diritto dell’UE sul piano formale e testuale, mostrandosi la di-sciplina europea in materia di aiuti di Stato sufficientemente ampia per acco-gliere sotto la sua egida anche tali fattispecie; (iii) la sua forte problematicità sul fronte geo-politico e, conseguentemente – sposando un’idea del diritto del-l’Unione come mezzo teso alla integrazione politica ed economica tra gli Stati membri – (iv) la sua sostanziale incompatibilità (per così dire) “teleologica” con quest’ultimo.

Peraltro, anche a voler ritenere – come per alcuni 125 – la linea di azione

della Commissione prettamente contingente e strumentale, tesa cioè a “forzare” il consenso politico degli Stati membri affinché arrivino ad approvare la (non a caso rilanciata ...) proposta di istituzione di una Common Consolidated Cor-porate Taxation Base (CCCTB)

126; anche ritenendo ciò, dell’utilità ed effica-cia della “dottrina Vestager” può comunque ragionevolmente dubitarsi.

Innanzitutto, la “pressione politica” da essa alimentata è circoscritta solo ad alcuni Stati membri, ossia quelli maggiormente propensi ad usare il proprio sistema tributario – ed i tax rulings – in funzione “captativa” (Irlanda, Olanda,

125 BASTIANON, op. cit., par. 6; DI TANNO, Fine delle tassazioni-regalo alle grandi imprese in Europa?, in lavoce.info, 2 novembre 2016, reperibile su http://www.lavoce.info/archives/43635/ passi-avanti-per-una-base-imponibile-ue.

126 DI TANNO, Come evitare un altro caso Apple, in lavoce.info, 27 settembre 2016, reperibi-le su http://www.lavoce.info/archives/42973/come-evitare-un-altro-caso-apple.

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Belgio, Lussemburgo); questo a fronte dell’esigenza invece di un consenso unanime delle nazioni partecipanti all’UE. Ma soprattutto, essa non sembra in alcun modo incidere – in qualsivoglia “direzione” – sul vero nodo che solleva qualsivoglia proposta che si ispiri ad un unitary approach (tra cui quella di una CCCTB) e su cui notoriamente si incontra la difficoltà a trovare un accordo politico: la selezione del criterio oggettivo di riparto dell’imponibile “consolidato” tra le giurisdizioni fiscali coinvolte nella “topografia” del gruppo

127. Ebbene, come uscire da questo impasse? Come evitare cioè di restare in-

castrati nel dilemma tra: ammettere una linea di azione della Commissione geo-politicamente rischiosa, e suscettibile di amplificare alcuni processi “di-sgregativi” attualmente in atto in Europa; escluderla del tutto avallando così, implicitamente, un modo di agire di molte MNEs e di alcuni Stati membri oggettivamente iniquo sul piano fiscale e certamente stigmatizzabile?

In realtà, consapevole della estrema complessità del fenomeno, nonché della sua estrema delicatezza (toccando appunto aspetti politici ed internazionali mai del tutto isolabili), a sommesso avviso di chi scrive, una via d’uscita po-trebbe trovarsi, sol che ci si soffermi sul (vero) profilo innovativo della “dot-trina Vestager”. Se in essa l’elemento di novità e di problematicità sta – si ripete – nella genesi amministrativa ed individuale (non legale) dell’aiuto fiscale, al-lora un eventuale ridimensionamento di quest’ultimo aspetto potrebbe in parte “de-congestionarne” i rischi geo-politici, pur nella fermezza del princi-pio da essa sancito (di contrasto alle pratiche di HTC poste in essere da Stati membri e MNEs mediante l’uso di tax rulings). Una soluzione potrebbe esse-re la riconduzione di tali pratiche sotto l’egida non più degli aiuti di Stato, ma della procedura ordinaria di infrazione ex art. 258 TFUE. Tale procedura con-sente infatti alla Commissione, nell’esercizio della sua funzione di vigilanza e sanzione del comportamento degli Stati membri, di prendere in considera-zione anche atti amministrativi e giurisdizionali contrastanti con il diritto e gli obiettivi dell’Unione. Dal punto di vista del diritto europeo, lo Stato ha infatti connotazione unitaria e la tradizionale tripartizione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) non ha alcun rilievo nella prospettiva dell’azione e del dovere di “leale cooperazione” degli Stati membri

128. Tuttavia, in tale conte-sto le decisioni amministrative e giurisdizionali rilevano solo se costanti e ge-nerali, se integrano cioè una prassi amministrativa o giurisdizionale

129.

127 Sul punto, v. DE GRAAF, International Tax Policy Needed to Counterbalance the ‘Excessive’ Behaviour of Multinationals, in EC Tax Review, n. 2, 2013, p. 110.

128 ADAM-TIZZANO, op. cit., pp. 284-285. 129 In tal senso, v. Corte di Giustizia UE, 29 aprile 2004, C-387/99, Commissione c. Ger-

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Altrimenti detto, l’uso di rulings fiscali “devianti” dall’ALP ed in favore di MNEs verrebbe ad essere “sanzionato” non direttamente – nella singolarità di ciascuna decisione interna – ma solo se, per numero, frequenza ed ampiezza temporale di validità, fosse sintomo di un abituale modo di agire dello Stato membro. Tale approccio eviterebbe alla Commissione di “invadere” eccessi-vamente il campo di azione delle Amministrazioni Finanziarie nazionali, per-mettendogli nel contempo di operare comunque una “moral suasion” nei con-fronti degli Stati membri, ma graduale e, soprattutto, tale da non essere percepi-ta come “lesiva” della propria sovranità fiscale. Un primo passo potrebbe anda-re in questa direzione?

mania, punto 42; 26 aprile 2005, C-494/01, Commissione c. Irlanda, punto 28; 23 aprile 2009, C-331/07, Commissione c. Grecia, punti 32-33; singolarmente possono rilevare invece solo in quanto fatti “sintomatici” di una disciplina legislativa inadeguata, perché esposta ad interpre-tazioni non compatibili con il diritto europeo (Corte di Giustizia UE, 9 dicembre 2003, C-129/00, Commissione c. Italia, punti 32-33).

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Renato Rolli

SIMILES CUM SIMILIBUS CONGREGANTUR. L’ISTRUTTORIA TRA PROCESSO AMMINISTRATIVO E TRIBUTARIO

SIMILES CUM SIMILIBUS CONGREGANTUR. THE INVESTIGATION PHASE BETWEEN ADMINISTRATIVE AND TAX PROCEEDINGS

Abstract Il contributo analizza l’istruttoria, fase intermedia del processo, volta all’acquisizio-ne delle informazioni e delle prove utili alla definizione del giudizio; nello specifico nel processo amministrativo e tributario (eminentemente cartolari). Ambedue so-no processi di parti, e l’istruttoria segue, con qualche peculiarità quanto stabilito nel codice di procedura civile. Le più recenti riforme hanno cercato di rendere il si-stema istruttorio più adeguato alle esigenze di eguaglianza processuale delle parti, tramite un diretto e più immediato accesso ai fatti da parte del giudice. Il giusto processo risulta, pertanto, una garanzia per la tutela effettiva del cittadino. Parole chiave: giudizio amministrativo, giudizio tributario, istruttoria, prove, giu-sto processo The paper analyses the investigation phase, which is intermediate in a trial, aimed at collecting information and evidence useful for defining the litigation; in particular, for what concerns the administrative and tax trials (based on documentary evidence). Both trials are promoted by the parties, and usually the investigation phase follows – with certain exceptions – the rules established by Code of Civil Procedure. The most recent reforms have been approved in order to render this phase more appropriate to the needs of procedural equity of the parties, through a direct and more immediate access to evi-dence by the judge. The fair trial results, therefore, a guarantee for the effective protec-tion of citizen’s rights. Keywords: administrative trial, tax trial, investigation phase, proofs, fair trial

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SOMMARIO: 1. Premessa: le fonti normative. – 2. L’acquisizione processuale (e delle prove). – 3. La regola del giudizio ed il principio del libero convincimento del giudice. – 4. L’assunzione dei mezzi di prova: provvedimenti giurisdizionali relativi ai mezzi di prova ammessi e loro esecuzione. – 5. L’istrutto-ria tra diritto amministrativo e diritto tributario: due discipline a confronto. – 6. Conclusioni: as-sonanze, conquiste ed auspici.

1. Premessa: le fonti normative

La conclusione naturale dei processi (amministrativo e tributario) è costi-tuita dalla sentenza. Lo svolgimento del giudizio, una volta rispettate le regole generali

1, si concretizza nella celebrazione del medesimo, che trova la sua con-clusione nel passaggio in decisione dell’affare controverso. Può però, avvenire che la causa non sia “matura” per la decisione stessa. Ciò si verifica laddove manchi il provvedimento impugnato o quando la documentazione depositata al fascicolo sia incompleta; ovvero nei casi in cui il giudice adito versi in una situazione di dubbio circa l’effettiva corrispondenza della situazione di fatto così come prospettata, a volte anche concordemente dalle parti, a quella reale. Possono (o addirittura debbono) in tali casi, essere disposti i necessari adem-pimenti interlocutori. Ci si trova di fronte alla istruttoria, fase intermedia del processo. Il sistema processuale italiano trae le proprie fondamenta da una se-rie di principi costituzionali che stabiliscono le linee guida cui il legislatore deve attenersi. Così l’applicazione degli artt. 2, 3, 24

2, nonché le garanzie del giusto processo delineate all’art. 111 Cost.

3, tendono a formare un complesso

1 La notifica dell’atto introduttivo, il deposito in segreteria del medesimo, la eventuale costi-tuzione delle parti intimate, l’istanza di fissazione di udienza, il provvedimento presidenziale che fissa la data dell’udienza medesima e quello di nomina del relatore. Sia consentito il rin-vio a JUSO-ROLLI, Lineamenti di giustizia amministrativa, Milano, 2012.

2 SASSANI, Riflessioni sull’azione di nullità, in Dir. proc. amm., 2011, p. 269; TORCHIA, Le nuove pronunce nel codice del processo amministrativo, Atti del 56° Convegno di Studi di Scien-za dell’Amministrazione, Varenna-Villa Monastero, 23-25-settembre 2010, in www.giustizia-amministrativa.it; CERULLI-IRELLI, Giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni (dalla Costituzione al codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 2, 2012, p. 437 ss.; D’AL-BERTI-PAJNO, Il giudice amministrativo tra tutela giurisdizionale e creazione giurisprudenziale, in BESSONE (a cura di), Diritto giurisprudenziale, Torino, 1996, p. 299; LEONE, Un processo am-ministrativo a misura europea. Ovvero, come dare un senso compiuto al principio di sinteticità de-gli atti giudiziari, in Dir. proc., amm., n. 1, 2012.

3 In dottrina, cfr. RENNA, Giusto processo ed effettività della tutela in un cinquantennio di

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di norme giuridiche volte a chiarire differenti aspetti e momenti dell’attività processuale nel rispetto di alcune garanzie fondamentali quali, ad esempio, il contraddittorio tra le parti del giudizio, l’imparzialità del giudice e la ragione-vole durata del processo. La fase istruttoria rappresenta quel momento del pro-cesso civile volto all’acquisizione delle informazioni e delle prove utili alla de-finizione del giudizio. Così, l’istruttoria nel giudizio amministrativo e nel pro-cesso tributario segue, (con qualche peculiarità) per certi versi, il percorso già tracciato dal legislatore nel codice di procedura civile

4. Anche in riferimento alla fase processuale dell’istruttoria è dato ravvisare, oltre alle differenze dovute alla specificità delle materie, molteplici punti di contatto tra le due discipline

5. Il tutto si traduce dalla disamina critica svolta dal giudice su un’attività istrut-toria di regola già svolta, all’esterno dell’ambito processuale, dalla parte pub-blica resistente con poteri propri, spesso autoritativi, esercitati in sede ammini-strativa. Il processo tributario, al pari di quello amministrativo, è processo di parti; sono le parti che, formulando le domande e chiedendo al giudice i con-seguenti provvedimenti, delimitano il thema decidendum

6. L’istruttoria consta giurisprudenza costituzionale sulla giustizia amministrativa: la disciplina del processo ammini-strativo tra autonomia e civilizzazione, in DELLA CANANEA-DUGATO (a cura di), Diritto ammi-nistrativo e corte costituzionale, Napoli, 2006, p. 505 ss.; TRAVI, La tipologia delle azioni nel nuovo processo amministrativo, in “La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti orga-nizzativi e riforme strutturali”, Atti del 56° Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazio-ne, Varenna-Villa Monastero, 23-25-settembre 2010, Milano, 2011, p. 75; TARULLO, (voce) Giusto processo (dir. proc. amm.), in Enc. dir., Annali, tomo 1, 2008, II (p. 379, in nota); CLA-RICH, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2005, p. 557; TARULLO, Il giusto processo amministrativo: studio sull’effettività della tute-la giurisdizionale nella prospettiva europea, Milano, 2004; PICOZZA, Il “giusto” processo ammini-strativo, in Cons. Stato, 2000, II, p. 1061 ss.; CAIANIELLO, Riflessioni sull’articolo 111 Cost., in Riv. dir. proc., 2001, p. 42 ss.; MENGOZZI, Giusto processo e processo amministrativo. Profili costitu-zionali, Milano, 2009; SCOCA, Effettività della tutela: il contributo della giurisprudenza costitu-zionale sulla fisionomia e sulla fisiologia della giustizia amministrativa, in Dir. proc. amm., n. 2, 2012; LUCIANI, Processo amministrativo e disciplina delle azioni: nuove opportunità, vecchi pro-blemi e qualche lacuna nella tutela dell’interesse legittimo, in Dir. proc. amm., p. 506.

4 Già tempo addietro la dottrina (TABET, Luci ed ombre del nuovo processo tributario, Rela-zione al Convegno organizzato dall’Università degli Studi e dall’Ordine dei dottori commercia-listi di Macerata sul tema: “Il nuovo processo tributario”, Abazia di Fiastra, 3 maggio 1996, in Riv. dir. trib., fasc. 11, 1996, pp. 619-631), notava come «la consonanza rispetto al processo amministrativo diventa ancora più vistosa se poniamo attenzione alla circostanza che il pro-cesso tributario è, al pari del primo, un processo povero di mezzi istruttori».

5 Infatti, tanto nel processo amministrativo quanto in quello tributario manca una fase istruttoria autonoma: non è pertanto previsto (in nessuno dei due casi) uno specifico momen-to del processo in cui si proceda ad ammissione, assunzione e vaglio dei singoli mezzi di prova.

6 Tra questi atti possono esservi, tra l’altro, richieste di informazioni e documenti, ispe-

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di attività che si svolgono presso l’ufficio (inviti a comparire o a esibire docu-menti, richieste di informazioni, di documenti, questionari, ecc.) e attività che si svolgono presso il contribuente (accessi, ispezioni e verifiche art. 52, D.P.R. n. 633/1972 e art. 33, D.P.R. n. 600/1973). Essa gioca un ruolo di fondamen-tale importanza nel quadro della teoria della decisione razionale ed assolve ad una duplice funzione: la riduzione dell’asimmetria informativa in cui l’Ammi-nistrazione deve decidere

7 e la legittimazione della decisione, di cui l’Ammi-nistrazione ha bisogno

8. In realtà, e fino all’entrata in vigore della normativa oggi vigente, le fonti

normative che disciplinavano l’istruttoria nel processo amministrativo appari-vano assai scarne; e ciò si spiega prevalentemente in chiave storica

9. La giurisprudenza, nel tempo, ha elaborato una serie di principi, a mente

dei quali, in materia di prova, il processo amministrativo segue un sistema di-spositivo con metodo acquisitivo, fondato sull’onere del principio di prova, in base al quale il ricorrente era tenuto a prospettare soltanto uno schema atten- zioni, pareri, analisi statistiche ed economiche e gli eventuali adempimenti connessi alle ga-ranzie proprie del contraddittorio e della partecipazione procedimentale (come il deposito di memorie scritte e documenti o l’audizione delle parti).

7 Cfr. SIMON, Il comportamento amministrativo, Bologna, 1967; MIGLIORINI, Istruttoria nel processo amministrativo di legittimità, Padova, 1977, p. 51 ss.; BENVENUTI, L’istruzione del pro-cesso amministrativo, in Enc. dir., XXII, 1973, p. 205.

8 Si veda LUHMANN, Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Milano, 1995. A tal fine, infatti, sono riconosciuti all’Amministrazione poteri sanzionatori a tutela degli stessi poteri istruttori, nel caso in cui i cittadini o le imprese non ottemperino agli obblighi di fornire infor-mazioni e documenti che siano stati richiesti (come nel procedimento tributario o nel pro-cedimento antitrust).

9 Il legislatore del 1924, quando si trovò nella necessità di regolamentare il processo am-ministrativo, pur preoccupandosi dell’istruttoria, ebbe a sancire disposizioni assai superficia-li, senza avere molto chiara la materia in questione; per cui detta fase processuale venne rac-chiusa sostanzialmente in una sola norma (l’art. 44, T.U. n. 1054/1924), a mente della quale il Consiglio di Stato, «ove riconosca che l’istruzione dell’affare è incompleta, o che i fatti af-fermati nel provvedimento impugnato sono in contraddizione con i documenti, può richie-dere all’Amministrazione nuovi chiarimenti o documenti, ovvero, ordinare all’Amministra-zione medesima di fare nuove verificazioni autorizzando le parti ad assistervi». La stessa for-mulazione letterale suscitava non poche perplessità, in quanto le parole “istruzione dell’affa-re è incompleta” apparivano, quanto meno, oscure; mentre più chiara si appalesava l’altra frase («i fatti affermati nel provvedimento impugnato sono in contraddizione coi documen-ti»), che sembrava volesse riferirsi alla contraddittorietà tra l’atto oggetto del giudizio ed i documenti versati al fascicolo processuale. A tal fine, infatti, sono riconosciuti all’Ammini-strazione poteri sanzionatori a tutela degli stessi poteri istruttori, nel caso in cui i cittadini o le imprese non ottemperino agli obblighi di fornire informazioni e documenti che siano stati richiesti (come nel procedimento tributario o nel procedimento antitrust).

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dibile e puntuale di ricostruzione storica, oltre che di valutazione giuridica, dei fatti; per cui il giudice poteva acquisire d’ufficio gli elementi probatori in-dicati dalle parti, e comunque necessari ai fini del decidere

10. Le più recenti ri-forme hanno cercato di rendere il sistema istruttorio più adeguato alle esigen-ze di realizzare nel processo l’eguaglianza delle parti tramite un più immediato e diretto accesso al fatto da parte del giudice

11. Sul contesto normativo ine-rente la giustizia amministrativa è intervenuto – come si vedrà in seguito – il codice del processo amministrativo (D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104)

12.

10 Tale principio è stato successivamente recepito, sia pure con una formula sostanzial-mente generica, dal legislatore del 1971 (art. 23, comma 5, L. n. 1034/1971) secondo il qua-le «il Presidente dispone, ove occorra, gli incombenti istruttori». La materia, infine, almeno per quello che concerne più strettamente le competenze attribuite dal D.Lgs. n. 80/1998 alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, aveva trovato una successiva, e più esaustiva regolamentazione nel comma 3 dell’art. 35 di detta norma, che aveva consentito a tale Auto-rità giurisdizionale maggiori e più pregnanti strumenti istruttori, mutuandoli espressamente, pur con qualche limitazione, dal codice di procedura civile. Inizialmente l’estensione ai mez-zi di prova del codice di procedura civile e l’introduzione della consulenza tecnica fu limitata alla giurisdizione esclusiva, dal momento che non poteva più dirsi lecito un sistema che tute-lasse i diritti soggettivi in modo diverso rispetto alla sorte che gli stessi diritti avrebbero avuto se di essi si fosse occupato il giudice ordinario. L’art. 16, L. n. 205/2000 ha, poi, introdotto nel processo amministrativo la consulenza tecnica d’ufficio, ammessa senza limitazioni di sorta e per ogni tipo di controversia rientrante nella cognizione del G.A., superando le depo-tenziate e mai ben utilizzate verificazioni.

11 Cfr. LO PRESTI, L’istruttoria, in MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia ammini-strativa, Milano, 2008, p. 714 ss. «Si consideri ancora che la legge n. 205 ha previsto che tra i presupposti per definire in sede cautelare da parte del giudice la causa nel merito vi fosse la “completezza dell’istruttoria”».

12 In particolare, l’art. 44, L. n. 69/2009 ha delegato il Governo per il «riassetto del pro-cesso avanti ai Tribunali amministrativi regionali ed al Consiglio di Stato», prevedendo la possibilità di attribuire l’elaborazione del decreto al Consiglio di Stato, con il supporto di magi-strati amministrativi, esperti esterni e rappresentanti del libero foro e dell’avvocatura generale dello Stato. Sul punto v. SCOCA, Considerazioni sul nuovo processo amministrativo, in www. giustamm.it. Secondo SANDULLI, Anche il processo amministrativo ha finalmente un Codice, in Foro amm.-Tar, 2010, p. 65, il codice offre «finalmente anche agli operatori e agli utenti della giustizia amministrativa un quadro normativo omogeneo e, per quanto possibile, chiaro e defi-nito in un’ottica di maggiore garanzia di effettività della tutela delle posizioni soggettive sotto-poste alla giurisdizione amministrativa». CASSESE, Verso la piena giurisdizione del giudice am-ministrativo. Il nuovo corso della giustizia amministrativa italiana, in Giornale dir. amm., 1999, p. 1221 ss.; POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, Padova, 2000.

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2. L’acquisizione processuale (e delle prove)

Com’è noto, per ciò che attiene in generale alla istruzione probatoria 13,

esistono due tipi di processi: quello in cui le parti si trovano in assoluta ugua-glianza e quello in cui l’uno si trova in posizione di inferiorità rispetto all’al-tra

14. Il processo di parte, infatti, in ordine all’acquisizione processuale, può svolgersi secondo più metodi

15. Invero, il soggetto che avanza una domanda giudiziale rappresenta al giudice una realtà materiale di tal guisa, articolando le sue affermazioni sull’esistenza di fatti o sull’inesistenza di altri

16. Orbene, in alcuni casi tale acquisizione processuale è rimessa unicamente all’iniziativa delle parti; in altri anche il giudice concorre ad essa; in altri, infine, gli è attribui-to altresì il potere di acquisire atti o accettare fatti d’ufficio o con la collabora-zione delle parti medesime e, anzi, addirittura contro l’acquisizione già posta in essere da queste ultime

17. A sua volta, l’istruzione probatoria va vista sotto il profilo della valutazione delle prove: talvolta essa è del tutto libera; talaltra è vincolata parzialmente; altre volte è regolata da complesse regole di preclu-

13 Secondo una recente ricerca, nel processo amministrativo vi sarebbero “tre momenti istruttori”: un’istruzione iniziale o introduttiva, un’istruzione intermedia (preliminare rispetto all’udienza di discussione), un’istruzione finale o collegiale (BERTONAZZI, L’istruttoria nel pro-cesso amministrativo di legittimità: norme e principi, Milano, 2005, p. 20 ss.). La tesi, che espo-ne con limpidità lo svolgimento dell’attività istruttoria rende manifesto che, nel processo am-ministrativo, manca una precisa fase istruttoria, ossia una fase entro cui l’istruttoria abbia ini-zio e fine. Con la conseguenza che l’attività istruttoria occupa (nel senso che può svolgersi du-rante) l’intero processo, dalla sua costituzione sino alla vigilia dell’udienza di trattazione.

14 È indubbio che il processo amministrativo rientri, sia pure con qualche perplessità, nel-la prima ipotesi; ma, ai fini della presente indagine, una siffatta considerazione non basta.

15 Illuminanti le osservazioni di TABET, op. cit., p. 621 ss. 16 Si ricava il ruolo centrale dell’accertamento del fatto. Quel fatto preso in considerazio-

ne dalla norma giuridica che una parte assume violata in quanto quella nei cui confronti agi-sce non si sarebbe adeguata al comando che la norma giuridica ricollega al fatto. In altre parole la “ragione” e il “torto” dipendono proprio dall’accertamento dell’esistenza, dell’inesistenza ov-vero dal modo di essere di un fatto dal quale, una volta accertato, non possono che discendere tutte le conseguenze che gli sono riconnesse dalla norma di diritto sostanziale. In proposito, per tutti, CARNELUTTI, La prova civile, Roma, 1947 (rist.), p. 10, secondo il quale «la consta-tazione della identità (o della differenza) della situazione posta dalla norma con la situazione posta nella causa è il fine del processo e l’obbiettivo del giudizio».

17 Cfr. QUARANTA-LOPILATO (a cura di), Il processo amministrativo. Commentario al decreto legislativo n. 104 del 2010, Milano, 2011, p. 553 ss. L’attività istruttoria costituisce uno dei principali profili innovati dal codice del processo amministrativo, che se ne occupa nel Titolo III del Libro II: in particolare la nuova disciplina risulta caratterizzata da una razionalizzazio-ne della materia, in precedenza oggetto di fonti normative differenti (L. TAR, T.U. Consiglio di Stato e reg. Consiglio di Stato).

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sioni o di subordinazioni. Infine si rileva la c.d. regola del giudizio, in base alla quale il giudice deve, comunque, adottare una pronuncia, non potendo mai emettere una sentenza di non liquet

18. Nel processo amministrativo la ricostruzione dei fatti processuali e l’acqui-

sizione delle prove, in linea di principio, sono rimesse alle parti 19, ma al giudi-

ce è sempre consentito di ordinare alle medesime di depositare al fascicolo di causa la documentazione relativa ai fatti che interessano, o comunque siano connessi ai fini della pronuncia definitiva

20. Il ricorrente ha, dunque, l’onere di addurre elementi di seria consistenza idonei a stimolare i poteri istruttori attribuiti al giudice

21. Ci si trova al c.d. onere del principio di prova. Per dirla

18 Cfr. SCOCA, Giustizia amministrativa, Torino, 2014, p. 421. L’esigenza di siffatta regola s’impone poiché il giudice, in ragione della sua posizione istituzionale e del contenuto della sua funzione, ha il dovere di decidere. Il giudice non può dunque pronunciare un non liquet, giu-stificato dalla permanenza del dubbio circa una situazione di fatto. Oggigiorno, il Libro II del codice disciplina l’istruttoria, che, più specificatamente, è regolamentata dal Titolo III, rubri-cato “Mezzi di prova e attività istruttoria”; tale titolo è a sua volta suddiviso in Capo I (mezzi di prova) e Capo II (Ammissione e assunzione delle prove).

19 Il codice del processo amministrativo accoglie un tipo di istruttoria dispositivo, con al-cuni correttivi. L’art. 64 c.p.a., rubricato “Disponibilità, onere e valutazione della prova” si apre con l’affermazione, di carattere generale, secondo cui «spetta alle parti l’onere di fornire gli ele-menti di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni». La disposizione, in maniera non proprio rigorosa sul piano let-terale, richiama il principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., che fissa la regola di giudizio secondo la quale deve essere rigettata la domanda della parte che non abbia adegua-tamente provato i fatti che la supportano (actore non probante reusabsolvitur), aggiungendo un significativo riferimento al fatto che i mezzi di prova rientrino nella disponibilità delle par-ti. Cfr. Cons. Stato, sez. III, 11 febbraio 2013, n. 746: «Ai sensi dell’art. 64 comma 1, c.p.a., spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità e ri-guardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni; tale disposizione costi-tuisce l’applicazione, anche nel giudizio amministrativo, del principio (pacifico anche prima della emanazione del codice della giustizia amministrativa) dell’onere della prova, sancito dall’art. 2697 c.c.».

20 Discende da questo che, non valendo nel processo cui in esame la regola processualci-vilistica secondo la quale la parte non è tenuta a produrre documenti contro sé stessa, ogni fatto che sia stato comunque acquisito giova e nuoce indifferentemente a tutte le parti del giudizio.

21 Cfr. SAITTA, Sistema di giustizia amministrativa, Milano, 2012, p. 274. Al comma 3 dell’art. 64 c.p.a. vi è un correttivo: «Il giudice amministrativo può disporre, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibi-lità della pubblica amministrazione». Tale disposizione richiede una lettura coordinata con il comma 1 dell’art. 64 c.p.c., il quale onera le parti di fornire gli elementi di prova che sono “nella loro disponibilità”. È plausibile che con questa disposizione il legislatore abbia voluto tenere in considerazione la posizione asimmetrica in cui si collocano generalmente le parti nel proces-so amministrativo, laddove una parte in genere si trova ad impugnare un provvedimento for-

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diversamente, basta un semplice indizio, in quanto per la completezza dell’i-struttoria, sarà lo stesso giudice a provvedere in merito; e ciò attraverso for-mali ordini, indirizzati al ricorrente medesimo, all’Amministrazione intimata (o ad altri soggetti pubblici che siano intervenuti nel procedimento di forma-zione del provvedimento impugnato), o ai controinteressati

22. In tale ottica va visto, in particolare, l’obbligo dell’Amministrazione di esibizione dei do-cumenti

23.

mato dall’altra, senza avere diretto accesso a tutta la documentazione istruttoria che questa ha tenuto presente nella fase della istruttoria procedimentale. È anche vero che la parte pri-vata può esercitare il diritto di accesso alla documentazione nella disponibilità dell’Ammi-nistrazione, ma può essere che alcuni documenti rilevanti per la decisione sfuggano, per qualsiasi ragione, all’accesso o più semplicemente che la loro necessità ai fini del giudizio sorga in un momento successivo, ovvero ancora che detti documenti siano in possesso di un’Am-ministrazione diversa da quella resistente, ovvero che per l’urgenza del provvedere non sia esigibile che la parte attenda il perfezionarsi del procedimento di accesso. In tutti questi casi il giudice può ordinare all’Amministrazione la loro produzione in giudizio, ovvero richiedere informazioni.

22 In ogni caso la necessità di acquisizione delle informazioni o dei documenti deve co-munque essere riferita ad un impianto istruttorio e fattuale eretto dalla parte: un intervento ufficioso del giudice può concretamente giustificarsi (in un sistema dominato dal principio dell’onere della prova e dispositivo), solo se dalle allegazioni di fatto presenti nel fascicolo o nel corso della trattazione emerga l’esistenza di documenti o l’esigenza di acquisire informa-zioni in un’altra forma che rientrano nella disponibilità dell’Amministrazione e che potreb-bero avere una qualche rilevanza ai fini del giudizio. Se si ammettesse un potere indiscrimi-nato del giudice di procedere alla raccolta di prove documentali e informazioni indipenden-temente dalle allegazioni delle parti la disposizione di cui al comma 3 dell’art. 64 c.p.a. si at-teggerebbe in insanabile contrasto con il primo che, di contro, esclude dal principio dell’o-nere della prova solo quegli elementi di prova di cui la parte non dispone. Si veda CORRADI-NO-STICCHI DAMIANI, Il processo amministrativo, Torino, 2014, p. 285.

23 In passato si parlava, a tal proposito, di vera e propria actio exibitoria nei confronti del-l’Amministrazione, sotto l’evidente influsso delle regole dettate per il processo civile, nel quale tale azione è espressamente prevista ed ha una propria disciplina. In realtà, nel processo am-ministrativo l’azione esibitoria non ha alcuna cittadinanza, potendo la medesima essere ipo-tizzata esclusivamente in un giudizio in cui il giudice ha potere di mera collaborazione con le parti interessate, ma non già quello di disporre, autonomamente l’acquisizione di materiale probatorio. Nel processo acquisitivo può lo stesso giudice disporre, anche d’ufficio, il deposi-to di documenti qualora si convinca della necessità dell’esibizione medesima, godendo, nella scelta dei mezzi istruttori, di un amplissimo potere discrezionale, il mancato esercizio del quale non può, in alcun caso, inficiare la decisione finale.

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3. La regola del giudizio ed il principio del libero convincimento del giudice

Com’è noto, nel processo civile la regola dell’onere della prova, intesa co-me regola del giudizio, vale nel senso che nel caso dubbio si dà per respinta la domanda del soggetto, che non sia riuscita a provare le proprie affermazioni. Parte della dottrina la riteneva applicabile anche nel processo amministrati-vo

24. Diversamente nel processo amministrativo il giudice poteva ritenere esi-stente un certo fatto anche quando il materiale probatorio fosse minimo

25. Tutto questo sulla considerazione che il sistema probatorio proprio del pro-cesso di cui si tratta rivestiva carattere acquisitivo

26. A ciò il giudice poteva

24 In tal senso anche il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale: «Il principio dell’onere della prova, stabilito dall’art. 2697 c.c. trova applicazione anche nel pro-cesso amministrativo. Ne consegue che, ove non sia fornito almeno un principio di prova, non sussistono le condizioni necessarie a che il giudice disponga indagini istruttorie» (Cons. Stato, sez. IV, sent. 10 maggio 2011, n. 3135; sez. V, 10 ottobre 1991, n. 1214). Cfr. BENVENUTI, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953: «Tale principio [dell’onere della pro-va] deve essere modulato in ragione della posizione sostanziale della parte privata, posizione che nel processo amministrativo è di «materiale e istituzionale inferiorità nei confronti del-l’Amministrazione». Nello stesso senso cfr. CANNADA BARTOLI, La tutela giudiziaria del cit-tadino verso la pubblica amministrazione, Milano, 1956, p. 169.

25 Cfr. LAMBERTI, Disponibilità e onere della prova, Relazione al Convegno su “La disponibili-tà della domanda nel processo amministrativo”, Roma, 2011: «Il confronto delle [due] disposi-zioni distingue il processo amministrativo da quello civile e ne individua l’unico (ma impor-tante) punto il comune. Diversamente da quello civile, nel processo amministrativo la prova deve essere “meno piena” perché limitata agli “elementi disponibili” alla parte. Analogamente al processo civile l’onere della prova deve riguardare “i fatti” in disponibilità della parte, privata o pubblica essa sia. Nell’art. 64, la parola “fatti” è ripetuta due volte: a proposito degli elementi di prova che le parti devono fornire al giudice e a proposito delle prove proposte dalle parti, che il giudice deve porre a fondamento della sua decisione». I “fatti” (e non i “documenti”) sono oggetto di prova nel giudizio amministrativo come in quello civile ma lo sono in maniera “me-no piena” del giudizio civile: alla stregua cioè di “elementi di prova nella disponibilità delle par-ti”. Sul tema v. Cons. Stato, sez. VI, 9 maggio 1983, n. 345 «Nel processo amministrativo il ri-corrente non è tenuto a fornire la prova completa dei profili in fatto delle proprie doglianze, essendo sufficiente che all’uopo adduca elementi di seria consistenza, potendo e dovendo sop-perire, alle eventuali manchevolezze, l’organo giudicante, attraverso l’esercizio dei poteri istrut-tori di cui all’art. 44 del R.D. n. 1054 del 1924». In senso conforme, Cons. Stato, sez. V, 18 set-tembre 2006, n. 5438, in Foro amm.: «Questo Consiglio ha chiarito che nel processo ammini-strativo il principio dell’onere della prova subisce una attenuazione, sul presupposto della rico-nosciuta disparità di posizione fra privato e Pubblica Amministrazione, ritenendosi sufficiente la produzione di un principio di prova, salvo che gli elementi probatori siano nella piena dispo-nibilità della parte interessata (Sez. V 11 maggio 1998, n. 551; 23 novembre 1994, n. 1360; 23 aprile 1991, n. 637), e che tale principio di prova si realizza, a sua volta, con la produzione di elementi di seria consistenza (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 2 aprile 2001, n. 1900)».

26 Dette considerazioni trovano, peraltro, conferma nelle recenti pronunzie della giuri-

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pervenire attraverso la disamina della documentazione comunque acquisita al fascicolo processuale (va infatti rammentato che la giurisprudenza aveva più volte affermato la tesi che, nel processo amministrativo, assume rilievo fonda-mentale la libertà del giudice in ordine alla scelta dei mezzi probatori e di quelli che egli ritenga comunque utili per la rappresentazione dei fatti di cau-sa: mezzi addirittura acquisibili attraverso l’opera di un commissario ad ac-ta)

27; ovvero attraverso l’applicazione del ben noto principio del libero convin-cimento, onde si era sempre ritenuto che, in ogni caso, il medesimo potesse fare ricorso, nei casi dubbi, anche alle presunzioni semplici o a quelle che veni-vano comunemente chiamate massime di comune esperienza. Da ciò discen-deva che la mancata o ingiustificata esecuzione dell’ordine istruttorio, impar-tito ad uno o più soggetti, consentiva al giudice, l’applicazione della ben nota regola generale contenuta nell’art. 116 c.p.c.

28. sprudenza amministrativa, secondo cui «nel processo amministrativo, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice approvato con D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (cfr. art. 64, comma 3, cod. proc. amm.), il sistema probatorio è fondamentalmente retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice, il quale comporta l’onere per il ricorrente di presentare almeno un indizio di prova perché il giudice possa eser-citare i propri poteri istruttori (Cons. Stato, sez. V, 7 ottobre 2009, n. 6118): e ciò, per l’ap-punto, è contemplato dal “sistema” proprio in quanto il ricorrente, di per sé, non ha la dispo-nibilità delle prove, essendo queste nell’esclusivo possesso dell’amministrazione ed essendo quindi sufficiente che egli fornisca un principio di prova». D’altra parte, si sosteneva che il processo amministrativo era processo di parti, per cui non appariva consono ad esso che il giu-dice si sovrapponesse ai soggetti che lo avessero promosso ed a quelli che al medesimo aves-sero resistito, fino al caso limite di ritenere infondate le allegazioni di una parte e, viceversa, fondate non solo quelle dell’altra, ma addirittura il suo silenzio o un comportamento inerte. Pertanto, anche se non potevano essere disconosciuti al giudice poteri di acquisizione proces-suale, essi non si sarebbero potuti spingere fino ad una decisione nel caso in cui il fatto fosse stato incerto.

27 Sull’onere del principio di prova, Cons. Stato, sez. IV, 25 maggio 2011, n. 3135: «Il tem-peramento del principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice non si traduce nella possibilità per il ricorrente di limitarsi ad esporre mere asser-zioni o congetture che affidino interamente all’attività istruttoria giudiziale l’accertamento della loro eventuale fondatezza, essendo palese che una siffatta opzione si tradurrebbe nella inver-sione de principio dell’onere della prova come regolato dagli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., dove, invece, il principio con metodo acquisitivo non può mai tradursi in una assoluta e generale inversione di tale onere. Ne consegue che, nel processo amministrativo, in mancanza di una prova compiuta a fondamento delle proprie pretese, il ricorrente deve avanzare almeno un prin-cipio di prova, perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori». Sulla stessa scia Cons. Stato, 16 maggio 2011, n. 2955; TAR Puglia-Bari, sez. III 25 novembre 2011, n. 1803. In dottrina sull’argomento v. SCOCA, Art. 64, in QUARANTA-LOPILATO (a cura di), op. cit.

28 Ai sensi dell’art. 116 c.p.c. il giudice poteva non solo esercitare il suo prudente apprez-zamento in occasione della valutazione delle prove, ma anche desumere argomenti probatori

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Alla luce del codice del processo amministrativo, in particolare in base agli artt. 63 e 64 c.p.a.

29, salvo i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite

30 (cfr. art. 64, comma 2, c.p.a.). Il giudice, anche d’ufficio, può ordinare a terzi di esibire in giudizio i documenti o quanto altro ritenga necessario, secondo il disposto degli artt. 210 ss. c.p.c.

31; può, altresì, disporre sia l’ispezione ai sensi dell’art. 118 dello stesso codice e sia l’acquisizione, d’ufficio, di informazioni e documenti utili ai fini del deci-dere che siano nella disponibilità della Pubblica Amministrazione

32 (cfr. art. dal contegno processuale delle parti, siano esse pubbliche che private, di ritenere provati i fatti affermati dalle controparti, sempre che gli stessi fossero, forniti di qualche elemento in-diziario accettabile; e non fossero, comunque, in stridente contrasto con la documentazione versata dalla parte al fascicolo di causa o acquisiti al medesimo iussu iudicis. In realtà, nel pro-cesso amministrativo l’azione esibitoria non ha alcuna cittadinanza, potendo la medesima essere ipotizzata esclusivamente in un giudizio in cui il giudice ha potere di mera collabora-zione con le parti interessate, ma non già quello di disporre, autonomamente l’acquisizione di materiale probatorio. Nel processo acquisitivo può lo stesso giudice disporre, anche d’uf-ficio, il deposito di documenti qualora si convinca della necessità dell’esibizione medesima, godendo, nella scelta dei mezzi istruttori, di un amplissimo potere discrezionale, il mancato esercizio del quale non può, in alcun caso, inficiare la decisione finale.

29 TAR Piemonte-Torino, sez. I, 29 gennaio 2010, n. 454. Il TAR introduce uno specifico onere di contestazione. Secondo i più, l’onere del principio di prova coincide totalmente con l’onere di allegazione dei fatti; secondo altri esso rispecchia nell’onere di prospettare al G.A., in base a fatti allegati, uno schema attendibile di ricostruzione storica e valutazione giuridica degli avvenimenti. Tuttavia, tra i sostenitori della prima tesi, si rileva la discrasia tra chi ritie-ne che l’onere di allegazione riguardi solo i fatti principali, spettando al G.A. l’introduzione nel giudizio dei fatti secondari, e chi invece lo estende anche ai fatti secondari. Spetta, infatti, alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità, riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni; con la possibilità del giudice di chie-dere, anche d’ufficio, chiarimenti e documenti.

30 Anche nel processo amministrativo, dunque, i fatti non contestati sono confluiti nel con-cetto di prova, menzionato nel comma 1 dell’art. 64 c.p.a., con la conseguenza che, una volta che la parte abbia adempiuto al suo onere di allegazione, la non contestazione dell’Ammini-strazione costituita attribuisce valore probatorio a quanto dedotto dal ricorrente. Quanto poi alla “forza probatoria” da riconoscere alla non contestazione, ed all’esercizio dei poteri offi-ciosi del giudice in presenza di fatti non contestati, valgono le medesime considerazioni svol-te con riferimento al processo civile, cui si rinvia.

31 Su queste assonanze TABET, op. cit., p. 621. 32 Tale potere di integrazione del materiale istruttorio, esercitato dal giudice anche d’uf-

ficio, fa capo al dovere di correttezza imposto all’Amministrazione ai sensi dell’art. 97 Cost. e dell’art. 1, L. n. 241/1990. L’autorità amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza: come tale è tenuta a fornire al giudice le informazioni e i documenti utili ai fini del decidere e se non lo fa il giudice può acquisirli “anche d’ufficio”.

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63, comma 3, e 64, comma 3, c.p.a.). Infine, qualora reputi necessario l’accer-tamento di fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedano particolari com-petenze tecniche, il giudice può ordinare l’esecuzione di una verificazione ov-vero, se indispensabile, può disporre una consulenza tecnica. In ogni caso è consentita l’assunzione degli altri mezzi di prova previsti dal codice di proce-dura civile, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento

33 (art. 64, commi 4 e 5, c.p.a.)

34. Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprez-zamento

35 e può desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto dal-le parti nel corso del processo.

33 In tal senso Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2011, n. 5769. 34 Il sistema probatorio risulta, quindi articolato, da un lato nell’onere gravante sulle parti,

e dall’altro nei poteri officiosi del G.A. (poteri di soccorso della parte che non è in grado di for-nire la prova) che costituiscono un correttivo alla diseguaglianza delle parti processuali. Sulla ripartizione dell’onere della prova tra le parti e tra le stesse e il giudice, cfr. SCOCA, Giustizia am-ministrativa, cit. Sulla stessa scia, TENTOLINI, La prova amministrativa, Milano, 1950. Secon-do l’autore, il giudice, astrattamente considerato, «si può concepire come investito di tutti i poteri necessari a scoprire la verità, come soggetto continuamente all’iniziativa della parte; in pratica, né l’uno né l’altro di questi principi (inquisitorio e dispositivo) può trovarsi comple-tamente e conseguentemente attuato, ma essi sono contemperati in proporzione diversa se-condo i tempi e i luoghi». La potestà del Collegio di disporre gli opportuni mezzi probatori è meramente residuale e circoscritta alle ipotesi in cui la parte diversa dall’Amministrazione non abbia la disponibilità degli atti posti a fondamento delle doglianze trasfuse nel giudizio. Infatti, come ribadito dalla giurisprudenza (TAR Sicilia-Catania, sez. I, 1° agosto 2011, n. 2044; TAR Lombardia-Milano, sez. III, ord. 6 aprile 2011, n. 904) il principio dispositivo è mitigato dal metodo acquisitivo soltanto in relazione all’effettiva indisponibilità dei mezzi di prova, sicché non sembra che all’onere dell’introduzione della parte, consegua automaticamen-te il dovere di acquisizione del giudice. Semplicemente perché ne è stato offerto un principio di prova. Sul punto, anche TAR Campania-Napoli, sez. VIII, 1° dicembre 2010, n. 26440 se-condo cui con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, in particolar modo degli artt. 64 e 116, si deve ritenere che il tema probatorio nel giudizio amministrativo sia asse-gnato alle parti; infatti il giudice non può supplire con propri poteri istruttori ad incombenti cui la parte diligentemente provvedere. Da ciò consegue che «l’istruttorio ufficiosa subentra so-lo dopo che le parti abbiano provato il tema del contendere».

35 VILLATA, Riflessioni introduttive allo studio del libero convincimento del giudice nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1990, p. 201 ss.; PERFETTI, Prova, in Enc. dir., Annali, 2007, p. 917; FOLLIERI, Il principio di non contestazione del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2012, p. 1113 ss.

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4. L’assunzione dei mezzi di prova: provvedimenti giurisdizionali relativi ai mezzi di prova ammessi e loro esecuzione

Premesso che non può farsi luogo, in virtù dell’art. 63, comma 5, c.p.a., all’interrogatorio formale e al giuramento

36, atteso che tali mezzi di prova, an-corché previsti per il processo civile, non sono compatibili con quello ammi-nistrativo e in quanto prove legali, vincolerebbero il giudice alla verità di un fat-to (da sempre ritenuti preclusi nel giudizio amministrativo ed esplicitamente escluse dall’art. 35, D.L. n. 80/1998)

37. Va innanzitutto fatta una distinzione tra il giudizio di legittimità e quello esteso al merito. Nel primo, stante la natu-ra autoritativa dei provvedimenti impugnati e dei relativi procedimenti, non-ché il suo carattere eminentemente cartolare, il sistema probatorio veniva in-centrato sulla prova documentale

38 con l’eventuale ausilio di altri strumenti di cui si dirà tra poco, ma con assoluta esclusione della prova testimoniale. La littera legis di cui al comma 3 dell’art. 63 c.p.a. dispone ora che il giudice può sempre ammettere la prova testimoniale

39, su istanza di parte, che è sempre assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile: da ciò, la volon-tà del legislatore di estenderla anche al giudizio di legittimità

40. Nel processo

36 DE NICTOLIS (a cura di), Codice del processo amministrativo commentato, Milano, 2012, p. 976.

37 Sull’incompatibilità delle prove legali si v. SCOCA, Art. 63, in QUARANTA-LOPILATO (a cura di), op. cit., p. 546.

38 SALVATORE, Il sistema probatorio del processo amministrativo: le direttrici di riforma, in AA.VV., Scritti per Mario Nigro, III, Giustizia amministrativa e giustizia civile, Milano, 1991, p. 531, secondo cui, pertanto, «alla prova documentale va ancora riservato nel processo ammini-strativo un ruolo notevole» (p. 532). La prova documentale è stata definita anche come la “pro-va principe” (CASSARINO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 1990, p. 344). L’importanza della prova documentale era testimoniata anche dall’atteggiamento del giudice amministrativo in base al quale «quasi tutto ciò che non sia “documento” porti un accertamento sul merito dell’atto» (MARCHIANÒ, L’ampliamento dei mezzi di prova nel giudizio amministrativo di legittimità ex art. 16 della legge n. 10 del 1977, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1983, p. 136, la quale comunque rileva l’importante funzione probatoria svolta dalla prova documentale).

39 Sulla prova testimoniale in generale, cfr. ANDRIOLI, Prova testimoniale (dir. proc. civ.), in Noviss. Dig. it., XIV, 1967, p. 329 ss.; TARUFFO, Prova testimoniale (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXVII, 1988, p. 729 ss.; DONDI, Prova testimoniale nel processo civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, 1997, p. 40 ss.

40 Cfr. TAR Piemonte-Torino, sez. I, 4 maggio 2011, n. 452, il quale precisa che anche nel processo amministrativo è ammissibile la prova testimoniale, ma a condizione che la relativa istanza rechi la precisa e puntuale indicazione dei testimoni, che ne consenta la tempestiva identificazione e la regolare instaurazione del contraddittorio, con le preclusioni connesse alle scansioni del giudizio. Sempre sui limiti alla prova testimoniale si segnalano: Cons. Sta-

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amministrativo l’assunzione scritta è la regola. Il codice, invero, nulla prevede al riguardo e se è pur vero che l’art. 63, comma 3, rinvia al codice di procedura civile

41 quanto alla disciplina di dettaglio: tale richiamo non può evidente-mente snaturare il modello prefigurato dal legislatore. Sicché, in primo luogo, l’assunzione della testimonianza non è subordinata al raggiungimento dell’ac-cordo tra ricorrente e Amministrazione resistente, essendo sufficiente l’istan-za di parte

42. E ciò perché nel processo civile, in mancanza di accordo 43, può

aprirsi la strada all’assunzione della prova nella forma orale, mentre nel proces-so amministrativo l’ipotesi (verosimilmente frequente) del disaccordo sull’ac-quisizione in forma scritta precluderebbe del tutto l’esperimento della prova, rendendo sostanzialmente non operativo l’art. 63, comma 3 in esame

44. Il co- to, sez. IV, 7 agosto 2012, n. 4527, in Red. amm. CdS, 2012, pp. 7-8 e TAR Toscana-Firenze, sez. II, 28 marzo 2012, n. 613, in Foro amm.-TAR, n. 3, 2012, p. 772 secondo cui «nessuna va-lenza probatoria può essere assegnata alle dichiarazioni rese per iscritto da conoscenti del-l’interessato al di fuori del giudizio, la prova testimoniale potendo essere acquisita unicamen-te con le forme stabilite dall’art. 63 comma 3, c.p.a.».

41 Nel processo civile tale tipologia di testimonianza ha una puntuale regolamentazione essendone previsti i presupposti e le condizioni di ammissibilità. In particolare, ai sensi degli artt. 257 bis c.p.c. e 103 delle disposizioni di attuazione (introdotti dagli artt. 46 e 52, L. n. 69/2009), la testimonianza è 1) subordinata all’accordo delle parti e 2) previa comunque valu-tazione del giudice, il quale «tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostan-za», può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato. Il giudice pertanto potrebbe ritenere necessario un esame diretto del teste per timore di una mancanza di genuini-tà nel rilascio della dichiarazione e, quindi, disporre la forma orale. Nel processo civile insom-ma, da un lato, vige l’alternativa tra la testimonianza scritta e quella orale, dall’altro, l’assunzio-ne orale ha una tendenziale prevalenza, come si verifica, per esempio, allorché si avverta l’esi-genza di ascoltare il testimone in udienza.

42 L’art. 257 bis c.p.c. subordina infatti la testimonianza scritta all’accordo delle parti, men-tre l’art. 63 citato all’“istanza della parte”. V. però TAR Campania-Napoli, sez. V, ord. 5 maggio 2011, n. 2541, in www.giustizia-amministrativa.it, il quale dopo aver proposto un’interpreta-zione estensiva secondo cui l’accordo sarebbe necessario anche nel giudizio amministrativo ritiene che esso possa «risultare anche implicitamente, vale a dire per facta concludentia».

43 Ancorché non precluda del tutto l’assunzione della prova, la previsione dell’accordo nel processo civile è comunque criticabile, essendo improbabile che le parti accettino di ammette-re una prova testimoniale resa per iscritto ed al di fuori quindi dal contraddittorio orale, salvo i casi in cui i fatti oggetto di prova risultino pacifici per le stesse parti (ma anche in tale ultima ipotesi la prova testimoniale paleserebbe la sua sostanziale inutilità, cfr. anche ASPRELLA, La testimonianza scritta e il tramonto dell’oralità, in BALENA-CHIZZINI-CIPRIANI- MENCHINI-MON-TELEONE (a cura di), Il giusto processo civile, Bari, 2009, p. 849 ss.).

44 Inoltre, opinando diversamente, la prova testimoniale verrebbe rimessa al consenso della controparte «e ciò comporterebbe una violazione patente dell’art. 111 Cost.» (D’AN-GELO, Osservazioni sulle disposizioni in tema di istruttoria, in Foro it., p. 220).

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dice non prevede alternative alla prova fornita per iscritto che, se ammessa dal giudice, diventa l’unica forma consentita. Orbene il codice, pur affiancando le prove documentali agli altri mezzi di prova, riserva uno specifico ruolo alle stesse in ragione delle peculiarità di svolgimento del procedimento, nel quale i singoli passaggi trovano sempre un’evidenza “cartacea”

45. Del resto, poiché l’attività amministrativa si esprime generalmente attraverso atti e provvedi-menti, la prova documentale continua ad assumere una particolare rilevanza nel processo amministrativo. È, dunque, consentita innanzitutto la richiesta del deposito di documenti da parte del giudice

46. Ciò può essere ordinato non solo all’Amministrazione, ancorché costituita o meno in giudizio, ma anche a tutte le parti costituite; inoltre, il giudice ha il potere di ordinare anche a terzi (pure privati) rispetto alla controversia di esibire in giudizio i documenti o quanto altro ritenga necessario: si tratta di atti e documenti non esistenti al-l’interno del procedimento amministrativo (art. 63, comma 2)

47. Può altresì essere disposta la c.d. richiesta di chiarimenti all’Amministrazione emanante, sia essa semplice (trattasi, in tal caso, di mera relazione), documentata e/o tec-nica; e ciò allo scopo di acquisire elementi comunque concernenti l’ambito del giudizio, che non siano apparsi sufficientemente chiari a meglio comprendere le circostanze storico-ambientali nelle quali la fattispecie si colloca

48. Come

45 Cfr. CHIRULLI, L’istruttoria, in Commentario. Il nuovo processo amministrativo, diretto da Caranta, Bologna, 2011, p. 539.

46 D.Lgs. 2 luglio 2009, n. 104, art. 63, comma 1; sul punto v. TAR Sicilia-Catania, sez. I, 1° agosto 2011, n. 2044, il quale ritiene che il potere di indagine del G.A. costituisca «una mera possibilità, recessiva rispetto al comma 2 (dell’art. 64 c.p.a.), ove viene stabilito che il «giudi-ce deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non spe-cificatamente non contestati dalle parti costituite»; così anche TAR Lombardia-Milano, sez. III, ord. 6 aprile 2011, n. 904 e TAR Campania-Napoli, sez. VIII, 1° dicembre 2010, n. 26440. Inoltre, si v. TAR Lazio-Roma, sez. I, 18 ottobre 2012, n. 8633.

47 GALLO, La prova nel processo amministrativo, Milano, 1994, p. 143, ritiene che l’acqui-sizione istruttoria nei confronti di soggetti diversi dall’Amministrazione intimata già di per sé «amplia l’accesso al fatto da parte del giudice amministrativo in quanto tali atti e documenti, in possesso di soggetti diversi, sono atti e documenti non esistenti nel procedimento ammi-nistrativo». Non rientra, tuttavia in siffatto contesto, il deposito del provvedimento impu-gnato, giacché l’esibizione di tale atto costituisce, e come si è detto, puntuale onere del ricor-rente o dell’Amministrazione emanante; e che non riveste carattere probatorio, bensì vero e proprio strumento preliminare inteso a delimitare l’oggetto del giudizio.

48 Si spiega, quindi, quell’orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la risposta de-ve necessariamente provenire, ed informa scritta, da parte dell’Amministrazione, ancorché essa si sia, o meno, ritualmente costituita in giudizio; ed anche se ciò non, sia stata espressa-mente invocata da parte del ricorrente. Ciò in quanto in questa sede 1’Autorità amministra-tiva è stata investita dell’incombente nella sua qualità di soggetto pubblico dalla cui attività il provvedimento impugnato discende, e non già nella veste di parte.

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evidenziato, il codice prevede la facoltà del giudice di ricorrere alla verificazio-ne e alla CTU (Consulenze Tecniche d’Ufficio)

49, che possono essere dispo-ste solo dal Collegio e demandate ad ausiliari o organi terzi, estranei al giudi-zio

50. Sono ammesse, pertanto, dall’art. 66 c.p.a., le c.d. verificazioni (espres-samente erano previste dall’art. 44, T.U. n. 1054/1924 e dall’art. 26, comma 2, R.D. n. 642/1907), che consistono in veri e propri accertamenti ordinati dal giudice al fine di una migliore conoscenza dei fatti, al fine di consentirgli l’e-sercizio di un più penetrante sindacato di legittimità sotto il profilo dell’ecces-so di potere per carenza o erroneità dei presupposti

51. Al contrario della nor-mativa previgente, l’art. 66 nulla dice in merito alla possibilità per le parti di conoscere i termini e le modalità di svolgimento della stessa. Inoltre, non è neppure prevista nel nuovo testo legislativo la possibilità per le parti private di farsi assistere da tecnici di fiducia

52. Dalle verificazioni, invero, si distingue la consulenza tecnica

53 che, come è noto, implica valutazioni di situazioni rile-vanti allo scopo della decisione; strumento utilizzabile per risolvere questioni di fatto

54, che richiedano cognizioni non strettamente giuridiche, ma squisi-

49 Sulla differenza oggettiva tra i due mezzi istruttori, cfr. SCOCA, Art. 66, in QUARANTA-LOPILATO (a cura di), op. cit., p. 560; CINTIOLI, Consulenza tecnica d’ufficio e sindacato giuri-sdizionale della discrezionalità tecnica, in Cons. Stato, 2000, II, p. 2371 ss.; ID., Consulenza tec-nica e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2004, p. 936 ss.; BACCARINI, Giudice ammi-nistrativo e discrezionalità tecnica, in Dir. proc. amm., 2001, p. 80 ss.; MARZUOLI, Potere ammi-nistrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985, p. 1 ss.; CLARICH, Per uno studio sui poteri dell’Au-torità garante della concorrenza e del mercato, in BASSI-MERUSI, Mercati e Amministrazioni in-dipendenti, Bologna, 2005; ID., Manuali di diritto amministrativo, Bologna, 2013; CAMMEO, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, 1910; GIANNINI, Il potere di-screzionale della Pubblica Amministrazione: concetti e problemi, Milano, 1939; LAZZARA, Auto-rità indipendenti e discrezionalità, Padova, 2001, p. 150; PERFETTI, Ancora sul sindacato giudiziale sulla discrezionalità tecnica, in Foro amm., 2000, p. 422.

50 Al fine di assicurare l’imparzialità del giudizio il soggetto chiamato a svolgere le opera-zioni di verificazione deve essere diverso da quello parte del giudizio (cfr. PONTE, Maggiore spa-zio al verificatore imparziale, in Guida dir., 2010, 32, 37).

51 In particolare, è previsto che il verificatore sia un organismo pubblico, estraneo alle parti in giudizio, munito di specifiche competenze tecniche (art. 19): non può dunque trattarsi della stessa Pubblica Amministrazione resistente in giudizio, ma un soggetto terzo. Disponeva, al-l’uopo, il ridetto art. 216 che queste sono «a cura dell’Amministrazione avvisati almeno cin-que giorni prima del luogo, del giorno e dell’ora in cui si eseguiranno le verifiche».

52 Cfr. CHIRULLI, op. cit., p. 543. 53 Sul CTU v. cfr. amplius SANDULLI, La consulenza tecnica d’ufficio, in Foro amm.-TAR, n.

12, 2008, p. 3533. 54 Con la consulenza tecnica il giudice amministrativo dispone di uno strumento «più so-

fisticato rispetto a quello tradizionale delle verificazioni per accertare il modo di essere di fat-

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Renato Rolli 765

tamente tecnico-scientifiche 55. L’art. 19 c.p.a., nello specifico, riduce la possi-

bilità di ricorrere all’ausilio del CTU ai soli casi in cui si renda “indispensabi-le”

56. Dunque, qualora il giudice lo reputi necessario ai fini dell’accertamento del fatto, può ordinare ad organi ed enti l’esecuzione di una verificazione op-pure, (solo) se indispensabile, disporre una CTU per l’acquisizione di valuta-zioni che richiedono particolari competenze tecniche, nominando uno dei soggetti aventi le qualità indicate

57. Il tenore letterale dell’art. 63 pare invece ti complessi al di là della rappresentazione che di essi viene fatta nel provvedimento impugna-to» (CLARICH, La giustizia amministrativa nel pensiero di Feliciano Benvenuti, in Ius, 2008, p. 400, il quale osserva come in questo modo «si rompe dunque lo schermo frapposto tra il giudice e la realtà di fatto costituito dal provvedimento amministrativo»).

