Sostenibilità e dinamiche sociali

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Sostenibilità e dinamiche sociali Spongebob group Elisabetta Bacconi Fabio Lanza Marcello Tecleme Francesco Tocci Alessia Vidili

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Sostenibilità e dinamiche sociali

Spongebob group

Elisabetta BacconiFabio LanzaMarcello TeclemeFrancesco TocciAlessia Vidili

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Indice

1 Introduzione pag. 22 Cos'è il digital divide pag. 2

digital divide ed e-government pag. 63 Digital divide: diversi casi di studio pag. 8

diverse forme di divario in occidente pag. 104 Information Technology e terzo mondo pag. 16

uno squillo per ogni situazione pag. 16internet e nuovi media: il riscatto del terzo mondo? pag. 18

5 Autori sul digital divide pag. 246 E-waste pag. 29

convenzione di Basilea pag. 29dimensione quantitativa del problema in Italia pag. 32i rischi per l'ambiente e la salute umana pag. 32norme e leggi pag. 34politiche a rifiuto zero pag. 35

7 E-waste nei paesi in via di sviluppo pag. 378 Conclusioni pag. 419 Criteri di sostenibilità pag. 4310 Bibliografia pag. 4411 Sitografia pag. 45

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INTRODUZIONE

Quello che andiamo ad esporre è un lavoro scritto a più mani su due dei principali aspetti critici che

hanno accompagnato dall'origine lo sviluppo delle tecnologie elettroniche e digitali: il digital divide e

l’e-waste. Per digital divide si intende lo scarto che emerge tra quei soggetti che posseggono prodotti

tecnologici di tipo elettronico e digitale, che hanno potenzialmente accesso ad internet e che hanno

fatto proprie le competenze minime per farne uso, e quei soggetti che invece si trovano al di fuori di

queste possibilità.

L' e-waste, definizione anch'essa di origine anglosassone, definisce l'impatto ambientale, assolutamente

negativo, causato dai rifiuti elettrici ed elettronici dispersi nell'ambiente, in particolar modo dagli

elementi tossici di cui sono composti.

Entrambi i temi vengono esaminati all'interno della letteratura esistente in materia, reperendo

informazioni utili da autori riconosciuti, riviste scientifiche e fonti di diverso tipo presenti in rete,

mantenendo fermo, nel corso delle ricerche, il principio della massima attendibilità.

All'interno dei documenti esaminati si è cercato di definire un quadro della situazione a livello locale

ed internazionale, con particolare attenzione ai paesi in via di sviluppo ed alle relazioni tra questi ultimi

e quelli principalmente produttori di tecnologie.

Questi due argomenti apparentemente slegati tra loro hanno al contrario molto in comune: l’aumento

sconsiderato dei prodotti elettronici nel mercato non riesce a contrastare il gap del divario digitale e

nello stesso tempo pone il problema del loro corretto smaltimento. Da questo empasse si può uscire

solo studiando soluzioni che abbiano una sostenibilità cognitiva, economica ed ecologica.

COS'E' IL DIGITAL DIVIDE

Il termine digital divide viene utilizzato per la prima volta nel 1995, durante l'amministrazione

americana Clinton-Gore, quando la National Telecommunications and Information Administration

(NTIA), organo consultivo degli Stati Uniti sulle politiche nel settore delle telecomunicazioni, pubblica

la relazione “A Survey of the “Have nots” in Rural and Urban America”, la prima di una serie

intitolata “Falling Trought the Net”. (http://www.ntia.doc.gov/ntiahome/fallingthru.html)

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Tale termine tecnico viene utilizzato in riferimento alle disuguaglianze nell’accesso e nell’utilizzo delle

tecnologie della cosiddetta “società dell’informazione” per indicare la non omogenea fruizione dei

servizi telematici tra la popolazione statunitense. Divario, disparità, disuguaglianza digitale sono

termini che vogliono spiegare la difficoltà da parte di alcune categorie sociali o di interi paesi di

usufruire di tecnologie che utilizzano una codifica dei dati di tipo digitale rispetto ad un altro tipo di

codifica precedente, quella analogica.

Ma la definizione digital divide racchiude in sé complesse problematiche che coinvolgono tutti gli

aspetti della vita di una comunità: economici, culturali, sociali.

Nel 1999 viene pubblicata una relazione, “Defining the Digital Divide”,

(http://www.ntia.doc.gov/ntiahome/net2/falling.html) in cui si sottolinea che la partecipazione di tutti

gli americani nella società dell’informazione era strettamente connessa con lo sviluppo della digital

economy.

Specificatamente, per quel che concerne Internet, si distinguevano cinque livelli di disparità:

• tra la minoranza di connessi e la stragrande maggioranza di non connessi;

• tra coloro che utilizzano Internet per una vasta gamma di attività, traendone effettivi vantaggi, e

coloro che di vantaggi ne traggono pochi o nessuno;

• tra coloro che possono permettersi servizi a pagamento offerti da Internet e coloro che si

limitano a utilizzare le risorse gratuite;

• tra coloro che utilizzano la rete per effettuare operazioni di e-commerce e coloro che non

effettuano alcuna transazione on-line;

• tra coloro che beneficiano dell’utilizzo della banda larga e coloro che rimangono imbottigliati

nella lentezza della rete.

Nello stesso anno si è costituito un “High Level Panel” di esperti di tecnologie dell’informazione e

della comunicazione per la redazione del Millennium Report, pubblicato nell’aprile del 2000

(http://www.un.org/millennium/sg/report/) come base di riflessione per il Millennium Summit delle

Nazioni Unite del settembre dello stesso anno.

Tale rapporto contiene, tra i molti temi trattati, tre proposte riguardanti specificatamente l’ICT

(Information Communication Technology):

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• l’istituzione di un corpo di volontari, denominati cyber troops, incaricati di avviare i paesi in via

di sviluppo all’utilizzo di Internet e delle nuove tecnologie;

• la costituzione di un Health InterNetwork per costruire e collegare in rete 10 mila siti di

ospedali e cliniche nei PVS

• la creazione di una rete cellulare e satellitare di pronto intervento - First on the Ground - per

affrontare disastri naturali ed altre emergenze.

La disparità digitale è, in realtà, solo uno degli aspetti indotti dalla globalizzazione e molteplici sono le

relazioni tra la diffusione di questa e la diffusione delle tecnologie dell’informazione.

Il ruolo cruciale della ICT nell'evoluzione dell'economia globale assume due aspetti: da una parte dà la

possibilità ai paesi di modernizzare i loro sistemi di produzione ed incrementare la loro competitività

tanto quanto mai in passato; dall’altra, per quelle economie che non sono in grado di adattarsi al nuovo

sistema tecnologico, ritardi sempre più incolmabili.

Ampiamente condivisa tra gli studiosi che hanno analizzato il digital divide è che una delle cause

principali del fenomeno sia di carattere economico: i paesi in via di sviluppo non sono in grado di

acquisire un’alfabetizzazione informatica che è causa stessa del digital divide, il circolo vizioso che si

viene a creare porta i paesi poveri ad impoverirsi ulteriormente dato che sono esclusi dalle nuove forme

di produzioni di ricchezza.

I dati relativi all’accesso ai flussi di informazione forniti dall’UNDP nel rapporto 2000

(http://www.digital-divide.it) sono in tal senso particolarmente significativi: nel 1998 nei paesi ad alto

sviluppo umano, circa 41 persone ogni 1000 avevano una connessione ad internet, mentre nei paesi a

medio sviluppo umano meno di 1 persona su 1000; il dato relativo ai paesi a basso sviluppo risultava

insignificante. E’ interessante analizzare alcuni dati specifici: negli Stati Uniti nel 1998 esistevano 661

linee telefoniche, 459 personal computer e 847 televisioni ogni 1000 abitanti, in Italia 451 linee

telefoniche, 173 personal computer e 451 TV, in Colombia 173 linee telefoniche, 28 personal computer

e 217 televisioni, in Pakistan 19 linee telefoniche, 4 personal computer, 88 TV, per concludere, in

Mozambico 4 linee telefoniche, 2 personal computer e 3 televisioni.

Nel corso degli ultimi anni importanti appuntamenti che si sono tenuti in Italia hanno proposto

riflessioni e decisioni operative sul digital divide: dal Forum di Napoli - attraverso il quale organismi

internazionali quali le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Banca Mondiale hanno discusso di

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“Cooperazione internazionale e Digital Divide” - a Genova, in occasione dell’incontro del G8,

all’interno del quale è stato ripreso ancora una volta il tema della disparità digitale già segnalato come

prioritario nella Carta di Okinawa del G8 stesso. Al termine del summit venne sottoscritta una "Carta

sulla società Globale dell’Informazione"

(http://www.g8.utoronto.ca/summit/2000okinawa/finalcom.htm) in cui si prevede che lo sviluppo e la

diffusione dell’ICT coincidano con:

• la crescita economica sostenibile, andando di conseguenza ad aumentare il benessere pubblico;

• la maggiore coesione sociale;

• il potenziamento della trasparenza e della responsabilità dell’azione di governo, quindi lavorare

per realizzare compiutamente il potenziale della democrazia;

• la promozione dei diritti umani e della diversità.

Con questo documento il G8 si incarica, quindi, di promuovere la creazione di una partnership che si

impegni a combattere il divario tecnologico nei paesi interessati. In questo contesto viene prevista

l’istituzione di una Digital Opportunity Task Force (DOT Force), finalizzata a preparare un rapporto

dettagliato riguardante le azioni da intraprendere per ridurre il divario digitale tra i paesi industrializzati

e i paesi in via di sviluppo.

Attualmente il dibattito sul digital divide si concentra sugli aspetti geopolitici in relazione sia

all’accesso, sia ai contenuti dell’ICT, tenendo presente che la “Rivoluzione Digitale” accelera i processi

di globalizzazione e moltiplica esponenzialmente il suo impatto.

Una delle argomentazioni sostenute da chi vede la diffusione delle ICT come strumento di sviluppo, è

che queste possano favorire la partecipazione, la decisionalità e lo scambio di informazioni,

consentendo quindi un reale intervento delle persone sulle decisioni che li riguardano. La ICT può

garantire la creazione di networks e quindi di spazi pubblici per dibattiti fra le persone, canali

attraverso i quali far circolare conoscenze ed esperienze fra le persone e le istituzioni, siti dove fonti di

informazione e conoscenza possono essere consultati.

Per quanto riguarda specificatamente l’Europa, il segnale più importante rispetto al tema diffuso

dell’ICT parte dalla Commissione Europea che, riunita a Lisbona nel marzo 2000, lancia il Piano

d’Azione “e-Europe 2002”, nel quale vengono individuati una serie di obiettivi volti a creare un

ambiente favorevole allo sviluppo della e-economy in Europa, ad accelerare la connessione di scuole e

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università a Internet, a stimolare la formazione alle nuove tecnologie e a promuovere l’adozione

dell’innovazione da parte di tutti.

Le linee d’azione previste dal Piano europeo sono finalizzate al raggiungimento di tre obiettivi

prioritari:

• realizzare un accesso più economico, rapido e sicuro a Internet;

• investire nelle risorse umane e nella formazione, favorendo la partecipazione di tutti

all’economia basata sulla conoscenza;

• promuovere l’utilizzo di Internet, anche nella pubblica amministrazione e nei servizi,

accelerando l’e-commerce e sviluppando contenuti digitali per le reti globali.

Alla conclusione del Consiglio europeo di Lisbona, segue l’istituzione di un’iniziativa denominata “e-

learning, pensare all’istruzione di domani”. I piani d’azione “eEurope 2002” e “eEurope 2005”, fanno

dell’elearning una priorità assoluta per la promozione di una “cultura digitale”.

In conclusione, tanti sono gli aspetti e gli interrogativi su come affrontare il digital divide. Oggi più che

mai sembra improrogabile fermarsi a riflettere, documentarsi e pianificare azioni sia di educazione allo

sviluppo, sia di formazione, che ci consentano di non rimanere impreparati e/o in ritardo nella

risoluzione delle disuguaglianze digitali e delle problematiche a questo connesse.

