Sofferenza

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La Sofferenza

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“La possibilità di soffrire è inerente all’esistenza stessa di un mondo in cui è possibile che delle anime si incontrino.

Quando certe anime diventano malvagie è certo che sfrutteranno questa possibilità per farsi del male, e questa è forse la causa dei 4/5 delle sofferenze degli uomini”.

“Gli uomini, e non Dio, hanno inventato strumenti di tortura, fruste, prigioni, la schiavitù, fucili, baionette, bombe; è per l’avarizia o la stupidità umana che abbiamo la povertà e il superlavoro”.

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“Ciononostante rimane molta sofferenza che non può essere ricollegata in questo modo a noi stessi.

Anche se tutte le sofferenze fossero causate dall’uomo, vorremo sapere la ragione per cui Dio permette ai peggiori fra gli uomini di torturare i loro fratelli.

Dire che il bene è in primo luogo un bene correttivo o riparatore è una risposta incompleta.

Non tutte le medicine hanno un gusto cattivo e, anche se lo avessero, questo è proprio uno dei fatti spiacevoli dei quali ci piacerebbe conoscere la ragione”.

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a) Un particolare tipo di sensazione, probabilmente trasmessa da particolari fibre nervose, e riconoscibile dal paziente come proprio quel tipo di sensazione, sia che gli piaccia o no (un leggero male agli arti sarebbe considerato come un male anche se non mi desse molto fastidio).

b) Qualsiasi esperienza sia fisica sia mentale che è spiacevole per il paziente.

Tutte le sofferenze nel senso A diventano sofferenze nel senso B se vengono fatte salire al di sopra di un certo livello molto basso di intensità, mentre le sofferenze di senso B non sono necessariamente sofferenze nel senso A.

La sofferenza nel senso B è sinonimo di “dolore”, “angoscia”, “avversità” ed è qui che sorge il problema della sofferenza.

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Il vero bene di una creatura consiste nell’arrendersi al suo Creatore, nel vivere intellettualmente, volitivamente ed emotivamente quel rapporto che è implicito nel fatto stesso di essere creatura. Quando questo succede, tutto va bene. In questo il modello è Dio stesso nel Figlio: Gesù, il “nuovo Adamo”.

Noi non siamo solo creature imperfette che devono migliorare; siamo, come disse Newman, ribelli che devono cedere le armi.

“Perché la nostra cura deve essere dolorosa?” È che restituire quella volontà che abbiamo per tanto tempo rivendicato come nostra è in sé un gran dolore. Rinunciare a una volontà accesa e gonfiata da anni di usurpazione è un po’ come morire.

Da qui sorge la necessità di morire ogni giorno; possiamo pensare spesso di aver spezzato il nostro io ribelle, ma lo troveremo sempre ancora vivo.

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Fino a quando le cose andranno bene, lo spirito umano non comincerà neppure a tentare di rinunciare alla sua volontà.

L’errore e il peccato hanno entrambi questa caratteristica, che più sono gravi, meno la loro vittima ne sospetta l’esistenza; sono un male mascherato.

La sofferenza, invece, è un male palese e inequivocabile; tutti sanno che quando si prova un dolore qualcosa non va. Non solo, però, è un male immediatamente riconoscibile, ma un male che è impossibile ignorare.

Possiamo riposare soddisfatti sui nostri peccati e sulle nostre stupidaggini ma la sofferenza richiama sempre attenzione.

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Un uomo malvagio che sia felice non ha la minima idea che le sue azioni non siano “rispondenti” alle leggi dell’universo ed ecco qui la convinzione umana che i malvagi debbano soffrire (il megafono di Dio!). Questo appaga il desiderio di giustizia di tutti, è il concetto della “punizione retributiva”, il “dare a qualcuno quello che si merita” (“occhio per occhio …”).

Per alcuni la punizione dovrebbe essere limitata al solo valore di deterrente per gli altri e per riformare il criminale e non anche come “retribuzione”.

Così facendo, però, si renderebbe ingiusta ogni punizione. Che cosa ci potrebbe essere di più ingiusto di infliggere dolore su di me per scoraggiare gli altri se io non lo merito? E se lo merito, ecco il concetto di “retribuzione”.

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La sete di vendetta è un male che è vietato espressamente ai cristiani. Hobbes diceva che la vendetta è: “il desiderio di condannare qualcuno per un’azione da lui compiuta, facendolo soffrire”.

La vendetta perde di vista il fine concentrandosi sui mezzi, ma il suo scopo non è del tutto negativo: vuole che il male compiuto dall’uomo malvagio sia per lui quello che è per tutti gli altri.