55 CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo – Profili sostanziali e processuali, II, Milano, 2008, p. 1338. La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la consulenza tecnica costi-tuisce un mezzo istruttorio utilizzato dal giudice (ordinario) per integrare le proprie cono-scenze in ambiti in cui non ritenga di avere sufficiente preparazione: l’ausilio di cognizione tecniche non possedute. TAR Emilia Romagna-Parma, sez. I, 19 febbraio 2008, n. 102, in www.giustizia-amministrativa.it. Si tratta comunque di una regola che ammette eccezioni, po-sto che la giurisprudenza ammette la consulenza “in funzione di percezione” (l’accertamento dei fatti) quando le situazioni dedotte in giudizio possano essere accertate soltanto attraver-so specifiche cognizioni tecniche: in questi casi l’attività del consulente non è solo di dedu-zione ma consente anche l’acquisizione dei fatti posti a fondamento della domanda, fermo restando l’onere di allegazione (cfr. D’ANGELO, La consulenza tecnica nel processo amministra-tivo fra prassi consolidate e spunti innovativi, in Foro amm.-TAR, 2005, p. 579 ss. In giurispru-denza Cass., sez. III, 19 aprile 2011, n. 8989, in Giust. civ. Mass., n. 4, 2011, p. 632; TAR Valle d’Aosta, sez. I, 27 luglio 2011, n. 52, in Foro amm.-TAR, n. 7-8, 2011, p. 2208, secondo cui la consulenza tecnica d’ufficio ha di norma la funzione di fornire al giudice la valutazione dei fatti già probatoriamente acquisiti e può costituire fonte oggettiva di prova soltanto quando si risolva anche in uno strumento di accertamento di situazioni rilevabili soltanto con ricorso a determinate cognizioni tecniche).

56 Anche ai fini dell’utilizzabilità della CTU occorre far riferimento alle risultanze proces-suali, distinguendo i meri accertamenti tecnici (quelli cioè in cui la tecnica conduce a risultati univoci) dagli apprezzamenti tecnici (laddove la tecnica non conduce a risultati univoci). Più complessa appare l’ipotesi in cui la CTU possa condurre a risultati opinabili: in tale ulti-ma ipotesi è possibile mantenere l’utilizzabilità della CTU nei limiti del sindacato del G.A. sul vizio di eccesso di potere.

57 Sul punto (e sui limiti alla CTU), cfr. Cass., sez un., 17 gennaio 2012, n. 2312. In parti-colare, il codice individua le categorie di soggetti ai quali deve essere affidato l’incarico di con-sulenza e, cioè, dipendenti pubblici, professionisti iscritti negli albi di cui all’art. 13 delle dispo-sizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, o altri soggetti aventi particolare compe-tenza tecnica, con l’unica preclusione derivante dal prestare una qualche attività in favore delle parti del giudizio e l’incarico di verificazione, affidabile a un organismo pubblico, anch’esso e-straneo alle parti del giudizio e munito di specifiche competenze tecniche. Entrambi i suddetti ausiliari hanno l’obbligo di prestare il loro ufficio, ad eccezione delle ipotesi in cui venga rico-nosciuta l’esistenza di un giustificato motivo. Il Collegio, quando dispone la verificazione, con ordinanza successivamente comunicata tramite segreteria, individua l’organismo che deve

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annullare quella che la giurisprudenza aveva individuato essere la differenza più rilevante tra i due istituti ossia che la verificazione ha ad oggetto l’accertamen-to di fatti non desumibili dalle risultanze documentali mentre la consulenza tecnica consiste in una valutazione tecnica di determinate situazioni da utiliz-zare ai fini della decisione

58. Si prevede, infatti, che per l’accertamento di fatti o per l’acquisizione di valutazioni il giudice possa disporre sia la consulenza sia la verificazione: entrambe dunque possono avere una funzione di accerta-mento e di valutazione

59. Identiche sono anche le disposizioni procedimentali provvedervi, formula i quesiti e fissa un termine per il suo compimento e per il deposito della relazione conclusiva. È responsabile per il compimento delle relative operazioni il capo del-l’organismo verificatore o il suo delegato se il giudice ha autorizzato la delega. Terminata la verificazione, su istanza dell’organismo o del suo delegato, il Presidente liquida con decreto il compenso complessivamente spettante al verificatore, ponendolo provvisoriamente a carico di una delle parti; solo con la sentenza che definisce il giudizio il Collegio regola definitiva-mente il relativo onere. Conformemente alla disciplina della verificazione, con l’ordinanza con cui dispone la consulenza tecnica d’ufficio, il Collegio nomina il CTU, formula i quesiti e fissa il termine entro cui il consulente incaricato deve comparire dinanzi al magistrato a tal fine delegato per assumere l’incarico e prestare giuramento ai sensi dell’art. 193 c.p.c. Le eventuali istanze di astensione e ricusazione del consulente devono essere proposte, a pena di decadenza, entro il termine di legge. Il codice si limita a riproporre gli istituti in questione ma non ha cura di precisare quali siano le differenze. Dall’esame delle disposizioni si desume che la differenza principale consiste nel ruolo del soggetto incaricato, dal momento che la verificazione è affidata a soggetti pubblici mentre la consulenza tecnica può essere affidata tanto a dipendenti pubblici quanto a professionisti iscritti negli albi di cui all’art. 13 delle di-sposizioni di attuazione al codice di procedura civile o anche ad altri soggetti aventi partico-lare competenza.

58 «Le verificazioni consistono in meri accertamenti disposti al fine di meglio completare la conoscenza dei fatti; mentre la consulenza tecnica, più che a un accertamento, mira a una valutazione tecnica delle situazioni sottoposte a giudizio, e si traduce, in genere, nella formazio-ne di una perizia da parte dell’esperto incaricato, che fornisce al giudice una propria valutazione dei fatti rilevanti nel giudizio» (Cons. Stato, sez. IV, 24 febbraio 2004, n. 719, in Foro amm.-Cons. Stato, 2004, p. 399).

59 Cfr. LAMBERTI, Primi orientamenti sulla prova nel nuovo processo amministrativo, in www. giustiziaamministrativa.it, par. 2, il quale dopo aver affermato che «l’estraneità delle parti alla verificazione è coerente con la finalità dell’istituto di acquisire al processo nuovi elementi della situazione che non comportino valutazioni o giudizi, come avviene nella consulenza tecnica», esaminando la disciplina del codice conclude che «nel processo amministrativo la verifica-zione assume portata di mezzo istruttorio generale di cui il giudice si avvale tutte le volte in cui i fatti siano incerti e sia necessaria un’attività di carattere ricognitivo o valutativo che sia». In questo senso anche D’ANGELO, Osservazioni sulle disposizioni in tema di istruttoria, cit., p. 221, secondo cui il codice ha superato «l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la verifi-cazione poteva riguardare solo l’accertamento dei fatti e non la loro valutazione». Orientamen-to giurisprudenziale che peraltro era stato criticato in dottrina, evidenziandosi come consulen-za e verificazione avessero in realtà la stessa ampiezza di contenuti (cfr. TRAVI, Valutazioni tecniche e istruttoria del giudice amministrativo, in Urb. app., 1997, p. 1263 ss. e in particolare

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ossia gli obblighi a cui sono sottoposti i soggetti incaricati e la possibilità della loro ricusazione (cfr. art. 19 e art. 20 del codice). Il codice consente di affidare l’incarico di consulenza a dipendenti pubblici (art. 19, comma 2) e, inoltre, estende al verificatore buona parte della disciplina propria del consulente tec-nico

60. Più variegata appare l’istruttoria, quando debbano essere affrontate e decise questioni relative ai casi in cui il giudice amministrativo abbia compe-tenza estesa al merito, nel quale egli è chiamato ad esprimere le sue valutazio-ni sull’opportunità e sulla convenienza dell’atto impugnato

61. Orbene, l’art. 7, L. n. 205/2000, espressamente consentiva al giudice amministrativo, nelle ma-terie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, l’utilizzazione «dei mezzi di pro-va previsti dal codice di procedura civile, nonché della consulenza tecnica d’uf-ficio, esclusi l’interrogatorio formale ed il giuramento», ciò confermato dal- p. 1266). Nella giurisprudenza successiva al codice v. TAR Lombardia-Milano, sez. I, 10 maggio 2012, n. 1314, in Foro amm.-TAR, n. 5, 2012, p. 1478, il quale ha disposto una verifi-cazione sull’affidabilità dell’offerta proposta da un concorrente «onde accertare se la formale discordanza, in essa, tra dichiarazione del periodo di manutenzione contenuto nell’offerta tecnica e costo dello stesso espresso nell’offerta economica» avesse potuto «risolversi nella sostanza in termini di congruità del costo evidenziato da quest’ultima». In precedenza, v. Cons. Giust. Amm. Sic., 25 gennaio 2011, n. 89, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui, pur connotandosi la verificazione «prioritariamente per l’effettuazione di un accertamento tecnico, di natura non valutativa, piuttosto che nella formulazione di un giudizio tecnico», nel caso in cui nella verificazione siano contenuti “elementi di giudizio” non ne comportereb-bero l’inutilizzabilità «giacché sia l’esito della CTU sia quello della verificazione sono comun-que autonomamente apprezzati dal giudice il quale, nell’esercizio dei suoi poteri cognitori e decisori, può aderire alle conclusioni dell’ausiliario oppure discostarsene in tutto o in parte».

60 In termini, SCOCA, Artt. 63-69, in QUARANTA-LOPILATO (a cura di), op. cit., p. 561. 61 In tali casi i suoi poteri istruttori, per essere decisamente più ampi e rilevanti, consen-

tono non solo l’utilizzazione degli strumenti indicati, ma anche tutti quelli che erano espressa-mente previsti dal Regolamento di procedura, quali le prove testimoniali, le ispezioni, le perizie e le consulenze tecniche; dovendosi così intendere la formula contenuta nell’art. 27, R.D. n. 642/1907, che letteralmente consentiva al giudice «tutte le altre indagini che possono con-durre alla scoperta della verità». Quanto finora esposto creava non pochi problemi per quan-to riguardava precipuamente la giurisdizione esclusiva che attribuisce al giudice amministra-tivo cognizione anche sui diritti. Per la verità, la questione era già stata rimessa alla Corte costi-tuzionale, sia pure limitatamente alle controversie relative al pubblico impiego aventi per og-getto diritti soggettivi che prima delle recenti riforme erano attribuite alla giurisdizione esclusi-va del giudice amministrativo. Orbene il giudice delle leggi, con la ben nota sent. 23 aprile 1987, n. 146, ha dichiarato la incostituzionalità, per violazione degli artt. 3, 24, commi 1 e 2, Cost., degli artt. 44, comma 1, T.U. 6 giugno 1924, n. 1054, 26, R.D. 17 agosto 1907, n. 642 e 7, comma 1, L. n. 1034/1971, nella parte in cui, nelle controversie di impiego dei dipendenti dello Stato e di Enti pubblici, riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non consentono esperimento dei mezzi istruttori previsti, nel rito del lavoro, dagli artt. 421 commi 2, 3 e 4; 422, 424 e 425 c.p.c., nel testo novellato dalla L. n. 533/1973; e di tal guisa re-cando limitazione alla ricerca della verità con lesione del diritto di azione e di difesa in giudizio.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 768

l’art. 63, comma 5, c.p.a. 62. Una ulteriore considerazione appare utile relati-

vamente al problema dell’assunzione di dette prove. Disponeva, a tal proposito, il medesimo comma 3 dell’art. 7 che l’assunzione de qua e l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio era disciplinata «ove occorra, nel regolamento di cui al R.D. 17 agosto 1907, n. 642, tenendo conto della specificità del processo amministrativo in relazione alle esigenze di celerità e concentrazione del giudi-zio». L’intento del legislatore appare abbastanza chiaro: si è voluto rimodulare, attraverso una utilizzazione indiscriminata dei mezzi di prova

63. In ordine ai provvedimenti giurisdizionali occorre rilevare come il materia-

le probatorio, laddove a depositare il medesimo non abbiano provveduto spon-taneamente le parti, possa essere acquisito direttamente dal giudice

64. Origi-nariamente, ciò avveniva attraverso tre distinti provvedimenti, costituiti ri-spettivamente dall’ordinanza presidenziale, dall’ordinanza collegiale istrutto-ria e dalla sentenza istruttoria

65. Il legislatore (dall’art. 44, T.U. n. 1054/1924,

62 Sono ammesse, oltre beninteso le prove documentali (rectius: l’esibizione di atti o do-cumenti e le relazioni esplicative), le ispezioni, le perizie e le consulenze tecniche d’ufficio nonché la prova testimoniale e l’ordine di comparizione con interrogatorio libero.

63 Per un approfondimento si rinvia a: ROMANO, Le giurisdizioni speciali amministrative, in ORLANDO (diretto da), Primo Trattato completo di diritto amministrativo italiano, III, Milano, 1901, p. 615 ss.; CAPACCIOLI, In tema di ricorso incidentale nel giudizio amministrativo, in Giur. compl. cass. civ., 1951, p. 1014 ss.

64 In giurisprudenza, cfr. Cons. Stato, ad. plen., sent., 23 marzo 2011, n. 3. In dottrina si v. CHIEPPA, Il Codice del processo amministrativo, Milano, 2010, p. 370; CHIRULLI, op. cit., p. 537; CLARICH Le azioni, in Giornale dir. amm., 2010, p. 1126; GALLO, Il codice del processo amministrativo: una prima lettura, in Urb. app., 2010, p. 1021; SALTELLI, Processo amministra-tivo di primo grado, in Codice del processo amministrativo. Commentario, a cura di Leone-Maruotti-Saltelli, Padova, 2010, p. 594.

65 Vi sarebbero, nel processo amministrativo, “tre momenti istruttori”: una istruzione ini-ziale o introduttiva; una istruzione intermedia (preliminare rispetto all’udienza di discussio-ne) e una istruzione finale o collegiale. Ciò ha portato alcuni Autori (tra cui SCOCA, Art. 69, in QUARANTA-LOPILATO (a cura di), op. cit.) a rilevare la mancanza di una precisa fase istrut-toria nel giudizio amministrativo; di una fase cioè «entro la quale l’istruttoria abbia inizio e fine, con la conseguenza che l’attività istruttoria occupa (...) l’intero processo, dalla sua costi-tuzione fino alla vigilia dell’udienza di trattazione». Le parti possono produrre documenti, ai sensi dell’art. 73, comma 1, fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza; termine, que-st’ultimo, che sembra di chiusura dell’istruttoria. Il G.A. può tuttavia eccezionalmente auto-rizzare al presentazione tardiva di memorie e documenti ai sensi dell’art. 54, comuni, c.p.a.

a) L’ordinanza presidenziale, prevista espressamente dal comma 5, art. 23, L. n. 1034/1971 era emanata fuori dall’udienza di merito; Essa poteva avere ad oggetto documenti puntual-mente richiesti dalle parti negli scritti difensivi o con separata istanza; ma altresì disposta d’ufficio, specie quando, per qualsiasi ragione (prima fra tutte la mancata costituzione in giudi-zio dell’Amministrazione emanante), non erano stati depositati al fascicolo processuale, i prov-

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Renato Rolli 769

così come integrato dall’art. 16, L. n. 205/2000), aveva, in ogni caso, lasciato al Collegio il potere di disporre ulteriori incombenti istruttori

66. In seguito al- vedimenti impugnati; ovvero laddove da una prima disamina del fascicolo, il Presidente avesse ritenuto opportuno acquisire ulteriori atti necessari o comunque utili per una esaustiva di-samina della vicenda da parte del Collegio.

b) L’ordinanza collegiale, di solito emessa in udienza quando le parti, d’accordo, avessero ritenuto che la documentazione esistente agli atti di causa appariva incompleta o comunque lacunosa o insufficiente.

c) La sentenza istruttoria veniva pronunciata dal Collegio quando si verificava un qual-siasi contrasto tra le parti su circostanze non sufficientemente chiare nella realtà documenta-le; ovvero nei casi in cui il contrasto stesso avesse rivelato qualsiasi contraddittorietà tra i provvedimenti impugnati ed altra documentazione versata dai soggetti costituiti in giudizio. Tali atti dovevano contenere necessariamente il termine entro il quale il deposito andava ef-fettuato; termine al quale, però, la giurisprudenza non ha mai attribuito carattere perentorio (tranne il caso, di cui si è detto, di inottemperanza ad una precedente sentenza istruttoria); onde la sua inosservanza o il ritardo nell’adempimento non dava luogo a decadenze di sorta. Dell’avvenuto adempimento dell’istruttoria andava data notizia alle parti; ma, specie con ri-guardo all’ordinanza collegiale ed alla sentenza istruttoria, la prosecuzione automatica del giudizio non era consentita. Si riteneva, infatti, che l’originaria domanda di fissazione di udien-za avesse esaurito i suoi effetti in conseguenza di siffatti adempimenti; pertanto, ed a pena di declaratoria della perenzione, la istanza de qua andava rinnovata dalle parti (o anche da una sola di esse) dopo l’esecuzione dell’istruttoria, entro il termine biennale, decorrente dalla co-municazione o notificazione degli intervenuti adempimenti; notificazione, peraltro, intesa non già nel senso tecnico-giuridico di consegna di una copia conforme dell’atto con particolari formalità, bensì nel suo significato più generale di attività intesa a rendere noto in udienza un qualsiasi avvenimento. La situazione aveva subito puntuali modifiche con l’entrata in vigore della L. n. 205/2000 che, ad evidenti fini di snellimento della fase istruttoria e di celerità per la definizione della controversia, aveva introdotto una sorta di istruttoria preliminare mono-cratica, esercitabile anche prima dell’udienza di discussione, e di tal guisa valorizzando i po-teri istruttori del Presidente o di un magistrato da lui delegato. Ed invero, competeva al Pre-sidente (o al magistrato delegato), sia su istanza di parte, sia d’ufficio, l’emanazione di rituale ordinanza, diretta a disporre il deposito della documentazione necessaria per la trattazione del merito della causa, ivi compreso il provvedimento impugnato. È indubbio che tale ultima possibilità appariva assai ridotta, ove si consideri che era onere delle parti depositare l’atto og-getto del giudizio; tuttavia, la mancata produzione di esso non implica decadenza; onde ap-pariva particolarmente opportuno l’intervento del legislatore nel senso finora esposto.

66 Ciò, ovviamente, poteva avvenire solo nel corso dell’udienza di discussione della causa nel merito: ci si trovava di fronte, in siffatti casi, alla istruttoria collegiale. Disponeva, a pro-posito, la norma de qua «se la Sezione a cui è stato rimesso il ricorso riconosce che l’istru-zione dell’affare è incompleta, o che i fatti affermati nell’atto o provvedimento impugnato sono in contraddizione coi documenti, può chiedere all’Amministrazione interessata schiari-menti o documenti, ovvero ordinare all’Amministrazione medesima di fare nuove verificazio-ne, autorizzando le parti ad assistervi, ed anche a produrre determinati documenti, ovvero di-sporre consulenza tecnica». Anche per tali incombenti si provvedeva con ordinanza non im-pugnabile comunicata agli interessati, che peraltro doveva fissare la data della successiva udien-za di trattazione del ricorso. Sull’istruzione probatoria in generale, cfr. C.E. GALLO, (voce)

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 770

l’intervento del legislatore, la rinnovazione dell’istanza di fissazione di udienza, nel caso di ordinanza collegiale, non appariva più necessaria, avendo il Colle-gio già indicato il giorno nel quale il dibattimento dovesse essere ripreso

67. Il legislatore dell’attuale codice, nel procedimento istruttorio, ha mantenuto sia l’istruttoria collegiale che presidenziale, così come sono delineate dall’art. 65 c.p.a.: il Presidente della Sezione o un magistrato da lui delegato adotta, su istanza motivata di parte, i provvedimenti necessari per assicurare la comple-tezza dell’istruttoria (art. 65, comma 1, c.p.a.). Quando l’istruttoria è disposta Istruzione nel processo amministrativo, in Dig. disc. pubbl., IX, 1994; D’ANGELO, Osservazioni sulle disposizioni in tema di istruttoria, in www.giustam-mit; IL GRECO, I poteri istruttori e di accerta-mento del giudice amministrativo, Relazione svolta al seminario di studi sul tema “Il giudice am-ministrativo e il codice del processo: la difficile sfida”, Roma, 27 maggio 2010, in www.giustizia-amministrativa.it. Per un commento articolo per articolo al c.p.a. si vedano CHIEPPA, op. cit.; QUARANTA-LOPILATO (a cura di), op. cit. Sull’onere del principio di prova cfr., in giurispru-denza, Cons. Stato, sez. IV, 25 maggio 2011, n. 3135; Id., 16 maggio, 2011, n. 2955 e TAR Puglia-Bari, sez. III, 25 novembre 2011, n. 1803. Particolarmente chiaro è Cons. Stato ri-chiamato, il quale precisa che il temperamento del principio dispositivo con metodo acquisi-tivo degli elementi di prova da parte del giudice «non si traduce nella possibilità per il ricor-rente di limitarsi a esporre mere asserzioni o congetture, che affidino interamente all’attività istruttoria giudiziale l’accertamento della loro eventuale fondatezza», essendo palese che «una siffatta opzione si tradurrebbe nella inversione del principio dell’onere della prova co-me regolato dagli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., dove, invece, il principio con metodo acquisitivo non può mai tradursi in una assoluta e generale inversione di tale onere (...). Ne consegue che, nel processo amministrativo, in mancanza di una prova compiuta a fondamento delle proprie pretese, il ricorrente deve avanzare almeno un principio di prova, perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori». L’art. 2697 c.c. costituisce dunque regola di ripar-tizione dei carichi probatori regola di giudizi: il G.A. cioè interviene normalmente su istanza di parte; solo se le parti, senza colpa, non riescono per ragioni obiettive a raggiungere la pro-va completa, interviene d’ufficio. Sull’onere del principio di prova e sull’applicabilità dell’art. 2697 c.c., cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11 febbraio 2011, n. 924. In dottrina cfr. SCOCA, Art. 64, in QUARANTA-LOPILATO (a cura di), op. cit., p. 543 ss.; FERRARA, L’allegazione dei fatti e la loro prova nella disciplina dell’annullabilità non pronunciabile: problematiche processuali e trasforma-zioni sostanziali, in Dir. proc. amm, n. 1, 2010. Per i profili di diritto tributario, per tutti, TA-BET, op. cit., p. 625.

67 Per quanto attiene all’esecuzione dei mezzi di prova, nel sostanziale silenzio sul punto del R.D. n. 642/1907, che pur conteneva diversi articoli all’istruzione probatoria (artt. 26-35), pe-raltro nella loro quasi totalità riferiti al processo amministrativo quale prevedeva espressamente che per l’esecuzione poteva essere delegato uno dei magistrati componenti il Collegio, che «procede con l’assistenza del segretario, che redige i relativi verbali»; il tutto sotto la direzione del Presidente dell’organo giudicante che, a norma dell’art. 29 del medesimo Regolamento, «nell’ammettere i mezzi istruttori, stabilisce i termini da osservare ed i modi con cui debbono seguire, applicando, per quanto è possibile, le disposizioni del codice di procedura civile». Del-la data dell’esecuzione dell’istruttoria andava data formale comunicazione, con avviso a cura della segreteria, alle parti costituite in giudizio; e questo all’evidente scopo di consentire l’eser-cizio del contraddittorio, laddove beninteso i soggetti invitati intendessero intervenire.

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dal Collegio, questo provvede con ordinanza, con la duale è contestualmente fissata la data della successiva udienza di trattazione del ricorso. La decisione sulla consulenza tecnica

68 e sulla verificazione è sempre adottata dal collegio (art. 65, comma 2, c.p.a.). Il Presidente o un magistrato da lui delegato ovvero il collegio ordina, anche su istanza di parte, l’esibizione degli atti e dei docu-menti nel termine e nei modi opportuni, ove l’Amministrazione non provveda al deposito del provvedimento impugnato e degli altri atti ai sensi dell’art. 46 (art. 65, comma 3, c.p.a.)

69.

5. L’istruttoria tra diritto amministrativo e diritto tributario: due discipline a confronto

La giurisdizione tributaria si è sviluppata parallelamente a quella ammini-strativa e ne condivide l’identica ratio di contemperare situazioni soggettive

68 Sul punto (e sui limiti alla CTU), cfr. Cass., sez. un., 17 gennaio 2012, n. 2312, in cui la Suprema Corte conferma la «piena inclusione, nella potestà di esercitare il sindacato dell’ec-cesso di potere, della facoltà di accertare pienamente i fatti, anche avvalendosi di un consu-lente ai sensi dell’art. 67 d.lgs. 104 del 2010 al fine di eseguire indagini su materie di elevato profilo tecnico (al proposito Cons. Stato, n. 6980 del 2011), la cognizione di legittimità del giudice amministrativo essendo in tal guisa completata sotto il profilo del pieno controllo dei fatti, come per vero imposto dalla esigenza di dare piena attuazione al disposto della Con-venzione Europea (da ultimo decisione del 27.9.2011 in caso A. Menarini Diagnostica c. Ita-lia)»; TAR Lombardia-Milano, sez. I, 10 marzo 2014, n. 613.

69 Per i termini e le forme di esecuzione, il legislatore ha previsto che il Presidente o il ma-gistrato delegato, ovvero il Collegio, nell’ammettere i mezzi istruttori, stabiliscono i termini da osservare e ne determinano il luogo e il modo dell’assunzione applicando, in quanto compa-tibili, le disposizioni del codice di procedura civile (art. 68, comma 1, c.p.a.). Per l’assunzione fuori udienza dei mezzi di prova, è delegato uno dei componenti del collegio, il quale proce-de con l’assistenza del segretario che redige i relativi verbali. Il segretario comunica alle parti almeno cinque giorni prima il giorno, l’ora e il luogo delle operazioni (art. 68, comma 2, c.p.a.). Se il mezzo istruttorio deve essere eseguito fuori dal territorio della Repubblica, la richiesta è formulata mediante rogatoria o per delega al console competente, ai sensi dell’art. 204 c.p.c. (art. 68, comma 3, c.p.a.). Il segretario comunica alle parti l’avviso che l’istruttoria disposta è stata eseguita e che i relativi atti sono presso la segreteria a loro disposizione (art. 68, comma 4, c.p.a.). Nella ipotesi di mancata esecuzione, da parte dell’Amministrazione, dell’incombente istruttorio, si è più volte ritenuto che il giudice può nominare un commissa-rio ad acta per l’acquisizione dei documenti; anche se noi riteniamo che potrebbe, in tale eventualità, trovare applicazione l’art. 116 c.p.c., di cui si è detto più sopra. Il Titolo III è chiuso dall’art. 69 c.p.a. rubricato “Mancata surrogazione del giudice delegato all’istruttoria” il quale testualmente recita: «La surrogazione del magistrato delegato o la nomina di altro magi-strato che debba sostituirlo in qualche atto relativo all’esecuzione della prova e disposta con provvedimento del presidente, ancorché la delega abbia avuto luogo con ordinanza collegiale».

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dei singoli ed interesse pubblico 70. Identità di funzione comporta identità di

disciplina, onde la normativa che contempla il giudizio tributario è integrabile con quanto fluisce dal modello della giurisdizione amministrativa; ciò anche in conseguenza del progressivo avvicinamento di quest’ultimo al procedimen-to civile. Alla luce di quanto precede, anche in riferimento alla fase processua-le dell’istruttoria è dato ravvisare, oltre differenze dovute alla specificità delle materie, molteplici punti di contatto tra le due discipline. Così come il rito amministrativo, anzitutto, anche quello tributario manca di una fase istrutto-ria autonoma; quest’ultimo, difatti, è normalmente caratterizzato dalla disa-mina critica del giudice di un’attività istruttoria di regola già svolta, all’esterno dell’ambito processuale, dalla parte pubblica resistente, con poteri propri, spes-so autoritativi, esercitati in sede amministrativa: istruttoria amministrativa (c.d. primaria) e istruttoria processuale (c.d. secondaria) sono collegate tra lo-ro, nel senso che l’Amministrazione riversa nel giudizio tributario gli elementi di prova da essa raccolti

71. L’intera disciplina istruttoria del processo tributa-rio, unanimemente considerata scarna ed asistematica

72, è contenuta nei com-mi 1, 2 e 4, art. 7, D.Lgs. n. 546/1992: la laconicità di tali disposizioni dà con-tezza della marginalità nella quale è, ad oggi, relegata la materia in esame, in netto contrasto con quanto avviene nel codice del processo amministrativo, il quale dedica, invece, all’istruttoria l’intero Titolo III del Libro II (artt. 63-69) rubricato, appunto, “Mezzi di prova e attività istruttoria”. Il tributario, al pari dell’amministrativo, è processo di parti; sono esse, formulando le domande e chiedendo al giudice i conseguenti provvedimenti, a delimitare il thema deci-dendum. Di ciò è dato cogliere riscontro nell’avvenuta abrogazione del com-

70 Ancora si veda TABET, op. cit., spec. pp. 625-626. 71 In dottrina, cfr. MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di

accertamento, in Studi di diritto tributario, Torino, 2000, p. 24 ss.; l’autore, in merito al rapporto tra processo e procedimento, sottolinea che «se ... il processo costituisce la species del genus del procedimento, deve prendersi atto che quest’ultimo si è talmente caratterizzato da ridurre le differenze con il processo ... indipendentemente da siffatta assimilazione, deve evidenziarsi come sicuramente ... procedimento e processo devono essere conformati in modo da assicura-re difesa piena al soggetto».

72 Cfr. TESAURO, Sui principii generali dell’istruzione probatoria nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 1978, II, p. 203; ID., Ancora sui poteri istruttori delle commissioni tributarie, ivi, 1988, II, p. 14; LA ROSA, L’istruzione probatoria nella nuova disciplina del processo tributario, in Boll. trib., 1993, p. 869 ss.; COMOGLIO, Istruzione probatoria e poteri del giudice nel nuovo pro-cesso tributario, in Dir. e prat. trib., 1994, I, p. 51; COMELLI, Commento sub art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, in CONSOLO-GLENDI, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2012, p. 75. FANNI, I poteri istruttori e la prova nel processo tributario, in AA.VV., Codice com-mentato del processo tributario2, a cura di Tesauro, Assago, 2016, p. 106.

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ma 3, art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, che attribuiva al giudice un vero e proprio potere, in “supplenza” della parte rimasta probatoriamente inerte. La vigente formulazione dell’art. 7 cit., difatti – attraverso duplice rinvio alle singole leggi d’imposta (sui poteri d’ufficio dell’ente impositore) ed al codice di procedura civile – attribuisce sì alle Commissioni tributarie alcuni speciali poteri istrut-tori d’ufficio, ma essi lungi dall’essere esercitabili per conoscere i fatti rilevanti per la decisione, possono essere attivati solo «nei limiti dei fatti dedotti dalle parti», che fissano i confini della controversia e dell’attività giurisdizionale: er-go, la riconosciuta possibilità di disporre accessi e ispezioni, richiedere dati, informazioni e chiarimenti agli uffici tributari, relazioni ad organi tecnici del-l’Amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici, esperire consulenza tec-nica, ordinare ex art. 210 c.p.c. «su istanza di parte ... all’altra parte o ad un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo» ha funzione meramente integrativa dell’onere pro-batorio gravante sulle parti. La Suprema Corte, in merito, ha statuito che le Commissioni tributarie, possano acquisire d’ufficio elementi di prova non of-ferti dalla parte onerata a farlo, solo ed esclusivamente quando ricorra la cir-costanza della estrema difficoltà o dell’impossibilità, per quest’ultima a fornire i medesimi

73. Corrente di pensiero oramai risalente, facendo leva sul raffronto tra processo civile e tributario in ordine ai poteri istruttori ufficiosi del giudice, aveva ritenuto la natura inquisitoria di quello tributario per la maggiore quanti-tà dei casi in cui (e la maggiore latitudine dei poteri con cui) il giudice può ac-quisire d’ufficio elementi di prova, traendone la conseguenza di ritenere non operativo, nel rito tributario, il principio dell’onere della prova. Di contro, è stato correttamente rilevato che il punto di vista quantitativo è giuridicamen-te irrilevante; il processo è dispositivo, sicché regola rimane l’iniziativa di par-te, ed eccezione l’esercitabilità ex officio. In passato si riteneva che l’onere del-la prova gravasse sul contribuente in forza di una “presunzione di legittimità” degli atti amministrativi, in base alla quale il fatto posto a fondamento dell’at-to impositivo si considerava processualmente provato, fino a che il ricorrente non ne avesse fornito la prova contraria

74. Tale privilegio del Fisco ha cessato

73 Cfr. Cass., sez. V, sent. 20 gennaio 2016, n. 955, in CED Cassazione n. 638439. 74 Si v. GIANNINI, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, I, p. 289. La presunzione

di legittimità degli atti impositivi portava a ritenere che l’Erario avesse raccolto prove suffi-cienti per l’emanazione dell’atto e, di conseguenza, conduceva all’esclusione, in sede processua-le, dell’onere della prova a carico dell’ente impositore. ALLORIO, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, pp. 391-393, escludeva si dovesse addossare l’onere della prova a carico del-l’Amministrazione Finanziaria, in quanto già gravata dell’obbligo di motivazione degli atti di

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di esistere 75 ed è ormai pacifico che l’onere della prova debba ripartirsi, anche

nel processo tributario, secondo le regole ordinarie proprie del processo civi-le

76, avendo riguardo alla posizione sostanziale assunta in giudizio dalle parti ed alla disciplina dettata dall’art. 2697 c.c.

77. Il procedimento è caratterizzato da struttura impugnatoria

78, essendo proposto avverso un provvedimento, po-sitivo o negativo, dell’Amministrazione, tant’è che si parla di processo “a parti invertite”

79: attore in senso sostanziale non è colui che ricorre (ossia il contri-buente), bensì il convenuto (l’Amministrazione Finanziaria), per cui i fatti “co-stitutivi” saranno quelli che l’ente impositore ha addotto nel provvedimento a fondamento della pretesa tributaria e che deve provare (art. 2697, comma 1, c.c.), mentre i fatti “impeditivi”, “modificativi” od “estintivi” saranno quelli che il contribuente ha allegato in ricorso, al fine di contestare la pretesa tributaria, e dei quali avrà l’onere di fornire prova (art. 2697, comma 2, c.c.). Recente, au-torevole, conferma di tali principi è dato rinvenire nella sent. n. 955/2016 del- imposizione. L’Autore riteneva in tal modo di legittimare il principio per il quale nel proces-so tributario ad incombere sull’Amministrazione Finanziaria non è il dovere di dare tutta la prova, bensì solo quello di fornire un principio di prova che il contribuente potrebbe vincere dimostrando, in via di eccezione, la fondatezza delle sue avverse ragioni. Secondo Allorio, l’esigenza di motivazione dell’atto d’imposizione rifletterebbe unicamente un aspetto forma-le dell’atto stesso; la situazione base del tributo verrebbe unicamente affermata, non doven-do essere anche provata. Altra dottrina (BERLIRI, Il processo tributario amministrativo, Reggio Emilia, 1940, I, p. 156; ID., Principi di diritto tributario, III, Milano, 1964, p. 128 ss.; MICHELI, Sulla possibilità di una decisione allo stato degli atti nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1939, II, p. 13 ss.), traeva dalla natura del processo tributario la deduzione secondo cui l’one-re della prova dovesse, al contrario, incombere sull’Amministrazione Finanziaria. Il giudizio, infatti, sarebbe stato costruito sulla base di una provocatio ad opponendum (l’avviso di accer-tamento), ma questo non avrebbe esonerato l’ufficio dall’onere di spiegare in giudizio le ra-gioni della pretesa fiscale.

75 Cfr. Cass., 12 ottobre 1981, n. 5336, in Giur. it., 1982, I, p. 226. 76 Si veda TESAURO, La prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 2000, I, p. 73 ss.; GAF-

FURI, Considerazioni sull’accertamento tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1983, I, p. 551 ss.; MO-SCHETTI, Avviso di accertamento e garanzie del cittadino, in Dir. prat. trib., 1983, I, p. 1913 ss.; SCHIAVOLIN, Le prove, in AA.VV., Il processo tributario, giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, Torino, 1999, p. 473 ss.; CIPOLLA, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Rass. trib., 1998, p. 671 ss.; ID., La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 511 ss.; COMOGLIO, Allegazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., I, 1987, p. 274.

77 Cfr. Cass., sez. V, sent. 4 maggio 2004, n. 8439, in CED Cassazione, n. 572589; Cass., sez. V, sent. 6 giugno 2012, n. 9099, in CED Cassazione, n. 622990.

78 Cfr. TESAURO, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, p. 55 ss. 79 Così LOMBARDO, Le prove nel processo tributario, Seminario di Aggiornamento Professio-

nale per i Magistrati delle Commissioni Tributarie della Regione Sicilia, 21-22 ottobre 2016.

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la Suprema Corte, la quale ha statuito la vigenza, anche nel processo tributa-rio, della regola generale dell’art. 2697 c.c., in ossequio alla quale, l’Ammini-strazione Finanziaria che assume di vantare un credito nei confronti del citta-dino è tenuta a dar prova dei fatti costitutivi della pretesa. Da tale dictum di-scendono rilevanti conseguenze nell’esercizio dei poteri istruttori delle Com-missioni tributarie: posto che l’art. 7 «attribuisce al giudice il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova» e che occorre interpretare tale as-sunto alla luce del principio di terzietà del giudice ex art. 111 Cost.

80, la decli-nazione del principio offerta dalla Corte è che la terzietà è incompatibile con una funzione “integralmente sostitutiva” del giudice rispetto alle parti, quanto agli oneri probatori, essendo egli titolare di «un potere istruttorio in funzione integrativa … degli elementi di giudizio», che «può essere esercitato soltanto ove sussista un’obiettiva situazione di incertezza, al fine di integrare gli ele-menti di prova già forniti dalle parti e non anche nel caso in cui il materiale probatorio acquisito agli atti imponga una determinata soluzione della con-troversia». Inoltre, come pur statuito in sede di legittimità, il giudice deve at-tivarsi in sede istruttoria qualora «la parte su cui ricade l’onere della prova non abbia essa stessa la possibilità di integrare la prova già fornita ma questa risulti piuttosto ostacolata dall’essere i documenti in possesso dell’altra parte o di terzi»; nel caso, poi, in cui sia impossibile o molto difficile per l’onerato fornire il supporto probatorio alla propria pretesa, il giudice tributario, nella perdurante incertezza sui fatti (non interamente imputabile al mancato assol-vimento dell’onere della prova da parte dei protagonisti del giudizio) potrà fare ricorso d’ufficio agli strumenti tecnici conoscitivi previsti dai primi due

80 Sempre più numerosi gli autori che concordano nell’attribuire alla nuova formulazione dell’art. 111 Cost. portata innovativa: il suo ambito di applicazione supererebbe il limite del processo civile estendendosi ad ogni modello processuale; v. GALLO, Verso un “giusto proces-so”, in Rass. trib., 2003, p. 11; TESAURO, Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, p. 11 ss.; P. RUSSO, Il giusto processo tributario, in Rass. trib., 2004, p. 11; MARCHESELLI, Il giusto processo tributario in Italia: il tramonto dell’interesse fiscale?, in Dir. prat. trib., 2001, p. 793; MANZONI, Processo Tributario e Costituzione. Riflessioni circa l’incidenza della novella del-l’art. 111 Cost. sul diritto processuale italiano, in Riv. dir. trib., 2003, p. 1095; DEL FEDERICO, Il giusto processo tributario: tra art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e art. 111 Cost., in GT-Riv. giur. trib., 2005, p. 154 ss.; MICELI, Giusto processo tributario: un nuovo passo indietro della giurisprudenza di legittimità!, in Riv. dir. trib., fasc. 12, 2004, p. 763 ss.; GARCEA, La giurisdizione delle commissioni tributarie ed i principi del “giusto processo”, in Dir. prat. trib., n. 3, 2001, p. 484 ss.; cfr. COSTANTINO, Giusto processo e procedure concorsuali, in Foro it., 2001, I, p. 3452 ss., commento ad ordinanza Corte cost. 28 maggio 2001, n. 167, VI, p. 3450 ss. si veda inoltre: OLIVIERI, La ragionevole durata del processo di cognizione (qualche considerazione sull’art. 111, 2° comma, Cost.), in Foro it., 2000, V, p. 251 ss.

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commi dell’art. 7 cit. Nei casi in cui il contribuente non arrivi ad acquisire il documento che funge da supporto probatorio alla propria pretesa, la lettura dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 impone, dunque, di definire il nuovo modello processuale – analogamente a quanto comunemente si afferma con riferimento al processo amministrativo – dispositivo con metodo acquisitivo

81, essendo in-contestabile che il limite posto dai fatti dedotti dalle parti conclami la natura dispositiva del processo tributario, mentre la mancanza di una norma che im-ponga al giudice tributario di porre a fondamento della decisione (art. 115 c.p.c.) solo le prove richieste dalle parti, consente di riconoscere al giudice tri-butario il potere di acquisirne ex officio. L’onere della prova, com’è noto, si arti-cola in modo differente a seconda dell’oggetto del giudizio: nei giudizi di im-pugnazione degli atti impositivi, il contribuente è attore in senso formale, ma convenuto in senso sostanziale, sicché l’Amministrazione Finanziaria ha l’o-nere di provare i fatti che costituiscono il fondamento della pretesa tributaria, mentre il contribuente-ricorrente è onerato di provare la sussistenza di fatti che riducono od elidono l’imponibile o l’imposta, salvo il caso in cui egli si trovi gravato dell’onere della prova in conseguenza dell’allegazione da parte dell’ Amministrazione Finanziaria di elementi aventi valore di presunzioni semplici; nei giudizi di ripetizione di somme indebitamente corrisposte, inve-ce, il contribuente, attore sia in senso formale che sostanziale, ha l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto del diritto di credito vantato, pur non dovendo produrre la documentazione già in possesso dell’Ammini-strazione Finanziaria, che dev’essere acquisita d’ufficio dal responsabile del procedimento, ex art. 18, L. 7 agosto 1990, n. 241 ed art. 6, L. 27 luglio 2000, n. 212; anche nei giudizi relativi all’applicabilità di esenzioni od agevolazioni, il contribuente, attore sia in senso formale che sostanziale, deve provare la sus-sistenza delle circostanze da cui discendono l’esenzione o l’agevolazione. L’e-spressa esclusione, ex art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992, di prova per testi e giuramento conferma che la prova nel processo tributario è caratterizzata dall’esistenza da limiti rilevanti, che sarebbero giustificati da “specificità” del rito, configurazione dell’organo decidente, rapporto sostanziale oggetto del giudizio ed oralità del processo. L’esclusione del giuramento, ritenuto anche incompatibile col processo amministrativo, trova specifico fondamento nel carattere indisponibile dei diritti controversi, oltre che nella natura essenzial-mente inquisitoria del processo tributario e nella sfiducia del Legislatore per

81 Cfr. CAIANELLO, Lineamenti del processo amministrativo, Torino, 1979; BLANDINI, Il processo tributario, Milano, 2009.

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Renato Rolli 777

tale mezzo di prova 82. In ordine alla prova testimoniale, si è osservato che essa

risulta incompatibile con la configurazione del processo tributario, essenzial-mente documentale

83, oltre che con le esigenze di celerità del rito, non senza rimarcare, in materia, la scarsa conducibilità del mezzo per l’elevato ed evi-dente rischio che i possibili testimoni (in quanto essi stessi contribuenti) ren-dano dichiarazioni non attendibili. Innumerevoli le critiche della dottrina e le eccezioni di costituzionalità sollevate, in atto dichiarate infondate od inam-missibili, in ossequio al criterio di ragionevolezza ed alla discrezionalità del le-gislatore nella scelta delle regole processuali in funzione delle caratteristiche di ciascun processo

84: in merito la Consulta ha più volte affermato l’inesisten-za di «un principio (costituzionalmente rilevante) di necessaria uniformità di regole processuali tra i diversi tipi di processo». Il divieto di testimonianza nel rito tributario è stato introdotto nel 1981

85: in precedenza dottrina e giuri-sprudenza erano inclini a ritenere l’ammissibilità del mezzo (con le dovute cautele per l’eventualità di deposizioni di comodo ed i ritardi derivanti dal-l’espletamento)

86, per l’assenza di previsione normativa contraria e in vista del rinvio alle norme processuali civili che lo ammettevano (ed ammetto-no)

87. Tale vigente divieto rappresenta evidente segno di arretramento giu-ridico e di contrasto con i principi fondamentali

88 del giusto processo (art.

82 La Suprema Corte – 15 gennaio 2007, n. 703. – occupandosi di c.d. autocertificazioni, ha ribadito l’operatività del divieto di giuramento, rilevando nello specifico che «l’attribuzione di efficacia probatoria alla dichiarazione sostitutiva di notorietà trova ostacolo invalicabile nella previsione dell’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992, giacché finirebbe per introdurre nel pro-cesso tributario – eludendo il divieto di giuramento sancito dalla richiamata disposizione – un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato ma anche costituito fuori dal processo».

83 In tal senso Corte cost., ord. 23 aprile 1998, n. 141. 84 Corte cost., ord. nn. 506/1987, 328/1992, 237/2000, 18/2000. 85 Il D.P.R. 3 novembre 1981, n. 739 modificò l’art. 35, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636,

introducendo il divieto di prova testimoniale nel processo tributario. 86 MAFFEZZONI, La prova nel processo tributario, in Boll. trib., n. 23, 1977, p. 1697 ss.; AL-

LORIO, op. cit., p. 373; LAMBERT, L’istruzione probatoria nel processo tributario, in Boll. trib., n. 20, 1975, pp. 1485-1493.

87 Per tutti, in dottrina, TESAURO, Sulla esclusione della testimonianza nel processo tributa-rio, in Il Fisco, n. 40, 2002, p. 23 ss.

88 Sul punto cfr. LUPI, L’onere della prova nella dialettica del giudizio di fatto, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, Padova, 1994, p. 281 ss. Cfr. MULEO, Dirit-to alla prova, principio del contraddittorio e divieto di prova testimoniale in un contesto di verifi-cazione: analisi critica e possibili rimedi processuali, in Rass. trib., n. 6, 2002, p. 1989. MARCHE-SELLI, Diritto alla prova e parità delle armi nel processo tributario, in Dir. pratic. trib., 2003; ID., Asimmetrie nel diritto alla prova tra fisco e contribuente e diritto di difesa, in Giust. trib., 2007, ID., Riforma del diritto civile, testimonianza scritta e giusto processo, 2010.

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111 Cost.) 89, della capacità contributiva (art. 53, comma 1, Cost., se da esso

derivi un’imposizione basata su presupposti fittizi) 90, e del diritto di difesa

(art. 24 Cost.) 91. L’esclusione della prova testimoniale non involge, per co-

stante giurisprudenza, l’utilizzo, che resta possibile, delle dichiarazioni dei ter-zi, riprodotte nei processi verbali della G. di F. o dell’Amministrazione Finan-ziaria, pur se non rese in contraddittorio con il contribuente: esse, quindi tro-vano (indiretto) ingresso nel rito, invero asimmetricamente, sempre a sostegno della pretesa tributaria, se pur con mero rilievo indiziario come statuito recen-temente dalla Suprema Corte

92, potendo costituire mera fonte presuntiva, con-corrente al convincimento del giudice, sì da dover «essere necessariamente supportate da riscontri oggettivi». Alla luce di quanto precede, la dottrina si è interrogata sull’opportunità, nel quadro di un processo tributario realmente equo ed efficiente, di ripensare le prove testimoniali (con giuramento) in edi-zione “riveduta e corretta”: la soppressione di tali mezzi, in passato connessa ad esigenze di snellezza del rito e alla scarsa tecnica giuridica dei giudici dell’e-poca, non trova giustificazione nell’attuale situazione, nella quale i giudici tribu-tari conoscono il diritto ed emettono sentenze. Un giuramento, pur se con le caratteristiche del vecchio rito (inutilizzabilità nelle questioni di scarsa rile-vanza, deferibilità solo su fatti specifici e rilevanti ai fini dell’imposizione, inammissibilità in ordine a fatti illeciti o questioni estimative), potrebbe, dun-que, essere reintrodotto. Spunti di riflessione, in merito, è dato cogliere anche dall’orientamento espresso dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella Decisione n. 73053/2006 sul caso Jussilia c. Finlandia: la Corte ha osservato che «l’assenza di pubblica udienza o il divieto di prova testimoniale nel pro-cesso tributario sono compatibili con il principio del giusto processo solo se

89 Cfr. TURCHI, Considerazioni in merito all’unificazione della giurisdizione in materia tribu-taria, in Riv. dir. trib., 2002, I, p. 518.

90 In termini, MOSCHETTI, Profili costituzionali del nuovo processo tributario, in Riv. dir. trib., n. 9, 1994, p. 837 ss.

91 Cfr. BATTISTONI FERRARA, Processo tributario, riflessioni sulla prova, in Dir. prat. trib., 1983, I, p. 1628 ss.; SCHIAVOLIN, L’inammissibilità della testimonianza e l’utilizzazione della scienza dei terzi nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 1989, I, p. 550; MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio, cit., p. 345 ss., individua quali contrappesi del diritto alla prova, necessari per consentire all’esplicazione del diritto di difesa, sia il contraddittorio sia l’obbli-go di motivazione. Nel confronto, inoltre, tra procedimento penale e tributario, conclude per l’equiparabilità dei due sistemi e, di conseguenza, per la necessaria operatività, anche in am-bito tributario, del principio del contraddittorio.

92 In giurisprudenza, Cass., sez. V, sent. 8 aprile 2015, n. 6946, in CED Cassazione, n. 635271; Cass., 27 febbraio 2015, n. 4123.

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Renato Rolli 779

da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano probatorio, non altrimenti rimediabile». Appare, quin-di, indiscutibile (de iure condendo) che l’eliminazione del divieto di prova te-stimoniale, nel solco di una riforma delle regole processuali mirata anche all’in-troduzione di una fase istruttoria monocratica, costituirebbe sicuro “apporto di civiltà giuridica”

93. Con riferimento al processo amministrativo, invece, si regi-stra che avendo il D.Lgs. n. 104/2010 previsto l’utilizzabilità dei mezzi di pro-va di cui al codice del rito civile

94, con la sola esclusione del giuramento e del-l’interrogatorio formale, la tutela processuale si dimensiona, sempre più, su quel-la sostanziale

95.

6. Conclusioni: assonanze, conquiste ed auspici

L’effettività della tutela giurisdizionale costituisce, in generale, la capacità del processo amministrativo e tributario di conseguire risultati nella sfera so-stanziale di garantire la soddisfazione dell’interesse sostanziale dedotto in giu-dizio dal ricorrente

96, mediante il rispetto delle garanzie del giusto processo. Per quanto concerne il processo amministrativo, l’art. 44 della legge delega n. 69/2009 ha delineato tra i principi e i criteri direttivi quelli di «assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela»

97. I principi in parola non

93 Così LAMBERTI, La prova testimoniale nel giudizio tributario in GT-Riv. giur. trib., n. 5, 2005. Si veda, inoltre, P. RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2013, p. 156 ss. e ID., Il divieto di prova testimoniale nel processo tributario: un residuato storico che resiste all’usura del tempo, in Rass. trib., 2000, p. 567 ss.; MULEO, Diritto alla prova, princi-pio del contraddittorio, cit., pp. 1989 ss. e 2001.

94 Emblematico, in questo senso, è l’art. 63 c.p.a., che esclude solo il giuramento e l’in-terrogatorio formale.

95 ... a suggello del lungo percorso evolutivo l’attuale normativa ha, dunque, eretto a pro-prio principio cardine la “strumentalità” del processo rispetto ai beni della vita, ed a tale princi-pio ha improntato anche la disciplina dei mezzi istruttori, sempre più garantendo al cittadino ciò che ha diritto a conseguire alla stregua del diritto sostanziale.

96 CAPONIGRO, Il principio di effettività della tutela nel codice del processo amministrativo, in Foro amm.-Cons. Stato, 2011, p. 1727, con particolare riferimento al tema delle azioni intro-dotte dal codice. Sulle diverse accezioni in cui la locuzione «effettività della tutela giurisdi-zionale» è stata impiegata nell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale si veda TARULLO, Il giusto processo amministrativo, cit., p. 43 ss., e ID., (voce) Giusto processo, cit., 377 ss.

97 In realtà, il principio dell’effettività della tutela era già desumibile dall’enunciato conte-nuto nel comma 1, art. 24 Cost. ed è espressamente statuito da fonti sovranazionali come gli artt. 6 e 13 della Convenzione di Roma ed è affermato nell’art. 47, comma 1, della Carta di

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 780

si limitano a fungere da mere enunciazioni sprovviste di portata applicativa bensì si elevano, di contro, a chiave di lettura dell’intero sistema

98, procuran-do criteri integrativi per l’interpretazione delle singole previsioni codicisti-che

99. Il criterio guida del giusto processo è definitivamente codificato 100 e

costituisce dunque il principio cui deve improntarsi l’interpretazione delle previsioni del codice

101. La disciplina originaria dell’istruttoria era innegabil-mente lacunosa e i mezzi di prova erano limitati e sostanzialmente inadeguati per assicurare un soddisfacente accertamento del fatto; si sono susseguite tut-tavia rilevanti rivoluzioni

102 del processo amministrativo e tributario della sua Nizza (cfr. BELLAVISTA, Giusto processo come garanzia del giusto procedimento, in Dir. proc. amm., 2011, p. 608, e GALLO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza dei giudici amministrativi italiani, in Dir. amm., 1996, p. 499 ss.)

98 In realtà, il testo originariamente prospettato dalla Commissione istituita presso il Consi-glio di Stato per la redazione del codice prevedeva una segmentazione maggiormente accura-ta dei principi volti a delineare pienamente quello amministrativo quale processo “giusto”; giu-stappunto, nella norma concernente il giusto processo vi era un espresso riferimento alle re-gole del “pieno accesso agli atti” e alla “piena conoscenza dei fatti”. Cfr. PAJNO, Il Codice del pro-cesso amministrativo ed il superamento del sistema della giustizia amministrativa. Una introdu-zione al libro I, in Dir. proc. amm., 2011, p. 129.

99 In tal senso, tra gli altri, CHIEPPA, op. cit., p. 45. 100 Come noto il Governo, nella sua ultima lettura e sulla base di generiche direttive di

contenimento della spesa pubblica, ha posto in essere molteplici modifiche al testo proposto dalla Commissione e, nel Libro I, ha condensato alcuni dei principi conseguenti alla disag-gregazione del principio generale del giusto processo: un testo tecnicamente non molto ele-gante poiché annovera una norma fondamentale (il principio del giusto processo) dopo norme che del principio del giusto processo costituiscono conseguenza (parità delle parti e con-traddittorio). Cfr MERUSI, Il Codice del giusto processo amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 8-9, 2011. In particolare, l’art. 2 del codice (rubricato “Giusto processo”) stabilisce che «il pro-cesso amministrativo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall’articolo 111, primo comma, della Costituzione».

101 Per “giusto processo amministrativo”, con particolare riferimento alla materia istrutto-ria, s’intende un sistema che consenta la concretizzazione di un’eguaglianza sostanziale delle parti in primo luogo mediante un più immediato e diretto accesso al fatto da parte del giudi-ce e che preveda a tale scopo l’esperibilità dei relativi mezzi di prova, cioè la possibilità di av-valersi – in condizione di parità nel processo – di tutti gli strumenti probatori previsti dall’or-dinamento a protezione delle posizioni soggettive.

102 Nel dettaglio, già la L. n. 205/2000 ha sancito una importante fase nel percorso deli-neato dal “Legislatore del giusto processo”, introducendo nella giurisdizione esclusiva i mez-zi di prova stabiliti nel codice di procedura civile, eccezion fatta per le prove c.d. legali dell’in-terrogatorio e del giuramento (art. 7, L. n. 205/2000), comprendendo tuttavia la consulenza tecnica, mezzo istruttorio instaurato anche nella giurisdizione generale di legittimità ai sensi dell’art. 16 della medesima legge. Con il codice si è giunti ad un’ulteriore formulazione della disciplina dell’istruttoria probatoria, sebbene molti argomenti siano rimasti sullo sfondo, quale ad esempio, l’individuazione dei principi generali dell’istruttoria stessa. Così gli studiosi sono

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Renato Rolli 781

fase istruttoria. È innegabile infatti che l’estensione dei mezzi di prova possa contribuire al pieno accesso al fatto da parte del giudice amministrativo e per-tanto ad un processo più giusto, inteso quale capacità di penetrazione effettiva del sindacato del giudice sulla realtà di fatto

103: del resto, il contrasto della tradizionale disciplina del processo amministrativo rispetto al principio costi-tuzionale del giusto processo, vale a dire quale diritto alla prova dei fatti, era apparso palese

104. Così, la realizzazione dell’effettività della tutela del cittadi-no, e del contribuente, nei riguardi del potere pubblico non è frutto solo degli strumenti normativi, sostanziali e processuali, bensì anche della “cultura” del ceto giuridico che questi strumenti si trova ad interpretare e applicare

105. E la finalità di garantire un processo giusto rappresenta un elemento fondamenta-le nell’attuale contingenza, nella quale la giurisdizione amministrativa e tribu-taria hanno ormai vestito una rilevanza determinante

106 nell’ordinamento giu- chiamati ad un’attività interpretativa per l’applicazione delle norme codicistiche, poiché il codice costituisce sì un punto d’arrivo delle elaborazioni degli ultimi decenni, ma rappresen-ta soprattutto un punto di partenza per l’evoluzione successiva.

103 Sul punto DALFINO, Disposizioni di rinvio e principî generali, in Foro it., 2010, V, c. 232, secondo cui è «espressione del principio di effettività la possibilità di far ricorso a (quasi) tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile (resta ancora fermo il divieto di giura-mento e interrogatorio formale)».

104 Tuttavia, anche in riferimento alla nuova categoria di mezzi di prova, non possono non sottolinearsi, ancora, alcune lacune e contraddizioni che contraddistinguono il Titolo III del Libro II del codice. Si pensi innanzitutto, all’art. 63, comma 4, del codice che condiziona l’espe-ribilità della consulenza tecnica ad un giudizio di stretta necessarietà. Una statuizione che potrebbe portare ad un arretramento della CTU rispetto ad altri mezzi istruttori, da esperirsi solo in caso di stretta indispensabilità e, in quanto tale, appare non in linea con l’odierno progresso del processo amministrativo.

105 Cfr. ZITO, Tendenze della giustizia amministrativa negli anni Novanta e prospettive di ri-forma, in Jus, 1997, p. 237 ss., secondo cui l’effettività della tutela del privato nei confronti della Pubblica Amministrazione non è «tanto questione di scelta tra giudice ordinario o ammini-strativo (...) quanto piuttosto sia questione di strumenti che l’ordinamento mette a disposizio-ne del giudice sul piano sostanziale e processuale ed anche questione di adeguatezza dei model-li culturali sulla cui base viene interpretato il rapporto tra P.A. e privati e conseguentemente le stesse norme che questo rapporto disciplinano».

106 Ad essa è difatti attribuita la cognizione delle controversie riguardanti i nuovi diritti civili e sociali, le privatizzazioni e le liberalizzazioni, le grandi infrastrutture, l’organizzazione dei servizi e la qualità delle prestazioni, le attività di regolazione e i provvedimenti delle autorità indipendenti. V. RAGANELLI, Efficacia della giustizia amministrativa e pienezza della tutela, To-rino, 2012, p. 2, la quale aggiunge che «come giudice naturale dell’interesse pubblico nell’e-conomia il giudice amministrativo interviene in settori che vanno dall’energia ai trasporti, dalle comunicazioni alle infrastrutture, in uno scenario sempre più aperto alle regole della concor-renza». In riferimento all’odierno ruolo del giudice amministrativo che «deve assicurare una

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 782

ridico e nelle dinamiche di mercato. Considerando anche l’impatto economi-co e sociale delle decisioni, le modalità e i tempi del giudizio sono divenuti elementi propulsivi dei cambiamenti, quale fattore di sviluppo e di competiti-vità, di crescita e di modernizzazione del Paese

107. In tale prospettiva, tuttavia, la sussistenza di un processo (amministrativo e tributario) sempre più parita-rio, osservato nell’ottica del pieno accesso al fatto e agli atti

108, di una tutela giurisdizionale piena e non inferiore a quella dei diritti, concreta la possibilità per le parti di dimostrare la fondatezza delle loro pretese. Tutto questo in un ambito di regole certe in materia di istruzione probatoria e nel dettaglio nella distribuzione dei relativi oneri

109, costituiscono traguardi ambiziosi (ma ine-ludibili) che faticano ancora, sia da parte del legislatore che da parte della giu-risprudenza, a concretizzarsi appieno

110. Tali faticose conquiste, in parte conseguite (già) nel processo amministra-

tivo 111, da un lato, accolgono le concezioni ed i moniti di autorevole dottrina

in ordine alla natura dei due processi ritenuti, a ben vedere, fortemente acco-munati

112; per un altro possono costituire valido spunto di riflessione e possi-bili criteri guida rivolti al legislatore per un ripensamento sistematico ed una accurata rimodulazione del processo tributario, nel solco dell’antica sapienza che erige il giorno precedente a maestro del successivo.

tutela certa, rapida ed effettiva, contribuendo così a garantire anche la competitività del Paese» si veda GAROFOLI, La giustizia amministrativa: la strada già percorsa e gli ulteriori traguardi da raggiungere, in www.giustamm.it.