Se a livello internazionale si cerca di colmare il divario di accesso fisico alle tecnologie e di affermare

un diritto di cittadinanza tecnologica tenendo conto di uno sviluppo economico sostenibile e di

maggiore coesione sociale, a livello europeo la tendenza è quella di formare una cultura digitale

condivisa.

DIGITAL DIVIDE ED E-GOVERNMENT

Una problematica di forte rilievo sollevata dall'uso massiccio della tecnologia digitale in quasi ogni

settore delle società maggiormente sviluppate è quello del processo di digitalizzazione

dell'aministrazione pubblica, comunemente chiamato e-government. Questo processo - unitamente ad

azioni di cambiamento organizzativo - consente di trattare la documentazione e di gestire i

procedimenti con sistemi digitali, grazie all’uso delle tecnologie dell'informazione e della

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comunicazione, allo scopo di ottimizzare il lavoro degli enti e di offrire agli utenti (cittadini ed

imprese) sia servizi più rapidi, che nuovi servizi, attraverso - ad esempio - i siti web delle

amministrazioni interessate.

I prerequisiti indispensabili di questo processo sono l'ascolto del cittadino e l'assunzione del suo punto

di vista, al fine di fornire un servizio "Citizen-oriented". Queste pratiche sono definite e-

Administration, amministrazione elettronica. Il cambiamento successivo è quello politico. Un governo,

sia esso statale, regionale o cittadino, grazie alle nuove tecnologie ha la possibilità di coinvolgere

maggiormente i cittadini nei processi decisionali. E' la democrazia elettronica, l'e-Democracy.

Se si pensa che le amministrazioni locali si collegano in rete, ad esempio, con ministeri, enti di

previdenza, camere di commercio, regioni, province, banche e tesoriere, non risulta difficile

immaginare il grado di difficoltà in cui incorrono le persone vittime del divario digitale, nell'accedere a

tutta una serie di servizi che via via stanno assumendo una forma esclusivamente virtuale.

La sostenibilità dei progetti di e-governance (intesa come piena attuazione della partecipazione delle

società alla vita pubblica), nei paesi occidentali è limitata da un divario digitale interno - che esclude

coloro che ancora non adottano i nuovi media -, a livello globale invece genera squilibri ben più gravi e

pericolosi, dal momento che intere nazioni e stati sono esclusi dai centri decisionali. Ciò non fa altro

che allargare la voragine tra paesi sviluppati e non, non solo a livello economico, ma anche a livello di

partecipazione alle decisioni della comunità internazionale. Ovviamente gli stati, o i continenti, con

minore possibilità di utilizzo degli strumenti attraverso cui passano le decisioni globali, resteranno

emarginati proprio per una carenza di tipo infrastrutturale, o comunque verranno inseriti in tali processi

in una posizione di assoluta subordinazione.

Alcuni esempi di innovazioni da cui resteranno esclusi possono essere ad esempio, all'interno di un

quadro di e-governance, la firma digitale in primis, lo scambio di denaro attraverso moneta virtuale, la

carta d'identità virtuale, la trasparenza delle operazioni delle pubbliche amministrazioni locali, la sanità,

ed altri servizi di tipo globale, fino a giungere ai banali acquisti on-line.

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DIGITAL DIVIDE: DIVERSI CASI DI STUDIOIl digital divide non riguarda solamente il gap esistente tra i paesi in via di sviluppo e le nazioni

industrializzate. La diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sta

ridisegnando le mappe di povertà e ricchezza, come già detto, aumentando il divario già esistente tra

Nord e Sud del mondo e creando nuove zone di esclusione, anche all’interno delle nazioni più

sviluppate.

La questione del divario tecnologico comprende, infatti, due problematiche distinte che si esplicano in

due differenti tipi di divario:

• un digital divide interno, riguardante le differenze tra individui all’interno dello stesso paese.

• un digital divide internazionale, riguardante le differenze riguardo all’accesso alle tecnologie

informatiche tra diversi paesi e generalizzabile nel divario tra paesi del nord e del sud del

mondo.

Il digital divide interno si manifesta in diversi modi ed è influenzato da diverse variabili.

Secondo alcuni autori rappresenta la prima vera frontiera da combattere per i paesi sviluppati. Se non si

prende coscienza di questo fatto non si riuscirà ad avere una prospettiva corretta ed equilibrata del

divario digitale. (Zocchi, 2003)

Il problema, secondo Dutton (2001), è essenzialmente riferito al fatto che esiste una grossa mole di dati

che non è possibile filtrare, perciò ogni individuo si trova su di una autostrada informatica tale per cui

spazio e tempo non rappresentano fattori determinanti per il divario. Per Castells (2001), invece, questa

problematica sembra avere minore rilievo. Le tecnologie si espandono in maniera selettiva, per cui “la

velocità di diffusione tecnologica è selettiva sotto il profilo sia sociale sia funzionale. La sequenza

differenziale nell’accesso al potere della tecnologia dei popoli, paesi ed aree geografiche, costituisce

una causa decisiva dell’ineguaglianza della nostra società.” (ivi).

Castells fa notare come in una società dell’informazione come la nostra non siano solo criteri legati a

reddito e cultura a determinare l’accesso o meno alle tecnologie, ma anche un criterio di

riconoscimento sociale che è proprio di ogni individuo. In poche parole l’appartenenza sociale come

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categoria si gioca sempre più su un terreno di inclusione nella società della conoscenza e

dell’informazione. Tuttavia l’integrazione all’interno di questo tipo di società dipende da una serie di

fattori, tutti egualmente importanti e portatori di caratteristiche proprie che non possono essere slegate

tra loro.

Per comprendere la reale portata del divario è necessario definire in che modo crescano le

disuguaglianze. I fattori che contribuiscono a creare distinzioni all’interno della società

dell’informazione possono essere sintetizzati in :

• reddito, poiché i gruppi sociali più ricchi hanno possibilità di accesso alle ICT e di ricambio

tecnologico maggiori;

• educazione, poiché gli individui con titoli di studio superiori hanno maggiore possibilità di

produrre informazioni corrette;

• regione geografica, poiché le zone urbane hanno un tasso di penetrazione delle ICT e di

sviluppo dei servizi molto più alto che le zone rurali;

• genere, in quanto le donne sono svantaggiate nell’uso e sono sottorappresentate ai vertici della

net economy;

• età, poiché i giovani risultano più competitivi e più predisposti al cambiamento degli anziani.

Alcuni di questi fattori per Zocchi (2003) sono più determinanti di altri. Gli elementi relativi al digital

divide interno, pur costituendo un sottoinsieme del divario digitale globale, insistono maggiormente su

problematiche di integrazione anagrafica e culturale anziché sull’isolamento geografico, sul reddito e

sullo stato di arretratezza strutturale delle comunità.

Per quanto riguarda il reddito non è sempre detto che maggior ricchezza significhi maggior accesso alle

tecnologie, anche se si può trovare una corrispondenza tra basso reddito disponibile, minore dotazione

infrastrutturale e scarsa dotazione di servizi telematici. Comunque, il dato più evidente sottolinea che

chi ha un reddito inferiore alla media nazionale, ossia il 35% della popolazione, ha molte meno

possibilità di essere on line rispetto al resto del paese.

Riguardo al grado di alfabetizzazione informatica e quindi all’educazione in ambito europeo, per

esempio, le nuove tecnologie non sono distribuite in maniera uniforme: ad un Nord molto sviluppato si

oppone l’arretratezza dei paesi dell’Europa orientale.

L’Europa orientale però ha indubbiamente fatto enormi progressi, sia nel campo della digitalizzazione

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che dell’alfabetizzazione informatica. Nei paesi baltici alcuni progetti sono stati utili per favorire nel

giro di alcuni anni la diffusione di una “cultura del computer” (Zocchi, 2003) verso una parte specifica

della popolazione, quella studentesca, realizzando un livello di alfabetizzazione informatica

comparabile a quello delle democrazie scandinave.

DIVERSE FORME DI DIVARIO IN OCCIDENTE

In riferimento a ciò che sostiene Zocchi si è scelto di analizzare alcune dicotomie che sembrano

particolarmente significative per comprendere in che modo si sviluppa il digital divide interno e che

fanno riferimento ai fattori sopra citati:

• una prima uomo vs donna

• una seconda zone rurali vs zone urbane

• una terza giovane vs anziano

Per ogni dicotomia saranno presi in esame esempi che fanno riferimento sia a situazioni generali che

particolari, sempre nell’ottica di inquadrare il divario digitale interno in riferimento ai paesi sviluppati

(quadro europeo e italiano in particolare).

Uomo vs donna

Sono pochi gli studi che descrivono il ruolo delle donne nell'accesso, nello sviluppo e nella gestione

delle tecnologie ICT.

Oggi si parla di “gender divide”, il divario di genere che esprime un disequilibrio tra uomini e donne

nell'accesso alle nuove tecnologie. I dati a disposizione sono scarsi, sarebbe più facile sapere quale sia

il grado di diffusione della banda larga o dei cellulari nei Paesi in via di sviluppo che valutare il gender

divide informatico nelle nazioni occidentali.

Le principali organizzazioni mondiali hanno attivato solo da qualche tempo programmi per la

valutazione globale del gender divide, preferendo sinora lasciare rilevanza a programmi di sviluppo e

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studi legati a particolari regioni svantaggiate (Sudamerica, Est Asiatico, Centro Africa...) e a casi-studio

significativi.

Il divario tra uomini e donne nel recepimento delle tecnologie ICT è molto più diffuso di quanto non si

pensi.

I dati della Commissione Europa relativi all’ Unione a 15 membri indicano che gli scienziati e gli

ingegneri donne rappresentavano nel 2001 l'1,5% della forza lavoro continentale e lo 0,8% di quella

italiana. Per gli uomini le percentuali salgono rispettivamente al 3,4% e allo 1,9%.

Come conseguenza, le donne europee hanno in generale ancora un ruolo secondario quando si tratta di

definire l'agenda della ricerca tecnologica. Ma qui, almeno, registriamo come l’Italia sia in una

situazione positiva: il 40% dei membri dei board' scientifici delle università italiane nel 2001 erano

donne, una percentuale buona se paragonata, per fare qualche esempio, al 23% della Francia, al 29%

del Regno Unito e all'11% della Germania.

A influire pesantemente sul quanto le tecnologie ICT vengano adottate dalle donne sono anche la

struttura sociale della singola nazione, l'accesso all'istruzione di terzo livello (secondo Eurostat l'Italia

ha delle statistiche incoraggianti con un 56,2% di donne tra chi partecipa a formazione di terzo livello

rispetto a una media UE del 54,6%), il benessere economico, l'età e la distribuzione geografica delle

tecnologie. Si è rilevato che averle sul posto di lavoro ha effetti positivi sul generico digital divide ma è

la diffusione nelle case che aiuta a limitare il gender divide.

L'evoluzione sembra la stessa un po' per tutti i Paesi: quando una nuova tecnologia viene introdotta il

gap di adozione tra i due sessi è elevato,man mano si riduce a pochi punti percentuali, anche se non si

colma mai, anzi aumenta quando la tecnologia ha un ulteriore ciclo evolutivo.

Da diverse valutazioni, fatte nazione per nazione, si evince come il gender divide non sia strettamente

legato al digital divide globale e che si risolva quando quest'ultimo viene colmato. Al contrario, diversi

Paesi già evoluti tecnologicamente mostrano differenze marcate tra l'uso delle tecnologie ICT tra

uomini e donne, mentre nazioni meno avanzate magari non hanno affatto un gender divide.

Alcuni spunti interessanti per una riflessione sulle differenze uomo-donna nel panorama italiano

emergono dal Settimo rapporto sulla comunicazione Censis - Ucsi (2008), dedicato in particolare alle

diete mediatiche dei giovani italiani ed europei, ma che presenta anche dati relativi alla popolazione in

generale.