Il vendicatore non vuole soltanto che il colpevole soffra ma che soffra per mano sua e che sappia il perché.

Fino a quando il malvagio non riconosce la presenza inequivocabile del male nella sua esistenza sotto forma del dolore, vive prigioniero di un’illusione. Una volta che il dolore lo abbia scosso, egli capisce che in un modo o nell’altro si è messo “contro” l’universo reale allora o si ribella oppure tenta di correggersi.

Quando i nostri antenati dicevano che dolori e sofferenze erano la “vendetta” di Dio sul peccato, non attribuivano a Dio passioni malvagie ma l’elemento positivo della “retribuzione”.

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“I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.

-Viva la libertà – gridarono i due adulti.

Il piccolo, lui, taceva.

-Dov’è il Buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dietro di me.

A un cenno del capo del campo le tre sedie vennero tolte. Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.

-Scopriteli! – urlò il capo del campo. La sua voce era rauca.

Quanto a noi, piangevamo.

-Copritevi!

-Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile. Anche se lievemente il bambino viveva ancora … E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.

Dietro di me udii il solito uomo domandare:

-Dov’è dunque Dio?

E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:

-Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca …”

(Elie Wiesel, nobel per la pace, ebreo, ricorda un evento a cui ha assistito quando era internato ad Auschwitz)

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“Credo nel sole anche quando non splende; credo nell’amore anche quando non lo sento,

credo in Dio anche quando tace”(Scritta trovata a Colonia, dove si rifugiavano gli Ebrei)

“Mi puoi offendere, mi puoi colpire … Sempre crederò in te. Sempre ti

amerò”.

“Non tendere troppo la corda perché non si sa mia potrebbe spezzarsi”.

(Il personaggio di Yossl Rakover, ebreo di Varsavia)

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«Poiché la vita di Cristo è in «Poiché la vita di Cristo è in ogni sensoogni senso

amara per la natura, per l'Io amara per la natura, per l'Io e per Me stessoe per Me stesso

(perché nella vita di Cristo (perché nella vita di Cristo l'Io, Me stesso el'Io, Me stesso e

la natura devono esserela natura devono esseredimenticati e perduti e dimenticati e perduti e

addirittura morire), addirittura morire), la natura la natura in ognuno di noi ne ha in ognuno di noi ne ha

orrore».orrore».Theologia germanica, xxTheologia germanica, xx

«Poiché la vita di Cristo è in «Poiché la vita di Cristo è in ogni sensoogni senso

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addirittura morire), addirittura morire), la natura la natura in ognuno di noi ne ha in ognuno di noi ne ha

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Senza dubbio il dolore come megafono di Dio è uno strumento terribilestrumento terribile e può condurre a una ribellione definitiva e impenitente, ma fornisce al malvagio l’unica occasione di ravvedersi.

“Dio vuole darci qualcosa, ma non può perché abbiamo le mani piene; non c’è posto per metterci niente”. (Sant’Agostino)

“per noi Dio è quello che è il paracadute per l’aviatore: c’è in caso di emergenza, ma lui spera di non doverlo usare mai”.

Finché la nostra vita sarà piacevole, non la cederemo mai a LuiFinché la nostra vita sarà piacevole, non la cederemo mai a Lui. Che cosa può dunque fare Dio nel nostro interesse se non renderci la vita meno piacevole e eliminare le plausibili fonti della nostra falsa felicità? Rimaniamo perplessi quando si abbattono sventure su persone rispettabili, inoffensive … Dio, che ha creato queste persone meritevoli, “infligge” su di loro (vedi Giobbe!) delle sofferenze, avvisandoli (è un campanello di allarme!!è un campanello di allarme!! Es. bocciatura) in anticipo di una insufficienza che un giorno dovranno scoprire.

Questa è la “Divina Umiltà” perché è meschino ammainare la nostra bandiera davanti a Dio quando la nave affonda, è meschino rivolgersi a Lui come all’ultima speranza di salvezza, offrirgli “ciò che è nostro” quando ormai non vale più la pena di tenerlo. Se Dio fosse orgoglioso, a queste condizioni, non ci accetterebbe, ma Dio si abbassa per conquistarci.

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I nostri padri dicevano che le sventure erano mandate per “provarci”. Un esempio ben noto è la “prova” di Abramo quando gli fu ordinato di sacrificare Isacco.