107 Cfr. DE LISE, Audizione sulla riforma della giustizia, Commissioni riunite I e II della Ca-mera dei Deputati, esame del disegno di legge costituzionale del Governo C. 4275 Riforma del tito-lo IV della parte II della Costituzione, Roma, 27 maggio 2011, www.camera.it.

108 Già TABET, op. cit., p. 628. 109 Sul punto TRAVI, Considerazioni sul recente codice del processo amministrativo, in Dir.

pubbl., 2010, pp. 606-607, il «diritto processuale esige regole chiare e predeterminate, anche quando sia ‘amministrativo’: un ‘giusto’ processo tendenzialmente non dovrebbe ammettere mai norme incerte, o addirittura cangianti nel corso del suo svolgimento».

110 Risulta ancora attuale e calzante la considerazione secondo cui «per scarsa lungimi-ranza legislativa, per eccessiva determinazione giurisprudenziale, e forse anche per inadegua-to interesse dottrinale, il nostro è ancora un sistema di giustizia amministrativa che aspetta di essere perfezionato e valorizzato». (POLICE, La piena giurisdizione del giudice amministrativo, in PICOZZA (a cura di), Processo amministrativo e diritto comunitario, Padova, 2003, p. 137).

111 Parla di «forza dominante del modello del processo amministrativo» TABET, op. cit., p. 628.

112 Ci si riferisce ancora TABET, op. cit., pp. 625-626.

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David H. Rosenbloom-Peter A. Barnes

LA RIFORMA STATUNITENSE DELL’IMPOSTA SULLE SOCIETÀ – E WALLACE STEVENS

U.S. CORPORATE TAX REFORM – AND WALLACE STEVENS

Abstract Nel presente scritto, gli Autori effettuano una sintetica ed originale analisi delle principali caratteristiche della Destination Based Cash Flow Tax (“DBCFT”), la quale è una nuova forma di prelievo che gli Stati Uniti stanno valutando di introdurre in sostituzione dell’imposta sulle società. Parole chiave: Stati Uniti, Destination Based Cash Flow Tax, imposta sulle società, importazioni ed esportazioni, consumatori In the present paper, the Authors give a synthetic and original analysis of the main fea-tures of the Destination Based Cash Flow Tax (“DBCFT”), which is the new levy that the United States are evaluating as a replacement for the corporate income tax. Keywords: United States, Destination Based Cash Flow Tax, corporate income tax, imports and exports, consumers

There are, it seems, thirteen ways of looking at a blackbird 1, and doubtless

just as many perspectives on the Destination Based Cash Flow Tax (“DBCFT”), the spanking new levy that House Republicans have advanced as a replacement for the corporate income tax. We undertake here to identify those perspectives, and thereby to portray the richness of this proposal. Much of the commentary to date on the DBCFT has honed in on specific features, whether favorably or

* Contributo non soggetto a revisione esterna. 1 W. STEVENS, The Collected Poems of Wallace Stevens, New York, 1990 (1st ed. 1954),

p. 92 ss.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 784

unfavorably. But as the great poet mused while strolling in a Connecticut forest, examining the bird’s discrete features may not do justice to its complexity.

The DBCFT is not simply another corporate income tax proposal. Let’s hold it up to the light and consider it from all sides.

ONE. Begin with a general view from on high. According to its champions, the destination feature furnishes a “pay for” that allows the rate of tax on cor-porations to be dropped from 35 to 20 percent. Revenue estimates show the proposal will raise approximately $1 trillion over 10 years, by denying a tax de-duction for purchases of goods and services from suppliers outside the United States. This tax cost will largely be passed on to consumers, or at least that is the expectation (and the stock market certainly assumes that corporations will not bear the additional tax). In the previous major tax reform effort in the United States, the Tax Reform Act of 1986, increased taxes on corporations were used to fund tax cuts for individuals. This time, individuals will be fund-ing tax cuts for corporations. Without the destination feature, the rate cut would lose boatloads of revenue, an observation that clears the mind. It may not, however, be the best means of generating public support for the DBCFT.

TWO. On a more technical level, there is the treatment of imports, the cost of which would not be deductible under the proposal. Apart from the obvious question how this will impact distributors and consumers of imported goods and services, it is fair to ask how direct purchases from abroad will be handled, since consumers (and exempt organizations) do not care about deductions. Presumably some intermediary – hello, American Express! – will be mandated to collect the tax when a cross-border payment is made. The requisite rules will not be either simple or readily enforceable, since present practices distin-guish between foreign currency and U.S. dollar payments, but not necessarily between domestic and foreign suppliers. And our failure to enact laws that re-quire “remote sellers” located within the United States to collect state sales ta-xes from jurisdictions where the seller does not have a physical presence does not bode well for forcing collections with respect to sellers outside the United States.

THREE. We are told that exchange rates will adjust, the dollar will streng-then, and consumers will acquire more for their money. There are, of course, many questions about when this strengthening will occur, how rapidly, and whether it will be uniform or nearly uniform with respect to all foreign cur-rencies. Some key currencies (e.g., the Chinese yuan, the Indian rupee) do not float freely. There is a fair amount of skepticism out there, especially among people who deal with exchange rates on a daily basis. Any failure of exchange rates to adjust – fully and instantly – will significantly impact US distributors

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David H. Rosenbloom-Peter A. Barnes 785

and consumers. And as discussed further below, any “successful” exchange ra-te adjustment will come with significant collateral implications.

FOUR. The destination feature rewards exports, in the form of a tax exemp-tion for revenues from foreign purchasers. Some proponents of the DBCFT base their support on a presumed renaissance in US production, to take ad-vantage of this export incentive. A strengthening dollar, however, cannot pos-sibly be good for exports; to remain competitive in foreign markets, US pro-ducers will need to cut prices dramatically. Moreover, foreign purchasers are apt to insist that some or all of the tax benefit for exports be handed to them in the form of price reductions. Further slowing any US renaissance will be the strong forces in foreign countries that preclude a major shift of production from those countries to the United States. Countries increasingly insist on lo-cal production by manufacturers that want to access local markets, particular-ly for purchases by governments. The effects, net net, on exports are not so clear as supporters of the destination feature assume and assert. One final cau-tion: the economists who designed the DBCFT are very clear that the proposal, by itself, should not increase exports (or, for that matter, decrease imports).

One further point. Under the destination feature, significant exporters will incur regular ongoing structural losses, because their expenses, to the extent they are not for the purchase of imports, are deductible under the proposal. To make the DBCFT work, tax refunds would need to be paid to the exporters for the value of these export-induced losses. Quite apart from the somewhat startling prospect of the government writing large refund checks to multina-tional companies while consumers scramble to deal with rising prices for gua-camole and gasoline, there is a question of how to administer the law. Refunds with respect to exports would require that export transactions be segregated and related expenses identified. This would harken back to present Treasury Regulation 1.861-8 and the allocation of expenses to foreign income for pur-poses of the foreign tax credit.

FIVE. There is also the question of how to distinguish exports from imports, especially with respect to intangible property and services. The distinction seems relatively clear in the case of manufactured products, for which the DBCFT was surely designed. It has a tendency to break down, however, when technology or services are at issue. Take, for instance, cloud-based computing, in which farms of computer servers are located in five or more different coun-tries (including the US) and data and functions are constantly shifted from ser-ver farm to server farm. Or take a US attorney’s advice to a foreign company contemplating a US investment. What is exported? What is imported? Detailed rules will be needed to police the all important line. And the stakes are far hi-

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gher than usual, because imports are not tax deductible while revenues from exports are exempt.

SIX. The destination feature will have especially tumultuous effects on truly global markets. Take, for example, petroleum and petroleum products. If exports are exempt and imports not deductible, what’s a domestic producer to do? Will the producer sell to domestic refiners in fully taxable transactions, or will it seek out foreign markets, possibly creating a two-tiered pricing struc-ture in which U.S. refiners, and of course U.S. consumers, pay full and much higher prices regardless of where the product is obtained? This could be disrup-tive. The market for crude oil tends to be about more than crude oil, since this is a product with a considerable economic and political reach. If exemption is provided for the oil markets, however, the demand for exemption for other glo-bal products (corn? computer chips? cars?) cannot be far behind.

SEVEN. Turning back to exchange rates, there are going to be substantial effects on worldwide investment and borrowing if the U.S. dollar strengthens to the extent some have predicted – a 25 percent strengthening, based on a 20 percent corporate tax rate – following adoption of the DBCFT. Foreign in-vestments by Americans, if denominated in foreign currency, will lose value, while the converse effect will apply to the U.S. dollar investments of foreig-ners. Every foreign mutual fund held by a US individual in his or her IRA will decline substantially in value. Debt denominated in dollars, as much of the debt in the developing world is denominated, will become more expensive. Pressu-res on countries will rise. Some might begin to look like Greece.

EIGHT. One of the benefits claimed for the destination feature is the remo-val of incentives to play transfer pricing games. This claim reveals the U.S.-cen-tric origins of the DBCFT proposal. Yes, U.S. companies will have no incentive to underprice exports or overpay for imports, but that hardly means that tran-sfer pricing issues will vanish. The incentives will simply be reversed. U.S. com-panies will want to be overpaid for exports and to underpay for imports, since related counterparties in foreign countries will in many cases be taxable and there will be a desire to reduce the tax burden abroad. Indeed, if the DBCFT passes foreign tax authorities will assume that every US multinational company is playing games with transfer pricing to achieve these tax savings.

NINE. So transfer pricing disputes will continue. Where will these disputes be discussed? And will the United States need to retain its transfer pricing rules if only to come to the defense of U.S. companies? The Mutual Agreement Pro-cedure in U.S. tax treaties applies to taxes that are covered by the treaties. Once the United States replaces the corporate income tax with the DBCFT, will trea-ty coverage continue? Faced with similar questions in the past regarding the

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Italian IRAP and later the Mexican IETU, the United States found those VAT-like taxes not to be covered by the respective treaties. Patches were worked out, permanent in the case of Italy and temporary in the case of Mexico. It is, to put it mildly, unclear whether other countries will be so accommodating and continue to employ the dispute resolution mechanisms in US tax treaties when faced with a new U.S. tax intended to shift production and employment away from them and to the United States.

TEN. For that matter, what about retaliation more generally? If the United States adopts the DBCFT, other countries are not likely to sit on their hands. One can imagine a range of potential retaliatory moves, including carbon co-pies of the DBCFT, tariffs, and exchange rate manipulation. The process is li-kely to be contentious and its outcome uncertain. US multinational companies routinely conduct business in more than 100 foreign countries, so responding to each country’s retaliatory measures will demand time and resources from the US government and from each major multinational. The prospect of a tra-de war looms. How can that be in anyone’s interest, including the exporters?

ELEVEN. Then there is the World Trade Organization. One might have thought the United States learned its export promotion lesson in the 1970s with the Domestic International Sales Corporation and its progeny. The U.S. fought the good fight in the WTO for many years and ultimately lost. Income tax provisions cannot legitimately be used, consistent with WTO rules, to pro-mote exports. There is a sharp, WTO approved, distinction between export promotion using refunds of a consumption tax like a VAT and export promo-tion in the direct tax world using an income tax.

The DBCFT is not a VAT, and does not appear to be any other form of consumption tax either. The proof in that pudding is that the DBCFT is not payable if a company shows a loss. A VAT is a multi-stage sales tax. It is due and payable on sales regardless of whether the seller is making a profit. So it would appear that the DBCFT has challenging prospects in a WTO litigation. Yes, there are thoughtful US commentators who have fashioned arguments for why the DBCFT should be WTO-compliant. But those arguments twist around like a pretzel. Do we really need, as a country, to put our hand repeatedly on the same hot stove – and face a dozen years of WTO litigation?

TWELVE. The DBCFT would create havoc for the 44 states that impose a state-level corporate income tax. Most of these taxes piggyback on the federal definition of income, and then provide adjustments. If the DBCFT is enacted, the federal definition of income would exclude income from exports – goods and services provided to consumers outside the United States, not consumers outside a particular state. Would states want to adopt that definition? Would

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states be inclined to enact their own (and often varying) definitions of income? These questions further complicate the transition to the DBCFT.

THIRTEEN. One of the claims for the DBCFT is ease of administration. Yet it does not sound as though the DBCFT is going to be all that easy to ad-minister. The need to distinguish exports from imports, the policing of direct sales to consumers from outside the United States, the management of export related refunds – all these issues pose challenges of a new and different order. The task of revamping the Internal Revenue Service to deal with the issues and the various restructuring possibilities that the DBCFT invites are daunting.

So there we have it: the “pay for” question; imports; exports; exchange rate movements; distinguishing exports from imports; global markets; collateral ef-fects of exchange rate movements; transfer pricing; uncertainty about the ap-plication of treaties; potential retaliation; the WTO; state tax implications; tax administration. As with Wallace Stevens and his blackbird, each time we look at the DBCFT there are new features that catch the eye.

Despite the many complexities of the proposal, kudos are due to House Ways and Means Chairman Kevin Brady and House Speaker Paul Ryan for zea-lous promotion of the DBCFT and especially the destination feature. There are definitely positive aspects to the proposal, and an undeniable elegance to its construction. Moreover, it is good and healthy for tax professionals to have so-mething to talk about besides the boring old corporate income tax. So lead on, Republicans. Wherever we go with the destination feature, it has given us as much to ponder.

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Alessandro Tropea

I PROFILI GIURIDICI DELL’ADEMPIMENTO COLLABORATIVO

LEGAL ASPECTS OF THE COOPERATIVE COMPLIANCE REGIME

Abstract L’adempimento collaborativo introduce peculiari aspetti di novità nel diritto tributa-rio. Infatti, per la prima volta, tramite questo istituto, viene compiutamente codifica-ta nell’ordinamento una disciplina sul diritto di partecipazione del contribuente (di “grandi dimensioni”) all’attività di controllo condotta dall’Amministrazione Finan-ziaria. Precisamente, con l’adempimento collaborativo viene individuato un momen-to procedimentale idoneo a consentire il confronto delle diverse posizioni assunte dalle parti del rapporto d’imposta, prima che l’eventuale divergenza divenga definiti-va e prima che venga suggellata in un atto impositivo. Dunque, la vera novità rispetto al passato è che l’adesione al nuovo regime consente, da una parte, al contribuente di tutelare i propri diritti in sede procedimentale e, dall’altra parte, al fisco di dare piena attuazione al principio di collaborazione col soggetto passivo d’imposta. Parole chiave: cooperative compliance, buona amministrazione, giusto procedimen-to tributario, certezza ed immodificabilità del prelievo impositivo, contraddittorio in materia tributaria The cooperative compliance introduces peculiar aspects of novelty in tax law. In fact, for the first time, through this institute, a discipline of the right to an active participation of taxpayer (of “large dimensions”) during tax investigations is introduced into the tax sy-stem. More precisely, with the cooperative compliance the lawmaker identifies the pro-cedural moment suitable to allow a dialogue of the different parties involved in the tax obligation, before their divergences become definitive. Therefore, the real innovation is that entering in this new regime, on the one hand, allows the taxpayer to protect its rights during administrative proceedings and, on the other, allows the tax authorities to fully implement the principle of collaboration with taxpayer. Keywords: cooperative compliance, good administration, due process of tax law, cer-tainty and definitiveness of tax laims, audi alteram partem principle in tax matters

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SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La cooperative compliance. Quadro normativo di riferimento. – 3. L’iniziativa e la partecipazione del contribuente all’attività istruttoria dell’Agenzia delle Entrate. – 4. Le “interlo-cuzioni costanti e preventive” tra Agenzia delle Entrate e imprese di grandi dimensioni. – 5. For-malizzazione delle posizioni assunte dalle parti. La natura del c.d. “accordo di adempimento col-laborativo”. – 6. Profili critici del modello. – 7. Notazioni conclusive.

1. Premessa

Come negli altri ordinamenti dei Paesi OCSE, anche in Italia è stato defi-nitivamente introdotto il regime dell’adempimento collaborativo

1. L’art. 6, legge di delega fiscale 11 marzo 2014, n. 23 e il Titolo III del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che ne è conseguito, hanno attuato nell’ordinamento una nuova forma di rapporto tributario tra autorità fiscale e contribuenti di grandi di-mensioni

2.

1 Per le prime osservazioni dottrinali sul regime italiano dell’adempimento collaborativo, cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, Torino, 2017, p. 172 ss.; MELIS, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2017, p. 265; CIARCIA, La cooperazione fra contribuente ed amministrazione finanziaria. La prospettiva italiana, in AMATUCCI-ALFANO (a cura di), Ordi-namenti tributari a confronto. Problematiche comuni e aspetti procedimentali, Torino, 2017, p. 189 ss.; ESPOSITO, Il sistema amministrativo tributario italiano, Milano, 2017, p. 254; PISTO-LESI, Le regole procedimentali nel provvedimento di attuazione dell’adempimento collaborativo, in Corr. trib., 2017, p. 2412; VERSIGLIONI, Cooperative compliance, Equivalent Dispute Resolu-tion (EDR) and Administrative Tax Agreements (A.T.A.). Contributo allo studio delle disposi-zioni giuridiche a funzionalità dipendente, in Innovazione e Diritto, 2017, p. 100; STRIANESE, Certezza del diritto e collaborazione volontaria nelle nuove relazioni tra fisco e contribuente, in AMATUCCI-CORDEIRO GUERRA (a cura di), L’evasione e l’elusione fiscale in ambito nazionale e internazionale, Roma, 2017, p. 715; SALANITRO, Profili giuridici dell’adempimento collaborativo tra tutela dell’affidamento e il risarcimento del danno, in Riv. dir. trib., 2016, I, p. 623; AMATUC-CI, L’autonomia procedimentale tributaria nazionale ed il rispetto del principio europeo del con-traddittorio, in Riv. trim. dir. trib., 2016, I, p. 257; CENTORE, Il rapporto tra contribuenti e Am-ministrazione finanziaria deve trovare un equilibrio, in Riv. guar. fin., 2016, p. 377; FALSITTA, La potestà di applicazione delle norme tributarie e la potestà di indirizzo, in FALSITTA (a cura di), Manuale di diritto tributario9, Parte generale, Padova, 2015, p. 344; GIOVANNINI, Crisi dei metodi di accertamento tributario e prospettive di riforma: introduzione, in Riv. trim. dir. trib., 2015, I, p. 623; LUPI-AZZOLINI-GARGIULO, La “cooperative compliane”: una legge manifesto in mezzo al gaudo, in Dialoghi trib., 2015, I, p. 401; MELILLO, Regime di adempimento collaborati-vo e monitoraggio del rischio fiscale: incentivi, semplificazioni e oneri, in Dir. prat. trib., 2015, I, p. 10963; GALLO, Brevi considerazioni sulla definizione di abuso del diritto e sul nuovo regime del c.d. adempimento collaborativo, in Dir. prat. trib., 2014, I, p. 10947; BASILAVECCHIA, L’evoluzione dei controlli: verso un accertamento “sostenibile”?, in Corr. trib., 2014, p. 2761.

2 Cfr. artt. 4, 5 e 6, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128.

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Questo istituto promuove sostanzialmente uno “scambio” tra contribuen-te e Amministrazione Finanziaria: da un lato, il soggetto passivo che aderisce al regime si impegna a garantire al fisco la “trasparenza” della propria attività aziendale e, dall’altro, l’autorità di controllo ricambia creando un contesto fi-scale di maggiore “certezza”, che, come si vedrà, per le fattispecie più comples-se, si traduce nella sottoscrizione di un accordo vincolante tra le parti

3. L’adempimento collaborativo non è preordinato al solo recupero dell’eva-

sione, ma è rivolto, in prospettiva, a realizzare un incremento delle basi impo-nibili dichiarate, tramite l’osservanza spontanea delle leggi fiscali da parte del contribuente. Incentivando l’adesione a tale regime, il legislatore intende con-seguire l’ulteriore effetto di ridurre progressivamente il contenzioso tributario su fattispecie giuridiche controverse, tipiche delle grandi imprese.

Comunque, l’istituto non introduce nell’ordinamento alcuna forma di co-amministrazione dell’obbligazione tributaria tra parte pubblica e parte priva-ta. Si tratta di una semplice cooperazione che le parti del rapporto d’imposta sono libere di instaurare. In quest’ottica di maggiore dialetticità, come avanti spiegato, il soggetto passivo è in grado di attenuare il profilo autoritativo del fisco, proprio perché ad egli viene riconosciuto un ruolo centrale nella dinamica di elaborazione delle scelte amministrative.

Dunque, il presente contributo osserverà l’adempimento collaborativo per i suoi peculiari aspetti di novità introdotti nell’ambito del diritto tributario. Per la prima volta, infatti, viene compiutamente codificata nell’ordinamento una disciplina della partecipazione del contribuente all’attività di controllo con-dotta dall’Amministrazione Finanziaria

4. Difatti, con tale regime viene indivi-duato un momento procedimentale idoneo a consentire il confronto delle di-verse posizioni assunte dalle parti del rapporto d’imposta, prima che l’even-tuale divergenza divenga definitiva e venga suggellata in un atto impositivo.

3 Sul punto, AMATUCCI, op. cit., p. 257, analizzando il procedimento di ammissione al re-gime di adempimento collaborativo, si sofferma sul concetto di «interlocuzione costante» ri-tenendolo un momento procedurale indispensabile per consentire alle parti del rapporto tri-butario l’avvio del dialogo entro un contesto procedimentale di certezza.

4 Il legislatore traccia una vera discontinuità con l’orientamento passato, che limitava il con-tribuente dal prendere parte ai procedimenti di controllo condotti dall’Amministrazione Fi-nanziaria, in conformità a quanto sancito dall’art. 13, comma 2, L. 7 agosto 1990, n. 241. Per una compiuta analisi in tema di restrizione del diritto di partecipazione del contribuente dal-l’attività amministrativa condotta dall’autorità fiscale, per tutti, diffusamente, ZITO-TINELLI, L’ambito di applicazione delle norme sulla partecipazione, in SANDULLI (a cura di), Codice dell’a-zione amministrativa, Milano, 2017, p. 681 ss.; SALVINI, La partecipazione del privato all’accer-tamento, Padova, 1990, p. 156 ss.

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Per cui, verrà analizzato come la partecipazione del contribuente al procedi-mento di controllo fiscale non viene in rilievo solo in funzione di tutela dei di-ritti, ma anche in funzione di collaborazione a favore della parte pubblica.

2. La cooperative compliance. Quadro normativo di riferimento

L’adempimento collaborativo, comunemente noto in ambito internazionale come cooperative compliance, è un regime previsto dagli ordinamenti tributari di quasi tutti i Paesi occidentali

5. Detta cooperazione si sostanzia in forme di collaborazione che l’autorità fiscale e i contribuenti intrattengono volonta-riamente, prima della trasmissione della dichiarazione fiscale. Ciò consente al contribuente di verificare in anticipo se ha esattamente interpretato la norma-tiva tributaria che intende applicare e, dunque, sollecitare l’Amministrazione Finanziaria ad esaminare e, se possibile, prevenire una contestazione sulla fat-tispecie di dubbia interpretazione.

In generale, come accennato, l’adempimento collaborativo, privilegiando la partecipazione attiva del contribuente e moderando l’azione repressiva del fisco, persegue due obiettivi principali: la riduzione dell’evasione fiscale e la diminuzione progressiva delle controversie tributarie.

È stata l’OCSE a dare un primo significativo impulso agli Stati nell’intro-durre strumenti di cooperazione tributaria rafforzata

6, mediante la pubblica-

5 Seguendo le indicazioni dell’OCSE, alcuni Paesi hanno istituito specifici regimi di coo-perative compliance tra contribuenti e autorità fiscali, finalizzati a ridurre l’evasione e le con-troversie tributarie. In particolare, tra i trentacinque Paesi membri OCSE, i più significativi modelli di cooperative compliance attualmente in vigore sono quelli adottati dal Sud Africa, me-diante l’introduzione nel 2004 del Taxpayers Engagement Strategy, dall’Irlanda e dai Paesi Bassi con l’introduzione del c.d. Horizontal Monitoring, dagli Stati Uniti d’America mediante la Com-pliance Assurance Program e, infine, dal Regno Unito con il sistema di Tax Compliance Program, quest’ultimi introdotti nel corso del 2005.

6 Cfr. OECD, Taxpayers rights and obligation. A survey of the legal situation in OECD coun-tries, 1990. Sostanzialmente, con tale rapporto era stato messo in evidenza come le autorità fiscali dei Paesi OCSE concentrassero l’attenzione sui contribuenti a maggiore capacità con-tributiva avvalendosi, però, di procedure di accertamento e di controllo normalmente riservate ai contribuenti di dimensioni contenute. Ciò, secondo l’OCSE, rappresentava un’evidente cri-ticità, atteso che le Amministrazioni fiscali nazionali non erano in grado di contrastare rigo-rosamente l’evasione fiscale strutturata, con conseguente pregiudizio dell’interesse fiscale dei singoli Stati. Per certi versi, inoltre, le contestazioni fiscali, non precedute dalla partecipazio-ne del contribuente alla fase istruttoria eseguita dall’autorità di controllo, avrebbero potuto compromettere la fiducia e la stabilità dei rapporti pubblici e privati coinvolti, con l’effetto di disincentivare gli investimenti privati e la crescita economica in detti paesi.

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zione del rapporto sui diritti e sugli obblighi dei contribuenti del 25 maggio 1990

7. Dopo una serie di interventi susseguitisi fino ai primi anni 2000

8, l’Orga-nizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha pubblicato nel 2013 le linee guida

9 per consentire agli Stati di implementare concretamente un modello di cooperazione fiscale tra le parti del rapporto d’imposta

10. Il suggerimento dell’OCSE può essere così sintetizzato: 1) le Amministra-

zioni Finanziarie dovrebbero impegnarsi a promuovere relazioni con i contri-buenti improntate ai principi di collaborazione, correttezza e trasparenza; 2) le autorità di controllo, al fine di garantire un contesto fiscale certo ed (il più possibile) immodificabile, dovrebbero collaborare con i contribuenti, soprat-tutto nei momenti antecedenti alle scadenze fiscali; 3) le determinazioni del-l’Amministrazione Finanziaria, emerse durante la fase di dialogo preventivo tra le parti, dovrebbero essere suggellate in accordi vincolanti, di modo che il contribuente, uniformandosi all’indirizzo amministrativo, maturi quel grado di affidamento verso l’autorità di controllo, necessario a realizzare un rappor-to collaborativo e duraturo nel tempo

11. Volgendo lo sguardo all’ordinamento tributario italiano, si rileva che, dal

primo intervento dell’OCSE del 1990 alla pubblicazione del decreto attuativo dell’adempimento collaborativo, sono trascorsi oltre venticinque anni. Difatti, solo con l’introduzione della legge di delega fiscale 11 marzo 2014, n. 23

12 e

7 Le medesime osservazioni sono state ribadite, ancora dall’OCSE, con il rapporto annua-le del 2008 (OECD, Annual Report 2008, Guidelines for Multinational Enterprises, 11 marzo 2009). Questo documento ha rimarcato la necessità di promuovere, negli ordinamenti tribu-tari dei vari Stati, l’instaurazione di rapporti di collaborazione tra grandi contribuenti e Am-ministrazioni Finanziarie, comunemente definiti enhanced relationship.

8 Dopo il 1990 e prima degli interventi del 2013, l’OCSE ha pubblicato vari studi in ma-teria di buona Amministrazione Finanziaria. Si rinvia al più significativo paper OECD, Prin-ciples of Good Tax Administrative, 25 giugno 1999.

9 Nel 2013, l’OCSE ha pubblicato il successivo rapporto denominato Cooperative Complian-ce: A Framework. From Enhanced Relationship to Cooperative Compliance, per mezzo del quale sono stati approfonditi i concetti di “relazione rafforzata” e di “adempimento collaborativo”.

10 Con riferimento ai temi dell’armonizzazione fiscale e europea, cfr. BORIA, Diritto tribu-tario europeo3, Milano, 2017, p. 217 ss.; SAPONARO, L’attuazione amministrativa del tributo nel diritto nel diritto dell’integrazione europea, Milano, 2017, p. 67 ss.; PIERRO, Il dovere fiscale e lo scambio di informazioni, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2017, I, p. 449 ss.

11 Nel 2016, l’OCSE ha pubblicato le Guidelines “Building better tax control framework”, che prevedono un modello generale di controllo che le imprese dovrebbero adottare per monitorare i propri rischi fiscali (TCF-Tax Control Framework).

12 Con la legge di delega fiscale 11 marzo 2014, n. 23, il legislatore ha introdotto una serie di principi volti a rendere la compliance fiscale più agevole per i contribuenti, consentendo

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con il D.Lgs. n. 128/2015, è stato adottato in Italia un regime di prevenzione del c.d. “rischio fiscale” delle grandi imprese. L’adempimento collaborativo è stato effettivamente implementato solo dal mese di maggio 2017

13, data di pubblicazione del Provv. Ag. Entrate, 26 maggio 2017, n. 101573. Solo ottan-ta imprese italiane ed estere pare possiedano i requisiti di adesione a questo regime fiscale

14. Come osservato dalla dottrina

15, per la prima volta in Europa, detto istitu-to è stato introdotto nell’ordinamento giuridico di uno Stato, l’Italia, ricor-rendo allo strumento legislativo e non mediante documenti di prassi. Dunque, è stato il legislatore e non l’Amministrazione Finanziaria a delineare i principi che dovrebbero governare il regime di cooperazione rafforzata tra il fisco ita-liano e i contribuenti

16. Nel dettaglio, il quadro normativo nazionale in tema di cooperative com-

pliance si sviluppa intorno ai principi sanciti dagli artt. 5, 6 e 9 della predetta L. n. 23/2014. Con la legge delega, il governo è stato incaricato di individuare loro di creare un contesto fiscale sufficientemente certo. A tal fine, sono stati riordinati l’istituto dell’interpello (art. 7), la nozione di abuso del diritto ed elusione fiscale (art. 5), le procedure di monitoraggio e di erosione fiscale (art. 4); inoltre, si è cercato di raziona-lizzare il sistema delle agevolazioni tributarie (art. 7) e di revisionare l’imposizione sui redditi di impresa (artt. 11 e 12). Infine, si è messo definitivamente mano alla revisione del sistema sanzionatorio tributario amministrativo e penale (art. 8). Il denominatore comune di questi interventi, attuati mediante la pubblicazione di vari decreti legislativi, è stato quello di convincere il contribuente ad istaurare un dialogo preventivo con l’Amministrazione Fi-nanziaria, evitando che le parti siano costrette a cooperare in una fase patologica del rap-porto tributario.

13 I documenti di prassi, funzionali all’implementazione tecnica dell’istituto dell’adempi-mento collaborativo sono i seguenti: Provv. Ag. Entrate, 14 aprile 2016, n. 54237; Circolare Ag. Entrate, 16 settembre 2016, n. 38/E; D.M. 15 giugno 2016, pubblicato in G.U. 27 giu-gno 2016, n. 148.

14 I dati sulle possibili adesioni al presente regime tributario sono state fornite dalla Dire-zione Centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate nel corso del convegno “Adempimento collaborativo: nuova frontiera della compliance”, tenutosi a Roma il 16 e 17 giugno 2016. I medesimi dati sono stati confermati durante la conferenza internazionale su “Cooperative compliance e certezza del diritto in ambito tributario”, Courmayeur, 23 giugno 2017.

15 Sul punto, GALLO, Brevi considerazioni sulla definizione di abuso del diritto e sul nuovo re-gime del c.d. adempimento collaborativo, cit., p. 10948.

16 Con riferimento ai profili attuativi del regime, cfr. FERRONI, Cooperative compliance: un regime sempre più attrattivo per le grandi imprese, in Il Fisco, 2017, p. 2407; ALLEVATO, La coope-rative compliance italiana e il progressivo allineamento agli standard internazionali, in Corr. trib., 2016, p. 3168; NOBILE, Cooperative compliance: primi approcci operativi, in Il Fisco, 2016, p. 4049; TOMASSINI, Il faro del fisco su “compliance” e fiscalità internazionale, in Corr. trib., 2014, p. 3008; TREVISANI, Le linee guida dell’Agenzia per il contrasto all’evasione nelle imprese di minori dimensioni, in Corr. trib., 2014, p. 3001.

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«norme che prevedano forme di comunicazione e di cooperazione rafforzata, anche in termini preventivi rispetto alle scadenze fiscali, tra le imprese e l’Am-ministrazione Finanziaria»

17. I soggetti di maggiori dimensioni – prosegue la legge delega – devono rendere trasparenti all’Amministrazione i sistemi azien-dali di «gestione e di controllo del rischio fiscale»

18, al fine di consentire al-l’Amministrazione un compiuto esame delle fattispecie economiche poste in essere dal contribuente e, per l’effetto, migliorare l’assistenza tributaria a favo-re di quest’ultimo.

Dunque, da una parte, l’adesione al regime obbliga i contribuenti a fornire ai controllori la mappatura aziendale delle aree dove si potrebbero annidare i maggiori rischi di evasione tributaria

19 o, per meglio dire, di non compliance 20;

dall’altra, l’adempimento collaborativo riconosce «incentivi sotto forma di mi-nori adempimenti per i contribuenti (...)», nonché misure premiali quali l’ac-cesso agevolato a forme di interpello preventivo

21, la riduzione delle sanzioni amministrative, il riconoscimento di una sorta di protezione dai reati tributa-ri

22, oltre che l’accesso agevolato ai rimborsi delle imposte 23.

Il Titolo III del D.Lgs. n. 128/2015 24, rubricato “Regime dell’adempimento

17 Cfr. art. 6, comma 1, L. 11 marzo 2014, n. 23. 18 Cfr. art. 6, commi 1 e 3, L. 11 marzo 2014, n. 23. 19 Come avanti si vedrà, mediante il Provv., 26 maggio 2017, n. 101573, per l’Agenzia del-

le Entrate il “rischio fiscale” è «il rischio di operare in violazione di norme di natura tributa-ria ovvero in contrasto con i principi o con le finalità dell’ordinamento». Invece, per “rischio fi-scale rilevante” si intende «un rischio la cui mancata individuazione o comunicazione sia tale da compromettere l’affidamento dell’ufficio nel sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale».

20 In generale, con il termine “non compliance” si intende il mancato rispetto (anche invo-lontario), da parte del contribuente, degli adempimenti formali richiesti dalle leggi tributarie. Con riferimento ai temi di tax compliance, cfr. STRAINESE, La Tax Compliance nell’attività co-noscitiva dell’Amministrazione finanziaria, Roma, 2014, passim.

21 Con riferimento all’interpello abbreviato, cfr. decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 15 giugno 2016, pubblicato in G.U. 27 giugno 2016, n. 148.

22 L’art. 6, comma 2, L. 11 marzo 2014, n. 23, rinviando al successivo art. 8 in materia di revisione del sistema sanzionatorio tributario, specifica che i soggetti potenzialmente esposti a contestazioni di natura penale possono chiedere all’Agenzia delle Entrate di trasmettere al Pubblico Ministero l’adesione al regime di adempimento collaborativo, al fine di limitare o escludere la colpevolezza dell’eventuale illecito contestato. Queste disposizioni di carattere generale sono state trasposte nell’art. 6, comma 4, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128.

23 Cfr. art. 6, comma 2, L. 11 marzo 2014, n. 23 e art. 6, comma 6, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128.

24 Il rafforzamento del dialogo tra fisco e contribuenti, principio espresso nella legge de-lega n. 23/2014, oltre a tramutarsi nel decreto attuativo sulla cooperative compliance (D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128), è stato trasposto nel D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. decreto

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collaborativo”, ha recepito compiutamente i principi di cooperazione tra fisco e contribuente sanciti dalla legge delega. La procedura, nella sua prima attua-zione, è stata riservata ai contribuenti con un volume d’affari non inferiore a dieci miliardi di euro

25. I soggetti aderenti devono dotarsi di un sistema di ri-levazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale; cioè, di un mo-dello di organizzazione che evidenzi quali aree dell’impresa potrebbero pro-vocare un’illegittima perdita di gettito per l’erario.

L’art. 5, D.Lgs. n. 128/2015 delimita i doveri cui l’Agenzia delle Entrate e i contribuenti devono attenersi per la validità dell’istituto. Con riferimento ai doveri dell’Amministrazione Finanziaria, il comma 1 afferma che l’Agenzia del-le Entrate deve agire nel rispetto dei principi di ragionevolezza e proporziona-lità

26, favorendo un contesto fiscale di certezza, mediante «l’esame preventivo di situazioni private suscettibili di generare rischi fiscali significativi»

27, che, tradotto, significa attenuare le varie forme utilizzate dall’imprese per erodere il gettito erariale. Invece, i doveri dei contribuenti consistono, come detto, nel mantenere un sistema di rilevazione del rischio fiscale efficiente ed assumere un atteggiamento collaborativo e trasparente verso l’Ufficio, con l’ulteriore ob-bligo di dar seguito tempestivamente alle eventuali richieste formulate dall’Am-ministrazione

28. internazionalizzazione). In particolare, gli artt. 1 e 2, di tale ultimo decreto, rimarcando il po-stulato della collaborazione continuativa tra le parti del rapporto d’imposta, hanno istituito il c.d. “Accordo preventivo per le imprese con attività internazionale”, introducendo il nuovo art. 31 ter, D.P.R. n. 600/1973, e il c.d. “Interpello sui nuovi investimenti”, specificato con il Provv. Ag. Entrate, 14 aprile 2016.

25 L’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 128/2015, dispone che possono aderire alla prima fase di attuazione del regime dell’adempimento collaborativo anche i contribuenti che hanno già partecipato al Progetto Pilota del Regime di Adempimento Collaborativo, avviato dall’Agen-zia delle Entrate con l’invito del 25 giugno 2013. Il Provv. Ag. Entrate, 14 aprile 2016, n. 54237, ha disposto che possono accedere al regime anche le imprese che si sono avvalse del-la forma di interpello sui nuovi investimenti, previsto dall’art. 2, D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, indipendentemente dal volume di affari dell’impresa. Sul punto, cfr. PENNESI, Coopera-tive taxcompliance: il fisco cerca la collaborazione dei grandi contribuenti, in Corr. trib., 2013, p. 2335 ss.

26 Sia nella legge di delega fiscale n. 23/2014, che nel Titolo III del D.Lgs. n. 128/2015, la locuzione “proporzionalità” è usata nel senso di moderazione dell’agire dell’Amministra-zione Finanziaria. Come recita il punto 5, Provv. Ag. Entrate, 26 maggio 2017, tale modera-zione amministrativa è possibile solo attraverso la preventiva conoscenza dell’attività eco-nomica esercitata dal contribuente. Sul tema, per tutti, cfr. MOSCHETTI, Il principio di propor-zionalità come “giusta misura” del potere nel diritto tributario, Padova, 2017, p. 81 ss.

27 Cfr. art. 4, comma 1, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128. 28 Ai sensi dell’art. 4, comma 2, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, a cadenza almeno annuale, i

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L’art. 6 del decreto dispone in ordine agli effetti del regime di cooperazio-ne. Scegliere l’adempimento collaborativo permette alle parti di dialogare e giungere ad un comune giudizio sulle fattispecie economiche non facilmente inquadrabili sotto il profilo tributario, che generalmente riguardano i temi del-l’abuso del diritto, del transfer pricing, della residenza fiscale di unità operative dell’impresa, oppure, della deducibilità di elementi negativi di reddito deri-vanti da fornitori residenti in Paesi c.d. black list

29. Per cui, come si avrà modo di rilevare, al ricorrere di casi di complessa interpretazione, prima della presen-tazione della dichiarazione fiscale, il contribuente è messo nelle condizioni di conoscere come l’Amministrazione interpreta il caso dubbio

30. Dunque, in linea con i postulati espressi dall’OCSE, per conseguire effet-

tivamente gli obiettivi dell’adempimento collaborativo, l’Amministrazione dovrebbe essere percepita dai contribuenti come un soggetto terzo ed im-parziale

31, che agisce con trasparenza e nel rispetto del principio del buon an-damento

32.

contribuenti devo trasmettere all’Agenzia delle Entrate una relazione illustrativa che rappre-senti quali verifiche sono state effettuate dai responsabili dell’impresa, quali rischi fiscali so-no emersi e quali misure sono state adottate per correggere o ridimensionare le criticità ri-scontrate.

29 Per gli aspetti critici dei vari temi cui spesso incorrono le imprese di grandi dimensioni, cfr. MARINELLO, Redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria. Principi e regole impo-sitive, Torino, 2018, p. 345 ss.; TINELLI-MENCARELLI, Lineamenti giuridici dell’imposta sul red-dito delle persone fisiche, ed. V, Torino, 2018, p. 45 ss.; BAGAROTTO, La disciplina in materia di costi black list: dalle modifiche apportate dal decreto sull’Internazionalizzazione alla definitiva abrogazione dell’istituto, in Riv. trim. dir. trib., 2016, I, p. 3 ss. Per un più ampio inquadramen-to delle criticità fiscali, che spesso sono il fondamento di contestazioni che l’autorità tributa-ria muove nei confronti dei contribuenti, cfr. V.E. FALSITTA, Prelievo fiscale e civiltà, Milano, 2018, p. 56 ss.

30 Così VERSIGLIONI, Cooperative compliance, cit., p. 104. 31 Sul punto, cfr. CALABRÒ, La funzione giustiziale nella pubblica amministrazione, Torino,

2012, p. 72 ss.; GIUFFRIDA, Il “diritto” ad una buona amministrazione pubblica e profili sulla sua giustiziabilità, Torino, 2012, p. 56 ss. Per una più ampia analisi del tema, tra i contributi me-no recenti, cfr. BACHELET, La giustizia amministrativa nella Costituzione italiana, in AA.VV. (a cura di), Scritti giuridici, Milano, 1981, p. 75 ss.

32 Con riferimento al fine di giustizia dell’Amministrazione tributaria, cfr. ALLORIO, Dirit-to processuale tributario, Torino, 1969, p. 11. Per le opere più recenti, si rinvia a LOGOZZO, L’Amministrazione finanziaria come organo di giustizia nel pensiero di Allorio, in Dir. prat. trib., 2015, I, p. 831; DE MITA, Maestri del diritto tributario, Milano, 2013, p. 29; GAFFURI, Il magi-stero di Enrico Allorio in diritto tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1990, I, p. 399.

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3. L’iniziativa e la partecipazione del contribuente all’attività istruttoria del-l’Agenzia delle Entrate

L’adempimento collaborativo, come accennato, prende avvio dall’iniziati-va del contribuente, il quale, trasmettendo all’Agenzia delle Entrate l’istanza di adesione al regime e la relazione sul sistema di rilevazione e misurazione dei rischi fiscali, impone a quest’ultima di attivare uno specifico confronto.

Tale sistema, per certi versi, pare sovvertire le ordinarie logiche della pro-cedura tributaria

33, atteso che è il contribuente a stimolare l’iniziativa dell’au-torità di controllo

34, mediante la richiesta di adesione. È sempre il contribuen-te che, esibendo all’Ufficio la relazione sul funzionamento dell’impresa e sui

33 Per una compiuta analisi del diritto procedurale tributario, senza pretesa di esaustività, cfr. MARCHESELLI, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, Milano, 2018, p. 75 ss.; ID., Il giusto procedimento tributario. Principio e disciplina, Padova, 2012, p. 161 ss.; LUPI, Diritto amministrativo dei tributi. Ovvero: si pagano le imposte quando qualcuno le impone, Roma, 2017, p. 91 ss.; ESPOSITO, Il sistema amministrativo tributario italiano, Milano, 2017, p. 115 ss.; MARCHESELLI-DOMINICI, Giustizia tributaria e diritto fondamentali. Giusto tributo, giusto pro-cedimento, giusto processo, Torino, 2016, p. 77 ss.; BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela: lezioni sul processo tributario, Torino, 2013, p. 209 ss.; TUNDO, Procedimento tributario e difesa del contribuente, Padova, 2013, p. 41 ss.; COMELLI, Poteri e atti nell’imposizione tributa-ria, Padova, 2012, p. 62 ss.; VANZ, I poteri conoscitivi e di controllo dell’amministrazione finan-ziaria, Padova, 2012, p. 72 ss.; DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, p. 175 ss.; MARCHESELLI, Accertamenti tributari e tutela del contribuen-te. Poteri e diritti nelle procedure fiscali, Milano, 2010, p. 54 ss.; VIOTTO, I poteri di indagine del-l’Amministrazione finanziaria, Milano, 2002, p. 87 ss.; SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, p. 43 ss.; LA ROSA, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, p. 52 ss.; ID., L’amministrazione finanziaria, Torino, 1995, p. 99 ss. Per una ricostruzione sistematica dei principi del procedimento tributario, cfr. DEL FEDERICO, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di ri-sultato, in Riv. trim. dir. trib., 2013, I, p. 851; ID., La rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 729; LA ROSA, I procedimenti tributari: fasi, efficacia e tutela, in Riv. dir. trib., 2008, I, p. 803; PIANTAVIGNA, Osservazioni sul procedimento tributario dopo la riforma della legge sul procedi-mento amministrativo, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2007, I, p. 44; CALIFANO, Principi comuni e proce-dimento tributario: dalle tradizioni giuridiche nazionali alle garanzie del contribuente, in Riv. dir. trib., 2004, I, p. 993; LA ROSA, Sui riflessi procedimentali e procedurali delle indagini tributarie irregolari, in Riv. dir. trib., 2002, I, p. 292; SCHIAVOLIN, Poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria, in Riv. dir. trib., 1994, I, p. 915; LA ROSA, Accertamento tributario, in Boll. trib., 1986, p. 1541; ID., Scienza, politica del diritto e dato normativo nella disciplina dell’accertamen-to dei redditi, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1981, I, p. 558.

34 Sul punto, per tutti, SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento, cit., p. 91 ss. Da ultimo, cfr. ZARDINI, La partecipazione del contribuente all’attività di accertamento, d’irro-gazione delle sanzioni e d’iscrizione a ruolo, in Riv. trim. dir. trib., 2016, I, p. 145; CIARCIA, Il ruolo dell’autorizzazione nell’attività istruttoria, in Riv. trim. dir. trib., 2012, I, p. 559.

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relativi rischi fiscali, fornisce ai controllori tutti gli elementi per avviare la fase istruttoria

35. Infine, è ancora il contribuente che, attenendosi ai doveri di co-municazione, informa l’Agenzia delle Entrate sulle operazioni economiche di incerta qualificazione tributaria, poste in essere nel corso dell’anno d’imposta, non ancora inserite in dichiarazione. Per cui, in questo contesto, il fisco non è, come normalmente avviene, la parte attiva del procedimento di controllo.

Per meglio comprendere come dovrebbe realizzarsi questa auspicata coo-perazione bidirezionale tra autorità fiscale e contribuente, è opportuno verifi-care, da una parte, quali sono i profili procedurali che la cooperative compliance genera e, dall’altra parte, capire se si tratta di una “nuova” procedura tributa-ria

36. Dunque, bisognerebbe indagare gli effetti della “iniziativa del contribuen-te” e della “partecipazione” dello stesso all’attività istruttoria e di controllo del fisco.

Tuttavia, bisogna tenere ben presente sin d’ora che l’adesione a tale regime stimola un’attività procedimentale tributaria che non si conclude con l’ema-nazione di un avviso di accertamento

37, quindi con un atto unilaterale dell’Am-ministrazione Finanziaria, ma con un possibile accordo, vincolante tra le parti, sull’effettiva obbligazione tributaria dovuta dal contribuente.

Invero, tale istituto rappresenta una delle varie forme di collaborazione in-trodotte in quest’ultimo periodo dal legislatore, volte ad incoraggiare la “fun-zione servente” del contribuente nei confronti dell’Amministrazione Finan-

35 Vedi GALLO, Le ragioni del fisco, Bologna, 2011, p. 32; ID., L’istruttoria nel sistema tribu-tario, cit., p. 25.

36 In generale, nell’ordinamento tributario italiano non esiste una nozione di procedimento unitario, visto che l’attuazione della norma tributaria, e quindi il risultato finale in termini di prelievo, può realizzarsi senza alcun intervento dell’Amministrazione, la quale, come noto, de-ve attenersi all’attuazione concreta della legge. Sarebbe più corretto, come suggerisce parte della dottrina, parlare di procedimenti tributari, al plurale, così sottolineando i diversi moduli attuativi dei singoli tributi. Sul punto, cfr. MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, p. 77 ss.; MICELI, La partecipazione del contribuente nella fase istruttoria, in FANTOZZI-FEDELE (a cura di), Lo Statuto dei diritti del con-tribuente, Milano, 2005, p. 473; SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento, cit., p. 28; FANTOZZI, (voce) Accertamento tributario, in Enc. giur. Treccani, I, 1988, p. 65; CICOGNA-NI, Le fonti dell’obbligazione tributaria, Padova, 1977, p. 259; MICHELI, Considerazioni sul proce-dimento tributario d’accertamento nelle nuove leggi d’imposta, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1974, I, p. 620; ID., Premesse per una teoria della potestà d’imposizione, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1967, I, p. 264; CA-PACCIOLI, L’accertamento tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1966, I, p. 3; MAFFEZZONI, Il procedi-mento di imposizione nell’imposta generale sull’entrata, Napoli, 1965, p. 69.

37 Cfr. CALIFANO, La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2013, p. 83; ID., La motiva-zione degli atti impositivi tra forma e sostanza, principi europei e valori costituzionali, in Riv. trim. dir. trib., 2013, I, p. 81.

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ziaria 38. Cioè, questo regime si inserisce in quella tendenza, sempre più mar-

cata, del sistema tributario italiano di potenziare le forme di collaborazione tra fisco e contribuente

39. Esempi concreti di questa evoluzione

40 sono: 1) l’ampliamento delle occa-sioni di contraddittorio tra le parti prima della notifica di specifici avvisi di ac-certamento

41, 2) l’utilizzo da parte dei controllori delle c.d. lettere di compliance, che consentirebbero ai contribuenti di ravvedersi non solo dagli errori formali

38 Nell’ambito del disegno di riforma previsto dalla legge delega 11 marzo 2014, n. 23, sono stati introdotti nuovi istituti tributari, che attribuiscono al contribuente e all’Amministrazio-ne Finanziaria maggiori possibilità di dialogo. Si segnalano, a titolo esemplificativo, gli ac-cordi preventivi per le imprese con attività internazionale, istituto introdotto dall’art. 31 ter, D.P.R. n. 600/1973. Cfr. PIZZONIA, Gli accodi preventivi per le imprese con attività internazio-nale: opportunità e criticità, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2016, I, p. 491. Altra forma di dialogo, sep-pur indiretta, è rappresentata dall’art. 7 bis, D.L. n. 193/2016, con il quale sono stati intro-dotti gli indici sintetici di affidabilità, in sostituzione degli studi di settore. Sul tema, cfr. CE-DRO, Dagli studi di settore agli indici sintetici di affidabilità, in Innovazione e Diritto, 2017, p. 58.

39 Sempre GALLO, Le ragioni del fisco, cit., p. 32. L’autore rileva come il legislatore tributa-rio italiano, anche su impulso delle organizzazioni sovranazionali, stia predisponendo un tes-suto normativo volto sempre più a circoscrive l’esercizio del potere di accertamento dell’au-torità tributaria ad ipotesi patologiche di non corretta osservanza della legge da parte del pri-vato. Questo cambiamento è accompagnato dalla previsione di nuove forme di partecipazio-ne del contribuente all’attività di controllo del fisco. Nello stesso senso, LA ROSA, Accerta-mento tributario e situazioni soggettive del contribuente, in Riv. dir. trib., 2006, I, p. 735.

40 Cfr. DEL FEDERICO, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’Ammini-strazione di risultato, cit., p. 851.

41 Oltre all’art. 12, comma 7, dello Statuto, relativo alla partecipazione del contribuente in caso di verifica presso i locali ove egli esercita la sua attività, l’ordinamento tributario prevede altre disposizioni a contenuto partecipativo, quali, l’art. 36 bis, comma 3, D.P.R. n. 600/1973, in tema di controllo automatico della dichiarazione fiscale; l’art. 36 ter, comma 4, D.P.R. n. 600/1973, in ordine al controllo formale della dichiarazione; l’art. 6, comma 5, L. n. 212/2000, attinente alla partecipazione del contribuente prima che l’Amministrazione proceda all’iscri-zione a ruolo di debiti derivante dalla liquidazione della dichiarazione che presenti aspetti di incertezza; l’art. 38, comma 7, D.P.R. n. 600/1973, in tema di obbligo dell’Ufficio di invitare il contribuente a comparire prima di eseguire nei suoi confronti un accertamento sintetico del reddito; l’art. 10 bis, L. n. 212/2000, in tema accertamenti basati sull’abuso del diritto; l’art. 10, comma 3 bis, D.Lgs. n. 146/1998, relativo alla partecipazione del contribuente durante la fase di accertamento del maggior reddito desunto dall’applicazione degli studi di settore; l’art. 11, comma 4 bis, D.Lgs. n. 374/1990, che prevede la facoltà del contribuente di essere ascol-tato dopo la chiusura del procedimento istruttorio, propedeutico all’accertamento doganale; l’art. 6, D.L. n. 167/1990, che prevede la facoltà del soggetto passivo di fornire chiarimenti al-l’Amministrazione in materia di controllo sugli investimenti o attività detenute all’estero e non dichiarate; l’art. 16, comma 4, D.Lgs. n. 472/1997, che statuisce la possibilità per il contri-buente di formulare osservazione all’atto di contestazione, prima che esso divenga provvedi-mento di irrogazione sanzioni.

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Alessandro Tropea 801

ma anche dagli omessi o insufficienti versamenti 42, 3) l’implementazione del-

la dichiarazione precompilata e della fattura elettronica, 4) l’incremento per i contribuenti degli obblighi di invio telematico di informazioni fiscali (liquida-zioni IVA periodiche, spesometro, ecc.) e via dicendo

43. Così, in linea del tut-to generale, l’adempimento collaborativo si inserisce in questo contesto di rinnovata cooperazione tra fisco e contribuente.

Passando al tema della partecipazione del soggetto passivo 44, è chiaro che

l’adesione alla cooperative compliance comporta, per volontà del legislatore, la moltiplicazione delle occasioni di incontro con l’Amministrazione Finan-ziaria

45, rispetto a quanto poteva fare il contribuente avvalendosi delle pro-cedure vigenti in passato. Questa forma di intervento è una vera e propria deroga al generale principio di partecipazione del contribuente al procedi-mento tributario

46. Infatti, secondo l’originario indirizzo dato dalla legge ge-nerale sul procedimento amministrativo

47, sia l’iniziativa che l’istruttoria del-

42 Sul punto, cfr. LOGOZZO, Detrazione, rimborso e rettifica della dichiarazione IVA tra re-centi orientamenti della giurisprudenza e nuove disposizioni, in Boll. trib., 2017, p. 1069 ss.

43 La forma più comune per rendere partecipe l’Amministrazione Finanziaria delle opera-zioni economiche del contribuente è l’interpello. Sul tema si rinvia a BAGAROTTO, (voce) Interpello e accordi amministrativi (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, 2013; PISTOLESI, Gli inter-pelli tributari, Milano, 2007, p. 71 ss.; VERSIGLIONI, L’interpello nel diritto tributario, Perugia, 2005, p. 65 ss.

44 Senza pretesa di esaustività, cfr. RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, p. 41 ss.; MARCHESELLI, Il giusto procedimento tributario, cit., p. 65 ss.; TUNDO, Procedimento tributario e difesa del contribuente, cit., p. 82 ss.; MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, p. 217 ss. Da ultimo, si osservi anche ACCORDINO, Problematiche applicative del ‘contraddittorio’ nei procedimenti tri-butari, Milano, 2018, p. 85 ss. Le analisi giuridiche in materia di diritto di partecipazione nel diritto amministrativo sono ampie. Per esse, si rinvia a MATTARELLA, Lezioni di diritto ammi-nistrativo, Torino, 2018, p. 179 ss.; RAMAJOLI, L’intervento nel procedimento, in SANDULLI (a cura di), op. cit., p. 598 ss. Per l’importanza storiografica del principio di partecipazione, cfr. MIELE, La manifestazione di volontà del privato nel diritto amministrativo, Roma, 1931, p. 59 ss.; BARONE, L’intervento del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1969, p. 95 ss.

45 Ai sensi dell’art. 11, Provv. Ag. Entrate, 26 maggio 2017, Prot. n. 101573, la competen-za esclusiva della procedura di collaborazione è riservata all’Ufficio cooperative compliance istituito presso la Direzione Centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate.

46 Cfr. art. 13, comma 2, L. 7 agosto 1990, n. 241, che dispone la non applicabilità delle norme sulla partecipazione amministrativa ai procedimenti tributari. Sul punto, cfr. ZITO-TINELLI, L’ambito di applicazione delle norme sulla partecipazione, in SANDULLI (a cura di), op. cit., p. 688; DEL FEDERICO, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva, cit., p. 860; LUPI, La disciplina delle entrate, in CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Di-ritto amministrativo speciale, vol. III, Milano, 2003, p. 2647.

47 Sul punto, si rinvia a CORSO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2017, p. 227; CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2015, p. 389.

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l’Amministrazione Finanziaria, fasi prodromiche all’adozione del Provvedi-mento finale, dovevano essere svolte con riservatezza e celerità. Sicché, l’or-dinamento avrebbe dovuto impedire che la partecipazione del privato, an-che mediante l’accesso agli atti, divenisse un’indebita ingerenza di quest’ul-timo nella gestione dell’interesse pubblico

48, che è, appunto, la sollecita ri-scossione delle imposte

49. Come noto, questa impostazione ha subìto un’evoluzione grazie alla giuri-

sprudenza 50 e alla dottrina

51. Oggi, la partecipazione del contribuente al pro-cedimento tributario viene considerata una garanzia di trasparenza dell’azione del fisco, in quanto gli interessati, prendendo parte al procedimento, sarebbe-ro nelle condizioni di controllare il corretto esercizio del potere pubblico. Sic-ché, al ricorrere di specifiche circostanze delineate dalla legge, i privati po-trebbero esercitare le opportune difese, in sede amministrativa, prima dell’e-manazione dell’atto impositivo

52. Tuttavia, l’attuale quadro normativo della partecipazione del contribuente

al procedimento tributario continua ad essere estremamente frammentato 53,

48 Così PERRONE, Discrezionalità e norma interna nell’imposizione tributaria, Milano, 1969, p. 27. Per una ricostruzione dell’argomento, nell’ottica amministrativistica, si rinvia a TRI-MARCHI BANFI, Il diritto ad una buona amministrazione, in CHITI-GRECO (a cura di), Trattato di Diritto amministrativo europeo, Milano, 2007, p. 49.

49 Secondo questo originario indirizzo, laddove l’attività preparatoria dell’accertamento fosse risultata incompleta a causa di un’indebita partecipazione del contribuente-interessato, sarebbe stata sacrificata la pronta e sollecita riscossione delle effettive imposte dovute. Sul punto, VIOTTO, I poteri di indagine dell’Amministrazione finanziaria, cit., p. 139; SELICATO, op. cit., p. 44.

50 Da ultimo, cfr. Corte cost., 15 novembre 2017 (ud. 24 ottobre 2017), n. 240; Corte cost., 13 luglio 2017 (ud. 5 luglio 2017), n. 189; Cons. Stato, sez. V, 7 giugno 2017, n. 2724. Si veda anche Cass., sez. un., 24 febbraio 2011, n. 4448.