Il Rapporto raggruppa i dati in 4 categorie, separate a metà dall'elemento del digital divide:

• persone con diete solo audiovisive (tv, radio, cellulare)

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• persone con diete basate anche su mezzi a stampa

digital divide

• persone con diete aperte a internet

• persone con diete aperte a internet ma prive di mezzi a stampa (una categoria su cui il Rapporto

dell'anno scorso gettava parecchie domande rimaste aperte)

In base a questi dati è risultato che la maggioranza delle donne italiane resta ancora legata ad un

modello basato sulla lettura tradizionale (libri e settimanali).

“Il contatto con i media, almeno a livello giovanile, sta diventando dunque sempre più simile tra

uomini e donne, ma il piacere che ne ricavano rimane abbastanza differenziato. La centralità

dell'esperienza della narrazione (siano le storie pubbliche della televisione, quelle universali

della letteratura o quelle personali della conversazione telefonica) non è messa in discussione

tra le donne, anche tra le più giovani, mentre la composizione a mosaico dell'esperienza del

mondo (la giustapposizione delle informazioni nei quotidiani che si trasferisce in internet, ma

che si trova anche nella saggistica) risulta sempre preferita tra gli uomini.”

Tuttavia la generale tendenza a livello europeo, per quanto riguarda le nuove generazioni, denota come

"i consumi maschili e femminili tendono ad uniformarsi"

Zone rurali vs zone urbane

Molti organismi come Amnesty International, hanno messo in luce la tendenza di un "virus della

repressione su internet" (Tim Hancock), per cui in diversi stati si stiano adottando misure volte a

limitare il libero accesso alla rete. Nel caso dell’Italia, soprattutto attraverso la rete, sono nate

polemiche contro le istituzioni italiane che, secondo alcuni, mettono in atto delle vere e proprie

campagne contro Internet per limitare il libero accesso alle informazioni. Per quanto riguarda il livello

delle nostre infrastrutture tecnologiche, invece, alcune delle problematiche più sentite dipendono dalla

gestione delle reti telematiche e dal fatto che si siano utilizzate tecnologie vecchie per adattarle a nuovi

servizi.

Tenendo conto di tutti questi aspetti sembra che il divario che si crea tra zone urbane e zone rurali

dipenda, non solo dalla più ovvia diffusione dei computer all'intyerno di un paese, ma anche dalle

condizioni delle infrastrutture, dall'esistenza di accessi alternativi, che si collega ad una maggiore o

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minore sensibilità da parte dei governi a regolamentare in materia.

A partire dal 2005 in Italia è stato possibile cominciare a realizzare delle reti di connessione ad Internet

in modalità wireless. Ma mentre si autorizzava questo tipo di servizio, nel 2006 una legge (Pisanu)

impediva ai cittadini la libera connessione ai servizi wireless.

Dal sito dell’Aduc la disamina dello stato dell’arte (la penetrazione di banda larga in Italia è al 18%),

rileva anche le differenti reti in fibra che oggi esistono (Telecom, Fastweb, Infratel, e alcune società

regionali) e ciò che emerge è che, a differenza di altri paesii, l'utilizzo della fibra ottica è scarso.

Negli ultimi anni sono stati conclusi degli accordi con alcune regioni nei quali le regioni hanno

concesso soldi pubblici a Telecom Italia per allargare la copertura adsl. Secondo le ultime statistiche,

infatti, la copertura adsl è aumentata. Nonostante questo, nel nostro paese, il 25% circa dei comuni,

quasi tutti piccoli ,anche se non tutti, è ancora limitato ad una connettività parziale a 56k.

A livello generale emerge che la disponibilità di infrastrutture di base e i costi necessari per accedervi

sono indicatori essenziali per garantire la possibilità ad un paese di usufruire dei vantaggi della

rivoluzione digitale. Quello che si nota e che c’è un deficit di informazione, derivante anche dalle

differenze tra zone rurali e zone urbane, e che il libero pensiero ormai si trova spesso “ghettizzato” in

siti e blog. Anche questo può essere un fattore importante che contribuisce ad aumentare il divario

all’interno di un paese.

Giovane vs anziano

Sempre sulla scia del Settimo rapporto sulla comunicazione Censis-Ucsi, un'analisi annuale del

consumo di media intesi come sistema unico e interconnesso, si analizzano i giovani e il loro rapporto

con i media (classe d'età 14-29 anni). Il confronto è in questo caso fra il 2003 e il 2007.

Se dati come l'uso del cellulare non si sono quasi modificati, dal punto di vista quantitativo spicca

l'aumento nell'uso della rete. Una delle interpretazioni possibili di questi dati è che sia proprio internet a

trascinare tutti gli altri media.

Muta il funzionamento complessivo del sistema:

“I giovani si trovano a loro agio in questo contesto e hanno elaborato strategie di adattamento

all'ambiente mediatico all'interno del quale sono nati. La molteplicità dei media li spinge a

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passare da uno all'altro, favorendo in loro la nascita di un vero e proprio nomadismo mediatico,

che si accompagna a una forma di disincanto, prodotta dall'integrazione e cioè dall'assenza di

una prospettiva gerarchica tra i media.”

La parte qualitativa dell'analisi arriva ad un'altra interessante conclusione:

“... considerati dal punto di vista della gratificazione personale che si ricava dal contatto con i

media, questi dati ci suggeriscono che si sta passando da una situazione in cui si collocavano in

alto nella scala dei valori i media orientati verso la passività audiovisiva (tv e radio) ad una

realtà in cui si preferiscono i media di tipo alfabetico interattivo (internet e libri).”

Si segnala anche una tendenza comune rispetto agli altri paesi analizzati (Italia, Spagna, Francia,

Germania e Gran Bretagna):

“I giovani europei stanno convergendo verso un modello uniforme di impiego dei media. In tutte

le principali nazioni europee i giovani entrano in contatto con un elevato numero di media,

internet ha conosciuto un elevatissimo indice di penetrazione, i consumi maschili e femminili

tendono ad uniformarsi, ovunque ai primi posti nell'uso abituale dei media si trovano televisione,

cellulare e internet, seguiti da radio, libri e quotidiani, sempre a livelli più alti di quanto

registrato per le fasce d'età più elevate e tra i giovanissimi queste tendenze risultano ancora più

accentuate.”

Per quanto riguarda la situazione italiana, lo studio del Censis fa riferimento al problema del "divario

generazionale":

“... in Italia sembra che i giovani vivano in un altro pianeta rispetto agli adulti, per non parlare

della distanza che li separa dagli anziani. L'Italia è il paese in cui, a tutti i livelli, risulta più

difficile il ricambio generazionale, ne risulta un quadro in cui ad avere un ruolo dirigente in tutte

le realtà operative ... è una generazione estranea ai processi di rapida trasformazione in atto su

scala planetaria, che non ne comprende il senso e la portata, che non è in grado di confrontarsi

con le classi dirigenti degli altri paesi e che al massimo ha imparato a usare un vocabolario

attraverso il quale impiega parole nuove per parlare di cose che non esistono più.”

I risultati del rapporto sembrano confermare quello che già parecchi anni fa gli studi sociologici sui

giovani e le loro modalità di rapportarsi alle nuove tecnologie, e anche alcuni degli assunti di

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sociologici come Karl Mannheim (Il problema delle generazioni 1927) avevano portato alla luce. Per

Mannheim, per esempio, era importante il ruolo svolto dalla "stratificazione delle esperienze" e ancor

di più dalle "prime impressioni", che vanno a fissarsi come concezione naturale del mondo e fungono

da base e da metro di giudizio per quelle esperienze che verranno in seguito. In questo modo, un

evento qualsiasi sarà interpretato in modo radicalmente differente dai giovani e dagli anziani che

vivono nello stesso tempo. La sociologia ci dice che il rapporto che c’è tra i giovani e le ICT, percepite

come qualcosa di naturale dai giovani che sono cresciuti nel periodo della sua prima affermazione è

estremamente differente da quello degli anziani.

Quando le differenze di utilizzo di alcuni media si trasformano in disuguaglianze, diventa cruciale lo

studio dei motivi per cui alcuni soggetti abbiano accesso ad una tecnologia oppure la utilizzino in

maniera più o meno efficace.

Da uno studio fatto all’Università Bicocca di Milano (2006/2007) emerge come il divario

generazionale sia così forte ed ampio nella realtà italiana. In riferimento ad alcuni media digitali si

nota che mentre l’adozione del cellulare è largamente diffusa (anche se la preferenza d’uso è orientata

sulle funzioni base), il divario all’accesso nei confronti dei due artefatti più complessi (computer e

Internet) rimane evidente.

E’ stato verificato che l’anziano che abbia utilizzato prima del pensionamento un medium come il

computer, non ne fa necessariamente un uso anche da pensionato. L’adozione nella propria vita di un

nuovo medium sembra essere legata, per coloro che hanno superato le barriere mentali del divario

digitale, ai benefici percepiti a miglioramento della qualità di vita.

Per tutti coloro che non sono a conoscenza delle potenzialità derivanti dall’uso di questi strumenti, non

ne percepiscono l’utilità. Michael Levy, nel 1997 , scriveva che

“ogni nuovo sistema di comunicazione fabbrica i propri esclusi” e che “le politiche

volontaristiche di lotta contro le disuguaglianze e l’esclusione devono puntare a un guadagno in

termini di autonomia delle persone o dei gruppi coinvolti”.

Page 17: Sostenibilità e dinamiche sociali

Information technology e terzo mondo

Se il digital divide in Occidente, e nei paesi industrializzati in generale, pone il problema

dell'esclusione di parte della società civile dalla vita pubblica e dal sapere condiviso (si pone cioè

sempre più l'accesso all'ICT come un diritto di cittadinanza), nei paesi emergenti e in via di sviluppo

esso è chiaramente il risultato di una generale arretratezza economica ed il suo superamento è spesso

considerato come una possibilità di recupero del terzo mondo nei confronti del primo. Come vedremo

nel corso di questo capitolo, molteplici sono gli argomenti di discussione a proposito dei media digitali

nei paesi in via di sviluppo, dalla copertura e l'utilizzo della rete telefonica cellulare, alla diffusione di

PC connessi ad Internet, al problema dell'alfabetizzazione informatica.

Uno squillo per ogni situazione

Il medium digitale il cui uso è maggiormente diffuso ad oggi in Africa, un continente largamente

escluso dalla rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni, è il cellulare. Se risulta più che evidente

l'importanza di questo mezzo di comunicazione, che ha rivoluzionato senza dubbio i rapporti sociali e

lavorativi a livello globale, ancora oggetto di studio sono le sue dinamiche di propagazione e di

impiego nel contesto del continente africano.

Secondo uno studio realizzato dalla Vodafone, si calcola che circa il 97% della popolazione della

Tanzania (uno dei paesi africani più poveri, la cui economia è quasi totalmente incentrata

sull'agricoltura) abbia accesso alla telefonia mobile, questo nonostante si calcoli che la penetrazione

delle utenze cellulari sia di circa il 2,5%. Questi dati ci indicano chiaramente come nonostante la

stragrande maggioranza della popolazione non possieda le risorse economiche per acquistare un

cellulare, il suo utilizzo sia estremamente diffuso grazie alla condivisione familiare, ma non solo, dello

stesso dispositivo (in tale studio sono considerati utenti di telefonia mobile coloro che utilizzano un

cellulare almeno una volta ogni tre mesi). Uno studio sulle utenze del Botswana, ad esempio, afferma

che il 62% dei possessori di un cellulare lo condivide con la propria famiglia, il 44% lo condivide con i

propri amici, che il 20% lo condivide anche con i propri vicini: tra questi solo il 2% dei possessori di

cellulare chiede un compenso in cambio.

Page 18: Sostenibilità e dinamiche sociali

Rilevanti inoltre sono alcuni progetti di noleggio condiviso di cellulari portati avanti dalla Grameen

Bank, esperienza partita dal Bangladesh ed approdata in Africa.