“Se Dio è onnisciente avrebbe dovuto sapere quello che Abramo avrebbe fatto senza metterlo alla prova – perché dunque sottoporlo a quella inutile tortura?”

Ma, come fa notare S. Agostino, indipendentemente da quello che poteva sapere Dio, Abramo non avrebbe in ogni caso saputo che la sua obbedienza avrebbe potuto far fronte a un tale ordine fino a quando quell’episodio non glielo insegnò; e l’obbedienza che non sapeva che avrebbe scelto, non si può dire che l’abbia scelta lui. Dire che Dio “non avrebbe avuto bisogno di fare quella prova” è dire che, siccome Dio sa qualcosa, non è necessario che questa cosa esista.

“Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8)

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La filosofia del “morire” non è propria solo del cristianesimo. La natura stessa l’ha scritta in tutto il mondo nel dramma perenne del seme sepolto e del grano che risorge: “senza spargimento di sangue non c’è perdono”.

L’asceta indiano che mortifica il copro su un letto di chiodi predica la stessa lezione. L’ateo sensibile e nobile dell’era moderna fa “morire alla vita” i suoi dei immaginari.

La particolarità del cristianesimo non è di insegnare questa dottrina ma di renderla, in vari modi, più sopportabile, affrontabile, vivibile e questo lo troviamo nel nostro modello: Gesù.

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“Tutti i ragionamenti addotti a giustificazione della sofferenza susciteranno certo un amaro

rancore contro di me. Vi piacerebbe sapere come mi comporto io

quando provo un dolore e non quando ci devo scrivere un libro.

Non occorre che cerchiate di indovinarlo, ve lo dirò io: sono un

gran vigliacco. […] Farei qualsiasi Farei qualsiasi cosa pur di trovare una via d’uscita.cosa pur di trovare una via d’uscita. Ma che senso ha parlare delle mie

sensazioni personali? Le conoscete già: sono le stesse che provate voi. Non voglio dire che il dolore

non sia doloroso. Il dolore fa male: è questo che significa la parola. Sto solo cercando di far vedere che la

vecchia dottrina cristiana secondo la quale si deve “raggiungere la

perfezione attraverso la sofferenza” non è incredibile. Ma dimostrare che

sia gradevole va al di là delle mie intenzioni”.

(C. S. Lewis)

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Il momento preciso in cui si avverte il dolore è solo il centro di quello che si potrebbe chiamare il “sistema dolorifico”, che si estende fino ad includere anche la paura e la compassione. Gli effetti positivi possibili di queste due sensazioni dipendono da quel centro; così, anche se il dolore in sé non avesse un valore spirituale, se lo avessero la paura e la compassione, il dolore avrebbe ragione di esistere perché possa esserci qualcosa da temere e compatire. E non c’è dubbio che paura e compassione ci aiutino a tornare all’obbedienza e all’amore.

Gli effetti della compassione, che tutti abbiamo sperimentato, ci aiutano ad amare ciò ci aiutano ad amare ciò

che che non è amabile, cioè ad amare gli altri

non perché ci risultino in alcun modo simpatici

ma per il solo fatto che sono nostri fratelli. Lo

stesso vale per la paura (per esempio quello che

si instaura tra le persone nelle guerre …)

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Quando consideriamo il dolore in sé dobbiamo stare Quando consideriamo il dolore in sé dobbiamo stare attenti ad attenti ad attenerci a quello che sappiamo e non a attenerci a quello che sappiamo e non a

quello che immaginiamoquello che immaginiamo. .

Il dolore umano lo conosciamo mentre il dolore degli Il dolore umano lo conosciamo mentre il dolore degli animali lo possiamo solo speculare. Ma anche animali lo possiamo solo speculare. Ma anche

limitandoci alla razza umana dobbiamo desumere le limitandoci alla razza umana dobbiamo desumere le nostre prove da esempi che abbiamo osservato nostre prove da esempi che abbiamo osservato

personalmente. personalmente.

La tendenza di molti romanzieri e poeti è il La tendenza di molti romanzieri e poeti è il rappresentare la sofferenza come totalmente negativa rappresentare la sofferenza come totalmente negativa

nei suoi effetti, come se producesse e giustificasse ogni nei suoi effetti, come se producesse e giustificasse ogni genere di cattiveria e brutalità nel sofferente.genere di cattiveria e brutalità nel sofferente.

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“Ho visto una grande bellezza nello spirito di alcune persone che hanno sofferto molto. Ho

visto che gli uomini generalmente migliorano e non peggiorano con gli anni, e ho

visto malattie mortali produrre tesori di forza d’animo e

mansuetudine nei soggetti meno promettenti.

