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SOFIA CASA DI DIO Brani della riflessione di sant’Agostino, sul salmo 113, dal libro XII delle Confessioni. (Ed. Paoline, 1951, a cura di Mario Capodicasa). INTRODUZIONE (brevissima) "Il 13 novembre del 354 un sole si accese nel ciclo dei Santi. A Tagaste, oggi Souk-Ahras in Algeria, città della Numidia, nacque Agostino da Patrizio piccolo proprietario e magistrato del comune, e Monica, tipo ideale di sposa e di madre. Il battesimo, com'era uso, non fu subito amministrato al piccolo Agostino; la madre, però, lo iscrisse tra i catecumeni ed i suoi primi anni di vita furono avvivati da una sincera religiosità, anche se solo al tramonto della giovinezza egli incomincerà a vivere l'intima e profonda bellezza della Grazia. (…) Le Confessioni ci rendono vivo Agostino giovane che, nei tormenti e nelle pene d'amore, nelle passioni e negli aneliti dell'intelligenza, nell'ardente sete di interiorità e di pace, s'avvicina tanto all'odierno travaglio umano. (...) Ascendere a Dio dal creato, da questo nulla che sono le cose al Tutto che a tutto ha dato l'essere, è il tentativo e la felice soluzione agostiniana. (. . ) Egli proclama che è possibilissimo elevarsi dalla creatura al Creatore e che la saggia ragione umana al solo guardare le cose che esistono, si convince dell'esistenza di Dio “cosi chiaramente come il sole si mostra di nostri occhi”. (...) La riflessione filosofica nell'esegesi delle prime pagine della Genesi è come una preghiera ardentemente meditativa ed il tempo con le sue variazioni richiamerà l'eterna presenzialità del Creatore onnipotente che senza di niente, tutto fece; la contingenza dell'universo, l'eternità divina. E se il mondo è in divenire, egli pensa, è, appunto perchè diviene, il deficiente, l'insufficiente, e perciò suppone l'indivenibile, il Perfettissimo. Affermando poi la produzione “ex nihilo” dell'universo, sant'Agostino esclude e rigetta ogni evoluzionismo casuale ed ogni preesistenza di materia.

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SOFIA CASA DI DIO

Brani della riflessione di sant’Agostino, sul salmo 113, dal libro XII delle Confessioni. (Ed. Paoline, 1951, a cura di Mario Capodicasa).

INTRODUZIONE (brevissima)

"Il 13 novembre del 354 un sole si accese nel ciclo dei Santi. A Tagaste, oggi Souk-Ahras in Algeria, città della Numidia, nacque Agostino da Patrizio piccolo proprietario e magistrato del comune, e Monica, tipo ideale di sposa e di madre. Il battesimo, com'era uso, non fu subito amministrato al piccolo Agostino; la madre, però, lo iscrisse tra i catecumeni ed i suoi primi anni di vita furono avvivati da una sincera religiosità, anche se solo al tramonto della giovinezza egli incomincerà a vivere l'intima e profonda bellezza della Grazia. (…)

Le Confessioni ci rendono vivo Agostino giovane che, nei tormenti e nelle pene d'amore, nelle passioni e negli aneliti dell'intelligenza, nell'ardente sete di interiorità e di pace, s'avvicina tanto all'odierno travaglio umano. (...) Ascendere a Dio dal creato, da questo nulla che sono le cose al Tutto che a tutto ha dato l'essere, è il tentativo e la felice soluzione agostiniana. (. . ) Egli proclama che è possibilissimo elevarsi dalla creatura al Creatore e che la saggia ragione umana al solo guardare le cose che esistono, si convince dell'esistenza di Dio “cosi chiaramente come il sole si mostra di nostri occhi”. (...)

La riflessione filosofica nell'esegesi delle prime pagine della Genesi è come una preghiera ardentemente meditativa ed il tempo con le sue variazioni richiamerà l'eterna presenzialità del Creatore onnipotente che senza di niente, tutto fece; la contingenza dell'universo, l'eternità divina. E se il mondo è in divenire, egli pensa, è, appunto perchè diviene, il deficiente, l'insufficiente, e perciò suppone l'indivenibile, il Perfettissimo. Affermando poi la produzione “ex nihilo” dell'universo, sant'Agostino esclude e rigetta ogni evoluzionismo casuale ed ogni preesistenza di materia.

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“Il cielo del cielo per il Signore, che diede, invece, la terra ai figli degli uomini” (Sal. 113, 15)

Egli, rivolto a Dio, si chiede e gli chiede: Ma dove si trova il cielo del cielo per il Signore di cui parla il salmo? Dove è il cielo che non vediamo, rispetto al quale non è che terra tutto questo che vediamo? Rispetto al “cielo del cielo” anche il cielo della nostra terra è terra. E non è assurdo considerare terra i grandi corpi (celesti), in paragone a quel cielo che è per il Signore e non per i figli degli uomini. Questa terra, infatti, era invisibile e scomposta, un profondo ed incomprensibile abisso sopra del quale non v’era luce, poiché era informe. Perciò, Signore, hai fatto scrivere che le tenebre sovrastavano l’abisso (Gen. 1, 2).

Le tenebre, intanto, sovrastavano, poiché la luce non ancora v’era; come è silenzio, dove non vi è suono, e silenzio significa: assenza di suono.

Prima di dar forma e distinzione a questa materia informe, nulla vi era, né colore, né figura, né corpo, né vita. Non l’assoluto nulla, ma un’informità senza aspetto alcuno.

In che maniera dunque chiamarla? Quale cosa può trovarsi, fra tutti gli elementi del mondo che più si accordi ad una informità assoluta, quale dovette essere la terra e l’abisso? Perché allora non prendere l’espressione terra invisibile e scomposta così da indicare comodamente agli uomini la materia informe, da te creata senza forma, per trarne poi l’universo in tutta la sua bellezza?

Allora pensavo e chiamavo informe non ciò che era privo di forma, ma ciò che ne aveva una stravagante o sconveniente. La retta ragione mi persuadeva a sottrarre ogni residuo di forma per poter pensare veramente l’informe, ma non ci riuscivo. Mi sembrava, anzi, più facile ammettere come inesistente ciò che è privo di ogni forma piuttosto che pensare qualcosa di intermedio tra la forma ed il nulla; non una forma, non il nulla, ma un informe e quasi nulla.

Mi rivolsi direttamente ai corpi ed indagai più oculatamente la mutabilità per cui cessano di essere quello che erano e cominciano ad essere quello che non erano. La mutabilità delle cose mutabili è suscettibile di tutte le forme nelle quali si mutano le cose mutabili. Essa, però, cosa è? Forse è anima? O corpo? La specie dell’anima o del corpo? Se si potesse dire qualcosa del nulla, un essere che non è, così la chiamerei, sebbene dovesse già esistere per poter assumere questi aspetti visibili e ordinati.

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Dove aveva principio il suo essere, qualunque fosse, se non da te, dal quale tutte le cose hanno esistenza, qualunque essa sia? Essa, però, è tanto lontana, quanto più da te è dissimile, pur non trattandosi di una distanza locale. Tu perciò che non sei ora altra cosa, ora altro modo, ma sempre il medesimo, sempre lo stesso, identico, Signore Iddio onnipotente, nel Principio che è da te, nella tua Sapienza che è generata dalla tua sostanza hai creato qualcosa dal nulla.

Hai creato, infatti, il cielo e la terra, non, però, di te; sarebbe altrimenti uguale al tuo Unigenito e, perciò anche a te; in nessun modo sarebbe giusto che fosse a te uguale ciò che non è da te. Ed al di fuori di te altro non v’era da cui tu potessi formare il cielo e la terra. Esistevi tu ed il nulla, dal quale hai creato il cielo e la terra, due cose, una vicino a te, l’altra vicino al nulla; una che solo te ha al di sopra, l’altra che sotto di sé ha il nulla.

Per te, o Signore, è il cielo del cielo; la terra invece che hai dato ai figli degli uomini per essere veduta e toccata, non era tale, quale noi oggi la vediamo e tocchiamo. Essa era invisibile e disordinata, era, anzi, un abisso sopra il quale non vi era luce, ma era sovrastata da tenebre. (...) Era quasi il nulla perché era assolutamente informe; era, però, già tale da poter essere formata dalla materia informe, a sua volta tratta dal nulla e vicina al nulla, per creare con essa quelle grandi cose che noi figli degli uomini ammiriamo.

Assai meraviglioso è, infatti, questo cielo che tu, qual firmamento tra acqua ed acqua, il secondo giorno dopo la creazione della luce hai creato dicendo: Fiat ! Sia fatto ! E fu fatto. Questo firmamento lo chiamavi cielo; il cielo di questa terra e di questo mare che creasti il terzo giorno col dare un aspetto visibile alla materia informe da te creata prima di ogni giorno. Avevi creato il cielo anteriore “all’ogni giorno”. ed era il cielo di questo cielo, poiché sta scritto: “in principio avevi creato il cielo e la terra, questa terra, però, era materia informe, perché era invisibile e disordinata e le tenebre sovrastavano l’abisso”.

Da questa terra invisibile e disordinata, da questa massa informe, da questo quasi nulla tu dovevi creare tutte queste cose, con le quali questo mondo mutevole poggia e non poggia, nella quale cosa appare propria quella mutabilità con la quale si può percepire e misurare il tempo.

Tuttavia, (...) quando (la Scrittura) ricorda che tu in Principio ( cioè nel tuo Principio) hai creato il cielo e la terra, tace del tempo, non menziona i giorni.

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Il cielo del cielo, infatti, che tu hai creato nel tuo Principio è una qualche creatura intellettuale che, benché non è a te coeterna, o Trinità, è tuttavia partecipe della tua eternità e, per la dolcezza della tua beatissima contemplazione, frena la sua mutabilità e, senza interruzione alcuna da quando fu creata, mentre tutta si affissa in te, trascende ogni volubile vicenda temporale.

Questa informità della terra invisibile e senza ordine, invece, non è neppure essa compresa nel computo dei giorni. Dove, infatti, non c’è forma e non c’è ordine, nulla può accadere, nulla può passare; e dove ciò non avviene, non esistono giorni né vicende di spazi temporanei.

Hai detto, o Signore, (...) che tutte le nature e le sostanze, che non sono ciò che tu sei, ma tuttavia esistono, tu le hai create; e da te non procede solo ciò che non è; il movimento della volontà che allontana da te, che sei, verso ciò che è minimo e questo movimento è la colpa, il peccato; che il peccato di nessuno può intaccarti, né turbare l’ordine del tuo impero né in alto, né in basso.

Hai anche detto (...) che nemmeno è a te coeterna quella creatura che ha una sola volontà con te e che, bevendo continuamente il tuo casto amore, giammai mostra la sua mutabilità, ma, tenendosi stretta a te, sempre presente, con tutto l’affetto, non avendo futuro da aspettare, né passato dove trasferire ciò che ricorda, non è soggetta a variazione, né si distende nei tempi.

O, se vi è,beata questa creatura immersa nella tua beatitudine ! Beata, poiché tu dimori in essa eternamente e la inondi di luce ! Né trovo cosa che si possa più volentieri chiamare “Cielo del cielo per il Signore” che questa tua inabitazione che contempla le tue delizie senza interruzione per dissiparsi in altro, intelligenza pura, concordemente unita nella stabilità della pace dei santi spiriti, cittadini della tua celeste città, che sovrasta questi corpi celesti.

Da ciò l’anima che va peregrinando lontano, comprenda, specialmente se è già sitibonda di te, se ormai le sue lacrime sono diventate il suo pane, mentre tutti i giorni le viene domandato: dov’è il tuo Dio? (Sal. 41, 3-4; 78, 10) (che) ormai una cosa sola domanda a te e questa sola ti chiese, di abitare, cioè, nella tua casa per tutti i giorni della sua vita.

Quale sarà la sua vita, se non tu? E quali i tuoi giorni, se non la tua eternità, come i tuoi anni che non passano, perché tu sei sempre il medesimo? ( Sal. 191, 28 ). Da ciò, dunque, l’anima che lo può, comprenda quanto la tua eternità è superiore a tutti i tempi, se la tua

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abitazione, che mai fu pellegrina e, sebbene non a te coeterna, è unita, però, a te senza fine ed ininterrottamente e non patisce le vicende dei tempi.

Quando, o mio Dio ascolto la tua scrittura che dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra, la terra era invisibile e senza ordine e le tenebre sovrastavano l’abisso” senza notare in che giorno facevi queste cose, io così intendo:

Quel cielo del cielo è il cielo intellettuale, dove l’intendere è un conoscere simultaneo, non in parte, non in enigma, non come attraverso uno specchio, ma totalmente, in una conoscenza faccia a faccia (S. Paolo, 1 Cor. 13, 12), che non intende da questo e da quello, ma, come si è detto, simultaneamente, senza alcuna vicenda di tempi. La terra invisibile e senza ordine credo sia quella che è senza alcuna vicenda di tempi.

Per queste due cose perciò, l’una provvista di forma fin dal principio, l’altra informe; l’una il cielo, ma il cielo del cielo; l’altra la terra, ma la terra invisibile, intendo la Scrittura che dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra” senza far menzione di giorni. Subito aggiunge, infatti, di quale terra intende parlare. E quando ricorda che nel secondo giorno fu creato il firmamento e fu chiamato cielo, fa intendere di qual cielo abbia prima parlato, senza aver fatto menzione di giorni.

Riflettiamo ora su quanto segue

La sostanza del Creatore non varia col variare dei tempi e la sua volontà non è al di fuori della sua sostanza. Egli, perciò, non vuole ora questo, ora quello; in una volta sola, simultaneamente e per sempre, vuole tutte le cose che vuole; né dopo vuole ciò che non voleva prima e né ciò che prima voleva ora non vuole. Una tale volontà, infatti, è mutabile, ogni cosa mutabile non è eterna; il Dio nostro però è eterno! ( Sal. 47, 15); Dio eterno non ha formato la creatura per un nuovo atto di volontà e la sua scienza non sottostà al transitorio.

Ogni creatura formata o materia da formarsi non è se non da colui che è sommamente buono e che è sommamente.

E’ quindi impossibile negare l’esistenza di una sublime creatura unita con casto amore al vero Dio veramente eterno, che, senza essere a lui coeterna, mai da lui si stacca per volgersi alle varie vicende dei tempi, ma riposa nella sua veracissima contemplazione. Poiché tu, o Dio, a chi ti ama quando tu

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comandi, ti riveli a lui e per lui sei sufficiente e non ti abbandona nemmeno per se stesso.

Questa è la casa di Dio, non formata di massa corporea, terrena o celeste, ma spirituale e partecipe della tua eternità, perché eternamente senza difetti. Tu, infatti, l’hai fondata per i secoli dei secoli; le hai imposto la tua legge, e non passerà.

Né, tuttavia, o Dio, essa è a te coeterna, poiché non è senza principio: essa, infatti, fu creata (prima di ogni tempo, non soggetta quindi a variabilità, corpo immacolato del Principio divino ). Dice ancora sant’ Agostino nelle Confessioni: “Chi fermerà il tempo, fermandosi per un attimo, potrà vedere l’incomparabile bellezza dell’eterna immobilità che avvolge amorevolmente la Parola di Dio e la realizza”.

Anche se non troviamo traccia di tempo anteriore ad essa la sapienza fu creata prima di ogni altra cosa. Non, però, quella Sapienza perfettamente a te coeterna ed uguale, o nostro Dio e Padre suo, per mezzo del quale tutte le cose sono state create ed è quel “Principio” nel quale creasti il cielo e la terra.

Questa sapienza, però, che fu creata - cioè la natura intellettuale - è la luce, perché contempla la luce. E’ chiamata sapienza anch’essa, ancorché creata.

(Notare l’iniziale minuscola per la sapienza creata e maiuscola per la Sapienza increata e creatrice, cioè il Figlio Unigenito)

Tra la Sapienza creatrice e la sapienza creata…. (creata prima della mutabilità, non soggetta quindi alle vicende temporali, per ciò stesso libera dal loro fascino oscuro, grembo immacolato che realizza la Parola di Dio, casa di Dio, tempio di Dio, città di Dio, Santa Gerusalemme)…. vi è tanta differenza, quanta ne corre tra la luce che illumina e quella che è illuminata; o la giustizia che giustifica e la giustizia giustificata. (...)

Prima dunque di tutte le cose fu creata questa sapienza, mente ragionevole ed intellettuale, abitante nella tua casta città e madre nostra, in alto, nei cieli, libera ed eterna. Quali cieli se non i cieli dei cieli che ti lodano? Questo è il significato dell’espressione: “I cieli dei cieli per il Signore”.

E benché non troviamo traccia di tempo prima di quella sapienza, poiché il tempo precede la creatura ed essa fu creata prima di ogni cosa, tuttavia anteriore ad essa è l’eternità del Creatore dal quale fu creata ed ebbe inizio, non rispetto al tempo che non era ancora, ma rispetto alla sua formazione. Essa, perciò, deriva da te, o nostro Dio, così da essere totalmente diversa da te e non la medesima cosa con te.

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Benché non solo prima di essa, ma nemmeno in essa si trova traccia di tempo, poiché essa può vedere continuamente il tuo volto, né mai si stacca da esso, né muta; ha, tuttavia, in sé il principio della mutabilità, per cui, se non fosse a te stretta con amore immenso e se non splendesse ed ardesse in te come luce meridiana, si oscurerebbe e raffredderebbe.

(L’esempio dell’aria illuminata dal sole si presta ad illustrare questo passo: -“Il sole illumina bensì l’aria, ma non getta in essa la propria radice: invero quando il sole cessa di essere presente non abbiamo luce alcuna. […] Come la luce del sole illumina l’aria, così l’essere di Dio fa essere le creature. Ma come l’aria non diventa mai luce e torna tenebra all’allontanarsi del sole, così le creature non sono mai l’essere e se Dio se ne allontanasse tornerebbero nel nulla. La luce si comunica all’aria transitandovi e così la illumina, ma esercita su di essa una passione che l’aria si limita a subire. La luce, insomma, non aderisce ed inerisce mai all’aria diventando una sua qualità in modo che, mercè essa l’aria possa brillare di luce propria anche quando il sole è assente. Soltanto la continua presenza ed assistenza del corpo luminoso, da cui fluisce la luce, produce e conserva la luminosità dell’aria. E’ questo infatti il caso di un principio attivo il cui effetto, pur imprimendosi nel soggetto passivo, non vi si radica conservando la propria indipendenza e sovranità rispetto al passivo). ” (Alessandro Klein, Meister Eckhart – La dottrina mistica della giustificazione, Mursia Editrice, 1978)

O casa luminosa e bella, ho amato la tua bellezza e il luogo dove abita la gloria del mio Signore, tuo fabbricatore e tuo possessore a te anela questo mio pellegrinare e dico a Colui che ti fece di possedere anche me in te, perché anch’io sono opera sua. Errai come pecorella smarrita, ma spero di essere a te ricondotto sulle spalle del mio pastore che è pure il tuo costruttore.

E’ questa la casa di Dio, non certo a lui coeterna, ma tuttavia, secondo la sua condizione, eterna nei cieli. Invano cercheremo vicende di tempo, poiché non le troveremo. Essa trascende ogni estensione e ogni spazio volubile di tempo, poiché per essa è bene lo stare sempre unita a Dio.

Entrerò nel giaciglio del mio cuore; canterò a te cantici d’amore, gemerò di inenarrabili gemiti in questo mio pellegrinare, ricordando Gerusalemme, con il cuore verso di essa proteso, Gerusalemme mia patria, Gerusalemme madre mia.

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Mi ricorderò di te che sopra di essa regni e l’illumini, Tu che le sei padre, tutore, sposo, casta e forte letizia, sicuro gaudio che contiene tutti i beni ineffabili, tutti uniti, poiché Tu sei l’unico sommo e vero bene.

Né mi staccherò di la fino a che tu non mi raccoglierai interamente da questa mia disperazione e deformità formandomi e confermandomi, o mio Dio, mia misericordia, in quella pace come di madre carissima, dove sono le primizie dello spirito e da dove mi viene questa certezza.

Ti invoco nella mia anima che Tu prepari ad accoglierti.... Ma mi hai prevenuto moltiplicando, con insistenza, i richiami, affinché ti udissi da lontano, mi rivolgessi ed invocassi te che ripetutamente chiamavi. .

Tu non avevi bisogno di me, né io sono un bene dal quale tu possa riceverne giovamento. La creatura trae vita dalla pienezza della tua bontà.

Di qui segua chi può, il tuo Apostolo quando dice che la carità tua è diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che a noi fu dato e ammaestrandoci sulle cose spirituali ci mostra la eccellente via della carità

A chi dirò, come dirò, il peso della cupidigia che affonda nel rovinoso abisso e della elevazione della carità per mezzo dello Spirito Santo aggirantesi sopra le acque?

A chi lo dirò, come lo dirò?

Non sono luoghi quelli nei quali siamo immersi e dai quali poi emergiamo. Cosa c’è di più simile, cosa di più dissimile?....... Sono affetti ed amori: da una parte è la sozzura del nostro spirito che si trascina verso il basso con l’amore e gli affanni terreni; dall’altra è la santità del tuo Spirito che si eleva nell’amore della pace per avere in alto il cuore, in te, dove il tuo Spirito alita sulle acque e perveniamo all’eccelso riposo.

“Ogni amore o ascende o discende”: è la grande legge che il cuore imprime alla vita, che sublima o sprofonda. (Enar in Ps. 122, 2)

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La nostra pace è nella buona volontà. Il mio peso è il mio amore.

Quando ci lasciamo infiammare dal tuo Spirito, siamo tratti in alto. C’infiammiamo e camminiamo. Saliamo le ascensioni del cuore, cantando l’inno dell’ascesi.