Se nella prospettiva di un paese occidentale chi non possiede un cellulare non ha possibilità di

comunicare efficacemente, altrettanto non si può dire delle aree rurali dei paesi più poveri, dove

informazioni sui mercati agricoli e i trasporti sono essenziali e anche pochi cellulari per centro abitato

possono fare la differenza.

Altri dati interessanti sono emersi da alcuni studi sull'utilizzo efficiente (cioè economizzando) dei

telefoni cellulari. In primo luogo è degna di nota la netta prevalenza di utenze prepagate che non

necessitano di rischiosi, economicamente parlando, costi mensili: gli utenti africani infatti (e

presumibilmente dei paesi poveri nell'insieme) sono propensi ad acquistare una sim prepagata spesso

senza neanche possedere un cellulare.

Ancora più importante è l'utilizzo creativo che in molte circostanze viene fatto con i cellulari. Non

disponendo di risorse economiche sufficienti, si effettuano chiamate vere e proprie solo quando è

assolutamente necessario, utilizzando in tutti gli altri casi un codice comunicativo basato sugli squilli di

cellulare. Quest'ultimo comportamento, come recenti studi dimostrano, è globalmente diffuso. Ma se

comunicare attraverso uno squillo di cellulare, per un utente occidentale, è solo un divertimento o una

soluzione rapida e semplice alla mancanza di credito, nei paesi in via di sviluppo e sottosviluppati può

costituire, in alcuni casi, una grande risorsa.

Questo fenomeno di “beeping creativo” è diffuso praticamente in tutto il mondo in via di sviluppo,

dagli stati africani, a India e Bangladesh, fino alle Filippine e all'America latina. È interessante notare

come ogni paese abbia adattato alle proprie tradizioni e culture questa pratica; le norme sociali già

presenti in una comunità influenzano le regole di utilizzo degli squilli: così le regole non scritte “il più

ricco paga ” e “le donne non apprezzano squilli dai propri pretendenti” riflettono norme di gerarchia

economica e di genere fortemente radicate nel tempo in un determinato paese. In uno studio del 2007

(J.James e M. Versteeg), si ipotizza che le considerazioni sul digital divide africano in relazione

all'utilizzo di telefoni cellulari sia notevolmente sovrastimato e che i dati sull'utilizzo (riportati in

questo lavoro) siano maggiormente indicativi rispetto a quelli sulle utenze. A supporto di questa

considerazione si sottolinea come non tutti coloro che hanno fisicamente accesso alla telefonia mobile

ne facciano uso, costretti dalle proprie condizioni di vita a confrontarsi con problemi cui le tecnologie

di comunicazione non possono rispondere.

Page 19: Sostenibilità e dinamiche sociali

Internet e nuovi media, il riscatto del terzo mondo?

La maggior parte degli studiosi riassume, identifica, il problema del digital divide come il divario tra

chi ha e chi non ha accesso alla tecnologia dei computer e di Internet (Van Dijk, 2006).

Nel momento in cui anche i paesi in via di sviluppo iniziano a confrontarsi con Internet e i nuovi media

in generale, è importante andare ad osservare come questi ultimi influiscano nel riscatto dei paesi più

poveri della terra, e di come le diseguaglianze già presenti tra terzo e primo mondo, e tra gli stessi

abitanti dei paesi poveri, si perpetuino o modifichino.

Van Dijk e Hacker (2003) suddividono quattro diversi tipi di digital divide che possono essere isolati:

• la mancanza di “accesso mentale”: cioè la mancanza di una elementare esperienza digitale;

• la mancanza di “accesso materiale”: cioè la mancanza concreta di PC e connessioni internet;

• la mancanza di “accesso alle abilità”: la mancanza di abilità tecniche digitali;

• la mancanza di “accesso di uso”: la mancanza di opportunità di utilizzo sensato;

Nonostante questa suddivisione renda l'idea di una molteplicità di requisiti indispensabili per poter

trarre frutto pienamente dalle nuove tecnologie, esse non descrivono esaurientemente il problema.

P. Norris e J. James affermano che il problema non è altro che un aspetto della grande diseguaglianza

economica tra paesi ricchi e paesi poveri, ma che i paesi in via di sviluppo non soffrono solo

l'esclusione economica, ma anche la privazione di peso politico e delle pratiche culturali indispensabili

per far parte della società dell'informazione. A dimostrazione di quest'ultima affermazione gli autori

hanno dimostrato come l'indice HDI (human development index) sia fortemente correlato alla

penetrazione di connessioni internet negli stati africani: gli stati con un reddito pro-capite più basso,

un'istruzione media scarsa, e un aspettativa di vita media più bassa, hanno gli indici di penetrazione più

bassi.

Hardt e Negri (2000) si sono spinti oltre, sfruttando la metafora dell'impero nel descrivere un assetto

decisionale globale le cui regole economiche e politiche sono appannaggio esclusivo dei paesi

industrializzati (Usa, Europa e Giappone) a scapito del mondo in via di sviluppo. L'elaborazione di una

strategia per il superamento del digital divide, secondo questi autori , non può prescindere dal

superamento di questo assetto globale. Un esempio di politica dettata dal mondo occidentale e almeno

Page 20: Sostenibilità e dinamiche sociali

in parte fallimentare sono gli Structural Adjustment Loans (piani di aggiustamento strutturale), un

sistema di prestiti gestito dalla Banca Mondiale per lo sviluppo dei paesi poveri, vincolato, tra le altre

cose, alla liberalizzazione e privatizzazione delle telecomunicazioni degli stati beneficiari. Gli autori

definiscono questa imposizione della Banca Mondiale come parte di un più ampio “cultural

colonialism”, una critica più che legittima considerando la struttura organizzativa dell'organismo

internazionale citato, il cui controllo è nelle mani dei paesi occidentali1.

Importante da questo punto di vista è l'esperienza del Sud Africa, paese che a partire dal 1995 ha

liberalizzato e privatizzato il proprio sistema di telecomunicazioni per permettere investimenti privati

nel settore, ponendo l'obbligo agli investitori di espandere la copertura territoriale di telefonia e

connessione ad internet. I dati rilevati mostrano chiaramente come non vi sia una significativa

correlazione tra l'entità degli investimenti effettuati di anno in anno e l'incremento degli utenti di PC ed

Internet. Più precisamente, da tali dati si è registrato un aumento lento e progressivo degli utenti

rispetto ad un andamento degli investimenti inizialmente in forte crescita e poi in drastico calo: se le

possibilità di accesso alle nuove tecnologie e la copertura di telefonia ed internet sono

significativamente migliorate con i nuovi capitali, molte delle cause del divario digitale (tra cui in

primo luogo i costi di accesso ai servizi) sono rimaste pressoché invariate.

Cade quindi l'ipotesi che il superamento di questo divario possa essere raggiunto principalmente grazie

alla concorrenza di più operatori: questa soluzione non tiene assolutamente conto delle diseguaglianze

di reddito, istruzione e abilità informatica, che caratterizzano fortemente le popolazioni di questi paesi.

Uno studio più specifico sul tema del digital divide (Stale Angen Rye, 2008), esamina i fattori

ambientali che influiscono sull'utilizzo dei nuovi media. Il caso presentato analizza due gruppi di

studenti indonesiani che seguono corsi universitari a distanza: il primo proveniente da un'area

metropolitana, il secondo da un'area rurale. Nel rilevare ed analizzare le due diverse esperienze, lo

studio presta attenzione a quattro tipi di accesso indispensabili: la motivazione, la proprietà materiale di

PC, le abilità necessarie ad utilizzare PC connessi ad internet e la possibilità di fare di questa tecnologia

un uso proficuo. L'autore dimostra che gli studi quantitativi relativi alla connettività dei paesi del terzo

mondo non sono sufficienti a spiegare le diseguaglianze tra regione e regione di uno stesso paese: in

effetti, anche tra studenti fortemente motivati a seguire corsi a distanza che si appoggiano alla rete, vi

sono fattori puramente qualitativi che compromettono la possibilità di un uso proficuo di certi

1 The World Bank is run like a cooperative, with member countries as shareholders. The number of shares a country has is based roughly on the size of its economy. The United States is the largest single shareholder, with 16.41 percent of the votes, followed by Japan (7.87 percent), Germany (4.49 percent), the United Kingdom (4.31 percent) and France (4.31 percent). The rest of the shares are divided among the other member countries.

Page 21: Sostenibilità e dinamiche sociali

strumenti.

Nell'area rurale oggetto di studio, gli studenti sono penalizzati da connessioni internet di bassa qualità

e, pur avendo la possibilità di studiare anche nei propri posti di lavoro (la maggior parte dei soggetti

lavora ed ha un'età tra i 30 e i 50 anni), essi non sono in grado di sfruttare i vantaggi che una

comunicazione in rete tra studenti e con i docenti darebbe loro. Viceversa, gli studenti dell'area urbana,

pur gravati da ritmi di vita più opprimenti e non potendo studiare nelle ore di lavoro, beneficiano di un

maggiore scambio di informazioni dovuto al maggior numero di PC connessi alla rete e connessioni

migliori.

Si ritiene generalmente che i problemi di accesso passino inizialmente da problemi motivazionali e di

accesso fisico, a problemi di capacità informatiche e opportunità di utilizzo delle stesse. Lo studio

empirico effettuato sugli studenti a distanza indonesiani, mostra come la realtà sia più complessa: le

analisi mostrano come gli studenti delle aree periferiche fossero fortemente motivati ad utilizzare

internet, ma che questa motivazione fosse frenata dalla difficoltà di accedere alla tecnologia; che gli

studenti metropolitani avessero buone capacità informatiche ma che pressioni maggiori in ambito

lavorativo e familiare, frenassero il pieno sfruttamento della tecnologia. Questo va a dimostrazione che

le aree rurali di un paese in via di sviluppo non andrebbero considerate semplicemente come zone “un

passo addietro” rispetto alle aree metropolitane. Lo studio dell'accesso informatico nelle due aree,

piuttosto, andrebbe affrontato considerando le due diverse situazioni come contesti dove le “condizioni

di accesso” sono in relazione tra loro in modi diversi.

Nello studio proposto da Fucks e Horak (2008) sono riassunte alcune delle strategie proposte negli anni

per il superamento del divario digitale. Gli autori le riportano una ad una criticandone l'approccio e

proponendo una propria strategia più ampia:

1. aspettare ed osservare: lo sviluppo tecnologico e il mercato garantiranno un accesso alle

tecnologie più economico;

I fatti hanno mostrato come attendere non abbia prodotto risultati: il divario di ricchezza ed accesso alla

tecnologia tra primo mondo e terzo mondo, nei fatti, si va ampliando.

2. entrando nel mercato e competendo, i paesi del terzo mondo saranno capaci di entrare nella

società dell'informazione scavalcando alcune tappe;

lo “scavalcare tappe” avviene in una certa misura nelle economie africane che hanno liberalizzato la

Page 22: Sostenibilità e dinamiche sociali

propria economia, questa innovazione però è chiaramente riservata alla classe agiata dei paesi in via di

sviluppo piuttosto che alla popolazione nel suo complesso.

3. attrarre capitali stranieri aumenterà il benessere e l'accesso alle nuove tecnologie;

l'ingresso di capitali stranieri, aiuti e prestiti dalla banca mondiale, di fatto, non ha portato ad una

redistribuzione di ricchezza dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo: le transazioni in entrata

rispetto a quelle in uscita (sotto forma di debito estero) rimangono a sfavore dei paesi del terzo mondo

(Fuchs 2002, pag. 370).

4. tecnologie per il terzo mondo (PC usati e OLPC);

progetti come One Laptop Per Child(http://laptop.org/en/) riescono effettivamente ad introdurre un

maggior numero di PC nei paesi in via di sviluppo, così come la grande quantità di hardware

informatico obsoleto o difettoso “donato” dai paesi industrializzati.

Il problema di questo approccio al digital divide è che oltre a produrre un nuovo flusso di ricchezza dai

paesi sottosviluppati a quelli industrializzati (l'OLPC non viene prodotto in Africa per intendersi), dà in

dotazione a queste società PC dall'hardware inferiore al livello di quello utilizzato nei paesi

industrializzati, perpetrando una forma (pur meno grave) di diseguaglianza, e lascia nei paesi del sud

del mondo grandi quantità di materiale tecnologico obsoleto (generando quell'e-waste di cui ci

occuperemo più avanti).