51 Cfr. CHIRULLI, I diritti dei partecipanti al procedimento, in SANDULLI (a cura di), op. cit., p. 615 ss.; PROIETTI, La partecipazione al procedimento amministrativo, in SANDULLI (a cura di), op. cit., p. 566 ss.; DELLA SCALA, L’ambito di applicazione della disciplina generale sul pro-cedimento amministrativo, in A. ROMANO (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, p. 1034; M.C. ROMANO, I diritti dei partecipanti al procedimento, in A. ROMANO (a cura di), op. cit., p. 372; ZITO, Il procedimento amministrativo, in SCOCA (a cura di), Diritto amministra-tivo, Torino, 2015, p. 234 ss.

52 Si rinvia a LOGOZZO, L’amministrazione finanziaria come organo di giustizia nel pensie-ro di Allorio, cit., p. 831; ANCORA, L’amministrazione giustiziale, in Cons. Stato, 1988, II, p. 1687.

53 Vedi MAZZAGRECO, I limiti all’attività impositiva nello studio dei diritti del contribuente, Torino, 2011, p. 55. L’autore sottolinea che, anche dopo l’entrata in vigore dello Statuto dei diritti del contribuente, il legislatore non ha disposto un principio generale che consenta la presenza del contribuente nella fase procedimentale dell’autorità tributaria.

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Alessandro Tropea 803

in quanto previsto da singole leggi e non governato da un principio generale di riferimento

54. In questo contesto normativo, la cooperative compliance, prevede una forma

di partecipazione del soggetto passivo non orientata principalmente a garantire la sua difesa dall’azione dei controllori. Semmai, una siffatta partecipazione è espressione della funzione giustiziale dell’Amministrazione Finanziaria

55, vi-sto che detto dialogo consiste essenzialmente in un “passaggio filtro”, da appli-carsi nella fase preaccertativa, il cui obiettivo è quello di avvicinare la situazione risultante dall’istruttoria alla verità economica-fattuale del grande contribuente. Il tema rientra nel più ampio contesto “giustiziale” dell’azione dell’Amministra-zione Finanziaria. Come rilevato dalla dottrina, la “giustizia” è un interesse del-l’autorità fiscale, anzi è lo “scopo” cui deve mirare ogni azione del fisco

56. Nel dettaglio, le forme di partecipazione previste dalla cooperative complian-

ce sono le seguenti: 1) il contribuente, come osservato, ha l’obbligo di fornire periodicamente all’Agenzia delle Entrate i risultati dell’attività di controllo dei propri rischi fiscali. L’Ufficio, valutata l’attività economica esercitata dal con-tribuente, deve dare un riscontro sull’efficacia dei controlli svolti dal privato e suggerire, se del caso, le modifiche da apportare al sistema di controllo azien-dale

57; 2) è fatto obbligo alle parti di addivenire ad un comune intendimento

54 Cfr. ALFANO, Vantaggi e svantaggi della previa azione amministrativa in campo tributario per il contenimento del contenzioso tributario, in AMATUCCI-ALFANO (a cura di), op. cit., p. 218 ss.; TUNDO, La partecipazione del privato alla verifica tributaria, cit., p. 81; ID., Il procedimento di accertamento redditometrico tra partecipazione e contraddittorio, in Rass. trib., 2013, I, p. 1037; SALVINI, La cooperazione del contribuente e il contraddittorio nell’accertamento, in Corr. trib., 2009, p. 3570; MULEO, op. cit., p. 277.

55 Bisogna tenere bene in mente che il regime dell’adempimento collaborativo non pre-vede una partecipazione funzionale a salvaguardare il diritto di difesa del privato. Semplice-mente, si tratta di un’ulteriore forma di partecipazione del privato, che si affianca a quelle già previste da altre leggi tributarie. In sostanza, come detto, con il regime dell’adempimento collaborativo, il legislatore ha ampliato le forme di partecipazione che attribuiscono al con-tribuente una funzione servente, cioè di ausilio all’attività di controllo dell’Amministrazione Finanziaria. Cfr. GALLO, op. ult. cit., p. 172.

56 Così FALSITTA, Manuale di diritto tributario, cit., p. 363 ss. Nello stesso senso, cfr. CO-RASANITI, Il principio del contraddittorio nella giurisprudenza nazionale e dell’Unione europea, in Dir. prat. trib., 2016, I, p. 1575 ss.; GIOVANNINI, Il contraddittorio endoprocedimentale, in Rass. trib., 2017, I, p. 11 ss.; LOGOZZO, L’amministrazione finanziaria come organo di giusti-zia nel pensiero di Allorio, cit., p. 831 ss.; ID., La tutela dell’affidamento e della buona fede del contribuente tra prospettiva comunitaria e nuova codificazione, in Boll. trib., 2003, p. 539 ss. In argomento, da ultimo, si osservino le analisi di SARTORI, Il principio di buona fede e collabora-zione nello Statuto dei diritti del contribuente, in Giur. it., 2018, p. 763.

57 Cfr. artt. 3 e 4, Provv., 26 maggio 2017, n. 101573.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 804

in merito alle fattispecie che potrebbero generare rischi fiscali rilevanti. Per esempio, il contribuente deve preventivamente prospettare all’Amministrazio-ne Finanziaria le operazioni economiche di carattere transnazionale che po-trebbero rientrare nei casi di pianificazione fiscale aggressiva

58. L’Ufficio ri-sponde comunicando la propria valutazione, al fine di permettere all’impresa di uniformare, se vuole, il proprio comportamento a quello suggerito dal fi-sco

59; 3) altra forma di partecipazione è la facoltà del contribuente di formu-lare all’Ufficio uno specifico quesito al ricorrere di casi dubbi, mediante il c.d. interpello abbreviato

60; 4) infine, il contribuente ha la facoltà di chiedere al-l’Ufficio di anticipare il controllo qualora specifici elementi di fatto potrebbe-ro generare rischi fiscali

61. In tale prospettiva, pur rappresentando queste forme di partecipazione delle

vere e proprie novità del diritto tributario procedimentale, comunque l’adem-pimento collaborativo non introduce nell’ordinamento alcuna forma di co-amministrazione dell’obbligazione tributaria. Ed invero, il regime non dispo-ne che la dichiarazione tributaria debba essere il risultato di una “comune ge-stione dei presupposti” eseguita dal contribuente e dall’Agenzia delle Entrate. Si tratta di una semplice cooperazione che le parti del rapporto d’imposta so-no libere di instaurare. Difatti, l’ente impositore continua a svolgere il ruolo di controllore delle fattispecie economiche prospettategli dal contribuente, an-che se in un contesto di maggiore cooperazione. L’originalità di tale regime è che l’attività di controllo del fisco (comunque stimolata dal soggetto passivo) si sviluppa in un momento procedimentale che precede l’invio della dichiara-zione fiscale del contribuente.

4. Le “interlocuzioni costanti e preventive” tra Agenzia delle Entrate e imprese di grandi dimensioni

Nella disciplina dell’adempimento collaborativo, come si è avuto modo di comprendere, assumono rilievo i valori della collaborazione amministrativa, della trasparenza, della tutela dell’affidamento e della buona fede. In sostanza,

58 In argomento, per tutti, cfr. SARTORI, Le riorganizzazioni transnazionali nelle imposte sul reddito, Torino, 2012, p. 52 ss.

59 Cfr. artt. 4, 5 e 6, Provv., 26 maggio 2017, n. 101573. 60 Cfr. art. 6, comma 2, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128. 61 Cfr. art. 6, comma 1, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128.

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Alessandro Tropea 805

nella cooperative compliance è importante che le regole di buona condotta am-ministrativa vengano concretamente applicate

62, affinché le parti del rapporto d’imposta possano conseguire l’obiettivo della certezza ed immodificabilità del prelievo impositivo

63. Tale contesto di certezza va creato dall’Amministra-zione Finanziaria, ricorrendo alle «interlocuzioni costanti e preventive» con le imprese che hanno aderito al regime

64. In pratica, l’Amministrazione Finanziaria ha l’obbligo di ascoltare il contri-

buente che ha fatto richiesta di adesione al regime. Tuttavia, come si vedrà, non si tratta solo di ricorrere ad un generico contraddittorio endoprocedimen-tale col soggetto passivo, ma molto di più. L’originalità dell’istituto dell’interlo-cuzione è data da tre elementi: 1) rispetto all’originaria impostazione del con-traddittorio, cambia il “momento procedimentale” di svolgimento del con-fronto tra la parte pubblica e la parte privata; 2) l’obiettivo che l’ordinamento si prefigge di conseguire con le interlocuzioni non è lo stesso di quello riserva-to al contraddittorio; 3) l’oggetto delle interlocuzioni è completamente diffe-rente rispetto ai temi che generalmente le parti analizzano in sede di contrad-dittorio.

Con riferimento al primo aspetto, il sintagma “interlocuzioni costanti e pre-ventive” identifica un momento procedimentale specifico del regime dell’a-dempimento collaborativo. Ma, a differenza del contraddittorio endoprocedi-mentale, nell’adempimento collaborativo, l’interlocuzione tra Amministrazione Finanziaria e contribuente si colloca prima di ogni altra fase, cioè prima dell’av-vio dell’istruttoria, prima della conclusione dell’istruttoria

65 e, naturalmente, pri-ma della formazione della determinazione finale assunta dall’Ufficio

66. Difatti,

62 Sul punto, PISTOLESI, Le regole procedimentali nel provvedimento di attuazione dell’adem-pimento collaborativo, cit., p. 2412.

63 Per una più ampia analisi in materia di certezza del diritto nell’ambito dell’adempi-mento collaborativo, cfr. STRIANESE, op. cit., p. 715.

64 Secondo il punto 2 del Provv. Ag. Entrate, 26 maggio 2017, per «interlocuzioni co-stanti e preventive» si intende «il contraddittorio di carattere continuativo che consenta di addivenire ad un comune intendimento in merito agli elementi di fatto costitutivi della fatti-specie».

65 Così GALLO, L’istruttoria nel sistema tributario, cit., p. 25. 66 Per i casi di più difficile interpretazione, il regime dell’adempimento collaborativo, co-

me disciplinato dagli artt. 3 ss., D.Lgs. n. 128/2015, dovrebbe condurre l’Amministrazione Finanziaria e l’impresa ad un accordo (c.d. “accordo di adempimento collaborativo”). Come si vedrà nel paragrafo successivo, tale accordo, anche se frutto di una costante interlocuzione col contribuente, rappresenta la vera e propria determinazione dell’Agenzia delle Entrate, assunta sulla base degli elementi esaminati.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 806

l’Agenzia delle Entrate, prima di svolgere qualsiasi analisi o valutazione, deve sentire il contribuente al fine di «acquisire consapevolezza delle caratteristi-che dell’impresa attraverso la comprensione dell’attività svolta nonché del set-tore in cui essa opera e dei mercati di riferimento»

67. Aperta la fase dell’interlocuzione con l’Ufficio, come detto, il contribuente

deve comunicare ai funzionari il proprio sistema di controllo interno. In buona sostanza, le imprese devono condividere con l’Agenzia delle Entrate tutte le in-formazioni tecniche di implementazione del sistema di prevenzione dei rischi fiscali e, al ricorrere delle circostanze, comunicare le eventuali operazioni che po-trebbero generare rischi di evasione o di non compliance

68. Nel corso della fase di dialogo, l’Ufficio esamina le fattispecie economiche sottopostegli dall’impresa e assume una propria posizione interpretativa, che diviene immodificabile

69. Dunque, la differenza con il contraddittorio endoprocedimentale è eviden-

te. Il contraddittorio si colloca in un momento che segue l’istruttoria e che precede l’emanazione del Provvedimento impositivo dell’Amministrazione Fi-nanziaria

70. L’interlocuzione, invece, precede qualsiasi fase amministrativa, anzi è l’inizio di essa.

67 Cfr. punto 2.2, lett. b), Provv. Ag. Entrate, 26 maggio 2017. 68 Cfr. punto 3.2, lett. a), Provv. Ag. Entrate, 26 maggio 2017. 69 La posizione assunta dall’Amministrazione Finanziaria potrà risultare differente da quella

precedentemente adottata nel caso in cui dovessero cambiare gli elementi di fatto costitutivi dell’originaria fattispecie.

70 Dagli insegnamenti della giurisprudenza dell’Unione europea e nazionale, il contraddit-torio endoprocedimentale costituisce un principio fondamentale di civiltà giuridica. Esso si sostanzia nel diritto del destinatario di un Provvedimento autoritativo, produttivo di effetti sfa-vorevoli nella sua sfera giuridica, di manifestare le proprie ragioni prima dell’emissione del Provvedimento stesso (cfr. Corte di Giustizia UE, 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino c. a., punto 30, con commento di MARCHESELLI, Il contraddittorio va sem-pre applicato, ma la sua omissione non può eccepirsi in modo pretestuoso, in Corr. trib., 2014, p. 2543). Nell’ordinamento italiano, allo stato attuale, pur avendo la Corte costituzionale af-fermato che il diritto al contraddittorio è un principio immanente nel nostro ordinamento tri-butario (cfr. Corte cost., ord. 13 luglio 2017, nn. 187, 188 e 189; Corte cost., sent. 7 luglio 2015, n. 132), comunque non si applica per gli accertamenti c.d. “a tavolino”, bensì per gli altri tipi di accertamento. Stesso principio affermato anche dalla Corte di cassazione (cfr. Cass., sez. un., 9 dicembre 2015, n. 24823; Cass., sez. un., 18 settembre 2014, nn. 19667 e 19668; Cass., sez. un., 29 luglio 2013, n. 18184). Tuttavia, i giudici tributari di merito non hanno con-diviso l’indirizzo espresso dalla Suprema Corte. Fra le tante pronunce di senso opposto a quel-lo di legittimità, si rinvia a CTR Lombardia, sez. XXVII, 3 gennaio 2017, n. 2. Per una compiu-ta analisi dei temi, cfr. GIOVANNINI, Il contraddittorio endoprocedimentale, cit., p. 11 ss.; CO-RASANITI, op. cit., p. 1575; SAMMARTINO, Il diritto al contraddittorio endoprocedimentale, in Rass. trib., 2016, I, p. 986 ss.; LOVISOLO, Il contraddittorio preventivo tra speranze (deluse), rassegna-zione e prospettive, in Dir. prat. trib., 2016, I, p. 719; DE MITA, Sul contraddittorio le Sezioni

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Alessandro Tropea 807

In riferimento al secondo punto, cioè al tema dell’obiettivo cui tende il dia-logo tra le parti, si precisa che il contraddittorio e l’istituto dell’interlocuzione non sono assimilabili. Il primo, si sa, è preordinato a salvaguardare il diritto di difesa del contribuente, mentre il secondo svolge una funzione meramente pre-paratoria dell’istruttoria tributaria. Dunque, nell’ambito dell’adempimento col-laborativo, si potrebbe dire che è grazie al dialogo costante con il contribuente che l’Ufficio è messo nelle condizioni di avviare un’attività di controllo

71. Infatti, potrà sussistere una effettiva cooperazione rafforzata tra fisco e con-

tribuente quando l’Amministrazione sarà nelle condizioni di conoscere l’im-presa, il segmento di mercato in cui essa opera, il sistema di controllo e di pre-venzione dei rischi fiscali adottato dal grande contribuente. Tutte queste sono informazioni che dovranno necessariamente essere raccolte dall’Amministra-zione Finanziaria già dalle prime fasi di avvio del regime di adempimento col-laborativo

72. Il terzo elemento che connota di originalità l’istituto dell’interlocuzione è

rappresentato dall’oggetto del dialogo instaurato dalle parti 73. Generalmente,

in sede di contraddittorio il contribuente è chiamato a rappresentare il pre-supposto giuridico già concretizzatosi in passato. In tale circostanza, al con-tribuente spetta il compito di convincere l’Amministrazione Finanziaria che l’operazione economica oggetto di controllo è stata correttamente rappresen-tata nella dichiarazione fiscale e che si è svolta in aderenza alle leggi d’imposta. Invece, attraverso l’istituto delle interlocuzioni, le parti accertano, esaminano e discutono di fattispecie economiche non ancora realizzate o, se realizzate, non ancora dichiarate.

Quindi, questo tipo di dialogo consente al contribuente di prospettare all’Amministrazione Finanziaria una fattispecie economica non ancora palesa-tasi nella realtà, che si supponga possa generare potenziali rischi fiscali. L’Am-ministrazione, per l’effetto, è chiamata ad elaborare una risposta in merito alle unite scelgono una soluzione politica, in Dir. prat. trib., 2016, I, p. 20241; Enrico TRAVERSA-Edoardo TRAVERSA, La protezione dei diritti dei contribuenti nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, in Dir. prat. trib. int., 2016, I, p. 465. Per le diverse forme di con-traddittorio presenti nell’ordinamento tributario italiano, si rinvia a RAGUCCI, Contradditto-rio e “giusto procedimento” nella giurisprudenza nella giurisprudenza costituzionale, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2016, I, p. 475; ACCORDINO, op. cit., p. 54.

71 Cfr. PISTOLESI, Le regole procedimentali nel provvedimento di attuazione dell’adempimen-to collaborativo, cit., p. 2413. L’Autore afferma che, nel regime dell’adempimento collabora-tivo, l’interlocuzione avviata dalla parte pubblica e dalla parte privata è segno di una relazio-ne tra fisco e contribuente caratterizzata da una più spiccata equiparazione.

72 Così ALLEVATO, op. cit., p. 3168. 73 Sul punto, FERRONI, op. cit., p. 2407.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 808

disposizioni tributarie da applicarsi 74. Nel quadro così delineato trova appli-

cazione l’interpello abbreviato 75. Esso rappresenta la formalizzazione delle ri-

chieste del contribuente, ai quali fanno seguito i pareri motivati emessi dal-l’Ufficio entro quarantacinque giorni dal ricevimento della domanda

76. Concludendo, nella cooperative compliance i postulati della collaborazione

amministrativa e della certezza del diritto assumono concretezza grazie alle interlocuzioni costanti, che l’Amministrazione è chiamata ad intrattenere con le imprese. È la maggiore dialetticità voluta dal legislatore che contraddistin-gue il presente regime, rispetto al contraddittorio endoprocedimentale. Difat-ti, l’istituto delle interlocuzioni non rappresenta un momento procedurale in cui le parti sono chiamate a contemperare interessi contrapposti, come per il contraddittorio, ma rimane uno spazio istruttorio

77, cioè funzionale ad acqui-sire e valutare gli elementi concreti delle operazioni economiche che il contri-buente porrà in essere e successivamente dichiarerà.

Ebbene, un siffatto dialogo rappresenta un aspetto tipico della funzione giu-stiziale dell’Amministrazione Finanziaria, perché consentirebbe ad essa di ap-plicare, in maniera imparziale, le leggi d’imposta, dopo aver preso piena con-sapevolezza della realtà giuridico-economica entro la quale il contribuente di grandi dimensioni opererà.

74 Vedi AMATUCCI, op. cit., p. 273. L’Autore sottolinea che, nell’ambito dell’adempimento collaborativo, l’Amministrazione Finanziaria è tenuta a dare una propria valutazione della fatti-specie sottopostagli dall’impresa. Talvolta, dette operazioni sono vere e proprie operazioni economiche transnazionali, che coinvolgono più ordinamenti. Per cui, l’Ufficio chiamato a formulare un parere dovrebbe avvalersi dello scambio di informazioni con altre Amministra-zioni, al fine di indirizzare l’attività del contribuente con precisione.

75 Cfr. art. 6, comma 2, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128. Sul punto, vedi MELILLO, op. cit., p. 10967.

76 L’art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 128/2015, impone ai contribuenti, che hanno fatto ricorso all’interpello abbreviato, di comunicazione all’Amministrazione Finanziaria il comportamen-to effettivamente tenuto, se difforme da quello oggetto della risposta fornita.

77 Si rinvia alle analisi in tema di funzione giustiziale del contraddittorio di GIOVANNINI, Il contraddittorio endoprocedimentale, cit., p. 16; LOGOZZO, L’Amministrazione finanziaria come organo di giustizia nel pensiero di Enrico Allorio, cit., p. 836; RAGUCCI, Contraddittorio e “giusto procedimento” nella giurisprudenza costituzionale, cit., p. 488. Quest’ultimo sottolinea, in ter-mini generali, come «l’anticipazione del contraddittorio all’istruttoria amministrativa è con-cepibile come un primo correttivo delle forme più gravi di scostamento del fondamento del-la pretesa tributaria dalla fattispecie realizzata».

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Alessandro Tropea 809

5. Formalizzazione delle posizioni assunte dalle parti. La natura del c.d. “ac-cordo di adempimento collaborativo”

Si è detto che un ulteriore aspetto innovativo dell’adempimento collabora-tivo è rappresentato dalla formalizzazione delle posizioni assunte dalle parti nel corso della procedura di cooperazione.

In particolare, il punto 5 del Provvedimento direttoriale del 26 maggio 2017 prevede tre distinti modi con cui l’Agenzia delle Entrate si impegna, ver-so il contribuente, a rispettare le proprie determinazioni, prima che quest’ulti-mo trasmetta la dichiarazione fiscale.

La prima modalità è rappresentata dai “pareri motivati”, che l’Ufficio emana a seguito dell’attività di dialogo continuativo intrattenuta con il contribuente. Sostanzialmente, si tratta di pareri «idonei a garantire certezza preventiva sul-le fattispecie esaminate»

78. Mediante tali pareri, i controllori possono comu-nicare all’impresa eventuali rischi fiscali riscontrati nel funzionamento azien-dale, non presenti nell’originaria mappatura dei rischi, e suggerire al contri-buente le soluzioni idonee ad azzerare il pericolo di evasione.

La seconda modalità di formalizzazione delle posizioni assunte dall’Ufficio è rappresentata dal processo verbale di constatazione

79. Precisamente, qualo-ra l’Ufficio dovesse effettuare approfondimenti istruttori, di propria iniziativa, anche mediante l’accesso presso i locali del contribuente

80, che già partecipa

78 Cfr. punto 5.1, Provv. Ag, Entrate, 26 maggio 2017. 79 In tema di processo verbale di constatazione in ambito tributario, cfr. DEL FEDERICO,

(voce) Procedimento tributario, in Enc. giur. Treccani, 2014. Si confronti, inoltre, TUNDO, Ri-levanza del processo verbale di constatazione nell’indagine tributaria, in GT-Riv. giur. trib., 2015, p. 783; BEGHIN, Il processo verbale di constatazione quale presupposto per l’esercizio del potere accertativo, in Corr. trib., 2013, p. 3679; PIERRO, I nuovi modelli di definizione anticipata del rap-porto fiscale (adesione al verbale e adesione all’invito), in Rass. trib., 2009, I, p. 981; ID., Omis-sione del processo verbale di constatazione e invalidità dell’atto impositivo, in Giur. it., 2014, p. 956; STEVANATO, Il ruolo del processo verbale di constatazione nel procedimento accertativo dei tri-buti, in Rass. trib., 1990, I, p. 459 ss. Per una ricostruzione storica dell’argomento, cfr. MO-SCHETTI, I processi verbali tributari. Atti di certezza pubblica o dichiarazioni di giudizio?, in Rass. trib., 1979, I, p. 65 ss.; ID., Il ruolo del processo verbale di constatazione nel procedimento accer-tativo dei tributi, in Rass. trib., 1990, I, p. 459 ss.; SANTAMARIA, (voce) Processo verbale (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, 1991, XXIV.

80 Con riferimento ai poteri istruttori, che l’Agenzia delle Entrate può esercitare all’inter-no del procedimento di adempimento collaborativo, cfr. punto 11, Provv. Ag. Entrate, 26 mag-gio 2017. Per una ricostruzione sistematica del potere di accesso, cfr. CIMINO, Il potere di ac-cesso dell’amministrazione finanziaria presso il contribuente, in Dir. prat. trib., 2008, p. 20391; ID., L’esercizio del potere di accesso presso il contribuente: tra tutela delle garanzie del cittadino ed interesse fiscale, in Dir. prat. trib., 2007, p. 11029.

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al procedimento di cooperazione, è chiaro che deve darne contezza in un or-dinario pvc. Ma, a differenza del “normale” processo verbale, in tale atto deve comparire anche la posizione assunta dall’Ufficio, maturata a seguito degli ap-profondimenti eseguiti in loco

81. Dunque, con la notifica del predetto pvc, il con-tribuente è messo nelle condizioni di conoscere anticipatamente le risultanze della verifica condotta dall’Ufficio, così da poter eventualmente ravvedersi dal-l’irregolarità riscontrata.

La terza modalità di formalizzazione è denominata «accordo di adem-pimento collaborativo»

82. Il punto 5.4 del Provvedimento direttoriale di-spone che, con riferimento al trattamento fiscale di operazioni economiche, anche di natura straordinaria, che l’impresa ritiene strategiche per la propria attività economica, l’Ufficio deve invitare il contribuente in contraddittorio, con lo scopo di pervenire ad una comune valutazione degli aspetti tributari della fattispecie. Se le parti addivengono ad uno stesso intendimento, è possi-bile formalizzare gli aspetti tributari condivisi in un accordo di adempimento collaborativo.

Qualora, invece, l’Amministrazione Finanziaria non dovesse condividere l’interpretazione prospettata dal contribuente o, viceversa, il contribuente non volesse adottare il suggerimento espresso dalla parte pubblica, la trattazione dell’argomento potrebbe essere rinviata al successivo periodo d’imposta, an-che se il presupposto è stato già dichiarato nel periodo precedente. Nel caso in cui le parti non dovessero giungere ad un accordo nemmeno nell’anno suc-cessivo, l’Agenzia delle Entrate invia il processo verbale di chiusura, che rias-sume le posizioni sospese, agli uffici territoriali per avviare la conseguente at-tività di accertamento

83. Ovviamente, le suddette modalità di formalizzazione (parere motivato, pro-

cesso verbale di constatazione e accordo di adempimento collaborativo) sono atti volti a garantire la certezza e l’immodificabilità delle posizioni assunte dal-l’Ufficio, salvo che i presupposti della fattispecie tributaria esaminata non mu-tino nel tempo.

Da questo breve inquadramento del tema della formalizzazione delle scelte amministrative

84 si rinviene che, nel regime dell’adempimento collaborativo,

81 Cfr. punto 5.2, Provv., 26 maggio 2017, n. 101573. 82 Per una prima ricostruzione sistematica dell’accordo di adempimento collaborativo,

cfr. VERSIGLIONI, Cooperative compliance, cit., p. 104. 83 Cfr. punto 6.3, Provv. Ag. Entrate, 26 maggio 2017. 84 La letteratura sugli accordi amministrativi in ambito tributario è pressoché ampia. In

particolare, si rinvia a MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della

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Alessandro Tropea 811

l’azione dell’Agenzia delle Entrate non si esaurisce con un Provvedimento am-ministrativo

85, ma la discrezionalità 86 che l’Ufficio è chiamato ad esercitare

(per interpretare i casi concreti) viene suggellata in atti non provvedimentali. Difatti, né il parere motivato, né il pvc e né tantomeno l’accordo di adempi-mento collaborativo possono essere definiti atti a contenuto autoritativo

87, nel senso che non sono idonei ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica del privato

88. Dunque, nell’ambito della cooperative compliance, in via del tutto innovati-

va rispetto al passato, l’Amministrazione Finanziaria è chiamata a svolgere un ruolo consulenziale a favore dell’impresa aderente al regime, così da indiriz-zarne l’attività economica secondo un’interpretazione condivisa. Evidente-mente, così operando, la realizzazione della fattispecie economica non subirà future contestazioni fiscali, perché già sottoposta al vaglio dell’Amministra-zione Finanziaria

89. In definitiva, tramite queste forme di accordi preventivi, l’ordinamento tri-

butario italiano vorrebbe invogliare le grandi imprese ad aderire al regime di co- norma tributaria, cit., p. 81 ss.; VERSIGLIONI, Accordi amministrativi (dir. trib.), in CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, p. 91; ID., Accordo e disposizione nel di-ritto tributario, Milano, 2001, p. 91 ss.; TABET, In tema di accertamento preventivamente con-cordato, in Boll. trib., 2002, p. 565; LUPI, Prime considerazioni sul nuovo regime del concordato fiscale, in Rass. trib., 1997, I, p. 242; LA ROSA, Concordato, conciliazione e flessibilità dell’Amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 1995, I, p. 1095; GAFFURI, (voce) Concorda-to tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm., III, 1988, p. 294; TREMONTI, Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977, passim; TESAURO, Rilievi in tema di concordato tributario, con particolare riguardo a taluni indirizzi giurisprudenziali, in Giur. it., III, 1970, p. 55; ID., Spunti problematici sull’imposizione concordata in relazione ad un caso di invalidità, in Giur. it., 1970, p. 19.

85 In tema di Provvedimento amministrativo, per tutti, vedi VILLATA-RAMAJOLI, Il Provve-dimento amministrativo2, Torino, 2017, p. 81 ss.

86 La discrezionalità dell’autorità tributaria è un argomento più volte esaminato dalla dot-trina. Per una compiuta analisi si rinvia a PERRONE, Discrezionalità amministrativa (dir. trib.), in CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, cit.; GALLO, (voce) Discrezionalità (dir. trib.), in Enc. dir., Agg., 2000, p. 538; FREGNI, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, p. 427 ss.; LA ROSA, Caratteri e funzioni dell’accertamento tributario, in DI PIETRO (a cura di), L’accertamento tributario. Principi, metodi, funzioni, Milano, 1994, p. 36; PERRONE, Discrezionalità e norma interna nell’imposizione tributaria, cit., p. 88.

87 Vedi TOSI, (voce) Atti amministrativi generali (dir. trib.), in CASSESE (a cura di), Dizio-nario di diritto pubblico, cit., p. 498. Per un’analisi amministrativistica del tema, si rinvia a MATTARELLA, L’imperatività del provvedimento amministrativo, Padova, 2000, p. 76 ss.

88 Così FALSITTA, Manuale di diritto tributario, cit., p. 386. 89 Così PISTOLESI, Le regole procedimentali nel provvedimento di attuazione dell’adempimen-

to collaborativo, cit., p. 2416.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 812

operazione, affinché si superi, una volta per tutte, la scarsa certezza che ha sem-pre accompagnato i contribuenti nell’autoliquidazione dei propri tributi

90. Per certi versi, l’introduzione di questo istituto dimostra come il legislatore

si sia reso conto che la legislazione tributaria non può disciplinare in modo esauriente tutte le fattispecie del rapporto d’imposta. Dunque, rispetto ad altri ordinamenti dei Paesi OCSE, l’Italia non poteva continuare a mantenere una forma di controllo a posteriori delle operazioni poste in essere dalle grandi imprese. Ciò, come accennato, avrebbe ingenerato quell’assenza di certezza giuridica, tale da scoraggiare gli investimenti nel Paese

91. Proprio il Provvedimento direttoriale del 26 maggio 2017 enumera una se-

rie di casi incerti che potrebbero trovare una soluzione condivisa ricorrendo all’adempimento collaborativo. Per esempio, in materia di reddito d’impresa, esistono punti specifici dell’imponibile suscettibili di valutazioni controverse, che spesso hanno generato (e continuano a generare) delle contestazioni da parte dell’Amministrazione Finanziaria. È il caso delle stime dei componenti negativi di reddito, la deducibilità delle perdite su crediti, la deducibilità delle quote di ammortamento di beni materiali e immateriali, la deducibilità degli elementi negativi di reddito per costi c.d. black list. Ulteriori ambiti spesso a “rischio conflitto” sono il tema della residenza di articolazioni operative del-l’impresa, la contestazione di stabili organizzazioni, le operazioni straordinarie d’impresa, la stima dei prezzi infragruppo

92. Per cui, concordare questi aspetti controversi tramite la formalizzazione di

90 Così CROVATO, Imposizione fiscale e accordi preventivi, in CIVITARESE MATTEUCCI-DEL FEDERICO (a cura di), Azione amministrativa e azione impositiva tra autorità e consenso, cit., p. 152. L’autore, già nel 2010, sottolineava che l’ordinamento tributario italiano appare molto distante dagli altri ordimenti non tanto per il livello delle aliquote o la complicazione degli adempimenti fiscali, ma soprattutto per la scarsa certezza con cui i contribuenti autoliquida-no le imposte.

91 Sul punto, si osservino sia le conclusioni del Rapporto OCSE che quelle del Rapporto FMI, pubblicati nel 2015. Le organizzazioni sovrannazionali hanno messo a fuoco l’attuale funzionamento dell’Amministrazione Finanziaria italiana. Entrambi gli studi, pur se condotti in maniera indipendente, sono pervenuti alle medesime conclusioni. È stato sottolineato che l’attuale (anno 2015) sistema amministrativo tributario, oltre a risultare per certi versi farra-ginoso e complesso, non ingenera nei contribuenti alcuna certezza nell’attuazione degli adem-pimenti fiscali. Ciò provoca due effetti negativi: da una parte, una propensione all’evasione non tanto per il tenore della pressione fiscale, bensì per l’onerosità degli adempimenti tributari che sono connessi a qualsiasi operazione economica rilevante; dall’altra parte, si registra una forte litigiosità su tematiche fiscali di estremo interesse economico per lo sviluppo del Paese.

92 Ancora CROVATO, op. ult. cit., p. 148, ha messo in evidenza il fatto che le imprese di grandi dimensioni, se non hanno un quadro normativo certo, possono rinunciare all’investimento o localizzarlo in un altro ordinamento.

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un parere emesso dall’Ufficio, prima che il contribuente trasmetta la dichiara-zione fiscale, è essenziale per costruire una base di partenza univoca, che con-senta al privato una sicura autodeterminazione dei propri tributi. In questo contesto, la locuzione “sicurezza” deve essere intesa in termini di “non modi-ficabilità” della dichiarazione tributaria, di “certezza” dell’onere tributario do-vuto all’erario e di “assenza di pericolo” di future contestazioni da parte delle autorità di controllo.

Vi è una precisazione da fare. L’introduzione dei “pareri motivati”, del c.d. “pvc motivato” e dell’“accordo di adempimento collaborativo”, anche se ven-gono comunemente chiamati accordi, non sono inquadrabili tra gli istituti con-sensuali volti al raggiungimento di un patto tra Amministrazione Finanziaria e contribuente. Al contrario, si tratta di tre modalità con le quali l’Agenzia delle Entrate porta a conoscenza del contribuente la propria interpretazione tribu-taria relativa ad una concreta operazione economica

93. Dunque, nell’ambito della cooperazione, sarebbe inopportuno richiamare i

principi di teoria generale sull’indisponibilità del credito tributario 94, che si

rinvengono in tema di accordi tributari e/o di moduli consensuali nell’attua-zione delle norme fiscali. Nella cooperative compliance le parti non transano e non si accordano sul debito tributario dovuto dal contribuente, bensì coordi-nano insieme le interpretazioni tributarie connesse ad una fattispecie ancora da dichiarare.

93 Va nuovamente ribadito che, solo nell’accordo di adempimento collaborativo, le parti sono chiamate a convenire su specifiche interpretazioni, al fine di evitare, il più possibile, che la fattispecie tributaria, una volta realizzata e dichiarata, venga sottoposta al vaglio giurisdizionale.

94 Per un’analisi compiuta sull’indisponibilità del credito tributario si rinvia a RUSSO, Indi-sponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in Rass. trib., 2008, I, p. 595; LUPI-CROVATO, Conferme sull’indisponibilità del credito tributario come regola di contabilità pub-blica, in Dialoghi trib., 2008, I, p. 7; MOSCATELLI, La patologia delle definizioni consensuali delle imposte, in LA ROSA (a cura di), Autorità e consenso nel diritto tributario, Milano, 2007, p. 321; ID., Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, p. 121; VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, cit., p. 303; SELICATO, op. cit., p. 221; BATISTONI FERRARA, Accertamento con adesione, in Enc. dir., Agg., II, 1998, p. 22; AN-TONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, p. 27; REDI, Ap-punti sul principio di indisponibilità del credito tributario, in Dir. prat. trib., 1995, I, p. 407; PE-RUGGIA, Concordato fiscale e indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Dir. prat. trib., 1980, I, p. 921. Con riferimento alla manualistica, cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2017, p. 79; FALSITTA, Manuale di diritto tributario, cit., p. 298; RUSSO-FRANSONI-CASTALDI, Istituzioni di diritto tributario2, Milano, 2016, p. 18; DE MITA, Principi di diritto tributario6, VI, Milano, 2010, p. 31.

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6. Profili critici del modello

L’implementazione dell’adempimento collaborativo potrebbe essere inte-ressata da due criticità. Il primo riguarda l’applicazione dell’istituto della coo-perazione alle sole imprese di grandi dimensioni: ciò provocherebbe una di-sparità di trattamento nei confronti dei soggetti esclusi dal regime. Il secondo riguarda l’assenza di coordinamento tra l’Agenzia delle Entrate e le altre Am-ministrazioni Finanziarie, che non sono parte del procedimento di adempi-mento collaborativo, quali l’Agenzia delle dogane e la Guardia di finanza.

Nel dettaglio, con riferimento alla prima perplessità, qualora l’adempimento collaborativo venisse implementato, magari con successo, solo a favore delle imprese di grandi dimensioni, come previsto dalle attuali disposizioni, e non esteso ad altri contribuenti, l’istituto potrebbe essere percepito dai soggetti e-sclusi come il “salotto buono del fisco”

95. Sarebbe francamente inconcepibile un fisco a due facce. Ovvero, un fisco

dialogante con chi può permettersi di aderire al regime e un fisco ordinario per tutti gli altri soggetti non di grandi dimensioni

96. Ciò integrerebbe, come det-to, una disparità di trattamento, atteso che l’Amministrazione Finanziaria, tro-vandosi ad esercitare un potere di controllo in relazione a fattispecie identiche (ad esempio, controllo dei prezzi infragruppo), potrebbe riservare alle impre-se aderenti al regime un procedimento tributario sensibilmente collaborativo, che sarebbe invece precluso ai soggetti esclusi

97. L’altro profilo critico dell’attuazione della cooperative compliance è l’assen-

za di coordinamento tra l’Agenzia delle Entrate, unica amministrazione ad at-tuare il regime tramite l’Ufficio cooperative compliance

98, e la Guardia di finan-za e l’Agenzia delle dogane.

95 L’espressione è stata ripresa dall’articolo “Nessun salotto buono della fiscalità d’impresa”, in Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2016, a cura di Aldo Polito, Direttore Centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate. Ed invero, l’istituto della cooperative compliance riservato alle im-prese di grandi dimensioni apparirebbe una sorta di “club ristretto”, riservato a pochi fortuna-ti che potranno godere del privilegio di dialogare con l’Amministrazione Finanziaria.

96 Il tenore letterale del comma 4, art. 7, D.Lgs. n. 128/2015 fa capire che l’attuale assetto del regime rappresenta una prima applicazione, alla quale dovrebbe seguirne una seconda a cui potranno partecipare altre categorie di contribuenti.

97 Cfr. VILLATA-RAMAJOLI, op. cit., p. 542. Il vizio di disparità di trattamento ricorre al ve-rificarsi di due presupposti: la perfetta identità di situazioni soggettive ed oggettive e la ri-conducibilità dei due provvedimenti amministrativi nell’ambito di un potere discrezionale che consenta la scelta tra due misure entrambi conformi alla legge.

98 Cfr. punto 11, Provv. Ag. Entrate, 26 maggio 2017.

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Alessandro Tropea 815

In effetti, potrebbe non avere alcun senso logico per il contribuente im-plementare un oneroso sistema di autovalutazione dei rischi fiscali che sareb-be riconosciuto affidabile solo dall’Agenzia delle Entrate e non dalle altre au-torità di controllo. Per cui, non è escluso che una verifica tributaria condotta dalla Guardia di finanza presso un’impresa che aderisce al regime di adempi-mento collaborativo potrebbe compromettere il rapporto di fiducia e di colla-borazione che essa ha già maturato verso l’Agenzia delle Entrate, se l’autorità procedente dovesse agire fuori da un contesto collaborativo. Cioè, pur essen-dovi una differenza di attribuzioni tra le autorità, il contribuente che aderisce al regime, potrebbe trovarsi, da una parte, a dialogare con l’Agenzia delle Entrate e, dall’altra parte, a “difendersi” dall’operato della Guardia di finanza. Il rischio è concreto, visto che oltre l’80% degli accessi presso la sede dei contribuenti di grandi dimensioni vengono eseguiti dal Corpo della Guardia di finanza

99. Dunque, una corretta implementazione del regime richiederebbe un mag-

giore coordinamento delle operazioni di controllo tra tutte le autorità fiscali 100.

7. Notazioni conclusive

L’adempimento collaborativo, così come analizzato, è un vero e proprio istituto di cooperazione amministrativa tra fisco e contribuente. Il termine “istituto” è utilizzato proprio per rimarcare l’autonomia giuridico-funzionale del regime, sia per la completezza del quadro normativo di riferimento, sia per

99 Cfr. Rapporto OCSE 2015, Amministrazione fiscale italiana, p. 45. Dall’ultima rileva-zione condotta per l’anno 2013, su un totale di 39.408 accessi ispettivi, ben 34.294 sono stati eseguiti dalla Guardia di finanza, 3.749 dall’Agenzia delle Entrate e 1.365 dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli. Sostanzialmente, il Corpo della Guardia di finanza ha esegui-to circa l’87% di tutti gli accessi ispettivi operati dall’Amministrazione Finanziaria global-mente intesa.

100 Invero, la Guardia di finanza, per via del “Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali”, meglio noto come Circolare 27 novembre 2017, n. 1/2018, ha previsto che, nel corso delle attività ispettive, occorre garantire i diritti e le garanzie dei con-tribuenti sottoposti a controllo, consentendo loro una piena attuazione del contraddittorio e del diritto di accesso agli atti. Sicché, se dall’interlocuzione con il privato dovessero emergere nuovi elementi, non tenuti in considerazione durante l’originaria fase istruttoria, l’organo procedente deve revisionare l’indagine condotta e, in casi particolari, comunicare all’Agenzia delle Entrate l’esito della nuova indagine, mediante la trasmissione di un nuovo processo ver-bale di constatazione. In argomento, cfr. TORTORA, L’autotutela tributaria nella Circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza: nuove prospettive a favore del contri-buente, in Riv. guar. fin., 2018, p. 487.

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la previsione di specifici obblighi procedurali che l’ordinamento pone in capo alle parti.

L’aspetto peculiare della cooperative compliance è rappresentato dal fatto che, con un carattere più marcato rispetto al passato, l’Agenzia delle Entrate è chiamata a svolgere un ruolo di prim’ordine nell’attuazione del rapporto tri-butario, che consiste nell’accompagnare e guidare i contribuenti alla corretta autodeterminazione delle imposte.

Precisamente, tramite la “partecipazione” del contribuente a questo parti-colare procedimento di controllo, si attua un vero confronto tra fisco e imprese. Il momento di confronto, che sorge ed esaurisce i suoi effetti all’interno della fase istruttoria, si sostanzia nella possibilità del contribuente di conoscere qual è l’indirizzo interpretativo dell’Amministrazione Finanziaria in ordine a speci-fici presupposti non ancora dichiarati. Così operando, l’autorità tributaria non dovrebbe “correggere” l’operato del contribuente mediante una successiva azione repressiva di controllo, perché è stata anticipata temporalmente l’esa-mina dei casi dubbi che caratterizzano l’attività operativa del contribuente.

Come accennato, molti principi di carattere generale sono interessati dal-l’adempimento collaborativo. Per esempio, quando l’art. 5, D.Lgs. n. 128/2015 fa riferimento all’obbligo di leale cooperazione che deve muovere l’agire del-l’Amministrazione Finanziaria, ciò è una chiara attuazione dei principi di im-parzialità, buon andamento e trasparenza imposti dall’art. 97 Cost.

101. Nello stesso senso, quando l’art. 6 del decreto dispone che lo scopo dell’adempi-mento collaborativo è quello di creare un ambiente fiscale certo, si vuole dare piena applicazione al principio del legittimo affidamento stabilito dall’art. 10, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente

102. Inoltre, sia il richiamato

101 Per una ricostruzione esaustiva dei principi di collaborazione nel diritto tributario, cfr. TRIVELLIN, Il principio di buona fede nel rapporto tributario, Milano, 2009, p. 65; MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, p. 139; D’AYALA VALVA, Il principio di coopera-zione tra Amministrazione e contribuente. Il ruolo dello Statuto, in Riv. dir. trib., 2001, I, p. 669.

102 In tema di legittimo affidamento in ambito tributario, cfr. LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002, p. 219; ID., La tutela dell’affidamento e della buona fede del con-tribuente tra prospettiva comunitaria e nuova codificazione, in Boll. trib., 2003, p. 1125; DELLA VALLE, Affidamento e certezza del diritto, Milano, 2001, p. 114; MELONCELLI, Affidamento e buo-na fede nel rapporto tributario, in FANTOZZI-FEDELE (a cura di), op. cit., p. 531 ss.; MASTROIA-COVO, Il principio di buona fede e di legittimo affidamento, in FANTOZZI (a cura di), Diritto tribu-tario, 2012, p. 374; PERUZZA, Affidamento legittimo ed esigibilità del tributo, in Rass. trib., 2014, I, p. 273; VIOTTO, Tutela dell’affidamento, consulenza giuridica e interpello, in Riv. dir. trib., 2017, I, p. 881 ss. Da ultimo, per una compiuta ricostruzione giurisprudenziale dell’argomento, cfr. SARTORI, Il principio di buona fede e collaborazione nello Statuto dei diritti del contribuente, cit., p. 763.

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Alessandro Tropea 817

D.Lgs. n. 128/2015, che i vari documenti di prassi che sono seguiti ricorrono spesso al tema della “proporzionalità” dell’agire dell’Amministrazione Finan-ziaria, della “certezza del rapporto d’imposta”, dell’obbligo di “informazione” reciproco delle parti

103; tutti principi, questi, fortemente invocati dai contri-buenti

104. Dunque, l’attuazione di tale cooperazione dovrebbe dare sostanza e signi-

ficato a tali postulati, affinché si possano veramente realizzare gli obiettivi di riduzione dell’evasione, per mezzo dell’adempimento spontaneo del contri-buente, e la contestuale riduzione del contenzioso tributario.

Il risultato che si spera l’adempimento collaborativo consegua è quello di modificare, rispetto al passato, le tecniche di contrasto dell’evasione fiscale strutturata delle grandi imprese del settore tecnologico, del web, della finanza, che, per via delle loro rilevanti dimensioni economiche, spesso si sono collo-cate al di fuori degli usuali rapporti fisco-contribuente

105, con grave rischio per l’Amministrazione Finanziaria di non intercettare il reale reddito prodotto

106. Una seria cooperazione tra l’Amministrazione Finanziaria e questa tipologia di grandi contribuenti pare essere il primo banco di prova della cooperative compliance.

103 Cfr. punto 2.2, Provv. Ag. Entrate, 26 maggio 2017. 104 Cfr. PIERRO, Il dovere di informazione dell’amministrazione finanziaria, Torino, 2013, p.

37; CIMINO, L’avviso di accertamento emanato prima della scadenza del termine previsto per il contraddittorio anticipato: tra nullità ed inesistenza giuridica, in Dir. prat. trib., 2009, II, p. 463; SUSANNA, Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, in FANTOZZI-FEDELE (a cura di), op. cit., p. 648; FERLAZZO NATOLI-ROMEO, La tutela del contribuente ex art. 12 del-la legge 212/2000, in Boll. trib., 2002, p. 1045.

105 Così FREGNI, Mercato unico digitale e tassazione: misure attuali e progetti di riforma, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2017, I, p. 52. L’autore mette in evidenza le criticità dell’attuale sistema tribu-tario nel contrastare le pratiche abusive delle imprese di grandi dimensioni, operanti nel set-tore del web, della logistica e mondo digitale in generale.

106 Le criticità dei sistemi tributari degli Stati nel far emergere la ricchezza delle grandi im-prese globali, opportunamente definite dalla dottrina “Repubbliche digitali”, sono state com-piutamente osservate da TREMONTI, Il futuro del fisco, in GALGANO-CASSESE-TREMONTI-TREU (a cura di), Nazioni senza Ricchezza. Ricchezza senza Nazioni, Bologna, 1993, p. 49 ss.; ID., Bugie e verità. Le ragioni dei popoli, Milano, 2014, p. 12; CIPOLLINA, I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, I, p. 22 ss. Da ul-timo, PIERRO, Il dovere fiscale e lo scambio di informazioni, cit., p. 451 ss.

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Antonio Viotto

RECENTI MODIFICHE NORMATIVE IN TEMA DI ACCERTAMENTI BANCARI: TRA TUTELA DEL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA ED INTERESSE GENERALE ALLA

REPRESSIONE DELL’EVASIONE

RECENT REGULATORY CHANGES IN BANKING INSPECTIONS: BETWEEN THE SAFEGUARD OF THE RIGHT TO

CONFIDENTIALITY AND THE GENERAL INTEREST TO COMBAT TAX EVASION

Abstract Le modifiche recentemente apportate all’art. 32, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, in sede di conversione del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, non sembrano incidere sull’anno-sa questione della natura, presuntiva o meno, delle disposizioni riguardanti i ver-samenti bancari, mentre recano elementi per una rilettura delle disposizioni con-cernenti i prelevamenti. A tale proposito, la differenza che si è creata tra i titolari di reddito d’impresa e i titolari di reddito di lavoro autonomo solleva più di una per-plessità in termini di ragionevolezza della (asserita) presunzione legale. Si tratta di elementi che conducono a ritenere preferibile l’abrogazione dell’intera disposizio-ne contenuta nell’art. 32, n. 2 o, perlomeno, la previsione di limiti quantitativi maggiormente significativi, che permettano di selezionare, ai fini della norma in questione, soltanto quelle situazioni veramente patologiche che giustificherebbero la compressione del diritto alla riservatezza delle persone. Parole chiave: indagini bancarie, presunzione legale, versamenti e prelevamenti bancari, reddito d’impresa, reddito di lavoro autonomo The recent revision of art. 32, n. 2), Presidential Decree n. 600/1973, introduced by the ratification of Law Decree no. 193 of 22 October 2016, does not affect the uncertain na-ture, presumptive or not, of statutory provisions concerning bank payments, but it im-pacts on those regarding bank withdrawals. In this respect, the different treatment bet-ween taxpayers with business income and those with self-employed income raises serious doubts about the rationality of this (hypothesised) legal presumption. On this basis, it

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may be considered more reasonable the complete abrogation of the provision of art. 32, n. 2 or, at least, the introduction of more significant quantitative limits aimed at selecting, for the purposes of the abovementioned rule, only those really pathological sit-uations that justify a restriction of taxpayers’ confidentiality rights. Keywords: banking inspections, legal presumption, bank payments and withdrawals, business income, self-employed income

SOMMARIO: 1. Indagini bancarie e tutela del diritto alla riservatezza. Effetti indirettamente positivi prodotti dalla recente novella normativa. – 2. Sulla natura, presuntiva o meno, delle disposizioni concer-nenti la rilevanza a fini accertativi dei versamenti bancari. – 3. Sulla natura delle disposizioni con-cernenti la rilevanza a fini accertativi dei prelevamenti bancari. – 4. Critiche alle tesi che attribui-scono natura presuntiva alle disposizioni concernenti la rilevanza a fini accertativi dei prelevamenti bancari. – 5. Critiche alla ragionevolezza della differenza tra titolari di reddito d’impresa e titolari di reddito di lavoro autonomo, in punto di rilevanza a fini accertativi dei prelevamenti bancari. – 6. Impatto della novella normativa sulla ricostruzione della portata e della natura della disposi-zione concernente i prelevamenti bancari.

1. Indagini bancarie e tutela del diritto alla riservatezza. Effetti indirettamente positivi prodotti dalla recente novella normativa

Gli accertamenti bancari – emessi sulla scorta di quanto disposto dagli artt. 32, n. 2, D.P.R. n. 600/1973 e 51, n. 2, D.P.R. n. 633/1972 – costituiscono ancora oggi – a distanza di 25 anni dall’intervento legislativo realizzato con la L. n. 413/1991, che ha eliminato molte delle condizioni per l’accesso da parte dell’Amministrazione Finanziaria ai dati bancari

1 – oggetto di numerose con-troversie.

1 Giova infatti ricordare che, fino all’entrata in vigore della L. n. 413/1991, l’acquisizione dei dati bancari era subordinata al verificarsi di condizioni di ordine procedimentale e sostan-ziale, vale a dire, da una parte, il conforme parere dell’Ispettorato compartimentale delle im-poste dirette e la previa autorizzazione del presidente della Commissione tributaria; dall’al-tra, l’omessa presentazione della dichiarazione, accompagnata dall’esistenza di elementi certi da cui risultasse il conseguimento di ricavi per più di cento milioni di lire ovvero l’acquisto di beni di cui all’art. 2, comma 2, D.P.R. n. 600/1973, per un più di 25 milioni di lire; ovvero, il possesso di «elementi certi» (che la dottrina faceva coincidere con le «prove documenta-li»: cfr. BOSELLO, Le deroghe al segreto bancario nei rapporti tributari, in Giur. imp., 1982, pp. 907-909; CIMINIELLO, La deroga al segreto bancario, in Dir. prat. trib., 1980, I, pp. 1161-1162;

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Antonio Viotto 821

Del resto, nel corso degli anni, il legislatore ha sempre più potenziato l’effi-cacia e l’intrusività dei poteri di indagine dell’Amministrazione rispetto ai dati bancari e, più in generale, alle operazioni poste in essere con tutti gli interme-diari finanziari

2, arrivando ad imporre a costoro degli obblighi di automatica e periodica comunicazione di molteplici informazioni concernenti tutti i rapporti intrattenuti con i propri clienti

3.

o, quanto meno, con presunzioni gravi, precise e concordanti: v. TRIMELONI, Le deroghe tri-butarie al segreto bancario, Milano, 1983, pp. 119-120) da cui risultasse il conseguimento di ricavi per un importo superiore al quadruplo di quelli dichiarati, purché la differenza fosse su-periore a cento milioni di lire; ovvero, infine, l’omessa tenuta delle scritture contabili per tre periodi d’imposta consecutivi.

2 Giova in proposito precisare che, anche se per mera comodità espositiva farò riferimen-to ai dati rilevati sui conti correnti bancari, l’ambito di applicazione della disposizione conte-nuta nell’art. 32, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, e nell’art. 51, n. 2, D.P.R. n. 633/1972, è ben più ampio, giacché, per effetto del rinvio al n. 7, esso comprende le movimentazioni di «qualsia-si rapporto od operazione effettuata» con banche, Poste italiane Spa, per le attività finanzia-rie e creditizie, società ed enti di assicurazione per le attività finanziarie, intermediari finan-ziari, imprese di investimento, organismi di investimento collettivo del risparmio, società di gestione del risparmio e società fiduciarie.

3 Dapprima, con l’art. 20, comma 2, L. 30 dicembre 1991, n. 413, il legislatore ha inserito nell’art. 7, D.P.R. n. 605/1973 il comma 6, in base al quale, come in seguito sostituito ad opera dell’art. 1, comma 332, L. 30 dicembre 2004, n. 311, «Le banche, la società Poste ita-liane Spa, gli intermediari finanziari, le imprese di investimento, gli organismi di investimen-to collettivo del risparmio, le società di gestione del risparmio, nonché ogni altro operatore fi-nanziario, fatto salvo quanto disposto dal secondo comma dell’art. 6 per i soggetti non residen-ti, sono tenuti a rilevare e a tenere in evidenza i dati identificativi, compreso il codice fiscale, di ogni soggetto che intrattenga con loro qualsiasi rapporto o effettui, per conto proprio ov-vero per conto o a nome di terzi, qualsiasi operazione di natura finanziaria». Successivamente tale comma è stato modificato ad opera dell’art. 2, comma 14, D.L. 30 settembre 2005, n. 203, il quale ha previsto l’esclusione dall’obbligo di rilevazione delle operazioni finanziarie «effet-tuate mediante versamento in conto corrente postale per un importo unitario inferiore a 1.500 euro». In seguito, con l’art. 37, comma 4, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 e con l’art. 63, D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231, in chiusura dell’art. 7, comma 6, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 605, è stato previsto che: «l’esistenza dei rapporti e l’esistenza di qualsiasi operazione di cui al prece-dente periodo, compiuta al di fuori di un rapporto continuativo, nonché la natura degli stessi sono comunicate all’anagrafe tributaria, ed archiviate in apposita sezione, con l’indicazione dei dati anagrafici dei titolari e dei soggetti che intrattengono con gli operatori finanziari qualsia-si rapporto o effettuano operazioni al di fuori di un rapporto continuativo per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, compreso il codice fiscale». Con Provv. 19 gennaio 2007, integrato dal Provv. 29 febbraio 2008, con Provv. 20 dicembre 2010 e Provv. 25 marzo 2013, entrambi successivamente integrati dal Provv. 10 febbraio 2015, e Provv. 29 dicembre 2011 sono stati definiti le modalità e i termini di comunicazione dei dati all’Anagrafe tributaria da parte degli operatori finanziari di cui all’art. 7, comma 6, D.P.R. n. 605/1973. La presente di-sciplina è stata integrata ad opera dell’art. 10, comma 10, D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, del-

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 822

Parallelamente, sono state rese più efficienti le modalità di acquisizione dei dati attraverso l’informatizzazione del flusso delle richieste e delle risposte tra gli intermediari finanziari e l’Amministrazione

4. Sicché, allo stato attuale, si può tranquillamente affermare che, non solo

non esiste alcun segreto bancario opponibile all’Amministrazione Finanziaria, ma che si sia giunti ad una situazione di assoluta trasparenza dei dati bancari rispetto al fisco, tale per cui l’Amministrazione conosce pressoché in tempo reale la localizzazione e la consistenza delle disponibilità finanziarie di ogni contribuente ed è in grado di ottenere con estrema rapidità e semplicità i dati di dettaglio relativi alle singole movimentazioni dallo stesso effettuate.

È evidente che ci troviamo di fronte ad un apparato investigativo estre-mamente penetrante che, ancorché giustificato dall’esigenza di contrastare la dilagante evasione tributaria, nel contempo determina una compressione del-la sfera della riservatezza così accentuata da rendere improrogabile una più critica riflessione circa l’adeguatezza e la proporzionalità di certe misure

5. Il punto di partenza può essere rappresentato dalla considerazione genera-

le che il diritto alla riservatezza dei dati e delle informazioni concernenti la persona si ritiene trovi un proprio referente nell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

6, nonché, se- l’art. 11, comma 4, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 e, da ultimo, dell’art. 1, comma 314, L. 23 dicembre 2014, n. 190.

4 V. Provv. 22 dicembre 2005, intitolato “Disposizioni attuative dell’articolo 32, terzo com-ma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’articolo 51, quarto comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, relative alle modalità di trasmissione telematica delle richieste e delle risposte, non-ché dei dati, notizie e documenti in esse contenuti”, il quale ha stabilito che «A decorrere dal 1° marzo 2006, le richieste e le risposte, previste dall’art. 32, terzo comma, del decreto del Pre-sidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e dall’art. 51, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, sono effettuate, rispettivamente da-gli organi preposti al controllo e dagli operatori finanziari, indicati nell’art. 32, primo comma, numero 7), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e nell’art. 51, secondo comma, numero 7), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, esclusivamente in via telematica».

5 Sul punto v. VANZ, I poteri conoscitivi e di controllo dell’Amministrazione finanziaria, Pa-dova, 2012, pp. 41-42, il quale rileva come la trasmissione di dati e notizie all’Amministrazio-ne Finanziaria, tra i quali rientrano, ad esempio, le comunicazioni degli operatori finanziari all’anagrafe tributaria, solleva una serie di problematiche «a cominciare dalla tutela della pri-vacy dei soggetti ai quali i dati e le notizie si riferiscono».

6 A mente del quale «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e fami-liare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla leg-ge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazio-

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condo taluni, nell’art. 2 Cost., quale diritto inderogabile dell’uomo, pur non espressamente nominato, consistente nel potere di escludere intrusioni di ter-zi in quella sfera di riservatezza che viene comunemente denominata privacy e che si è più di recente evoluto sino al potere di controllo sulla circolazione delle informazioni personali

7. In effetti, mi pare che siano maturi i tempi per consi-derare detti elementi – che possono riguardare anche la sfera più intima delle persone, quali le inclinazioni sessuali, lo stato di salute, gli orientamenti poli-tici e le credenze religiose – come parte integrante del “patrimonio personale” degli individui, da tutelare da indebite intromissioni di terzi, siano essi privati o soggetti pubblici

8. Ebbene, in questa prospettiva, mi sembra che meriterebbe di essere ricon-

siderata l’esclusione da quest’area di riservatezza dei dati bancari, i quali con-sistono sì in informazioni di carattere economico e patrimoniale, ma che pos-sono in realtà rappresentare la manifestazione monetaria di operazioni in grado di disvelare gusti, abitudini, inclinazioni delle persone, le quali operazioni ven-gono registrate dalle banche e abbinate ai valori economici

9. Sicché, l’accesso ai nale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». Nello stesso senso v. altresì l’art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, la quale solennemente riconosce che «Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze ar-bitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dal-la legge contro tali interferenze o lesioni».