E’ il tuo fuoco, il tuo fuoco santo che ci brucia e noi ascendiamo verso la pace di Gerusalemme, poiché sta scritto: “ Gioisco per le parole che mi furono dette; andremo nella casa del Signore. Ivi ci collocherà la buona volontà, poiché null’altro vuole che rimanervi per sempre.

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Infine, così si rivolge a Dio: (testo più volte riportato)

“Tardi ti ho amato o bellezza tanto antica e tanto nuova tardi ti ho amato! Tu eri dentro di me ed io fuori; ivi ti cercavo gettandomi, deforme, su queste belle cose da te fatte. Tu eri con me, ma io non ero con te, poiché mi tenevano lontano quelle creature che se non esistessero in te non avrebbero esistenza.

“Tu mi hai chiamato, hai gridato, hai vinta la mia sordità. Tu hai balenato, hai brillato, hai dissipato la mia cecità. Hai sperso il tuo profumo, io l’ho respirato ed ora a te anelo. Ti ho gustato ed ora ho fame e sete. Mi hai toccato ed ardo del desiderio della pace tua”.

(S. Agostino, Le Confessioni, Libro X, cap. XXVII, cit. )

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LA SOFIA “Omnia conjugo” (Ogni cosa congiungo)

(Pavel Aleksandrovic Florenskij La colonna e il fondamento della verità - Introduzione di Elèmire Zolla- Prima edizione - Rusconi Editore - Milano 1974 - Da “Lettera decima”- stralci)

NOTIZIA Talento matematico precoce, Pavel Aleksandrovic Florenskij (1882-1943) si laureò in matematica all’università di Mosca ; rinunciò alla carriera universitaria e si iscrisse all’accademia ecclesiastica ortodossa. Aderì all’ “Unione di lotta cristiana” per un rinnovamento radicale della società su basi cristiane, ma in seguito se ne staccò. Finiti gli studi, fu ordinato sacerdote e incaricato dell’insegnamento della filosofia. Nel 1914 pubblicò “Stolp i utverzdenie istiny” (La colonna e il fondamento della verità), che ebbe grande successo. Vi si rivela studioso geniale, novatore, audace e mistico. Fino alla rivoluzione bolscevica pubblicò parecchi studi su “Bogoslovskij Vestnik”, rivista dell’Accademia, e altrove.

Florenskij, il “Leonardo da Vinci russo”, fu tra i primi sacerdoti ortodossi perseguitati dal regime bolscevico, che lo mandò al confino in Turkestan. Al suo ritorno fu chiamato da! regime sovietico a insegnare a Mosca in uno speciale istituto di fisica superiore; si racconta che egli vi si recava ostentatamente in abito talare. Ben presto venne di nuovo confinato, prima a Solovski; l’isola del mare del Nord, divenuta il carcere soprattutto dei ministri delle varie religioni, e poi in Siberia. Da questo momento se ne perdono le tracce e fino a poco tempo fa non si sapeva nulla di lui. Soltanto nell’aprile del 1969 la rivista del Patriarcato di Mosca “Zurnal Moskovskoj Patriarkii” in una brevissima nota commemorativa dedicata al “professore dell’accademia e del seminario di Mosca” affermava che Florenskij mori il 15 dicembre 1943, ma senza dire dove. Sembra certo che sia morto in campo di concentramento. La stessa rivista parlava di “un’enorme eredità spirituale” lasciata dallo scomparso.

PREMESSA

Sul piano dei contenuti, le dodici lettere che compongono La colonna e il fondamento della verità sono state ordinate secondo un criterio classico: esaurito un tema, la conclusione apre la trattazione successiva, quasi ad indicare il modo per realizzare gli stati di cui s’è detto nella”lettera” precedente. Così, si è ritenuto potesse essere di qualche utilità riportare le pagine conclusive della “lettera nona”, prima di dedicare la nostra attenzione alla “lettera decima” Ciò, tra l’altro, può aiutare a familiarizzare con il modo di proporsi dell’Autore, onde facilitare la lettura di quanto più ci interessa.

Da La Creatura - Lettera nona - pagine conclusive.

Lo scopo delle fatiche ascetiche è (…) di percepire tutto il creato nella sua vittoriosa bellezza originaria. Lo Spirito Santo svela se stesso nella capacità di vedere la bellezza della creatura; scorgerla sempre e dappertutto significherebbe “risorgere” all’immortalità prima della comune risurrezione, fruire in anticipo della rivelazione ultima, quella del Paraclito.

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(…) L’amore per la creatura è espresso in maniera chiara, anzi nella maniera più chiara possibile, dai massimi rappresentanti dell’ascetica ortodossa, i beati Macario il Grande e Isacco di Siro, vere colonne della Chiesa. Ambedue descrivono gli stati della suprema elevazione e della massima spiritualità. A prima vista sembra quasi che aleggino nello spazio vuoto, nel grande nulla senza rive (Non ha qui importanza che si chiami

Brahma, Nirvana, Ensof, Tao, Bene, ecc. ) dei mistici non cristiani, ma non è così. Proprio qui vediamo la massima concretezza e pienezza, proprio qui alla coscienza si presenta il creato nella sua integrità e nel suo contenuto eterno, illuminato dall’emozione di una bellezza trionfante e immarcescibile. Il beato Macario compiva esercizi ascetici che sembravano superare le forze umane e si limitava a mantenere appena accesa la vita nel proprio corpo. (...) La sua povertà e rinuncia arrivavano al punto che sconsigliava perfino di tenere libri che potessero edificare gli altri e aiutava i ladri ad asportare ciò che aveva nella sua cella. Il suo amore e la sua mansuetudine sconfinati sono troppo noti per dovervi insistere qui. Ma ecco cosa dice il santo dei momenti in cui si manifesta lo Spirito:

“Chi fu reso degno di diventare figlio di Dio e di nascere dall’alto, dallo Spirito Santo e ha in se stesso Cristo che lo illumina e lo acquieta, costui lo Spirito guida in maniere varie e differenti e la grazia agisce invisibilmente nel suo cuore, con la quiete spirituale. Ma prendiamo dai piaceri che vediamo nel mondo le immagini che mostrino in parte la presenza della grazia nell’anima. Succede che essi (i portatori dello Spirito) diventino gioiosi come in un banchetto regale, rallegrandosi di gaudio e contentezza indicibili. Altre volte sono come una sposa che riposa assieme al suo sposo in pace divina. Talvolta diventano come angeli senza carne, tanta è la loro lievità pur nel corpo; altre volte sono come inebriati, gai e ubriachi di Spirito, nell’ebbrezza dei divini misteri spirituali. Talvolta sono come in pianto e in tristezza per il genere umano e pregando per l’Adamo integro, levano pianti e singhiozzano, brucianti dell’amore dello Spirito per l’umanità. Talvolta si accendono di tanta allegrezza e amore dello Spirito, che se fosse possibile accoglierebbero ogni uomo nella loro carne senza distinguere tra il buono e il cattivo; tal altra si abbassano talmente davanti a ogni uomo nell’umiltà dello Spirito che ritengono se stessi peggiori e più insignificanti di tutti. Talvolta lo Spirito li mantiene in gioia indicibile.... Talvolta l’anima riposa in un gran silenzio e quiete, semplicemente beandosi dello spirito e di una calma e d’un benessere ineffabili. Talvolta l’anima è resa saggia dalla grazia nella conoscenza, in una sapienza indicibile e nella visione dello Spirito imperscrutabile, ma questo non lo si può esprimere con la lingua e la bocca. Talvolta l’uomo diventa come tutti gli altri. Perchè quando l’anima accede alla perfezione dello spirito, purificata da tutte le passioni e unita

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e fusa allo Spirito Consolatore per mezzo di una comunione inesprimibile, quando, scioltasi nello Spirito, è resa degna di diventare spirito, allora diventa tutta luce, tutta occhio, tutta gioia, tutta pace, tutta allegrezza, tutta amore, tutta misericordia, tutta bontà e mitezza”.

Sant'Isacco il Siro, un asceta ancor più severo, esprime con forza ancora maggiore queste esperienze interiori.

“La perfezione di ogni sforzo ascetico sta nelle seguenti tre cose: la penitenza, la purezza, il perfezionamento di sé. Che cos’è la penitenza? Abbandonare ciò che era prima e rattristarsene. Che cos’è la purezza? In breve: è il cuore che compatisce ogni essere creato. Che cos’è la perfezione? La profondità dell’umiltà, cioè l’abbandono di ogni cosa visibile e invisibile (il sensibile e il pensato) e la liberazione della cura per esse. “Un’altra volta gli domandarono: Che cos’è la penitenza? Rispose: “Il cuore contrito e umiliato”. “Che cos’è l’umiltà?“. “La ripetuta e volontariamente accettata mortificazione per tutto”. “E che cos’è il cuore compassionevole?”. “Lo struggersi del cuore per tutto il creato, gli uomini, gli uccelli, gli animali, i demoni e tutte le creature. Ricordando e contemplando tutti questi esseri gli occhi effondono lacrime per la compassione grande e forte che afferra il cuore. Il cuore si intenerisce per la gran pena e non può né sopportare, né udire, né vedere un qualche danno o una piccola tristezza della creatura. Perciò a ogni ora prega in lacrime per i bruti, per i nemici della verità, per quelli che gli fanno del male affinché si purifichino e si conservino; prega anche per i rettili con la grande compassione che senza misura gli nasce nel cuore, simile in questo a Dio...”. I segni di coloro che hanno raggiunto la perfezione sono: se dieci volte al giorno saranno gettati nel fuoco per amore verso gli uomini, non ne avranno abbastanza, come Mosè che disse a Dio: “Ma tu ora perdona il loro peccato, se no cancellami dal tuo libro che hai scritto” (Es. 32, 32) ; come dice il beato Paolo: “Vorrei essere io stesso anatema dal Cristo per i miei fratelli” (Rom. 9, 3) ; e ancora: “Ora io godo delle sofferenze in cui mi trovo per voi” (Col. 1, 24). Anche gli altri apostoli hanno ricevuto la morte sotto tutte le forme per amore della vita degli uomini. Il grado supremo di tutto questo è Dio che per amore della creatura ha consegnato alla morte il suo proprio Figlio...”. In un altro passo l’abate Isacco tramanda quanto segue: “Raccontano anche dell’abate Agatone che avrebbe detto: “ Vorrei trovare un lebbroso, prendermi il suo corpo e dargli il mio”. Vedi l’amore perfetto?

Così “la purezza è il cuore che compatisce ogni essere creato” e “il cuore compassionevole è lo struggersi del cuore per tutte le creature” quando gli si dischiude l’aspetto degno d’amore pieno e quindi eterno e santo di ogni creatura compresi i demoni e i “nemici della Verità”, cioè i diavoli. La penitenza comporta l’umiltà del cuore, cioè la sua mortificazione in

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tutto, l’annientamento in esso della cattiva aseità e della legge, inferiore, dell’identità. Il cuore si purifica della bruttura che lo distacca da Dio e dalla creatura e, distaccatosi dal distacco con lo sforzo ascetico, diventa casto, cioè percepisce disinteressatamente la bellezza della creatura e si accende d’amore per tutto il creato. ”Noi siamo esseri sensibili e perciò dobbiamo percepire positivamente con i sensi le sensazioni che provengono dalle cose sensibili e attraverso la loro bellezza correre a contemplare il loro creatore” (Niceta Stethatos, centuria 73, in Dobrotoljubie, pp. I 55 156). Tutti gli asceti dicono la stessa cosa, in modo più o meno chiaro, fermandosi a questa o quella svolta del cammino. Naturalmente la pienezza della purezza è proposta, non data ; però ogni volta che l’asceta sale un gradino per la “Scala del Paradiso” si svela chiaro il “sentimento della natura”. Ricordi ciò che dice san Teofane il Recluso della capacità purificatrice della creatura? Invece di citare lui, trascrivo passi dalle note di un pellegrino.

“Ora procedo ripetendo senza posa la preghiera di Gesù che mi è cara e dolce più di ogni cosa al mondo. Non ho preoccupazioni, nulla mi occupa, non vorrei guardare nessuna cosa vana e vorrei restare sempre in solitudine; per abitudine voglio una sola cosa, ripetere incessantemente la preghiera e quando lo faccio divento tutto gioioso. In questo tempo mi sono letto la Bibbia e ho sentito che ho incominciato a capirla meglio, non come prima, quando moltissime cose mi sembravano incomprensibili e spesso ero perplesso. Quando incominciai a pregare con il cuore, tutto ciò che mi circondava mi appariva esaltante: alberi, erbe, uccelli, terra, aria, luce, tutto sembrava dirmi che esiste per l’uomo, che testimonia l’amore di Dio per l’uomo e prega e canta la gloria di Dio. Grazie a tutto questo compresi quello che nella Filocalia si chiama “conoscenza delle parole della creatura” e vidi come si poteva parlare con le creature di Dio. Venni anche a conoscere per esperienza che cosa significhi il paradiso e in qual maniera il Regno di Dio si dischiuda dentro i nostri cuori”.

Il pellegrino continua raccontando:” Per circa un mese camminai senza fretta e sentii profondamente quanto fossero istruttivi i buoni esempi della vita. Spesso mi leggevo la Filocalia e verificavo tutto ciò che avevo detto all’orante cieco.

Il suo esempio edificante accendeva in me lo zelo, la riconoscenza e l’amore per il Signore; la preghiera del cuore mi dava tanta dolcezza che pensavo che nessuno fosse più felice di me sulla terra, e non riuscivo a capire come nel Regno dei Cieli ci potesse essere una gioia maggiore e migliore. Non solo sentivo questo nell’anima, ma anche tutto il mondo esterno mi appariva meraviglioso e tutto attirava ad amare e a ringraziare

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Dio. Tutto mi era come parente, in tutto trovavo raffigurato il nome di Gesù Cristo”.

In una parola, al nostro pellegrino tutta la creatura apparve come un miracolo eterno di Dio, come un essere vivo che prega il proprio Creatore e Padre. (In “Novyj Put’ “, n. 8, 1903 è stato pubblicato un articolo di P. Florenskij intitolato O sueverii in cui si parla del miracolo quale appercezione del momento divino della creatura).

Questa percezione profonda è tipica dei nostri pellegrini e molte opere letterarie ne illustrano i vari tratti.

Ho riportato qui la minima parte di un ricco materiale che spiega il nesso tra lo sforzo ascetico, la verginità dell’anima, l’atteggiamento spirituale, la compassione amorevole per la creatura da una parte e l’essere innamorato della creatura dall’altra. Spero però che basti a chiarire il nesso, il ponte che porta l’asceta alla radice assoluta del creato quando, lavato dallo Spirito Santo, separatosi dalla propria aseità, dopo aver messo in ordine se stesso, egli tocca in se stesso la propria radice assoluta; la radice dell’eternità che gli è data attraverso la partecipazione all’intimità dell’Amore Triadico. Da tutto questo sorge necessariamente un nuovo quesito: come la creatura sia pensabile in se stessa o per se stessa o come essa pensi se stessa. Si tratta del problema della Sofia.

Da La Sofia Lettera decima - stralci.

La personalità portatrice di Spirito è bella due volte: oggettivamente come oggetto di contemplazione per gli altri , soggettivamente come punto focale della contemplazione nuova e purificata di quanto la circonda. Il santo ci dischiude alla contemplazione la creatura bellissima, primordiale e questa, per la contemplazione del santo, si libera della sua corruzione: l’ecclesialità è la bellezza della vita nuova nella bellezza assoluta, nello Spirito Santo.

(La spiritualità sta al limite della bellezza creaturale; la bellezza si appressa a questo suo limite a misura che penetra dalla periferia dell’essere alla sua radice noumenica e quindi a misura che penetra nel mondo divino. La bellezza creaturale è partecipazione del celeste nell'inferiore, mentre autonoma è soltanto la bellezza celeste. Si può delineare questa scala discendente della bellezza: Bellezza in sé o Paraclito Esportatore dello Spirito (pneumatoforo), spirituale, magnifico, bello, affascinante, elegante, piacente, grazioso). S. POSAD, P Florenskij, 1909.

Ma questo fatto non può non provocare la riflessione e il quesito: come intendere questo momento santo e bello della creatura? Qual è la sua natura oggettiva? Che cos’è metafisicamente?

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Prima di fornire una risposta, è utile una riserva. L’oggetto unico e integrale dell’appercezione religiosa, sul piano del raziocinio si frantuma in una moltitudine di aspetti, in singole facce, in frammenti di sacro, tutti privi di grazia: l’alabastro prezioso è frantumato, il sacro unguento è assorbito dalle sabbie asciutte del deserto infuocato. Lo abbiamo già dimostrato nelle antinomie razionalistiche del dogma (vedi appendice a La Sofia), e adesso tratteremo dei frammenti che non sono in aperta antinomia l’uno rispetto all’altro, perchè non contraddittori ma diversi.

Ciascuna di queste facce logiche dell’esperienza immediata è per il raziocinio molto diversa dalle altre e logicamente non è affatto connessa alle rimanenti, perché soltanto l’esperienza integrale assegna a ciascuna faccia il suo posto; il nesso dei vari aspetti è sintetico, non analitico, ed è dato solo a posteriori sotto forma di rivelazione, cioè come fatto di esperienza spirituale. Però quest’ultima è non solo fatto, non solo intuizione ma anche discorso, perché il suo essere è percepito come atto creativo della stessa Verità Triuna. Quindi non soltanto la giustificazione della sintesi, ma la sintesi stessa non soggiace alla deduzione razionalistica. Lo possiamo dimostrare con un esempio. Possiamo forse immaginarci uno spazio a quattro dimensioni partendo dalle sue proiezioni tridimensionali nello spazio tridimensionale? Conoscendo soltanto due colori separati, si può forse immaginare che cosa si ottenga mischiandoli?

Lo stesso avviene nel mondo della fede. Questo mi turba grandemente. Infatti se non si costruisce tutto un sistema di concetti e non si espone uno schema compiuto per le esperienze (e io mi trovo appunto in questa situazione), è quasi impossibile decidere che cosa dire e che cosa ammettere, che cosa dire prima e che cosa dopo. Qualsiasi successione di concetti è sempre soltanto convenzionale e non realmente logica, è soltanto più o meno comoda. I singoli concetti vengono incollati l’un l’altro meccanicamente: quando l’oggetto religioso entra nella sfera del raziocinio, la congiunzione più adatta è la e. Perché non si può dire che cosa avvenga prima e che cosa avvenga dopo nell’essere eterno di ciò che si sperimenta: qui tutto è uno. Invece dal punto di vista psicologico una cosa si presenta prima e l’altra dopo, in rapporto a molte condizioni personali. Mi è difficile decidere per un altro quale successione gli sia più facile da seguire. Scrivo e so di disperdermi, perchè non posso dire in una volta sola tutto ciò che si affolla nella mia coscienza.

Servendomi di alcuni esempi concreti, ho cercato finora di fissare il tema principale della mia lettera precedente: come gli asceti percepiscono le radici eterne per cui tutto il creato affonda in Dio.

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La percezione dell’eterno sta, dal punto di vista conoscitivo, nel vedere una cosa nel suo significato, nella ragione della sua esistenza. Contemplando il valore assoluto delle creature, il santo asceta vede la ragione del loro essere oggetti voi, il loro Logos.

Siccome la ragione seconda può essere pensata in atto soltanto in quanto sia radicata nella ragione assoluta e si nutra della luce della verità, l’intelligenza di una cosa è, dal punto di vista della creatura, l’atto per cui la creatura abdica alla propria aseità, esce da se stessa e trova in Dio la propria esauriente giustificazione. In altre parole, la ragione di una cosa è, dal punto di vista della creatura, l’amore di Dio e la visione di Dio che ne deriva, un’idea particolare di Lui, un’idea relativa dell’Assoluto. Da parte dell’essere divino la ragione della creatura è invece un’idea assoluta del relativo, l’idea di Dio della cosa particolare, l’atto per cui Dio, nell’ineffabile autoannientamento della propria infinità e assolutezza, si compiace di pensare oltre che al contenuto divino del suo pensiero divino anche al finito e al limitato, l’atto che introduce nella pienezza di essere dell’intimità trinitaria il gramo semiesssere della creatura conferendole un’esistenza autonoma e autodeterminata, cioè che mette in certo senso la creatura sul suo stesso piano. Dal punto di vista di Dio, la ragione della creatura è l’amore autolimitantesi di Dio per la creatura. Abbiamo così un atto indescrivibile (nel quale si toccano e collaborano l’umiltà ineffabile dell’amore divino e l’audacia incomprensibile dell’amore creato) che penetra nella vita della Trinità divina, che è superiore all’ordine (perché il tre non ha ordine), un amore-idea-monade, un quarto elemento ipostatico che in rapporto a se stesso provoca una variazione nell’ordine

(χαταταξιν) delle Ipostasi della Santissima Trinità, la quale accondiscende a questa correlazione di Sé con la sua stessa creatura e alla definizione di Sé da parte della creatura che ne consegue e perciò “si esaurisce” o “svuota” degli attributi assoluti.

Dio rimane onnipotente, ma si comporta quasi come non onnipotente con l’opera delle sue mani, non costringe la creatura ma la convince, non la forza ma la prega. Restando in Sé “uno” , le Ipostasi si fanno “altro” rispetto alla creatura. Ciò si manifesta nell’attività provvidenziale di ogni vita singola e soprattutto nei tre successivi Testamenti (o Patti ) con l’intero mondo. In altre parole, questi tre Testamenti si manifestano ontogeneticamente in maniera esemplare e anticipatrice, nella vita personale della monade e si ripetono filogeneticamente nella storia globale di tutto il creato.

Perdonami, mio caro, questi volgari e a me invisi scalpelli e pinze coi quali devo trattare i finissimi tessuti dell’anima. Non pensare che le mie fredde parole siano “gnosi”, speculazione metafisica. Esse sono soltanto grami schemi di ciò che l’anima esperimenta.