Ciò di cui hanno bisogno i paesi in via di sviluppo sono PC competitivi, la cui diffusione non gravi

sulla bilancia commerciale (non sia un “affare” per le industrie occidentali a scapito dei mercati del sud

del mondo) e che adottino la filosofia dell'open source. Il software open source dà all'utente quattro

libertà molto importanti:

• la possibilità di utilizzare il software senza limitazioni;

• la possibilità di studiare come funziona il software, di disporre cioè del codice sorgente;

• la possibilità di redistribuire lo stesso software ad altri;

• la possibilità di migliorare il software e diffonderlo nuovamente agli altri utenti.

Page 23: Sostenibilità e dinamiche sociali

5. il terzo mondo non ha bisogno di tecnologia;

alcuni studiosi hanno affermato che i paesi in via di sviluppo non hanno bisogno di tecnologia, ma che i

loro problemi veri sono povertà, mancanza di copertura sanitaria adeguata ed istruzione, ad esempio. Si

può rispondere a queste affermazioni ricordando che l'informazione e la comunicazione sono diritti

primari al pari della sicurezza sociale, così come sancito dall'Articolo 19 della Dichiarazione

Universale dei Diritti dell'Uomo: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione

incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e

diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.”

Nella società attuale Internet e i nuovi media sono sicuramente veicolo dell'opinione pubblica, ecco

perché l'esclusione da essi provoca diseguaglianza.

6. una strategia integrata che combini: redistribuzione globale della ricchezza, programmi per il

sostegno alla salute e all'educazione, programmi per l'alfabetizzazione digitale, accesso

gratuito e pubblico alle nuove tecnologie, tecnologia open source e computer per il terzo

mondo (prospettiva degli autori dello studio);

“Tutte e cinque le strategie discusse in precedenza sono riduttive e unidimensionali, non

considerano le interconnessioni tra le condizioni minime di accesso, i fattori sociali, le

ineguaglianze dello sviluppo, i diritti umani e il capitalismo globale. Per combattere il digital

divide una ridistribuzione delle risorse è fondamentale come precondizione. Se si tratta di una

possibilità concreta la cosa migliore da fare è realizzarla. Ma questo richiede un ripensamento

generale della società globale, perché il digital divide non è solamente un problema tecnologico,

ma anche un problema economico, sociale e politico. Il digital divide non è solamente un divario

nell'accesso e beneficio della tecnologia, ma anche un'espressione di un più generale divario di

ricchezza e potere (cit. Fuchs e Horak, 2008) .

Page 24: Sostenibilità e dinamiche sociali

AUTORI SUL DIGITAL DIVIDE

Numerosi autori si sono interessati alle mutazioni che intervengono all'interno di una società con

l'introduzione di sempre nuove ICT. In particolar modo il sociologo spagnolo Manuel Castells in un suo

testo del 2001, Galassia Internet, dedica un intero capitolo al digital divide, affrontandolo da una

prospettiva globale.

Il digital divide cui fa riferimento riguarda, oltre che la presenza o meno di tecnologie fisiche,

infrastrutture, soprattutto la possibilità di accesso ad internet, che varia in maniera considerevole in

base all'età, alla residenza, al reddito, all'etnia di appartenenza, alla professione ed accesso al lavoro.

Castells definisce il digital divide come “diseguaglianza nell'accesso ad internet [...] L'accesso da solo

non risolve il problema, ma è un prerequisito per superare la disuguaglianza in una società le cui

funzioni e gruppi sociali dominanti sono sempre più organizzati intorno ad Internet”.

Nella sua analisi Castells si è affidato ai dati americani, poichè, nel momento della sua indagine, negli

Stati Uniti si trovava una valida fonte statistica che ha analizzato l'accesso differenziato a Internet a

partire dal 1995: l'indagine su un campione rappresentativo della popolazione statunitense condotta dal

National Telecommunications and Information Administrator (NTIA) del Dipartimento del commercio

americano.

In termini di reddito, prendendo come estremi un guadagno dai 75.000 dollari annui in su e dai 15.000

in giù, dei primi il 70,1 per cento godeva di un accesso ad internet, dei secondi soltanto il 18,9 per

cento.

Anche per quanto riguarda l'istruzione il gap è molto evidente: tra le persone con un diploma

universitario superiore, il 74,5 per cento aveva accesso ad internet, tra quelle senza diploma soltanto il

21,7 per cento.

Un'altra divisione fortemente interessata dal divario digitale era, nella ricerca di Castells, l'età: solo il

29 per cento delle persone sopra i 50 anni aveva accesso ad internet, in contrasto con il 55,4 per cento

del gruppo di età 25-49, il 56,8 per cento del gruppo 18-24 e il 53,4 del gruppo 9-17.

Se si pensa poi che l'appartenenza alla forza lavoro fornisca un 56,7 per cento di utenti connessi contro

il 29 per cento di coloro che non avevano un impiego, risulta anche più semplice capire come l'età

dell'informazione non sia cieca neanche al colore. Difatti il 50,3 per cento di bianchi e il 49,4 per cento

degli asiatico-americani aveva accesso a internet, ma solo il 29,3 per cento degli afro-americani e il

23,7 per cento degli ispanici. Tale fenomeno è spiegabile appunto prendendo in considerazione il fatto

Page 25: Sostenibilità e dinamiche sociali

che gli afro-americani hanno un grado inferiore di accesso al lavoro.

Analogamente accade col divario generazionale, che si ipotizzava derivare dall'incapacità delle fasce

più anziane della popolazione di apprendere il funzionamento delle nuove ICT ed adattarvisi. Se questi

facessero parte della forza lavoro, afferma Castells, avrebbero una probabilità circa tre volte superiore

di essere utenti di internet.

Per quanto riguarda il divario di genere, nell'agosto 2000 era quasi scomparso in America in termini di

accesso: tra gli individui, il 44,6 per cento degli uomini e il 44,2 per cento delle donne erano utenti di

internet.

Risulta evidente, dunque, che ciò che conta sempre di più nel determinare l'accesso ad internet, oltre

alle caratteristiche sociografiche, è il rapporto dei singoli col lavoro, dato che internet diventa uno

strumento professionale indispensabile.

Inoltre, essendo internet una tecnologia formata dagli stessi utenti in misura molto maggiore di

qualunque altra, sostiene Castells, questa finisce per rispecchiare la condizione di disuguaglianza

sociale in cui essa stessa ha avuto luogo.

L'autore pone poi all'attenzione una nuova problematica, ovvero, qualora una fonte di disuguaglianza

sembra attenuarsi, ne emerge subito un'altra: si tratta ora dell'accesso differenziato al servizio ad alta

velocità a banda larga. Difatti l'evoluzione dei programmi informatici, dei siti web, e di tutti i progetti e

servizi disponibili in rete, si basa sempre di più sull'alta velocità di connessione. Diretta conseguenza di

tale tendenza è il passaggio da comodità a vera e propria necessità della banda larga, per evitare di

cadere nel vortice dell'esclusione.

Un'altra dimensione degna di riflessione sul digital divide sta in quello che Castells definisce Gap

Cognitivo.

Egli afferma nel proprio testo che se esiste un consenso intorno alle conseguenze sociali

dell'incrementato accesso all'informazione è che l'istruzione e l'apprendimento continuo diventino

risorse essenziali per il successo professionale e lo sviluppo personale. Nella sua previsione il

sociologo spagnolo aveva indovinato la rapida inclusione di internet come strumento educativo in tutto

il sistema scolastico, supponendo che nelle società avanzate sarebbe stato presente nelle classi come il

computer.

Ciò comporta però che l'uso di internet e la tecnologia educativa non possano e non debbano

prescindere dalla buona qualità degli insegnanti. Tale concezione però si scontra con un considerevole

ritardo tra l'investimento in hardware tecnologico e connettività online da un lato, e investimento nella

Page 26: Sostenibilità e dinamiche sociali

formazione degli insegnanti e assunzione di personale esperto in tecnologia, dall'altro (Bolt e

Crawford , 2000).

Un tipo di apprendimento basato su internet però non richiede soltanto delle competenze pratiche in

fatto di tecnologia, bensì cambia proprio il genere di istruzione richiesta sia per lavorare su internet, sia

per sviluppare la capacità di apprendimento in un'economia e in una società basate su internet. Il

cambio di prospettiva da adottare, secondo Castells, è dunque da apprendimento all'apprendimento-ad-

apprendere, date appunto l'immensa mole di informazioni presenti online e la necessità/capacità di

decidere cosa cercare, come rintracciare le notizie utili e come usarle per lo scopo prefissatosi in

origine alla ricerca.

La domanda che si pone l'autore è dunque: come si relazione questo squilibrio educativo al divario

digitale? Egli propone quattro livelli:

• Primo livello: la differenza tra scuole pubbliche e private porta con sé automaticamente anche

una differenza di classi ed etnie nonché una sostanziale spaccatura in termini di tecnologie

disponibili.

• Secondo livello: l'educazione all'utilizzo delle tecnologie richiede insegnanti competenti,

tuttavia la qualità di insegnamento è distribuita irregolarmente tra le scuole.

• Terzo livello: c'è una sostanziale differenza nei metodi d'insegnamento che vedono da una parte

l'attenzione allo sviluppo intellettuale e personale dei bambini, dall'altra una preoccupazione

alla capacità di mantenere la disciplina e tenere a bada i bambini facendoli crescere attraverso i

vari livelli di studio. Nel complesso le scuole delle classi alte e medie tendono a essere più

attente all'apertura mentale rispetto a quelle delle aree a basso reddito.

• Quarto livello: in assenza di un'adeguata formazione e disponibilità di risorse materiali

all'interno delle scuole in fatto di educazione all'utilizzo di internet, saranno i genitori a dover

fornire insegnamenti in materia ai propri figli, insegnamenti spesso carenti ed effettuati mentre

sono i genitori stessi in fase di apprendimento.

Tali condizioni delineano un panorama che vede i bambini delle famiglie svantaggiate in posizioni

assai più arretrate rispetto ai loro coetanei con maggiori capacità di trattamento delle informazioni

derivate dalla loro esposizione a un ambiente domestico meglio istruito.

Le capacità di apprendimento differenziate, in condizioni intellettuali ed emozionali simili, sono

Page 27: Sostenibilità e dinamiche sociali

correlate al livello culturale e d'istruzione della famiglia. Se queste tendenze fossero confermate,

afferma Castells, in assenza di misure correttive l'uso di internet, a scuola come nella vita professionale,

potrebbe amplificare le differenze sociali radicate in classe, istruzione, genere ed etnicità.

Un'altro degli autori in materia di tecnologia digitale che hanno preso a cuore la questione del digital

divide, tentando in qualche modo di limitare il problema è stato Nicholas Negroponte, informatico

statunitense celebre per i suoi studi innovativi nel campo delle interfacce tra l'uomo e il computer,

nonché autore del best-seller “Being digital” del 1995. Insieme alla moglie Elaine si è profondamente

interessato al divario digitale e informativo dei paesi del terzo mondo.

Entrambi hanno già avviato con successo ben tre scuole in Cambogia, fornendole di computer e

connessione a banda larga. A seguito di questa esperienza, Negroponte ha cominciato a portare avanti

un progetto ambizioso: portare l'informatizzazione e i dispositivi informativi come i computer là dove a

malapena giunge la corrente elettrica. L'annuncio è stato dato il 28 gennaio 2005 a Davos (Svizzera),

durante il Forum Economico Mondiale di quell'anno. In quella sede Negroponte ha anche affermato di

avere già importanti partner commerciali pronti a fornire tecnologie, cervelli e fondi, per comparire

nella lista dei finanziatori, tra cui AMD, Google, Motorola, Samsung e News Corporation (facente

parte del gruppo di Rupert Murdoch).