7 Cfr. PATRONO, (voce) Privacy, in Enc. dir., XXXV, 1986, p. 575 s.; CERRI, Riservatezza (di-ritto alla), III, Diritto costituzionale, in Enc. giur., XXVII, 1995, part. p. 3; ATELLI, Riservatezza (diritto alla), III, Diritto costituzionale, postilla di aggiornamento, in Enc. giur., 2001, p. 1-2.

8 Spunti in tal senso mi sembra possano rinvenirsi anche nel Parere del Garante della Pri-vacy 21 novembre 2013, n. 2765110, in materia di redditometro, laddove si riconosce che an-che la circostanza di dover discutere con l’Agenzia delle Entrate di voci di spesa che riguar-dano «ogni aspetto della vita quotidiana» espone il contribuente «a una forte invasione della propria sfera privata, trovandosi lo stesso a dover giustificare di aver o, soprattutto, non aver sostenuto certe tipologie di spesa, anche relative alle sfere più intime della personalità (cfr. ad esempio, tempo libero, istruzione dei figli, ecc.) e a portare a conoscenza nel dettaglio il fun-zionario dell’Agenzia del proprio stile di vita» (v. par. G2 del parere). In proposito, v. anche VANZ, op. cit., p. 44.

9 Tali profili sono sfuggiti alla Corte costituzionale nella sent. 18 febbraio 1992, n. 51, nella quale la Corte si è soffermata sul contenuto della direttiva contenuta nell’art. 10, n. 12, L. n. 825/1971 (in forza del quale era prevista «l’introduzione, limitata a ipotesi di particolare gravità, di deroghe al segreto bancario nei rapporti con l’Amministrazione Finanziaria, tassati-vamente determinate nel contenuto e nei presupposti»), evidenziando che essa «vincola il le-gislatore delegato a conformare i rapporti tra le imprese bancarie e i poteri di accertamento

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dati bancari non può dirsi limitato alle rappresentazioni monetarie, ma è ne-cessariamente esteso alle causali delle stesse

10, le quali portano ad individuare i comportamenti tenuti dai clienti delle banche da cui è possibile ottenere in-formazioni su quei profili che attengono all’area di riservatezza sopra in-dividuata come oggetto di tutela da parte della Costituzione

11. Il che non significa, necessariamente, che debba trovare applicazione il pa-

radigma di garanzia proprio dei diritti di libertà personale, domiciliare e di corrispondenza

12, ma significa che, de iure condito, quanto meno, si riconosca che l’accesso ai dati bancari debba avvenire nel rispetto delle prescrizioni di legge e che la violazione di dette disposizioni si risolve nella violazione di un diritto della persona – il diritto alla riservatezza – che non ha un contenuto me-ramente patrimoniale e che è assistito da una copertura costituzionale in ra-gione dei valori umani della persona da tutelare

13. propri dell’amministrazione tributaria in modo che quest’ultima possa accedere ai dati relati-vi alle operazioni o ai patrimoni dei singoli clienti, tenuti riservati dalle banche, purché si tratti di ipotesi e di modalità prestabilite dalla legge. Infatti, poiché in via di principio nessun docu-mento o nessun dato, relativo agli utenti dei servizi bancari e detenuto confidenzialmente dalle banche, può essere sottratto ai poteri di accertamento degli uffici tributari, il significato sostan-ziale della norma di delega ora esaminata è quello di sottoporre tali poteri al principio di legali-tà, di modo che questi ultimi non possano essere svolti arbitrariamente e indiscriminatamente».

10 Ciò vale tanto più se si considera che, come approfondiremo nel prosieguo, per giuri-sprudenza oramai costante, le movimentazioni bancarie rappresentano, per presunzione re-lativa, componenti positivi di reddito, presunzione che il contribuente può superare dimo-strando, per l’appunto, quale sia la natura e la causale dei pagamenti ricevuti e di quelli effet-tuati tramite i conti bancari.

11 Si pensi, solo per fare degli esempi, alle spese mediche, alle erogazioni a circoli o asso-ciazioni chiaramente caratterizzati dal punto di vista sessuale o religioso o politico, come pu-re alle dazioni interpersonali denotanti l’esistenza di legami extraconiugali, ecc. Ebbene, mi chiedo se sia possibile escludere dall’area della riservatezza della persona l’informazione con-cernente l’effettuazione di una visita specialistica (informazione che si può agevolmente ritrarre dal pagamento ad un certo medico), ovvero quella concernente una certa preferenza sessua-le (informazione che pure si può agevolmente desumere dal pagamento a determinate asso-ciazioni o circoli) ovvero quella concernente l’esistenza di un rapporto extraconiugale (in-formazione che si può agevolmente desumere da una o più erogazioni effettuate a favore di una persona diversa dal coniuge).

12 Paradigma che – come ho già avuto occasione di evidenziare (v. VIOTTO, I poteri di in-dagine dell’Amministrazione finanziaria, Milano, 2002, p. 87 s.) – si articola nella c.d. riserva di legge («casi e modi previsti dalla legge») e nella c.d. riserva di giurisdizione («atto moti-vato dell’autorità giudiziaria»).

13 In quest’ottica, mi sembra allora che possa connotarsi in chiave garantistica la procedura fissata dal legislatore tributario per l’accesso ai dati bancari, la quale tuttora prevede una «pre-via autorizzazione», che deve essere rilasciata da un soggetto gerarchicamente sovraordinato rispetto al soggetto agente (v. art. 32, n. 7, D.P.R. n. 600/1973, e art. 51, n. 7, D.P.R. n.

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De iure condendo, invece, il riconoscimento di una rilevanza costituzionale alla riservatezza dei dati personali, in generale, e bancari, in particolare, do-vrebbe tradursi in una limitazione delle attività di “schedatura” di massa, per lo meno con riferimento alle informazioni che gli intermediari finanziari sono ob-bligati a trasmettere periodicamente all’Anagrafe tributaria, oltre ai dati iden-tificativi dei clienti

14. 633/1972), anche dopo le modifiche di recente introdotte, le quali hanno reso più agevole l’ac-quisizione dei dati bancari da parte dell’Amministrazione Finanziaria. Vero è che la disposi-zione potrebbe trovare una sua giustificazione in esigenze interne all’Amministrazione, legate alla necessità di rispettare i canoni dell’imparzialità e dell’efficienza dell’azione (come segna-la PORCARO, Profili ricostruttivi del fenomeno della (in)utilizzabilità degli elementi probatori il-legittimamente raccolti. La rilevanza anche tributaria delle (sole) prove «incostituzionali», in Dir. prat. trib., 2005, I, pp. 35-36), ma vero è, altresì, che, in assenza di indicazioni normative contrarie, non si può escludere che la stessa possa essere stata ispirata anche dall’opportunità di contemperare le esigenze delle indagini e del contrasto all’evasione con la tutela della riserva-tezza, in ragione della maggiore delicatezza o sensibilità delle informazioni racchiuse nei dati bancari (sul carattere garantistico dell’autorizzazione in questione v. VANZ, op. cit., p. 145 s.). Non è un caso, del resto, che, nonostante il flusso delle informazioni dagli intermediari finan-ziari sia diventato molto più fluido ed automatico (grazie alle modifiche normative sopra men-zionate che hanno reso sempre più semplice l’accesso dell’Amministrazione ai dati bancari) e si sia, pertanto, sensibilmente ridotto l’impegno di energie necessario per l’acquisizione dei da-ti bancari, il fatto che il legislatore abbia mantenuto fermo il requisito della previa autorizzazio-ne mi sembra rappresenti una conferma indiretta del fatto che tale adempimento risponda ad esigenze che vanno al di là delle ragioni di efficienza dell’azione amministrativa e che risentono della particolare sensibilità dei dati e delle informazioni connessi alle operazioni che transitano per i conti bancari dei contribuenti. Da questo punto di vista, ritengo che sia criticabile la con-clusione cui perviene quella giurisprudenza (v. Cass., sent. 4 marzo 2015, n. 4314, con nota critica di MICELI, Ingiustificata deviazione delle indagini finanziarie dai principi dell’istruttoria tributaria, in Giur. trib., 2015, p. 698 s.; nonché Cass., sent. 29 maggio 2013, n. 13319, con nota critica di VIOTTO, Le violazioni commesse nel corso dell’attività d’indagine tra inutilizzabi-lità delle prove illegittimamente acquisite e principio di conservazione degli atti amministrativi, in Riv. dir. trib., 2014, II, p. 7 s.; Cass., sent. n. 4987/2003; sent. 19 febbraio 2009, n. 4001) che annovera l’autorizzazione de qua tra gli atti meramente interni, i cui effetti sarebbero limitati alla Pubblica Amministrazione, e che relega la mancanza dell’autorizzazione tra le carenze me-ramente formali o, comunque, sanabili a posteriori: si tratta, invero, di una posizione che non sembra tenere in considerazione la rilevanza delle posizioni giuridiche del contribuente lese per effetto dell’acquisizione dei dati bancari in assenza della prescritta «previa» autorizzazione e le implicazioni derivanti da siffatta lesione. Rilevo, comunque, che la stessa Corte ha avuto modo di riconoscere che la legge «subordina la legittimità delle indagini bancarie e delle relative risul-tanze all’esistenza dell’autorizzazione» (v. sent. 15 giugno 2007, n. 14023), e successivamente, ha confermato che la «mancanza materiale» dell’autorizzazione alla richiesta dei dati banca-ri costituisce «vizio inficiante l’avviso di accertamento», pur circoscrivendo tale effetto al caso in cui detta mancanza «si traduce in un “concreto” (ovverosia certo ed effettivo) “pregiudizio per il contribuente”» (v. sent. 21 luglio 2009, n. 16874).

14 Giova infatti rammentare che, in forza di quanto stabilisce l’art. 11, comma 2, D.L. 6

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Ma soprattutto, la presa di coscienza della “sensibilità” dei dati bancari do-vrebbe condurre ad una radicale modifica delle modalità di approccio a tali dati in sede di accertamento, con l’uscita dalla logica inquisitoria che è alla ba-se della prassi che considera le operazioni finanziarie come sinonimo di eva-sione, fino a prova contraria, da parte del contribuente.

Prassi che può essere tollerata quando viene adottata con riguardo ai conti che rientrano nel perimetro della contabilità ordinaria del contribuente, le cui movimentazioni dovrebbero trovare riscontro nelle rilevazioni contabili, per cui è ragionevole che sia il contribuente a dover giustificare eventuali discre-panze, ma che non può essere accettata ogniqualvolta viene utilizzata con rife-rimento ai conti personali, nei quali transitano le operazioni attinenti alla vita quotidiana degli individui.

Da questo punto di vista, devono essere salutate con favore le novelle da ultimo apportate all’art. 32, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, in sede di conversione del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, ad opera della L. 1° dicembre 2016, n. 225, la quale ha espunto dal testo della disposizione le parole «o compensi» e ha in-serito, dopo le parole «rapporti od operazioni», la proposizione «per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili»

15. Entrambe le modifiche si muovono nella direzione di limitare l’ambito di

applicazione della norma che concerne i prelevamenti 16: la prima, attraverso il

testuale recepimento della sentenza della Corte cost., 6 ottobre 2014, n. 228, dicembre 2011, n. 201, gli intermediari finanziari sono obbligati a trasmettere «periodica-mente all’anagrafe tributaria le movimentazioni che hanno interessato i rapporti di cui all’ar-ticolo 7, sesto comma, del decreto del presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605, ed ogni informazione relativa ai predetti rapporti necessaria ai fini dei controlli fiscali, nonché l’importo delle operazioni finanziarie indicate nella predetta disposizione». Inoltre, le informazioni da trasmettere sono state individuate con Provv. 25 marzo 2013 e riguarda-no: «a) i dati identificativi del rapporto, compreso il codice univoco del rapporto, riferito al soggetto persona fisica o non fisica che ne ha la disponibilità, inclusi procuratori e delegati, e a tutti i cointestatari del rapporto, nel caso di intestazione a più soggetti; b) i dati relativi ai saldi del rapporto, distinti in saldo iniziale al 1° gennaio e saldo finale al 31 dicembre, dell’an-no cui è riferita la comunicazione; c) per i rapporti accesi nel corso dell’anno il saldo iniziale alla data di apertura, per i rapporti chiusi nel corso dell’anno il saldo contabilizzato antece-dente la data di chiusura; d) i dati relativi agli importi totali delle movimentazioni distinte tra dare ed avere per ogni tipologia di rapporto come indicato nella tabella allegato 1, conteggia-ti su base annua».

15 V. art. 7 quater, comma 1, del menzionato D.L. n. 193/2016. 16 Quella secondo la quale, come noto, «alle stesse condizioni sono altresì posti … a base

delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficia-rio e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni …».

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Antonio Viotto 827

la quale aveva dichiarato l’illegittimità della disposizione nella parte in cui sta-biliva che i prelevamenti dai conti bancari potessero essere «posti come … compensi a base» degli accertamenti nei confronti dei professionisti e, più in generale, dei soggetti titolari di reddito di lavoro autonomo

17; la seconda, at-traverso la limitazione dell’ambito di applicazione della disposizione secondo cui i prelevamenti sono «posti come ricavi a base» degli accertamenti nei confronti dei titolari di redditi d’impresa, alle sole operazioni di prelevamento che eccedono determinati importi che il legislatore ha verosimilmente consi-derato irrilevanti ai fini della ricostruzione del reddito

18, a prescindere dalla circostanza che il contribuente non ne indichi il beneficiario e ancorché le stes-se non risultino dalle scritture contabili.

Sicché, con le puntualizzazioni che farò nel prosieguo, l’effetto delle modi-fiche è di circoscrivere l’ambito di applicazione della suddetta prassi, con rife-rimento ai movimenti in uscita, sterilizzandola del tutto nei riguardi di una ca-tegoria di contribuenti, e limitandola alle operazioni quantitativamente più rilevanti, nei riguardi dell’altra.

2. Sulla natura, presuntiva o meno, delle disposizioni concernenti la rilevanza a fini accertativi dei versamenti bancari

Tuttavia, la novella non sembra incidere sul tema che maggiormente oc-cupa, sia a livello giurisprudenziale, sia a livello dottrinale, vale a dire quello che concerne la natura, presuntiva o meno, delle disposizioni contenute nei nn. 2 dei richiamati artt. 32 e 51.

È noto che, col tempo, dopo alcune pronunce meno “assiomatiche” 19, si è

17 Si tratta, in sostanza, della disposizione introdotta dall’art. 1, comma 402, lett. a), n. 1, L. n. 311/2004, con la quale il legislatore aveva inteso equiparare sul piano accertativo – ed in particolare, rispetto alla questione della rilevanza a fini ricostruttivi dei prelevamenti ban-cari – la posizione dei lavoratori autonomi a quella degli imprenditori commerciali.

18 Quanto meno nell’ottica dell’art. 32, D.P.R. n. 600/1973. 19 In un primo momento, infatti, la Corte di Cassazione si era espressa in termini di «pre-

sunzione legale», pur senza ravvisare l’esistenza di un qualche automatismo che consentisse di passare de plano dai dati bancari non giustificati ai ricavi e ai corrispettivi non dichiarati: nella sent. 28 luglio 2000, n. 9946, la Corte aveva ritenuto che il «presupposto» della presunzione sarebbe stato individuato dal legislatore nel «rinvenimento di dati emergenti da conti bancari non transitati nelle scritture» e che l’«effetto» della presunzione medesima sarebbe consistito nella «utilizzabilità dei dati ai fini della ricostruzione della base imponibile», mentre nessun accenno veniva fatto dai giudici alla circostanza che il suddetto presupposto consentisse di risa-

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andato consolidando un indirizzo giurisprudenziale di legittimità che ravvisa nelle menzionate disposizioni l’esistenza di presunzioni legali relative, tali per cui i movimenti bancari non giustificati si considerano alla stregua di ricavi (e di redditi) non dichiarati

20. Ed anche la Corte costituzionale ha avuto modo di condividere tale assun-

to allorquando è stata chiamata a giudicare della costituzionalità della disposi-zione concernente i prelevamenti, la quale consentirebbe di presumere che quelli non risultanti dalle scritture contabili siano da considerare, a fini accer-tativi, come ricavi non dichiarati, sempreché il contribuente non ne indichi i beneficiari

21. Senonché, come ho già altrove segnalato

22, diversi sono gli argomenti che si dovrebbero contrastare sul piano interpretativo per dimostrare la fondatez-za di quella che allo stato rimane una mera asserzione – che forse poteva ap-parire ragionevole nel contesto normativo precedente l’entrata in vigore della L. n. 413/1991

23 – circa l’esistenza di una presunzione legale che consenti-rebbe di considerare in via automatica i movimenti bancari non giustificati al-la stregua di redditi non dichiarati

24.

lire al fatto ignoto rappresentato dai ricavi e dai corrispettivi non annotati, quasi a voler dire che il meccanismo, definito presuntivo, si fermasse ad un momento anteriore a quello dell’at-tribuzione di una rilevanza in termini reddituali alle movimentazioni bancarie.

20 V., tra le altre, sent. 9 settembre 2005, n. 18016; sent. 28 settembre 2005, n. 19003; sent. 12 maggio 2008, n. 11750; sent. 5 febbraio 2009, n. 2752; sent. 30 novembre 2009, n. 25142; sent. 22 ottobre 2010, n. 21695; nonché, da ultimo, sent. 25 febbraio 2015, n. 3777; sent. 6 marzo 2015, n. 4585; sent. 5 maggio 2016, n. 9078; sent. 9 agosto 2016, n. 16697; sent. 31 gennaio 2017, n. 2432; sent. 22 marzo 2017, n. 7259.

21 V. sent. 8 giugno 2005, n. 225 e successivamente sent. n. 228/2014, su cui torneremo nel prosieguo del presente lavoro. In precedenza, pur senza offrire motivazioni particolari, la natura presuntiva della disposizione era stata affermata dalla stessa Corte, ord. 6 luglio 2000, n. 260, laddove si riteneva che le disposizioni recate dall’art. 51, comma 2, n. 2, D.P.R. n. 633/1972 «stabiliscono una presunzione solo relativa di imponibilità delle operazioni risul-tanti dai conti, suscettibile di essere vinta dalla dimostrazione, da parte del contribuente, che di dette risultanze si è tenuto conto nelle dichiarazioni o che esse non si riferiscono ad opera-zioni imponibili» e che – invero piuttosto sbrigativamente – «il valore presuntivo assegnato dalla legge alle risultanze dei conti, con presunzione sempre suscettibile di prova contraria, si fonda ragionevolmente sul carattere oggettivo di dette risultanze, relative a rapporti facenti capo al contribuente».

22 V. VIOTTO, I poteri di indagine dell’Amministrazione finanziaria, cit., p. 218 s. 23 In cui, come detto, l’accesso ai dati bancari era subordinato alla disponibilità da parte

dell’ufficio di elementi da cui già risultassero gravi violazioni commesse dal contribuente. 24 Sul punto v., sia pure in termini critici, senza pretesa di esaustività, FICARI, Spunti in mate-

ria di documentazione bancarie ed accertamento dei redditi tra evoluzione normativa e dibattito

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Antonio Viotto 829

Sotto il profilo letterale, anzitutto, è significativo che la norma utilizzi sem-pre l’espressione «sono posti a base» e non le diverse formulazioni «si pre-sumono» o «si considerano» che normalmente vengono usate per designare presunzioni o finzioni o altri automatismi normativi. Sotto il profilo sistemati-co, poi, non si può trascurare che la disposizione si riferisce alle verifiche ed agli accertamenti «previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41», il che sembra sottende-re la volontà di inquadrare l’utilizzo consentito dei dati bancari nell’ambito delle regole che disciplinano le diverse metodologie accertative e nel rispetto dei presupposti previsti per l’applicazione di ciascuna di esse

25. Inoltre, anche senza considerare per il momento la norma sui prelevamen-

ti 26, si può ragionevolmente dubitare della verosimiglianza dell’assunto secon-

do cui i versamenti di cui il contribuente non riesca a dimostrare la provenien-za si possano considerare automaticamente come redditi non dichiarati. Di-verse sono infatti le situazioni che si possono verificare e che rendono assai variegato il quadro fattuale su cui la disposizione va ad innestarsi, determinando un deficit in termini di rispondenza all’id quod plerumque accidit del passaggio logico che dovrebbe consentire di approdare all’imponibile non dichiarato muo-vendo dal versamento non giustificato. Ciò sia perché la norma, non distin- giurisprudenziale, in Riv. dir. trib., 1995, I, p. 932 s.; AMATUCCI, Le indagini bancarie nella de-terminazione del maggior reddito tassabile, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 1022 s.; CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 285; SCHIAVOLIN, Appunti sulla nuova disciplina delle indagini bancarie, in Riv. dir. trib., 1992, I, p. 40; SCHIAVOLIN, Segreto bancario (dir. trib.), in Enc. giur., XXVIII, 1992, p. 4; TINELLI, Presunzioni, II, Diritto Tributario, in Enc. giur., Agg. 2009, p. 2; D’AYALA VALVA, Dubbi di costituzionalità del «prelevometro», in Giur. trib., 2013, p. 700; CONSOLO, Segreto bancario e sua permeabilità al fisco: recenti evoluzioni nor-mative, in Boll. trib., 1992, p. 489; TRIMELONI, Segreto bancario e nuovo regime delle autorizza-zioni, in Corr. trib., Circ. n. 11/1992, p. XLVI; LUPI, Abolito il segreto il c/c è senza rete, in Il Sole-24 Ore, 14 novembre 1991; CORDEIRO GUERRA, Questioni aperte in tema di accertamenti basati su dati estrapolati da conti correnti bancari, in Rass. trib., 1998, p. 561; SERRANÒ, La tutela del contribuente nelle indagini bancarie, Messina, 2003, p. 101 s.; SERRANÒ, Tra incostituzionalità dei prelevamenti bancari equiparati ai compensi e irragionevole esclusione del contraddittorio, in Boll. trib., 2016, p. 176 s.; MENTI, Le scritture contabili nel sistema dell’imposizione sui redditi, Padova, 1997, p. 372; CIAVARELLA, Il contraddittorio nel diritto finanziaria, Foggia, 1997, pp. 282-283; PICCARDO, Per l’accertamento fondato su dati bancari e necessario il contraddittorio tra contribuente e fisco, in Dir. prat. trib., 1997, II, p. 21 s.; BLASKOVIC, Dal segreto bancario alla cultura della trasparenza: aspetti procedimental-processuali, in Dir. prat. trib., 1995, I, p. 806.

25 Non indifferente è altresì la circostanza che la norma non richiami l’art. 41 bis, pure in-trodotto dalla L. n. 413/1991, in cui, come è noto, è disciplinato l’accertamento parziale che si caratterizza proprio per l’utilizzo automatico di «elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato».

26 Sulla quale mi diffonderò nel prosieguo.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 830

guendo a seconda dell’attività svolta dal contribuente, ha un ambito di appli-cazione che comprende anche i soggetti non obbligati alla tenuta delle scrittu-re contabili e quindi non obbligati per legge alla memorizzazione delle opera-zioni compiute e transitate nei conti; sia perché nei conti potrebbero aver ope-rato altri soggetti e dunque bisognerebbe riuscire a distinguere i versamenti che si riferiscono ad uno da quelli che si riferiscono agli altri; sia perché si preten-de di valorizzare in via automatica nei confronti di un contribuente le risultanze dei conti correnti intestati a soggetti diversi

27; sia, più in generale, perché, per i soggetti di dimensioni più contenute, la sfera economica e quella personale tendono a confondersi rendendo difficile il discernimento delle operazioni atti-nenti all’una da quelle afferenti all’altra. Appare, dunque, poco ragionevole non differenziare le singole situazioni e tentare di elevare al rango di presunzioni le-gali delle deduzioni che di per se stesse non raggiungono il livello di attendibili-tà richiesto per le presunzioni semplici

28.

27 In proposito giova segnalare che la Corte di Cassazione ha reiteratamente affermato che «In tema di imposte sui redditi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 37, delle imposte sui redditi di società di capitali, l’utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata ai conti normal-mente intestati all’ente, ma riguarda anche quelli formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorché risulti provata dall’Amministrazione Finanziaria, anche tramite presunzione, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati. Ne consegue in ordine alla distribuzione del-l’onere probatorio che una volta dimostrata la pertinenza alla società dei rapporti bancari in-testati alle persone fisiche con essa collegate, l’Ufficio non è tenuto a provare che tutte le movimentazioni che risultano da quei rapporti rispecchino operazioni aziendali, ma al con-trario la corretta interpretazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 impone alla società con-tribuente di dimostrare la estraneità di ciascuna di quelle operazioni alla propria attività di impresa (così Cass. 20199/10, conformi, Cass. 15217/12, Cass. 12625/12)»: v. ord. 30 gennaio 2014, n. 2029; e, nello stesso senso, sent. 13 aprile 2012, n. 5849. Senonché, pur es-sendo pacifico che compete all’Ufficio l’onere di dimostrare, anche con presunzioni, la perti-nenza al contribuente accertato dei rapporti bancari intestati a terzi, non si può non eviden-ziare che, in taluni casi, la stessa Cassazione ha avallato criteri assai poco rigorosi di valutazione di tale prova «reputando lo stretto rapporto familiare, o la ristretta composizione societaria, o ancora il particolare vincolo commerciale» alla stregua di «elementi indiziari sufficienti a giustificare, salva prova contraria, la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni ri-scontrate su conti bancari degli indicati soggetti» (v. sent. 20 luglio 2012, n. 12624, e prece-denti ivi richiamati; nonché ord. 14 ottobre 2016, n. 20489).

28 In tal senso v. anche MOSCHETTI, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadi-no, in ID. (a cura di), Procedimenti tributari e garanzie del cittadino, Padova, 1984, pp. 56-57. Sulla difformità di tali “presunzioni” rispetto all’id quod plerumque accidit e sulla conseguente carenza di razionalità si sono espressi anche LUPI, Abolito il segreto il c/c è senza rete, cit.; CORDEIRO GUERRA, op. cit., pp. 561-563; CONSOLO, op. cit., pp. 492-493; SCHIAVOLIN, Ap-punti sulla nuova disciplina delle indagini bancarie, cit., p. 40; SCHIAVOLIN, Segreto bancario,

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Antonio Viotto 831

Il che dovrebbe indurre a privilegiare una concezione meno “meccanicisti-ca” della disposizione che la renda compatibile con i principi di ragionevolez-za e di capacità contributiva sanciti dalla Costituzione

29. cit., p. 4; MENTI, op. cit., pp. 371-373. In senso contrario all’utilizzabilità in modo automatico dei dati bancari non giustificati v. anche MULEO, “Dati”, “dabili” ed “acquisibili” nelle indagini bancarie tra prova e indizi (e cenni minimi sull’abrogazione delle c.d. sanzioni improprie), in Riv. dir. trib., 1999, II, pp. 610-611; PORCARO, Accertamento bancari tra violazione di legge e giudi-zio sul fatto, in Corr. trib., 1999, pp. 3180-3181; FIORENTINO, La Corte di Cassazione e gli “ac-certamenti bancari”: questioni “vecchie e nuove” tra retroattività, obbligo di preventivo contraddit-torio e valenza “probatoria” delle movimentazioni bancarie alla stregua di una interessante pro-nuncia della Suprema Corte, in Riv. dir. trib., 2002, II, p. 328 s.; FICARI, op. cit., p. 934; MAR-CHESELLI, Presunzioni bancarie e accertamento dei professionisti: un «pasticciaccio brutto» tra ille-gittimità costituzionale e illecito comunitario di Stato, in Dir. prat. trib., 2013, II, p. 775; MAZZA-GRECO, L’utilizzazione delle indagini bancarie nell’accertamento tributario, in Rass. trib., 2010, p. 789 s.; SERRANÒ, Tra incostituzionalità dei prelevamenti bancari equiparati ai compensi e ir-ragionevole esclusione del contraddittorio, cit., p. 176 s. Anche CIPOLLA, op. cit., p. 636, ravvisa la necessità, in ossequio ai principi di capacità contributiva e di imparzialità amministrativa, che l’Ufficio si astenga da applicazioni “brutali” della “presunzione” e la valuti nel contesto di tutti gli elementi di prova raccolti, ivi compresi quelli spontaneamente forniti dal contribuente.

29 Giova infatti rammentare che, seguendo un paradigma logico piuttosto consolidato, il principio della capacità contributiva rileva anche ai fini della valutazione della costituzionali-tà delle norme accertative, ivi comprese quelle che introducono presunzioni, rappresentando il criterio alla luce del quale può essere scrutinata la ragionevolezza del meccanismo inferen-ziale codificato dal legislatore. In effetti, in alcune occasioni la Corte costituzionale, al fine di giudicare della legittimità di disposizioni contenenti delle presunzioni legali relative, ha mutua-to l’orientamento che si è nel tempo consolidato con riferimento alle presunzioni assolute, il quale viene normalmente sintetizzato nella formula secondo cui, sulla scorta dell’art. 53 Cost., le presunzioni tributarie debbono fondarsi su «indici concretamente rivelatori di ricchezza, ovvero su fatti reali, quand’anche difficilmente accertabili, idonei a conferire all’imposizione una base non fittizia» (in tal senso v. Corte cost., sent. 7-23 luglio 1987, n. 283; sent. 25 marzo 1980, n. 42; ord. 22-24 gennaio 1992, n. 22; sent. 27 febbraio-11 marzo 1991, n. 103) ovvero in quella secondo cui «le presunzioni legali … per poter essere considerate in armonia con il principio della capacità contributiva sancita dall’art. 53 Cost. debbono essere confortate da elementi concretamente positivi che le giustifichino razionalmente» (così Corte cost., sent. 15 luglio 1976, n. 200; sent. 20 giugno 1967, n. 103). Più in generale, al requisito della ragio-nevolezza fanno appello altre pronunce nella quali la Corte si è occupata della legittimità costituzionale delle presunzioni legali in materia tributaria: v. sent. 12 luglio 1976, n. 167; ord. 25 febbraio-10 marzo 1988, n. 298; ord. 11-19 ottobre 1988, n. 982; ord. 29 novembre-6 di-cembre 1989, n. 528. In questa prospettiva compare nel ragionamento della Corte, con toni più o meno accentuati, il riferimento al requisito dell’id quod plerumque accidit, quale para-metro per il giudizio di ragionevolezza e di rispondenza della presunzione legale (sia essa relativa o assoluta) al principio della capacità contributiva, che viene variamente declinato dalla Corte, vuoi nella conseguenzialità storica degli accadimenti (v. sent. 3 luglio 1967, n. 77), vuoi nel comportamento usuale dei contribuenti (v. sent. 2 luglio 1968, n. 99), vuoi negli intenti normalmente perseguiti dai contribuenti (v. ord. n. 982 del 1988, cit.), vuoi nell’oggettiva con-nessione tra negozi e operazioni (v. ord. 6 dicembre 1989, n. 528 e sent. 26 marzo 1991, n.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 832

Né mi pare che la legittimità costituzionale della presunzione legale relati-va che si vuole ravvisare con riferimento ai dati bancari possa essere ricono-sciuta valorizzando il principio della prossimità della prova rispetto al sogget-to contro il quale la presunzione legale è posta

30, principio in forza del quale il 131), vuoi, infine, nella comune logica economica (v. sent. n. 283/1987, cit.). Da ultimo, con specifico riferimento alla disposizione concernenti gli accertamenti bancari, la Corte costitu-zionale, ha ribadito che le presunzioni (anche quelle relative) possono essere considerate ra-gionevoli – e, quindi, compatibili con l’art. 3 Cost. – se ed in quanto si fondino su indici che, sulla scorta di una regola di esperienza attendibile, possano essere considerati «concreta-mente rivelatori di ricchezza» (v. la menzionata sent. n. 228/2014). Anche parte della dot-trina ha evidenziato la rilevanza della rispondenza ad una massima d’esperienza, ai fini della valutazione della compatibilità con il principio della capacità contributiva delle presunzioni legali, anche relative: v. DE MITA, Sulla costituzionalità delle presunzioni legali, in ID., Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2006, p. 347, ad avviso del quale «è sicuramente in regola con la Costituzione, purché sia assistita dai requisiti della logicità e della rispondenza alla comune esperienza, la presunzione legale relativa che ha solo la funzione di invertire l’onere della prova»; TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Mila-no, 1999, p. 93 s.; ID., Il requisito di effettività, in MOSCHETTI (a cura di), La capacità contribu-tiva, Padova, 1993, p. 108 s.; STEVANATO, Prelevamenti bancari, presunzioni “contronatura” ed esigenza di un accertamento estimativo personalizzato, in Dialoghi trib., 2014, p. 343. In senso più sfumato v., invece, DI PIETRO, Potere normativo e funzione amministrativa nell’applicazione degli indici di capacità contributiva, in Rass. trib., 1984, I, p. 378, il quale, con riferimento alle presunzioni legali, osserva che le massime di esperienza «operano come riferimenti per il con-trollo di legittimità delle scelte normative e non come criterio ricostruttivo»; CIPOLLA, op. cit., p. 287, secondo il quale la necessità che le presunzioni legali relative siano elaborate secondo un criterio probabilistico che rifletta l’id quod plerumque accidit al fine di assicurarne la com-patibilità rispetto al principio costituzionale di ragionevolezza; BORIA, Un leading case della Corte Costituzionale in materia di presunzioni bancarie, in Riv. dir. trib., 2014, II, p. 235 s., il quale riconduce la legittimità delle presunzioni legali ad un giudizio di ragionevolezza da for-mulare caso per caso, nella prospettiva della ricerca di un contemperamento tra i contrappo-sti principi della capacità contributiva e dell’interesse fiscale. Sulla compatibilità della presun-zione in questione con l’art. 53 Cost. si veda anche SERRANÒ, La tutela del contribuente nelle indagini bancarie, cit., pp. 117-121.

30 In questo senso v. FRANSONI, Il coraggio della Consulta, il valore indiziario dei preleva-menti bancari e il principio di Al Capone, in Riv. dir. trib., 2014, II, pp. 262-264. Invero, non è da tutti condivisa in dottrina l’opinione secondo cui le presunzioni legali, relative ed assolute, conferiscono valore normativo ad una massima dell’esperienza, ed anzi è diffusa tra i civilisti l’idea che le presunzioni legali rappresentino dei meri espedienti di tecnica legislativa, per lo più tesi a dare una determinata struttura alla fattispecie, senza che ciò presupponga necessa-riamente un procedimento logico deduttivo del legislatore: cfr. CORDERO, Tre studi sulle pro-ve penali, Milano, 1963, p. 27; VERDE, L’onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974, pp. 220-221 e 273; GIORGI, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, I, Torino, 1930, p. 574; CHIOVENDA, La natura processuale delle norme sulla prova e l’efficacia della legge proces-suale nel tempo, in ID., Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1930, pp. 258-259; PATTI, Pro-va (dir. proc. civ.), in Enc. giur., XXV, 1991, p. 12; FABBRINI TOMBARI, Note in tema di presunzio-ni legali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, pp. 918, 927, 937-938. Riconoscono invece che nelle

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Antonio Viotto 833

giudizio di costituzionalità della presunzione, rispetto al canone della ragio-nevolezza (e a quello della proporzionalità), dovrebbe dipendere non già dal-l’attitudine della presunzione a condurre, di per sé, alla prova di un fatto che sia coerente con la capacità contributiva del contribuente, bensì dalla accetta-bilità sul piano sociale della standardizzazione normativa della “prossimità” della prova al soggetto contro cui la presunzione è stabilita. A me pare, infatti, che tale interessante impostazione, che enfatizza l’effetto sul piano processua-le della presunzione – vale a dire, la dispensa della prova a vantaggio della par-te nel cui favore è posta – svaluti implicitamente quelle che sono le differenze e le peculiarità, sotto il profilo sostanziale, dei rapporti tra l’Amministrazione Finanziaria e i contribuenti, rispetto a quanto avviene tra le parti private nel processo, ed in particolare quella che è la funzione assegnata all’Amministra-zione, la quale (funzione) dovrebbe consistere nell’individuazione dell’effetti-va capacità contributiva del soggetto e dovrebbe orientare il legislatore all’in- presunzioni legali il criterio sul quale il legislatore fonda la sua valutazione è un criterio di uniformità e di normalità ricavato dall’id quod plerumque accidit: CARNELUTTI, La prova civile, Roma, 1915, p. 110, nota 1; ID., Lezioni di diritto processuale civile, III, Padova, 1986, pp. 358-359; ID., Sistema di diritto processuale civile, I, Padova, 1936, pp. 816 e 819-820; SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1989, p. 299; DE CUPIS, Sulla distinzione tra presunzioni legali assolute e finzioni giuridiche, in Giust. civ., 1982, II, pp. 228-229; GIULIANI, Il concetto di prova, Milano, 1971, pp. 234-236; PERELMAN-OLBRECHTS-TYTECA, Trattato del-l’argomentazione (la nuova retorica), Torino, 1966, p. 109; RAMPONI, Teoria generale delle pre-sunzioni nel diritto civile italiano, Torino, 1890, pp. 21, 100, 131 e 166; FURNO, Contributo alla teoria della prova legale, Padova, 1940, pp. 23-26, 148, 154-156 e 159-160; MONTESANO, Le «prove atipiche» nelle «presunzioni» e negli «argomenti» del giudice civile, in Riv. dir. proc., 1980, p. 247; LOMBARDO, Riflessioni sull’attualità della prova legale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, pp. 612 e 618. Ed anche in ambito tributario hanno trovato seguito tali ultime impo-stazioni: v. FALSITTA, Profili di incostituzionalità della presunzione legale di esistenza di mobilia, gioielli e denaro nell’attivo ereditario e limiti della prova contraria, in Giur. it., 1967, I, c. 1188; ID., Appunti in tema di legittimità costituzionale delle presunzioni fiscali, in Riv. dir. fin., 1968, II, pp. 34 e 37; ID., Le presunzioni in materia di imposte sui redditi, in GRANELLI (a cura di), Le pre-sunzioni in materia tributaria, Rimini, 1987, pp. 60-61; ID., Il ruolo di riscossione, Padova, 1972, pp. 125 e 218, nota 126; MICHELI, Capacità contributiva reale e presunta, ora in ID., Opere mi-nori di diritto tributario, II, Milano, 1982, pp. 220-221; GRANELLI, Presunzioni tributarie e pro-cesso penale, in Dir. prat. trib., 1985, I, pp. 41-42; DE MITA, Capacità contributiva, in Dig. disc. priv., sez. comm., II, 1987, p. 462; TINELLI, Presunzioni, cit., p. 2.; MANZONI, Potere di accerta-mento e tutela del contribuente, Milano, 1993, p. 179; TRIMELONI, Le presunzioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, II, Padova, 1994, pp. 113-115. Mentre ri-conoscono l’esistenza di presunzioni non fondate su un principio di esperienza – la cui legit-timità viene fatta dipendere dalla corrispondenza ad un interesse protetto – GENTILLI, Le pre-sunzioni nel diritto tributario, Padova, 1984, pp. 14-18; MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, pp. 264-268; TESAURO, Le presunzioni nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 1986, I, p. 193.

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 834

troduzione di norme che pongano le condizioni, anche sul piano procedimen-tale e accertativo, per il perseguimento di quell’obiettivo. Sicché, se si condi-vide l’assunto secondo cui anche le norme sull’accertamento dovrebbero es-sere orientate a far emergere la effettiva capacità contributiva del soggetto

31 e l’Amministrazione dovrebbe sempre avere come obiettivo del suo agire quel-lo di individuare tale attitudine al concorso alle pubbliche spese, si dovrebbe convenire sul fatto che, prima ancora della questione della prossimità della prova, la ragionevolezza della presunzione legale in materia tributaria dovreb-be dipendere dall’adeguatezza della regola accertativa ad individuare, già di per sé, un valore plausibile in termini di capacità contributiva, a prescindere dal fatto che l’onere della prova che viene addossato al contribuente non si ri-veli diabolico o sia comunque per esso sostenibile

32.

31 Sulla rilevanza del principio di capacità contributiva anche rispetto alle norme accerta-tive (rilevanza peraltro confermata dalle pronunce citate nella precedente nota 29, nonché dalla recente sent. n. 228/2014), mi sia consentito rinviare, anche per gli ulteriori approfon-dimenti bibliografici al mio I poteri di indagine dell’Amministrazione finanziaria, cit., p. 20 s.

32 Senza voler con ciò trascurare la rilevanza del tema della prova rispetto alla valutazione della costituzionalità dei meccanismi legali presuntivi, giacché – come da più parti evidenziato – è concreto il rischio di lesione del principio di capacità contributiva allorquando sia impedito ai contribuenti di contrastare le fattispecie legali. La stessa Corte costituzionale, proprio in rela-zione alle disposizioni concernenti il diritto di prova contraria, ha più volte riconosciuto che gli interessi erariali non possono prevaricare i diritti difensionali, che sono funzionali alla dimo-strazione dell’«effettività del reddito soggetto all’imposizione»: cfr. sent. n. 200/1976, nonché le Pronunce n. 283/1987, n. 103/1967, n. 42/1980, n. 99/1968, n. 167/1976, n. 103/1991 e n. 22/1992. Da ciò consegue, peraltro, che, oltre alla radicale avversità verso le presunzioni asso-lute (manifestata, ad esempio, da MOSCHETTI, Evoluzione e prospettive dell’accertamento dei redditi determinati su base contabile, in PREZIOSI (a cura di), Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo, Roma-Milano, 1996, p. 134; MOSCHETTI, Il principio della capacità contribu-tiva, cit., pp. 285-287 e pp. 310-311; BATISTONI FERRARA, Commento all’art. 53 Cost., in Com-mentario della Costituzione, a cura di Branca-Pizzorusso, Bologna-Roma, 1994, p. 46; FALSIT-TA, Le presunzioni in materia di imposte sui redditi, cit., p. 76; GENTILLI, op. cit., p. 26) e la pre-ferenza per un sistema di presunzioni relative (su cui converge la dottrina maggioritaria: cfr. FALSITTA, Appunti in tema di legittimità costituzionale delle presunzioni fiscali, cit., p. 5 s.; MO-SCHETTI, Le procedure e i metodi di accertamento alla luce dei principi costituzionali, Relazione al Convegno internazionale sull’accertamento tributario nella Comunità europea (l’esperienza francese), tenutosi presso l’Università di Bologna il 17-18 settembre 1993, p. 10; MANZONI, op. cit., pp. 180 e 182; GRANELLI, Le presunzioni nell’accertamento tributario, in Boll. trib., 1981, pp. 1649-1654; DE MITA, Presunzioni fiscali e capacità contributiva, in ID., Fisco e Costituzione, I, Milano, 1984, p. 888; ID., Sulla costituzionalità delle presunzioni fiscali, cit., p. 183; ID., Pre-sunzione, presupposto, capacità contributiva (il pasticcio dell’ICIAP), in ID., Interesse fiscale e tu-tela del contribuente, cit., p. 351 s.; AMATUCCI, Prove legali, difesa giudiziaria ed effettivo adem-pimento delle obbligazioni tributarie, in AA.VV., Scritti degli allievi offerti ad Alfonso Tesauro, I, Milano, 1968, p. 421; GENTILLI, op. cit., pp. 180-182; RUSSO, La tutela del contribuente nel

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Ebbene, in tale prospettiva, mi sembra che la ragionevolezza della disposi-zione di cui ai menzionati artt. 32, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, e 51, n. 2, D.P.R. n. 633/1972, sia incompatibile con la previsione di automatismi normativi circa la rilevanza reddituale dei movimenti bancari, e possa invece essere rico-nosciuta attribuendo alla disposizione la funzione di delimitare la possibilità di utilizzo ai fini ricostruttivi delle risultanze bancarie (in ragione della parti-colare sensibilità e riservatezza dei dati bancari e, soprattutto, delle operazioni ad essi sottostanti) nell’ambito dei presupposti e delle regole delle singole metodologie accertative, nel contesto della specifica situazione in cui si trova il contribuente. Così, ad esempio, esse potranno essere utilizzate, anche isola-tamente considerate, per determinare l’imponibile non dichiarato quando si siano verificati i presupposti per l’accertamento induttivo extracontabile (art. 39, comma 2, D.P.R. n. 600/1973); in presenza di una contabilità regolarmente tenuta potranno, invece, concorrere con altri elementi alla costruzione di pre-sunzioni gravi, precise e concordanti; nei confronti di soggetti tassati su base catastale (ad esempio, agricoltori) potranno servire per dimostrare la maggio-re produttività del bene, e dunque la necessità di procedere ad un nuovo clas-samento, ovvero l’esistenza di altre fonti reddituali non dichiarate; nei con-fronti di tutte le persone fisiche potranno servire per dimostrare la disponibili-tà di beni indice di capacità contributiva su cui fondare un accertamento red-ditometrico; e così via

33. processo sui redditi virtuali o presunti: problemi generali, in PREZIOSI (a cura di), op. cit., p. 65; MARCHESELLI, La difficile convivenza .di presunzioni assolute e principio della capacità contribu-tiva: la Corte Costituzionale si pronuncia sull’imposta straordinaria sui depositi bancari, in Dir. prat. trib., 1996, II, pp. 303-304; ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzio-nali, Milano, 1996, pp. 213, 258 e 263-264; CRISAFULLI, In tema di capacità contributiva, in Giur. cost., 1965, p. 857; MICHELI, op. cit., p. 204 s.), è necessario considerare che l’introdu-zione di limiti e condizionamenti, di diritto e/o semplicemente di fatto, alla prova contraria rischia di compromettere le garanzie accordate dall’art. 24 Cost. e, per questa via, condurre ad una tassazione avulsa dalla capacità contributiva del soggetto, come condivisibilmente evidenziato da TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, cit., p. 126 s. Sull’equivalenza tra una norma che condizioni la dimostrazione di una certa situazione alla produzione di una «prova impossibile» ed una norma che ponga una presunzione assoluta v. anche AMATUCCI, Prove legale, difesa giudiziaria ed effettivo adempimento delle obbligazioni tributarie, cit., p. 409. In argomento v. altresì MARONGIU, Commento in “Rassegna di questioni costituzionali”, in Dir. prat. trib., 1970, II, p. 121, il quale ritiene plausibile il ricorso a presun-zioni assolute qualora l’accertamento del quantum debeatur sia precluso da quella che egli definisce «impossibilità tecnica» (da tenere distinta dalla mera difficoltà probatoria). Ravvi-sa invece il parametro di costituzionalità delle presunzioni (sia assolute che relative) nel solo art. 24 Cost., TESAURO, op. cit., p. 195.

33 In tal senso v. anche TOSI, Segreto bancario: irretroattività e portata dell’art. 18 della L. n.

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3. Sulla natura delle disposizioni concernenti la rilevanza a fini accertativi dei prelevamenti bancari

Ancora più delicata è poi la valutazione che si impone con riferimento alla rilevanza sul piano accertativo dei prelevamenti.

Ad essi, come noto, è dedicata la seconda parte dell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, D.P.R. n. 600/1973, in cui si stabilisce ora

34 che i preleva-menti dai conti bancari sono «posti come ricavi a base» delle rettifiche e de-gli accertamenti di cui agli artt. 38, 39, 40 e 41 dello stesso decreto

35. Anzitutto, giova premettere che la circostanza che ai prelevamenti sia de-

dicata una specifica disposizione normativa dovrebbe indurre a ritenere che gli stessi non rientrino nell’ambito di applicazione della prima parte del se-condo periodo dell’art. 32, n. 2, ancorché lo stesso si riferisca genericamente ai «singoli dati ed elementi risultanti dai conti», senza distinzione tra le mo-vimentazioni in entrata e quelle in uscita

36. In secondo luogo, va precisato che il riferimento ai «ricavi» (e, in prece-

denza, anche ai «compensi»), contenuto nella seconda parte dell’art. 32, n. 2, secondo periodo, dovrebbe condurre a ritenere – sulla scorta di evidenti ra-gioni di coerenza sistematica – che la disposizione concernente i prelevamenti riguardi solamente quell’insieme di contribuenti che producono «redditi d’impresa», giacché solo nell’ambito di tale categoria reddituale la legge con-templa la possibilità di conseguire componenti positivi qualificati come «ri- 413 del 1991, in Rass. trib., 1995, pp. 1395-1398, ove utili indicazioni vengono fornite quanto alle modalità di utilizzo dei dati bancari; nonché VIOTTO, I poteri di indagine dell’Amministra-zione finanziaria, cit., p. 218 s.

34 Per effetto delle modifiche apportate dal D.L. n. 193/2016. 35 Analoga disposizione non è stata invece introdotta nel corpo dell’art. 51, n. 2, D.P.R. n.

633/1972, il quale, dopo aver stabilito – similmente all’art. 32 – che i dati bancari «sono po-sti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni im-ponibili», continua a prevedere semplicemente che «sia le operazioni imponibili sia gli acqui-sti si considerano effettuati all’aliquota in prevalenza rispettivamente applicata o che avrebbe dovuto essere applicata».

36 Segnalo, peraltro, che questa conclusione non è stata condivisa dalla Corte di Cassa-zione nella citata sent. n. 11750/2008, laddove si afferma che «l’espressione “singoli dati ed elementi risultanti dai conti”, contenuta nel corpo della prima parte dell’art. 32, n. 2, «com-prende i prelevamenti» e sarebbe «pacificamente riferibile anche ai lavoratori autonomi». In senso contrario v. da ultimo Cass., sent. n. 2432/2017, la quale ritiene che «mentre l’ope-razione bancaria di prelevamento conserva validità presuntiva nei confronti dei soli titolari di reddito d’impresa, le operazioni bancarie di versamento hanno efficacia presuntiva di mag-giore disponibilità reddituale nei confronti di tutti i contribuenti».

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cavi» (artt. 57 e 85 TUIR), nonché – fino alla pubblicazione della sentenza della Corte cost., 6 ottobre 2014, n. 228 – i soggetti che producono «redditi di lavoro autonomo», i cui componenti positivi sono denominati, per l’ap-punto, «compensi» o più genericamente «proventi» (art. 54 TUIR).

Ciò detto circa l’ambito di applicazione della disposizione, è opportuno svolgere alcuni approfondimenti sulla natura e sulla portata della stessa.

Movendo dal comune punto di partenza, rappresentato dalla natura pre-suntiva della norma recata dal menzionato art. 32, comma 1, n. 2, secondo pe-riodo, D.P.R. n. 600/1973, due sono gli orientamenti che si confrontano sul tema.

Il primo orientamento, sviluppato dalla Corte costituzionale 37, ravvisa, alla

base della disposizione de qua, una «doppia correlazione», in forza della qua-le il prelevamento dal conto corrente bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo. In particolare, «in assenza di giustificazio-ne dovrebbe ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisi-zione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni e servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati».

Dunque, secondo tale impostazione, alla base della (asserita) presunzione vi sarebbe, in primis, l’equazione secondo la quale i prelevamenti non giustifi-cati corrispondono a costi non contabilizzati, e, in secundis, la presunzione, che dovrebbe consentire di passare dai costi non contabilizzati e non diversamen-te giustificati ai ricavi non annotati, secondo cui, così come esiste una correla-zione tra i costi contabilizzati e i ricavi dichiarati, allo stesso modo si può rite-nere che ciò valga con riferimento ai costi sostenuti in modo occulto rispetto ai ricavi non dichiarati

38.

37 Mi riferisco alla già citata Pronuncia n. 228/2014, nella quale la Corte ha ripreso e svi-luppato il ragionamento che era rimasto in forma involuta e quasi sottintesa nella precedente sent. 8 giugno 2005, n. 225, laddove la Corte aveva ritenuto «non … manifestamente arbi-trario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un impren-ditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile».

38 Si tratta di una presunzione ripetutamente avallata dalla giurisprudenza di legittimità, come ad esempio dimostrano le pronunce della Corte di Cassazione che hanno riconosciuto la legittimità di ricostruzioni basate sulle percentuali di ricarico, allorquando si verifichino de-terminati presupposti che ne assicurino l’attendibilità e la coerenza rispetto alla specifica situa-zione: v. sent. 4 marzo 2015, n. 4312; sent. 17 dicembre 2014, n. 26508; ord. 26 giugno 2014, n. 14576; sent. 23 ottobre 2013, n. 24001; sent. 18 maggio 2012, n. 7871. Lo stesso dicasi con riferimento alle ricostruzioni induttive basate sui consumi: v. sentt. 24 settembre 2014, n. 20060; 15 maggio 2013, n. 11622; 11 dicembre 2012, n. 22583; 13 aprile 2012, n. 5870; 17

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Il secondo orientamento, invece, pur condividendo il primo presupposto della tesi testé riportata – secondo cui il prelevamento non giustificato rap-presenterebbe un costo occulto – ravvisa nell’asserita presunzione di cui al-l’art. 32, n. 2, secondo periodo, una misura lato sensu sanzionatoria rispetto alla mancata indicazione del nominativo del cedente o del prestatore, ipotizzando che la disposizione intenda dissuadere il contribuente dall’effettuare acquisti “in nero”, attraverso la ripresa a tassazione in capo al cessionario o al commit-tente dell’importo corrispondente alle somme da questi prelevate e quindi presuntivamente pagate

39.

4. Critiche alle tesi che attribuiscono natura presuntiva alle disposizioni con-cernenti la rilevanza a fini accertativi dei prelevamenti bancari

Ebbene, entrambe le impostazioni suscitano delle perplessità. Cominciando dalla seconda

40, essa mi pare conduca ad uno spostamento dell’imposizione in capo ad un soggetto (il presunto acquirente) che, all’evi-denza, non potrebbe essere considerato come il titolare della capacità contri-butiva che viene tassata, nella misura in cui si ipotizza che il soggetto che effet- giugno 2011, n. 13305. Per quanto riguarda il tema della «doppia presunzione» concernente i prelevamenti bancari, in senso particolarmente critico v. SERRANÒ, Prelevamenti bancari ed incidenza in misura percentuale dei costi, in Dir. prat. trib., 2012, p. 1046 s.

39 Tale connotazione in chiave sanzionatoria della disposizione è stata prospettata, an-corché criticamente, da FANTOZZI, I rapporti tra fisco e contribuente nella nuova prospettiva del-l’accertamento tributario, in Riv. dir. fin., 1984, I, p. 232; SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990, p. 244; TOSI, Segreto bancario, cit., pp. 1396-1397; MULEO, op. cit., p. 620; FIORENTINO, op. cit., p. 337; BARBONE, Le norme sull’utilizzabilità dei dati bancari nell’accertamento: una matassa senza bandolo?, in Rass. trib., 1995, p. 724, e da ultimo ripro-posta da DEL FEDERICO, Le sanzioni improprie nel sistema tributario, in Riv. dir. trib., 2014, I, p. 711 e da DELLA VALLE, I prelievi bancari dei professionisti e la scomparsa della “relativa” presun-zione, in Il Fisco, 2014, p. 4421 s. La stessa connotazione era stata prospettata dalla relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo concernente la revisione del sistema sanzionatorio, laddove si afferma che «al comma 7-bis di nuova introduzione» – comma che, va precisato, è stato poi eliminato nel corso della seconda stesura dello schema di decreto legislativo in parola – «in un’ottica di eliminazione delle sanzioni improprie, viene ricondot-ta nella disposizione in esame la mancata o inesatta indicazione del soggetto beneficiario delle somme prelevate nell’ambito dei rapporti e delle operazioni di cui all’articolo 32, primo com-ma n. 2 del decreto del Presidente della repubblica 29 settembre 1973, n. 600. A tal fine, è prevista l’applicazione di una sanzione espressa, dal 10 al 50 per cento delle predette somme, salvo che le somme non risultino dalle scritture contabili».

40 Disattesa dalla Corte costituzionale nella menzionata sent. n. 228/2014.

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tua il prelevamento e non ne indica il beneficiario stia in realtà “coprendo” co-lui che gli ha ceduto un bene o prestato un servizio “in nero”, e si ritiene che, per ciò stesso, egli (il cessionario o committente) debba scontare un’imposta su quel prelevamento, considerandolo alla stregua di un suo reddito, a pre-scindere dal fatto che egli abbia realizzato un ricavo per il tramite di quel bene o di quel servizio. Sicché, mi sembra chiaro che tale argomentare conduca ad un risultato incompatibile con in precetto dell’art. 53 Cost.

41 – il quale, come noto, non ammette la possibilità che vi sia una divaricazione tra soggetto chiamato a concorrere alle spese pubbliche e soggetto titolare della relativa ca-pacità contributiva

42 – e dovrebbe condurre, di conseguenza, ad una valutazio-ne negativa, in termini di ragionevolezza, dell’asserita presunzione di ricavi di cui all’art. 32, n. 2, secondo periodo

43. Né sarebbe accettabile l’ipotesi che ravvisasse l’esistenza di una misura san-

zionatoria per l’omessa contabilizzazione di acquisti, a prescindere da qual-siasi supposizione circa la mancata dichiarazione di ricavi da parte del benefi-ciario del prelevamento. In questa prospettiva, infatti, si assisterebbe ad una de-viazione del tributo rispetto alla sua funzione ontologica

44, in quanto si finireb-

41 Come evidenziato anche da SALVINI, op. cit., p. 244; nonché da MULEO, op. cit., p. 620. 42 Sulla dimensione soggettiva del principio di capacità contributiva ed in particolare sul

collegamento tra i termini «tutti» e «loro» contenuti nell’art. 53 Cost., mi limito qui a ri-chiamare (ben sapendo che si tratta di un tema vasto che molto ha appassionato la dottrina) le condivisibili considerazioni di SCHIAVOLIN, Il collegamento soggettivo, in MOSCHETTI (a cu-ra di), La capacità contributiva, cit., p. 69 s.

43 Vero è, peraltro, che la Corte costituzionale ha talvolta riconosciuto la legittimità di di-sposizioni che subordinavano la deducibilità di determinate spese e la detraibilità dell’IVA al-l’assolvimento di obblighi di contabilizzazione o di documentazione, valorizzando il principio secondo cui «il legislatore può, nella sua discrezionalità, dettare misura atte a prevenire l’i-nosservanza dei doveri di lealtà e correttezza da parte del contribuente» (v. sentt. 28 dicem-bre 1970, n. 210 e 17 novembre 1982, n. 186; ed alle ordd. 26 gennaio 1988, n. 108, 14 luglio 1988, n. 817, 15 novembre 1988, n. 1038, 6 luglio 1989, n. 385 e 19 maggio 1993, n. 246), ma vero è altresì che si trattava di situazioni piuttosto diverse da quella di cui ci stiamo occu-pando. Lì, infatti, si discuteva del mancato assolvimento di adempimenti che erano concepiti come delle condizioni per beneficiare di una deduzione o di una detrazione, condizioni che la Corte ha ritenuto – invero piuttosto sbrigativamente – non irragionevoli; qui, invece, non esiste il nesso tra adempimento di un obbligo ed effetto favorevole in termini di deducibilità di un costo, talché la mancata collaborazione del contribuente verrebbe sanzionata con una misura non coerente e non proporzionata – e pertanto non ragionevole, in una prospettiva me-ramente sanzionatoria – rispetto al comportamento tenuto.

44 Non intendo qui entrare nell’annoso dibattito che si è sviluppato sulle finalità extrafiscali del tributo, ma vorrei semplicemente ribadire che se si vuole circoscrivere l’area delle entrate tributarie non si può accettare che vi sia sovrapposizione o confusione rispetto all’area delle sanzioni e che, a tal fine, un criterio di demarcazione potrebbe essere ragionevolmente indi-

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be per legittimare l’utilizzo dell’imposta (che il titolare del conto viene obbli-gato a pagare) come “punizione” per un comportamento illecito. Inoltre, si per-verrebbe ad una duplicazione della sanzione per lo stesso comportamento, at-teso che, oltre alla “sanzione” rappresentata dall’imposta sul prelevamento, il titolare del conto è tenuto a corrispondere la sanzione pecuniaria per l’infe-dele dichiarazione, in misura quasi pari all’imposta medesima. Si giungerebbe, dunque, a risultati contrari ai canoni della ragionevolezza e della coerenza del-l’ordinamento che si ritraggono dall’art. 3 Cost., oltre che (il primo) con il principio della capacità contributiva, atteso che l’imposta verrebbe applicata al verificarsi di un evento che verrebbe assunto nella sua connotazione anti-giuridica, ma prescindendo dalla sua significatività quale indice di contribu-zione alle spese pubbliche

45. Tornando poi al primo orientamento, esso ha il pregio di aver condotto la

Corte 46 a dichiarare l’illegittimità dell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo perio-

do, nella parte in cui stabiliva che i prelevamenti dai conti bancari fossero «posti come … compensi a base» delle rettifiche e degli accertamenti di cui agli artt. 38, 39, 40 e 41 dello stesso decreto, sterilizzando così l’operatività dell’asserita presunzione legale con riferimento ai prelevamenti dai conti ban-cari dei professionisti e, più in generale, dei soggetti titolari di reddito di lavo-ro autonomo

47. viduato nelle diverse funzioni in vista delle quali le due entrate sono concepite (a prescindere, dunque, dalle finalità politiche che possono essere di volta in volta perseguite): una funzione di gettito, per le prime, ed una funzione repressiva/dissuasiva, per le seconde (per spunti di ap-profondimento sul punto rinvio al mio Tributo, in Dig. comm., XVI, 1999, part. p. 241 s.).