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La monade di cui parlo non è un’essenza metafisica fornita dalla definizione logica, ma un ‘esperienza viva, un dato religioso definibile a posteriori e non a priori, con l’umiltà dell’accettazione e non con la superbia della costruzione. E’ vero che devo servirmi della terminologia metafisica, ma questi termini hanno nel mio discorso un significato convenzionale, piuttosto simbolico che strettamente tecnico, hanno quasi il significato di colori che debbono descrivere l’esperienza interiore.

Ho detto “monade”, cioè una certa unità reale che logicamente e metafisicamente come tale dovrebbe contrapporsi alle altre monadi, escludendole dalla sfera del suo Io, e che altrimenti perderebbe la propria individualità, sarebbe afferrata dalle altre monadi e con esse si fonderebbe in un’unità indistinta e amorfa. Invece nelle condizioni spirituali di cui parlo, nulla perde la propria individualità, tutto è percepito come qualcosa di interiore, di connesso organicamente al resto, di collegato attraverso il libero eroismo del sacrificio di sé, qualcosa di intimamente uno, intimamente integro, in una parola come un essere multi-uno. Tutto è uni-sostanziale e tutto è pluri-ipostatico. Lo fonde insieme non un’unità semplicemente data, spontanea, di fatto, ma un’unità realizzata da un atto eterno, un equilibrio mobile di ipostasi simile all’equilibrio variabile dell’energia nello scambio costante di energia tra i corpi radioattivi: è un moto immobile e una quiete mobile.

L’amore eternamente “svuota” ciascuna monade ed eternamente la riafferma in sé e per sé. L’amore eternamente toglie per eternamente dare, eternamente mortifica per eternamente vivificare. L’unità nell’amore è ciò che estrae ciascuna monade dallo stato di pura potenzialità, cioè di sonno spirituale, di vuoto spirituale e di opaca caoticità, e che perciò conferisce alla monade realtà, attualità, vita e risveglio. L’Io puramente soggettivo, isolato e cieco della monade, per il Tu di un’altra monade si svuota e per mezzo del Tu diventa puramente oggettivo, cioè giustificato, (...) in organo dell’Essere uno. L’amore divino che si profonde in questo Essere è l’atto creatore, per cui esso riceve la vita, l’unità e l’essere. L’unità non è un fatto ma un atto e quindi un prodotto mistico della vita, mentre l’essere è un prodotto dell’unità; il vero essere è relazione sostanziale con l’altro e moto di allontanamento da sé, che dà unità e deriva dall’unità dell’essere. Ogni monade esiste solo in quanto permette l’accesso all’amore divino, “per opera sua infatti abbiamo vita, moto ed esistenza” (Atti, 17, 28).

E’ il “Grande Essere”, non quello che pregava A. Comte, ma il vero grande, la realizzata Sapienza divina, Chochmà (hokmah), Σοφια, la Sofia o Sapienza.

(Il termine Σοφια viene tradotto con “Sapienza” ma non significa affatto una semplice appercezione passiva dei dati, non corrisponde affatto ai nostri termini ragione, conoscenza, scienza, ecc, ma racchiude un’indicazione precisa di

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creatività, di arte, di edificazione (cfr. Prellwitz, pp. 294-295), così che nel renderlo in linguaggio moderno bisognerebbe scrivere Costruttrice, Maestra,

Artista e simili. . L’etimo della parola Σοφια , come dall’equivalente sanscrito dhrobhòs significa “rendere atto, adattare” e perciò in origine σοφισ mastro, artigiano. (cfr, Prellwitz cit. ). In Omero ed Esiodo σοφια e i derivati della stessa radice sono adoperati nel senso di un sapere tecnico, cioè di una capacita di realizzare un qualche progetto nella realtà. L’ebraico Chochmah (hokhmàh) deriva da HKM, che in tutte le lingue semitiche significa ugualmente “essere potente per intelletto”, donde chakàm: saggio, sapiente. “Se in certi passi della Bibbia la sapienza è descritta come uno stato raggiungibile dagli uomini... in altri viene attribuita a Dio solo, l’unico che la possiede dall’eternità. Dobbiamo cercare la ragione di questa duplicità della dottrina biblica sull’anima umana quale soffio della divinità. La proprietà divina della sapienza come sapere perfetto è eterna e immensurabile, ma siccome l’uomo è immagine di Dio anch‘egli può ricevere a determinate condizioni questo dono celeste da Dio...” In alcuni passi “la sapienza è personificata, le viene attribuita una specie di forza autonoma nell’agire, anche se dipendente da Dio”, abbiamo cioè una “personificazione della sapienza come forza provvida e creatrice di Dio... “( prot. A.?: ROZDESTVENSKIJ Pietroburgo 1911 pp. 2-3) V: SOLOV’EV, Russija i Vselenskaja Cerkov’, I, III, pp. 304-451, specialmente i cc. III- V pp. 325-353. “Con quanta ragione in tutte le lingue si distingue la sapienza dalla ragione! La vera sapienza consiste nel riconoscere i diritti della ragione in teoria e confidare in essa il meno possibile nella prassi. Da questa contraddizione segue che il valore assoluto appartiene non al settore intellettuale ma a quello morale, nel quale non c’è nessuna contraddizione; perchè le regole “non mangiare gli altri”, oppure “non rubare più del necessario” sono ugualmente buone nella teoria come nella prassi”.

La Sofia è la Grande Radice della creatura totale (“Noi sappiamo infatti che, (..) tutta quanta la natura insieme sospira e soffre le doglie del parto” Rom. 8, 22, cioè il creato tutto integrale e non semplicemente il tutto). Per lei il creato penetra nell’intimo della vita triadiaca e ottiene la vita eterna dall’unica Fonte della vita.

La Sofia è l’essere originario del creato, l’Amore creatore di Dio “ che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rom. 5, 5).

(La concezione patristica, particolarmente di Gregorio Nisseno, dell’ “essere” uno del creato è spiegata da Antony Chrapovickij), arcivescovo di Volynja, in Nravstv idei dogmata cerkvi, Opera omnia, vol. II, ed. II, pietroburgo 1911. (Questa stessa concezione è alla base delle opere di S:(N. ) BULGAKOV e V SOLOV’EV. ) “Tutta fa storia del peccato, del piano della salvezza, della redenzione e salvezza, la dottrina dei sacramenti, ecc. ottengono alla luce di questa concezione un significato reale, mentre al di fuori di essa diventano formule vuote”).

Proprio per questo l’amore divino è il suo vero Io divinizzato, il suo “cuore”, come l’amore intertrinitario è l’Essenza divina. Perchè tutto esiste veramente solo in quanto partecipa del Dio-amore, della Sorgente

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dell’essere e della verità. Se la creatura si stacca dalla propria radice, l’attende fatalmente la morte; “perchè” come dice la Sapienza stessa “chi trova me trova la vita e ottiene il favore di Dio, ma chi si allontana da me fa torto a se stesso: tutti coloro che odiano me, amano la morte” (Prov. 8, 35-36)

La Sofia è l’angelo custode del creato, la personalità ideale del mondo. Essa è il Logos costitutivo del creato e quindi il contenuto costitutivo di Dio Logos, il “contenuto psichico” di Lui, eternamente creato dal Padre attraverso il Figlio e compiuto nello Spirito Santo: Dio pensa mediante le cose. Perciò esistere significa essere pensato, ricordato o, in ultima analisi, conosciuto da Dio, mentre chi non è da Lui conosciuto non esiste nemmeno nel mondo spirituale, nel mondi della vera realtà e il suo essere è ombra ; egli è vuoto e alla luce della Luce triradiosa è evidente che non è affatto, che semplicemente sembrò esistere. Per essere, bisogna essere conosciuto da Dio (. . “. Ma allora dirò ad essi apertamente: Io non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me” Gv. 10,14 Mt. 7, 23). Colui che è nell’Eternità “conosce” nell’Eternità, (Sapienza 2,23; “Dio creò l’uomo a immagine del suo essere eterno”) ma ciò che Egli “conosce” nell’Eternità appare nel tempo in un momento determinato. Dio è transtemporale, per Lui il tempo è un unico “adesso” dato immediatamente in tutti i suoi momenti ed Egli non crea il mondo nel tempo ; ma per il mondo, per la creatura che vive nel tempo, la creazione del mondo necessariamente si appaia a determinati tempi ed epoche.

Perchè proprio a questi tempi ed epoche e non ad altri? Penso che questo interrogativo si basi su un equivoco, sulla confusione tra il tempo cosmico e il tempo astratto. Il tempo cosmico è successione e in quanto tale conferisce la successione a tutto ciò che è dotato di successione. In altre parole esso è l’organizzazione intima per cui e in cui ciascun membro si trova necessariamente là dov’è. La successione in ogni altro caso avviene in corrispondenza a questa fondamentale e originaria “tassogenia” e quindi deve essere organizzata. La corrispondenza tra i momenti del tempo e i fenomeni avviene in forza della parentela interiore di ciascun momento dato del tempo con ciascun fenomeno; nell’ essenza di un dato momento sta anche il fatto che esso è legato a questi o quei fenomeni. Una volta stabilita questa corrispondenza, non ha senso porre il quesito di cui sopra, come non ha senso domandare “perchè il 1912 viene dopo il 1911 e non dopo il 1915”. Il discorso è totalmente diverso quando si parla del tempo nell’astrazione intellettuale. Il raziocinio separa l’aspetto esteriore del tempo dalla sua composizione anatomica interiore, afferra la forma della successione ma ne separa il contenuto. Ne risulta uno schema vuoto e indifferente di successioni, nel quale effettivamente ogni coppia di momenti, essendo

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essi impersonali, può essere spostata a piacere e il risultato non muta. ( il “Tempo” sta al “tempo” come l'Ordnungstypus di Cantor sta alla “molteplicità”: Il “tempo” ò proprio l'ordnungstypus del “Tempo”). Quando si fa passare per idea del tempo questo concetto in effetti senza senso, deve sorgere lo stupido quesito :“ Ma perché Dio ha creato il mondo tante e tante migliaia d’anni fa e non in un altro tempo?”. E’ un errore nel quale è caduto, tra gli altri, il celebre Origene (principiis, III, 5/3; PG 11, coi 327, ecc. ). Dio ha creato per noi il mondo quando al mondo si addiceva di essere creato: ecco la risposta al quesito. Ci porterebbe troppo lontano addurre le testimonianze dei Padri a favore del concetto di tempo qui esposto. Mi limiterò a citare san Gregorio il Teologo. (.... Prima della creazione del mondo)...” la Sapienza originaria dell’universo contemplava, oltre alla sostanza della Santissima Trinità, come figure ideali gli archetipi costitutivi del mondo che in seguito sarebbe stato creato da Dio, perché allora il mondo sarebbe divenuto reale. Ciò che sarà, ciò che fu e che è adesso, tutto è davanti agli occhi di Dio. Per me il tempo pone la divisione tra il prima e il poi, mentre per Dio tutto si fonde in uno e tutto si regge sui pensieri della somma Divinità”. (Slovo 4-e, o mire, trad. russa vol. IV, p. 229. )

Lo stesso padre in un altro passo scrive: “Uno dei mondi fu creato prima: é un altro cielo, l’abitacolo dei teofori, luminoso e contemplabile solo dalla mente; in esso entrerà l’uomo di Dio quando, purificata la mente e la carne, sarà reso perfetto da Dio. L’altro é il mondo corruttibile creato per i mortali, quando convenne nascesse e la bellezza degli astri che predicano Dio con la loro bellezza e grandezza, è l’abitazione regale per l’immagine di Dio. Ma sia il primo che il secondo mondo furono creati dal Verbo del sommo Iddio”. (Ivi, p. 230).

Clemente d’Alessandria dice: “ Noi esistevamo già prima della creazione del mondo, perché la nostra creazione fu decisa da Dio molto prima che noi fossimo creati e quindi noi esistevamo già prima nel pensiero di Dio, noi che in seguito diventammo creature razionali del Verbo di Dio. Per Lui siamo d’origine molto antica, perchè in principio era il Verbo”. (Esortazione agli Elleni, Korsunskij, p. 64).

Ma torniamo alla questione della Sofia, sposa eterna del Verbo di Dio, essa fuori di Lui e indipendentemente da Lui non ha esistenza e si disperde nella molteplicità delle idee delle creature ; invece in Lui riceve la forza creatrice. Essa è una in Dio e molteplice nel creato dove viene percepita nei suoi aspetti concreti come la personalità ideale dell’uomo, il suo angelo custode, cioè come il riverbero dell’eterna dignità della persona e l’immagine di Dio nell’uomo. Non è qui possibile parlare di questa “scintilla” divina, perché bisognerebbe esaminare quasi tutte le

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dottrine mistiche. Mi limiterò a rammentare come talvolta le Epistole denominino questo riverbero divino.

Per l’uomo singolo è “l’abitazione nei cieli... la sua casa eterna non costruita da mano d’uomo” (“l’abitazione celeste” (2 Cor. 5,1- 2) della quale si riveste l’uomo quando vien distrutta la sua “abitazione terrestre”. Quest’ultima sarà necessariamente distrutta non perché sia sulla terra ma perché è terrestre, cioè per essenza sua corruttibile. Importante è non che questa nostra abitazione sia ora “nei cieli”(2 Cor. 5,1)ma che sia “dai cieli”(2 Cor. 5,2), cioè è importante la sua natura e non la sua collocazione. Nell’inferno c’è pura carnalità anche se esso può non essere sulla terra (e la terra di Dio non tollererebbe su di sé “l’inferno”).

(Il diluvio, la fine di Sodoma e Gomorra, la sparizione di Atlantide, i fatti della Martinica, del Messico, ecc. , sono esempi di come la terra si scrolla di dosso i bestemmiatori e i nemici di Dio).

Nel paradiso c’è pura spiritualità anche se il santo vi si può accostare mentre ancora vive. L’immagine ideale si rivela nella creatura illuminata, nell’uomo trasfigurato Anche l’apostolo Pietro ricorda il

“tugurio”(σχηνωνµα) terrestre, cioè il carattere empirico e corruttibile (2 Piet. 1, 13-14) e gli contrappone il carattere ideale che chiama “eredità incorruttibile, incontaminata e immarcescibile, riservata nei cieli per voi” (l Piet. 1,4). Sono gli eterni padiglioni (Lc. 16,9), o i modelli di crescita spirituale dei quali parla il Signore Gesù Cristo nella parabola del fattore infedele. L’insieme di questi “molti abitacoli”, di queste immagini ideali dell’esistente, compone la vera “casa di Dio” (Ebr. 3, 6) nella quale l’uomo è “amministratore” (1 Co. 4, 12; 1 Tim. 1, 7), spesso disonesto, che trasforma la casa di Dio in una “casa di traffico” (Gv. 2, 16). “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore” (Gv. 14, 2), dice Gesù Cristo; le singole dimore sono come celle d’alveare che costituiscono la casa di Dio, il santo tempio di Dio o, con un’immagine allargata, la grande città, la Gerusalemme Celeste, la Gerusalemme suprema e santa (Apoc. 21, 2; Ebr. 12, 22, ecc. ). Lo Spirito Santo abita in questa città, la illumina (Apoc. 22, 5) e perciò detengono le chiavi della città i portatori dello Spirito che conoscono i segreti di Dio (Mt. 16, 17-19; 18, 18; Apoc. 3, 7-9, ecc. ).

La caduta della creatura significò, sul piano ontologico, l’abbandono dell’abitazione celeste la non corrispondenza dell’evolversi empirico della somiglianza a Dio con l’immagine celeste di Dio; “il caduto ha abbandonato la propria dimora” (Giuda 1,6). Ma questa corrispondenza perduta può essere riacquistata soltanto nello Spirito Santo, perchè questa città di Dio, o Regno dei Cieli, possiede se stessa solo nel Regno originario di Dio che è lo Spirito Santo, questa Sapienza possiede se stessa

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solo nella Sapienza originaria di Dio che è il Figlio, questa maternità possiede se stessa solo nell’originaria virtù generativa che è il Padre. Permeata dell’Amore trinitario, la Sofia religiosamente (non razionalmente) quasi si fonde con il Verbo, lo Spirito e il Padre, come Sapienza, Regno e paternità divine, ma razionalmente è completamente diversa da ciascuna di queste Ipostasi.

Molti mistici hanno scritto della Sofia. Vladimir Solov’ev in una lettera al conte S. A. :Tolstoj li giudica con molta sufficienza, ma in parte a ragione. Egli scrive il 27 aprile 1887 da Pietroburgo: “Nei mistici ci sono molte conferme delle mie idee ma nessun lume nuovo; inoltre quasi tutti hanno un carattere molto soggettivo e per così dire bavoso. Ho trovato tre specialisti della Sofia: Georg Gichtel, Gotfried Arnold e John Pordage. Tutti e tre ebbero un’esperienza quasi simile alla mia e questa è la cosa più interessante, ma nella teosofia tutti e tre sono abbastanza deboli, seguono Bohme ma gli sono inferiori. Penso che la Sofia si sia occupata di loro, soltanto perché sono ingenui. In fin dei conti veri uomini restano solo Paracelso, Bohme e Swedemborg e così per me si apre un campo vastissimo. Ho guardato un pochino i filosofi polacchi ; il tono generale e le intenzioni sono molto simpatiche ma non c’è nessun contenuto fanno il paio coi nostri slavofili”.

Per questa ragione e per restare nell’ambito degli scrittori ecclesiastici, mi permetto di rinviare l’analisi delle opere mistiche a uno studio posteriore più specializzato e per ora mi limito a citare un solo estratto che spiega l’idea della Sofia. Lo prendo dallo scritto intitolato il primo mondo, del nostro meraviglioso mistico, il conte M:I: Speranskij, che probabilmente risale agli anni 1812-1814. Il manoscritto si conserva nella Pubblica Imperiale Biblioteca e questo estratto si trova nell’opera, ancora non data elle stampe di A:V: Elcaninov, Materiali per lo studio del misticismo di M:I: Speranskij. Questo estratto molto denso di contenuto ci dice molto, soprattutto perchè Speranskij ebbe un’educazione teologica e ortodossa e ricevette una conferma, forse affrettata ma autorevole, della propria ortodossia dal vescovo Teofane il Recluso. Tuttavia, per i riferimenti in base ai quali è stata data la “conferma”, il giudizio del vescovo Teofane appare non soltanto affrettato ma insufficientemente motivato. (cfr Elcaninov cit, pp. 109-1 IO). «Come la donna (cioè Eva), questa prima donna non fu né creata né generata ma costituita (aedificata) separando una parte dell’essere proprio del Figlio e questa è la prima e originaria separazione, la prima vittima di obbedienza offerta al Padre, il primo grado della umiliazione (exinanitionis) che poi venne portata fino alla morte e alla morte di croce. Questa donna si chiama Sofia. Essa è la conoscenza che hanno il Padre e il Figlio; ma è la contemplazione del loro desiderio, lo specchio in cui si

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riflette la loro Gloria. Per il Padre essa è figlia perchè costituisce parte del Figlio; per il Figlio è sorella secondo la legge dell’amore paterno; per la legge della riproduzione è sua sposa, per le generazioni future è madre di tutto ciò che è fuori di Dio, perchè essa stessa è il primo essere esteriore. Il Figlio ha affidato alla donna l’edificazione della legge dell’essere, riservando a se stesso soltanto la legge dell’amore. Come Eva, partecipando della gloria che in origine era in Adamo, ebbe il diritto di essere madre di tutti i viventi sulla terra, così l’Eva eterna, partecipando del seme celeste, divenne madre di tutti coloro che sono nei cieli. Ma chi sono costoro? Dèi, perchè in primo luogo il loro seme in principio è divino, in secondo luogo questo stesso seme sarebbe infruttuoso se la forza del Figlio, maschile, non coprisse della sua ombra la madre, femminile. In questa maniera nacque il mondo degli spiriti primigenii, archetipi e modelli di tutte le creature venture. E la schiera degli angeli incorporei esclamò: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli”, quando ancora non esisteva la terra”. Questo estratto ha una nota fortemente panteistica e certe espressioni come “separare parte dell’essere proprio del Figlio” non sono certamente ortodosse; però la sua idea fondamentale non contraddice né la dottrina biblica né l’ermeneutica patristica.

L’idea della Sofia-Sapienza preesistente al mondo, della Gerusalemme celeste, della Chiesa nel suo aspetto celeste, del Regno di Dio come persona ideale della creatura, del suo angelo custode e ancora del sistema ipostatico delle idee creatrici di Dio, del vero polo e del momento incorruttibile dell’essere creato, è riccamente disseminata in tutta la Scrittura e nelle opere dei Padri. Non citerò tutte queste testimonianze per due ragioni: primo perchè ne ho esaminate una parte in un’opera dedicata alla Chiesa, secondo perché riservo il materiale restante a un’opera particolare sulla Sofia. Mi limito pertanto ad alcuni esempi. Nella parabola del giudizio universale il Signore Gesù Cristo dice: “Allora il re dirà a coloro che sono alla sua destra: “venite, o benedetti del Padre mio, prendete possesso del Regno preparato per voi dalla fondazione del mondo” (Mt. 25, 34). Questo è un passo, ma nel Vangelo ce ne sono altri dove il Regno di Dio ha chiaramente il significato di una realtà preesistente al mondo e transfinita.

(La traduzione letterale del passo di Matteo, dà: «dalla composizione” del mondo, non “dalla fondazione”del mondo. La traduzione tedesca di Lutero, quella francese di Osterwald, la traduzione latina di Bexa, sebbene con dei sinonimi, concordano. Ma nonostante questa concordia dei traduttori, Origene afferma che la parola constitutio , già nel suo tempo impiegata per indicare l’atto della formazione del mondo, è una

traduzione infelice di χαταβολη. Secondo lui bisognerebbe tradurre con “precipitazione”, oppure “buttar giù”, in quanto l’equivalente etimologico di

χαταβολη è esattamente “butto dall’alto in basso”).

