Spectrum di Giordana Ungaro

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Occhiali spessi, trasandato, Michele Benni tratta il manoscritto Voynich come un normale affare finanziario. Scrittura misteriosa e immagini inquietanti non bastano a fargli sospettare il segreto di un male antico. L’incubo resta acquattato nell’abisso, scarnificato e spettrale come nella cella d’onore dell’alchimista di Castel Sant’Angelo cinque secoli prima. Pronto a rilasciare la mandibola in un sorriso di morte.

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Frontespizio

Giordana Ungaro

Spectrum

2015

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Colophon

ISBN 97888994390021° edizione (digitale) 10 Maggio 2015

ISBN 97888994390192° edizione (cartacea) 10 Maggio 2015

Òphiere

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Immagine di copertina di Valda

FINITO DI DI PREDISPORRE PER LA DIFFUSIONE ELETTRONICA O A MEZZO STAMPANEL MESE DI APRILE 2015

PRESSO MAMMA EDITORI

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Dedica

... a Francesco,con profonda gratitudine,

perché lui sa.

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1.

“Stanno stretti sotto i letti, sette spettri a denti stretti”.

Stephen King - It

Sulle fiamme ormai spente del fornello si levava il simulacro pallido e ben noto di Branda. Scarnificato quanto un teschio con poche ciocche penzolanti sulla fronte, la mandibola ricadde in una chiostra di denti aguzzi. Giuseppe Francesco Borri medico mediolanense voltò le spalle allo spettro e guardò il cielo.

L’imbotte della finestra affondava per un paio di me-tri nella parete di tufo bianco. Nella cella d’onore di Ca-stel Sant’Angelo filtrava solo un debole raggio di luna e l’alito gelido della notte. Sei metri più in basso scosso dai tremiti ondeggiò la mano e puntò l’indice.

Se ancora un refolo di forza gli restava nei lombi, la cella si sarebbe animata di volute azzurre, ignee e calde. Accompagnò col dito il dondolio della serpe con muso di topo, fermò lo sguardo ai naturalia sulle mensole più alte.

Piccole creature gialle e nere si contorsero silenti nel vaso.

Mormorò un’invocazione alle salamandre.

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Vi fu un guizzo. Ma si estinse subito.

Gli occhi di Francesco si velarono di disperazione.

Era troppo tardi. Prese a tremare. Di lì a poco non ci sarebbe stato scampo.

Il volto esangue e luminescente sarebbe riapparso. Lo spettro avrebbe spalancato le fauci e succhiato terro-re fino a ucciderlo. L’alchimista alzò la mano tremante verso l’automa del Torriani simulatore dei moti celesti. L’abbassò fino a sfiorare la teca e tornò al leggio, al libro segreto.

Il codice gemello, uguale in tutto e per tutto a quel-lo del reverendo magistro Athanasius. Dono dell’amico Nicholas, una chiave per esercitare l’arte senza doverne pagare il prezzo. Pergamene cosparse di quella Polvere dei Gesuiti, ora, per grave disdetta, irrimediabilmente esaurita.

Un sospiro gli si levò tremante dal petto. Vecchio stol-to dalle ginocchia incerte, pensare di invocare un silfio! Uno spirito, e dell’aria per giunta! La mente scompose gli ultimi eventi nella sequenza di una teoria affrescata. La coppa di polvere inclinata tra i palmi, e poi la mistura caduta sull’atanor e sul fornello. Il silfio che parava le mani inutilmente per evitare il danno. Un divampare e poi più nulla. Così era finita la sua fortuna.

Passò il dito sulla cucitura della pagina aperta. Erano rimasti pochi granuli. Insufficienti a fermare l’inevitabi-le né già Palombara sarebbe giunto in tempo a rifornir-lo. Francesco trasse un respiro profondo e si voltò verso il proprio destino. Lo spettro di Branda lo fissò in quieta attesa e rilasciò la mandibola in un sorriso di morte.

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Giuseppe Francesco Borri crollò sul pavimento e il codice segreto cadde sulla pietra assieme a lui.

***

Cinque secoli dopo, Michele Benni voltò con delica-tezza le pagine del manoscritto nella sala di consultazio-ne alla Biblioteca dell’Orto Botanico di Padova e sentì di nuovo addosso lo sguardo della funzionaria.

Lo teneva d’occhio, controllava se il vecchio e prezio-so tomo fosse trattato con la cura dovuta. Non sospetta-va minimamente cosa si celava in realtà sotto le spoglie apparenti di un tardo erbario ricolorato ad acquerello. Benni trattenne il sorriso e tornò a chinarsi sulle pagine.