45 L’illegittimità costituzionale delle c.d. sanzioni improprie, per violazione del principio di capacità contributiva, è sostenuta da parte della dottrina: v., tra gli altri, MOSCHETTI, Il prin-cipio della capacità contributiva, cit., pp. 311-312; COPPA-SAMMARTINO, Sanzioni tributarie, in Enc. dir., XLI, 1989, pp. 425-426; ID., Sono legittime le disposizioni che prevedono sanzioni im-proprie?, in Corr. trib., 1981, p. 751; ID., Le sanzioni improprie nell’IVA, in Corr. trib., 1984, p. 1707; TINELLI, Rilievi sulla tutela giuridica della contabilità fiscale degli ammortamenti, in Riv. dir. fin., 1981, I, pp. 278-290. Ne riconosce, invece, la legittimità, sul presupposto che si trat-terebbe di misure che fuoriescono dall’ambito di applicazione dell’art. 53 Cost., DEL FEDE-RICO, op. cit., p. 713 s.

46 Nella menzionata sent. n. 228/2014. 47 Aggiungasi che, secondo un orientamento non isolato della Corte di Cassazione, la pro-

nuncia della Corte costituzionale ha reso «“non più proponibile l’equiparazione logica tra atti-vità d’impresa e attività professionale fatta, ai fini della presunzione posta dall’art. 32, dalla giu-risprudenza di legittimità per le annualità anteriori”, cosicché è definitivamente venuta meno la presunzione di imputazione sia dei prelevamenti sia dei versamenti operati sui conti correnti bancari ai ricavi conseguiti nella propria attività dal lavoratore autonomi o dal professionista intellettuale» (così sent. 5 agosto 2016, n. 16440, ed in precedenza, sent. 11 novembre 2015, n. 23041; sent. 21 giugno 2016, n. 12779 e sent. 21 giugno 2016, n. 12781). Segnalo, peral-

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Tuttavia, nel ragionamento della Corte, il giudizio sull’irragionevolezza della norma impugnata viene fondato non già sull’irragionevolezza in sé della “pre-sunzione” che vorrebbe considerare i prelevamenti non giustificati alla stregua di componenti positivi non dichiarati

48, bensì sull’irragionevolezza dell’assi-milazione, rispetto all’applicazione della “presunzione”, della posizione dei la-voratori autonomi a quella degli imprenditori commerciali

49. È proprio questa equiparazione, infatti, che viene censurata dai giudici del-

la Consulta, in quanto ritenuta lesiva dei principi di ragionevolezza e di capa-cità contributiva, «essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito».

Senonché, come ho già avuto modo di evidenziare 50, anche volendo ragio-

nare in una logica presuntiva, mi sembra che la differenza che si è creata tra titolari di reddito d’impresa e titolari di reddito di lavoro autonomo lasci sul tro, che tale orientamento – che esclude che anche i versamenti possa avere valenza presun-tiva nei riguardi dei titolari di redditi di lavoro autonomo – non è stato condiviso da altre pro-nunce della medesima Corte: v. sent. 9 agosto 2016, n. 16697, nonché, in precedenza, sent. 5 maggio 2016, n. 9078; sent. 30 marzo 2016, n. 6093; sent. 13 maggio 2015, n. 9721.

48 Emerge infatti in modo chiaro dal testo della pronuncia l’intenzione della Corte di man-tenersi nel solco della sent. n. 225/2005, nella quale era stata rigettata la questione di costitu-zionalità della medesima disposizione concernente i prelevamenti bancari degli imprendito-ri, sul presupposto che la stessa integrerebbe una «presunzione di ricavi iuris tantum» – che, secondo la stessa Corte, il contribuente potrebbe superare semplicemente indicando il bene-ficiario dei prelievi – la quale sarebbe conforme all’art. 53 se interpretata alla luce della giuri-sprudenza di legittimità che prevede il riconoscimento di una «incidenza percentuale dei costi relativi». Ritiene in proposito FRANSONI, Sulle presunzioni legali nel diritto tributario, in Rass. trib., 2010, p. 611, che il principio enunciato dalla Corte costituzionale nella sentenza del 2005 «può essere correttamente inteso come un riconoscimento della valenza probatoria dei prelevamenti unito all’affermazione della necessità di una “prudente” (e non automatica e vincolante) valutazione di tale significato».

49 Irragionevolezza, già segnalata in dottrina da D’AYALA VALVA, op. cit., pp. 707-708; SERRANÒ, La tutela del contribuente nelle indagini bancarie, cit., pp. 120-121; ARTUSO, I prele-vamenti bancari dei professionisti e la nuova presunzione di compensi tra principi di civiltà giuri-dica, divieto di retroattività e ambigue classificazioni delle norme sulle prove, in Riv. dir. trib., 2007, I, p. 16 s.; CEDRO, Le indagini fiscali sulle operazioni finanziarie e assicurative, Torino, 2011, pp. 123-124. Non ravvisava, invece, alcuna irragionevolezza FRANSONI, Ancora alla Con-sulta la presunzione sui prelevamenti bancari, in Riv. dir. trib., 2013, II, pp. 390-391. L’orienta-mento della Corte è condiviso da ARTUSO, Finalmente dichiarata incostituzionale la presun-zione “prelevamento = compenso” per i professionisti: prime osservazioni “a caldo”, in Riv. dir. trib., 2014, II, p. 254.

50 V. VIOTTO, Considerazioni sull’incostituzionalità delle “presunzioni legali” concernenti i prelevamenti bancari dei lavoratori autonomi, in Giur. imp., 2015, vol. 3.

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tappeto più di un dubbio sulla ragionevolezza della (ipotizzata) presunzione legale. Dubbio che permane anche dopo l’intervento normativo con il quale il legislatore ha espunto dal testo dell’art. 32, n. 2, il riferimento ai «compensi», già dichiarato incostituzionale dalla Corte, e ha, nel contempo, mantenuto in vita la disposizione relativa ai prelevamenti con riguardo ai possessori di red-dito d’impresa.

Non convincono, infatti, le ragioni addotte dalla Corte per differenziare in modo netto, rispetto all’ambito di applicazione della disposizione, i titolari di reddito d’impresa, da un lato, e i titolari di reddito di lavoro autonomo, dall’altro.

Né convince la scelta operata dal legislatore di confermare l’applicabilità della disposizione – sia pure con alcune limitazioni – per i titolari di reddito d’impresa.

5. Critiche alla ragionevolezza della differenza tra titolari di reddito d’impresa e titolari di reddito di lavoro autonomo, in punto di rilevanza a fini accerta-tivi dei prelevamenti bancari

Anzitutto, mi sembra che dovrebbe essere sottoposto ad un più serio vaglio critico l’assunto – che sta alla base della pronuncia della Corte – secondo cui, per gli imprenditori, i prelevamenti non giustificati corrisponderebbero tout court a costi occulti. Ed invero, se si può in linea di massima accettare l’idea che la mancata indicazione del beneficiario del prelevamento da parte dell’impren-ditore possa costituire un “elemento indiziante” rispetto alla volontà di coprire l’esistenza di forniture non dichiarate, di beni, servizi o prestazioni di lavoro, tuttavia, non mi pare tale “elemento indiziante” possa integrare, di per sé, una massima dell’esperienza sufficiente per sorreggere l’asserita presunzione, atteso che, con riferimento agli imprenditori individuali, non può essere considerata statisticamente trascurabile l’eventualità che la mancata indicazione del benefi-ciario dei prelevamenti possa trovare giustificazione in ragioni che nulla hanno a che vedere con le dinamiche economiche relative alla gestione dell’impresa e che riguardano invece situazioni di riservatezza personale.

Non si può escludere a priori, insomma, né considerare statisticamente ir-rilevante, l’eventualità che, al pari di quanto avviene per i produttori di reddi-to di lavoro autonomo, anche con riferimento ai soggetti che producono red-dito d’impresa in forma individuale

51, oltre che ai soci di società di persone o

51 Tanto più se di minori dimensioni e se adottano la contabilità semplificata, in virtù di quanto consentito dall’art. 18, D.P.R. n. 600/1973.

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di società di capitali a ristretta base partecipativa 52, vi sia quella commistione

tra la sfera imprenditoriale e quella personale e familiare che induce a consi-derare ragionevole l’ipotesi che i prelevamenti possano ben riguardare spese personali e che la mancata indicazione dei beneficiari possa ben dipendere dalla materiale impossibilità di tracciare e contabilizzare ogni spesa sostenuta o dalla volontà di mantenere riservata la ragione del prelevamento, onde evi-tare di disvelare i propri gusti e le proprie inclinazioni sociali, sessuali, politi-che, religiose, ecc.

Sicché, a me sembra che la oggettiva verosimiglianza 53 di ipotesi alternati-

ve a quella secondo cui, per i soggetti ora menzionati, i prelevamenti non giu-stificati corrisponderebbero de plano a costi occultati potrebbe rilevare non solo sul piano della prova contraria rispetto alla “presunzione” (relativa) che si ritiene scaturisca dalla disposizione, ma anche su quello della valutazione del-la ragionevolezza – e dunque della compatibilità rispetto agli artt. 3 e 53 Cost. – del medesimo meccanismo presuntivo.

Da questo punto di vista, si dovrebbe quanto meno tener conto del fatto che l’insieme dei soggetti che producono reddito d’impresa è alquanto ampio e variegato, visto che comprende sia le società di capitali e di persone, sia le persone fisiche che esercitano le attività di cui all’art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma d’impresa, e quelle che esercitano le attività indicate nel-l’art. 55, comma 2, TUIR. Si tratta dunque di soggetti diversi, le cui differenze strutturali non mi sembrano affatto neutre rispetto all’assunto (“prelevamenti bancari non giustificati = costi non contabilizzati”) che viene posto alla base della “presunzione”: in effetti, se tale assunto può essere ragionevolmente ac-cettato per i movimenti che attengono ai conti delle società, esso, come detto, suscita più di una perplessità con riferimento ai prelevamenti che interessano i conti delle persone fisiche, tanto più se l’impresa esercitata è di minori dimen-sioni.

Rispetto a tali questioni, mi sembra che la novella di recente introdotta dal legislatore, con l’intento di circoscrivere l’operatività della disposizione alle o-perazioni quantitativamente più significative

54, presenti sia ombre che luci.

52 I cui conti spesso vengono considerati per la ricostruzione del reddito della società par-tecipata, come ho già avuto modo di segnalare nella precedente nota 27.

53 Legata anche alla frequenza con la quale certe situazioni si riscontrano nella realtà. 54 Prelevamenti per importi superiori a 1.000 euro giornalieri e, comunque, a 5.000 euro

mensili. Evidenzia in proposito MARCHESELLI, La presunzione sui prelevamenti: un correttivo contraddittorio e insufficiente, in Corr. trib., 2017, p. 92, che le due condizioni dovrebbero es-sere compresenti, vale a dire, solo importi superiori a 1.000 euro giornalieri e solo se si supe-rano i 5.000 euro mensili.

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Essa, invero, pare attenuare le criticità sopra evidenziate rispetto all’ipotesi se-condo cui i prelevamenti non giustificati dall’imprenditore sottenderebbero il sostenimento di costi non dichiarati, venendo ad enucleare un’area – in realtà non così ampia – di movimenti in uscita privi di tale rilevanza sotto il profilo accertativo. Il che potrebbe presupporre il riconoscimento, da parte del legi-slatore, dell’afferenza di certi movimenti bancari a quella sfera privata e per-sonale che nulla ha a che vedere con quella più prettamente imprenditoriale

55, se non fosse che detta limitazione viene riferita indistintamente a tutti i sog-getti che rientrano nella galassia dei produttori di reddito d’impresa, ivi inclu-se, dunque, anche le società di capitali e di persone, rispetto ai cui conti ban-cari non ha alcun senso ipotizzare l’esistenza di un’area di riservatezza deputa-ta ad ospitare i prelevamenti destinati ad esigenze personali e familiari.

Sicché, mi sembra che l’assetto della disposizione concernente i preleva-menti, quale scaturisce dall’intervento della Corte costituzionale, prima, e del legislatore, poi, sia da considerare quanto meno poco selettivo, con riferimen-to ai soggetti cui la stessa si applica, laddove accomuna – attraverso l’impro-prio riferimento alla categoria reddituale dei «redditi d’impresa» – soggetti che sono tra loro strutturalmente diversi e le cui differenze rilevano proprio ai fini del giudizio di ragionevolezza e non arbitrarietà della “presunzione” me-desima, nella misura in cui esse incidono sul normale evolversi degli eventi e, dunque, sulla regola di esperienza che viene assunta alla base del meccanismo inferenziale.

Sotto un secondo profilo, il parametro costituzionale della ragionevolezza impone di enucleare un criterio che possa giustificare la differenza di tratta-mento sul piano accertativo che si viene a creare tra titolari di “redditi d’im-presa”, da un lato, e titolari di redditi di “lavoro autonomo”, dall’altro.

La Corte costituzionale ha ritenuto di incentrare la distinzione sul modello operativo che sarebbe tipicamente adottato dagli appartenenti alle due cate-gorie, ed in particolare sull’assunto che «l’attività svolta dai lavoratori auto-nomi» si caratterizzerebbe – a differenza degli imprenditori – «per la premi-nenza dell’apporto di lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizza-tivo»

56, con la conseguenza che, con riferimento ai lavoratori autonomi sareb-be inattendibile l’ipotesi – valida invece per gli imprenditori – secondo cui i pre-levamenti non giustificati rappresenterebbero acquisti non contabilizzati di fattori produttivi.

55 In tal senso v. FERRANTI, Limitate le presunzioni sui prelevamenti relativi ai conti bancari, in Il Fisco, 2016, p. 4508.

56 Così nella sent. n. 228/2014.

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Ma la suddetta assunzione non sembra tenere in debito conto il fatto che anche tra le attività di cui all’art. 2195 c.c. (che, come noto, sono idonee a produrre reddito d’impresa) ve ne sono alcune che normalmente vengono esercitate senza una particolare organizzazione di mezzi, ovvero, per usare le parole della Corte, che si caratterizzano «per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e per la marginalità dell’apparato organizzativo»

57, tanto che lo stesso legislatore espressamente contempla come non necessaria (ai fini della produzione del reddito d’impresa) l’esistenza di una organizzazione «in for-ma d’impresa» per le attività rientranti nel suddetto art. 2195.

Anche per tali attività, dunque, si dovrebbe, per coerenza rispetto al crite-rio dell’organizzazione suddetto, negare l’operatività dell’asserita presunzione de qua

58. Ma anche in questa prospettiva si dovrebbe considerare, nell’ottica dell’id

quod plerumque accidit, che non è infrequente che imprenditori privi di orga-nizzazione svolgano attività per cui è assolutamente ragionevole ritenere che costi non contabilizzati diano luogo a ricavi parimenti non dichiarati

59. Così come non si può trascurare l’eventualità che tra gli imprenditori che

operano in modo organizzato ve ne siano di coloro che, per il tipo di attività che svolgono o per le dimensioni che hanno, non siano neppure in condizio-ne di produrre ricavi attraverso cessioni di beni o prestazioni di servizi non fatturate, e che, nondimeno, possono avere l’esigenza o la convenienza di ac-quistare in nero fattori produttivi, quando questi sono scarsi

60: in tali situa-zioni – che non sono statisticamente trascurabili – sarebbe ragionevole rite-

57 Tant’è vero che, proprio su questo assunto, la Corte di Cassazione ha fondato il pro-prio consolidato orientamento in tema di non assoggettabilità ad IRAP degli imprenditori di minori dimensioni: v. sez. un., sentt. 13 ottobre 2010, nn. 21122, 21123 e 21124.

58 In questo senso mi sembrano propendere anche FRANSONI, Il coraggio della Consulta, cit., p. 262; LUPI, Assurdità in agguato dietro le “indagini finanziarie”, in Dialoghi trib., 2014, p. 345; BORIA, Un leading case della Corte Costituzionale in materia di presunzioni bancarie, cit., p. 249; BORIA, L’illegittimità della presunzione legale di redditività per i movimenti finanziari operati dai professionisti, in Corr. trib., 2014, p. 3461 s.; ACCORDINO, Il giusto rèvirement della Corte Costituzionale: i prelievi dal conto corrente bancario di un lavoratore autonomo non costi-tuiscono compensi non dichiarati, in Boll. trib., 2015, pp. 155-156.

59 Mi riferisco, ad esempio, alle imprese che si occupano di trading puro di beni, per le quali è assolutamente verosimile che beni acquistati “in nero” vengano anche ceduti “in nero”.

60 Mi riferisco, ad esempio, alle imprese che forniscono esclusivamente enti pubblici o soggetti istituzionali o soggetti che operano nel settore della grande distribuzione, i quali (for-nitori) non sono in condizione di produrre ricavi “in nero”, ma che potrebbero avere necessi-tà o convenienza a pagare “in nero” parte delle retribuzioni (ad esempio, per convincere i dipendenti ad effettuare più ore di lavoro straordinario).

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nere che i prelevamenti non giustificati riflettano l’esistenza di costi non con-tabilizzati, ma non sarebbe realistico ipotizzare che a tali costi corrispondano ricavi occultati.

A ben vedere, peraltro, il criterio della modalità operativa (individuato dal-la Corte) non è nemmeno coerente rispetto alla generalizzata esclusione dal-l’ambito di operatività della “presunzione” dei titolari di «compensi», tra i qua-li non è infrequente la presenza di soggetti che si avvalgono di strutture orga-nizzative per nulla marginali, se non addirittura rilevanti, soggetti rispetto ai quali non sarebbe in astratto irragionevole ipotizzare che eventuali prelevamen-ti non giustificati siano serviti per il sostenimento di costi di organizzazione non contabilizzati.

È chiaro, allora, che, di fronte ad una realtà tanto multiforme e variegata, il criterio della modalità operativa, che è stato adottato dalla Corte costituziona-le per ridisegnare l’ambito soggettivo di operatività della “presunzione” con-cernente i prelevamenti, escludendovi i titolari di redditi di lavoro autonomo, non è coerente con la logica della «doppia correlazione» che la stessa Corte ravvisa alla base della “presunzione”, la quale poggia sul fatto che il preleva-mento non giustificato rappresenti un costo «a sua volta produttivo di un ri-cavo»

61. Non lo è perché rispetto a tale categoria di costi, ciò che primaria-mente rileva, nel normale evolversi degli eventi, è la tipologia di attività eserci-tata, ovvero il modello di business adottato, piuttosto che la modalità organiz-zativa o la categoria di reddito prodotta

62.

61 Non deve, cioè, trattarsi di un costo qualsiasi, bensì di un costo che si possa considerare idoneo a produrre un ricavo, in modo tale che, se il costo viene sostenuto “in nero”, si possa ragionevolmente ritenere che lo stesso abbia generato un componente positivo “in nero”. Non intendo con ciò negare che vi possano essere costi “neri” finanziati con (anziché produttivi di) proventi “neri”, e che si possa quindi presumere che l’esistenza di tali costi “neri” possa disvela-re la realizzazione di ricavi “neri”; più semplicemente intendo evidenziare che tali tipologie di costi sono irrilevanti rispetto alla logica del meccanismo presuntivo ricostruito dalla Corte, giacché non sembra realistico ipotizzare che tali tipologie di costi siano rappresentate dai prele-vamenti bancari non giustificati, qualora nei conti riconducibili al contribuente non vi siano versamenti anch’essi non giustificati. Ed invero, delle due l’una: se i ricavi “neri” non sono tran-sitati nei conti e sono stati trattenuti in contanti (ovvero, a maggior ragione, sono stati utilizzati dal contribuente per finalità personali), non è ragionevole ritenere che i prelevamenti dai conti rappresentino costi “neri” finanziati dai predetti ricavi “neri”, mancando materialmente la cor-relazione finanziaria tra le due poste; se, viceversa, i ricavi “neri” sono transitati nei conti, allora non v’è necessità di ricorrere ai prelevamenti per dimostrarne l’esistenza, atteso che sarà suffi-ciente la “presunzione” costruita sui versamenti non giustificati (in senso conforme v. anche MARCHESELLI, Presunzioni bancarie e accertamento dei professionisti, cit., p. 781 s.).

62 In tal senso v. anche STEVANATO, op. cit., p. 344. In senso critico rispetto al criterio della struttura organizzativa, valorizzato dalla Corte, v. altresì DELLA VALLE, op. cit., p. 4421 s.

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6. Impatto della novella normativa sulla ricostruzione della portata e della na-tura della disposizione concernente i prelevamenti bancari

Ora, non è dato sapere se il legislatore abbia condiviso tale criterio discre-tivo nel momento in cui ha deciso di intervenire per espungere dalla disposi-zione il riferimento ai «compensi» e confermarne l’applicazione – sia pure con i predetti limiti quantitativi – ai soli titolari di redditi d’impresa. Certo è che, obiettivamente, il risultato prodotto dalla novella consiste in una differenzia-zione, dal punto di vista soggettivo, quanto all’ambito di applicazione della norma, imperniata sulla categoria del reddito prodotto, non consentendo così di superare i dubbi in punto di ragionevolezza della discriminazione, sopra il-lustrati.

Dubbi che hanno ricadute ben più pesanti, sia dal punto di vista dogmatico sia dal punto di vista pratico-applicativo, allorquando si attribuisce alla dispo-sizione concernente i prelevamenti la valenza di presunzione legale (tale per cui i prelevamenti non giustificati corrisponderebbero tout court a ricavi non dichiarati, e addirittura a reddito evaso

63), nella misura in cui disvelano l’esi-stenza di situazioni – quali quelle sopra evidenziate – nelle quali il meccani-smo presuntivo difetta di verosimiglianza ovvero di situazioni in cui l’applica-zione o la mancata applicazione del predetto meccanismo determina delle di-sparità di trattamento non razionalmente giustificabili o delle omologazioni parimenti irragionevoli. Troppi sono, infatti, i casi in cui si registra uno scarto tra il dato dell’esperienza e la regola inferenziale (che sarebbe stata adottata dal legislatore) per poter concludere che la meccanica applicazione della norma conduca ad un risultato accertativo che si possa ragionevolmente assumere come espressivo di una capacità contributiva non dichiarata, tale da rendere costituzionalmente accettabile l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. E troppe sono, altresì, le contraddizioni cui si perviene, sia sul

63 Il passaggio dai maggiori ricavi accertati al reddito evaso dovrebbe implicare una valu-tazione critica sull’esistenza e sulla riconoscibilità di costi non dichiarati, correlati ai ricavi occultati. Non intendo in questa sede tornare sulla questione (essendomene già occupato al-trove: v. Considerazioni sull’incostituzionalità delle “presunzioni legali” concernenti i prelevamen-ti bancari dei lavoratori autonomi, cit.), ma mi limito qui a segnalare che, se si condivide il ra-gionamento della Corte costituzionale (fondato – lo ricordo – sull’esistenza della duplice pre-sunzione: dai prelevamenti ai costi e dai costi ai ricavi), l’esistenza di costi non dichiarati, connessi ai ricavi accertati, dovrebbe essere in re ipsa. In argomento v., più di recente, MAR-CHESELLI, La presunzione sui prelevamenti: un correttivo contraddittorio e insufficiente, cit., p. 94; MARCHESELLI, Fino a quando sopravvivranno accertamenti bancari abnormi?, in Giur. trib., 2016, p. 757.

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versante dei contribuenti per i quali la norma continua a trovare applicazione, sia sul versante di coloro che ne sono esclusi.

Anche per questo, dunque, pare preferibile accedere ad un’interpretazione diversa che non ravvisa nella disposizione alcuna presunzione legale di ricavi, ma che – coerentemente con il dato testuale

64 – riconosce nella disposizione la facoltà per l’Amministrazione di utilizzare il prelevamento per l’accerta-mento del reddito d’impresa e di superare il “salto logico” che consiste nel passaggio dall’azione del prelevamento al conseguimento di un ricavo (il qua-le, come noto, dovrebbe invece essere rappresentato da un versamento), po-nendo così detta uscita dal conto – una volta che si sia dimostrata la sua affe-renza all’attività d’impresa – «a base» della ricostruzione dei ricavi, prima, e del reddito, poi, senza alcuna predeterminazione di valore, ma sulla scorta delle ordinarie regole accertative

65. Peraltro, tale conclusione mi pare permetterebbe di evitare le divergenze

cui altrimenti si perverrebbe nell’accertamento della base imponibile ai fini del-le imposte dirette e dell’IVA, a causa della differenza che esiste sul piano testua-le tra le disposizioni contenute nell’art. 32, n. 2, secondo periodo, del D.P.R. n. 600/1973, da un lato, e nell’art. 51, comma 2, n. 2, D.P.R. n. 633/1972, dal-l’altro. È noto, infatti, che, in ambito IVA, il richiamato art. 51, n. 2, non reca una disposizione analoga a quella del secondo periodo dell’art. 32, n. 2, e nulla dispone in tema di prelevamenti. Sicché, laddove si voglia ravvisare in tale ul-tima disposizione una presunzione legale di ricavi non dichiarati, pari ai prele-vamenti non giustificati, si dovrebbe comunque ritenere che l’accertamento dei maggiori ricavi sia sorretto dalla presunzione legale ai soli fini delle impo-ste dirette, mentre non lo sarebbe ai fini dell’IVA, in mancanza di un’espressa disposizione

66. Ebbene, tale incoerenza viene evitata se si condivide l’impo-

64 E tenendo conto delle argomentazioni sopra esposte con riferimento alla disposizione concernente i versamenti: v. sopra, par. 2.

65 In particolare tenendo conto delle differenze che sussistono tra quelle dettate dai commi 1 e 2 dell’art. 39, D.P.R. n. 600/1973, i quali, come noto, ammettono la possibilità di avvaler-si di presunzioni non gravi, precise e concordanti, e dunque di meri indizi (quali potrebbero essere i prelevamenti bancari di per sé considerati), solo in presenza di particolari presupposti.

66 Ciò a meno di non voler ipotizzare un’applicazione analogica dell’art. 32, n. 2, ipotesi che, tuttavia, troverebbe ostacoli sia nella concezione che ravvisa una natura derogatoria del-la disposizione rispetto alla regola generale della distribuzione dell’onere probatorio, sia nel recente intervento normativo, con il quale il legislatore nel modificare la disciplina degli ac-certamenti bancari, non si è minimamente preoccupato di adeguare il testo dell’art. 51, n. 2, a quello dell’art. 32, n. 2, confermando così implicitamente quella che rappresenta una tradi-zione legislativa, giacché mai il legislatore ha stabilito che, ai fini IVA, i prelevamenti non giu-

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stazione secondo cui l’art. 32, n. 2, non reca alcun meccanismo di presun-zione legale di ricavi, sicché, né ai fini delle imposte dirette, né ai fini IVA, il prelevamento non giustificato può di per sé rappresentare un ricavo non di-chiarato.

Senza peraltro dimenticare che l’obiettivo cui dovrebbe tendere (anche) l’azione accertatrice dovrebbe consistere nella ricostruzione di un imponibile che si approssimi il più possibile alla capacità contributiva effettiva del sogget-to

67, il che dovrebbe indurre l’Amministrazione a rifuggire da applicazioni “mec-caniche” delle disposizioni accertative allorquando queste conducano a risul-tati che – sottoposti ad un sereno vaglio critico, che tenga conto della situa-zione complessiva del contribuente – si rivelano privi di coerenza e di ragio-nevolezza. Ma, prima ancora, l’esigenza di parametrare i risultati dell’azione accertativa all’effettiva capacità contributiva dovrebbe indurre l’interprete a privilegiare, tra i diversi risultati cui può condurre l’attività ermeneutica, quel-lo che attribuisce alla disposizione un significato tale da consentire all’Ammi-nistrazione di effettuare quell’opera di valutazione critica e di adeguamento del risultato ricostruttivo alla più verosimile ricchezza del contribuente. Ed anche da questo punto di vista mi sembra che derivino argomenti che indu-cano ad evitare, per quanto possibile, di riconoscere l’esistenza di presunzioni legali (ancorché relative), le quali, nella stessa misura in cui agevolano l’attivi-tà ricostruttiva, la vincolano ad attenersi al dato che scaturisce dalla prede-terminazione normativa.

Senonché, dobbiamo ora chiederci quale impatto potrebbero avere, rispet-to a tali conclusioni, le modifiche normative di recente introdotte. Escluso che le stesse rechino elementi per superare le considerazioni critiche sopra e-sposte con riferimento alla tesi che ravvisa l’esistenza di una presunzione lega-le di ricavi non dichiarati, pari ai prelevamenti non giustificati, si potrebbe ipotizzare che la limitazione dell’ambito di operatività della disposizione ai so-li prelevamenti di importo più rilevante abbia in qualche modo offerto un supporto all’ipotesi ricostruttiva secondo cui le uscite non giustificate rappre-senterebbero costi non documentati dall’imprenditore

68. In quanto tali, poi, stificati si potessero porre a base degli accertamenti alla stregua di ricavi non dichiarati, ma, sin dall’emanazione della L. 30 dicembre 1991, n. 413, si è sempre e solo premurato di precisa-re che «sia le operazioni imponibili sia gli acquisti si considerano effettuati all’aliquota in preva-lenza rispettivamente applicata o che avrebbe dovuto essere applicata». Sicché appare chiara la volontà del legislatore di non mutuare, ai fini dell’IVA, la disposizione dettata per l’accerta-mento delle imposte sui redditi.

67 V. sopra, nota 29. 68 Più radicalmente, CARINCI, Sui prelevamenti si completa il percorso avviato dai giudici, in

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queste uscite potrebbero costituire la base, il fatto noto, su cui l’Amministra-zione può costruire una presunzione semplice quanto ai ricavi non dichiarati, la cui gravità, precisione e concordanza dovrebbero però essere vagliate dal giudice, il quale dovrebbe dare per acquisita, in quanto normativamente pre-vista (secondo questa ipotesi), l’esistenza di una correlazione tra prelevamen-ti non giustificati e costi e dovrebbe valutare l’attendibilità della ricostruzione dei ricavi operata dall’Amministrazione.

Ma tale ipotesi interpretativa potrebbe trovare un supporto nella novella, a condizione che si valorizzi adeguatamente la portata della locuzione «se il contribuente non ne indica il beneficiario», contenuta nell’art. 32, n. 2, secon-do periodo, ovverosia che si riconosca in essa l’imprescindibilità dell’instaura-zione di un contraddittorio, anticipato rispetto all’emissione dell’accertamen-to

69, diretto quanto meno a consentire al contribuente di individuare il sog- Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2016, ritiene che la novella chiarisca che la previsione sull’utiliz-zo dei prelevamenti non contiene una presunzione di legge, giacché, «se quella sui preleva-menti fosse una presunzione di legge, l’intervenuta prescrizione di un limite la renderebbe irra-zionale e irragionevole, posto che il nesso inferenziale (tra fatto noto e fatto ignoto) non può avere una dimensione quantitativa ma solo qualitativa: o c’è o non c’è, indipendentemente dalla quantità».

69 Non è questa la sede per approfondire un tema tanto complesso quale quello del con-traddittorio anticipato, di cui si sono autorevolmente occupate la dottrina e la giurispruden-za tributarie. Mi limito quindi qui a rammentare il più recente arresto delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui – contraddicendo in parte quanto affermato nella precedente sent. 18 settembre 2014, n. 19667, delle stesse Sezioni Unite – per i tributi “non armonizza-ti” non sussiste l’obbligo in capo all’Amministrazione Finanziaria di attivare il contradditto-rio anticipato a pena di nullità, salvo espressa previsione di legge. Diversamente, per i tributi “armonizzati” la violazione dell’obbligo del contraddittorio anticipato da parte dell’Ammini-strazione comporta la nullità dell’atto, a patto che il contribuente nel corso del giudizio «as-solva l’onere di enunciare le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con rife-rimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa» (così Cass., sez. un., sent. 9 dicembre 2015, n. 24823). La questione non sembra tuttavia an-cora completamente risolta, atteso che la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente, nella parte in cui non prevede l’instaurazione del contraddittorio anticipato qualora l’attività d’indagine non sia stata svolta attraverso un accesso presso i locali del contribuente (v. ord. 10 gennaio 2016, n. 736, della Commissione tributaria regionale della Toscana). È chiaro, allora, che, per il momento, la situazione che si è creata per effetto della giurisprudenza delle Sezioni Unite è alquanto artico-lata (e non poco contraddittoria), giacché, per le indagini c.d. «a tavolino», il contraddittorio anticipato sarebbe obbligatorio solo per gli accertamenti in materia di IVA, ma non per quelli in materia di imposte sui redditi. Ad ogni buon conto, quanto meno con riferimento al primo comparto impositivo, si potrebbero trarre dalla pronuncia delle Sezioni Unite argomenti per modificare il consolidato orientamento giurisprudenziale che non ravvisa nel disposto dell’art.

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getto destinatario delle somme prelevate dal conto e a permettere all’Ammi-nistrazione la verifica di tale indicazione

70. Ecco che, allora, scremate le ope-razioni di importo meno rilevante, il silenzio del contribuente

71 sulla destina-zione dei prelievi maggiormente significativi, potrebbe conferire maggiore at-tendibilità, nella prospettiva dell’id quod plerumque accidit, all’assunzione se-condo cui dette somme siano state destinate al sostenimento di costi occulti, giacché diventa meno verosimile l’ipotesi che il contribuente non ne rammen-ti il beneficiario, allorquando si tratta di somme più consistenti.

In questa prospettiva, dunque, la valenza di presunzione legale rimarrebbe circoscritta al passaggio dal prelevamento al costo non documentato, ma non si estenderebbe, in mancanza di un adeguato supporto normativo o logico-argomentativo, al passaggio dal costo non documentato al ricavo non dichia-rato e, men che meno, al successivo approdo al reddito evaso, la cui esistenza ed entità dovrebbero essere oggetto di prova da parte dell’Amministrazione, secondo le ordinarie regole accertative contenute nell’art. 39, commi 1 e 2.

Va detto, però, che anche tale conclusione non escluderebbe del tutto il ri-schio che il soggetto, per evitare un ingiusto accertamento, sia costretto a ri-nunciare ad una parte della sua riservatezza e a disvelare, ancorché solo nel-l’ambito di un contraddittorio con l’Amministrazione e per le operazioni di maggiore ammontare, vicende che possono riguardare la sua sfera più intima e personale. 51, n. 2, D.P.R. n. 633/1972 (né in quello dell’art. 32, n. 2, D.P.R. n. 600/1973), neppure un obbligo per l’Agenzia di chiedere al contribuente la giustificazione delle movimentazioni dei conti bancari, prima dell’emissione dell’avviso di accertamento (v. Cass., sent. 5 dicembre 2014, n. 25767; sent. 3 agosto 2012, n. 14026; sent. 14 maggio 2007, n. 10964) atteso che, se è ob-bligatorio il contraddittorio anticipato (che si estrinseca nel diritto del contribuente di cono-scere le contestazioni e di proporre le relative difese, prima di ricevere l’atto impositivo), a maggior ragione dovrebbe essere obbligatorio per l’Agenzia sottoporre al contribuente le ri-sultanze delle indagini bancarie e chiedergli le relative spiegazioni, prima di emettere l’avviso di accertamento. Peraltro, mi sembra da segnalare come l’orientamento ora citato contrasti sia con la lettera, sia con la logica della disposizione, la quale consente agli uffici di «porre a base» degli accertamenti i dati bancari, non già sempre e comunque, ma solo «se il contri-buente non dimostra ….», disvelando così chiaramente la volontà di limitare l’utilizzabilità a fini accertativi dei dati bancari – a maggior ragione se si ritiene (come fa la Corte di Cassa-zione) che ciò avvenga secondo lo schema della presunzione legale relativa – a quelli che il contribuente non sia riuscito a giustificare già nel corso delle indagini, a prescindere dal dirit-to dello stesso contribuente di difendersi in sede contenziosa.

70 Tenendo conto che la norma non pretende che il contribuente dia la prova di aver cor-risposto il denaro al soggetto indicato – prova che data la natura delle somme sarebbe per lo più impossibile da dare – ma semplicemente che individui il soggetto beneficiario.

71 Cui venga riconosciuto un congruo termine per raccogliere le informazioni.

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Ed è anche per questo che, a mio modo di vedere, sarebbe stato più oppor-tuno abrogare l’intera disposizione dell’art. 32, n. 2, concernente i prelevamenti o, quanto meno, prevedere dei limiti quantitativi maggiormente significativi, sì da circoscrivere alle situazioni più eclatanti il rischio di violazione della pri-vacy del contribuente. In altri termini, credo che il legislatore avrebbe dovuto dimostrare più coraggio nel ri-posizionamento del punto di equilibrio tra le esi-genze che si contrappongono nel momento delle indagini bancarie, attraverso una maggiore considerazione – nella ponderazione con l’interesse generale al-l’efficienza delle indagini e alla repressione dell’evasione – della rilevanza delle istanze connesse alla tutela dell’area di riservatezza delle persone.

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Damiano Zardini

LE VIOLAZIONI RELATIVE ALL’ACQUISIZIONE DEI DATI BANCARI, IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ

DIMENTICATO E LE PROVE ILLECITE (ANCHE IN RIFERIMENTO AL CASO IN CUI L’ILLECITO SIA STATO COMMESSO DA UN PRIVATO ALL’ESTERO)

THE VIOLATIONS RELATING TO THE ACQUISITION OF BANK INFORMATION, THE FORGOT PRINCIPLE OF LEGALITY AND

UNLAWFUL EVIDENCE (ALSO WHEN THE OFFENSE WAS COMMITTED ABROAD BY AN INDIVIDUAL)

Abstract Valorizzando il principio di legalità e distinguendo le violazioni delle norme istrut-torie sulla base dell’interesse tutelato da tali norme (invece che sulla base della pre-sunta maggiore o minore gravità delle violazioni), si potrebbe giungere ad afferma-re che le violazioni nell’acquisizione dei dati bancari possono viziare l’attività accer-tativa anche se il legislatore non ha espressamente previsto la sanzione dell’inutiliz-zabilità e anche qualora si ritenga che le norme violate non siano poste a tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale. A ciò si aggiunga che se si riconoscesse che nel processo (e prima ancora nell’accertamento) tributario non siano ammesse prove illecite, si dovrebbe concludere che la sanzione dell’inutilizzabilità di un de-terminato elemento istruttorio dovrebbe intervenire non solo nel caso in cui tale elemento sia stato acquisito dall’Amministrazione mediante l’esercizio illegittimo di poteri istruttori, ma anche nel caso in cui l’Amministrazione non abbia posto in essere alcun potere istruttorio e l’illecito sia stato commesso (anche da privati) in una fase antecedente alla trasmissione del predetto elemento all’Amministrazione stessa, la quale si sia limitata a riceverlo e a utilizzarlo per fondare la propria pretesa prima in sede accertativa e poi in quella processuale. Parole chiave: violazioni istruttorie, dati bancari, principio di legalità, divieto di prove illecite, accertamento e processo tributario

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By enhancing the principle of legality and distinguishing the violations of tax investiga-tions on the basis of the interest protected by the relevant rules (rather than on the basis of the alleged greater or lesser severity of violations), it is possible to conclude that viola-tions in the acquisition of bank data are able to vitiate the tax assessment even if the le-gislator has not expressly provided the penalty of non-usability and even if the infringed rules are not placed to protect fundamental rights of constitutional rank. In addition to this, if we recognise that in the tax litigation (and even before in the tax assessment) un-lawful evidence is not admitted, we should conclude that the sanction of non-usability of a proof cannot only apply in case that the latter was collected by the tax authorities through an unlawful exercise of investigative powers, but also in case that the tax au-thorities did not exercise any investigative power and the offense was committed (even by private individuals) in a phase prior to the transmission of the aforementioned ele-ment to the tax authorities themselves, which simply received it for grounding the tax claim during the tax assessment and, then, during the tax litigation. Keywords: violations during tax investigations, bank information, principle of legality, prohibition of unlawful evidence, tax assessment and tax litigation

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Un breve inquadramento del principio di legalità. – 3. Il principio di legalità e le conseguenze delle violazioni istruttorie (in termini generali). – 4. Il principio di legalità e le conseguenze delle violazioni istruttorie (con particolare riferimento all’acquisizione dei dati ban-cari). – 5. Le prove illecite nell’accertamento e nel giudizio tributario. – 6. Lo spazio, nell’accerta-mento e nel processo, per gli «elementi comunque acquisiti» – 7. L’illecito commesso da un pri-vato all’estero. – 8. La violazione della riservatezza dei dati bancari.

1. Introduzione

Negli ultimi due anni, la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sull’uti-lizzabilità amministrativa e giudiziale delle cosiddette “lista Falciani” e “lista di Vaduz”, ha colto l’occasione per ribadire l’insussistenza, nell’ordinamento tri-butario, di un generale divieto di utilizzo processuale di prove assunte in vio-lazione di legge

1.

1 In particolare, si tratta delle seguenti pronunce: ordd. 28 aprile 2015, nn. 8605 e 8606; sent. 9 giugno 2015, n. 16951 e ord. 1° settembre 2016, n. 17503 sul caso “Falciani”; sent. 19 agosto 2015, n. 16950 sul caso “Vaduz”. La “lista Falciani” è l’elenco di titolari di conto corren-te presso la Hsbc di Ginevra elaborato da Hervè Falciani, ex dipendente di tale banca, il qua-

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Secondo la Suprema Corte, in ambito tributario non sarebbe vigente il pre-detto divieto generale e l’Amministrazione Finanziaria, in sede di accertamen-to, potrebbe avvalersi di qualsiasi elemento di valore indiziario, esclusi quelli la cui inutilizzabilità sia stata espressamente sancita dal legislatore e quelli che siano stati acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituziona-le. Seguendo tali principi, i giudici di legittimità hanno ritenuto utilizzabili i dati bancari “trafugati” dal dipendente di una banca estera e ottenuti dall’Am-ministrazione italiana mediante gli strumenti della cooperazione comunitaria e di quella internazionale

2, senza che assumessero rilievo l’eventuale illecito commesso dal dipendente stesso e la violazione dei doveri di fedeltà verso l’i-stituto datore di lavoro e di riservatezza dei dati bancari, dal momento che tali doveri non avrebbero goduto di copertura costituzionale e di tutela nei con-fronti del fisco italiano.

Due sono quindi i temi, fra loro intimamente connessi, che tali sentenze hanno riportato al centro del dibattito.

Il primo è quello della rilevanza, rispetto all’atto impositivo, delle violazio- le avrebbe copiato, dal 2006 al 2008, l’equivalente di 2,6 milioni di pagine di dati bancari e li avrebbe poi forniti ad aziende private e organismi pubblici di diversi Paesi, svelando così al fisco i nomi di molti potenziali evasori, tra cui oltre settemila italiani. Sul punto, fra i molti, si vedano le notizie riportate da IlFattoQuotidiano.it/Economia & Lobby/Numeri & News del 27 novembre 2015. La “lista Vaduz”, invece, è quella lista di titolari di conto corrente presso la Lgt Bank di Vaduz in Liechtenstein che – almeno stando a quanto si è appreso dalla stampa – i servizi segreti tedeschi avrebbero acquisito, dietro il pagamento di un corrispettivo, da un funzionario della banca, il quale li avrebbe illecitamente “trafugati”. Per completezza, va fin da ora evidenziato che tale lista è poi pervenuta all’Amministrazione Finanziaria italiana tra-mite quella della Gran Bretagna e quella australiana, alle quali sarebbe stata trasmessa dai te-deschi. Sul punto, si vedano le notizie riportate da: BUFACCHI, Il lungo cammino della lista Va-duz, in Il sole 24 ore.com, 4 marzo 2008; FERRARELLA, La lista degli evasori di Vaduz? «Inuti-lizzabile»: il pm archivia, in Corriere della Sera, 17 febbraio 2010, p. 29; IORIO, Avviso nullo se la lista è irrituale, in Norme e tributi – Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2010, il quale ha raccontato che, nel 2008, il Sig. Henrich Kieber, ex funzionario della banca Lgt di Vaduz, avrebbe venduto per 4,2 milioni di euro ai servizi segreti della Germania un dvd contenente i dati sui presunti evasori fiscali con conti in Liechtenstein. Nell’elenco, sarebbero stati riportati i nomi di 390 italiani i quali avrebbero avuto depositi fra i 200 mila euro e i 450 milioni di euro. Per com-pletezza, va aggiunto che esiste un’altra lista che, negli ultimi anni, è balzata agli onori delle cronache: si tratta della cosiddetta “lista Pessina”. La sent. 26 agosto 2015, n. 17183 si occu-pa, però, di questioni non centrali rispetto al presente lavoro.

2 Per maggiore chiarezza: le sentenze cui si è fatto riferimento all’inizio del presente lavo-ro si sono occupate del caso in cui l’eventuale illecito sarebbe stato commesso da un privato. L’Amministrazione estera è entrata in possesso degli elementi acquisiti dal privato e li ha tra-smessi ritualmente all’Amministrazione italiana secondo i canali della cooperazione ammini-strativa.

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ni commesse dall’Amministrazione Finanziaria nello svolgimento dell’attività istruttoria.

In particolare, la questione che più interessa è quella della rilevanza delle violazioni concernenti l’acquisizione dei dati bancari.

Si tratta di un tema non nuovo e già ampiamente dibattuto sia in dottrina 3

sia in giurisprudenza 4.

In ogni caso, pare opportuno soffermarcisi ulteriormente 5, dal momento

che, rispetto alla rilevanza delle violazioni commesse dall’Amministrazione nel corso dell’attività istruttoria, la tendenza della giurisprudenza

6 – ormai da mol-

3 Fra i moltissimi contributi e oltre a quelli che verranno citati nel prosieguo: MOSCHETTI, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. prat. trib., 1983, I, p. 1911 ss.; SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento (nelle imposte sui redditi e nell’Iva), Pa-dova, 1990, pp. 195-379; STEVANATO, Vizi dell’istruttoria e illegittimità dell’avviso di accerta-mento, in Rass. trib., 1990, II, p. 87 ss.; SCHIAVOLIN, Poteri istruttori dell’Amministrazione fi-nanziaria, in Dig., XI, 1995, pp. 201-204; VANZ, Indagini fiscali irrituali e caratteri della spon-tanea collaborazione del contribuente o di terzi ai fini dell’utilizzabilità del materiale probatorio acquisito, in Rass. trib., n. 5, 1998, p. 1387 ss.; VIOTTO, Legalità dell’attività istruttoria e utiliz-zo di dichiarazioni di terzi nel procedimento di accertamento e nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 2001, II, p. 53 ss.; LUPI, Vizi delle indagini fiscali e inutilizzabilità della prova: un difficile giudizio di valore, in Rass. trib., n. 2, 2002, p. 651 ss.; VIOTTO, I poteri di indagine dell’ammini-strazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Mila-no, 2002; PORCARO, Profili ricostruttivi del fenomeno della inutilizzabilità degli elementi proba-tori illegittimamente raccolti. La rilevanza anche tributaria delle (sole) prove “incostituzionali”, in Dir. prat. trib., n. 1, 2005, p. 1015 ss.; MICELI, Riflessioni sul rapporto fra le illegittimità istrutto-rie e l’accertamento della pretesa impositiva, in Riv. dir. trib., 2006, II, p. 782 ss.; MICELI, L’atti-vità istruttoria tributaria, in FANTOZZI (a cura di) Diritto tributario, Torino, 2012, pp. 662-671; MULEO, L’illegittimità derivata degli atti impositivi, in Rass. trib., n. 4, 2012, p. 1007 ss.; VANZ, I poteri conoscitivi e di controllo dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2012; VALENTE-CA-RACCIOLI-MATTIA, L’orientamento della giurisprudenza italiana sull’utilizzabilità della c.d. “Li-sta Falciani”, in Il Fisco, n. 46, 2013; VIOTTO, La permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente, in Riv. dir. trib., 2013, I, p. 203 ss.; VIOTTO, Le violazioni commesse nel corso del-l’attività d’indagine tra inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite e principio di conser-vazione degli atti amministrativi, in Riv. dir. trib., 2014, II, p. 7 ss.; FALSITTA, Manuale di diritto tributario9, Parte generale, 2015, pp. 522-527; ARMELLA, Ammesso l’uso della lista Falciani per gli accertamenti fiscali, ma è semplice indizio, in Corr. trib., n. 26, 2015,p. 1995 ss.

4 Fra le moltissime si vedano le sentt. 26 maggio 2003, n. 8273, 11 giugno 2003, n. 9320, 18 luglio 2003, n. 11283, 23 aprile 2007, n. 9568, 15 giugno 2007, n. 14023, 4 novembre 2008, n. 26454, 19 febbraio 2009, n. 4001, 20 marzo 2009, n. 6836, 21 luglio 2009, n. 16874, 16 ottobre 2009, n. 21974, 22 settembre 2010, n. 20028, 16 dicembre 2011, n. 27149, 19 ottobre 2012, n. 17957, 29 luglio 2013, n. 18184, 18 dicembre 2014 n. 26829 e 11 novembre 2015, n. 23050 oltre a quelle che verranno citate nella nota 6.

5 Il tema è particolarmente attuale, tanto più a seguito della pubblicazione dei c.d. “Pa-nama papers”, su cui, fra i moltissimi, si veda MIRAGLIA, Paradisi fiscali, coinvolte 28 banche tedesche, in Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2016.

6 Dopo la pronuncia delle sez. un. 21 novembre 2002, n. 16424 con cui era stato afferma-

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to tempo – sembra quella di far perdere centralità al principio legalità, spo-stando l’attenzione sul grado di gravità delle violazioni e finendo per restrin-gere sempre più l’ambito di rilevanza di queste ultime. Tale tendenza, però, è nata e continua a svilupparsi sulla base di argomentazioni non del tutto con-vincenti e ciò anche rispetto alle violazioni concernenti l’acquisizione dei dati bancari.

Il secondo tema è quello della ammissibilità, sia nella fase amministrativa che in quella processuale, delle prove illecite.

Anche questo è un argomento ampiamente dibattuto, soprattutto nell’am-bito del processo civile, ma merita un ulteriore approfondimento, il quale ten-ga soprattutto conto delle peculiarità del giudizio tributario.

Le conclusioni che verranno raggiunte saranno poi messe a confronto con tre questioni poste dalle pronunce della Corte di Cassazione sulle “liste”: la portata delle espressioni, previste dal diritto interno, secondo cui sarebbe con-sentito l’ingresso nell’accertamento fiscale, prima, e nel processo tributario, poi, di «elementi comunque acquisiti»; la presunta irrilevanza dell’eventuale illecito commesso da un privato – e non direttamente dall’Amministrazione – per di più all’estero (e, più in particolare, la presunta irrilevanza dell’eventuale illecito commesso dal dipendente dell’istituto bancario e la presunta irrilevan-za della violazione dei doveri di fedeltà verso il datore di lavoro); la presunta irrilevanza della violazione della riservatezza dei dati bancari.

to che la sanzione dell’inutilizzabilità delle prove irritualmente acquisite non avesse bisogno di una espressa previsione, la giurisprudenza successiva della Suprema Corte ha teso a circo-scrivere la statuizione delle sezioni unite affermando che l’inutilizzabilità conseguirebbe solo alla violazione di norme poste a tutela delle libertà personali protette dalla Costituzione o alla violazione di norme che prevedano espressamente l’inutilizzabilità come sanzione per la loro violazione (fra le moltissime, si vedano le sentenze: 1° ottobre 2004, n. 19689, 19 otto-bre 2005, n. 20253, 16 ottobre 2009, n. 21974, 28 aprile 2010, n. 10137; la massima espres-sione di tale orientamento si è avuta nell’ambito dell’“accesso illegale” ai dati bancari e della trasmissione di elementi istruttori dal procedimento penale all’istruttoria tributaria in assen-za dell’autorizzazione di cui all’art. 63, D.P.R. n. 633/1972: fra le altre, 1° aprile 2003, n. 4987; n. 14058/2006, n. 2450/2007, n. 7279/2009, 19 gennaio 2010, n. 766; 8 marzo 2010, n. 5589; in un altro caso, la Cassazione ha sostenuto che le violazioni istruttorie non potrebbe-ro essere sanzionate con l’illegittimità degli elementi raccolti quando l’“accesso illegale” sia sta-to non la condizione necessaria per l’acquisizione, bensì la mera occasione: 15 dicembre 2010, n. 25335). Per una ricostruzione completa di tale tendenza, si veda: D’AYALA VALVA, Acquisi-zione di prove illecite. Un caso pratico: la lista Falciani, in Riv. dir. trib., 2011, II, pp. 402-415.

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2. Un breve inquadramento del principio di legalità

È notorio che il principio di legalità sia quel principio in base al quale i pubblici poteri sono soggetti alla legge, in modo tale che ogni loro azione deve essere ad essa conforme e che è invalido ogni atto privo di tale confor-mità

7. Si tratta di un principio di cui si possono rinvenire le prime tracce già nel-

l’isonomia (l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge) del mondo gre-co e nelle democrazie italiane dell’età comunale, nelle quali i magistrati erano tenuti a conformare la loro azione a norme generali e astratte

8 e che, fin dalle sue prime manifestazioni, ha mostrato quella duplice natura che tutt’ora lo ca-ratterizza: garanzia di certezza e di uguaglianza fra i cittadini, nonché antidoto di fronte a possibili arbitri dell’Amministrazione, da un lato; espressione della democraticità dell’ordinamento, in quanto, grazie ad esso, anche l’agire del-l’Amministrazione non può prescindere dal rispetto della volontà popolare che si manifesta per mezzo del potere legislativo, dall’altro

9. È però a partire dagli ottocenteschi stati liberali, con il prevalere del princi-

pio democratico e l’affermarsi dello stato di diritto, che il principio di legalità inizia a trovare la sua piena consacrazione.

Tale principio si è manifestato in forme diverse nei vari stati. Ad esempio, in Germania, il potere del sovrano e dell’apparato ammini-

strativo venivano ritenuti indipendenti e autonomi. Ad essi, si affiancavano pe-rò gli organi rappresentativi della volontà popolare. In quel contesto, quindi, il principio di legalità si è sviluppato nella sua forma più minimale, quella della non contrarietà, secondo la quale nessun atto dell’Amministrazione poteva es-sere in contrasto con la legge, ma, dove la legge mancava, il potere dell’esecu-tivo poteva agire liberamente.

In Francia, invece, dove è avvenuto un passaggio brusco e repentino dallo stato di polizia allo stato di diritto, il principio di legalità – almeno all’inizio –

7 Per una definizione introduttiva del principio di legalità, si vedano: GUASTINI, (voce) Legalità (principio di), in Dig. disc. pubbl., IX, 1994 e D’AMICO, (voce) Legalità (dir. cost.), in CASSESE (diretto da) Dizionario di diritto pubblico, IV, Milano, 2006.

8 Sulle origini storiche del principio di legalità, si segnalano: CARLASSARE, (voce) Legalità (principio di), in Enc. giur., XVIII, 1990; NICOLINI, Il principio di legalità nelle democrazie ita-liane, Padova, 1955; COLLIVA, Ricerche sul principio di legalità nell’amministrazione del Regno di Sicilia al tempo di Federico II, Milano, 1964.

9 Sulla duplice natura del principio di legalità, la dottrina è – a quanto consta – unanime. Si vedano, fra gli altri: CARLASSARE, op. cit., p. 5; VIOTTO, I poteri di indagine, cit., pp. 121-122; D’AMICO, op. cit., pp. 3368-3369.

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si è manifestato come legalità formale, cioè come necessità di una base legale per l’esercizio del potere, nel senso che il potere non poteva essere esercitato legittimamente se non era provvisto di un fondamento legislativo

10. Legalità come non contrarietà e legalità formale sono due delle sembianze

che il principio in discussione può assumere. La terza

11 è – secondo opinione comune – quella della legalità sostanziale, in base alla quale il legislatore non deve limitarsi a conferire poteri all’Ammi-nistrazione, ma deve predeterminare la forma e il contenuto degli atti, gli ob-biettivi da perseguire e gli interessi da soddisfare e l’Amministrazione non può soltanto porre in essere atti non contrari alla legge o esercitare il potere nei so-li casi previsti dalla legge, ma deve conformarsi alla legge anche per quanto ri-guarda la forma e il contenuto degli atti, nonché gli obbiettivi da perseguire e gli interessi da soddisfare.

Per fungere da antidoto contro i possibili arbitri dell’Amministrazione e per garantire la democraticità dell’ordinamento anche sotto il profilo della con-formità dell’agire dell’Amministrazione rispetto alla volontà popolare, è ne-cessario che il principio di legalità venga inteso in senso sostanziale. Ma ciò non è sufficiente. È infatti al contempo necessario che tale principio abbia valore costituzionale e che la costituzione sia rigida.

Invero, solo se la legalità viene intesa in senso sostanziale e il legislatore di-sciplina forma, contenuto, obbiettivi e interessi dell’agire dell’Amministrazio-ne, il giudice può disporre di parametri alla luce dei quali poter valutare la conformità alla legge degli atti dell’Amministrazione e, nel caso in cui tale con-formità non sussista, decidere di disapplicarli o di annullarli

12. Solo se il prin-cipio di legalità ha valore costituzionale, l’ordinamento può renderne effettivo il profilo sostanziale, dal momento che, in quanto di rango costituzionale, tale principio finisce per vincolare anche il legislatore. Infatti, se la legge si limita a conferire un potere all’Amministrazione senza delinearne forme, contenuto,

10 Sulle diverse manifestazioni del principio di legalità alle origini dello stato di diritto in Germania e in Francia, si veda CARLASSARE, op. cit., p. 3.

11 Gli autori che si sono occupati del principio di legalità sono concordi nel ritenere che tale principio possa manifestarsi, o si sia manifestato nella storia, in tre forme distinte: non con-trarietà, legalità formale e legalità sostanziale. Fra i molti, si vedano: CARLASSARE, op. cit., p. 2; GUASTINI, op. cit., p. 85; VIOTTO, I poteri di indagine, cit., p. 116; D’AMICO, op. cit., p. 3366. Anche FOIS, (voce) Legalità (principio di), in Enc. dir., XXIII., 1973, dà in un certo modo con-to delle diverse sembianze che può assumere il principio di legalità, ma nega che esso caratte-rizzi il nostro ordinamento, quanto meno sotto il profilo sostanziale.

12 A seconda che ad essere chiamato a valutare la conformità di un atto alla legge sia, ri-spettivamente, un giudice civile o un giudice amministrativo.

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obbiettivi e interessi, la legittimità di tale legge può essere oggetto di sindaca-to da parte della Corte costituzionale. Infine, solo se la costituzione è rigida, è impedito al legislatore di sottrarsi ai vincoli discendenti dal principio di legali-tà con le maggioranze previste per l’approvazione delle leggi ordinarie

13. Ebbene, venendo al nostro ordinamento, innanzitutto non ci possono es-

sere dubbi circa il fatto che la Costituzione sia di tipo rigido 14.

Poi, occorre rilevare che è opinione largamente condivisa che il principio di legalità abbia valore costituzionale, dal momento che esso, pur non essendo esplicitato in un’apposita disposizione, è rinvenibile in numerose norme costi-tuzionali

15. Ad esempio, se ne può trovare traccia: nell’art. 97, comma 2, so-

13 Non si è a conoscenza di pronunce della Corte costituzionale, le quali abbiano ricono-sciuto al principio di legalità lo status di principio supremo, il quale non può essere sovvertito o modificato nel suo contenuto essenziale e che, in quanto tale, rappresenta un limite impli-cito alla revisione costituzionale. Il fatto però che parte della dottrina costituzionalistica ritenga che il limite esplicito alla revisione costituzionale, cioè la forma repubblicana, debba essere interpretato nel senso che è la forma di stato democratica a non poter essere oggetto di revi-sione costituzionale (ad esempio: PIAZZA, I limiti alla revisione costituzionale, Padova, 2002, p. 34; MODUGNO, Il problema dei limiti alla revisione costituzionale (in occasione di un commen-to al messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991), in Giur. cost., 1992, p. 1676; in senso contrario, però: CICCONETTI, (voce) Revisione costituzionale, in Enc. dir., XI, 1989, p. 152) e che la Corte costituzionale abbia riconosciuto lo status di principio supremo al principio della sovranità popolare (sent. 2 febbraio 1982, n. 18) e al principio di uguaglianza (sent. 24 febbraio 1992, n. 62) cui il principio di legalità è funzionale e di cui è, in un certo qual modo, garanzia inducono a ritenere che anche il principio di legalità potrebbe rappresentare un limite implicito alla revisione costituzionale. Per una sintesi sui limiti alla revisione costituzionale si veda anche il commento agli artt. 138 e 139 Cost. di DI COSIMO, in BARTOLE-BIN, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008, p. 1209 ss.