Il progetto viene destinato, per il momento, ad alcuni paesi ben precisi come la Thailandia, l'India e la

Cina. E proprio quest'ultima ha dimostrato molto interesse sia per la tecnologia molto semplice e a

basso costo che potrà essere portata facilmente in tutto il vasto Paese, sia per la già espressa voglia di

indipendenza da prodotti costosi e proprietari. L'idea di fondo è quella di un computer, portatile,

tecnologicamente non costoso (intorno ai 100 dollari), elettricamente non troppo oneroso, con una suite

completa di programmi non proprietari, orientato alla connessione ed indirizzato principalmente alle

nuove generazioni. Oltre a ciò bisogna considerare il fatto che i paesi citati non offrono situazioni

meteorologiche ottimali per i computer, fuori dagli uffici climatizzati e ben aerati, quindi il grande test

tecnologico che questi computer dovranno superare sarà la loro funzionalità e adattabilità a polvere,

umidità, scossoni, cadute e bagnato. Un ulteriore problema che i ricercatori dovranno risolvere è la

facilità di riparazione, visto che i luoghi da immaginare per questi pc sono zone rurali contadine in cui

la città più vicina si trova a cento chilometri di distanza e un viaggio sino ad essa è un'avventura.

La distribuzione di questi 'gioiellini', poco potenti e scarsamente attraenti davanti alle tecnologie

informatiche a cui l'occidente è abituato, ma vitali in quelle aree, seguirà un progetto ancor più ampio

che non è solo di informatizzazione, bensì di istruzione. Il fine principale infatti sarà quello di sostituire

i libri di testo con delle poco costose copie in formato digitale.

Page 28: Sostenibilità e dinamiche sociali

Una risposta, in qualche modo critica, a Negroponte, proviene da Derrick De Kerckhove, direttore del

Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia a Toronto, il quale, in un'intervista al Corriere Economia

dell'aprile 2007 afferma: «Credo poco al superamento del digital divide grazie a computer da 100

dollari. Semmai, vedo dispositivi più simili al telefonino e comunque legati a tecnologie Wi-fi e Wi-

Max: purchè siano disponibili gratuitamente. Il problema dunque è politico, non tecnologico. È legato

alla volontà di superare le barriere monopolistiche di chi pone paletti al f ree-wireless, alle

comunicazioni globali a bassocosto».

Page 29: Sostenibilità e dinamiche sociali

E-WASTE

Negli ultimi anni la grande diffusione delle tecnologie ha portato con sé problematiche relative allo

smaltimento, al riciclo e al recupero dei prodotti.

I rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), in inglese "Waste of Electric and

Electronic Equipment" (WEEE) o "e-waste", sono rifiuti che consistono in qualunque prodotto

elettronico in disuso di cui il possessore si vuole liberare.

Questo tipo di spazzatura è molto inquinante per l’ambiente e contiene diverse sostanze chimiche

tossiche e materiali nocivi pericolosi per l’uomo, che se non vengono smaltite nel modo corretto

possono avere un forte impatto la salute delle persone.

Convenzione di Basilea

La Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro

Page 30: Sostenibilità e dinamiche sociali

eliminazione (UN, 1989) è un trattato che regola e cerca di ridurre il trasporto di rifiuti pericolosi da un

paese all'altro, occupandosi nello specifico di importazione in paesi in via di sviluppo.

La Convenzione è stata redatta nel 1989, ed è entrata pienamente in attività nel 1992. Al marzo 2009 gli

unici paesi a non aver ratificato la convenzione erano l'Afghanistan, Haiti e gli Stati Uniti d'America. I

tre stati hanno però già firmato il trattato, si avvicina quindi la ratifica che porterà nei prossimi anni

tutti i paesi aderenti alle Nazioni Unite ad aver aderito ufficialmente alla Convenzione.

La Convenzione di Basilea definisce quali sono i rifiuti considerati pericolosi e cerca di limitare

fortemente il trasporto di questi da paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo. In caso di trasporti di

rifiuti prevede comunque che questi vengano schedati e che il loro intero percorso sia tracciato dalle

Nazioni Unite.

Nel 1995 il trattato è stato implementato dal Basel Ban Amendment!!!, che vieta il trasporto di

qualunque rifiuto da un paese all'altro, neanche per riciclaggio. Questo divieto ha visto l'opposizione

dura di USA e Canada, insieme ad alcune industrie multinazionali. L'Emendamento non è ancora stato

rettificato da molti paesi; in ogni caso le nazioni ad averlo firmato sono 63 sulle 62 richieste perchè il

trattato venisse accolto dalle Nazioni Unite!!!. Questo divieto è diventato pienamente operativo

nell'Unione Europea, che lo ha accolto con il Wastment Shipment Regoulation (EWSR)!!!.

In seguito alla nascita della Convenzione è stato creato un ente di controllo: il Basel Action Network

(BAN), il quale si occupa del controllo del traffico di e-waste, oltre ad essere responsabile per le

ispezioni nei siti di stoccaggio, smaltimento e riciclaggio dei rifiuti.

I RAEE

Secondo il decreto attuativo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Ministero dell’Ambiente e della

Tutela del Territorio e del Mare, che definisce la gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed

elettroniche, gli AEE sono le apparecchiature che dipendono per un corretto funzionamento da correnti

elettriche o campi elettromagnetici e le apparecchiature di generazione, trasferimento e misura di

queste correnti e campi, progettate per essere usate con una tensione non superiore a 1000 Volt per la

corrente alternata e a 1500 Volt per

la corrente continua (Ministero dell'ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, 2007)

Sono AEE:

Page 31: Sostenibilità e dinamiche sociali

• Grandi elettrodomestici

• Piccoli elettrodomestici

• Apparecchiature informatiche per telecomunicazioni

• Apparecchiature di consumo

• Apparecchiature di illuminazione

• Strumenti elettrici ed elettronici (ad eccezione degli utensili industriali fissi di grandi

dimensioni)

• Giocattoli ed apparecchiature per lo sport e per il tempo libero

• Dispositivi medici (ad eccezione di tutti i prodotti impiantati ed infettati)

• Strumenti di monitoraggio e controllo

• Distributori automatici

Non sono AEE (quindi non rientrano nella direttiva RAEE):

• I dispositivi medici impiantabili ed infettati

• Gli utensili industriali fissi di grandi dimensioni

• Le apparecchiature connesse alla tutela di interessi essenziali della sicurezza nazionale

• Le armi, le munizioni ed il materiale bellico purché destinati a fini specificatamente militari

• Sistemi centralizzati non funzionanti autonomamente (citofonia, video citofonia, sistemi di

allarme, antincendio, rilevazione fumo e gas)

I RAEE sono le apparecchiature elettriche ed elettroniche giunte a fine vita. La norma divide i RAEE in

3 categorie:

• RAEE provenienti dai nuclei domestici

• RAEE professionali

• RAEE storici: RAEE derivanti da apparecchiature elettriche ed elettroniche immesse sul

mercato prima del 13 agosto 2005

RAEE sono le apparecchiature intere, e non parti di esse. Questa suddivisione è utile per fini

burocratici allo scopo di regolamentare la tassazione e il corretto smaltimento.

Page 32: Sostenibilità e dinamiche sociali

DIMENSIONE QUANTITATIVA DEL PROBLEMA IN ITALIA

In Italia si stima che ogni abitante ha prodotto nel 2006 circa 14 chili di rifiuti elettronici con un totale

di circa 800.000 tonnellate, di cui 108.000 sono stati raccolti in maniera separata. Questo significa che

sono stati raccolti un po’ meno di 2 chili di rifiuti pro capite a dispetto dei 4 chili imposti dalla

Comunità Europea e i 6 della media europea.

Come si evince da queste stime in Italia siamo ben lontani dal target della direttiva europea e gli enormi

volumi di rifiuti elettronici generati hanno imposto la necessità di modificare l’approccio verso questi

prodotti adottando politiche di riuso, riciclo e smaltimento corretto dei RAEE.

Dal sito istituzionale del Centro di Coordinamento dei RAEE oggi si contano in Italia 2.893 Centri di

Raccolta che secondo gli esperti del settore non sono sufficienti per la migliore gestione dei rifiuti e

non sono distribuiti in maniera uniforme nel territorio. Secondo un’inchiesta di Greenpeace sui rifiuti

tecnologici infatti, le 8 regioni del nord (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Valle d’Aosta,

Piemonte, Liguria, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia) contano addirittura 2.172 aree di

raccolta rifiuti, contro le 325 del Centro (Toscana, Umbria, Molise e Lazio) e le 302 delle rimanenti sei

regioni del sud. Sardegna e Sicilia si trovano con soli rispettivamente 62 e 32 centri di raccolta. Questo

significa che se nel Settentrione esiste un Centro di Raccolta ogni 12.500 abitanti, scendendo lungo la

penisola si nota un aumento del numero di persone servite da una singola aree di raccolta. Nel Centro si

ha un CdR per ogni 36.000 persone, contro le 46.000 del Sud e le oltre 71.000 delle isole.

Questi dati ci danno un’idea della dimensione del problema, che, nonostante le preoccupazioni dei

governi, è in rapida crescita per l’aumento spropositato del numero di prodotti elettronici in tutto il

mondo.

I RISCHI PER L’AMBIENTE E LA SALUTE UMANA

La contaminazione ambientale derivante da uno scorretto smaltimento di tecno-spazzatura riguarda

l’ambiente in tutte le sue forme: l’acqua, l’aria e il suolo. Questo chiaramente si ripercuote nella salute

umana.

Per smaltimento non corretto s’intende la messa in discarica o la termodistruzione dei RAEE, interi o

parti di essi che contengano ancora sostanze utili o nocive.

Page 33: Sostenibilità e dinamiche sociali

Un trattamento non appropriato e uno smaltimento non corretto dei RAEE comporta:

• La diffusione nell’ambiente di sostanze pericolose per la salute pubblica;

• La distruzione o comunque lo spreco di materiali che possono essere reimpiegati nel ciclo

produttivo, con conseguente impoverimento di risorse presenti in quantità limitata sul nostro

pianeta.

In generale negli apparecchi elettrici ed elettronici si trovano diverse sostanze dannose come piombo,

mercurio, cadmio, cromo esavalente, oli minerali e sintetici, PCB (policlorobifenili) e altri idrocarburi.

Molti di questi elementi si accumulano nell’ambiente provocando effetti acuti e cronici sugli organismi

viventi, spesso con danni irreversibili alla salute.

Secondo l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo dell’Ambiente (ARPA) le sostanze nocive contenute nei

rifiuti elettrici e elettronici sono:

CFC/HCFC: I clorofluorocarburi e gli idroclorofluorocarburi sono presenti nei circuiti di

refrigerazione di frigoriferi/congelatori e condizionatori nonché nelle schiume poliuretaniche del

rivestimento esterno degli stessi.

Essi sono in grado di raggiungere intatti la stratosfera e di reagire con le molecole di ozono formando

ossigeno semplice. Questo provoca l’assottigliamento della fascia di ozono, il quale determina un

aumento delle radiazioni ultraviolette che sono causa di tumori alla pelle, malattie agli occhi,

indebolimento del sistema immunitario; negli ultimi anni i casi di melanoma sono raddoppiati.

PIOMBO: È contenuto nelle batterie e nelle saldature degli apparecchi.

Si accumula nell’ambiente provocando effetti tossici acuti e cronici alle piante, agli animali e ai

microorganismi. Nell’uomo può causare gravi danni al sistema nervoso centrale e periferico, a livello

vascolare.

CADMIO: Si trova in componenti, semiconduttori e tubi catodici di vecchio tipo. Può provocare danni

irreversibili ai reni e al sistema osseo, causa di disturbi alla crescita. È considerato cancerogeno.

MERCURIO: Si trova in termostati, sensori, interruttori, attrezzature medicali, apparecchi di

telecomunicazioni e cellulari. Viene assorbito facilmente dagli organismi e trasferito, tramite i pesci,

nella catena alimentare. Nell’uomo provoca danni al cervello, al coordinamento, al bilanciamento.