L’inchiostro sbavato confondeva ulteriormente i ca-ratteri misteriosi. Sfiorò con i polpastrelli l’immagine del girasole carnivoro. Sorrise.

La copia coeva, gemella e segreta del Manoscritto Voynich era ancora sua, una carta vincente.

Diede un ultimo sguardo alle figure, scrutò minu-zioso i dettagli delle piante, la loro consistenza carnea, le radici tentacolari, le corolle giganti, poi lo ripose, nel vano tra due versioni arabe del De Materia Medica.

Lo avrebbe trafugato appena trovato un comprato-re. Non sarebbe stato facile convincere l’acquirente con l’esibizione di una semplice copia ma l’artigiano aveva fatto un buon lavoro. Un vero bibliomane non avrebbe resistito. Un pulsare alle tempie annunciò imminente l’emicrania, si massaggiò la fronte e andò a ritirare l’Her-barium Apulei Platonicii.

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Sistemò sul leggio la copia del 1481 tratta da un ma-noscritto del quinto secolo e posizionò il cavalletto della macchina fotografica. Rimpicciolite nel visore, vide ri-flesse le rughe sulla fronte stempiata.

Quel lavoro lo consumava, i committenti lesinava-no sui pagamenti anche per copie di qualità eccelsa e si era trovato costretto ad arrotondare col commercio di paccottiglia new age. Ma non sarebbe andato avanti così ancora per molto. Tornò con la mente alla carta vin-cente e il pensiero allentò la tensione. Premette il radio-comando della macchina digitale e fece il primo scatto.

Inutile lamentarsi della mole di lavoro. L’alternativa sarebbe stata ritrovarsi seduto sul divano, a fissare scetti-co il gohonzon sommerso da una catasta di tremila falsi acchiappasogni made in China in forma di gufo.

L’offerta di Callum MacNeal, piume di pavone an-ziché di gufo, gli aveva dato modo di spuntare la metà del prezzo. Aveva accettato ma con la pretesa di avere almeno quelle bianche e nere delle ali.

Il piumaggio iridescente della coda di pavone sarebbe stato impossibile da spacciare per penne di gufo anche ai clienti più sprovveduti. Il pulsare iniziale alle tempie divenne più forte.

La sfortuna continuava a perseguitarlo e aggravava una situazione di per sé non favorevole. Aveva ancora quarant’anni ma ne dimostrava parecchi di più. Un’e-vidente calvizie gli aveva diradato i capelli. Gli occhiali dalle lenti tonde erano spessi come fondi di bottiglia. Come non bastasse poteva contare su un fisico smun-to e flaccido. La pancetta debordante dalla cintura dei

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jeans accentuava la magrezza delle gambe, sottili come stuzzicadenti. La tacca rossa dell’esposimetro si offuscò.

Non era facile mantenere la concentrazione. Il pen-siero di quanto fosse squallida la sua esistenza continuò a strisciargli nella mente. Era single e l’unica presenza femminile costante era quella di sua madre! Una nuova fitta alla tempia lo fece trasalire.

Lo trattava come fosse ancora un bambino. Era onni-presente e lo importunava con quella mania di raccon-tare aneddoti di quando era piccolo. Finiva sempre per metterlo in ridicolo davanti agli altri. Estrasse dalla tasca la penna biro, ne succhiò distratto il pulsante mentre si-stemava l’inquadratura. Scattò qualche foto velocemen-te e imprecò quando si accorse dell’errore nella messa a fuoco. Doveva rifarle, pensò sempre più innervosito.

Non era timido, anzi, e nemmeno un lupo solitario, eppure, non riusciva a instaurare alcun tipo di rapporto con l’altro sesso. Si era anche iscritto a un sito di in-contri online ma con scarsi risultati. Non capiva dove sbagliava.

Certo non era un adone ma aveva altre qualità, era educato, galante, spiritoso e oltretutto le donne contat-tate tramite internet erano tutto tranne modelle da co-pertina! Raddrizzò la schiena e propose alla funzionaria di fare una breve pausa.

Si rifugiò nelle toilette e trasse un sospiro. La situa-zione era al limite. Se dapprima le donzelle sparivano dopo un paio di appuntamenti ora lo facevano dopo appena mezz’ora dal primo incontro. L’apoteosi del di-sastro si era verificata pochi giorni prima. La signorina

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in questione si era alzata per andare al bagno e non era più tornata. Lui era rimasto seduto al tavolo del pub, da solo, aveva fissato il vuoto per mezz’ora prima di alzarsi e cercare di capire dove fosse finita.