14 Come a tutti noto, infatti, l’art. 138 Cost. prevede una procedura più complessa e mag-gioranze più ampie per l’approvazione delle leggi di revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali rispetto alle leggi ordinarie.

15 In questo senso, fra gli altri: CARLASSARE, op. cit., pp. 5-6; VIOTTO, I poteri di indagine, cit., p. 122, secondo cui il principio di legalità si manifesta negli artt. 97, 101 e 113 Cost.; D’AMICO, op. cit., pp. 3368-3369. Tracce del principio di legalità possono essere rinvenute anche in al-cune disposizioni di legge ordinaria. Ad esempio, si pensi: all’art. 4, comma 1, delle preleggi («i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni della legge»); al-l’art. 5, L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E («le autorità giudiziarie applicheranno gli atti am-ministrativi e i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi»); all’art. 26 T.U. Cons. Stato, secondo cui il Consiglio di Stato può decidere «sui ricorsi per incompe-tenza, eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa»; infine, all’art. 61, D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, il quale richiama il princi-pio di legalità fra i principi cui deve informarsi l’operato delle agenzie fiscali. Sul punto, si ve-dano: VIOTTO, I poteri di indagine, cit., p. 118, secondo cui dalla presenza del principio di legali-tà nelle disposizioni di legge ordinaria si potrebbe evincere la natura, quanto meno, di principio generale dell’ordinamento del predetto principio e D’AMICO, op. cit., pp. 3369-3370.

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prattutto se si aderisce alla tesi 16 in base a cui tale norma, sancendo i principi

di imparzialità e buon andamento, non si occupa solo dell’organizzazione dei pubblici uffici, ma copre anche l’azione esterna dell’Amministrazione; nell’art. 101, comma 2, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge, dal mo-mento che tale norma impone non solo l’indipendenza di chi svolge la funzio-ne giudicante, ma anche – almeno secondo una parte della dottrina

17 – l’ob-bligo per i giudici di basarsi, nell’esercizio delle loro funzioni, solo su ciò che dispone la legge; nell’art. 113, comma 1, il quale garantisce la tutela giurisdi-zionale contro gli atti della Pubblica Amministrazione e nel cui ambito – si ri-tiene – la legge rappresenta il parametro per giudicare la legittimità degli atti dell’Amministrazione, cosicché tale tutela può essere effettiva solo se la disci-plina legislativa è precisa e dettagliata

18. In particolare, quest’ultima norma – proprio perché sembra imporre che la

disciplina legislativa debba essere precisa e dettagliata – è stata valorizzata 19

per sostenere che, anche nella nostra Costituzione, il principio di legalità ab-bia assunto le sembianze della legalità sostanziale.

Appare quindi condivisibile l’opinione di coloro 20 che sostengono che il no-

stro ordinamento garantisca a livello costituzionale il principio di legalità so-stanziale e che, in conseguenza di ciò nonché delle caratteristiche che contrad-distinguono tale principio fin dalle sue manifestazioni primordiali

21, esso rap-presenti uno dei cardini del nostro stato di diritto e della sua democraticità

22.

16 In questo senso: SALA, Imparzialità dell’amministrazione e disciplina del procedimento nella recente giurisprudenza amministrativa e costituzionale, in Dir. proc. amm., 1984, p. 440; ALLEGRETTI, Imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubbl., 1993, p. 135; VIOTTO, I poteri di indagine, cit., p. 119 e p. 130.

17 Fra gli altri: FOIS, op. cit., pp. 683-684; GUASTINI, op. cit., p. 93; VIOTTO, I poteri di inda-gine, cit., p. 120. In questo senso, si veda anche il commento all’art. 101 Cost. di Biondi, in BARTOLE-BIN, op. cit., pp. 916-917.

18 Sul punto: CARLASSARE, op. cit., p. 6; VIOTTO, I poteri di indagine, cit., pp. 120-121. 19 VIOTTO, I poteri di indagine, cit., pp. 120-121. 20 Si vedano gli autori già citati nella precedente nota 15. 21 Come sopra meglio illustrato: garanzia di certezza e di uguaglianza fra i cittadini e anti-

doto di fronte a possibili arbitri dell’Amministrazione, da un lato; espressione della democra-ticità dell’ordinamento, dall’altro.

22 Il principio di legalità non va confuso con il principio della riserva di legge, cioè con il principio in base al quale una determinata materia deve venire disciplinata, in tutto (riserva assoluta) o in parte (riserva relativa) dalla legge. Come è a tutti noto, per quanto riguarda i poteri istruttori dell’Amministrazione, nella nostra Costituzione si rinvengono almeno quattro tipi di riserve di legge. Le riserve assolute di cui agli artt. 13 (secondo cui le restri-zioni della libertà personale sono ammesse solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria e

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Di esso, però, come si può evincere anche dalle pronunce ricordate all’ini-zio del presente lavoro, pare che la giurisprudenza di legittimità si sia – alme-no ultimamente – dimenticata.

nei casi e nei modi previsti dalla legge), 14 (in base al quale le ispezioni, le perquisizioni e i sequestri presso il domicilio sono ammessi solo nei casi previsti dalla legge) e 15 (a mente del quale le limitazioni alla libertà e alla segretezza della corrispondenza sono ammesse solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge) e quella rela-tiva di cui all’art. 23 (il quale stabilisce che nessuna prestazione personale può essere impo-sta se non in base alla legge). I principi di legalità e riserva di legge sono intimamente con-nessi, dal momento che entrambi sono nati con il costituzionalismo moderno e con le istanze democratiche che questo ha portato con sé ed entrambi rappresentano delle forme di tutela nei confronti dei poteri dell’Amministrazione. In particolare, un equilibrato rap-porto fra i due principi potrebbe essere così configurato: ogni azione dell’Amministrazione è soggetta al rispetto del principio di legalità; in alcuni casi, il legislatore ha rinforzato le forme di tutela esistenti a favore del privato, intervenendo sul rapporto fra le fonti del dirit-to e prevedendo quindi o riserve relative di legge (art. 23, per i casi in cui, nell’ambito dei poteri istruttori, l’Amministrazione imponga al contribuente o a un terzo di porre in essere un determinato comportamento, ad esempio recarsi all’ufficio per un contraddittorio o ri-spondere a un questionario) o riserve assolute (artt. 13, 14 e 15, per i casi in cui l’Ammini-strazione imponga di soggiacere a una determinata azione posta in essere dall’Amministra-zione stessa, ad esempio un accesso ai sensi del n. 1, comma 1, art. 32, D.P.R. n. 600/1973). Essi però differiscono dal momento che il principio di legalità rappresenta il fondamento e il limite dell’azione dell’Amministrazione, mentre il principio della riserva di legge attiene al rapporto fra le fonti del diritto e agisce come limite alle fonti diverse dalla legge. L’orienta-mento giurisprudenziale cui appartengono le sentenze citate all’inizio del presente lavoro, riducendo i vizi istruttori rilevanti a quelli che comportano la violazione dei diritti di cui agli artt. 13, 14 e 15 Cost. (oltre a quelli rispetto ai quali l’inutilizzabilità sia stata espressamente prevista dal legislatore), sembra invece finire per confondere il principio di legalità con quello di riserva di legge. Su tale distinzione fra il principio della riserva di legge e quello di legalità, ma anche sul fatto che entrambi i principi citati nascono con il costituzionalismo moderno, il quale sancisce la supremazia del legislatore, si veda D’AMICO, op. cit., p. 3369. Secondo CARLASSARE, op. cit., p. 7, il principio della riserva di legge rappresenta un raffor-zamento, in ambito più ristretto, del principio di legalità. Il principio di legalità, quello della riserva relativa di legge e quello della riserva assoluta rappresenterebbero una scala crescen-te di intensità della tutela. Sulle differenze fra i principi citati, ma anche sull’idea che esiste-rebbe una scala di intensità di tutela si veda anche VIOTTO, ult. op. cit., pp. 123-124. Secon-do quest’ultimo Autore, si potrebbe elaborare un paradigma in base al quale: la base sareb-be rappresentata dal principio di legalità in senso sostanziale, il quale coprirebbe l’intera gamma dei poteri istruttori imponendone la tipicità; quando i poteri istruttori si concretiz-zano nell’imposizione di prestazioni personali, entrerebbe in gioco la riserva di legge relati-va di cui all’art. 23 Cost., il quale richiederebbe che il legislatore disciplini in maniera più dettagliata i medesimi poteri; infine, quando i poteri istruttori si risolvono in limitazioni dei diritti di libertà di cui agli artt. 13, 14 e 15 Cost., dovrebbero venire rispettate le riserve as-solute previste dalle norme costituzionali appena citate, in modo che l’intera disciplina dei poteri dovrebbe essere contenuta nella legge.

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3. Il principio di legalità e le conseguenze delle violazioni istruttorie (in termini generali)

Se questo è vero, se è vero cioè che quello di legalità è un principio di ordi-ne costituzionale ed è un principio cardine del nostro ordinamento anche in quanto ne garantisce la democraticità, si dovrebbe concludere che gli atti del-l’Amministrazione siano sempre viziati quando non sono conformi alla legge, per il solo fatto che violano il principio di legalità.

Da ciò dovrebbe discendere che ogni violazione commessa in sede istrut-toria non rimane priva di conseguenze, ma si riverbera sull’atto impositivo o sanzionatorio secondo lo schema dell’illegittimità derivata (per chi aderisce alla teoria secondo cui gli atti istruttori e quelli di accertamento/sanzionatori sarebbero parte di un unico procedimento

23) o dell’inutilizzabilità in sede di accertamento/irrogazione delle sanzioni degli elementi acquisiti in violazione di legge (per chi ritiene che fase istruttoria e fase di accertamento non faccia-no parte di un unico procedimento e che al più si possano individuare singoli procedimenti relativi alle singole azioni poste in essere in sede istruttoria

24).

23 In passato, la teoria dell’illegittimità per derivazione è stata autorevolmente sostenuta da MOSCHETTI, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, cit., p. 1918 e STE-VANATO, Vizi dell’istruttoria e illegittimità dell’avviso di accertamento, cit., p. 87. In tempi più recenti: DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, p. 81 ss. In giurisprudenza (fra tutte, si vedano la sentenze delle sez. un., 29 luglio 2013, n. 18184 e 9 dicembre 2015, n. 24823) si fa spesso riferimento all’attività accertativa parlando di “procedimento” e all’accertamento come “atto conclusivo del procedimento” senza proble-matizzare tali categorie.

24 Fra i molti: LA ROSA, Caratteri e funzioni dell’accertamento tributario, in Dir. prat. trib., 1990, I, p. 783; SALVINI, La partecipazione del privato, cit., p. 327, secondo cui lo schema pro-cedimentale potrebbe essere utilizzato solo per spiegare i rapporti tra ciascun atto istruttorio e il relativo rilievo; PORCARO, op. cit.; MICELI, Riflessioni sul rapporto, cit., p. 799; GALLO, L’i-struttoria nel sistema tributario, in Rass. trib., n. 1, 2009, p. 25. Più in generale, nella maggior parte della dottrina è radicato il convincimento che sia improprio parlare di procedimento in ambito tributario, perché quello che dovrebbe essere il procedimento (tributario) è privo di alcuni tratti tipici del procedimento (amministrativo): gli atti che possono essere posti in esse-re dalla dichiarazione alla riscossione mancano di un nesso di conseguenzialità/pregiudiziali-tà; manca una vera e propria discrezionalità amministrativa; manca un atto finale necessario. In questo senso: GIANNINI, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, p. 291; MICHIELI, Studi sul procedimento amministrativo tributario, Milano, 1971; FEDELE, A proposito di una recente raccolta di saggi sul procedimento amministrativo tributario, in Riv. di dir. fin., 1971, I, p. 433; FALSITTA, Struttura della fattispecie dell’accertamento nelle imposte riscosse mediante ruoli, in AA.VV., Studi sul procedimento amministrativo tributario, Milano, 1971, p. 85; PERRONE, Evo-luzione e prospettive dell’accertamento tributario, in Riv. di dir. fin., 1982, I, p. 79; VANZ, (voce) Controlli amministrativi (dir. trib.), in CASSESE (diretto da), op. cit., p. 1438; SALVINI, (voce)

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DOTTRINA RTDT - nn. 3-4/2017 864

In realtà, la dottrina maggioritaria tende a distinguere fra vizi invalidanti e vizi non invalidanti

25. I primi rappresenterebbero solo le violazioni istruttorie più gravi, quelle che incidono sui più importanti diritti della persona e sareb-bero gli unici idonei a ripercuotersi sull’atto impositivo. I secondi sarebbero quelli minori, non in grado di ledere i diritti fondamentali e quindi non in grado di inficiare l’atto impositivo. Questi ultimi potrebbero al più dar luogo a forme di responsabilità disciplinare per chi ha posto in essere l’attività istrut-toria illegittima ed, eventualmente, a obblighi risarcitori

26. Si tratta della medesima distinzione operata dalle pronunce sulle “liste” e,

più in generale, dal filone giurisprudenziale in cui esse si inseriscono 27. Secon-

do tale giurisprudenza, infatti, invalidanti sarebbero solo i vizi espressamente qualificati come tali dal legislatore e quelli che comportano la violazione di di-ritti fondamentali di rango costituzionale.

Tale distinzione fra vizi invalidanti e vizi non invalidanti non sembra però del tutto convincente e ciò per almeno tre ragioni.

In primo luogo, l’individuazione del confine fra violazioni gravi e violazioni di secondaria importanza potrebbe risultare non sempre agevole e rischiereb-be di essere affidata quasi unicamente alla sensibilità dell’interprete.

In secondo luogo, sarebbe paradossale sostenere che il principio di legalità sia un principio di ordine costituzionale e sia un principio cardine del nostro ordinamento e poi affermare che le violazioni di legge commesse dall’Ammi-nistrazione Finanziaria nell’acquisizione degli elementi istruttori non cagioni-no l’illegittimità in via derivata degli atti da questa posti in essere o non siano inutilizzabili in sede amministrativa e processuale tranne nei casi in cui siano particolarmente gravi. Procedimento amministrativo (dir. trib.), in CASSESE (diretto da) op. cit., p. 4531; MICELI, L’attività istruttoria tributaria, cit., p. 623; FANTOZZI, L’accertamento, in ID. (a cura di), Diritto tributario, Roma, 2012, p. 538 ritiene comunque utile ricorrere alla figura del procedimento (pur inteso in senso atecnico, o comunque in un senso peculiare alla materia fiscale) per la ricostruzione e la qualificazione giuridica delle attività di attuazione del tributo.

25 MICELI, L’attività istruttoria tributaria, cit., p. 665; FALSITTA, Manuale di diritto tributa-rio, cit., p. 523.

26 In dottrina, sono state ritenute vizi non invalidanti (e, quindi, al più fonti di responsabilità disciplinari) le cosiddette irregolarità, cioè quelle patologie di poca rilevanza alle quali ricon-durre «gli atti validi ed efficaci, il cui vizio, accertabile ex ante e in astratto, riguarda solo quelle difformità dal parametro normativo che non si traducono mai nella lesione di posizioni giuridi-che soggettive del destinatario», MAZZAGRECO, I limiti all’attività impositiva nello statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2011, p. 243). Sul concetto di irregolarità nel diritto amministra-tivo, si veda anche CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1997, p. 604.

27 Si vedano le pronunce già citate nella precedente nota 6.

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Damiano Zardini 865

In terzo luogo, la predetta distinzione potrebbe risultare particolarmente penalizzante per il contribuente, dal momento che, nell’ambito dell’ordina-mento tributario, la tutela avverso le violazioni verificatesi in sede istruttoria è differita al momento dell’impugnazione dell’eventuale atto impositivo. Di con-seguenza, nel caso in cui un vizio venisse ritenuto non invalidante, il destina-tario dell’atto impositivo rimarrebbe privo di tutela sia nel momento in cui l’at-to istruttorio viene compiuto, sia in sede d’impugnazione dell’atto impositivo.

Pertanto, invece che differenziare i vizi sotto il profilo qualitativo, potrebbe essere più corretto distinguerli sulla base dell’oggetto tutelato dalle varie nor-me istruttorie e dell’interesse ad agire.

Si potrebbe, quindi, distinguere fra norme istruttorie poste a tutela di posi-zioni giuridiche soggettive (anche diverse e ulteriori rispetto ai diritti fonda-mentali della persona garantiti a livello costituzionale) e norme istruttorie po-ste a tutela soltanto del buon andamento dell’Amministrazione

28. Solo rispetto alla violazione delle prime, il contribuente avrebbe interesse

ad agire in giudizio e potrebbe quindi eccepire avanti al giudice tributario il comportamento illegittimo tenuto dall’Amministrazione in sede istruttoria.

Il contribuente non potrebbe, invece, chiedere l’annullamento dell’atto im-positivo invocando la violazione delle seconde, proprio perché non avrebbe interesse ad eccepire tale violazione.

Una distinzione di questo tipo comporterebbe l’onere per il contribuente di dedurre in giudizio quale sia stata la posizione giuridica soggettiva violata dal-l’Amministrazione e l’onere di dimostrare – in concreto – l’intervenuta viola-zione, ma consentirebbe di evitare arbitri da parte dell’interprete (e, in partico-lare, da parte del giudice, il quale sarebbe soltanto chiamato a verificare – come in ogni giudizio – la sussistenza dell’interesse ad agire oltre che delle altre con-dizioni dell’azione e la concreta violazione della posizione giuridica soggettiva invocata dal ricorrente) e, soprattutto, consentirebbe di evitare svilimenti del

28 Secondo MARCHESELLI, Solo il pregiudizio concreto derivante dai vizi dell’istruttoria inva-lida l’accertamento, in Corr. trib., n. 41, 2009, p. 3339 ss., non ogni violazione istruttoria sa-rebbe suscettibile di determinare l’invalidità dell’atto di accertamento. In particolare, non po-trebbero causare l’illegittimità dell’accertamento le violazioni di norme che non presidiano l’efficienza esterna dell’attività amministrativa e le violazioni caratterizzate da non sufficiente gravità. Secondo l’Autore, le norme dell’istruttoria potrebbero essere classificate così: norme di organizzazione dell’attività degli uffici; norme finalizzate a garantire l’accuratezza dell’ac-certamento; norme di garanzia di diritti e interessi privati, del contribuente e di terzi; norme di garanzia di interessi pubblici diversi da quelli connessi all’attuazione di tributi. Solo la vio-lazione di norme del secondo e del terzo gruppo potrebbe causare l’illegittimità dell’accerta-mento. In termini simili RAPETTI, La motivazione dell’autorizzazione all’accertamento c.d. ban-cario, in Dir. prat. trib., 2010, II, p. 256.

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principio di legalità (dal momento che non vi sarebbe più spazio per violazioni di posizioni giuridiche soggettive tollerate). Nel contempo, una distinzione co-me quella prospettata eviterebbe – in sede contenziosa – la strumentalizzazio-ne, da parte del ricorrente, di norme volte soltanto a disciplinare i rapporti in-terni all’Amministrazione.

4. Il principio di legalità e le conseguenze delle violazioni istruttorie (con parti-colare riferimento all’acquisizione dei dati bancari)

Ciò detto, occorre verificare se le norme che disciplinano l’acquisizione dei dati bancari (in particolare i nn. 6 bis, 7 e 7 bis del comma 1, art. 32, D.P.R. n. 600/1973 e i nn. 6 bis, 7 e 7 bis del comma 2, art. 51, D.P.R. n. 633/1972, i quali contengono la disciplina delle autorizzazioni) siano poste solo a tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione o anche di posizioni giu-ridiche soggettive del contribuente (soprattutto la riservatezza e l’esigenza di non rimanere lesi da comportamenti arbitrari e discriminatori da parte degli uffici finanziari).

È stato sostenuto che esse siano esclusivamente funzionali alla tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Si è, infatti, affermato che le autorizzazioni rispondano unicamente a finali-tà interne all’Amministrazione e non siano poste a tutela di interessi del con-tribuente dal momento che le norme che le disciplinano non pongono para-metri per ponderare eventuali presupposti specifici (per esempio, indizi di evasione) con la riservatezza bancaria del contribuente e, anzi, al contrario, prevedono presupposti solo generici per il loro rilascio

29. Si è inoltre ritenuto che tali autorizzazioni rispondano unicamente a logi-

che interne alla Pubblica Amministrazione (quali la verifica dell’adeguatezza della specifica attività ispettiva rispetto alle esigenze di accertamento e la veri-fica dell’intensità del potere istruttorio azionato), dal momento che la Costi-tuzione non ha posto riserve di legge o di giurisdizione quali condizioni, al le-gislatore ordinario, per tutelare la riservatezza del contribuente. Di conseguen-za, se il legislatore costituzionale non ha inteso approntare una tutela profon-da per il diritto alla riservatezza del contribuente, è difficile pensare che lo ab-bia voluto fare quello ordinario, anche perché quest’ultimo si è peraltro limi-tato a prevedere autorizzazioni di tipo gerarchico e non giudiziario

30.

29 MARCHESELLI, ult. op. cit., p. 3342. 30 PORCARO, op. cit. A favore del solo buon andamento anche Cass., 1° aprile 2003, n. 4987.

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Damiano Zardini 867

In realtà, mi sembra che siano numerosi gli argomenti in base ai quali sia possibile ritenere che le predette autorizzazioni siano poste a tutela della ri-servatezza del contribuente e comunque siano funzionali a evitare comporta-menti discriminatori e arbitrari nei suoi confronti.

In primo luogo, un paio di argomenti letterali: da un lato, l’ultimo periodo del n. 6 bis, comma 1, art. 32, D.P.R. n. 600/1973, il quale stabilisce l’obbligo, per chi chiede e per chi viene in possesso dei dati contenuti nella dichiarazio-ne rilasciata dal contribuente, su richiesta dell’Amministrazione, circa la natu-ra, il numero e gli estremi identificativi dei rapporti intrattenuti con gli opera-tori finanziari, di «assumere direttamente le cautele necessarie alla riservatez-za dei dati acquisiti»

31; dall’altro, il comma 4, art. 18, L. 30 dicembre 1991, n. 413 (cioè la norma che ha abrogato il cosiddetto “segreto bancario”) il quale impone espressamente ai soggetti che rilasciano le autorizzazioni di «imparti-re le opportune diposizioni per l’utilizzo riservato e corretto dei dati e delle notizie raccolti».

Mi pare, poi, significativa la Relazione governativa al disegno di legge da cui proviene la L. n. 413/1991

32, la quale, nell’illustrare che la ratio della di-sciplina è quella di passare da una «cultura del segreto» a quella della «tra-sparenza», ha sottolineato che l’acquisizione dei dati bancari debba avvenire attraverso un procedimento autorizzatorio «garantistico», con ciò rendendo evidente che gli interessi da ponderare al momento del rilascio dell’autorizza-zione debbano essere non tanto quelli interni dell’Amministrazione, quanto quelli del contribuente

33.

31 Il potere dell’Amministrazione di richiedere al contribuente il rilascio di tale dichiara-zione ha assunto minore importanza (anzi, secondo FRANSONI, «Indagini finanziarie», diritto alla riservatezza e garanzie «procedimentali», in Corr. trib., n. 44, 2009, p. 3591, è stato di fat-to abrogato) a seguito dell’introduzione, da parte del comma 6, art. 7, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 605, come sostituito dall’art. 1, comma 332, lett. b), n. 3, L. 30 dicembre 2004, n. 311 e successivamente modificato, dell’obbligo per gli operatori finanziari di comunicare all’Archi-vio dei rapporti finanziari dell’Anagrafe tributaria i dati identificativi dei propri clienti nonché i rapporti intrattenuti e le operazioni poste in essere. Anche nell’ambito di quest’ultima disci-plina, il provvedimento di attuazione emesso dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate in data 19 gennaio 2007, nel disciplinare modalità e termini di comunicazione dei dati all’Anagrafe tri-butaria, ha posto particolare attenzione al tema della riservatezza e della protezione dei dati personali.

32 Relazione al disegno di legge n. 3005 del 30 settembre 1991 – Senato della Repubblica, in Corr. trib., n. 42, 1991, p. 3149.

33 In questo senso, si veda SCHIAVOLIN, (voce) Segreto, VIII, Segreto bancario (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, 2008, p. 3, secondo cui le autorizzazioni sono finalizzate a tutelare i pri-vati dall’esercizio arbitrario dei poteri di indagine.

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Infine, sembra difficile poter circoscrivere la funzione delle autorizzazioni alle sole esigenze interne all’Amministrazione anche per il fatto che esse sono sopravvissute a tutte le più recenti modifiche normative, con le quali è stato progressivamente sistematizzato l’accesso automatico da parte degli Uffici a un numero sempre più vasto di informazioni relative ai rapporti finanziari

34. In altre parole, se le autorizzazioni fossero state poste a presidio solo di esigenze interne all’Amministrazione, sarebbero state probabilmente soppresse nell’am-bito di tale sistematizzazione

35. Volendo trarre, quindi, delle prime conclusioni rispetto a quanto fin qui

esposto, mi pare che, valorizzando il principio di legalità e distinguendo le vio-lazioni alle norme istruttorie sulla base dell’interesse da esse tutelato (invece che sulla base della loro presunta maggiore o minore gravità), si possa giunge-re ad affermare che le violazioni nell’acquisizione dei dati bancari possono vi-ziare l’attività accertativa anche se il legislatore non ha espressamente previsto la sanzione dell’inutilizzabilità e anche qualora si ritenga che le norme violate non siano poste a tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale.

Per questa via, si potrebbe quindi giungere a una prima presa di distanza dalle posizioni assunte dalle sentenze che sono state chiamate ad occuparsi delle “liste”.

34 Si pensi all’introduzione, da parte dell’art. 37, comma 4, lett. a), D.L. 4 luglio 2006, n. 223, dell’obbligo di comunicare all’Anagrafe tributaria l’esistenza e la natura dei rapporti fi-nanziari nonché i titolari degli stessi o all’obbligo, introdotto dall’art. 11, comma 2, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, di comunicare periodicamente all’Anagrafe tributaria le movimenta-zioni che hanno interessato i predetti rapporti. Sull’argomento secondo cui, il fatto che la di-sciplina delle autorizzazioni sia sopravvissuta a modifiche normative che hanno reso più flui-do e automatico il flusso di informazioni finanziarie a favore dell’Amministrazione, significa che tale disciplina non è posta soltanto a tutela del buon andamento della Pubblica Ammini-strazione, si veda VIOTTO, Le violazioni commesse nel corso dell’attività d’indagine, cit., p. 26. Per una ricostruzione delle varie modifiche intervenute nella disciplina degli obblighi di co-municazione, si vedano ancora VIOTTO, ult. op. cit., p. 26 e SERRANÒ, Indagini finanziarie e accertamento bancario, Torino, 2012, pp. 7-21.

35 Viceversa – proprio a conferma del fatto che le autorizzazioni e, più in generale, la di-sciplina relativa alle indagini bancarie non sono poste a tutela solo di esigenze interne al-l’Amministrazione – si noti che, proprio nell’ambito della sistematizzazione della circolazio-ne delle informazioni tra gli istituti bancari e l’Amministrazione Finanziaria, il Garante della privacy ha, in più occasioni, fornito indicazioni affinché la predetta circolazione avvenisse con modalità tali da tutelare le esigenze di riservatezza del contribuente. Ad esempio, si ve-dano i pareri del 17 aprile e del 15 novembre 2012 sullo schema di provvedimento del Diret-tore dell’Agenzia in materia di “Disposizioni di attuazione dell’articolo 11, commi 2 e 3, del de-creto legge 6 dicembre 2011 n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011 n. 214. Comunicazione integrativa annuale all’archivio dei rapporti finanziari”.

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5. Le prove illecite nell’accertamento e nel giudizio tributario

A quanto fin qui detto si potrebbe però obbiettare che, nei casi come quelli relativi alle “liste”, l’Amministrazione italiana non si sarebbe resa responsabile di alcuna violazione del principio di legalità, dal momento che non avrebbe esercitato alcun potere istruttorio (tantomeno illegittimo), ma si sarebbe li-mitata a ricevere gli elementi istruttori da amministrazioni estere (nel caso di specie, oltretutto, sembrerebbe che neppure le amministrazioni estere, quella inglese e quella australiana per il caso “Vaduz” e quella francese per il caso “Fal-ciani”, avessero posto in essere alcun atto istruttorio, dal momento che le prime si sarebbero limitate a riceverli dai servizi segreti tedeschi e la seconda direttamente dal Sig. Falciani).

Occorre quindi chiedersi se l’Amministrazione possa avvalersi, in sede di accertamento e poi in giudizio, di elementi di cui sia venuta legittimamente in possesso, ma i quali abbiano un’origine illecita.

La questione da risolvere è, quindi, se siano ammesse o meno, in materia tributaria, le cosiddette “prove illecite”

36. In ambito processual-civilistico non si è ancora giunti a un punto unani-

memente condiviso, ma, per quanto riguarda le prove precostituite quali quel-le documentali, si è sostenuto che i comportamenti illeciti non riguarderebbe-ro l’ingresso della prova nel processo, ma solo il suo arrivo in mano al sogget-to che la vuole utilizzare. L’illecito riguarderebbe, quindi, un momento pre-

36 In dottrina, si tende a distinguere le prove illecite da quelle atipiche. Ad esempio, se-condo RICCI, Le prove illecite nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, p. 34, sarebbe-ro atipiche le prove non previste come tali dall’ordinamento, mentre sarebbero illecite quelle che, pur essendo state concretamente previste, sono affette da vizi che ne inficiano qualche particolare aspetto. In particolare, rispetto alle prove precostituite, sarebbe illecita la prova acquisita agli atti in modo regolare, di cui, però, la parte sia entrata in possesso in modo ille-cito. Secondo GRAZIOSI, Usi e abusi di prove illecite e prove atipiche nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, p. 693, sarebbero illecite le prove che entrano in possesso della parte in modo illegale o che, per qualsiasi ragione, si formano illegittimamente fuori dal processo, men-tre sarebbero atipiche le prove estranee al catalogo legale, o, meglio, come precisa lo stesso Au-tore, quelle che, sebbene siano logicamente incluse in quel catalogo, si siano però concreta-mente formate con modalità lecite, ma diverse da quelle previste dalla legge processuale. Le sentenze della Cass. nn. 16950 e 16951/2015 sembrano ricondurre alle prove atipiche gli elementi trasmessi dal dipendente della banca alle Amministrazioni estere che li hanno poi inoltrati a quella italiana. Da quanto si apprende dalla stampa, ma anche dalla stesse sentenze prima citate, la trasmissione dei predetti elementi alle Amministrazioni estere sarebbe avve-nuta in violazione, quanto meno, degli obblighi che gravavano sul predetto dipendente nei confronti della banca. Sarebbe, quindi, stato più opportuno ricondurre i predetti elementi alla categoria delle prove illecite e non a quella delle prove atipiche.

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processuale e sarebbe perciò irrilevante. Pertanto, i documenti di cui la parte è venuta in possesso illecitamente (o, comunque, i documenti di origine illeci-ta) non avrebbero un mero valore indiziario, ma di prova piena

37. Si tratta di una posizione che, pur confortata anche da precedenti giurispru-

denziali 38, non mi sembra condivisibile.

37 RICCI, op. cit., p. 70. 38 Trib. Bari, sez. I, sent. 16 febbraio 2007. In senso contrario, ad esempio: Cass. Torino,

8 maggio 1884; Corte app. Milano, 5 aprile 1934; Cass. Regno, 8 febbraio 1935; Trib. Roma, ord. 14 marzo 1973. In dottrina, l’utilizzabilità processuale delle prove precostituite illecite è stata sostenuta, oltre che da RICCI, op. cit., p. 70, fra gli altri da: ONDEI, Utilizzazione di prove acquisite con mezzi illeciti, in Il Foro padano, XXVII, 1972, p. 423. La dottrina maggioritaria, invece, si è manifestata contraria all’utilizzabilità processuale di prove di formazione o pro-venienza illecita. CARNELUTTI, Illecita produzione di documenti, in Riv. dir. proc. civ., 1935, II, p. 63, secondo cui l’efficace reazione dell’ordinamento nei confronti della parte che intenda avvalersi di una di un documento illecitamente posseduto consisterebbe innanzitutto nel pri-vare tale parte del beneficio che quel documento avrebbe potuto recarle. ALLORIO, Efficacia giuridica di prove ammesse ed esperite in contrasto con un divieto di legge?, in Giur. it., n. 2, 1960, I, p. 871, ha inquadrato l’illiceità della produzione del documento sottratto o illecitamente detenuto come un caso di inammissibilità dell’atto processuale di produzione. CAPPELLETTI, Efficacia di prove illegittimamente ammesse e comportamento della parte, in Riv. dir. civ., 1961, p. 562, il quale, riprendendo una tesi di Allorio esposta a p. 70 dell’opera sopra citata, ha negato la possibilità, per il giudice, di porre a fondamento della sua decisione la prova inammissi-bilmente raccolta, dal momento che il principio della libertà di convincimento del giudice si applicherebbe «alle prove acquisite al processo nel rispetto della legge, non a quelle che, se si fosse tributata alla legge la debita osservanza, non sarebbero mai state … acquisite al proces-so». SATTA, Commentario al codice di procedura civile, II, Milano, 1966, p. 129 ha sostenuto che la giustizia della decisione sarebbe in funzione delle norme processuali, le quali sole assi-curerebbero tale giustizia e che la disponibilità di un documento non sarebbe un elemento esteriore ed estrinseco al documento stesso, ma farebbe parte del valore probatorio di questo. Di conseguenza, non si potrebbe disporre di un documento perché tale documento serve per la prova, ma, al contrario, un documento serve per la prova in quanto se ne possa disporre. ANDRIOLI, (voce) Prova (dir. proc. civ.), in Noviss. Dig. it., XIV, 1967, p. 291, per il quale sa-rebbero inutilizzabili gli elementi acquisiti in violazione delle disposizioni della Costituzione che assicurano i diritti inviolabili dei cittadini. VIGORITI, Prove illecite e Costituzione, in Riv. dir. proc., n. 1, 1968, p. 72, ha, però, distinto fra acquisizione illecita di elementi istruttori po-sta in essere da una pubblica autorità (la quale darebbe luogo all’inutilizzabilità processuale di tali elementi, dal momento che le norme costituzionali offrono una particolare posizione al singolo nei confronti dei pubblici poteri) e acquisizione illecita posta in essere da un priva-to (la quale, pur restando il privato punibile, non cagionerebbe inutilizzabilità processuale). COMOGLIO, La garanzia costituzionale dell’azione ed il processo civile, Padova, 1970, p. 298, ha manifestato di aderire all’orientamento secondo cui si potrebbero dedurre anche da alcune norme della Costituzione (ad esempio, dall’art. 13, comma 3, dall’art. 14, comma 2 o dall’art. 21, comma 4) divieti probatori o exclusionary rules dirette a precludere l’utilizzabilità proces-suale di prove reali illecitamente acquisite. DENTI, (voce) Prova documentale (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXVII, 1988, p. 720, ha affermato che l’illiceità della formazione o della dispo-

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Infatti, consentire l’utilizzabilità processuale di un documento di formazione o provenienza illecita sarebbe, prima di tutto, illogico, perché ciò significhereb-be che l’ordinamento, dopo aver cercato di impedire un determinato compor-tamento qualificandolo come illecito, una volta che esso si sia compiuto ne per-metterebbe la propagazione degli effetti addirittura alla fase processuale. nibilità delle prove documentali rappresenterebbe il limite generale all’acquisizione di tali prove, aggiungendo, però, che «il concetto di prova illecita non è definibile in termini gene-rali, potendosi soltanto fare riferimento alla violazione sia di divieti espressi … sia di garanzie fondamentali della persona costituzionalmente riconosciute». ANGELONI, I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, Padova, 1992, p. 47 ss., dopo aver riassunto i princi-pali orientamenti giurisprudenziali e dottrinali contrari e favorevoli all’utilizzabilità proces-suali delle prove illecite, ha finito per propendere per i primi. Secondo STUFANO, Sulla utiliz-zabilità delle prove illecite o illegittime, in Corr. trib., n. 39, 2002, p. 3535, l’ammissibilità nel procedimento tributario di prove acquisite contra legem è esclusa dalla supremazia del prin-cipio di legalità cui deve uniformarsi l’azione dei pubblici poteri. ARIOLA, Le prove atipiche nel processo civile, Torino, 2008, pp. 133-135, sembra aver escluso l’utilizzabilità processuale del-le prove illecite sulla base di quattro argomenti: l’illiceità dell’atto qualificherebbe non sol-tanto la condotta consapevole e volontaria dell’agente, ma anche le conseguenze volute e pre-vedibili che scaturiscono dalla condotta medesima. Decidendo sulla base di una prova illeci-tamente acquisita, il Giudice consentirebbe che l’illecito venga portato a conseguenze ulte-riori; consentendo a una parte di giovarsi di una prova illecitamente acquisita, il Giudice che dovesse decidere in senso favorevole a tale parte, finirebbe per violare il principio della ripar-tizione dell’onere della prova; la disciplina positiva degli strumenti (in particolare l’ordine di esibizione di cui all’art. 210 c.p.c.) di acquisizione di prove che non si trovano nella disponi-bilità della parte che ha interesse alla loro utilizzazione in giudizio induce ad escludere che le parti del processo vantino un diritto assoluto al conseguimento della prova, tale da giustifica-re anche il ricorso a strumenti illeciti di acquisizione; anche qualora si volesse configurare il diritto della parte di giovarsi processualmente di un documento di cui è in possesso (anche quando tale disponibilità è stata acquisita illecitamente) quale diritto potestativo, comunque la parte non potrebbe mai abusare di tale diritto. GRAZIOSI, op. cit., pp. 702-703, ha affermato che l’utilizzabilità processuale delle prove illecite precostituite dovrebbe venire esclusa sulla base di tre argomenti: ammettere l’utilizzabilità di tali prove si porrebbe in contrasto con il valore fondamentale, tutelato dalla nostra Costituzione, della persona e della tutela dei suoi diritti fondamentali; il nostro ordinamento ripudia ogni forma di arbitrario e violento eserci-zio delle proprie ragioni e procurarsi o formare illecitamente le prove è un comportamento teso ad esercitare arbitrariamente le proprie ragioni; infine, lo strumento processuale tipico per far acquisire, agli atti del processo, una fonte materiale di prova di cui non si ha la deten-zione è l’esibizione istruttoria di cui all’art. 210 c.p.c. Perseguire lo stesso risultato con altri mezzi significa acquisire una prova scavalcando le norme processuali che ne disciplinano la formazione. BARBAZZA, Vecchie e nuove prove tipiche, atipiche ed illecite (e la loro valutazione da parte del Giudice) nei procedimenti di famiglia, in Ricerche giuridiche, n. 1, 2015, IV, p. 94, ha escluso l’utilizzabilità processuale delle prove precostituite illecite, dal momento che ciò sa-rebbe «inconciliabile con la logica costituzionale tesa alla primaria tutela della persona e dei suoi diritti nonché alla garanzia dei principi del giusto processo, e con la naturale inclinazione del nostro ordinamento a rigettare qualsivoglia forma di arbitrario e violento esercizio delle proprie ragioni».

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Inoltre, se si consentisse a una delle parti di introdurre elementi istruttori di formazione o provenienza illecita, si finirebbe per violare uno dei profili più importanti del principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., quello della parità delle armi, perché la parte che intendesse avvalersi di tali elementi, finirebbe per trovarsi in una posizione di privilegio. Né si potrebbe sostenere che la posizione di uguaglianza processuale fra le parti non sarebbe violata per il fatto che anche le altre potrebbero avvalersi di elementi di formazione o provenienza illecita, perché questo significherebbe legittimare una sorta di “corsa all’illecito” e ciò sarebbe ovviamente incompatibile con la ratio fondan-te del principio del giusto processo e, più in generale, sarebbe in contrasto con i principi di civiltà giuridica.

Sicuramente, poi, l’utilizzabilità delle prove illecite dovrebbe essere esclusa nei casi in cui esse si pongano in contrasto con i diritti di libertà (della persona, del domicilio e della corrispondenza), dal momento che, diversamente, ver-rebbe meno l’inviolabilità, tutelata dagli artt. 13, 14 e 15 Cost., di tali diritti.

A quanto sopra, si aggiunga che mi sembra meriti accoglimento l’argomen-to di chi ha ritenuto che, in materia tributaria, l’inutilizzabilità delle prove ille-cite sarebbe rafforzata dal fatto che una delle parti è una Pubblica Ammini-strazione, tenuta a conformare la propria azione con i principi di cui all’art. 97 Cost., i quali sono difficilmente compatibili con la possibilità che la stessa possa trarre un vantaggio processuale da un’attività contra legem

39. Ecco quindi che se si riconoscesse, come ritengo debba riconoscersi, che

nel processo (e prima ancora nell’accertamento) tributario non sono ammes-se prove illecite, si dovrebbe allora concludere che la sanzione dell’inutilizza-bilità di un determinato elemento istruttorio dovrebbe intervenire non solo nel caso in cui tale elemento sia stato acquisito dall’Amministrazione median-te l’esercizio illegittimo di poteri istruttori, ma anche nel caso in cui l’Ammini-

39 VIOTTO, Le violazioni commesse nel corso dell’attività d’indagine, cit., pp. 14-15, propen-de per l’esclusione dell’utilizzabilità processuale delle prove precostituite illecite nel caso in cui l’illecita acquisizione documentale si sostanzi nella violazione di uno dei diritti di libertà che la Costituzione qualifica come inviolabili. In termini più generali, l’Autore sostiene che l’inutilizzabilità processuale derivi dal principio del giusto processo, il quale, per essere giu-sto, non potrebbe prescindere dalle modalità attraverso le quali si perviene al risultato finale dell’accertamento della verità processuale. Con riferimento alla materia tributaria, l’Autore ag-giunge che l’inutilizzabilità sarebbe rafforzata dal fatto che una delle parti del processo sia una Pubblica Amministrazione, la quale è istituzionalmente tenuta a conformare la propria azione al pieno rispetto dei principi di legalità e imparzialità di cui all’art. 97 Cost., principi che stridono con la possibilità che la stessa Amministrazione possa trarre vantaggio in ambi-to processuale da un’attività contra legem da essa posta in essere.

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strazione non abbia posto in essere alcun potere istruttorio e l’illecito sia stato commesso (anche da privati) in una fase antecedente alla trasmissione del predetto elemento all’Amministrazione stessa, la quale si sia limitata a ricever-lo e a utilizzarlo per fondare la propria pretesa prima in sede accertativa e poi in quella processuale.

6. Lo spazio, nell’accertamento e nel processo, per gli «elementi comunque ac-quisiti»

Le conclusioni fin qui raggiunte devono essere verificate alla luce di quelle norme che sembrano consentire l’ingresso nell’accertamento e nel processo tributario di «elementi comunque acquisiti». Occorre quindi verificare se, attraverso le previsioni degli artt. 37, comma 1, 39, comma 2, e 41, comma 2, D.P.R. n. 600/1973, sia possibile consentire tale ingresso anche ad elementi acquisiti attraverso l’illecito esercizio di poteri istruttori o alle prove illecite

40. Già l’esame della lettera di tali norme porta a circoscrivere l’utilizzabilità

degli «elementi comunque acquisiti» al solo ambito degli accertamenti in-duttivi-extracontabili del reddito d’impresa e degli accertamenti d’ufficio

41. Infatti, l’art. 37, comma 1 afferma che il controllo delle dichiarazioni possa

avvenire sulla base dei dati e delle notizie acquisiti attraverso l’esercizio dei poteri istruttori di cui agli artt. 32 e 33, nonché sulla base delle informazioni di cui gli uffici siano “comunque” in possesso, con ciò associando l’avverbio “co-munque” alle sole informazioni e non anche ai dati e alle notizie. Il secondo comma del medesimo art. 37 afferma poi che, sulla base dei risultati dei con-trolli, gli uffici procedono agli accertamenti «osservando le disposizioni dei successivi articoli».

Quanto ai “successivi articoli”: nell’art. 38 non c’è alcun richiamo, neppure indiretto, agli «elementi comunque acquisiti», dal momento che esso, quan-to all’accertamento analitico del reddito delle persone fisiche, afferma che le incompletezze, le falsità e le inesattezze delle dichiarazioni possono essere de-sunti anche «dai dati e dalle notizie di cui all’articolo precedente», mentre non menziona le informazioni di cui gli uffici siano “comunque” in possesso (le

40 Verifiche simili potrebbero venire condotte, in materia di IVA, nei confronti dell’art. 55, comma 1, D.P.R. n. 633/1972.

41 Rispetto agli «elementi comunque acquisiti», un accurato esame della lettera degli artt. 37, 38, 39 e 41, D.P.R. n. 600/1973 è stato condotto da VIOTTO, I poteri d’indagine dell’amministrazione finanziaria, cit., pp. 420-422.

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quali sembrano quindi essere funzionali solo alla fase del controllo, ma non anche a quella dell’accertamento); neppure nel primo comma dell’art. 39 c’è al-cun riferimento agli «elementi comunque acquisiti»; è solo nel secondo comma dell’art. 39, nonché nell’art. 41, che si consente agli uffici di determi-nare il reddito d’impresa (art. 39) o il reddito complessivo (art. 41) «sulla ba-se dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza».

In ogni caso, anche nell’accertamento induttivo-extracontabile del reddi-to d’impresa e dell’accertamento d’ufficio, mi sembra che ci siano almeno due ostacoli a che l’avverbio “comunque” possa essere interpretato nel senso che esso consentirebbe l’ingresso nell’accertamento e nel processo anche di elementi acquisiti attraverso l’illecito esercizio di poteri istruttori o di prove illecite.

Il primo è rappresentato dal fatto che, come si è cercato sopra di dimostra-re, la disciplina dei poteri istruttori è dominata dal principio di legalità sostan-ziale (il quale ha un fondamento costituzionale) e il divieto di prove illecite si fonda anche sul principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. Di con-seguenza, se le norme contenute nel secondo comma dell’art. 39 e nell’art. 41, D.P.R. n. 600/1973 venissero così interpretate esse finirebbero per avere una portata incostituzionale.

Il secondo è che se le predette norme venissero interpretate come sopra ipotizzato, allora non si dovrebbe neppure escludere che esse potrebbero con-sentire l’ingresso nell’accertamento e nel processo tributario perfino di ele-menti istruttori acquisiti in violazione degli artt. 13, 14 e 15 Cost., ma ciò sa-rebbe inaccettabile, dal momento che tali norme garantiscono diritti fonda-mentali della persona.

Il predetto avverbio e l’espressione sopra riportata sembrano invece fun-zionali a marcare una differenza fra l’accertamento induttivo, l’accertamento analitico/induttivo e l’accertamento analitico puro, consentendo, solo nell’am-bito del primo, la rideterminazione del reddito anche sulla base di elementi diversi da quelli acquisiti mediante modalità regolamentate.

In altre parole, l’avverbio “comunque” e l’espressione in cui esso si inserisce sembrano voler legittimare l’ingresso nell’accertamento e nel processo delle prove atipiche (ammissibili nell’ambito di ogni metodologia accertativa, ma in grado, nell’accertamento induttivo, di fondare da sole la ricostruzione del mag-gior reddito), non anche degli elementi acquisiti con l’esercizio illecito dei po-teri istruttori o delle prove illecite.

Tant’è che le stesse sentenze sulle “liste” associano gli «elementi comunque acquisiti» alle prove atipiche e non a quelle illecite, così come, del resto, han-no fatto, quando sono state chiamate ad occuparsi di «elementi comunque ac-

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quisiti», la giurisprudenza 42, la dottrina

43 e, almeno in un caso, perfino l’Am-ministrazione

44. Quindi, posto che, nel caso di specie, gli elementi “trafugati” rappresenta-

no prove illecite e non prove atipiche, dal momento che la loro circolazione è

42 Sul fatto che fra gli «elementi comunque acquisiti» che possono trovare ingresso nell’accertamento e nel processo tributario vi siano anche le “prove atipiche”, la giurisprudenza sembra costante. Fra le più recenti pronunce, si vedano: Cass., sez. VI, ord. 20 gennaio 2017, n. 1636; Cass., sez. V, sent. 9 settembre 2016, n. 17810; Cass., sez. V, sent. 13 gennaio 2016, n. 403; Cass., sez. V, sent. 4 dicembre 2015, n. 24783; CTR. Bari, sez. XIII, sent. 21 luglio 2016, n. 1965; CTR Milano, sez. XXX, sent. 19 maggio 2016, n. 3040.

43 La dottrina pare consolidata nel ritenere che le norme prima citate nel testo non pos-sano costituire il “grimaldello” per introdurre nell’accertamento e nel processo tributario ele-menti acquisiti illecitamente: MOSCHETTI, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cit-tadino, cit., p. 1927; GRANELLI, Segreto istruttorio e accertamento tributario, in MOSCHETTI (a cura di), in Procedimenti tributari e garanzie del cittadino, Padova, 1984, p. 144; ALBERTINI, Nullità dell’accertamento fondato su prove raccolte in violazione dell’art. 52, 2° comma, D.P.R. n. 633 del 1972: una conferma della Commissione Centrale, in Boll. trib., n. 13, 1988, p. 1054; CALIFANO, Commento all’art. 55 del D.P.R. 633/1972, in FALSITTA-MOSCHETTI-MARONGIU, Commentario breve alle leggi tributarie, III, Padova, 2011, p. 526, secondo cui, nell’accerta-mento induttivo IVA l’Ufficio può utilizzare anche mezzi di prova atipici e non raccolti tra-mite uno dei poteri istruttori di cui all’art. 51, D.P.R. n. 633/1972, purché legittimi e non ac-quisiti in violazione di limiti imposti dalla legge. Tali mezzi sono utilizzabili anche negli ac-certamenti analitici, ma negli accertamenti induttivi possono fondare da soli la ricostruzione di un maggiore imponibile; STEVANATO, I limiti soggettivi all’utilizzo ai fini fiscali di prove acquisi-te dalla Guardia di finanza nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria, in Rass. trib., 1990, II, p. 759; FICARI, Utilizzazione e trasmissione di dati bancari, segreto bancario ed accertamento tribu-tario: dalla legge 197/1991 antiriciclaggio alla legge 413/1991, in Riv. dir. trib., 1992, I, p. 871; SCHIAVOLIN, Poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria, cit., p. 201; BUCCISANO, Valore probatorio degli atti acquisiti nella fase istruttoria dell’accertamento tributario, e motivazione dell’atto impositivo, in Riv. dir. trib., 1996, II, pp. 954-955, secondo cui le norme citate nel te-sto impedirebbero all’Amministrazione di acquisire elementi istruttori mediante l’illegittimo esercizio di poteri, mentre non imporrebbero all’Amministrazione che si limiti a ricevere da altri tali elementi senza averli richiesti di indagare circa la liceità del comportamento di chi ha trasmesso i predetti elementi; VIOTTO, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, cit., secondo cui le disposizioni che fanno riferimento agli elementi «comunque raccolti» non possono essere utilizzate per porre rimedio ai vizi dell’attività istruttoria. In via mera-mente concessiva, l’Autore contempla l’utilizzabilità degli elementi non legittimamente rac-colti nell’ambito dell’accertamento induttivo-extracontabile del reddito d’impresa; A.M. GAF-FURI, I limiti allo scambio delle informazioni nelle indagini fiscali, in Fiscalità internazionale, 2004, p. 419.

44 Dir. gen. Tasse imposte indirette affari, Div. XVI, Ris. Min. 20 marzo 1981, n. 420207, in Boll. trib., 1981, p. 595, nella quale, quando era ancora in vigore il segreto bancario, è stato affermato che l’espressione «comunque raccolti o venuti a conoscenza dell’Ufficio» contenuta nell’art. 55, comma 1, D.P.R. n. 633/1972 non può essere invocata per superare il predetto segreto e che l’Ufficio non può utilizzare i dati di cui è in possesso se sono stati acquisiti da altri organi in violazione di legge.

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il frutto di un illecito commesso da un dipendente a danno dell’Istituto per cui lavorava, non possono essere le norme citate a legittimare l’ingresso dei pre-detti elementi nell’accertamento e nel processo tributari.

7. L’illecito commesso da un privato all’estero

Le sentenze sulle “liste” in commento hanno poi affermato la presunta irri-levanza dell’eventuale illecito commesso dal dipendente dell’istituto bancario e la presunta irrilevanza della violazione dei doveri di fedeltà verso il datore di lavoro.

In termini più generali, ciò che viene affermato da tale filone giurispruden-ziale è la presunta irrilevanza dell’eventuale illecito commesso da un privato – e non direttamente dall’Amministrazione – per di più all’estero.

Non mi sembra che tale giudizio di irrilevanza possa essere condiviso. Quanto al fatto che l’illecito sia stato commesso da un privato, dal momen-

to che ciò comporta soltanto che la violazione debba essere apprezzata nel-l’ambito della disciplina delle prove illecite invece che nell’ambito della disci-plina dell’esercizio illecito dei poteri istruttori, non che il predetto illecito sia privo di rilevanza.

Quanto al fatto che l’illecito sia stato commesso all’estero, se per prova precostituita illecita deve intendersi quella prova di cui una parte sia entrata in possesso in modo illecito o che si sia comunque formata illegittimamente fuo-ri dal processo

45, non si vede quale rilievo possa avere il fatto che il luogo del-l’acquisizione o della formazione illecita si trovi all’estero invece che in Italia. Sarebbe, infatti, manifestamente irrazionale ritenere che la prova illecita po-trebbe trovare ingresso nell’accertamento e nel processo tributario italiani se sorta o acquisita all’estero mentre altrettanto non potrebbe avvenire se fosse sor-ta o fosse stata acquisita in Italia.

Né l’illecito potrebbe venire sanato da una trasmissione dell’elemento istrut-torio dall’estero all’Italia secondo i canali istituzionali, dal momento che se la trasmissione della prova precostituita avvenisse correttamente secondo i ca-nali della cooperazione amministrativa, ciò potrebbe, al più, portare ad esclu-dere che l’Amministrazione italiana abbia acquisito la predetta prova in modo illecito ma non inciderebbe in alcun modo sull’eventuale formazione illecita

45 Per i riferimenti dottrinali sulla nozione di prova illecita, si rinvia a quanto sopra scritto nella nota 36.

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della stessa o sulle acquisizioni da parte delle Amministrazioni che hanno poi effettuato la trasmissione a quella italiana

46. Piuttosto rimarrebbe il problema di come accertare la violazione commes-

sa all’estero. Ora, se tale accertamento fosse avvenuto nell’ambito di un giudizio estero,

il contribuente potrebbe far valere, nel giudizio tributario italiano, la pronun-cia estera. E ciò sulla base di quanto previsto dall’art. 64, D.Lgs. n. 218/1995, dall’art. 26 della Convenzione di Bruxelles del 1968, dall’art. 33 della Conven-zione di Lugano II del 2007 e dall’art. 36 del Regolamento di Bruxelles I bis

47. Se, invece, un accertamento di tal tipo non vi sia stato, il contribuente po-

trebbe chiedere al giudice italiano di accertare incidentalmente, ai sensi del-l’art. 2, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992 l’illiceità della prova. E il giudice italia-no dovrebbe farlo applicando la lex causae, cioè la legge applicabile al rappor-to nel cui ambito sarebbe sorta l’illiceità

48.

46 A proposito dell’inidoneità di una corretta trasmissione a sanare l’illecito verificatosi al-l’estero, D’AYALA VALVA, op. cit., p. 405, afferma che, almeno per quanto riguarda gli Stati «con una giurisprudenza attenta alla corretta dinamica comportamentale degli impiegati delle am-ministrazioni», la semplice trasmissione, da uno Stato all’altro, di documentazione acquisita illegittimamente «non può comportare lo “sbiancamento” del vizio iniziale». MARCHESELLI, «Lista Falciani»: le prove illecite sono utilizzabili nell’accertamento tributario?, in Corr. trib., n. 47, 2011, p. 3912, afferma: da un lato, che il principio di legalità rappresenta non un limite all’azione pubblica, ma una garanzia del soggetto e che, quindi, esso rappresenta una garanzia non solo rispetto alle violazioni provenienti direttamente dall’Amministrazione, ma anche ri-spetto alle violazioni provenienti da soggetti estranei all’Amministrazione di cui l’Ammini-strazione intenda avvalersi; dall’altro, che la regolarità formale della trasmissione, da parte di un’Amministrazione estera, di un elemento istruttorio non elide l’illegittimità sostanziale di tale elemento. Su quest’ultima affermazione concordano, fra gli altri, anche: A.M. GAFFURI, op. cit., p. 419; MONTI, Poteri di indagine dell’Amministrazione Finanziaria nello scambio di informazioni e principio di «reciprocità», in Fiscalità internazionale, 2010, p. 153; DORIGO, La cooperazione fiscale internazionale, in SACCHETTO (a cura di), Principi di diritto tributario eu-ropeo e internazionale, Torino, 2011, p. 218; BUCCISANO, Assistenza amministrativa interna-zionale dall’accertamento alla riscossione dei tributi, Bari, 2013, pp. 85-86. In senso contrario, si veda però: CASTIGLIONE, Cooperazione fra autorità fiscali, accertamento tributario e garanzie del contribuente, in Giust. trib., n. 3, 2009, p. 260.

47 Ciò non sembra precluso dal fatto che il campo di applicazione delle norme citate sia quello civile e commerciale con espressa esclusione della materia tributaria (art. 1 della Con-venzione di Bruxelles, art. 1 della Convenzione di Lugano II, art. 1 del Reg. n. 1215/2012), dal momento che il riconoscimento della pronuncia straniera avverrebbe solo nell’ambito dell’accertamento incidentale, da parte del giudice tributario ed ex art. 2, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992, circa l’illiceità, all’interno di un rapporto di diritto privato, della formazione o del-la acquisizione di un elemento istruttorio.

48 Se tale legge fosse una legge straniera, il giudice potrebbe conoscerla avvalendosi degli strumenti del diritto internazionale privato, fra cui quelli previsti dall’art. 14, L. n. 218/1995,

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Né vi sarebbe ragione per limitare, come suggerito dalle sentenze della Cass. nn. 16950 e 16951/2015, l’accertamento incidentale del giudice tributario italiano ai casi in cui questo sia chiamato a tutelare diritti fondamentali di ran-go costituzionale. Tant’è che i Supremi Giudici non hanno motivato in alcun modo tali frettolose affermazioni

49, le quali, per di più, vengono poste a chiu-sura di ragionamenti sull’eventuale responsabilità penale del funzionario del-l’Istituto estero e non a conclusione di riflessioni sull’eventuale illecito civile posto in essere da tale funzionario.