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Un esempio luminoso può essere la visione di Giovanni che “vide la città santa, Gerusalemme nuova, che scende dal cielo, da vicino a Dio, preparata come sposa che è stata ornata per il marito” (Apoc. 21, 2), e la descrizione che segue della “…donna, la sposa dell’Agnello... della grande città, della santa Gerusalemme che scende dal cielo da vicino a Dio (ivi 21, 9-10). Questo passo ricorda le parole, senza identificarsi con le medesime: ”Allora (cioè negli ultimi tempi) apparirà la sposa e comparendo si mostrerà lei che oggi è nascosta dalla terra”( Esdr. 7, 26).

Non moltiplicheremo gli esempi: basti ricordare che esiste una corrente della teologia biblica secondo la quale il Regno di Dio ha il significato esclusivo di grandezza trascendente premondana che deve scendere catastroficamente sulla terra nell’ultimo giorno. Non occorre dire che nell’apocalittica giudaica proprio questa era l’idea imperante. Nella Dottrina dei dodici apostoli le preghiere eucaristiche fanno eco a questi concetti: “Ricorda, Signore, la tua Chiesa, liberala da ogni male e perfezionala nel tuo amore e raccoglila santificata dai quattro venti nel Tuo Regno che Tu le hai preparato, perchè tua è la potenza e la gloria nei secoli. Venga la grazia e passerà questo mondo.... “. Nella cosiddetta Seconda lettera di san Clemente Romano ai Corinzi, che in realtà è l’esortazione di un predicatore ignoto (probabilmente un carismatico) che venne composta a Corinto prima della metà del II secolo, l’idea della preesistenza della Chiesa è chiara e dominante: “Così, fratelli, facendo la volontà del Padre nostro Dio noi saremo della Chiesa prima, creata prima del sole e della luna. Se invece non faremo la volontà del Signore, saremo come dice la Scrittura: “La mia casa è divenuta una spelonca di ladroni” (Ger. 7, 11; Mt. 21, 13). Perciò scegliamo di essere della Chiesa viva per essere salvati. Non credo che non sappiate che la Chiesa viva è “il corpo di Cristo” (Ef. 1, 22-23), perchè dice la Scrittura: “Dio creò l’uomo maschio e femmina” (Gen. 1,26). Il maschio è Cristo, la femmina è la Chiesa(...). Anche i libri dei profeti e gli apostoli dicono che la Chiesa non è di adesso ma dall’alto, perché essa fu spirituale come anche il nostro Signore Gesù e si manifestò negli ultimi giorni per salvarci. La Chiesa, essendo spirituale, si manifestò nella carne di Cristo, si rese manifesta a noi e perciò se qualcuno di noi la osserverà nella carne e non la distruggerà, la riceverà di nuovo nello Spirito Santo, perchè la carne stessa è simbolo dello Spirito.

Quindi nessuno che abbia distrutto il simbolo (αντιτυπον) parteciperà dell’autentico (αυδεντιχον); non è detto forse: “Riguardate la carne per partecipare dello Spirito?” Se noi diciamo che la carne è la Chiesa e lo Spirito è Cristo, chi disonora la carne disonora la Chiesa. Costui non riceverà lo Spirito che è Cristo. La carne può ricevere la vita e l’immortalità quando ad essa si unisce (letteralmente; attaccandosi ad essa) lo Spirito Santo e nessuno può dire né balbettare di ciò che il Signore ha preparato ai suoi eletti” (1 Cor. 2, 9).

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Qui Gesù Cristo secondo la sua divinità è identificato con lo Spirito Santo, cosicché apparentemente abbiamo una Divinità in due Persone, mentre la terza Persona è sostituita dalla Chiesa. Ma questo “biunitarismo” è la conseguenza di un’insufficiente articolazione verbale e logica dei concetti mentre è straordinaria la penetrazione religiosa; questo “biunitarismo” mostra soltanto il nesso che per la coscienza religiosa immediata lega le idee dello Spirito, del Cristo, della Chiesa, del creato e di qualcos’altro ancora (di cui diremo in seguito). Da rilevare che nella “Lettera”, vicina, nell’impostazione generale, al pensiero del Pastore di Erma che secondo Zahn è dell’anno 100, le Ipostasi dello Spirito, del Figlio di Dio e della Chiesa talvolta chiaramente si distinguono, tal altra chiaramente si identificano. Nella “IX Similitudine”, l’Angelo di penitenza, che guida Erma, dichiara: “ Voglio mostrarti tutto ciò che ti ha mostrato lo Spirito Santo il quale ha parlato con te nella figura della Chiesa: questo Spirito è il Figlio di Dio”. Sarebbe estrema incomprensione della psicologia religiosa vedere in questa identificazione semplicemente un equivoco, una confusione. Non è così. Quanto più immediata e ispirata fluisce la vita del credente, tanto più globale e compatta gli appare la fede; i singoli lati della fede si frazionano in atomi solo per la teologia delle scuole, mentre nella vita viva ciascuno di essi serba sì la sua autonomia ma si intreccia con gli altri tanto strettamente che un’idea richiama insensibilmente l’altra. Per il teologo delle scuole è facile dire che i concetti di Chiesa, Spirito Santo e Figlio di Dio sono distinti, è facile perchè nella sua mente sono soltanto concetti. Invece per il credente, per il quale sono realtà impossibili a esperimentarsi l’una indipendentemente dall’altra, realtà che si compenetrano e si collegano a vicenda, per il credente che le percepisce nella loro immediatezza viva e sente pienamente che la Chiesa è il corpo di Cristo e la pienezza dello Spirito inviato da Cristo, è doloroso tracciare le divisioni e le delimitazioni recise, che incidono nel corpo vivo. Il discorso della fede non è affatto quello della teologia e la fede ricopre la sua conoscenza della verità dogmatica di vesti simboliche, di un linguaggio figurato che ammanta di contraddizioni successive la verità e profondità supreme della contemplazione. (… )

Ritorniamo alla dottrina della Sofia che ritroviamo anche nell’asceta del secolo IV che più di tutti difese e fondò asceticamente l’idea della pneumatoforia e della divinizzazione del creato. Basterà aggiungere che con la sua Vita di Antonio egli suscitò l’entusiasmo per il monachesimo e forse spinse decisamente sulla via dell’ascesi tutta una corrente della storia ecclesiastica: hai capito che parlo di Atanasio, santo e grande. Egli torna più volte all'esegesi delle parole, famose nelle dispute ariane, con cui la Sapienza dice di se stessa “Dio mi creò fin dall’inizio del suo potere, prima delle sue opere” (Prov. 8,22), e cercando ripetutamente di

spiegare il termine εχτιοε, tanto allettante per gli ariani, intende per

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Sapienza cose molto diverse: una volta la natura umana di Cristo un’altra il suo corpo, una terza la Chiesa, una quarta il lato del mondo creato rivolto all’eternità. Ma questa diversità è soltanto apparente, perchè tutti questi modi d’intendere la Sapienza sono la medesima Sofia come unità creata da Dio delle definizioni ideali del creato, la medesima Sofia percepita sotto aspetti diversi ma sempre essere globalizzante il creato.

Eccoti come Atanasio intende questo momento ideale dell’essere creato:

“Benché la Sapienza unigenita e originale di Dio tutto crei ed edifichi... perchè il creato non solo esistesse ma esistesse degnamente, Dio si compiacque che la sua Sapienza discendesse alle creature; cosi che su tutte le creature in genere e in ciascuna in particolare fosse posto un certo sigillo e una somiglianza all’immagine di lei e che ciò che era stato portato all’essere si rivelasse cosa sapiente e degna di Dio. Siccome, poi, in noi e in tutte le cose esiste questo sigillo della sapienza creata, la verace e creatrice Sapienza, assumendosi ciò che si addice al proprio sigillo dice di se stessa: “Dio mi creò nelle sue opere”. Lo stesso Signore chiama in certo senso suo ciò che si direbbe la Sapienza esistente in noi, e benché Egli in quanto Creatore non sia creato, tuttavia a causa della sua immagine creata nelle cose, Egli lo dice come di se stesso. Lo stesso Signore ha detto: “Chi accoglie voi accoglie me” (Mt. 10, 40) ; quindi siccome c’è in noi il suo sigillo, Egli pur non essendo nel numero delle cose create, ma essendo create la sua immagine e somiglianza nelle cose dice quasi fosse Egli stesso questa immagine: “Il Signore mi creò fin dall’inizio del suo potere, prima delle sue opere, fin d’allora”. Come ho già detto, il sigillo della Sapienza è stato impresso nelle cose perchè il mondo riconosca nella sapienza del creatore il Verbo e attraverso il Verbo il Padre. Paolo dice la stessa cosa: “Perchè ciò che di Dio si può conoscere è palese in essi, avendolo Iddio stesso manifestato. Sì, gli attributi invisibili di lui, l’eterna sua potenza e la sua divinità, fin dalla creazione del mondo si possono intuire con l’applicazione della mente, in base alle sue opere” (Rom. 1, 19-20). Perciò il Verbo non è per essenza una creatura; ciò che dicono i Proverbi, infine, si riferisce alla sapienza che è, e si dice che è, in noi. Se (gli ariani) non credono neanche a questo, rispondano: esiste nelle creature una qualche sapienza? Se non esiste, perchè l’Apostolo accusa dicendo: “Infatti non seppe con la sua saggezza conoscere Dio nella manifestazione della sapienza divina? (1 Cor. 1, 21). Se non c’è sapienza, perchè nella Scrittura si incontra “una quantità di sapienti”? Infatti sta scritto: “E’ cauto il saggio e fugge dal male”; “con la saggezza si edifica la casa” (Prov. , 6, 26; 14, 16 24, 36). E l’Ecclesiaste dice: “La sapienza dell’uomo rende sereno il suo volto” (8, 1); e rimprovera gli stolti: “Non dire: perché in passato andava meglio che non ora? “(7, 11). Il figlio di Sirach (Ecclesiastico) dice che Dio diffuse la sapienza in tutte le sue opere, fra tutti i viventi e la elargì a quanti lo amano (1, 10); ora questa diffusione è il segno non dell’essenza della Sapienza, originaria e unigenita ma della Sapienza rappresentata nel mondo. Perciò non è strano che questa Sapienza creatrice e vera, di cui sono impronta la sapienza e la scienza diffuse nel mondo, dica in certo senso di se stessa: “Il Signore mi creò nelle sue opere”. Perché nel mondo non c’è la Sapienza creatrice ma la sapienza creata nelle cose, grazie alla quale “ I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani dichiara il firmamento” (Sal. 18, 2). Se gli uomini accolgono in sé anche questa sapienza, riconosceranno la vera sapienza di Dio, riconosceranno che sono stati effettivamente creati a immagine di Dio”. (S. Athanasii Arch. Alexandr. Opera omnia... opera ci studio Monachorum Ordinis s. Benedicti, Parigi 1789, voi. I, 2, p. 675 (Epistola a Serapione vesc. di Tmuida).

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La Sapienza creata, di cui scrive Atanasio, non si limita di certo a essere un processo psicologico o gnoseologico della vita interiore del creato ma è soprattutto la natura metafisica dell’essere creato. La Sapienza nel creato non è soltanto attività ma anche sostanza, ha carattere sostanziale, concreto, reale. Ciò diventa ancor più chiaro nell’eloquente paragone proposto da Atanasio. Egli raffigura il creato con l’immagine di una città la cui costruzione un re affida al figlio. Il principe ereditario incide il proprio nome su ogni edificio per preservarlo da ogni attacco in nome dell’autorità paterna oltre che per lasciare memoria di sé e del padre. Se adesso chiedono al principe ereditario come è la città ed egli risponde: sicura, perché con il permesso di mio padre io sono raffigurato in ogni edificio e il mio nome è stato posto su questi edifici, egli dichiara con tali parole che è creata non la sua essenza ma la sua immagine mercè il suo nome. Allo stesso modo la vera Sapienza (cioè il Verbo) risponde alla sapienza creata meravigliata (cioè alla Sofia) il Signore mi creò nelle cose perchè c’è in esse la mia immagine; ecco fin dove mi sono abbassata nell’opera creatrice.

Il paragone proposto da Atanasio non è pura invenzione ; basti ricordare l’usanza generale di incidere il nome dell’architetto sull’edificio, oppure all’uso ancor più curioso dei re babilonesi di timbrare ogni mattone con il loro nome nelle costruzioni che innalzavano. Ma per capire il vero significato di quest’uso e il senso del paragone di Atanasio che vi si richiama, bisogna rammentare la concezione antica del nome quale reale idea-forza, che dà forma alla cosa e misteriosamente ne regge l’essenza profonda.

Il principe ereditario di Atanasio, mettendo il proprio nome sugli edifici, immette nel loro essere una nuova essenza misteriosa, conferisce ad essi una forza mistica. Atanasio continua a servirsi del paragone ricordando direttamente la Chiesa: “Di nuovo non dobbiamo meravigliarci se il Figlio parla dell’immagine esistente in noi come di Se stesso e se a Saulo, che perseguitava la Chiesa che è sua immagine e somiglianza, parlò come se perseguitasse Lui stesso: “Saulo, perché mi perseguiti?” La vera Sapienza, il Logos, dice, “creò” dal punto di vista della Sapienza introdotta nel mondo e nelle cose, dal punto di vista della sua Somiglianza, come parlando dell’impronta della Sapienza che è nelle cose. La Sapienza originaria è creatrice ed edificatrice, mentre la sua impronta penetra nelle cose come immagine dell’immagine. Il Verbo la chiama ”inizio delle sue vie perché essa diviene una specie di inizio e quasi di germe della conoscenza di Dio. Contemplando questa Sapienza creata nel mondo e in se stesso, l’uomo attinge la vera sapienza e da essa “si eleva fino al Padre” (Gv. 14,

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9; 1 Cv. 2, 23). Atanasio parafrasa la frase “Quando egli fissava i cieli, io ero là” (Prov. 8, 27) come segue: “Tutto ha ricevuto l’essere da Me e per Me; siccome è conveniente immettere la Sapienza nelle cose, Io, benché secondo l’essenza rimanessi con il Padre, per accondiscendenza verso le creature imprimevo la mia immagine in esse secondo la loro ricettività, affinché l’intero mondo fosse come un solo corpo, non in discordia, ma in armonia con se stesso. Perciò tutti coloro che conforme alla sapienza loro accordata guardano con retto intelletto alle cose create, possono anch’essi dire: “In forza dei tuoi giudizi tutto si regge” (Sai. 118, 91). E coloro che trascurano di farlo, ascoltino la parola di Paolo; “ Per questo Iddio li diede, secondo le voglie dei loro cuori, in balia dell’impurità, così che giunsero al più profondo avvilimento dei loro corpi.” (Rom. 1, 19-25). E ancora: “Dacché infatti il mondo non seppe con la sua saggezza conoscere Dio nelle manifestazioni della Sapienza divina, Dio si compiacque di salvare i credenti mediante la stoltezza della predicazione” (1 Cor. 1, 21).

La Sofia creata, l’impronta divina della creatura, è “immagine e ombra della Sapienza”, ma realizzata e impressa nel mondo sperimentale, nel tempo. Benché creata, essa precede il mondo, è il complesso ipostatico premondano dei disegni divini su quanto esiste. Sant’Atanasio, nel fare questa affermazione, si appella a san Paolo (Ef. 1, 3-4): “Benedetto Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale ci ha benedetti con ogni sorta di benedizioni spirituali, nelle regioni celesti, in Cristo. Così egli ci ha prescelti in lui, prima della fondazione del mondo, a esser santi e senza macchia al cospetto suo, avendoci nel suo amore predestinati a essere figli adottivi per Gesù Cristo. E così”, dice sant’Atanasio, “come ci avrebbe scelto prima se non avessimo avuto l’essere, se non fossimo prefigurati in Lui, come Egli stesso ha detto?” Più avanti il santo Padre spiega che la possibilità, per noi, della “vita eterna” si basa proprio su questa prefigurazione nel Signore, su questa nostra radice eterna. Da notare che questa concezione dell’aspetto divino della creatura la sostiene Atanasio, il quale più di ogni altro è lontano da ogni commistione panteistica della creatura con il Creatore, e spese tutta la vita a condannare gli eretici che tentavano di cancellare il confine tra il Creatore e la creatura. Perciò la testimonianza di Atanasio è particolarmente significativa.

Il dogma dell’unisostanzialità della Trinità, l’idea della divinizzazione della carne, la necessità dell’ascetismo, l’attesa dello Spirito Consolatore, l’affermazione del valore incorruttibile premondano della creatura, sono i Leitmotiv del sistema dogmatico di Atanasio, tanto legati l’uno all’altro che non si può toccarne uno senza scoprirvi tutti gli altri. Su questi motivi fondamentali si basa anche il presente libro, tanto che si può affermare che proviene dalle idee di sant’Atanasio il Grande.

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La Sofia partecipa alla vita della Divinità triipostatica, penetra nel seno trinitario e si comunica all’amore divino. Ma essendo la Persona quarta. creata e quindi non consustanziale, essa non forma l’unità divina, non è l’Amore ma soltanto entra nella comunione dell’Amore, le è permesso entrare in questa comunione per l’umiltà ineffabile, inattingibile, impensabile di Dio. Essendo quarta Persona, essa per beneplacito divino (e mai comunque per natura sua!) immette una diversità nel rapporto fra sé e la provvidenziale azione delle Ipostasi Trinitarie e, rimanendo sempre la stessa per la Divinità Unitrina, è in se stessa diversa in rapporto alle Ipostasi; l’idea di lei acquista sfumature diverse a seconda dell’Ipostasi che noi contempliamo.

Dal punto di vista dell’Ipostasi del Padre

la Sofia è la sostanza ideale, il fondamento del creato, del cui essere è la potenza o la forza;

Dal punto di vista del Verbo

la Sofia è la ragione del creato, il suo senso, la sua verità e giustizia,

Dal punto di vista dell’ipostasi dello Spirito

la Sofia è la spiritualità del creato, la sua santità, purezza e immacolatezza, cioè bellezza.

Questa idea triuna di fondamento-ragione-santità si fraziona nel nostro intelletto raziocinante e peccatore, presentandosi nei tre aspetti, che si escludono a vicenda, di fondamento, di ragione e di santità. Che cosa ha in comune il fondamento del creato con la sua ragione o con la sua santità? Per l’intelletto corrotto, cioè per il raziocinio, queste idee non sono affatto integrabili in una immagine unitaria: in forza della legge d’identità, sono impenetrabili a vicenda.

C’è di più: la Sofia in rapporto alla economia divina possiede ancora tutta una serie di aspetti ulteriori che ne frantumano l’idea una in una moltitudine di concetti dogmatici. Anzitutto la Sofia è il germe e il centro della creatura redenta, il Corpo del Signore Gesù Cristo, cioè la natura creata assunta dal Verbo Divino. Solo compartecipando in lui, cioè includendoci e quasi incastonandoci nel Corpo del Signore noi riceviamo dallo Spirito Santo la libertà e una misteriosa purificazione. In questo senso la Sofia è l’essere preesistente e in Cristo purificato del creato, la Chiesa nel suo aspetto celeste. Ma siccome dallo Spirito Santo proviene la purificazione anche dell’aspetto terrestre del creato, del suo contenuto empirico, la Sofia è anche la Chiesa nel suo aspetto terrestre, cioè l’insieme di tutte le persone che hanno già intrapreso il cammino ascetico della restaurazione e con il loro aspetto empirico sono entrate nel Corpo di

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Cristo. Siccome la purificazione è opera dello Spirito Santo che si rivela alla creatura come verginità, come castità interiore e immacolatezza umile (che sono i principali doni accordati al cristiano dallo Spirito), la Sofia è lo Spirito in quanto divinizza la creatura. In questo senso la Sofia è verginità, come forza suprema che dà l’integrità; ora la portatrice della verginità, la vergine nel significato proprio ed esclusivo del termine, è Maria, la Vergine graziosa, ripiena di grazia (Le. 1, 28) per opera dello Spirito Santo, ripiena dei doni di Lui e come tale la vera Chiesa di Dio. il vero Corpo di Cristo, perché da lei provenne il Corpo di Cristo.

Se la Sofia è tutta la creatura, l’umanità, che è l’anima e la coscienza della creatura, è la Sofia per eccellenza. Se la Sofia è tutta l’umanità, la Chiesa, che è l’anima e la coscienza dell’umanità è la Sofia per eccellenza. Se la Sofia è la Chiesa, la Chiesa dei santi, che è l’anima e la coscienza della Chiesa, é la Sofia per eccellenza. Se la Sofia è la Chiesa dei santi, la Madre di Dio, interceditrice e mediatrice del creato davanti al Verbo di Dio che giudica la creatura e la taglia in due, “purificazione del mondo”, è ancora la Sofia per eccellenza. Il segno autentico di Maria piena di grazia è la sua verginità, la bellezza della sua anima, e tutto questo è la Sofia. La Sofia è “l’intimo dei cuore dell’uomo con l’ornamento incorruttibile di uno spirito dolce e sereno” (1 Piet. 3, 4), il vero ornamento dell’essere umano che traspare attraverso i suoi pori, risplende nel suo sguardo, si effonde nel suo sorriso, esulta di gioia ineffabile nel suo cuore, si riflette in ogni suo gesto, circonda l’uomo di una nube profumata e di un nimbo luminoso nei momenti di esaltazione spirituale, lo rende “superiore al magma terreno” così che, restando nel mondo, egli diventa “non del mondo” e supermondano. “La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno sopraffatta” (Gv. 1, 5).