La macchina della donna non era più nel parcheggio, così era tornato nel locale e aveva bevuto lo scotch della fuggitiva. Poi ne aveva ordinato un terzo e un quarto, perso in meditazioni senza costrutto, indeciso se chia-marla o meno.

Doveva esserci una spiegazione. Forse. Aveva quindi estratto dalla tasca il taccuino deciso a scrivere una li-sta di possibili cause. Man mano l’alcool aveva reso lui meno lucido e le idee più grottesche, finché, totalmente sbronzo, si era trovato a ridacchiare divertito di quell’as-surdità. Infine aveva pagato e lasciato una mancia persi-no. Cosa strana, tirchio com’era. Quella sera ormai era in vena di follie.

Fanculo le donne, fanculo internet, fanculo tutti. Sa-rebbe salito in macchina, avrebbe mandato un bel mes-saggino a quella maleducata cafona con scritto qualcosa di appropriato, scialacquato un altro po’ di euro con una puttana e se ne sarebbe andato a letto soddisfatto invece di rimuginare sul perché la lavandaia sciatta e cicciona se ne era andata.

Aveva riflettuto. Avrebbe dovuto essere lui a farle lo scherzo. Poteva trovare sicuramente di meglio di una grassa, triste e insoddisfatta casalinga di mezza età cono-sciuta su internet. Rinvigorito se n’era uscito sorridente, era salito in auto e come per magia non era stato fermato dalla vista di nessuna squillo sul ciglio della strada, ben-sì dalla volante dei carabinieri. Lo avevano sottoposto

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all’etilometro, multato e come non bastasse gli avevano ritirato la patente.

Mentre tirava lo sciacquone i pensieri andarono al ciao parcheggiato all’esterno dell’Orto Botanico, sot-to la pioggia, unico mezzo di locomozione rimastogli. Spinse in bocca due compresse di aspirina, le ingoiò con una lunga sorsata d’acqua del rubinetto e tornò in biblioteca.

Mezz’ora dopo, concentrato sugli scatti e perso in quelle considerazioni, trasalì nel sentire un tocco sulla spalla. Catturò per errore l’istantanea della funzionaria nell’atto di girare la pagina e si voltò.

«Ehi, Michele, vecchio mio!» esclamò Todaro nello splendore tutto grigio della sua essenza di archivista. Fu quasi un’apparizione, effetto tipico delle sue entrate in scena.

L’uomo lo fissò con sguardo critico poi si accostò all’obbiettivo per valutare l’inquadratura:

«Non è che comincia a farti male maneggiare testi antichi? - mormorò come rivolto a se stesso, poi, sornio-ne sorrise. - Ce ne sono di pericolosi.»

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2.

Annabel Abercrombie attraversò la corte in porfido dei Viburni di Montemerlo, un piccolo borgo medie-vale immerso nel verde dei colli Euganei. Era diretta al parcheggio del residence e in lontananza aveva già ri-conosciuto Michele Benni alle prese con il bagagliaio dell’auto.

Ma non gli avevano tolto la patente?

Affrettò il passo e alzò lo sguardo sui colli verdeg-gianti tutto attorno, quel posto le piaceva, tranquillo e silenzioso, perfetto per scrivere. Si era trasferita lì da appena un mese. Gli appartamenti venivano affittati perlopiù come case vacanze. Fuori stagione rimanevano quasi tutti vuoti. Inoltre il residence era dotato di una grande sala conferenze, usata per seminari dei più sva-riati generi, e di un centro sportivo con piscina coperta. Un paradiso.

«Non mi dire, sei riuscito a farti ridare la patente così in fretta?» domandò con voce leggera quando gli fu accanto.

Michele alzò lo sguardo imbronciato.

«No, purtroppo. Non ho gli agganci dei giornalisti, io. Hai mica qualcuno cui chiedere un favore?» Le so-

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pracciglia gli si incurvarono come parentesi ai lati degli occhi.

Annabel sorrise intenerita, non sapeva resistere a quell’espressione da cane bastonato.

«Ho già chiesto a un collega della cronaca nera, ha degli amici in questura... Ma ne hai ancora di questi! - esclamò nel vedere il contenuto delle scatole a terra. - Meno male! Me l’hanno rubato,» aggiunse già china sui pacchetti di plastica lucida.