Anche il fatto che l’illecito sarebbe stato commesso da un privato (e non direttamente dall’Amministrazione) e, per di più, all’estero, non sembra poter quindi mettere seriamente in discussione le conclusioni sopra raggiunte.

secondo cui: «L’accertamento della legge straniera è compiuto d’ufficio dal giudice. A tal fine questi può avvalersi, oltre che degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali, di informazioni acquisite per il tramite del Ministero di grazia e giustizi; può altresì interpel-lare esperti o istituzioni specializzate. Qualora il giudice non riesca ad accertare la legge stra-niera indicata, neanche con l’aiuto delle parti, applica la legge richiamata mediante altri crite-ri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la legge italiana». Vi è da segnalare che, non tanto rispetto alle prove illecite quanto nell’ambito del dibattito sull’acquisizione di elementi istruttori mediante l’illegittimo eserci-zio di poteri da parte dell’Amministrazione estera destinataria di una richiesta di coopera-zione amministrativa, il dibattito circa il diritto applicabile e il giudice da adire è tuttora aper-to. Infatti, vi è: chi ha sostenuto che il vizio debba essere fatto valere avanti al giudice del Paese dell’Amministrazione richiesta e secondo il diritto in esso applicabile (DEL FEDERICO, Scambio di informazioni fra Autorità fiscali e tutela del contribuente: profili internazionalistici, comunitari ed interni, in Riv. dir. trib. int., 2010, p. 233); chi ha sostenuto che debba essere fatto valere avanti al giudice dell’Amministrazione richiedente, cioè il giudice italiano, il qua-le sarà però tenuto ad applicare il diritto dello stato estero, cioè dello stato destinatario della richiesta di cooperazione (BUCCISANO, Assistenza amministrativa internazionale dall’accerta-mento alla riscossione dei tributi, cit., pp. 85-86); chi, infine, ha affermato che il vizio dell’atti-vità amministrativa debba essere eccepito avanti al giudice italiano, cioè il giudice del Paese in cui si trova l’Amministrazione beneficiaria dell’attività di cooperazione amministrativa, senza esprimersi sul diritto in base al quale l’eccezione debba essere valutata (A.M. GAFFURI, op. cit., p. 419; MONTI, op. cit., p. 153). Per dirimere tali incertezze, sarebbe auspicabile un intervento a livello comunitario o internazionale al fine di individuare: i diritti del contribuente e/o del terzo sottoposti ad attività istruttoria da parte dell’Amministrazione richiesta; il dirit-to applicabile; il giudice da adire; le modalità di accesso alla giurisdizione (impugnazione dell’atto istruttorio viziato o impugnazione del successivo atto conclusivo del provvedimen-to). Sull’opportunità di un intervento normativo, mediante regolamento, su tali argomenti, si era già espresso FEDELE, Prospettive e sviluppi della disciplina dello “scambio di informazioni” fra Amministrazioni finanziarie, in Rass. trib., 1999, 1, p. 58.

49 La questione, probabilmente, non era stata neppure oggetto dei motivi di ricorso.

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8. La violazione della riservatezza dei dati bancari

Da ultimo, le conclusioni raggiunte nel presente lavoro devono essere veri-ficate alla luce di quanto affermato dalle sentenze sulle “liste” circa la presunta irrilevanza della violazione della riservatezza dei dati bancari.

Secondo i Supremi Giudici, infatti, al dovere di segreto bancario cui sono tradizionalmente tenuti gli istituti di credito, non corrisponderebbe nei singo-li clienti delle banche una posizione giuridica soggettiva costituzionalmente protetta né un diritto della personalità, poiché la sfera di riservatezza con la quale vengono tradizionalmente circondati i conti e le operazioni degli utenti dei servizi bancari sarebbe direttamente strumentale solo all’obbiettivo della sicurezza e del buon andamento dei traffici commerciali, il quale non potrebbe spingersi fino al punto di rappresentare un ostacolo all’adempimento del do-vere inderogabile di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.

Di conseguenza, secondo i Supremi giudici, eventuali violazioni della ri-servatezza bancaria non troverebbero tutela legale nei confronti del fisco per-ché “soccomberebbero” di fronte al superiore interesse al ripristino del corret-to riparto dell’obbligazione tributaria.

Ora, l’opinione secondo cui la riservatezza dei dati bancari non sarebbe un valore costituzionale o sarebbe al più riconducibile a valori costituzionali (la libertà di iniziativa economica e la tutela del risparmio) di rango inferiore ri-spetto al dovere di tutti di concorrere alla spesa pubblica trova, indubitabilmen-te, un ampio sostegno in dottrina

50.

50 NUZZO, Poteri di polizia tributaria, segreto bancario e repressione degli illeciti fiscali nella c.d. «legge La Torre», in Giur. comm., 1984, pp. 529-533, il quale, in un’epoca in cui era anco-ra in vigore il cosiddetto “segreto bancario”, ha escluso che esso potesse essere considerato un valore costituzionalmente tutelato, dal momento che non sarebbe stato possibile rinveni-re traccia del principio di riservatezza né nell’art. 41 né nell’art. 47 Cost. Se, forzando l’in-terpretazione di tali articoli, si fosse voluto individuare un fondamento costituzionale del principio di riservatezza, esso, in caso di conflitto con il principio di solidarietà, sarebbe rimasto soccombente nei confronti di quest’ultimo e ciò sia perché il costituente avrebbe stabilito chiare gerarchie fra interessi generali, libertà civili e libertà di iniziativa economica, sia perché il principio di solidarietà sarebbe affermato a chiare lettere nella Costituzione, mentre il princi-pio di riservatezza sarebbe solo espunto dal dettato costituzionale. RUSSO, Questioni vecchie e nuove in tema di operatività del segreto bancario in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 1991, I, pp. 81-82, esclude che il segreto bancario possa avere fondamento costituzionale, dal mo-mento che, al fine di individuare tale fondamento, non sarebbero invocabili né l’art. 47 (in quanto, sebbene la relazione della commissione economica avesse prospettato la necessità di mantenere e far rispettare il segreto bancario, l’assemblea costituente non ritenne di tradurre

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Non sembrano però privi di fondamento gli argomenti di chi prova a tro-vare un riferimento costituzionale o sovranazionale alla riservatezza dei dati bancari, sottolineando, soprattutto, che tali dati rappresenterebbero la proie-zione economica di informazioni strettamente personali

51. Ancora più convincenti sembrano gli argomenti di chi sostiene che, a pre-

scindere dall’esistenza di un fondamento costituzionale per l’interesse alla ri-servatezza dei dati bancari, comunque tale interesse sarebbe espressione di va-lori della persona e non solo di valori economici. E ciò proprio perché i dati bancari rappresenterebbero l’aspetto monetario di scelte, gusti e sensibilità at-tinenti a sfere strettamente personali

52.

tale suggerimento in una petizione di principio), né l’art. 15 (poiché il segreto bancario non sarebbe riconducibile alla libertà e alla segretezza della corrispondenza), né l’art. 41 Cost. (po-sto che l’eventuale possibilità, per l’Amministrazione, di superare il segreto bancario non sa-rebbe di ostacolo allo svolgimento dell’iniziativa economica privata). SCHIAVOLIN, (voce) Se-greto, cit., p. 1, il quale ha constatato che i tentativi dottrinali di ancorare il segreto bancario fiscalmente rilevante alle garanzie della segretezza della corrispondenza di cui all’art. 15 Cost., della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. o del risparmio di cui all’art. 47 Cost. non avrebbero portato a risultati generalmente accettati.

51 VIOTTO, Le violazioni commesse nel corso dell’attività d’indagine, cit., pp. 22-25, il quale riconduce il diritto alla riservatezza dei dati e delle informazioni concernenti la persona al-l’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’art. 2 Cost. e ritiene che anche i dati bancari debbano essere ricondotti a tale riservatezza, dal momento che questi ultimi rappresenterebbero la «manifestazione monetaria di opera-zioni che possono disvelare gusti, abitudini, inclinazioni delle persone». Secondo MARRONE, La disciplina degli accertamenti bancari ai fini fiscali, in Rass. trib., 1996, I, pp. 613-614, l’inte-resse del contribuente al riservato utilizzo delle notizie relative ai rapporti bancari pur non trovando esplicita collocazione nella Costituzione, da essa discende quale principio generale legato a due diritti costituzionalmente garantiti: il diritto alla riservatezza della persona e la tu-tela del risparmio. In dottrina, si sono espressi per il valore costituzionale del diritto alla riserva-tezza dei dati personali, fra gli altri, anche: PATRONO, (voce) Privacy e vita privata (dir. pen.), in Enc. dir., XXXV, 1986, p. 575, il quale riconduce il diritto alla privacy (di cui la riservatezza sarebbe solo un aspetto) all’art. 2 Cost.; CERRI, (voce)Riservatezza (dir. alla), III, Diritto co-stituzionale, in Enc. giur., XXVII, 1995, il quale riconduce il diritto alla riservatezza soprattut-to all’art. 15 Cost.; ATELLI, (voce) Riservatezza (dir. alla), III, Diritto costituzionale, postilla di aggiornamento, in Enc. giur., 2001, secondo cui il predetto diritto non è estraneo all’art. 15 Cost. e all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fon-damentali.

52 PACE, Segreto bancario e asserita maggior tutela dei valori personalistici, in Giur. cost., n. 1, 1992, p. 298, secondo cui la contrapposizione fra valori personalistici e interessi economico-patrimoniali rischia di essere fuorviante, sia perché l’agire economico può essere considerato come un aspetto della libertà umana, sia perché le tecniche di garanzia personale si applicano anche alle istituzioni economiche private e alle società di capitali. FRANSONI, «Indagini finan-ziarie», diritto alla riservatezza e garanzie «procedimentali», in Corr. trib., n. 44, 2009, p. 3594,

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In ogni caso, indipendentemente dal carattere costituzionale o meno del-l’interesse alla riservatezza dei dati bancari e indipendentemente dal fatto che tale riservatezza sia posta a tutela di interessi anche personali o soltanto eco-nomici, le affermazioni, contenute nelle sentenze sulle “liste”, circa il fatto che l’interesse alla riservatezza dei dati bancari non troverebbe tutela legale nei confronti del fisco e che pertanto sarebbero utilizzabili, nell’accertamento e nel processo tributario, gli elementi acquisiti in violazione di tale riservatezza, rischiano di essere fuorvianti.

Infatti, se anche si volesse ritenere che la riservatezza dei dati bancari non possa rappresentare un limite per l’Amministrazione, non si potrebbe comun-que dimenticare che l’Amministrazione è soggetta ai limiti rappresentati dal principio di legalità (qualora gli elementi che intenda utilizzare siano da essa acquisiti mediante l’esercizio dei poteri che le sono propri) e dal divieto di pro-ve illecite (qualora si limiti a ricevere i predetti elementi senza l’esercizio di al-cun potere). E tali limiti non solo sono di origine costituzionale, ma sono anche di rango non inferiore al dovere di tutti di concorrere alle spese pubbliche. In-fatti, come si è sopra argomentato: il principio di legalità rappresenta uno dei cardini del nostro stato di diritto e della sua democraticità ed è rinvenibile ne-gli artt. 97, comma 2, 101, comma 2, e 113 Cost.; il divieto di prove illecite tro-va sicuri riferimenti nel principio della parità delle armi di cui all’art. 111 Cost., nei diritti di libertà di cui agli artt. 13, 14 e 15 Cost. e nei principi di buon an-damento e imparzialità dell’Amministrazione.

In altre parole, le sentenze sulle “liste” non convincono, poiché avrebbero dovuto contemperare il dovere di tutti di concorrere alle spese pubbliche non con la libertà d’iniziativa e economica e la tutela del risparmio, ma con il prin-cipio di legalità e il divieto di prove illeciti. E, nell’ambito di tale contempera-mento, difficilmente questi ultimi due sarebbero risultati soccombenti.

Del resto, anche la Corte costituzionale nella sent. 18 febbraio 1992, n. 51 (richiamate dalle sentenze sulle “liste”) – pur affermando che la riservatezza dei dati bancari non costituisce una posizione giuridica soggettiva costituzional-mente protetta né un diritto della personalità ed è invece strumentale solo secondo cui i dati finanziari possono essere immediatamente significativi di informazioni at-tinenti alle scelte politiche, alle condizioni di salute, alle inclinazioni religiose, agli orientamenti sessuali, ecc. L’acquisizione di tali dati è quindi potenzialmente in conflitto con la tutela della riservatezza in senso proprio. RAPETTI, La motivazione dell’autorizzazione all’accertamento c.d. bancario, in Dir. prat. trib., n. 2, 2010, II, p. 271, il quale sottolinea che l’accesso ai dati bancari di un soggetto permette di venire a conoscenza della maggior parte degli aspetti tutelati dalle norme sulla privacy; VIOTTO, Le violazioni commesse nel corso dell’attività d’indagine, cit., pp. 22-25.

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all’obbiettivo della sicurezza e del buon andamento dei traffici commerciali e pur sostenendo che non vi siano dati o documenti che, in virtù di tale riserva-tezza, possano essere sottratti ai poteri di accertamento degli uffici tributari – ha però precisato che tali uffici possono accedere ai predetti dati o documenti solo nelle ipotesi e con le modalità stabilite dalla legge, con ciò confermando l’assoggettamento dell’azione dell’Amministrazione al principio di legalità

53. Anche la presunta irrilevanza della violazione della riservatezza dei dati

bancari non sembra quindi in grado di scalfire le conclusioni sopra raggiunte.

53 La famosa sentenza della Corte cost. n. 51/1992 è stata, in alcuni casi, un po’ strumen-talizzata dall’Amministrazione e dalla giurisprudenza per giustificare un accesso indiscrimi-nato ad elementi istruttori di origine bancaria. La più attenta dottrina ha invece sottolineato che la Corte costituzionale ha sì affermato che «in via di principio nessun documento o nes-sun dato, relativo agli utenti dei servizi bancari e detenuto confidenzialmente dalle banche, può essere sottratto ai poteri di accertamento degli uffici tributari», ma ha altrettanto chia-ramente stabilito che tali poteri sono sottoposti al principio di legalità, al fine di evitarne un esercizio arbitrario e indiscriminato. Sul punto, fra gli altri, si vedano: FALSITTA, Epicedio per il segreto bancario nei confronti del Fisco, in Riv. dir. trib., n. 3, 1992, II, p. 569; MARRONE, op. cit., p. 615, secondo cui il principio di legalità pone in secondo piano il principio della capaci-tà contributiva; FICARI, Utilizzazione e trasmissione di dati bancari, segreto bancario ed accer-tamento tributario: dalla legge 197/1991 antiriciclaggio alla legge 413/1991, in Riv. dir. trib., 1992, I, p. 853. Sul fatto che la Corte costituzionale abbia evidenziato che l’art. 10, n. 12, L. n. 825/1971, cioè la norma di cui la Corte ha scrutinato la legittimità costituzionale, dovesse essere interpretato non come norma restrittiva dei poteri d’indagine dell’Amministrazione di fronte al cosiddetto “segreto bancario” (all’epoca della pronuncia della Corte, peraltro, già superato dalla L. n. 413/1991), ma come sottoposizione di essi al principio di legalità, si veda anche SCHIAVOLIN, (voce) Segreto, cit., p. 1.

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GIURISPRUDENZA

SOMMARIO: Cass. nn. 2054/2017 e 3562/2017, con nota di F. Pedaccini, Considerazioni sul-

l’art. 20 della legge di registro alla luce della giurisprudenza di Cassazione (Some remarks on art. 20 of the law on registration tax on the basis of the Italian Su-preme Court case law)

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GIURISPRUDENZA RTDT - nn. 3-4/2017 884

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Cass., sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2054

Imposta registro – Art. 20 – Effetti giuridici – Schema negoziale Se è indubitabile che l’Amministrazione in forza dell’art. 20, D.P.R. n. 131/1986 non

è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti, è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibi-le diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici.

(Omissis)

MOTIVI DELLA DECISIONE

(Omissis) 4.2 Ciò premesso, essendo stato circoscritto il vaglio di legittimità di questa Corte, si

osserva che, ritornando alle considerazioni in diritto svolte in premessa, a riqualificazio-ne della “cessione di quote”, negozio posto in essere dalle parti, in “cessione di ramo di azienda” troverebbe il suo fondamento, per l’Amministrazione finanziaria ricorrente, nel-l’art. 20 T.U.R. (rubricato “interpretazione degli atti”) ai sensi del quale, l’imposta, pre-scindendo dal titolo o dalla forma apparente deve essere applicata tenendo conto dell’in-trinseca natura e degli effetti giuridici degli atti. Si fa riferimento a quell’indirizzo inter-pretativo per il quale l’amministrazione sarebbe legittimata a disconoscere gli effetti tri-butari e civili tipici degli atti o negozi posti in essere dalle parti, ogni qual volta tali effetti non appaiono conformi alla “causa reale” dell’operazione economica complessivamente realizzata e, dunque, prescindendo dal nomen iuris attribuito all’atto. Impostazione che si fonderebbe sulla valorizzazione dell'art. 20 T.U.R. come norma generale antielusiva per l’imposizione di registro.

Questa ricostruzione è respinta dalla dottrina sulla scorta dell’osservazione che nel-l’imposta di registro esistono diverse disposizioni in virtù delle quali l’atto è tassato senza tener conto della sua qualificazione ed efficacia giuridica cosicché solo per queste ipotesi sussiste il diritto di disconoscere il comportamento delle parti diretto a conseguire, oltre che gli effetti tipici dell’atto, anche effetti diversi e indiretti.

Il Collegio non ignora il costante indirizzo di questa Corte secondo cui, in tema di in-terpretazione degli atti ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, il criterio fissato dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 impone di privilegiare l’intrinseca natura e gli effetti giuridi-ci, rispetto al titolo e alla forma apparente degli stessi, con la conseguenza che i concetti privatistici relativi all’autonomia negoziale regrediscono, di fronte alle esigenze antielusive poste dalla norma, a semplici elementi della fattispecie tributaria, per ricostruire la quale

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GIURISPRUDENZA RTDT - nn. 3-4/2017 886

dovrà, dunque, darsi preminenza alla causa dei negozi giuridici (cfr. sentt. 23584/12, 6835/13, 17965/13, 3481/14).

Non è tuttavia necessario ripercorrere le strade del dibattito sulla portata quale nor-ma antielusiva generale dell’art. 20 T.U.R. per risolvere il caso di specie.

Nessuna elusione sembra infatti caratterizzare quest’ultimo che appare piuttosto co-me un’ipotesi di legittima scelta di un tipo negoziale invece di un altro.

Pertanto, se è indubitabile che l’Amministrazione in forza di tale disposizione non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella “forma apparente” al quale lo stesso art. 20 fa riferimento, è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici. In altre parole non deve ricercare un pre-sunto effetto economico dell'atto tanto più se e quando – come nel caso di specie – lo stesso è il medesimo per due negozi tipici diversi per gli effetti giuridici che si vogliono realizzare.

Infatti, ancorché da un punto di vista economico si possa ipotizzare che la situazione di chi ceda l’azienda sia la medesima di chi cede l’intera partecipazione, posto che in en-trambi i casi si “monetizza” il complesso di beni aziendali, si deve riconoscere che dal punto di vista giuridico le situazioni sono assolutamente diverse.

4.3. Così posta la questione, la censura primaria della ricorrente Agenzia delle entrate implica una questione di merito, nel senso che la verifica della dimostrazione da parte dell’Amministrazione finanziaria di aver fornito la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati co-me irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, è rimessa esclusivamente al giudice del merito. E, preso atto che, nel ca-so di specie, la CTR di Bolzano ha, con motivazione non censurabile sia sul piano logico che giuridico, dato ampia contezza di come non si ravvisi il collegamento negoziale preor-dinato ad eludere la tassazione dell'imposta di registro, è precluso al Collegio ogni valu-tazione in merito.

Cass., sez. trib., 10 febbraio 2017, n. 3562

Imposta registro – Art. 20 – Effetti economici – Causa reale È pacifico che il D.P.R. n. 131/1986, art. 20 impone, ai fini della determinazione del-

l’imposta di registro, di qualificare l’atto o il “collegamento” negoziale in ragione degli effetti “oggettivamente” raggiunti dal negozio o dal “collegamento” negoziale, come per esempio può avvenire con il conferimento di beni in una Società e la cessione di quote della stessa che se “collegati” potrebbero essere senz’altro idonei a realizzare “oggettivamente” gli effetti della vendita e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo.

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Cass., sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2054, e 10 febbraio 2017, n. 3562 887

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO MOTIVI DELLA DECISIONE

(Omissis) 4. La ricorrente deduce 1. Violazione c/o falsa applicazione del combinato disposto

del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, (Testo unico dell’Imposta di Registro) in relazione al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 176, comma 3, (Testo unico delle Imposte sui Redditi), rile-vante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3): un’operazione positivamente sottratta al vaglio di elusività in ambito dell’imposizione diretta non può qualificarsi elusiva in un distinto contesto impositivo (Registro). 2. Violazione e/o falsa applicazione del disposto del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, (Testo unico dell’Imposta di Registro), anche in rela-zione agli art. 23, 41 e 53 Cost., rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3): dif-formità di effetti giuridici tra conferimento e cessione quote – da un lato – e cessione azienda – dall’altro.

5. La ricorrente non contrasta la interpretazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, secondo cui: l’imposta di registro ha per oggetto il negozio giuridico e non l’atto docu-mentale, essa richiede perciò l’interpretazione unitaria del negozio, anche se frazionata in atti distinti. La prevalenza della natura intrinseca dell’atto e dei suoi effetti giuridici sul suo titolo e sulla sua forma apparente, vincolando l’interprete a privilegiare, nell’indivi-duazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma, com-porta la necessità di verificare se sia configurabile il risultato di un comportamento so-stanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali. Quindi l’incorporazione in un solo documento di una sola di-chiarazione negoziale ad effetto giuridico unico, l’incorporazione in un solo documento di più dichiarazioni negoziali, produttive di effetti giuridici distinti e l’incorporazione in documenti diversi di dichiarazioni negoziali miranti a realizzare, attraverso effetti giuri-dici parziali, un unico effetto giuridico finale traslativo, costitutivo o dichiarativo costitui-scono tecniche operative alternative per i contribuenti, che si trovano, però, dinanzi ad una sola e costante qualificazione giuridica formulata dal legislatore tributario: la sotto-posizione ad imposta di registro del loro atto o dei loro atti in base alla natura dell’effetto giuridico finale dei loro comportamenti, semplici o complessi che essi siano. Né si può argomentare, in senso contrario, dalla natura d’imposta d’atto del tributo di registro, do-vendo essere tale espressione intesa, nel senso della necessità della commisurazione del tributo agli effetti giuridici degli atti sottoposti a registrazione (così ex pluribus la sen-tenza n. 2636 del 10 febbraio 2016).

La ricorrente sottolinea però il regime particolare previsto per il conferimento di aziende dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 176, che nel terzo comma esplicitamente affer-ma: “non rileva ai fini del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis il conferimento dell’azienda secondo i regimi di continuità dei valori fiscali riconosciuti o di imposizione sostitutiva di cui al presente articolo e la successiva cessione della partecipazione ricevu-ta”. E ne trae la conclusione secondo cui sarebbe illogico qualificare il conferimento di

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GIURISPRUDENZA RTDT - nn. 3-4/2017 888

azienda attuato attraverso la cessione di partecipazioni societarie, come (possibile) ope-razione elusiva ai fini dell’imposta di registro, e invece come operazione esclusa dall’am-bito dell’elusione ai fini delle imposte dirette.

Il ragionamento prende le mosse da un’opinione che non trova riscontro nella giuri-sprudenza della Corte, cioè dalla convinzione secondo cui l’Agenzia delle Entrate di Como abbia evidenziato una operazione antielusiva ovvero un abuso di diritto quando ha ap-plicato l’imposta di registro, come cessione di ramo d’azienda, ad atti aventi ad oggetto partecipazioni sociali; in quanto tali atti avevano indirettamente determinato il predetto trasferimento.

Invece la giurisprudenza della Corte è pacifica nel ritenere che il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non è disposizione predisposta al recupero di imposte “eluse”, perché l’istituto dell’“abuso del diritto” ora disciplinato dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10 bis, presuppone una mancanza di “causa economica” che non è invece prevista per l’appli-cazione del D.P.R. n. 131 cit., art. 20. Norma che semplicemente impone, ai fini della de-terminazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto o il “collegamento” negoziale in ragione del loro “intrinseco”. E cioè in ragione degli effetti “oggettivamente” raggiunti dal negozio o dal “collegamento” negoziale, come per es. può avvenire con il conferimento di beni in una Società e la cessione di quote della stessa che se “collegati” potrebbero es-sere senz’altro idonei a realizzare “oggettivamente” gli effetti della vendita e cioè il trasfe-rimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo. E la fattispecie regolata dal D.P.R. n. 131 cit., art. 20, nemmeno ha a che fare con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel “collegamento” negoziale e questo appunto perché ciò che conta sono gli effetti “oggettivamente” prodottisi (così le sentenze n. 9582 del 11 maggio 2016; n. 10211 del 18 maggio 2016; n. 9573 del 11 maggio 2016, tutte emesse il 21 aprile 2016 ed anco-ra la sentenza n. 18454 del 21 settembre 2016; n. 2050 del 27 gennaio 2017).

Se dunque la tassazione dell’imposta di registro in misura proporzionale non deriva dalla individuazione di un “abuso di diritto” non vi è ragione per estendere alle imposte indirette una disposizione dettata per le imposte dirette, e relativa alla applicazione dell’i-stituto della “plusvalenza” (che opera esclusivamente nelle imposte dirette): ed è irrile-vante che la legge escluda, in riferimento alle imposte dirette la sussistenza dell’“abuso” in riferimento a determinate operazioni economiche.

La complessità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese.

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Cass., sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2054, e 10 febbraio 2017, n. 3562 889

Considerazioni sull’art. 20 della legge di registro alla luce della giurisprudenza di Cassazione

Some remarks on art. 20 of the law on registration tax on the basis of the Italian Supreme Court case law

Abstract Dopo le speranze di revirement suscitate da Cass. n. 2054/2017, la Corte è subito tornata ad applicare il tributo di registro sulla base della “causa reale” del negozio, rifiutando di rimettere la questione alle Sezioni Unite. Non resta ormai che prendere atto di questo orientamento, per quanto assai discutibile. Anche nel nuovo scena-rio, è però indispensabile salvaguardare la funzione dell’art. 20, D.P.R. n. 131/1986 quale regola interpretativa dei negozi, anche complessi, posti in essere dalle parti. Parole chiave: imposta di registro, transazioni, interpretazione, causa reale, Corte di Cassazione After the hopes of a revirement raised by the decision in case n. 2054/2017, the the Ita-lian Supreme Court immediately reaffirmed its thesis that registration tax shall apply according to the intention of the parties. Therefore, it is now necessary to accept this set-tled case law, even if it remains highly criticizable. However, also in the new scenario de-picted by the Court, it is important to safeguard the original role of art. 20, Presidential Decree n. 131/1986, as an interpretative rule of the transactions, even complex, made by the parties. Keywords: registration tax, transactions, interpretation, intention of the parties, Italian Supreme Court

SOMMARIO: 1. La giurisprudenza della Cassazione e la prospettiva dell’indagine. – 2. L’art. 20 e la teoria della “causa reale” nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. – 3. Segue: il tributo di registro come imposta d’atto. – 4. Conclusioni: la funzione dell’art. 20 nella nuova prospettiva di inquadramento.

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GIURISPRUDENZA RTDT - nn. 3-4/2017 890

1. La giurisprudenza della Cassazione e la prospettiva dell’indagine

Le pronunce in commento alimentano l’ormai più che decennale dibattito 1 riguar-do alla portata dell’art. 20, D.P.R. n. 131/1986 in tema di “Interpretazione degli atti” ai fini dell’imposta di registro. Pur vertendo su fattispecie in tutto analoghe, le due sentenze pervengono infatti a soluzioni opposte, palesando il persistere di forti ten-sioni ricostruttive attorno alla disposizione in questione e, più in generale, alla strut-tura stessa del tributo di registro 2.

I casi affrontati dalla Suprema Corte riguardano entrambi una fattispecie molto nota nella prassi, ossia il conferimento di ramo d’azienda seguito dalla cessione, da par-te della conferente, delle partecipazioni ricevute in cambio dell’apporto. Com’è solito in queste circostanze, l’Agenzia delle Entrate riqualifica la sequenza negoziale adope-rata dalle parti in cessione dei rami d’azienda conferiti, giacché questo sarebbe l’“ef-fetto finale” perseguito dai contraenti, che solo dovrebbe assurgere a parametro del-l’imposizione in base all’art. 20 della legge di registro 3.

La pretesa dell’Amministrazione Finanziaria è respinta nella sent. n. 2054/2017. Aderendo al pensiero della dottrina 4, i giudici di legittimità vi affermano che l’attività ermeneutica contemplata dall’art. 20 cit. non può che svolgersi entro il limite invali-cabile dato dallo «schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e com-portante differenti effetti giuridici».

Tale soluzione è smentita dalla di poco successiva sent. n. 3562/2017 5, che segna

1 In realtà, i primi scritti e le prime incertezze interpretative sul tema sono ben più risalenti; si ve-dano JARACH, Principi per l’applicazione delle tasse di registro, Padova, 1937; GRIZIOTTI, Il teorema della prevalenza della natura economica degli atti delle imposte di registro, in Riv. dir. fin., 1941, II, p. 28 ss.; MAFFEZZONI, Dei limiti dell’efficacia vincolante dell’atto scritto nell’accertamento delle tasse di registro, in Riv. dir. sc. fin., 1942, II, p. 77 ss.; UCKMAR, La legge del registro, Padova, 1958; BERLIRI, Negozi giuridici o negozi economici quale base di applicazione dell’imposta di registro, in Riv. it. dir. fin., 1941, I, p. 161 ss.; ID., Le leggi di registro, Milano, 1961; BATISTONI FERRARA, Atti simulati ed invalidi nell’imposta di registro, Napoli, 1969; MICHELI, Corso di diritto tributario, Torino, 1984, p. 76 ss.

2 La produzione giurisprudenziale sul tema è invero amplissima e ricca di sfumature. Oltre alle due posizioni principali di cui si dirà più oltre, si segnala un orientamento, oggi superato, che attribuisce al-l’art. 20 portata stricto sensu antielusiva. Cfr. per tutte Cass. nn. 6835/2013, 15963/2013, 24739/2013, 5877/2014.

3 Ne scaturisce naturalmente la pretesa al pagamento dell’imposta proporzionale prevista per l’ipo-tesi di cessione di azienda, ben più elevata dell’imposta fissa contemplata per l’ipotesi di conferimento del medesimo bene.

4 Che non a caso ha accolto la pronuncia con favorevole sorpresa. V. TASSANI, Conferimento di azienda e cessione della partecipazione ai fini del registro: l’alba di un revirement giurisprudenziale?, in Corr. trib., n. 11, 2017, p. 835 ss., e FANNI, La Cassazione rivede i suoi precedenti sull’art. 20 T.U.R. e sulla circolazione indiretta dell’azienda: c’è luce in fondo al tunnel, in GT, n. 3, 2017, p. 222 ss.

5 A sua volta seguita da altre pronunce che superano, anche in maniera esplicita, la soluzione adot-tata da Cass. n. 2054/2017. Cfr. Cass. nn. 6758/2017, 8793/2017, 11667/2017, 17785/2017.

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Cass., sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2054, e 10 febbraio 2017, n. 3562 891

il ritorno all’orientamento ampiamente prevalente della Corte di Cassazione e l’ab-bandono di ogni speranza di revirement. In linea con una giurisprudenza più che con-solidata 6, la decisione in questione chiarisce che il prelievo di registro deve infatti es-sere determinato «in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale», da ravvisare nella specie «negli effetti della vendita, e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo».

Le pronunce in rassegna sono emblematiche delle tradizionali posizioni che si fron-teggiano nel dibattito attorno all’art. 20 cit. Da una parte, v’è chi sostiene (la dottrina e i contribuenti) che l’imposizione deve essere riferita alle sole conseguenze giuridi-che liberatesi nell’ordinamento per effetto del documento portato alla registrazione, con assoluta irrilevanza delle vicende estrinseche al contenuto dell’atto 7. Sul versan-te opposto, viene replicato (dall’Amministrazione Finanziaria e dalla giurisprudenza di legittimità assolutamente maggioritaria) che l’imposizione deve colpire il risultato finale ricercato dai contraenti, da ricavare, anche e soprattutto, sulla base di dati extra-testuali e a prescindere dalle specifiche forme negoziali impresse all’operazione dalle parti.

Non indugeremo sulle ragioni, di ordine storico e sistematico, a supporto della prima tesi, già ampiamente trattate dalla dottrina 8. Tuttavia, sono tanti e tali i prece-denti di segno contrario 9, che si è portati ormai a credere che, nonostante qualche

6 Al punto che ormai può dirsi – come vedremo – diritto vivente. Cfr. ex multis Cass. nn. 14900/2001, 2713/2002, 10660/2003, 10273/2007, 11769/2008, 23584/2012, 17965/2013.

7 È questa la posizione assolutamente prevalente in dottrina. Cfr. MARONGIU, L’abuso del diritto nella legge di registro tra principi veri e principi asseriti, in Dir. prat. trib., n. 2, 2013, p. 361 ss.; CORASANI-TI, L’interpretazione degli atti e l’elusione fiscale nel sistema dell’imposta di registro, in Obbl. e Contr., 2012, p. 615; ID., La natura di imposta d’atto dell’imposta di registro e la conseguente irrilevanza di elementi de-sunti aliunde, in GT, 2011, p. 790; GIRELLI, Abuso del diritto e imposta di registro, Torino, 2013; TABET, L’art. 20 della legge di registro e la dottrina della metempsicosi, in GT, n. 7, 2016, p. 589 ss.; ID., L’ap-plicazione dell’art. 20 T.U. Registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. trib., n. 4, 2016, p. 913 ss.; DAMI, L’art. 20 della legge di registro non è una norma antielusiva – Conferimento di azienda e cessione delle partecipazioni: siamo alla svolta?, in GT, n. 10, 2016, p. 791 ss.; PURI, Il fantasma dell’art. 20 del T.U.R. sulle cessioni di partecipazioni di controllo (riqualificate come cessione di azienda), in GT, n. 1, 2015, p. 69 ss.; BEGHIN, Elusione fiscale e imposta di registro tra interpretazione dei contratti e collega-mento negoziale, in Corr. trib., n. 1, 2016, p. 25 ss.; ID., La cessione di azienda tra qualificazione giuridica del fatto, interpretazione dell’atto e ridimensionamento dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, in Corr. trib., n. 40, 2016, p. 3037 ss.; ZIZZO, Imposta di registro e atti collegati, in Rass. trib., n. 4, 2013, p. 870 ss.; FAL-SITTA, Manuale di Diritto Tributario – Parte Speciale, Padova, 2014, p. 901 ss.

8 Oltre agli autori già citati, si veda per tutti CARINCI, La rilevanza fiscale del contratto tra modelli impositivi, timori antielusivi e fraintendimenti interpretativi, in Rass. trib., n. 5, 2014, p. 984, che evidenzia come la ricostruzione fatta propria dalla Corte di Cassazione negli ultimi anni stravolge «la natura, la ratio e la conformazione stessa dell’imposta di registro».

9 Da questo punto di vista, gli isolati precedenti discordanti della Cassazione paiono gli ultimi ten-tativi di riaprire un discorso ormai chiuso, come conferma il fatto che Cass. n. 6758/2017 espressamente rigetti la richiesta di rimessione della questione alle Sezioni Unite. Ritengono non più superabile la posi-zione espressa dai giudici di legittimità, FANNI, L’art. 20 del T.U.R. tra natura antielusiva e valutazione degli effetti giuridici degli atti nella circolazione indiretta delle aziende, in GT, n. 6, 2014, p. 494 ss., e CA-

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GIURISPRUDENZA RTDT - nn. 3-4/2017 892

residua e isolata voce di dissenso, la Cassazione abbia compiuto una consapevole e definitiva scelta nel senso aprire anche il settore dell’imposizione di registro a quel-l’approccio sostanzialista nella lettura delle forme giuridiche che da qualche tempo pervade l’ordinamento 10 e, a tal fine, di far leva proprio sull’art. 20 cit.

Come vedremo, si tratta di un’evoluzione non priva di forzature, che impatta in maniera radicale sulla struttura stessa del tributo e che si manifesta anzitutto nella cen-tralità acquisita dall’“operazione economica” a scapito della tradizionale nozione car-tolare di “atto” 11. È da questa constatazione che muovono le presenti note, il cui sco-po è di capire quale sia il ruolo che, nella nuova prospettiva di inquadramento aperta dalla Suprema Corte, possa e debba assolvere l’art. 20 cit., al fine di evitarne gli im-pieghi “abusivi” cui talvolta si è assistito.

2. L’art. 20 e la teoria della “causa reale” nella giurisprudenza della Corte di Cas-sazione

Per farlo, conviene muovere dall’esame degli aspetti più critici della giurispru-denza di legittimità che negli ultimi tempi si è occupata dell’art. 20 della legge di re-gistro.

Come noto, questa desume gli “effetti giuridici” e l’“intrinseca natura” degli atti portati alla registrazione dall’interesse economico in concreto perseguito dalle parti; ciò che i giudici di legittimità definiscono la “causa reale” dell’operazione negoziale 12. L’imposizione dovrebbe perciò essere modulata sul risultato pratico voluto dai con-traenti, cosicché alla ricerca di questo si indirizzerebbe l’attività ermeneutica contem-plata dall’art. 20, D.P.R. n. 131/1986 13. RINCI, Dubbi di compatibilità comunitaria sulla riqualificazione del conferimento d’azienda con cessione di partecipazioni, in Il Fisco, n. 20, 2017, p. 1943 ss., che ne prospetta tuttavia l’incompatibilità con il dirit-to europeo. Riguardo a quest’ultimo profilo, cfr. anche ESCALAR, Compatibilità comunitaria delle impo-ste indirette sul conferimento di azienda e successiva vendita di partecipazioni, in Corr. trib., n. 29, 2016, p. 2268 ss. e FERRONI, Abuso del diritto e imposta di registro: il nuovo corso della cessione indiretta di azienda, in Il Fisco, n. 13, 2016, p. 1207 ss.

10 MICCINESI, Riflessioni sull’abuso del diritto, in MICCINESI-ALLENA-LOGOZZO (a cura di), Studi in onore di Enrico de Mita, Napoli, 2012, p. 593 ss.

11 Dà atto dell’evoluzione in atto, FRANSONI, Il presupposto dell’imposta di registro fra tradizione ed evoluzione, in Rass. trib., n. 5, 2013, p. 960, per il quale «sebbene l’imposta di registro presenti ancora caratteristiche proprie di un tributo che prende in considerazione le modificazioni patrimoniali nella pro-spettiva degli atti soggetti a registrazione e delle disposizioni, autonomamente considerate, ivi contenute (ciò che era perfettamente giustificabile secondo la tradizione giuridica originaria), la sensibilità degli operatori attribuisce da tempo rilevanza centrale al “negozio” e attualmente, forse, ad articolazioni ne-goziali unitariamente considerate, ovvero, come si suol dire, alle “operazioni economiche”».

12 Oltre alle pronunce citate alle note 5-6, cfr. anche Cass. nn. 19752/2013, 7335/2014, 25001/2015, 25484/2015, 25487/2015, 9582/2016.

13 FANNI, L’art. 20 del T.U.R., cit., evidenzia come tale giurisprudenza sia andata in parte autoali-

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Cass., sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2054, e 10 febbraio 2017, n. 3562 893

La casistica al riguardo è la più varia. Si pensi ad esempio al caso, oggetto delle pronunce in rassegna, del conferimento di azienda seguito dalla vendita delle parte-cipazioni della conferitaria, che la Corte di Cassazione interpreta (e tassa) come ces-sione di azienda, essendo questo l’obiettivo cui sarebbe funzionalmente rivolta la com-plessiva sequenza negoziale. Ma lo stesso dicasi per la cessione delle quote di una so-cietà il cui unico asset è costituito da un fabbricato, riqualificata in compravendita immobiliare, per la vendita dei singoli beni facenti parte del compendio aziendale, trat-tata come cessione di azienda, ovvero, ancora, per la cessione di un immobile da demo-lire, interpretata come vendita di un terreno edificabile.

Seguendo questa impostazione, la Corte di Cassazione appare però talvolta muo-versi su di un terreno tutto extratestuale, perdendo di vista l’operazione effettivamente posta in essere dalle parti e gli “effetti giuridici” 14 che ad essa la legge collega 15, ai qua-li pure impone di fare riferimento l’art. 20 cit. L’esito, alquanto discutibile, di questo approccio è che la finalità pratica dell’affare assurge in sé a oggetto dell’imposizione, senza alcuna considerazione – rectius: senza alcuna interpretazione – degli assetti giu-ridici in concreto adottati e degli effetti giuridici da essi scaturiti 16.

Si può, cioè, ammettere che, nell’ottica dell’art. 20 cit., più atti isolati – considerati nel loro insieme e oggettivamente interpretati secondo «buona fede» (art. 1366 c.c.) e in base alla «comune intenzione delle parti», da ricavare valutando «il loro com-portamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto» (art. 1362 mentandosi per effetto della tralatizia riproposizione da parte della Suprema Corte di precedenti mas-sime alle fattispecie più disparate, avulse dalle specifiche fattispecie in cui erano state rese.

14 Circa il riferimento agli “effetti giuridici” contenuto nell’art. 20, D.P.R. n. 131/1986 (e, prima ancora, nell’art. 19, D.P.R. n. 634/1972), è appena il caso di rammentare che esso è stato introdotto dal Legislatore con il preciso intento di superare le incertezze riguardo al tipo di effetti (giuridici ovve-ro economici) di cui è necessario tener conto ai fini dell’imposizione, cui aveva dato adìto la formula-zione del previgente art. 8, R.D. n. 3269/1923, dove si parlava semplicemente di “effetti”. Per una com-piuta ricostruzione delle tesi della “scuola pavese”, che valorizzava gli effetti “economici”, si rinvia a MELIS, Sull’interpretazione antielusiva in Benvenuto Griziotti e sul rapporto con la Scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni, in Riv. dir. trib., 2008, I, p. 413 ss.

15 Cfr. FEDELE, Assetti negoziali e forme d’impresa tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 1111. Cfr. anche BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1955, p. 84 ss., per cui «è di competenza dell’ordine giuridico sceverare e valutare alla stregua di finalità gene-rali le categorie di interessi e scopi pratici che i singoli sogliono perseguire … ricollegandovi situazioni giuridiche congrue» e BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, p. 20 ss., ad avviso del quale, tra l’altro, «l’atto negoziale impegna il suo autore anche se il suo interno volere sia stato diverso da quello manifestato».

16 Cfr. sul punto CARINCI, La rilevanza fiscale del contratto tra modelli impositivi, cit., p. 981, per il quale l’art. 20 cit. non può essere inteso come rivolto «a cogliere una realtà economica da contrappor-re a quella giuridica, ma, semmai e solo, a consentire di rinvenire gli effetti giuridici concretamente rea-lizzati … ben oltre la (mera) rappresentazione degli stessi offerta dall’autonomia privata». Sul tema, si vedano anche TASSANI, I confini dell’abuso del diritto ed il caso del conferimento di azienda con successiva cessione delle partecipazioni, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 336; DE MITA, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, Milano, 1995, p. 163; e LA ROSA, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 788.

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c.c., commi 1 e 2) – possano disvelare la conclusione di un negozio diverso da quello che i contraenti hanno rappresentato 17, di modo che si renda necessario assoggetta-re a imposizione effetti giuridici diversi da quelli all’apparenza voluti dalle parti. Di contro, non è consentito affiancare alla vicenda contrattuale, ricostruita nel suo signifi-cato obiettivo, una differente vicenda economica, e considerare ai fini impositivi uni-camente la seconda, ignorando la prima 18.

All’origine dell’equivoco parrebbe essere l’impiego a fini interpretativi della cate-goria della causa reale. Non è questa la sede per dilungarsi sull’evoluzione di questa no-zione, dalle sue prime teorizzazioni 19 fino alle recenti consacrazioni giurisprudenzia-li 20; basti rammentare che per causa concreta si intende ormai unanimemente lo «sco-po pratico del negozio … sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato» 21.

Piuttosto, si deve evidenziare che la categoria della causa è geneticamente estra-nea all’area della qualificazione/interpretazione dei negozi, alla quale la giurisprudenza di legittimità sull’art. 20 cit. pretende invece di applicarla. Di causa reale si parla, in-fatti, per verificare se un contratto può dirsi valido ed operante, mentre non serve e-vocare tale concetto per risolvere problemi di esegesi del testo, che l’interprete può (e deve) affrontare alla stregua dei criteri posti dall’art. 1362 c.c. 22.

17 CARINCI, La rilevanza fiscale del contratto tra modelli impositivi, cit., pp. 978-979. Cfr. anche GAZ-ZONI, Manuale di Diritto Privato, Napoli, 2001, p. 1052, per il quale l’attività ermeneutica deve essere volta alla ricerca di un significato oggettivo di quel che le parti hanno esternato, cosicché ciò che conta non è la volontà più o meno recondita in senso psicologico, ma il significato della dichiarazione in senso oggettivo, BIANCA, op. cit., p. 407 ss., e BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione del contratto, in Il Codice Civile. Commentario, a cura di Schlesinger, Milano, 1991.

18 Segna l’approdo estremo di questo orientamento Cass. n. 24594/2015, a detta della quale «l’at-to della cui tassazione si discute aveva ad oggetto il trasferimento dell’intero capitale sociale e … la ces-sione totalitaria delle quote di una società ha la medesima funzione economica della cessione dell’a-zienda sociale. Entrambi tali contratti tendono infatti a realizzare l’effetto giuridico del (e trovano la loro causa concreta nel) trasferimento dei poteri di godimento e disposizione dell’azienda sociale da un gruppo di soggetti (i partecipanti alla società che cedono le loro quote) ad un altro soggetto, o gruppo di soggetti (l’acquirente, o gli acquirenti, della totalità delle quote sociali».

19 FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966. 20 Di «trionfo della causa in concreto» parla ROLLI, Causa in astratto e causa in concreto, Padova,

2008, p. 139. Ripercorre la storia della categoria ora in considerazione ROPPO, Causa concreta: una sto-ria di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., n. 4, 2013, p. 957 ss., cui si rinvia anche per gli ampi riferimenti bibliografici.

21 Cfr. per tutte Cass. n. 10490/2006, in Corr. giur., 2006, p. 1718, con nota di ROLFI, La causa come «funzione economico-sociale»: tramonto di un idolum tribus?, e Cass., sez. un., n. 6538/2010, in Foro it., 2010, I, c. 2460, con nota di COSTANTINO, Adempimento di debito altrui, fallimento del solvens e revocatoria al vaglio delle sezioni unite (con chiose su «causa concreta» e vantaggi compensativi nelle operazioni di gruppo).

22 ROPPO, op. cit., p. 971, per il quale «sovrapporre … l’elemento della causa con l’elemento del-l’accordo significa identificare la causa con la volontà, e in definitiva assorbire la prima nella seconda, de-cretandone la superfluità». L’Autore evidenzia, tra l’altro, la tendenza della sezione tributaria della Corte

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Cass., sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2054, e 10 febbraio 2017, n. 3562 895

Per essere più chiari, su di un piano si colloca l’interpretazione e la qualificazione del contratto in base alla sua sostanza economico-giuridica, al di là del titolo attribui-to dalle parti: qui si individua la comune volontà dei contraenti e, in base a questa, il contenuto reale dell’accordo (che si presuppone valido ed operante), con i relativi ef-fetti giuridici. Su un piano diverso, si pone l’indagine circa l’assetto degli interessi al-l’origine dell’affare, che tende a verificarne la rispondenza al contratto effettivamente concluso ovvero la liceità: qui ci si muove sul terreno degli effetti giuridici dell’accor-do (previamente interpretato/qualificato) per risalirne alla funzione pratica e, infine, appurare la coerenza dei primi rispetto alla seconda o, comunque, la meritevolezza di quest’ultima nell’ottica generale dell’ordinamento 23.

Peraltro, alla proclamata centralità riconosciuta alla causa reale nella giurisprudenza di Cassazione non viene fatta corrispondere – come pure sarebbe lecito attendersi – una considerazione adeguata per i profili concreti delle fattispecie, quasi che ogni con-ferimento seguito a breve distanza di tempo dall’alienazione delle partecipazioni sia, per la sola successione temporale degli atti, finalizzato a cedere il bene conferito. A supporto di questa scelta, la Corte di Cassazione adduce la natura non-antielusiva della previsione, che renderebbe superflua un’indagine accurata delle ragioni di ordi-ne imprenditoriale che hanno indotto le parti alla conclusione di quello specifico af-fare 24. Tuttavia, se si sceglie – come fa la Cassazione – di modellare il rapporto d’im-posta in base alla funzione pratica dell’operazione, non sarebbe ragionevole tener con-to del complesso delle ragioni che hanno determinato le parti a concludere l’affare se-condo quelle specifiche modalità?

3. Segue: il tributo di registro come imposta d’atto

Dal punto di vista sistematico, la principale critica che viene rivolta al prevalente orientamento della Corte di Cassazione è data dalla natura d’imposta d’atto del tri-buto di cui trattasi, da cui viene fatto usualmente discendere il divieto di interpreta-zione extratestuale degli atti portati alla registrazione 25: l’isolata soluzione cui per-

di Cassazione ad un uso «alquanto discutibile» della categoria della causa concreta: «questa giurispru-denza … non applica davvero la causa concreta: fa solo finta di applicarla, o tutt’al più ne fa un’applica-zione riduttiva e monca» (p. 976).

23 Cfr. TASSANI, Conferimento di azienda, cit., pp. 838-839. 24 TABET, L’art. 20 della legge di registro, cit., p. 591, che evidenzia come la Cassazione applichi l’art.

20 cit. secondo una logica prettamente antielusiva, sostituendo l’atto realmente portato alla registra-zione con quello che i contraenti avrebbero voluto. Ciò con il corollario pratico di alleggerire l’Erario dell’onere di provare il ricorrere dei presupposti della pratica elusiva e, al contempo, di privare il con-tribuente della principale arma difensiva a sua disposizione in punto di fatto: se non si è al cospetto di una norma antielusiva, a nulla infatti vale dimostrare l’esistenza di un interesse economico alla base dell’ope-razione diverso dal mero risparmio d’imposta.

25 Cfr. autori citati alla precedente nota 7.

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viene la sent. n. 2054/2017 muove appunto da questo assunto 26. È questa, già lo si è avuto modo di accennare, l’impostazione senz’altro più rispet-

tosa della tradizione dell’imposta di registro, concepita in origine per colpire le sin-goli disposizioni che compongono l’accordo e poi evolutasi nel senso di attribuire ri-levanza al contratto da sottoporre a registrazione 27. Nondimeno, ci pare che non si possa fare altro oggi che prendere atto dell’evoluzione impressa all’interpretazione del tributo dalla giurisprudenza di legittimità, nell’intento di adattarne la disciplina (e, a ben vedere, la struttura stessa) ai mutamenti intervenuti nel sistema tributario e nel contesto giuridico ed economico 28.

Deve, cioè, intendersi ormai diritto vivente l’affermazione per cui l’imposta di regi-stro colpisce, attraverso l’atto, gli effetti giuridici dell’operazione economica realizzata dai contraenti: con le parole della Cassazione, «gli artt. 1 e 20 del D.P.R. n. 131 del 1986 vanno interpretati nel senso che l’oggetto dell’imposta di registro, per quanto ge-nericamente e formalmente individuata nel riferimento dell’art. 1 agli atti soggetti a re-gistrazione o volontariamente presentati, nella sostanza, è costituito dagli effetti giuri-dici di tali atti» 29. Dove, peraltro, la nozione di “atto” va intesa in senso ampio, come riferita alla complessiva sequenza negoziale posta in essere dalle parti: lo testimonia l’impiego ricorrente della locuzione «imposta di negozio», in aperta contrapposizione alla tradizionale concezione del tributo di registro quale «imposta d’atto» 30.

Le conseguenze che ne derivano sono rilevantissime 31. Proviamo a enuclearle: ai

26 Alla medesima conclusione pervengono anche altri isolati precedenti, quali Cass. nn. 6902/1988, 4220/2006, 3571/2010.

27 FRANSONI, op. cit., p. 955 ss., che ripercorre la storia del tributo fin dal suo apparire nella Francia rivoluzionaria per effetto della L. n. 22 frimario dell’anno VII, poi riproposta in Italia dalla L. 21 aprile 1862, n. 585.

28 Ivi, p. 972, dove si parla di una «riconosciuta tendenza del sistema normativo, della dottrina e della giurisprudenza a cogliere l’unità dell’atto di autonomia privata e dell’assetto degli interessi persegui-to … non nello schema del contratto isolatamente considerato, ma rispetto a un più esteso complesso di atti, regolamenti e attività». Circa il ruolo para-legislativo assunto dalla giurisprudenza, al fine di as-sicurare l’aderenza al diritto ai principi (nella specie, al dovere di tutti di concorrere alle spese pubbli-che) si veda MICCINESI, op. cit., p. 595, MASTROIACOVO, Abuso del diritto o elusione nell’imposta di regi-stro e negli altri tributi indiretti, in DELLA VALLE-FICARI-MARINI (a cura di), Abuso del diritto ed elusione fiscale, Torino, 2016, p. 246. Di «mutazione genetica» della giurisdizione parla anche CASTRONOVO, L’eclissi del diritto civile, Milano, 2015, p. 29. Sul tema, cfr. IRTI, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, p. 36 ss.

29 Ex multis Cass. nn. 8793/2017, 3481/2014. 30 Da ultimo Cass. n. 6758/2017. Si veda, in proposito, anche CANNIZZARO, Autonomia e pluralità

di disposizioni nel sistema dell’imposta di registro: contributo ad una riflessione in chiave evolutiva, in Riv. trim. dir. trib., p. 277 ss.

31 Per le ripercussioni sulla struttura del tributo derivanti dall’«apprezzamento unitario del ge-stum», cfr. TABET, L’applicazione dell’art. 20 T.U. Registro, cit., che menziona, tra l’altro, la «attenzione privilegiata per l’oggetto mediato dell’imposta, costituito dal sottostante movimento di ricchezza … piut-tosto che per il presupposto formale, costituito dall’atto» e l’«apprezzamento del risultato complessi-vo-finale realizzato attraverso il collegamento tra più documenti negoziali».

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Cass., sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2054, e 10 febbraio 2017, n. 3562 897

fini dell’imposizione, l’“atto” va inteso come operazione economica, che dunque di-viene oggetto dell’imposta; il prelievo si collega direttamente al compimento dell’o-perazione e si parametra agli effetti che da essa sono scaturiti; nulla osta a che le arti-colazioni negoziali complesse siano interpretate unitariamente.

4. Conclusioni: la funzione dell’art. 20 nella nuova prospettiva di inquadramento

Come abbiamo cercato di dimostrare, nella ricostruzione ormai costantemente offerta dalla Corte di Cassazione, tende a dissolversi, dietro il richiamo alla nozione di causa concreta, ogni tentativo di interpretazione/qualificazione degli atti 32. Non si interpreta, né si qualifica alcunché, limitandosi a ricercare le ragioni pratiche che han-no indotto le parti all’affare 33, così finendo per assoggettare a imposizione la vicenda negoziale sulla base dell’apprezzamento dei suoi effetti sostanziali.

Anche nella nuova prospettiva di inquadramento aperta dalla Cassazione, occor-re di contro salvaguardare la funzione dell’art. 20 cit. quale «regola interpretati-va» 34, che impone di ricercare – e interpretare/qualificare – l’operazione in concre-to realizzata, anche se frazionata in una pluralità di atti, e gli effetti che ne sono deri-vati; ciò affinché resti l’accordo, ed i suoi effetti giuridici, al centro della fattispecie d’imposta.

Significa che l’indagine deve focalizzarsi sulla ricostruzione della portata obiettiva dell’affare, all’uopo avvalendosi delle regole comuni di interpretazione previste dal Codice Civile e tenendo in conto l’intero contesto negoziale nel quale si innestano i singoli atti. È per questa via che, parafrasando l’art. 20 cit., si individueranno «la in-trinseca natura e gli effetti giuridici» dell’operazione, da assumere a parametro del-l’imposizione, «anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente».

In questa prospettiva, il prelievo esce da una dimensione puramente cartolare, ma resta ancorato agli effetti giuridici sprigionati nell’ordinamento per effetto dell’o-perazione in concreto realizzata dai contraenti, anche ove questa si sia estrinsecata in una sequenza negoziale complessa 35.

32 GALLO, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., n. 6, 2015, p. 1315 ss., nota 7, per il quale l’orientamento della Corte di Cassazione «forza non poco la lettera dell’art. 20, la quale non consente di avere riguardo agli effetti economici» e, di fatto, crea «in via solo in-terpretativa una sorta di tertium genus tra interpretazione strettamente civilistica e norma fiscale an-tielusiva».

33 Ciò con il rischio di mettere a repentaglio i principi costituzionali di riserva di legge (23 Cost.), di tutela dell’autonomia privata (art. 41 Cost.) e di capacità contributiva (artt. 3 e 53 Cost.).

34 Cass. nn. 3562/2017, 6758/2017 35 Si tratta di una soluzione prefigurata già in alcuni risalenti precedenti della Corte di Cassazione,

quali Cass. nn. 1472/1969 e 1530/1969, a proposito dei quali si rimanda a ZOPPINI, Prospettiva critica della giurisprudenza “antielusiva” della Corte di Cassazione (1969-1999), in Riv. dir. trib., 1999, I, pp. 930-

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Nella pratica, la ricerca e la qualificazione giuridica del negozio realmente posto in essere dalle parti potrà giustificare l’imposizione come unitaria cessione di azienda della dismissione isolata dei singoli beni facenti parte del compendio aziendale. Sem-pre sul piano della interpretazione degli atti e, quindi, in punto di corretta ricostru-zione degli effetti giuridici, si potrà ammettere, almeno in principio, la qualificazione come cessione di azienda del conferimento seguito dalla cessione delle partecipazioni della conferitaria e dalla successiva fusione tra l’acquirente e la conferitaria stessa 36. In tutti casi, resta cruciale un’accurata indagine dei fatti e delle circostanze del caso concreto, al fine di restituire l’operazione negoziale nella sua complessiva ed obietti-va realtà.

Ricondotto l’art. 20 cit. alla sfera dell’interpretazione civilistica, affiora anche la sua relazione, in termini di complementarietà, con il principio del divieto dell’abuso del diritto sancito dall’art. 10 bis, L. n. 212/2000, indiscutibilmente destinato a trovare applicazione anche al settore dell’imposizione di registro 37. In particolare, questo po-trà essere invocato per reprimere il ricorso, per preminenti finalità di risparmio d’im-posta, a strumenti giuridici non rispondenti agli assetti economici reali perseguiti dal-le parti, allo scopo di equiparare effetti giuridici diversi in funzione della sostanziale identità degli obiettivi economici ricercati 38.

In breve, si può dire che l’art. 20 della legge di registro guarda all’accordo nel suo significato obiettivo e dà risposta alla domanda: cosa i contraenti hanno realizzato? L’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente guarda alle ragioni che si trova-no alla base di quell’accordo. Qui la domanda è: perché i contraenti hanno posto in essere quella operazione?

È ovvio poi che, nella prospettiva dell’abuso del diritto, vengono in gioco la liber-tà di scelte del contribuente tra operazioni comportanti un differente carico fiscale e,

931, ad avviso del quale «la Corte in queste due occasioni è rimasta sul punto formalmente ancorata ai suoi precedenti, ritenendo che l’imposizione vada esercitata in base ai soli effetti giuridici dell’atto stesso, che però possono ora essere ricostruiti … anche in considerazione dei negozi collegati con il medesimo atto presentato per la registrazione». L’Autore parla in proposito di «tassazione dell’effetto sostanziale del gioco delle corrispondenze formali dei negozi riducibili ad unità».

36 FANNI, L’art. 20 del T.U.R., cit. 37 In tal senso, si veda la stessa Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 128/2015. Cfr. in dottrina FICARI, Vi-

zi e virtù della nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione tributaria ex art. 10-bis della Legge n. 212/2000, in Riv. trim. dir. trib., 2016, p. 313 ss.; MASTROIACOVO, op. cit., p. 249 ss.; TASSANI, Conferimento di azienda, cit., pp. 839-840, nonché la Circolare Assonime, D.lg.vo n. 128 del 2015 sulla certezza del diritto nei rap-porti tra Fisco e contribuente: la disciplina sull’abuso del diritto, p. 122.

38 Cfr. MICCINESI, op. cit., p. 599 ss. Riguardo all’art. 10 bis, L. n. 212/2000, cfr. BASILAVECCHIA, L’art. 10-bis dello Statuto: the day after, in Corr. trib., n. 10, 2016, p. 5 ss.; CORASANITI, Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario, in Dir. prat. trib., 2016, p. 465 ss.; ZIZZO, La nuova nozione di abuso del diritto e le raccomandazioni della Commissione europea, in Corr. trib., n. 47-48, 2015, p. 4577 ss.; GALLO, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza di Cassazione, in Rass. trib., n. 4, 2016, p. 837 ss.

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Cass., sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2054, e 10 febbraio 2017, n. 3562 899

sul piano procedurale, l’onere per l’Amministrazione Finanziaria di dimostrare l’ano-malia nell’impiego della forma giuridica prescelta e, per converso, la facoltà per il con-tribuente di provare la sussistenza delle valide ragioni economiche extratributarie. Va-lutazioni che, nella prospettiva qui seguita, restano naturalmente estranee all’indagi-ne ex art. 20 cit.

Francesco Pedaccini

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GIURISPRUDENZA RTDT - nn. 3-4/2017 900

Finito di stampare nel mese di luglio 2018 nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220