Questo è il carattere non terrestre della persona portatrice dello Spirito, bella. La Sofia è la bellezza. Rivolgendosi alle donne, l’apostolo Pietro dice “Il vostro ornamento non sia quello esteriore: inanellarvi i capelli, ingioiellarvi di ori o sfoggiare vestiti; ma l’intimo del cuore con l’ornamento incorruttibile di uno spirito dolce e sereno, così prezioso al cospetto di Dio” (1 Piet. 3, 3-4). Solo la Sofia è la bellezza sussistente di tutto il creato; tutto il resto è orpello, sfoggio di vestiti e la persona sarà spogliata di questo luccichio fantomatico alla prova del fuoco. Ecco alcuni aspetti della Sofia nei loro rapporti vicendevoli. Passiamo ora ad esaminarli nei particolari.

La purezza del cuore, la verginità e l’immacolatezza casta sono condizione indispensabile per contemplare la Sofia-Sapienza, per essere affiliati alla Gerusalemme Celeste che è “madre nostra” (Gal. 4,26). E’ chiaro perché. Il cuore è l’organo per l’appercezione del mondo celeste,

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con il cuore si contempla l’angelo che è la radice originaria della persona e attraverso questa radice si stabilisce un nesso vivo con la Sofia, madre della personalità spirituale, angelo-custode di tutto il creato, consustanziale all’amore ricevuto dallo Spirito attraverso la Sofia. Nell’amore è dato alla persona di contemplare Dio-amore (cfr Mt. 18,10) e ottenere la beatitudine: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt. 5, 8); vedranno Dio con il loro cuore purificato e nel loro cuore. La purezza data dallo Spirito Santo elimina le escrescenze del cuore, ne mette a nudo le radici eterne, ripulisce le vie attraverso le quali la luce infallibile del Lume triipostatico penetra nella coscienza umana. E allora tutto l’essere interiore, lavato dalla purezza, è colmato dalla luce della conoscenza assoluta e dalla beatitudine della Verità nitidamente esperimentata. (P. FLORENSKIJ, Rodost’na veki, Sergiev Fosad 1907).

Secondo san Gregorio Nisseno, “Il puro di cuore non vedrà in sé null’altro che Dio. La grazia si effonde a larghi fiotti attraverso tutti i pori purificati del cuore e, come dice san Macario il Grande, “ciò che è dalla grazia è gioia, pace, amore, verità”. In altre parole, la Sofia soggettivamente è percepita come mediatrice di gioia e così si identifica con la gioia. La purezza del cuore è beatitudine, la verginità dell’anima è gioia e perfino una certa allegria. . (“E’ della castità avere qualcosa di gaio”), scrisse Gregorio nei suoi Distici gnomici.

Ma se l’integrità-verginità dell’anima è condizione indispensabile per poter contemplare la Gerusalemme Celeste, è vero anche il contrario: soltanto il “Contatto con altri mondi” (Dostoievskij, I demoni ), lo scavo fino alle radici spirituali dell’essere e la contemplazione in stato di grazia di sé in Dio possono dare la forza di realizzare la verginità. Per essere integri è necessario “discernere la propria natura nella Gerusalemme Celeste”, bisogna vedersi figlio della comune madre che è la verginità preesistente. L’autore della prima Lettera sulla verginità, scritta nel III secolo e un tempo attribuita a san Clemente Romano, si domanda “Fratello, vuoi essere vergine? Sai quanti sforzi e difficoltà ci sono nella vera verginità?...Sapendo condurre come si deve la battaglia, combatti armato della forza dello Spirito Santo avendo scelto questa via difficile per ottenere la corona splendente? Discerni tu la tua natura nella Gerusalemme Celeste?”

Non ci deve meravigliare questa contraddizione fra la tesi e l’antitesi, cioè tra l’affermazione “la verginità è fonte della contemplazione della Sofia” e l’affermazione “la contemplazione della Sofia è fonte della verginità”. Essa è soltanto un caso particolare della grande antinomia tra la grazia divina e lo sforzo umano, rivelantesi in ogni problema dell’edificazione

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salvifica (economia), cominciando dai destini di interi popoli per finire con le azioni più comuni, per non parlare dei sacramenti. Ma per me ora è importante solo stabilire l’indissolubilità e l’indivisibilità dell’idea verginità-contemplazione, le quali spiegano perché negli scritti della Chiesa, quanto più intensamente si parla della purezza, tanto maggiore è l’importanza attribuita all’idea della carismaticità, del portare lo Spirito, della divinizzazione, e tanto più chiara è la comprensione del valore assoluto detta creatura.

Ripeto, e non mi stancherà di ripetere, che l’ascetismo cristiano e la valutazione assoluta del creato, la verginità e il portare lo Spirito, la conoscenza della divina Sapienza e l’amore per il corpo, lo sforzo ascetico e la conoscenza della verità assoluta, la fuga dalla corruzione e l’amore, sono lati antinomici della medesima vita spirituale strettamente connessi come le facce di un decaedro regolare. Già quando parlai della contemplazione del creato nella sua unità e dell’idea della Sofia secondo i Padri, insistetti su questo nesso e non credo necessario addurre ora altri esempi. Richiamerà alla memoria soltanto il tono ditali considerazioni con le parole di sant’Isacco di Siro: “Prega perché non s’allontani da te l’angelo della castità, perché il peccato non impianti in te la battaglia di fuoco e non ti separi dall’angelo... Preparati con tutta l’anima alle tentazioni del corpo e attraversale a nuoto con tutte le membra e riempi di lacrime i tuoi occhi, perché il tuo custode non si allontani da te”. L’archetipo divino dell’uomo, il suo angelo custode, è soprattutto il custode della sua purezza, della sua castità, è l’angelo della castità e perciò “gli angeli di Dio non tollerano il fetore dei desideri impuri e delle immaginazioni invereconde “.

In quasi tutte le opere ascetiche ritroviamo l’idea che esiste un nesso tra la verginità e l’umiltà e che i desideri impuri sono conseguenze della superbia e dell’autoaffermazione egoistica dell’Io. Abbiamo visto che la castità è la suprema libertà dai propri desideri, è una forza di grazia che opera solo se il cristiano si dà a Dio, e ciò conferma l’osservazione dei Padri. Invece l’appartarsi egoistico da Dio porta alla schiavitù verso i propri desideri, cioè all’impurità, e rende l’uomo “idolo di se stesso”, come dice Andrea Cretese nel “Grande Canone”. Siamo di nuovo all’idea fondamentale della diversità tra la legge dell’identità spirituale e la legge dell’identità carnale: la prima rende me come sono veduto in Dio, di me stesso, la seconda idolo di me stesso.

Il modello della purezza verginale è la Purissima e più che benedetta Madre del Signore, umile nella sua eterna purezza, pura nella sua immutabile umiltà. In lei, sposa dello Spirito Santo e da lui eternamente purificata, sgorga la fonte viva dell’universale purezza, “sorgente eternamente sgorgante dell’intelletto”. In lei zampilla l’acqua viva che

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placa ogni sete e spegne nell’anima il fuoco della geenna. Per questo la Chiesa la invoca con le parole: “Purificazione del mondo, Madre di Dio”. ( Questa e le espressioni che seguono sono tolte dall’iconografia bizantina).

Infatti è “colei che disperde l’oscura accozzaglia delle nostre passioni e brame...la colonna di fuoco che ci mostra il cammino della salvezza in mezzo alla tenebra del peccato...che ci libera dal fuoco delle passioni con la rugiada delle sue preghiere”. Se il Signore è il capo della Chiesa, la mite Maria è “la trasmettitrice del divino favore”, il vero cuore per mezzo del quale la Chiesa distribuisce ai suoi membri la vita, l’eternità e i doni dello Spirito, la vera “datrice di vita”, (Questo e gli altri nomi in corsivo indicano le icone miracolose della Madre di Dio) la “vera fonte vivificante”. Perchè Maria è “la Signora tutta immacolata, la sola pura e benedetta... la piena di grazie... la sola colomba incorrotta e buona”. Essa è il simbolo vivo e il principio del mondo che si purifica, la purificatrice; è il roveto ardente circondato dalle fiamme dello Spirito Santo, l’approvazione viva e anticipatrice dello Spirito sulla terra, il tipo della pneumatofora. Se lo Spirito è la bellezza dell’Assoluto, la Deipara è la bellezza del creato, “la gloria del mondo” che abbellisce ogni creatura. “I terrestri si rallegrano ornandosi della tua gloria divina”, perchè la bellezza accolta nel cuore è gioia. E’ la bellezza del mondo, se contemplata dal mondo in pia emozione, è la gioia del mondo, il gaudio inatteso, la tenerezza sua, la sua consolazione e conforto, il dolce bacio con cui il mondo celeste bacia il mondo inferiore. E’ la gioia di tutte le gioie, come ci ha insegnato san Serafino a chiamare l’icona della Tenerezza , l’unica icona che egli tenesse nella propria cella e davanti alla quale operava la propria salvezza.

L’icona della Tenerezza (Umilenie) è degna di nota per il fatto che la Deipara in essa viene rappresentata senza il bambino e addirittura prima del di Lui concepimento, nell’istante del “gioioso messaggio angelico”, cioè come vaso purissimo dello Spirito. il beato Serafino teneva accesi davanti a questa icona sette candelabri che occupavano quasi tutta la cella, e anche questo simboleggia lo Spirito Santo nei suoi sette doni, i sette spiriti supremi. (N. A. MOTOVILOV, Velikoe v malom, ed. 2, Carskoe Selo 1905).

La Deipara è la gioia e “l’interceditrice della gioia del mondo”. Nella contemplazione della bellezza celeste c’è il lenimento della tristezza, la gioia di tutti gli afflitti, la consolazione nelle pene e nelle afflizioni. La Madre di Dio è l’interceditrice solerte, la ricerca dei perduti, la mallevadora dei peccatori, l’intenerimento dei cuori malvagi, Ella guarda alla tristezza, è colei che velocemente esaudisce, l’esauditrice, la liberazione di chi patisce disgrazie, la guaritrice misericorde, l’angelo custode del mondo, la protezione del mondo “più ampia della nube”, colei che mostra la via al mondo e con una colonna di fuoco o di ombra Io conduce alla Terra Promessa, alla vita eterna. Essa è il muro incrollabile che difende il mondo, la sua liberatrice, l’interceditrice possente per tutto l’universo. Di lei e per lei si rallegra ogni creatura. Noi cantiamo: “Per te si rallegra, o piena di grazie, tutta la creatura, il coro degli angeli e

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il genere umano, tempio santificato e paradiso spirituale, lode di verginità. Per te si rallegra, o piena di grazie, ogni creatura, gloria a te”.

La Deipara, il più bel fiore della terra, fiore che non appassisce, fiore che spande profumo. E’ la portatrice della Sofia, il “cielo animato” “il cielo spirituale” “il cielo di grazia”, cioè il mondo celeste, la Gerusalemme Celeste impressa nella purissima anima della Vergine. Difatti la Chiesa dice: “Sei veramente apparsa cielo sulla terra, più eccelsa del più alto dei cieli, Vergine inconiugata; perchè da te ha sfolgorato il Sole nel mondo, Signore della giustizia”. Questo strettissimo nesso tra l’idea della Deipara e della Gerusalemme Celeste traspare anche nella strofa del canone pasquale:

“Illuminati, illuminati nuova Gerusalemme, perchè la gloria del Signore in te è sfolgorata. Esulta e rallegrati Sion. E tu Pura Deipara adornati per la risurrezione di chi da te nacque”.

La Purissima Vergine, apparsa ad alcuni santi, disse di loro: “Costui è della nostra stirpe”. Parole profondamente significative! Esiste quindi una particolare “stirpe”, la stirpe della Madre di Dio e i santi asceti partecipano a questa natura particolare. E’ la stirpe predisposta alla verginità dell’anima. Le persone, o meglio gli angeli terrestri, membri di questa misteriosa stirpe già dalla giovinezza, risplendano della mite luce del non terrestre e dell’immacolato. Esse sono segnate già dal seno materno e predestinate a una particolare configurazione dell’anima. E’ come se fossero sottratte alla legge del peccato, come se venissero a noi direttamente dall’Eden quali figli della coppia primordiale e immacolata. Esse compiono senza sforzo ciò che agli altri costa il sudore della fronte, senza fratture si perfezionano e ascendono di grado in grado, come si dischiude un fiore profumato. senza errare incedono dalla nascita con passo fermo “agli onori della vocazione suprema”. Esse sono “gli eunuchi dal seno della madre” di cui parla il Vangelo. Lo furono per esempio Giovanni Evangelista, i santi attoniti Giovanni Kukuzel e Atanasio, i beati Sergio di Radonez e Serafino di Sarov. La Madre di Dio ha rivelato al mondo un mirabile esempio di questa immacolatezza nella persona dello starec, sacerdote e monaco dai voti solenni della Lavra delle Grotte di Kiev, Partenio, il quale dall’infanzia in poi non conobbe passioni impure e moti carnali e nemmeno tentazioni di tal natura. Esiste dunque una stirpe particolare della Madre di Dio, anche se non ogni giusto vi appartiene, esiste un tipo superiore di struttura spirituale, la personalità santa (il che non significa ancora che sia senza peccato). In una parola, questa è la sofianità dell’anima che profluisce dalla sorgente

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della purezza, dalla “Colonna della verginità” che è la Santissima Deipara. (L’espressione “colonna della verginità” si trova nell’inno Akathistos della Deipara).

Ecco perchè questi angeli in carne, questi monaci per natura, questi fiori del mondo si sentono eletti speciali della Purissima Vergine, la onorano sopra ogni cosa e da lei ricevono grazie, aiuto e prodigi. Se si riflette sui loro rapporti con la Purissima, appare chiaro che per loro, per la loro coscienza e il loro amore, nella Purissima sta al primo posto non la sua divina maternità (cioè il Cristo) ma la sua eterna verginità, cioè lei stessa. Per questa ragione l’eletto della Deipara, san Serafino, come s’è detto, teneva nella cella un’unica icona, non quella del Salvatore com’è lecito immaginare, visto che ne aveva una sola, ma quella della Deipara senza il Bambino Gesù. Lo stesso vale per altre vergini che nella Deipara venerano la portatrice della Sofia e sentono che la loro configurazione spirituale viene proprio dalla Sofia. San Serafino esigeva addirittura che insieme all’incarnazione di Gesù Cristo si confessasse particolarmente l’eterna verginità della Deipara. Come ci sono schiatte e perfino popolazioni corrotte, così ci sono stirpi pure. Nelle prime sono distrutti i tratti dell’immacolatezza edenica, nelle seconde rimane qualcosa della bellezza originaria. Tutta la creatura è corrotta, ma in alcuni la corruzione è più profonda, in altri meno. Ma esistono anche puri per eccellenza, quasi schegge del mondo originario andato in frantumi, che meno degli altri hanno deformato la propria immagine. Sono i veneratori dell’eterna verginità e anzitutto della portatrice e del fulcro della purezza paradisiaca, la Deipara semprevergine. (E’ la verità sulla Deipara che i cattolici hanno espresso in maniera rozza e razionalistica con il loro dogma Immaculatae conceptionis. Cfr Prot. A. LEBEDEV, Raznosti cerkvej Vost. i zap. vucenii o Pr. Deve Marii Bog. vol. 1 O neporocnom zacatii, ed. 2, Pietroburgo 1903).

Nella Deipara si abbinano la forza sofianica, cioè angelica, e l’umiltà umana,”la benevolenza divina verso i mortali e l’audacia dei mortali verso Dio”. La Deipara sta sulla linea che divide la creatura dal Creatore, e siccome questo medio è assolutamente inattingibile, è assolutamente inattingibile anche la Madre di Dio. Essa è “L’altezza irraggiungibile per i pensieri umani”, “la profondità insondabile per gli occhi angelici “, “più alta dei cieli” ( Dal canone dell’Odigitria, canzone VIII, Theotokion), “più onorabile dei cherubini e senza confronto più gloriosa dei serafini” (Dalla preghiera bizantina più nota alla Madonna, adoperata così spesso come l’Ave Maria

dai cattolici occidentali), “la regina degli angeli”. Di lei è detto: “Tu pura sei più onorabile dei serafini dai molti occhi”. Essendo la portatrice della purezza, la manifestazione dello Spirito Santo , il principio della creatura spirituale, la sorgente della Chiesa, “ la divina sposa fanciulla” più che angelica, cessa di essere una fra i molti nella Chiesa e perfino nella Chiesa

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dei santi non è prima inter pares. Ella è speciale, è il centro unico della vita ecclesiale, è il cuore di Gesù, è la Chiesa.

Nicola Cabasilas, arcivescovo di Salonicco nel secolo XIV, uno dei più venerati ermeneuti della Divina Liturgia, che ne esperimentò la misteriosa profondità, dice: “Se qualcuno potesse vedere la Chiesa di Cristo così com’è veramente unita con il Cristo e partecipa alla sua carne, non la vedrebbe altrimenti che come corpo del Signore”; ma se guardasse alla Purissima e più che benedetta Vergine Maria, non la vedrebbe altrimenti che come cuore del Cristo. Ella è il centro della vita creaturale, il punto d’incontro della terra con il cielo, l’eletta, la Regina celeste e ancor più terrestre: “Alla Regina del cielo e della terra, scelta dall’eterno Re sopra ogni creatura, accorriamo con fede e tenerezza portando degna venerazione con riconoscenza” Ella ha un potere cosmico , è “la santificazione di tutti gli elementi terrestri e celesti”, è “la Regina di tutto”, la Signora del mondo. Perciò ogni credente esclama: “Non ho conforto al di fuori di te, Signora del mondo, speranza e intercessione dei fedeli”.

Ho addotto qui le prime espressioni della Chiesa che mi sono venute in mente. Sarebbe necessaria tutta una scienza per esporre sistematicamente le ricchezze incalcolabili dei testi liturgici, scienza che purtroppo da noi non esiste. Mi sono sforzato di comunicarti come io intenda queste espressioni. Forse mi sbaglio?

Sarebbe bene che tu me lo facessi notare. In ogni caso non ne verrebbe modificato il filo dell’argomentazione, perché quello che ho detto della Madre di Dio l’ho detto più per ragioni personali che per una necessità dell’idea fondamentale.

Tuttavia non vorrei terminare questa lettera senza addurre alcuni dati che hanno fatto maturare la mia convinzione, perché il mio scopo, al limite, è quello di chiarire a me stesso l’autocoscienza ecclesiale e nulla mi è di più estraneo dell’intento di esporre un “mio” sistema. Dirò più precisamente: se in questo mio lavoro ci sono delle idee personali “mie”, accade solo perchè non riesco pienamente , o non so, o non comprendo. I dati di cui dispongo riguardano, oltre ai testi liturgici, gli scritti patristici e l’iconografia. Incomincerò dai primi.

Ci è giunto in versione latina un meraviglioso testo intitolato Ignazio e i fratelli che sono con lui al santo starec Giovanni; la tradizione lo attribuisce a Ignazio Teoforo che l’avrebbe indirizzato all’apostolo ed evangelista Giovanni il quale, com’è noto, era figlio adottivo della Santissima Vergine Maria. Nelle prime righe l’autore esprime la tristezza sua e dei suoi per il ritardo di Giovanni. Dal contesto appare che Giovanni aveva

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promesso di far visita, insieme con la Madre di Dio, alla comunità di Ignazio. Sembra che a causa del ritardo fossero nate delle difficoltà nella comunità (forse alcuni suoi membri pensavano di andare per conto loro a Gerusalemme per incontrare al più presto l’Apostolo) e l’autore della lettera esorta l’Apostolo a mantenere al più presto la promessa fatta. In seguito si legge:

“Qui ci sono anche molte delle nostre donne che agognano di vedere Maria di Gesù e vorrebbero (volentes) ogni giorno accorrere costì per toccare il suo seno che allattò il Signore Gesù e interrogare lei stessa su qualcosa di più segreto; e poi anche Salome figlia di Anna, che tu apprezzi e che si trattenne (commorans) da lei cinque mesi a Gerusalemme e alcune altre che la conoscono, raccontano che ella piena di ogni grazia e di ogni virtù (eam omnium gratiarum abundat, et omnium virtutem), come vergine (more virginis) feconda di virtù e grazia. Ella, dicono è lieta nelle persecuzioni e nei dolori e nelle angustie, e nella miseria non si lamenta: è riconoscente a chi l’offende, si rallegra con chi l’importuna, compatisce gli infelici e i perseguitati e si affretta ad aiutarli. Ma si distingue (enitescit illumina) nel combattere i perfidi attacchi del peccato ed è mediatrice nelle battaglie della fede. E’ consolatrice della nostra nuova fede e della penitenza, ausiliatrice di tutti i fedeli in tutte le opere della pietà. Dedita agli umili, si umilia ancor più dinanzi a coloro che a essi sono dediti; da lungo tempo tutti la celebrano, benché gli scribi e i farisei la coprano di contumelie. Di lei raccontano tante altre cose, ma noi non possiamo confermarle e comunicartele. Ma come ci riferiscono persone degne di fede, in Maria di Gesù la natura della santità angelica si associa alla natura umana (in Maria, mater Jesu, humanae naturae sanctitatis angelicae sociatur) e queste voci hanno turbato il nostro intimo (viscera) e ci fanno desiderare di vedere (desiderare aspectum) questa, per così dire, meraviglia celeste e santissimo miracolo (huius coelestis prodigii et sacratissimi monstri). Tu cerca di soddisfare il nostro desiderio e sta’ sano. Amen”.

Un’altra lettera, che secondo la tradizione appartiene allo stesso carteggio, incomincia così: “Se mi sarà possibile, voglio venire da te a Gerusalemme e vedere i fedeli santi che vi abitano, specialmente la Madre di Gesù che chiamano: ammirabile da tutto l’universo e desiderabile da tutti (universis admirandam et cunctis desiderabilem. ). Perché chi non avrebbe piacere di vederla e di parlare con lei che ha dato i natali al vero Dio, se è amico della nostra fede e religione?”. In seguito si dice che l’apostolo Giacomo è “per fama, molto simile a Cristo Gesù nell’aspetto, nella vita e nel tratto”. Concludendo, l’autore della lettera prega Giovanni di venire presto.