«Rubato? Lo avrai perso. Chi ruberebbe questa roba?»

«Tu non ci credi, sei scettico lo so. Invece sono carini. Ispirano. Ne prendo due, per sicurezza. Uno lo porto a un amico, quanto ti devo?»

«Niente.»

Annabel si raddrizzò e agitò i due pacchetti come fos-sero maracas.

«Regalati saranno ancora più potenti!»

«Ne dubito... - masticò Benni. - Non sono nemmeno piume di gufo, vedi?» disse afferrandone uno dal baga-gliaio. Aprì il pacchetto e fece penzolare davanti a lei l’acchiappasogni. «Guarda qua!».

«Sono bellissimi! Cosa devo vedere?»

Le campane a vento erano alternate a file di piume e le retine acchiappasogni formavano i due grandi occhi del volatile e al centro, al posto del solito foro destina-to a catturare e imprigionare gli incubi, c’era una perla nera, come una pupilla.

«Sono piume di pavone queste. Quelle dei gufi sono picchiettate! Non devi farti ingannare così, Annabel!» Il

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rimbrotto di Benni si levò lento come una riflessione a voce alta. Scosse il capo contrariato e lei per tutta rispo-sta scoppiò in una risatina vellutata:

«Sottovaluti il karma, Michele. Anche dietro un’ap-parente fregatura può esserci un disegno del destino.»

«Sì, come per la mia patente...» disse lento in rimando.

«Vedrò cosa posso fare con quel famoso aggancio in questura,» Annabel gli rivolse un ultimo sorriso e danzò verso l’auto.

Mise in moto ma rallentò nel passargli accanto e ab-bassò il finestrino.

«Poi ti faccio sapere se funzionano!» Indicò i gufi ap-poggiati sul sedile e agitò la mano in cenno di saluto.

***

Era seduto, rilassato, le palpebre socchiuse, concen-trato sul proprio respiro. Il ritmo cardiaco si fece ipnoti-co e lo trascinò pian piano sempre più giù, nel profondo di sé stesso. Il pensiero si quietò. Assaporò il silenzio, la calma, il distacco dal corpo. Nella mente presero forma delle immagini, dapprima frammenti confusi, poi una figura, una donna ma il trillo del cellulare lo riportò alla realtà.

Aveva dimenticato di spegnerlo e Joshua aprì gli occhi.

La stanza era in penombra, le candele accese consu-mate per metà, il bastoncino d’incenso una strisciolina di cenere. Sul display lampeggiava il nome di Callum e lo sguardo andò a posarsi per un istante sull’acchiap-

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pasogni a forma di gufo appeso alla porta, regalo del fratello.

Afferrò il cellulare:

«Fottiti, - disse serafico, - hai il dono di disturbare sempre nel momento meno opportuno.»

«Ehi Josh! Sì, ti voglio bene anch’io. Cazzo e spegnilo quell’aggeggio se non vuoi essere disturbato!» esclamò Callum.

Aveva ragione, l’irritazione scemò.

«Cos’ho interrotto? Sesso tantrico con una delle tue adepte?» gracchiò l’auricolare.

«No, esercizi di concentrazione.» Seguì un lungo silenzio.

«Scusa,» disse Callum con tono dispiaciuto.

«Non fa nulla.»

«Senti, ci vediamo sta sera a cena a Montemerlo. Io vado là per preparare gli interventi con gli altri relatori. Dobbiamo parlare.»

«Comodo tu, da Padova. Montemerlo è a una ven-tina di minuti. Guarda che arrivare da Brescia è lun-ga. Se è per la conferenza di dopodomani abbiamo già ampiamente...»

«No, non è questo. Ho trovato lo sciamano, ti spie-gherò tutto più tardi. Sarà un Halloween molto specia-le. A dopo.» La comunicazione si chiuse senza lasciargli nemmeno il tempo di replicare.

La curiosità prese a solleticarlo, chissà cosa aveva in mente.

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L’indomani era la festa di Ognissanti, Halloween il capodanno esoterico. Avrebbe dovuto aspettarselo. Il fratello avrebbe organizzato qualche rituale. Il pensie-ro di come era stata svilita quella ricorrenza, degradata al livello di mera festa carnevalesca, gli fece scuotere la testa. Nessuno sembrava più ricordare la notte in cui le porte tra il mondo invisibile e quello visibile rimangono aperte, e cielo e terra sono percorsi da energie arcane e inimmaginabili.