CROMO ESAVALENTE: Usato per ridurre l’infiammabilità di componenti ed apparecchi elettrici ed

elettronici, è presente in ritardanti di fiamma bromurati. Solubile in acqua, anch’esso entra nella catena

Page 34: Sostenibilità e dinamiche sociali

alimentare tramite i pesci. È tossico per l’ecosistema marino e nell’uomo provoca reazioni allergiche e

bronchiti asmatiche ed è in grado di attraversare la membrana cellulare e danneggiare il DNA. È

ritenuto cancerogeno.

POLICLOROBIFENILI (PCB): Allo stesso modo del cromo esavalente, questi sono usati per ridurre

l’infiammabilità di componenti elettronici. Tossico per l’ecosistema marino, entra nella catena

alimentare tramite i pesci. Causa di reazioni allergiche e bronchiti asmatiche nell’uomo può

danneggiare il DNA. È riconosciuto cancerogeno

NORME E LEGGI

Negli ultimi anni, la gestione del fine vita delle apparecchiature elettriche ed elettroniche è diventata un

problema a livello mondiale da affrontare in modo puntuale per difendere l’ambiente e sostenere lo

sviluppo.

Un incremento significante nella generazione delle apparecchiature elettriche e elettroniche (AEE) ha

indotto molti stati a implementare politiche a occuparsi delle ragioni e delle conseguenze di questo

sviluppo.

Nonostante i politici di tutto il mondo stiano reagendo alla rapida crescita dei rifiuti elettrici e

elettronici, questa reazione è strutturata da azioni prese dai singoli stati configurando un mosaico di

politiche diverse.

In Europa il tema dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche è regolamentato dalle direttive

europee 2002/95/CE, 2002/96/CE e 2003/108/CE sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze

pericolose nelle Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche e sulla gestione del fine vita della medesima

tipologia di apparecchiature. Tale direttiva è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 25 luglio

2005 n. 151 attuata solo a partire dal 1° Gennaio 2008.

Il decreto ha l’obbiettivo di arrivare alla raccolta media pro-capite di 4 Kg l’anno per abitante (circa

240 mila tonnellate) di rifiuti che dovranno essere recuperati (con percentuali che vanno dal 70 all’ 80

% in base alla categoria di rifiuto) o reimpiegati e riciclati (con percentuali che vanno dal 50 all’ 80 %).

Il Consiglio dei Ministri europeo ha insistito sulla necessità di promuovere il recupero dei rifiuti al fine

di ridurne la quantità da smaltire e di preservare le risorse naturali, in particolare mediante il reimpiego,

il riciclaggio, il compostaggio e il recupero dell'energia dai rifiuti ed ha riconosciuto che la scelta delle

Page 35: Sostenibilità e dinamiche sociali

opzioni nei casi specifici deve tener conto delle conseguenze ambientali ed economiche, ma che fino a

quando non interverranno progressi scientifici e tecnici al riguardo e non saranno ulteriormente

sviluppate le analisi del ciclo biologico, bisognerà optare per il reimpiego e per il recupero dei materiali

se e nella misura in cui essi rappresentano le migliori opzioni ambientali.

La presente direttiva in Italia impone la responsabilità a produttori e distributori di creare consorzi ad

hoc che provvedono allo smaltimento e al riciclo e di ritirare gli apparecchi elettrici o elettronici dati

dai consumatori a patto che essi comprino un’apparecchiatura equivalente (una apparecchiatura adibita

alle stesse funzioni della vecchia il cui peso non sia superiore al doppio di quella appena acquistata).

Purtroppo questo non succede sistematicamente.

Un’altra novità apportata dal decreto è la tassa sui RAEE: ogni volta che compriamo un apparecchio

nuovo paghiamo una tassa (per legge non direttamente visibile, ma già calcolata nel prezzo

dell’oggetto) in dipendenza dal peso e delle caratteristiche del prodotto. Per un frigorifero paghiamo 16

euro, 5 per una lavatrice, 3 e mezzo per un televisore fino ai 25 centesimi per l'iPod e i 28 per le

lampadine a basso consumo. Il principio ha la sua logica: per smaltire questo tipo di rifiuto non pagano

più indistintamente tutti i cittadini attraverso la TARSU, la tassa comunale sui rifiuti ma solo quelli che

li producono, e cioè chi compra una tv nuova e quindi ne deve buttare via una vecchia.

POLITICHE A RIFIUTO ZERO

Nella seconda metà del ‘900, il boom economico ha portato ad un enorme incremento della quantità di

prodotti e quindi rifiuti con conseguente consumo di energia e inquinamento. La più ovvia soluzione al

problema è stata la costruzione di discariche, che si sono rivelate inquinanti e indecorose. La risposta

alle polemiche è stata l’invenzione degli inceneritori, che sono sembrate per un decennio (almeno fino

all’arrivo dei primi incidenti e ai dati sulle patologie) la soluzione definitiva: da un’enorme massa di

rifiuti si riduce ad una relativamente piccola fatta di ceneri tossiche. Tale innovazione sembrava anche

relativamente economica e gestibile dal punto di vista della sicurezza, ma dopo qualche anno

cominciarono a sorgere comitati contrari e proteste.

A partire dagli anni ’90 la prospettiva cominciò a cambiare dando progressivamente corpo alla strategia

di Zero Waste, oggi attuata dal 50% delle città in Nuova Zelanda, dall’Australia, dal Canada, dalla

California, dallo Stato dell’Oregon, da alcune cittadine Giapponesi, e da molte aziende multinazionali

(tra cui: Toyota, Bell Canada, Xerox, Hewlett Packard).

Page 36: Sostenibilità e dinamiche sociali

I risultati sono straordinari: la Xerox Usa stima che le propria politica Zero Waste, grazie a riduzione,

riuso e riciclo, abbia prodotto in soli nove anni (dal 1990 al 1999) un risparmio di quasi 47 milioni di

dollari.

La stessa politica alle Olimpiadi di Atlanta ha permesso di fare la raccolta differenziata dell’85% dei

rifiuti; lo stabilimento Epson nell’Oregon ha eliminato del 90% la quantità di rifiuti; la catena canadese

Beer Store recupera il 98% delle bottiglie immesse sul mercato, con un risparmio di circa 160 milioni

di dollari e ricicla il 97% degli imballaggi in plastica.

Zero Waste è un metodo di lavoro il cui scopo è ridurre i rifiuti, l’impiego di energia e di materia, lo

spreco e l’inefficienza, partendo dalla considerazione che l’esistenza dei rifiuti è sintomo della

inefficienza del sistema economico e che è possibile porvi rimedio con la tecnica e l’organizzazione.

In particolare si studia la comunità dove agire, analizzando il flusso della materia, e si trovano le

soluzioni tecniche e organizzative insieme ai produttori e ai cittadini. In seguito attuando le soluzioni

trovate, si ottiene la riduzione dei rifiuti nella produzione, distribuzione e nel consumo sia per quantità

sia per tossicità, per quanto possibile a livello locale.

Così si riutilizzano le cose dismesse, creando aziende che le commercializzano dopo averle aggiustate,

creando Parchi del riuso e della rivendita e un mercato vero e proprio, con un adeguato supporto

finanziario e legislativo.

Tutto ciò, naturalmente, va supportato con azioni educative e formazione sul riuso e compostaggio. Il

successivo passaggio consiste nel riciclare e inserire correttamente sul mercato i prodotti del riciclo,

supportare la ricerca tecnica e logistica, creare conoscenza attraverso studi specifici, con corsi

universitari, Accademie Zero Waste, ecc., diffondendo insomma un clima creativo, una cultura tra i

cittadini e nell’economia.

Così i rifiuti diventano risorse economiche e non costi.

Robin Murray (famoso economista della London School of Economics) è il più celebre promotore di

questa “filosofia”, che grazie alla combinazione “riduzione, riuso, riciclo” ed educazione al tema

assicura una rivoluzione nel campo economico, energetico e ambientale.

Page 37: Sostenibilità e dinamiche sociali

E-WASTE NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO

Quando si tratta questo argomento vanno fatte delle importanti premesse. Il problema dei rifiuti tossici

è infatti rilevante in molti paesi in via di sviluppo, ma lo è anche in potenze economiche mondiali come

Cina ed India, per ovvi motivi si parla quindi di situazioni completamente diverse. E' chiaro come

vadano ben distinti paesi in cui l'informatizzazione è in crescita ed in cui si sviluppa anche l'industria

del riciclaggio da quei paesi africani, che vengono invece sfruttati come semplici discariche. Non a

caso c'è anche un livello di consapevolezza diversa fra diversi importatori di e-waste. In Asia chi riceve

i rifiuti conosce esattamente la loro natura e sa valutare ogni singolo pezzo ricevuto, potendosi così

permettere una precisa selezione iniziale. Nei paesi africani invece questa perizia non esiste, si

accettano carichi di rifiuti tossici senza aver la minima consapevolezza di quello che può essere il loro

contenuto(C.Schmidt, 2006).

Sembra riflettersi anche in questo caso una sorta di “divide”, stavolta tecnologico, che vede

svantaggiati i soggetti più poveri della filiera. Se a questo aggiungiamo che il paese più informatizzato

al mondo, gli Stati Uniti d'America, non ha ancora ratificato la Convenzione di Basilea, si può intuire

quanto questo mercato sia nebuloso e difficile da controllare.

ASIA

Come già detto una classificazione di e-waste unica e condivisa a livello internazionale non esiste, è

quindi impossibile controllare completamente i traffici di rifiuti nell'area asiatica, in cui si ritrovano

nazioni con legislazioni molto severe e precise come il Giappone, ma anche enormi colossi come

l'India in cui una regolamentazione non esiste o la Cina, in cui le regole ci sono ma spesso non vengono

rispettate. Il traffico di prodotti nocivi è ovviamente facilitato da questo caos legislativo esistente; la

mancanza di definizioni precise che specifichino la differenza fra prodotti di seconda mano, e-waste e

semplici rifiuti metallici (mixed metal scrap) fa sì che questi possano essere importati od esportati

senza grosse difficoltà (Japan’s National Institute for Environmental Studies, 2006).

Abbiamo visto quindi che paesi come Cina, Giappone, Corea e Taiwan hanno regole ben definite per

quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti “interni”. In alcuni casi sono i produttori ad esser responsabili

anche economicamente per lo smaltimento, in altri i consumatori. Il problema nasce però quando ci si

concentra su quelle che sono le regole per l'esportazione dei rifiuti nazionali, per il già citato problema

Page 38: Sostenibilità e dinamiche sociali

delle classificazioni ed anche perché non tutti I paesi del sud-est asiatico mettono in atto i principi della

Convenzione di Basilea. In Corea, del Sud per esempio, non viene applicato nessun limite

all'esportazione di rifiuti tecnologici, né esiste un obbligo di un trattamento preliminare di questi, ecco

quindi che in questa maniera si riescono a trasportare enormi quantità di prodotti contenenti sostanze

nocive senza problemi burocratici. Il costo per la nazione, per i produttori, per i consumatori e per i

trasportatori è ridotto, ma a farne le spese sono le popolazioni che devono poi venire a contatto con

questi rifiuti.

CINA

La Cina è il nodo cruciale dell'e-waste a livello globale. In questo paese infatti arrivano la maggior

parte dei rifiuti tecnologici planetari, sempre qui si trovano inoltre alcune fra le più grandi centrali di

riciclaggio specializzate, come quella di Guiyu, nella regione del Guandong (Takayoshi Shinkuma ,

Nguyen Thi Minh Huong, 2008) In questa discarica, la più grande esistente al mondo, si ammassano

tonnellate di rifiuti tecnologici provenienti dalla Cina stessa, dagli Usa, dal Giappone, dalla Corea del

Sud e dall'Europa.

Questo va di fatto a cozzare con la legislazione cinese, che vieta categoricamente l'importazione di

WEEE (i RAEE internazionali) di seconda mano. Emerge di nuovo quello che è il maggior problema

legato all'e-waste: la cronica mancanza di controlli e classificazioni ben definite dei materiali dannosi.