E adesso voglio riportare un documento che non si riferisce direttamente al mio tema, ma che non so decidermi a tralasciare: sono le righe

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infinitamente dolci della corrispondenza di Ignazio con la Santissima Vergine, scritte dalle mani “leggere come un sogno” della Mite e Benedetta; immagina! La stessa brevità della lettera dice tante cose sul silenzio placido di colei che nella vita domestica, nel tratto giornaliero manifestava all’Apostolo Pietro il modello e l’incarnazione suprema dell’incorruttibile bellezza “dello spirito mansueto e silenzioso”, di colei che anche adesso è, come l’invocano i fedeli, “fede di chi chiede il silenzio”. Dicono che “forse” questo carteggio è apocrifo. Io non discuto e non so niente...perchè se “forse” non è autentico, è anche valido il “forse” contrario e la sua portata è incalcolabilmente grande. Fa il possibile, ti prego, di immedesimarti nel sentimento che renderebbe per me infinitamente preziosa, cara fino a toccarmi il cuore, questa lettera, anche se fosse addirittura poco credibile. La più esigua speranza (e nessuno è riuscito a dimostrare che la lettera non è autentica!) che lei si sia assisa al tavolo, abbia rassettato le vesti e con le sue mani abbia scritto questa lettera, fa quasi piangere di tenerezza e placa a lungo l’anima agitata. Quanto siamo fortunati di possedere queste righe tanto care! Cito le due lettere, incominciando da quella di Ignazio;

Alla Cristofora Maria, il suo Ignazio. - Dovresti confermare e consolare me, neoconvertito discepolo del tuo Giovanni. Perché del tuo Gesù io sono venuto a sapere ciò che è meraviglia dire e son rimasto colpito da quanto ho udito. Anche da te, che sei sempre stata vicina e legata a Lui e a conoscenza dei suoi misteri, desidero con tutta l’anima avere notizie su quanto ho udito. Ti ho già scritto chiedendoti la stessa cosa. Sta sana, i neoconvertiti che con me da te, e per te e in te vengono confermati. Amen”.

La Deipara risponde:

“Ignatio dilecto condiscepulo, humilis ancilla Christi Jesu. - De Jesu quae a Joanne audisti et didicisti vera sunt. Illa credas, illis inhaereas; et Christianitasis susceptae votum firmiter teneas, et mores et vitam voto conformes. Veniam autem una cum Joanne, te et qui tecum sunt visere. Sta in fide, et viriliter age: nec te commoveat persecutionis austeritas; sed valeat et exsultet spiritus tuus in Deo salutari tuo. Amen. (A Ignazio, amato condiscepolo, l’umile ancella di Cristo Gesù. - Quanto hai udito da Giovanni su Gesù è vero. Questo credi, questo mantieni; conserva incrollabile il voto di cristiano che hai assunto e a esso conforma le tue abitudini e la vita. In quanto a me, verrò assieme a Giovanni a visitare te e chi è con te. Sta saldo nella fede e agisci con coraggio ; non ti turbi la durezza della persecuzione, ma il tuo spirito sia forte ed esulti in Dio tuo salvatore. Amen”. )

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Mi sembra fuori luogo discutere qui dell’autenticità di questa lettera. Dirò soltanto di due espressioni che si ritengono imprestate dal Vangelo di Luca e dalla Prima Lettera ai Corinzi, scritte dopo la morte ella Vergine e che quindi, si dice, infirmerebbero l’autenticità della nostra lettera. Secondo me, qui c’è un grosso equivoco. La frase “sta in fide viriliter age” (così nella versione latina) si rifarebbe al versetto: “Vigilate, siate fermi nella fede, siate uomini, siate forti!” (1 Cor. 16, 13). In primo luogo le espressioni analoghe della Vergine sono tanto semplici e naturali che essa non avrebbe avuto bisogno di leggere l’epistola ai Corinzi per inserirle nella sua lettera. In secondo luogo la somiglianza tra le due frasi non è davvero grande. In terzo luogo anche se è stabilito l’imprestato, non è detto che non sia stato l’Apostolo a basarsi sulle parole autorevoli della Madre di Dio. Infine si trovano esortazioni analoghe anche nel salmo 30 (in particolare nel testo dei Settanta). La cosa più naturale è supporre (se è proprio necessario) che e la santa Vergine e l’Apostolo Paolo abbiano “mutuato” le loro esortazioni dai salmi, che ogni ebreo, e particolarmente loro, sapeva a memoria.

Il secondo passo sospetto suona: “Esulti il tuo spirito in Dio tuo salvatore”, in cui vedono un parallelo con “e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore”(Lc. 1,47). Ripeto: è proprio necessario supporre un imprestito per questa semplice espressione? Ma anche in caso affermativo, bisogna anzitutto ricordare che il Vangelo di Luca riporta un inno scaturito molto tempo prima dalle labbra della stessa Vergine e quindi la Madre di Dio nella nostra lettera avrebbe semplicemente ripetuto ciò che lei stessa aveva un tempo detto e che certamente aveva più volte in seguito ricordato a sé e agli altri. In secondo luogo anche l’inno della Madre di Dio secondo Luca ha un parallelo nel primo libro dei Re (2, 1). Si potrebbero anche rilevare le caratteristiche interne di autenticità della lettera o almeno le caratteristiche di grande antichità, come la totale assenza di formulazioni dogmatiche e di epiteti di celebrazione esteriore della Deipara. E’ caratteristica anche l’espressione “il tuo Gesù”, alquanto strana in bocca a un uomo che pensa in maniera dogmaticamente precisa la persona di Gesù Cristo. La brevità della lettera, l’assenza di amplificazioni retoriche e la presenza di tratti presi dalla vita, ne rendono molto probabile l’autenticità

L’impressione possente e indelebile che la Vergine Maria faceva sui testimoni oculari è descritta con chiare parole nel mirabile documento noto come Le lettere di San Dionigi l’Areopagita all’apostolo Paolo. Della visita fatta dall’Areopagita alla Madre di Dio si riferisce nei termini seguenti: “Confesso davanti a Dio, o glorioso maestro e guida nostra, che mi sembrava incredibile che oltre a Dio altissimo potesse esistere un altro essere tanto riccamente fornito di forza divina e di meravigliosa grazia. Ma io non solo con gli occhi dell’anima ma anche con quelli del corpo

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ho potuto vedere ciò che nessuna mente umana può attingere. Sii Con i miei occhi ho visto la Madre del nostro Cristo Gesù, deiforme e più santa di tutti gli spiriti celesti. Ne fui fatto degno per speciale grazia divina, per benedizione del principe degli apostoli e per la benevolenza e misericordia ineffabili della stessa Santissima Vergine. Ancora e ancora confesso davanti all’onnipotenza divina e alla gloriosissima perfezione della Vergine Madre di Lui, che quando Giovanni sommo apostolo e primo profeta che risplende nella vita mortale come sole nei cieli, mi condusse al cospetto della Vergine deiforme e santissima, mi illuminò non solo esteriormente ma anche interiormente una luce tanto grande e smisurata e si diffuse all’intorno una tale fragranza di tutti i profumi che né il mio debole corpo né il mio spirito poterono resistere a tanti meravigliosi segni e primizie della beatitudine eterna. Il cuore e lo spirito mi vennero meno al cospetto della sua gloria e grazia divina. Chiamo quel Dio che nacque dal suo seno verginale a testimonio, che se le tue divine esortazioni e norme non fossero state nella mia memoria e nella mia mente neoilluminata, io l’avrei venerata come il vero Dio e le avrei tributato l’adorazione che spetta al solo vero Dio. Nessuno può attingere una beatitudine, un onore e una gloria superiore a ciò di cui fui fatto degno vedendo la Santissima. Ero completamente felice! Ringrazio l’altissimo e misericordioso Iddio, la divina Vergine e il glorioso apostolo Giovanni e te sommo signore e autorità della Chiesa, perchè mi hai fatto il massimo dei favori”.

Ma la sofianità della Deipara appare dalla descrizione del suo aspetto esteriore forse più che da tutte le tesi dogmatiche.

Secondo una tradizione conservata dallo storico ecclesiastico Niceforo Kallistos, la Deipara era di statura media, o alquanto superiore alla media come dicono adesso. I suoi capelli erano biondi, gli occhi vivaci con le pupille colore dell’oliva, le ciglia arcuate e quasi nere, il naso allungato, le labbra floride e piene di dolci parole, il volto né tondo né affilato e alquanto prolungato, le mani e le dita lunghe”. (Niceforo Kallistos trae la descrizione da Epifanio, Lettere a Theofilo sulle Icone. La traduzione del testo di Epifanio si trova nei Ve!. t. Mm. di Makarij, ed. settembre 1868, p. 363 e. s. ).

Conforme a una tradizione trasmessa da sant’Ambrogio di Milano, “ella era vergine non soltanto nel corpo ma anche nell’anima: umile di cuore, prudente nelle parole, saggia, di pochi discorsi, amante della lettura... alacre e casta nel dire. Era sua regola non offendere alcuno, volere il bene di tutti, venerare gli anziani, non invidiare gli uguali, evitare la millanteria, agire con senno, amare la virtù. Quando mai ella offese i genitori anche solo con una smorfia? Quando mai non andò d’accordo con loro? Quando mai s’inorgoglì di fronte agli umili, derise i deboli, rifiutò l’aiuto ai poveri? Nei suoi sguardi non c’era nulla di severo, nelle

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sue parole niente d’imprudente, nelle sue azioni niente d’indecoroso. I suoi movimenti erano modesti, l’incesso placido, la voce misurata e così il suo aspetto corporeo era espressione dell’anima e incarnazione della purezza”. (Ambrogio di Milano, De virginibus, 11, 67).

Secondo Niceforo Kallistos, “nella conversazione conservava la dignità, non rideva, non s’agitava e soprattutto non s’incolleriva. Perfettamente naturale e semplice, non pensava affatto a se stessa e, lontana da qualsiasi sdolcinatezza, si distingueva per perfetta umiltà. Nel vestito si accontentava del colore naturale delle stoffe, lo dimostra tuttora il suo santo velo. In breve, in tutte le sue azioni si rivelava una grazia particolare”. (N. Kallistos, già cit. ) Moltissimi maestri della Chiesa descrivono l’illuminata grazia della Vergine Maria e la sua radiosa sofianità, nelle celebrazioni liturgiche quasi la metà delle preghiere è rivolta alla Madre di Dio, nell’iconografia una gran parte delle icone sono della Deipara. Nell’iconòstasi (Tramezzo, spesso ornato di statue, che in alcune chiese divide il presbiterio dalla navata), come nelle celebrazioni liturgiche, la Madre di Dio occupa un posto simmetrico e quasi uguale a quello del Signore, a lei sola noi rivolgiamo l’invocazione “Salvaci!”. Se invece dell’esperienza vitale fornita dalla Chiesa noi passiamo alla teologia, ci sentiamo trasportati in certo senso in un altro mondo. (Un mondo di teologi distratti, se non addirittura indifferenti al discorso sull’incarnazione della purezza, sulla sofianità di Maria).

(Eppure,... l’accettazione o meno dell’invocazione: “Santissima Madre di Dio, salvaci” rivela una mentalità ortodossa o meno. Il noto N. N. Nepljuev, sospettato a lungo di protestantesimo, era assolutamente sincero quando scandalizzato diceva che “questa invocazione rivolta a una semplice donna gli sembrava sacrilega”. Certamente questo fu, è e sarà necessariamente di scandalo quando si affermi che la Deipara è “una semplice donna”. Ma essa è la Chiesa e il protestantesimo rigetta proprio la Chiesa; qui il centro della questione).

L’impressione psicologica è che la teologia delle scuole non parli affatto di colei che la Chiesa celebra, che il suo insegnamento non concordi con la viva venerazione di lei, che la sua coscienza del dogma dell’eterna verginità sia in ritardo rispetto all’esperienza di quel dogma. Ma il cuore della vita ecclesiale è la celebrazione liturgica, e perciò è assolutamente naturale domandarci che cosa significhi questa celebrazione della Chiesa e cercare le ragioni dell’esperienza fissata negli scritti patristici.

Troviamo in sant’Ambrogio di Milano il tentativo, per la verità timido, di dar riposta ai nostri quesiti. Negli scritti sulla verginità e il matrimonio egli interpreta la verginità della Semprevergine come fenomeno di una grazia propria a lei sola, come proveniente dal dono della castità. E siccome la cosa nuova portata nel mondo dal cristianesimo, l’essenza della Chiesa, è la purezza casta, evidentemente il punto focale e la

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sorgente di questo dono si identificano con la Chiesa. La Madre di Dio non solo è casta ma possiede la castità e questa è di natura celeste. Perciò anche nella Vergine Maria dobbiamo ammettere un certo nesso particolare con il cielo, una certa celestialità. Da notare che al di là dell’intento etico-dottrinale di sant’Ambrogio si avverte continuamente una specie di ontologia: la Chiesa, il cielo, la Vergine Maria, anche se non sinonimi sono ontologicamente nomi quasi fungibili. Ma veniamo ad alcune citazioni:

‘Somma è Maria”, egli esclama, “che innalzò il segno della sacra verginità (egregia igitur Maria, quae signum sacrae virginitatis extulit), ed elevò al Cristo il santo vessillo dell’intemerata integrità”. La Vergine Maria è inattingibile nella sua eccellenza su tutta la natura ed è superiore alla natura: “Chi può con l’intelletto umano comprendere colei che perfino la natura non ha sottomesso alle proprie leggi? Chi potrà esprimere con parole umane ciò che sta sopra all’ordine della natura? Ella chiamò (invocò perchè scendesse) dal cielo ciò (Colui) che (Lei) imitava sulla terra e non senza merito prese forma di vita celeste colei che si trovò uno sposo nel cielo. Attraverso le nubi, il cielo, gli angeli e le costellazioni, ella trovò il Verbo di Dio nel seno stesso del Padre e si unì a Lui con tutta l’anima”. “In lei ci fu tanta grazia (gratia) che ella non solo potè conservare in se stessa il dono della verginità (virginitatis gratiam ), ma potè provocare la manifestazione dell’integrità perfino in coloro cui volse lo sguardo”. Più avanti sant’Ambrogio porta l’esempio del vergine Giovanni Battista “che la Madre di Dio preparò come con l’olio della sua presenza e il profumo della castità, quando egli aveva ancora l’età di tre mesi”; e l’esempio del vergine Giovanni Evangelista “Perciò non mi meraviglio che abbia parlato dei misteri divini più degli altri evangelisti, lui che ebbe davanti agli occhi il talamo dei misteri celesti”. “O ricchezza della verginità di Maria! Essa si è spezzata come un vaso di creta e ha effuso come nube sulla terra la Grazia di Cristo!”. Questa grazia è una pioggia spirituale che spegne le fiamme corporee e irrora i pensieri intimi, è il dono della vita casta. Dalla vita di Maria “come da specchio brilla l’immagine della castità e la bellezza della virtù (species castitatis et forma virtutis). Qui voi (vergini) potete attingere esempi di vita, qui come in un disegno sono raffigurate le esortazioni alla purezza”. “Maria è l’immagine della verginità (imago virginitatis), e la vita di lei sola è insegnamento per tutti”. Ora l’immacolatezza è tutto, è tutta l’essenza dell’ecclesialità. “L’immacolatezza produsse perfino gli angeli. Infatti chi la conservò è angelo, chi la perse è demonio. Da essa ha avuto il suo nome perfino la religione. La Vergine è colei che si congiunge a Dio, la meretrice è colei che crea gli dei”. Così l’uomo riceve dalla madre di Dio ciò che lo rende membro della Chiesa. Di solito si afferma che questa grazia è data dalla Chiesa, e allora qual è il rapporto tra la Vergine Maria e la Chiesa? Maria è la portatrice della Chiesa. Ciò che il profeta ha predetto della Chiesa “si

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può totalmente applicare” alla purissima Vergine, anzi è predetto di Maria sotto l’immagine della Chiesa; sant’Ambrogio applica tutto il Cantico dei Cantici ora alla Chiesa, ora alla Deipara, ora ad ambedue insieme; anzi dopo aver spiegato alcuni passi attribuendoli alla chiesa, conclude senza altre giustificazioni attribuendoli alla Vergine Maria. La Chiesa è la Vergine, come la Vergine è la Chiesa: “La Chiesa è la più bella tra le vergini, perchè è la vergine intatta (virgo sine ruga)”. La Vergine è l’ecclesialità. Dice Ambrogio, giocando sul nome di “Maria” (Es. 15,20), che perfino nel Vecchio Testamento Maria era “figura, modello della Chiesa (speciem Ecclesiae) Cristo è lo sposo e marito della Chiesa e Cristo è “lo sposo della castità virginea” (sponsus virginae castitatis) ; la patria della castità è in cielo ( patria castitatis in coelo); la Chiesa e “vergine per la castità e madre per la prole” (virgo est castitate, mater prole).

Questa è la Deipara e la “sua incomprensibile superiorità su tutta la creazione di Dio”, (...) il Grande, regale e femminile Essere che, pur non essendo né Dio né Figlio eterno di Dio né angelo né uomo santo accetta la venerazione sia di colui che compì il Vecchio Testamento, sia di Colei che diede inizio al Nuovo. Che cos’è se non la stessa umanità genuina, pura e piena, la forma suprema e onnicomprensiva, l’anima vivente della natura e dell’universo, eternamente unita e nel processo temporale unentesi alla divinità e unente a Lei tutto ciò che esiste? In questo sta senza dubbio il pieno significato del Grande Essere semisentito e semiconosciuto da Comte e che i nostri avi, più costruttori di chiese alla Sofia, sentirono integralmente ma non conobbero affatto”. In sintesi, la Sofia è la Memoria di Dio nel cui sacro seno è tutto ciò che esiste e al di fuori della quale c’è morte e pazzia.

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APPENDICE a La Sofia (da Lettera sesta)

LA CONTRADDIZIONE Antinomie razionalistiche del dogma

Lo Spirito Santo, Spirito di verità, proclama la verità della creatura. Quando la coscienza si eleva sopra “il doppio limite dello spazio e del tempo” ed entra nell’eternità, in questo istante della proclamazione colui che proclama la verità e la verità proclamata coincidono perfettamente.

Nell’apparizione dello Spirito di verità, cioè nella luce taborica, la forma e il contenuto della verità sono una cosa sola, ma la conoscenza della verità, quando è appercepita e assimilata dalla creatura, si abbassa nel tempo e nello spazio della molteplicità: nel tempo della molteplicità individuale e nello spazio della molteplicità sociale. In tal modo si spezza due volte l’unità di forma e di contenuto e la conoscenza della verità diventa conoscenza circa la verità; questa conoscenza è semplicemente una verità.

Accanto alla Verità esiste necessariamente la verità, solo se accanto a Dio esiste la creatura: l’esistenza della verità è semplicemente un’altra espressione del fatto che esiste la creatura come tale, cioè sottomessa al tempo causa la molteplicità personale, e allo spazio causa la molteplicità sociale. L’esistenza della verità coincide con l’esistenza della creatura. Ma la creatura esiste veramente? Filosoficamente non è impossibile rispondere in anticipo a questo quesito.

La creatura è tale perché non è essere necessario assoluto e di conseguenza l’esistenza della creatura non è deducibile dall’idea della verità, primo motore di ogni intelligenza, e nemmeno dal fatto dell’esistenza della verità, da Dio.

Nonostante l’agnosticismo di Spinoza e il panteismo della maggioranza dei pensatori, partendo dalla natura di Dio non è possibile dedurre nulla sull’esistenza del mondo, perchè l’atto della creazione del mondo (inteso sia come istantaneo e storicamente attingibile, sia come graduale e diffuso a tutti i tempi storici, oppure eterno) deve necessariamente essere pensato libero, cioè proveniente da Dio non per necessità.

L’esistenza della creatura, cioè della nostra impotenza, non si può dedurre con nessuna argomentazione, nemmeno la più sottile, e se i pensatori ciononostante si sforzano di trarre questa deduzione, possiamo in anticipo affermare che compiono un trucco logico o eliminano il fatto che la creatura sia creata da Dio come dono, riducendo così la creatura,

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che è persona libera benché debole, dal grado di essere creatore simile a Dio a un essere astratto, ad attributo o modo della divinità.

Dunque l’essere della verità non è deducibile ma solo mostrabile nell’esperienza. Nell’esperienza della vita noi conosciamo la nostra somiglianza a Dio e la nostra debolezza, solo l’esperienza della vita ci rivela la nostra personalità e libertà spirituale. La filosofia non è in grado di dedurre il fatto della verità ma, se questo è un dato immediato della filosofia, questa ha il compito di indagare la proprietà, la composizione, la natura dell’uomo, cioè della verità data sì da Dio, ma nell’umanità e all’umanità In altre parole, la questione della composizione formale della verità, della sua configurazione razionale è giustificata quando il suo contenuto sia la Verità stessa. Ovvero è lecito domandarsi ancora: come si presenta la Verità divina alla ragione umana? Per rispondere alla questione della struttura logica della verità, bisogna ricordare che la verità è verità intorno alla Verità e basta, cioè che è in una qualche corrispondenza con la Verità. La forma della verità è in grado di contenere il proprio contenuto (che è la verità) soltanto quando in qualche modo , almeno simbolicamente, ha in sé qualcosa che proviene dalla Verità. In altre parole, la verità deve necessariamente essere l’emblema di una qualche proprietà fondamentale della Verità, e, infine, essendo hic et nunc deve essere simbolo dell’eternità.

Benché data nella creatura, la verità deve essere un monogramma della divinità; benché al di qua, deve essere in qualche modo al di là; con i colori del relativo deve disegnare l’assoluto; il fragile vaso delle parole umane deve contenere il diamante infrangibile della Divinità.