***

Dalia Facchin finì di lavare gli indumenti di lana. Era mezzanotte. Se si fossero asciugati in tempo Fatima il giorno dopo avrebbe potuto indossare un maglioncino pulito.

Aveva la schiena indolenzita e i piedi gonfi come zamponi per le ore passate in piedi a pulire i pavimen-ti del condominio. Barcollò fino ad appoggiarsi per un istante alla lavabiancheria.

Proprio quel giorno aveva dovuto riportare su dal cortile tutte le maledette piante d’appartamento della Cominelli Furga. Dovevano essere riunite tutte lì quelle vecchiette aristocratiche con la puzza sotto il naso! Si raddrizzò e annaspò fino al lavatoio.

Doveva mettersi a dieta. Il sovrappeso rendeva tutto più faticoso, inoltre non si piaceva, era grassa, una ba-lena. Il taglio corto dei capelli, tenuti in quel modo per praticità, faceva inabissare ulteriormente le sue attratti-ve. Era goffa, sgraziata, non si truccava e vestiva sempre di scuro per camuffare le forme abbondanti. Un velo di lacrime le impedì di vedere dove fosse il sapone.

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Non c’era modo di migliorare la sua vita. Il misero stipendio di portinaia non bastava mai e a trentasette anni suonati non aveva una vita di relazione. Per giunta la madre viveva con lei. Stese con cura il maglioncino e si ritrovò a sorridere dolcemente.

Adorava quella ragazzina, era la cosa migliore di tutta la sua vita. Poco importava essere stata lasciata dal padre tornato in Marocco appena saputo della gravidanza. Si stiracchiò, ripose il cesto della biancheria e si trascinò fino alla guardiola della portineria.

Dalia agganciò bene le ante e oscurò lo spiraglio di luce dell’atrio. Nella penombra accese a tastoni la lam-pada da tavolo, il computer, e aprì il solito sito di incon-tri online.

Era un passatempo divertente per chi come lei usciva poco e trascorreva molte ore in solitudine. Diede uno sguardo alla chat speranzosa ma l’unico per cui provava un vero interesse non era online. Ritornò con la mente alla catastrofe di qualche giorno prima.

Non osava nemmeno immaginare quanto fosse an-cora infuriato con lei Michele Benni dopo averlo mol-lato lì al tavolo del pub ed essere andata al bagno senza più far ritorno. Era fuggita incapace di affrontarlo, ter-rorizzata di deludere l’aspettativa creata in settimane di chiacchierate in chat. Tutta colpa della timidezza.

Quella sera Michele si era persino presentato con un regalo, un grazioso acchiappasogni a forma di gufo. Ora penzolava davanti alla finestra della camera da letto e ogni sera quando lo guardava ripensava alla fuga dal pub e a quanto fosse stata stupida.

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Michele non si era più fatto sentire e lei idem. Avreb-be perlomeno dovuto mandargli un messaggio di scuse, era il minimo dopo un comportamento del genere. Ci rimuginava ogni giorno da una settimana, era divenuta un’ossessione ma non riusciva a trovare il coraggio di spiegargli perché se ne era andata.

Lo sforzo per superare la timidezza dell’incontro fac-cia a faccia aveva esaurito le riserve di energia, era con-vinta di aver vinto le proprie paure ma si era sbagliata. No, non poteva lasciar perdere, pensò d’un tratto riso-luta. Prese il cellulare e provò a scrivergli un messaggio ma nulla le parve adatto. Dopo svariati tentativi e can-cellazioni decise di chiamarlo.

Aprì la rubrica, selezionò il numero ma poco prima di inviare la chiamata cambiò di nuovo idea.

«Fanculo i telefoni,» gli avrebbe parlato di persona.

***

Erano gli ultimi clienti del ristorante rimasti. Il ca-meriere rientrò nella sala e servì il caffè.

La cena, cominciata tardi, finalmente volgeva al ter-mine. Joshua MacNeil seduto a tavola assieme agli altri, seguiva distrattamente la conversazione. Aveva mangia-to in silenzio e preso la parola solo se direttamente inter-pellato. Era stata una lunga settimana e il seminario sui rituali sciamanici e gli animali totemici aveva esaurito ogni sua energia. Per una volta ringraziò il logorroico egocentrismo di Callum.

Quel vortice crescente di notorietà e nuovi impegni erano benzina sul fuoco per l’ego smisurato. Ma Joshua d’improvviso si fece attento.