Spesso infatti prodotti che dovrebbero essere classificati come WEEE vengono invece immessi come

semplice spazzatura (scrap). Il governo cinese in questo caso ha ignorato volutamente il fatto che nelle

discariche le leggi non venissero rispettate, a patto che il 4% dei guadagni (grazie all'assemblamento di

nuovi prodotti da materiali riciclati) venisse versato come imposta (value added tax). (Japan’s National

Institute for Environmental Studies, 2006).

Questo stato di cose è potuto andare avanti fino ad oggi vista la grandissima richiesta cinese di prodotti

realizzati con materiali usati. Ora che però il mercato è in crisi, a favore di quello dei prodotti di nuova

fattura, si prevede quindi dei cambiamenti nel mercato tecnologico cinese dei prossimi anni.

Il governo cinese ha cercato di regolamentare, almeno formalmente, questo flusso di materiali. Fino ad

una decina di anni fa infatti, le fabbriche che si occupavano di riciclaggio erano piuttosto piccole e di

proprietà di poche aziende; ogni sito lavorava così qualunque tipo di materiale senza rispettare standard

qualitativi e di sicurezza adeguati. Questa situazione rendeva ovviamente difficili i controlli da parte

Page 39: Sostenibilità e dinamiche sociali

delle istituzioni, che non potevano fare altro che chiudere le fabbriche in cui venivano rilevate delle

irregolarità. A quel punto però bastava spostare i materiali illeciti da un sito all'altro e continuare nelle

attività illecite che erano la prassi.

Si è deciso quindi di attuare una nuova strategia: non più combattere semplicemente il riciclaggio

“sporco”, ma parallelamente favorire la nascita di impianti a norma.(Japan’s National Institute for

Environmental Studies, 2006) Guiyu nasce proprio così, pur con le sue mille contraddizioni.

L'accentramento di gran parte del materiale in arrivo ha infatti aiutato il controllo dei rifiuti in entrata

(senza debellare ancora l'afflusso di rifiuti illegali), ma si è trascinata dietro una delle tante

contraddizioni del gigante economico cinese. La situazione per quel che riguarda le condizioni di

lavoro dei dipendenti è infatti disastrosa e spesso a lavorare sui materiali dannosi vengono posti dei

bambini(Greenpeace, 2005).

La Cina però, visto il suo boom economico, ha dovuto contemporaneamente fronteggiare l'enorme

incremento di produzione locale di rifiuti tecnologici, dato che un numero sempre maggiore di persone

ha iniziato a potersi permettere televisori, elettrodomestici e cellulari. Nel 2004 ha quindi ufficialmente

definito quali fossero i rifiuti da considerare come e-waste: tv, frigoriferi, lavatrici, condizionatori d'aria

e personal computers. I distributori hanno il ruolo di raccolta dei rifiuti tecnologici dai consumatori,

dovranno poi inviarli ad impianti di riciclaggio certificati che si occuperanno dello smantellamento,

riutilizzo o smaltimento. Per incoraggiare questo processo sono stati rilasciati dei contributi da parte dei

produttori.

AFRICA

La situazione africana è ancora più selvaggia di quella asiatica, ma non è affatto legata alla produzione

interna di e-waste. Alcuni paesi (soprattutto la Nigeria) sono infatti delle semplici discariche di rifiuti

tecnologici occidentali.

Le stime non ufficiali dicono che per il porto di Lagos passino ogni mese più di 500 cargo contenenti

rifiuti tecnologici non classificati (C.Schmidt, 2006). Dato che per l'importazione di WEEE esistono

precise e costose tariffe, si preferisce classificare illegalmente tutti i rifiuti come semplice scrap, il reale

contenuto di questi cargo rimane quindi, fondamentalmente, un mistero. Di certo c'è il prezzo per un

singolo trasporto: 5000$, davvero esiguo rispetto ai regolari costi di smaltimento. Dal punto di vista

degli importatori il guadagno è quasi assicurato, dato che bastano 40 buoni computer in mezzo

Page 40: Sostenibilità e dinamiche sociali

all'immondizia inutilizzabile per avere un lauto guadagno.

In Nigeria l'industria del riutilizzo è sviluppatissima, I rifiuti vengono riparati o riassemblati in loco,

quindi venduti in quantità industriali. Il problema sta nel 75% di rifiuti che però non sono in nessuna

maniera riutilizzabili, che quindi si accumulano nelle discariche nigeriane, con il loro carico letale di

metalli e sostanze chimiche dannose. Dato che il confine fra discarica e zona abitativa è estremamente

labile, questi rifiuti vanno ad avere un impatto ancora più forte sulla vita della popolazione. Inviati del

BAN si sono trovati davanti ad enormi discariche in cui i bambini giocavano con materiali per loro

tossici. In queste aree vagano pure animali come capre o polli, che rappresentano una grossa fetta della

nutrizione di queste popolazioni, che si ritrovano quindi completamente immerse nella tossicità

prodotta dai rifiuti tecnologici occidentali.

Page 41: Sostenibilità e dinamiche sociali

Conclusioni

Si è visto nel corso di questa relazione come le tecnologie, in particolar modo quelle dell'informazione

e della comunicazione, non siano strumenti neutri o ininfluenti all'interno della società in cui si

sviluppano o vengono importati. Le ICT, essendo essenzialmente delle psico-tecnologie, come le

definisce D. De Kerckhove, ridefiniscono i sistemi relazionali e le dinamiche sociali, permettono, in

base al tipo di governo, un certo grado di libertà informativa, diffusione dei saperi, modellano la pische

e si trasformano continuamente per soddisfare bisogni, spesso indotti, di interazione e continuo

aggiornamento informazionale.

Ovviamente la tecnologia ha un prezzo, necessita di competenze ed infrastrutture per essere prodotta, di

una certa qualità d'insegnamento per permetterne l'utilizzo ed ovviamente una predisposizione

infrastrutturale e sociale dell'ambiente in cui viene sfruttata. Accanto a queste prime problematiche di

livello generale, se ne affiancano altre più specifiche come età, sesso, etnia, luogo di residenza, accesso

al lavoro, professione. Ognuno di questi status è un potenziale motivo di esclusione dall'utilizzo delle

ICT, motivi che associati e combinati insieme danno vita a quello che viene definito digital divide,

ovvero la diseguaglianza di accesso e di utilizzo delle tecnologie della cosiddetta “società

dell’informazione”.

Pensando inoltre alla velocità con cui nascono e muoiono le tecnologie dell'informazione come telefoni

cellulari, computer ed hardware di ogni tipo, è venuto spontaneo porsi due domande fondamentali. La

prima sulle conseguenze che questa continua e rapida produzione ha all'interno dei paesi sviluppati,

all'interno di quelli in via di sviluppo e tra “nord” e “sud” del mondo. La seconda è sul dove vanno a

finire i “cadaveri elettronici”, come vengono smaltiti, se vengono smaltiti, e quali normative e accordi

stanno dietro il traffico di questi rifiuti.

Dalle ricerche effettuate nel corso della stesura di questa relazione è emerso come questo progresso

tecnologico e comunicativo sia in realtà fonte di arricchimento dei principali paesi produttori a

discapito di quelli in via di sviluppo. Questo svantaggio si spiega prendendo in considerazione, oltre

alle importanti problematiche di ordine economico e politico, anche quelle di tipo amministrativo come

il progressivo processo di virtualizzazione delle burocrazie nazionali e locali. Se si prendono a titolo

d'esempio carta d'identità e tessera sanitaria digitali, come potranno interagire quelle società o quegli

stati che hanno alla base elementi che poggiano su sistemi di produzione, controllo, ed utilizzo

Page 42: Sostenibilità e dinamiche sociali

diametricalmente diversi? E ancora: quanto verrano ulteriormente esclusi dalle decisioni di ordine

globale i paesi che non hanno un pieno controllo dei mezzi che trasmettono informazione sulla loro

propria nazione e società?

Su questo Castells si trova in accordo con le frange meno estremiste e non violente degli attivisti

antiglobalizzazione, che trovano un eco nell'opinione pubblica preoccupata degli effetti di questa nuova

società in termini di occupazione, istruzione, protezione sociale e stili di vita. Castells introduce inoltre

anche il problema del rischio di perdita di controllo dello strumento internet, proprio a causa della sua

natura interattiva.

Tale considerazione meriterebbe un discorso a parte sui rischi che porta con sè un utilizzo

estremamente libero della tecnologia digitale, nondimeno sul rischio di cadere, per preservare la

privacy e la sicurezza delle persone, nella trappola del controllo sociale che parte proprio dal controllo

delle informazioni personali.

Di questo si è deciso di non trattare nel corso di questa relazione, sebbene se ne riconosca un'estrema

importanza, proprio per evitare di dilungarsi oltremodo e perdere di vista gli obiettivi prefissati in

origine.

Oltre questo va considerata la grande quantità di rifiuti elettronici che, in violazione ai trattati e alle

legislazioni internazionali, vengono riversati nei paesi in via di sviluppo sfruttando cinicamente il

canale delle donazioni.

Per citare ancora una volta il validissimo testo di Castells "l'economia potenziata dalle reti esplora

incessantemente il pianeta alla ricerca di opportunità di profitto, c'è un processo di sfruttamento

accelerato delle risorse naturali, nonchè di crescita economica dannosa per l'ambiente [...] se

includiamo nello stesso modello di crescita la metà della popolazione planetaria che è attualmente

esclusa, il modello di produzione e consumo industriali che abbiamo creato non è ecologicamente

sostenibile.

La soluzione per le enormi quantità di e-waste prodotte dal nostro modello di sviluppo non è una sola,

ma va trovata per ogni passaggio che fanno questi prodotti. Vanno innanzitutto applicate su scala

globale tecniche di eco-design che già esistono, e permettono una separazione più semplice ed

economica dei vari materiali presenti nei circuiti elettronici. Il passaggio successivo è quello di

sensibilizzare le aziende distributrici di prodotti elettronici nel ruolo fondamentale che devono avere

per quanto riguarda il recupero di prodotti usati. A questo punto sarà la catena di smaltimento a dover

applicare le corrette tecniche, in modo da ridurre al minimo l'impatto inquinante dell'e-waste, oltre a

Page 43: Sostenibilità e dinamiche sociali

recuperare i prodotti quando possibile. La funzione di controllo dovrà essere svolta da istituzioni

nazionali ed internazionali (come il BAN), in modo che le regole che ora esistono vengano finalmente

applicate in ogni situazione.

CRITERI DI SOSTENIBILITÀ

Il nostro lavoro vuole portare a riflettere sul tema più generale della sostenibilità economico-sociale. Si

è visto quali siano le potenzialità delle nuove teconologie dell'informazione e quali problematiche

derivino dal loro utilizzo. Queste teconologie rappresentano in qualche modo degli artefatti cognitivi

che, progettati e pensati in maniera sostenibile, potrebbero risolvere alcune problematiche su diversa

scala, partendo dal locale per arrivare al globale. Pertanto si è ritenuto utile formulare alcune linee

guida su come gli artefatti dovrebbero essere concepiti.

1° La produzione dell'artefatto non deve generare forme di "neo-colonialismo" e gravare sull'economia

dei paesi in via di sviluppo. Prodotti realizzati in occidente per risolvere il digital divide farebbero solo

crescere l'economia dei paesi più ricchi senza trasferire competenze e ricchezza ai paesi che si vogliono

aiutare.

2° L'artefatto deve avere un costo sostenibile per essere accessibile al maggior numero di fasce sociali.

3° Adozione della filosofia open source, sia per quanto riguarda le componenti hardware che per il

software, e unificazione degli standard inteso in senso di compatibilità e componibilità

4° Gli artefatti devono essere realizzati con materiali riciclabili grazie alle nuove tecniche di eco-

design, in modo da favorire il riutilizzo dei materiali usati o il loro corretto smaltimento.

Page 44: Sostenibilità e dinamiche sociali

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