La creatura si agita e gira nei vortici tempestosi del tempo, la verità deve permanere; la creatura nasce e muore, le generazioni succedono alle generazioni e la verità deve essere immarcescibile. Gli uomini disputano e obiettano gli uni agli altri, la verità deve essere indiscutibile e superiore alle obiezioni. Le opinioni umane cambiano da paese a paese e di anno in anno, la verità è una sempre e dappertutto, e uguale a se stessa. In una parola la verità è quod ubique, quod semper quod ab omnibus creditum est; hoc est etenim vere proprieque catholicum, quod ipsa vis nominis ratioque declarat, que omnia fere universaliter comprehendit”; e questa esigenza può essere soddisfatta solo “si sequamur universitatem, antiquitatem, consensionem” Ogni verità deve essere una formula non relativa.

(Vincentius Lerinensis FL 50, coli 640: “Il giudizio universale e necessario di Kant perché abbia portata scientifica oggettiva non é altro, probabilmente, che una “sopravvivenza” della comprensione ecclesiastica del dogma cattolico, cioè universale in estensione”).

Ma com’è possibile costruire con il materiale relativo dell’intelletto umano la formula assoluta della verità divina?

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La conoscenza è un giudizio, cioè la sintesi di un soggetto S con un certo predicato P. Da questo schema non esulano i giudizi analitici e perfino i giudizi di identità, perché anche in essi soggetto e predicato sono in qualche modo diversi, devono essere prima distinti per poi essere uniti

Se ogni giudizio è la sintesi di una certa duplicità, perchè non ci può essere anche un’altra sintesi, una sintesi del soggetto S con un altro predicato P’? Perchè non ci può essere un’unione di S con la negazione di P, con il non-P? E’ chiaro che ogni giudizio è relativo, cioè può essere contestato da un giudizio contrario o addirittura contraddittorio; se poi questa contestazione non è ancora avvenuta, ciò non assicura l’irreformabilità del nostro giudizio nel futuro o in altri luoghi.

La vita è infinitamente più ricca delle definizioni razionali e perciò nessuna formula può contenere tutta la pienezza della vita. Quindi nessuna formula può sostituire la vita stessa nella sua creatività, nella sua capacità di produrre il nuovo ad ogni momento e in ogni luogo.

Di conseguenza le definizioni razionali troveranno sempre e in ogni luogo delle obiezioni. Le obiezioni contro la formula sono appunto formule, contro-giudizi, che partono da aspetti della vita complementari, contrari e perfino contraddittori alla formula contestata. Una formula intellettuale può essere superiore agli attacchi della vita solo se accoglie in sé tutta la vita, con tutte le sue varietà e le contraddizioni presenti e future. Una formula intellettuale può essere verità solo se, per così dire, prevede tutte le obiezioni e tutte le risposte. Ma per prevedere tutte le obiezioni bisogna assumerle non già nella loro concretezza, ma coglierne il limite. Ne deriva che la verità è un giudizio che racchiude in sé anche il limite di tutto ciò che lo può cassare, in altre parole, che la verità è un giudizio autocontraddittorio.

L’assolutezza della verità viene espressa dal lato formale nel fatto che la verità anticipatamente sottintende e accetta la propria negazione e risponde ai dubbi sulla propria veridicità accogliendo questo dubbio in se stessa e addirittura nel suo limite.

La verità è tale proprio perchè non teme contestazioni, non le teme perché essa stessa dice contro di sé più di quello che può dire qualunque negazione e combina questa autonegazione con l’affermazione. La verità è contraddizione per il raziocinio, contraddizione che diventa evidente appena la verità riceve una formulazione verbale. Ciascuna delle proposizioni contraddittorie è contenuta nel giudizio della verità e perciò la presenza di ciascuna è dimostrabile con il medesimo grado di persuasività, ciò come necessità. Tesi e antitesi costituiscono insieme

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l’espressione della verità; in altre parole la verità è antinomica, e non può non essere tale.

(Ritroviamo l’idea dell’antinomismo espressa perentoriamente perfino nelle discipline speciali della 1) Linguistica, 2) Matematica, 3) Teologia Sottolineano le antinomie del cristianesimo soprattutto D:S: MEREZKOVSKIJ (Opera omnia), cfr. anche KANT, Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, III 7, 4) Fisica e meccanica, 5) Metafisica Specialmente le opere di RENOUVIER, 6) sociologia, 7) Logica, 8) Etica KANT, Kritik der praktischen Vernunft, 9) Estetica KANT, Kritik der Urteilskraft, parr. 55-57 ; ecc. ).

Del resto non deve nemmeno essere diversa, perchè si può affermare in anticipo che la conoscenza della verità esige una vita spirituale e quindi è un atto eroico, l’atto eroico del raziocinio è la fede, cioè l’autonegazione. L’atto di autonegazione del raziocinio precisamente è un’espressione dell’antinomia. Infatti si può credere solo all’antinomia, perchè ogni giudizio non antinomico viene semplicemente accettato o respinto dal raziocinio, visto che non trascende i confini del suo isolamento egoistico. Se la verità fosse non antinomica, il raziocinio, muovendosi in cerchio nel proprio campo, non avrebbe un punto d’appoggio, non avrebbe l’oggetto extrarazionale, e quindi non avrebbe lo stimolo ad abbracciare l’eroismo della fede.

Questo punto d’appoggio è il dogma. Proprio con il dogma incomincia la nostra salvezza, perchè il dogma, essendo antinomico, non costringe la nostra libertà e dischiude tutta l’estensione della fede volontaria o della maligna incredulità. Infatti non si può obbligare nessuno a credere o a non credere, “nemo credit nisi volens”, dice sant’Agostino.

(Questo velle credendi è sostanzialmente un atto transtemporale, perchè su di esso si appoggia il carattere generale della personalità. Se il velle credendi si manifesti nel tempo quale sistema di desideri necessari, oppure se contenga degli slanci verso il mondo della libertà, o se infine in ciascun momento non sia esclusa una autodecisione nuova e completante, sono tutte questioni per noi non essenziali, dal momento che abbiamo abbracciato la tesi di sant’Agostino.

Troviamo in D: (A:) Chomjakov (pravoslavie kak nacalo prosvetitel’nol bytovoe, licnoe i obscestvennoe, Mosca 1907, pp. 95-96) un’interessante distinzione dei concetti verit’ e verovat’: “In russo ci sono due parole che derivano dalla stessa radice ed esprimono lo stesso concetto, ma ne danno due sfumature che sfuggono a tutte le altre lingue ( per lo meno indoeuropee) e che sono di un’enorme importanza per esprimere con precisione il rapporto dell’uomo con la Chiesa visibile e invisibile. . Sono le parole verju e veruju, cui corrispondono i sostantivi vera e verovanie Per appartenere alla Chiesa invisibile occorre verit’ mentre per appartenere alla Chiesa visibile occorre verovat’ Nella recita del “Credo” si dice Credo (veruju) in un solo Dio Padre onnipotente, ecc. ; non si dice verju perché l’uomo sostanzialmente non può mai dire di se stesso che verit’ (crede). Così, soltanto in russo risulta pienamente comprensibile l’espressione del Vangelo: ”Credo, Signore; aiuta la mia incredulità”. Ia Chiesa mistica possiede la fede (vera) genuina, mentre la Chiesa terrena, visibile, possiede ed esige soltanto la verovanie

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(fede), naturalmente perchè non ha i mezzi per giudicare della fede (vera) che solo Dio conosce”).

Quanto abbiamo detto finora, l’abbiamo detto supponendo, per semplificare, che nella logica si parta dal giudizio; perciò la verità ci è apparsa un giudizio antinomico. Ma non è difficile vedere come anche dal punto di vista della logica dei concetti si arrivi a una conclusione affine, e cioè che la verità è un’antinomia di concetti. Quest’ultima è solo psicologicamente diversa dall’antinomia dei giudizi, perché ogni giudizio è un concetto. In genere nel raziocinio ci sono logicamente più elementi di due generi congiunti l’uno all’altro, e questi elementi sono vicendevolmente trasformabili e quindi vicendevolmente sostituibili nei giudizi, sicché la loro teoria formale è una sola. In questo momento però è importante per noi solo il nesso antinomico fra i vari elementi della verità.

La verità è un’antinomia. Questa importante conclusione delle nostre riflessioni esige un’espressione più precisa. Insomma è necessaria una teoria formale logica dell’antinomia. Una buona strada per arrivarvi è l’algoritmo logistico (per la cui comprensione le opere di Schroder, Whitehead e Russel sono d’importanza capitale ) , tanto comodo per trascrivere sinteticamente le operazioni logiche. Prima di esporre la nostra costruzione vogliamo ricordare il significato di alcuni simboli della logistica. Come è noto, il principio fondamentale degli attuali metodi logici, simbolici è il principio

(I),

p>q

cioè il principio dell’implicazione (se con p e q si intendono degli enunciati) e dell’inclusione (se p e q sono interpretati come classi. Per una maggiore esattezza nel seguito dell’esposizione, con p e q noi intenderemo degli enunciati, cioè i prodotti dell’atto del giudizio, sebbene a pari diritto potremmo interpretare questi simboli come classi. Ma la formula sopra riportata, sia che > venga inteso come simbolo dell’implicazione sia che venga inteso come simbolo dell’inclusione (in altre parole sia che per p e q si intendano degli enunciati sia che si intendano delle classi), esprime in sostanza un unico e medesimo fatto e, precisamente, la connessione della verità di q con la verità di p; questo fatto viene espresso con le parole di conseguenza, quindi, ergo: p > q ,cioè: “p, quindi q”, “p, e di conseguenza q”,” p ergo q”. Questo di conseguenza, questo quindi, questo ergo in forma esplicita intende significare che

“se p è vero, anche q è vero”;

o ancora

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“se q è falso, anche p è falso”;

o ancora

“non può essere che p sia vero e q falso”;

o infine, e questa è forse l’espressione preferibile per la assoluta univocità, viene a significare:

“o p è falso, o q è vero”

Di quest’ultima formulazione diventa comprensibile l’equivalenza dell’operazione di inclusione “>” e dell’operazione dell’addizione logica “U”.

(II)

In effetti la combinazione di simboli

p U q

la quale designa l’operazione di addizione logica, non sta a indicare altro che l’alternativa dei due simboli congiunti p e q:

“o p è falso, o q è vero”

ossia più semplicemente

“p o q”

(III)

Segue di qui che è possibile rappresentare l’uguaglianza logica di due operazioni, e precisamente:

p > ci ,. -p U q

dove il segno “ - “ davanti a p significa negazione, o più esattamente “p negativo” ; in generale nella logistica qualsiasi simbolo combinandosi con il segno “ - “, passa nel suo negativo.

Ricordiamo ancora che il segno “∩“ è l’operatore della moltiplicazione logica, cioè che quando sia posto fra due gruppi di simboli sta a indicare l’esistenza allo stesso tempo di ambedue i simboli o gruppi. Ricordiamo infine che il simbolo “V” designa la “verità”, veritas, mentre il simbolo capovolto di “V” cioè “A” significa “la negazione della verità”. “ - V “ o “falsità”. A questo punto abbiamo tutti i dati per la definizione logica dell’antinomia p.

Le nostra considerazioni sull’antinomia sgorgano spontaneamente dalla dimostrazione per assurdo usata da Euclide per dimostrare la dodicesima proposizione del nono libro dei princìpi ; nella filosofia se ne servono i dogmatici per confutare radicalmente le obiezioni degli scettici alla dimostrazione della verità. Di questo processo dimostrativo si valsero in

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seguito matematici e filosofi ; esso si diffuse largamente anche nella società servendosi della dialettica salottiera e mondana descritta per esempio da Turgeniev in Rudin. Nonostante questa sua popolarità, la teoria logica deduttiva non ne tenne conto a lungo e solo verso la fine dell’ottocento si è riferito ad esso lo studioso Giovanni Vailati, discepolo di Peano. (G: Vailati, Un’opera dimenticata del P Girolamo Saccher: Logica dimostrativa, 1697), in “Rivista Filosofica”, set.-ott. 1903); (Se ne servì in modo sistematico V. Solov’ev, cercando di sconfiggere lo scetticismo su tutta la linea nell’opera: Kritika otvlecennych nacal, in Opera omnia, voi. II, pp. 341-346).

Tuttavia nessuno ne avvertì l’inadeguatezza ai fini che si proponeva e le sue relazioni con la teoria dell’antinomia.

Questo procedimento nella trascrizione della logistica viene rappresentato dalla semplice formula:

(IV) p > p. >. p

che si legge: “Se la negazione di un enunciato ( o di una classe ) include in sé lo stesso enunciato da essa negato (o rispettivamente la stessa classe), è vera”. La logistica spiega e giustifica questo modo paradossale di procedere. In effetti, per la formula

(III)

-p > p. =. -(-p) U p

(V)

Ma per il principio della doppia negazione

-p (-p) = p

e di conseguenza

-p > p. = . p U p (III)

Ma è chiaro che l’alternativa “p U p”, cioè “p o p” implica l’irrevocabile affermazione di p, in modo che

p U p. > . p.

e quindi

-p > p. >.p.

come si voleva dimostrare. Questa è la via indicata nella logistica, ma essa è sufficiente? In altre parole, è davvero rigorosamente dimostrativo il ragionamento di Euclide e dei suoi proseliti? Certamente no. Per convincerci di questo è sufficiente designare -p tramite q

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(VII) -p = q

Diventa qui chiaro che non ci sono motivi per escludere in anticipo per q stesso quanto sopra si è detto di p, cioè l’applicabilità a q della formula (IV). Così non è esclusa la possibilità che

(VIII) -q > q. >. q

o sostituendo in base alla formula (VII)

(VIII) > (-p). >. -p

o infine in forza della formula (V)

(IX) p> -p. > -p

In modo che risulta dimostrato non solo p (IV) ma anche -p (IX). Perciò noi abbiamo ottenuto due dimostrazioni parimenti rigorose che formano insieme l’antinomia p.

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SCHEMA LOGICO DELL’ANTINOMIA

P:

TESI P ANTITESI -P

Due sono le supposizioni possibili: o la tesi p o la sua negazione, l’antitesi -p

Due sono le supposizioni possibili: o l’antitesi -p o la sua negazione, l’antiantitesi -(-p) , cioè la tesi,

Nel primo caso non c’è nulla da dimostrare, nel secondo caso risulta che dall’antitesi di nuovo si ricava la tesi e quindi abbiamo l’alternativa “o la tesi o l’antitesi”.

p U p,

Nel primo caso non c’è bisogno di dimostrare l’antitesi, nel secondo caso risulta che dalla tesi di nuovo si ricava l’antitesi e quindi abbia - mo l’alternativa: “o l’antitesi o la tesi”

-p U -p.

cioè si afferma la tesi p. In simboli:

-p>p. >. p U p. >.p.

cioè si afferma l’antitesi -p. In simboli:

-(-p)> -p. > -p. U -p. >. -p.

Quindi. sia affermando immediatamente la tesi sia negandola, non possiamo evitarla.

Quindi, sia affermando immediatamente l’antitesi sia

negandola, non possiamo evitarla.

Con i metodi e le operazioni della logica pura abbiamo mostrato la possibilità dell’antinomia nel significato più stretto della parola.

La prima conseguenza che dobbiamo trarre è l’insufficienza della formula logica (IV) impiegata per dimostrare una tesi p, se non vi è inclusa la possibilità della formula (IX); perchè la presenza della tesi, non assicura affatto l’assenza dell’antitesi, anzi presuppone la presenza dell’antitesi, nel campo dello spirito sempre e in altri campi spesso. In altre parole, bisogna ogni volta convincersi non solo della verità della tesi p, ma anche chiarire se non sia la metà di un’antinomia P. Il procedimento proposto permette di dare all’antinomia la seguente definizione simbolica:

(X) P = (p ∩ - p) ∩ V

per comprendere la quale è necessario ricordare che V è il segno della verità (veritas) e ∩ l’operatore della moltiplicazione logistica, cioè il

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simbolo della comunità dei termini entro i quali è posto. Traducendo la formula (X) nel linguaggio comune, diciamo: “L’antinomia è una proposizione che essendo vera comprende in sé allo stesso tempo la tesi e l’antitesi e quindi è inaccessibile a qualsiasi obiezione”. L’aggiunta del simbolo V eleva l’antinomia al di sopra del piano del raziocinio ed è ciò che distingue l’antinomia P dalla menzogna A ( V rovesciato, o -V ) che sta sul piano del raziocinio e viene espressa dalla formula:

(XI) A = p ∩ -p

Ma che cos’è questo conmoltiplicatore V nella definizione dell’antinomia? Formalmente esso appare risultato di un certo processo che stabilisce nei riguardi di P che è vero, mentre gli altri due processi dimostrano che questo P è per sua struttura p e -p. Così per la logica pura V nella definizione di P è soltanto un’indicazione della posizione di P, del debito rapporto con esso, quasi una freccia che indica P ma che non fa parte dello stesso P. Nella sua composizione, P non si differenzia affatto dalla semplice contraddizione A e quindi nella sfera del raziocinio solo l’autorità è quella freccia che rivela la verità di P in confronto ad A. Ecco perchè per il cattolicesimo che è affogato nella dimensione (...) raziocinante ma che ha per proprio oggetto lo spirituale e quindi l’antinomico, l’autorità è tutto e il cattolico non può vivere senza l’autorità ferrea e l’indice indicatore del papa. Invece nel campo transensitivo e quindi transrazionalistico, l’aggiunta V nella definizione dell’antinomia indica la sua caratteristica costitutiva, la sua unità spirituale, la sua realtà transensibile, e nello Spirito Santo questa unità, questa realtà, viene immediatamente esperimentata e conseguita. Per maggior chiarezza si può svolgere la formula (X) come segue:

-p > p. ∩. P > -p : > : p ∩ -p ∩ -V=P (XII)

cioè: “se l’antitesi porta con sé la tesi e la tesi l’antitesi, l’insieme della tesi e dell’antitesi, se non è falso, è un’antinomia”. Non è difficile vedere come Kant si sia sforzato di far rientrare le sue antinomie in questo schema. Con maggior o minor precisione vengono presentate in questo schema anche tutte le antinomie in genere che la filosofia propone.

La verità è un’antinomia. La parola “antinomia” come termine filosofico è di origine molto posteriore, appare non prima della Critica della ragion pura kantiana, nell’anno 1781. Anteriormente era un termine giuridico e in parte religioso, ma, anche se il termine è posteriore, l’idea stessa della necessaria autocontraddittorietà del raziocinio è antichissima. Anzi possiamo supporre che all’inizio essa fosse un semplice riflesso della

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struttura mentale complessa, includente gli opposti, propria dei Greci antichi, sia nell’ambito individuale che in quello sociale.

“Su che cosa si basa la superiorità dell’intelletto greco?”, si domanda uno storico del pensiero greco. E risponde: “Il mistero di questo meraviglioso esito sta in una congiunzione di contrari. Una straordinaria ricchezza di fantasia creativa accoppiata a un dubbio sempre sveglio, curioso e che non indietreggia davanti a nessuna audacia; una possente attitudine alle generalizzazioni accoppiata a un acuto senso di osservazione, che analizza tutte le particolarità dei fenomeni; una religione che soddisfa pienamente tutte le esigenze dell’animo e non inceppa il raziocinio che ne analizzi le creazioni. Bisogna aggiungere la molteplicità di vari centri spirituali in emulazione reciproca, lo scontro continuo di forze che esclude il ristagno e infine l’ordinamento statale e la struttura sociale, abbastanza severi per frenare le disordinate “tendenze infantili “ degli scriteriati e abbastanza liberi per non ostacolare lo slancio delle intelligenze eminenti. In questo impasto di talenti e di circostanze possiamo individuare la fonte dell’esito altissimo raggiunto dallo spirito ellenico nella ricerca scientifica”. (T. Gomperz, Greceskie mysliteli, Pietroburgo 1911, vol. I, parte III, I, pp. 239).

Come ha inizio l’appercezione viva dell’antinomicità? Viveva nell’Asia minore un uomo dall’intelletto tragico, forse il più sensibile alla verità di tutti i filosofi antichi; almeno, non aveva quella rigidità interiore che spesso mortifica l’anima dei pensatori di professione. Proprio per questo i contemporanei lo chiamavano il Tenebroso (ò

Σχοτεινοζ); l’Eraclito di cui si diceva che tutta la vita piangesse sulla tragicità sua e del mondo.

Fu il primo ad avvertire chiaramente che esiste il Dio-Verbo, il primo a scoprire l’armonia superiore e l’unità transmondana dell’essere. “Ascoltando non me, ma la verità”, diceva, “è ragionevole riconoscere che tutto è uno... La sapienza è una (per essa intendi la ragione che dirige tutto per mezzo di tutto)... La ragione è per tutti la stessa...”. Questo filosofo che aspirava al “cuore intrepido della verità immutabile” (come diceva Parmenide) per tutta la vita continuò ad affermare la divisione, la frantumazione e l’antinomicità della nostra esistenza terrena. Avendo scoperto la perfetta armonia del Verbo, con tutta l’acutezza possibile per chi viveva prima di Cristo, vide l’inimicizia intestina del mondo. Ciò si ripeté in seguito più volte e possiamo attribuire alla contemplazione dell’unica sostanza perfino i ragni di Spinoza e la sua gioia ai fragori della guerra. Forse anche l’apostolo Paolo esprime in maniera purificata e spiritualizzata lo stesso sentimento devoto ed entusiasta, quando nella Lettera ai Romani contempla dall’altezza dell’eternità l’accecamento del popolo ebraico.