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Gli occhi del fratello luccicavano come biglie di os-sidiana, il ristorante intorno a lui sembrò appannarsi e passare in secondo piano. Joshua sorrise.

Quello doveva essere il momento in cui il fratello ti-rava fuori l’asso dalla manica.

Callum infatti poggiò sul tavolo un involto di cuoio.

Joshua notò gli sguardi incuriositi.

Chissà cosa si era inventato questa volta. Rune? Tarocchi? Quando finalmente slacciò il cuoio, Joshua sorrise.

Era un totem di ceramica moche a forma di gufo. Doveva aspettarselo. I feticci erano la mania di Callum in quel periodo.

«Vedete per esempio il gufo è da sempre associato alla magia e forse per il suo verso lugubre a un uccello del malaugurio. Alcuni lo adorano, altri lo temono creden-dolo l’incarnazione del diavolo ma, nella cultura peru-viana ad esempio, non ha alcuna valenza nefasta, anzi, i sacerdoti Moche durante le cerimonie tenevano sul capo una corona a forma di gufo. Per loro era un animale gui-da, l’intermediario tra il mondo sacro e quello profano.»

Joshua si fece più attento, era una strana coincidenza. I pensieri tornarono inevitabilmente al gingillo regala-togli da Callum. Si accorse di non riuscire a toglierselo dalla testa. Quegli occhi di ossidiana ricordavano quelli del fratello e continuavano a riaffiorare nella memoria. Cercò di scacciare le immagini ma quelle, capricciose e disobbedienti, tornavano a frustrare il tentativo di concentrarsi sul presente. Si guardò intorno, le persone sedute a tavola erano una quindicina, qualche relato-

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re alla conferenza dell’indomani, un paio di giornalisti, Callum e la sua ragazza, Patricia.

Joshua bevve il caffè e dopo qualche minuto il fra-tello si allontanò. La conversazione passò ad argomenti più frivoli.

«E così quella strega di mia moglie ogni sera ha una scusa differente, è l’unica donna al mondo ad avere il ciclo tre volte al mese!» esclamò un commensale lamen-toso a voce alta. Detto ciò agitò il cranio perfettamente lucido e trangugiò avidamente il liquore digestivo.

Gli uomini risero solidali tra gli sguardi eloquenti delle donne presenti. Joshua osservò il tipo. Era alticcio e per via dall’alcool era ancor più evidentemente frustra-to. Si massaggiò la fronte come per scacciarne il pensie-ro ma non gli riuscì. E per un attimo rivide nel pelato l’ombra di un lontano e triste se stesso. Rabbrividì e in-gollò i ricordi con un lungo sorso di vino.

Le immagini di quando la sua vita sottostava al cliché deciso da una società stereotipata, lo nausearono. Un titolo di studio, un posto di lavoro, una casa, una fidan-zata erano stati solo una maschera di felicità apparente. Aveva cercato di adeguarsi ma poi la ribellione aveva fi-nito per prevalere.

La passione per le filosofie orientali, le lingue anti-che, l’esoterismo e le dottrine spirituali erano argomenti di nicchia, poco comuni e stranissimi a Glasgow, tanto più agli occhi della famiglia, tradizionalista fino al mi-dollo. Erano state liquidate come bizze adolescenziali e i tentativi di dirottare il figlio verso interessi più con-creti si erano sprecati. Il pensiero gli strappò un sorriso.

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Ai genitori era andata proprio male, Callum era ancora peggio quanto a fissa per l’occulto.

Contro ogni previsione quegli studi erano infine di-ventati una professione e lì, in Italia, lui e il fratello si erano fatti anche un nome. Il primo a trasferirsi era stato Callum e lui, dopo anni trascorsi in Oriente, lo aveva raggiunto. Aveva faticato parecchio per riabituarsi ai rit-mi occidentali.

Un tocco lieve sulla spalla lo distolse dai pensieri, era Patricia Gutierrez.

«Tutto bene? - domandò. - Sei silenzioso.»

«Sì. Sono solo un po’ stanco.» L’unica cosa di cui ave-va voglia era un po’ di quiete e una lunga dormita.

Lei annuì e le labbra tremarono in un sorriso esitante.

«Sei sicuro di non volerti fermare da noi?»

«Ti ringrazio ma sareste costretti a ospitare pure lui, - indicò testa lucida - è in macchina con me,» rispose facendole l’occhiolino. Il pelato era impegnato ancora nel soliloquio sulla propria consorte.