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Ma in Eraclito, “cristiano prima del cristianesimo”, questa nuova appercezione del dualismo tra l’infimo e il supremo fu ancora più acuta perchè assolutamente inconciliabile: “Gli uomini devono sapere”, egli esclama, “che la guerra è universale e che la giustizia è inimicizia, perchè tutto nasce e tutto perisce grazie all’inimicizia... La guerra è la programmatrice e la signora di tutto... Gli uomini (oh insensati !) Non è forse per voi che ha pianto tutta la vita il filosofo?) non capiscono come gli opposti armonizzino fra loro. L’armonia universale consiste nella somma della tensione e della distensione, come nell’arco e nella lira. La reazione apparenta: dai contrari si forma l’armonia perfetta; tutto nasce grazie all’inimicizia.... Perciò unisci l’intero e il parziale, il concorde e il discorde, il consonante e il dissonante. Tutto dà l’uno, e l’uno è il tutto...Per Dio tutto è bellezza, bontà e giustizia; per gli uomini una cosa è giusta e l’altra no”. (Giustino Filosofo, PG 6, col 397 C). Il mondo è tragicamente magnifico nel suo frazionamento; la sua armonia sta nella disunione. Questa è la dottrina paradossale di Eraclito, che in seguito fu sviluppata paradossalmente da Nietzsche nella teoria dell’ “ottimismo tragico”. Il tono fondamentale dei suoi stati d’animo, il loro succo e fiore viene definito in maniera perfettissima da un frammento che contiene una sola parola:

“CONTRADDIZIONE”. (ΑΓΧΙΒΑΣΙΗ)

La contraddizione! Con Eraclito ripetiamo il lamento tuttora attuale: “Gli uomini non comprendono questa verità, che esiste dall’eternità, finché non ne sentano parlare, e non la comprendono nemmeno quando ne sentono parlare la prima volta. Benché tutto avvenga secondo questa verità, gli uomini non capiscono quando nell’esperienza ritrovano le parole e i fatti così come io li espongo intendendo ogni fenomeno secondo la sua natura e spiegandolo secondo la sua essenza. Ad altri sfugge ciò che essi stessi compiono da svegli, così come dimenticano ciò che fanno nel sonno”.

Nella storia dell’idea di antinomia dobbiamo far seguire a quello di Eraclito i gloriosi nomi degli Eleati. Secondo loro il raziocinio si avvolge in contraddizioni insuperabili appena vuole aggrapparsi definitivamente a questo mondo egoisticamente frazionato nel tempo e nello spazio. Le loro idee sono troppo note per doverle qui ricordare.

Platone stesso fu un grande sostenitore dell’antinomicità della ragione, anche se finora non è stato inteso in questo suo aspetto. La maggior parte dei suoi dialoghi non è altro che una gigantesca antinomia, elaborata con ogni cura e artisticamente drammatizzata. La stessa preferenza di Platone per la forma dialogica dell’esposizione (cioè per la contrapposizione di convinzioni) suggerisce la natura antinomica del suo

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pensiero, ma quest’ultima diventa anche più sensibile se osserviamo che quasi ogni dialogo acuisce semplicemente la contraddizione approfondendo l’abisso tra il “si” e il “no”, tra la tesi e l’antitesi, senza risolvere affatto la questione in favore dell’uno o dell’altro. Una delle due: o si tratta di un eccellente antinomismo, oppure di una filosofia dell’integrità della ragione che fallisce.

Infine tra i rappresentanti profondi dell’antinomismo bisogna annoverare il cardinale Nicolò Cusano che insegnò la coincidentia oppositorum, cioè la coincidenza in Dio delle definizioni contraddittorie. Questa dottrina trovò un’espressione simbolica, singolare e plurisignificante nelle sue aggiunte della matematica alla teologia, che gli storici del pensiero purtroppo non hanno studiato e quasi non conoscono. E’ appena necessario ricordare altri nomi come Hegel, Fichte, Schelling, Renouvier, ecc., che sono abbastanza noti. Infine anche i nomi dei “pragmatisti” contemporanei si possono riportare sulle tavole dorate dell’antinomismo.

La conoscenza della contraddizione e l’amore alla contraddizione sono, insieme alla ‘scepsi” (atteggiamento di dubbio nella conoscenza, che può essere anche il punto di partenza per un ulteriore e più approfondita ricerca, dal gr. sképsis deriv. di sképtesthai “discernere”) ciò che di più alto ci ha dato l’antichità. Non dobbiamo, non osiamo lenire la contraddizione con l’unzione dei filosofemi! Che la contraddizione resti profonda, così come è. Se il mondo conoscibile è spaccato, neanche noi possiamo eliminare le sue crepe e non dobbiamo nemmeno nasconderle. Se la ragione conoscitiva è frazionata, se non è monolitica, se contraddice se stessa non dobbiamo fingere che non lo sia. Lo sforzo imponente del raziocinio umano di armonizzare le contraddizioni, lo stanco tentativo di nascondersi, sono atteggiamenti ai quali ora è bene contrapporre la coraggiosa ammissione della contraddittorietà

Tutto il Libro di Giobbe rappresenta questa esperienza incarnata della contraddizione, è tutto costruito sull’idea dell’antinomicità. Dio ci ricorda che “l’uomo non è la misura della creazione”, che “l’universo è costruito secondo un piano che infinitamente trascende la ragione umana”. I desideri e le opere di Dio sono essenzialmente incomprensibili per l’uomo e perciò gli sembrano irragionevoli (Giob. 23) “L’Onnipotente che non possiamo penetrare...Egli non guarda chi si crede sapiente” (Giob. 37, 23-24). “Tutto è mistero” dice Dostoevskij, “in tutto c’è il mistero di Dio.... Ed è meglio che sia mistero: esso è terribile e mirabile al cuore, e questo timore è per la letizia del cuore.... E’ ancor più bello che sia mistero....”. (I Demoni). Il mistero del disordine morale colpisce Giobbe per la sua grandezza, mentre i suoi amici non lo percepiscono nemmeno (Giob. 21) “Mettete il dito sulle vostre labbra”; un gesto di silenzio e

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mistero, lo stesso gesto che vediamo spesso sulle icone di Giovanni il Veggente.

I misteri della religione non sono segreti che non è lecito svelare, non sono parole d’ordine convenute di congiurati, ma invece esperienze inesprimibili, indicibili, indescrivibili, che non possono rivestirsi di parole se non nella contraddizione del “si” e del “no”. Sono “tutti misteri superiori alla ragione”; ecco perchè, fattosi inno liturgico, l’entusiasmo dell’anima assume inevitabilmente la veste di un gioco di concetti. Tutti i testi liturgici, e in particolare i canoni e le stichire, sono tumultuosamente fitti di queste contrapposizioni antinomiche e di affermazioni antinomiche spinte all’acme. La contraddizione è sempre un mistero dell’anima, un mistero di preghiera e di amore. Quanto più ci si avvicina a Dio, tanto più chiare sono le contraddizioni. Nella Gerusalemme celeste le contraddizioni non esistono, mentre quaggiù sono in tutte le cose e non le si può eliminare con le riforme delle strutture sociali e nemmeno con le deduzioni filosofiche. Qualcosa di grande, lungamente desiderato e tuttavia assolutamente inaspettato, (una grande gioia inattesa), improvvisamente appare, abbraccia tutto l’essere terreno, lo scuote, arrotola il cielo come pergamena, lava la terra, infonde nuove energie, tutto rinnova, tutto transustanzia, mostra le cose più semplici e ordinarie nello splendore accecante di una luminosa bellezza. Allora non ci saranno contraddizioni e non ci sarà nemmeno il raziocinio che ne è tormentato, adesso, quanto più chiara risplende la verità della luce trilucente mostrata da Cristo e riflessa nei giusti ( della luce in cui la contraddizione di questo secolo è vinta dall’amore e dalla gloria), tanto più evidenti appaiono le crepe del mondo. Le crepe di tutte le cose! Ma io voglio parlare delle crepe che si spalancano nella contemplazione intellettuale.

Nel cielo la verità è una, da noi c’è una moltitudine di verità, di schegge della verità che non si possono comporre tra loro. Nella storia del pensiero piatto e noioso della “nuova filosofia” Kant ebbe l’ardire di pronunciare la grande parola “antinomia”, che distrusse il decoro della pretesa unità. Anche solo per questo egli meriterebbe gloria eterna. Non importa se le sue antinomie sono malriuscite; importante è la sua esperienza dell’antinomia.

Dal punto di vista della dogmatica, le antinomie sono inevitabili. Se esiste il peccato, e la prima metà della fede sta nel riconoscerlo (si intende far cenno all’opera di F. Nietzsche), tutto il nostro essere e tutto il mondo sono spezzati. Partendo da un angolo del mondo o dal proprio intelletto noi non abbiamo nessun motivo di attendere il medesimo risultato che otterremmo partendo da un angolo diverso.

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L’incontro è improbabile. L’esistenza di una quantità di schemi e teorie discordanti, ugualmente coscienziose ma partenti da punti diversi, è la migliore dimostrazione delle crepe che solcano l’universo. La stessa ragione è frazionata e scissa, e soltanto la mente dei santi, purificata e piena di Dio, è un po’ più integra; in essa hanno incominciato a saldarsi le crepe e le scissure, in essa si va risanando la malattia dell’essere, si rimarginano le ferite del mondo, e proprio questa mente è l’organo che risana il mondo.

“Tu e i tuoi amici con i quali sei solito conversare”, si lamenta l’Ippia platonico davanti a Socrate, “non considerate le cose nella totalità, ma invece frazionate e macinate il bello e tutte le altre cose, spezzettandole nei vostri discorsi. Proprio per questo vi sfuggono i corpi dell’essenza tanto belli e per natura loro integri”. L’ingenuo Ippia vede una deficienza personale di Socrate in ciò che, in realtà, è la caratteristica necessaria della scienza come attività della ragione.

Noi di necessità spezzettiamo ogni cosa che vogliamo analizzare e distinguiamo l’analizzato in aspetti incompatibili. Considerando la stessa cosa da lati diversi, cioè agendo su diversi lati dell’attività spirituale, possiamo pervenire ad antinomie, a tesi incompatibili nel nostro raziocinio; solo nei momenti di grazia dell’illuminazione queste contraddizioni mentali sono eliminate, non in maniera razionale bensì transrazionale. L’antinomicità non dice affatto “O questo o quello non è vero”; non dice nemmeno: “Né questo né quello è vero” ; dice soltanto: “E questo e quello è vero, ma ciascuno a modo suo, mentre l’armonia e l’unità seno superiori alla ragione”. L’antinomicità proviene dal frazionamento dell’essere stesso, e il raziocinio fa parte dell’essere.

Noi mettiamo come limite ideale dove si supera la ragione il dogma. Ma per il raziocinio il dogma è soltanto formale; solo per l’anima piena di grazia esso si riempie di succo vitale e diventa verità che dimostra se stessa. Il dogma è per il raziocinio norma regolativa e per la ragione purificata dalla grazia, che accoglie la rivelazione, verità intuitivamente immediata. Il dogma, per il raziocinio, non è che un imperativo categorico il quale impone: Tu devi pensare in modo tale che ogni infrazione del dogma in una direzione venga immediatamente annullata con una corrispondente infrazione nella direzione esattamente opposta; tutte le tue operazioni raziocinanti sul dogma devono avvenire in modo tale, che rimanga sempre l’antinomia fondamentale del dogma”

Invece per la ragione purificata (il caso limite è la ragione del santo) il dogma è un assioma che dimostra se stesso e attesta: “Tu vedi la mia veridicità e la mia necessità interiore di essere antinomico rispetto al

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raziocinio; se adesso lo vedi indistintamente, lo vedrai chiaramente in seguito, quando ti purificherai ancora di più”.

Il dogma come oggetto della fede include necessariamente l’antinomia del raziocinio. Una tesi razionale è perfetta se non ci sono antinomie, ma in questo caso è una tesi scientifica e non un dogma; qui non c’è nulla da credere, non occorre purificarsi e compiere ascesi. Però mi sembra un gran sacrilegio pensare che la verità religiosa sia attingibile senza ascesi, in qualunque stato d’animo. E’ vero che per grazia questa verità può balenare a un intelletto impuro per attrarlo, ma non può essere accessibile a chiunque. D’altra parte la coscienza in questo caso non sarebbe piena, profonda, non abbraccerebbe l’essenza interiore dell’oggetto. Infatti noi non possiamo pensare integralmente l’essenza dell’oggetto religioso e non siamo in grado di impadronircene con il raziocinio, senza scomporlo. E poi il raziocinio non può non limitarsi a uno solo degli aspetti dell’oggetto: proprio qui sta l’eresia. L’eresia, anche quella mistica, è una unilateralità razionalistica che si afferma come il tutto. L’eresia è una scelta, oppure un’inclinazione o predisposizione a qualche cosa che poi viene scelta, una maniera particolare di pensare da cui derivano poi un partito, una setta, una

scuola filosofica. Insomma nel termine αιρεσιξ (dal gr. hairesis, propr. “scelta”, deriv. di hairein “scegliere”) è contenuta l’idea di una unilateralità, di una certa concentrazione unidirezionale su una sola tra molte affermazioni possibili ( Simon Mago, i nicolaiti, gli gnostici di tutte le tendenze, i montanisti, i templari, gli spirituali, ecc. ). L’ortodossia è universale mentre l’eresia è per essenza partitica. Lo spirito di setta è generato dall’egoismo e dall’isolamento spirituale; una tesi unilaterale è posta a fondamento della verità assoluta e perciò esclude tutto ciò che appaia completamente antinomico alla sua autonomia mortificata. L’oggetto della religione, cadendo dal cielo dell’esperienza spirituale nella carnalità del raziocinio, viene inevitabilmente scisso in aspetti che si escludono a vicenda. Opera della ragione ortodossa ecumenica è raccogliere tutti i frammenti, la loro totalità, mentre opera dell’intelletto eretico e settario è scegliere i frammenti che fanno comodo. “Bisogna possedere molte corde per suonare sulla lira dell’eternità” (Perfino nella Optina, monastero famoso per l’intensità della sua vita ascetica e mistica, visitato dai maggiori spiriti del tempo, L:N: Tolstoj aveva la sfrontatezza di parlare del “mio vangelo”).

La pienezza nell’unità, la pienezza integrale viene solo postulata dal raziocinio ma perché il postulato sia un dato intuitivo bisogna che cessi l’attività razionale, bisogna trasferirsi nel pensiero soccorso dalla grazia, dell’essere umano restaurato, purificato e ricostituito. Cristo ha dato il germe della nuova creatura, “il germe di Dio” (Gv. 3, 9) e la ferma roccia sulla quale possiamo metterci in salvo dall’ “epochè” (La sospensione del

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giudizio circa una questione o un problema. Dal gr. epochè “sospensione”, deriv. di epéchein “trattenere”).

Noi possiamo soltanto aspirare alla pienezza dei nessi; darla può solo colui che laverà tutta l’impurità della creatura: lo Spirito Santo. Con lo Spirito si attingono i dogmi, nello spirito c’è la pienezza della comprensione. Nel frattempo le antinomie intellettuali della fede sono tanto più acute e tanto più varie quanto più profonda e sinfonica è la nostra esperienza. In effetti il Libro sacro è pieno di antinomie. Sono tessuti di antinomie non solo le argomentazioni dei vari autori biblici (per esempio, in Paolo la giustificazione attraverso la fede, e in Giacomo attraverso le opere), ma il medesimo autore nella cornice della medesima opera, nel medesimo passo. Le antinomie si allineano talvolta nel medesimo versetto e in passi importantissimi che come un vento possente scrollano l’anima dei fedeli e come un fulmine colpiscono le cime dell’intelletto. Soltanto una genuina esperienza religiosa coglie le antinomie e vede come sia possibile la loro armonizzazione di fatto; l’intelletto positivistico non le vede oppure considera la loro urgenza un manierismo letterario, o addirittura patologico.

Prendi l’apostolo Paolo. La sua brillante dialettica religiosa consta di una serie di fratture, di affermazioni antinomiche. Talvolta c’è antinomia perfino nella frattura stilistica dell’esposizione, nell’asindeto esteriore: argomentazioni razionalmente contraddittorie e che si escludono a vicenda, qui si affrontano in armi.

Invece l’appercezione immediata in questi “sì” e “no” che si ergono l’uno contro l’altro come rocce vergini, porta ad una superiore unità religiosa capace di ricevere il coronamento dello Spirito Santo Quale insensibilità interiore, quale mancanza di gusto religioso sarebbe il tentare di ridurre piattamente tutti questi “sì” e “no”, di ritenere inesistente questo o quello strato! Le antinomie sono dell’essenza stessa delle esperienze vitali, ne sono inscindibili come il colore del petalo dal suo pigmento. E’ come una nebbia dipinta in un quadro, un ricamo cucito nella stoffa: se per voler vedere più chiaro il quadro e rendere liscia la stoffa ci mettessimo a cancellare la nebbia e il ricamo, dovremmo distruggere la sostanza stessa del quadro e della stoffa, distruggere il quadro e la stoffa. Così è nella religione: le antinomie sono elementi costitutivi della religione pensata razionalmente, la tesi e l’antitesi sono come il fondo e la trama che intrecciano il tessuto stesso dell’esperienza religiosa. Dove non c’è antinomia non c’è nemmeno la fede, ed essa scomparirà solo quando la fede e la speranza verranno meno e rimarrà soltanto l’amore (1 Cor. 13, 3-13).

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Quanto freddo e lontano, ateo e anchilosato mi appare il tempo della mia vita quando ritenevo risolvibili e non ancora risolte le antinomie della religione, quando nella mia pazzia orgogliosa affermavo il monismo logico della religione.

La rinuncia a se stessi è l’unica cosa che si avvicini alla somiglianza di Dio. Ma la rinuncia in genere e la rinuncia alla ragione in specie è una sciocchezza, una insensatessa per il raziocinio. A non può essere non -A: è “impossibile” e anche “indubbio”! L’amore fa dell’Io un non-Io, perchè il vero amore sta nella rinuncia al raziocinio.

Ma basta con le antinomie in generale. Saltano agli occhi le antinomie paoline, e la ragione è molto semplice. In Paolo alla profondità della contemplazione teosofica si accoppia la forma dialettica, mentre negli altri autori sacri la forma è alquanto aforistica o anche sistematica. L’intelletto non è preparato ai nessi e perciò non coglie subito le contraddizioni dietro alla varietà degli aforismi. Invece l’esposizione dialettica prepara l’intelletto ai nessi e, quando la successione di questi viene interrotta da un cozzo dove si incontrano la tesi con l’antitesi, la ragione sobbalza senza volerlo, perchè è chiaro che le si chiede di sacrificarsi.

L’esempio più adatto per noi è la Lettera ai Romani, la più dialettica e la più infuocata, una bomba esplosiva contro il raziocinio, una bomba carica di antinomie. Ecco qui il prospetto di alcune di esse, che del resto abbiamo scelto a caso, riservandone qualcuna per libri che intendiamo pubblicare in futuro

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ESEMPI Dl ANTINOMIE DOGMATICHE

Tesi Antitesi

- Dio è

di un’unica sostanza triipostatico

Le due nature in Cristo sono unite

senza confusione, immutabilmente indivisibilmente, inseparabilmente

Rapporto dell’uomo a Dio

predestinazione. Rom. 9 (spiega il rigetto di Israele dal punto di vista oggettivo e teologico), cioè, risponde al quesito “ a che scopo?”.

libertà del volere. Rom. 9, 30; 10, 21 (spiega il rigetto di Israele dal punto di vista morale e antropologico), cioè, risponde al quesito “per quale motivo?”.

Il peccato

avviene per la caduta di Adamo, cioè come fenomeno casuale nella carne (Rom. 5, 12-21).

avviene attraverso la finitezza della carne, cioè come realtà ad essa necessaria (1 Cor. 15, 50 e ss. )

Il giudizio.

Cristo giudica di tutti i cristiani alla sua seconda venuta (Rom. ”2,16; 14, 10; 1 Cor. 3, 13; 2 Cor. 5,10)

Dio che giudica definitivamente tutti gli uomini attraverso il Cristo (1 Cor. 15, 50 e ss. ).

La rimunerazione

A tutti secondo le loro opere (Rom. 2,6-1O; 2 Cor. 5,10)

libero perdono dei redenti (Rom. 4,4 ;9,11; 11,6).

Il destino finale

restaurazione universale e beatitudine universale (Rom. 8, 19-23; 11,30-36).

duplice fine (Rom. 2, 5-12) “perdizione” (2 Cor 2, 1 5 e pas. ).

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La fede

è libera e dipende dalla buona volontà dell’uomo (Gv. 3, 16-18).

è un dono di Dio, non si trova nella volontà umana, ma nella volontà del Padre che trae a Cristo (Gv. 6,44)

La venuta di Cristo

Sono venuto in questo mondo perchè si operi un giudizio” (Gv. 9, 39).

“Non sono venuto a giudicare il mondo” (Gv. 12,47).

Il merito

necessità dello sforzo umano (1 Cor. 9, 24: “Correte anche voi in modo da ottenerlo”).

L’inefficacia dello sforzo umano (Rom. 9, 16: “Dunque non dipende da colui che vuole, né da colui che corre, ma da Dio che usa misericordia”).

“Lavorate per la vostra salvezza con timore e tremore...”.

“.... Perchè è Dio che produce in voi a suo piacimento il volere e l’operare” (fil. 2, 12-13).

Cfr. “L’anima del Signore voleva liberamente, ma voleva liberamente ciò….”

“……Che doveva volere per disposizione del volere della sua divinità” (Giovanni Damasceno, Confessio fidei orthodoxae, 3, 18).

La grazia

“Quando si moltiplicò il peccato sovrabbondò la grazia” (Rom. 5,20)

Peccheremo allora perchè non siamo soggetti alla Legge ma alla grazia? Non sia mai! (Rom. 6,15).

“Chiunque dimora in Lui (nel Cristo) non pecca” (1 Gv. 3, 6). “Chiunque è nato da Dio non commette peccato.... e non può peccare” (1 Gv. 3, 9).

“ Se dicessimo che non abbiamo alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi” (1 Gv. 1,8)