[…]

Se il mondo è davvero una “valle che forgia le anime”, sembra nel suo complesso che adempia la

sua funzione.”(C. S. Lewis)

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Nella dottrina cristiana della sofferenza c’è un paradosso.

Beati sono i poveri, ma con la nostra giustizia sociale e la nostra

carità dobbiamo cercare di eliminare la povertà dovunque

possibile.

Beati sono i perseguitati, ma possiamo evitare la persecuzione

fuggendo da una città all’altra e possiamo pregare che questa prova

ci sia risparmiata.

MA SE LA SOFFERENZA È MA SE LA SOFFERENZA È POSITIVA, NON POSITIVA, NON

DOVREMMO CERCARLA DOVREMMO CERCARLA INVECE DI EVITARLA?INVECE DI EVITARLA?

LA SOFFERENZA NON È POSITIVA IN SE.

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Ciò che è positivo in ogni esperienza dolorosa è, per il

sofferente, la sua sottomissione alla volontà di Dio

e, per chi l’osserva, la compassione che suscita e gli atti di misericordia a cui porta.

Nel nostro universo possiamo distinguere:

1) Il bene puro che discende da Dio.

2) Il male puro prodotto da creature ribelli

3) Lo sfruttamento di quel male da parte di Dio per il Suo piano di

redenzione che produce

4) Il bene complesso a cui contribuiscono l’accettazione

della sofferenza e il soffrimento del peccato.

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Il fatto che Dio possa trarre da un male puro un bene non scusa coloro che commettono il male puro.

Le malvagità devono essere commesse, ma guai a coloro che le commettono; è vero che i peccati fanno abbondare la grazia, ma non dobbiamo farcene una scusa per continuare a peccare.

La crocifissione è stato l’avvenimento più bello, come pure il più brutto, della storia, ma il ruolo che vi svolge Giuda resta sempre negativo.

L’uomo misericordioso cerca il bene del suo prossimo e così facendo compie la volontà di Dio. L’uomo crudele opprime il suo prossimo e così facendo commette il male puro. Ma nel commettere tale male è usato da Dio, senza che lui lo sappia e lo approvi, per produrre il bene complesso. Noi contribuiamo al piano di Dio indipendentemente da come ci comportiamo ma c’è differenza tra attuare come Giuda o come Giovanni.

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Dio ci nega, per la natura stessa del mondo, la felicità stabile e la

sicurezza che desideriamo tutti, ma di gioia, piacere e divertimento ne ha

disseminati dappertutto. Non abbiamo mai la sicurezza, ma

abbiamo un sacco di occasioni di allegria e perfino qualche momento

di estasi.

Non è difficile capire perché.

La sicurezza che agogniamo ci indurrebbe a porre il nostro cuore

sulle cose di questo mondo e costituirebbe un ostacolo al nostro ritorno a Dio; ma pochi momenti di

un amore felice, una partita di calcio, uscire con i nostri amici … non ci

fanno correre questo rischio. Il nostro Padre ci ristora, nel viaggio, in alcune piacevoli locande, ma non ci incoraggia mai a scambiarle per la

nostra vera casa.

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NON ESISTE UNA “SOMMA DI SOFFERENZA”, perché nessuno la sperimenta mai. Quando una singola persona ha raggiunto il massimo di quello che può soffrire, ha raggiunto

certo qualcosa di orribile, ma ha raggiunto tutta la sofferenza possibile

nell’universo. L’addizione di un milione di compagni nella sofferenza

non può aggiungere altro dolore.

“Supponiamo che io abbia un mal di denti di intensità x, e supponiamo

che anche tu, che sei seduto accanto a me, comincia ad avere un mal di denti di intensità x. Volendo, si può dire che la somma totale di dolore nella stanza corrisponde ora a 2x; ma bisogna ricordare che nessuno

sta soffrendo con intensità 2x: cercate pure ovunque nel tempo e

nello spazio, ma non troverete nessuno che abbia coscienza di

questo tipo di sofferenza “composta”.

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Il male intellettuale o l’errore possono ripresentarsi perché la causa del primo errore (come la fatica o una brutta scrittura) continua ad essere operante. L’errore di per sé genera errore. Il peccato può

ripresentarsi perché la tentazione originale continua ma, al di là di questo, il peccato di per sé genera peccato. Ora il dolore, come gli

altri mali, può naturalmente ripresentarsi se la causa del primo dolore è ancora operante; ma la sofferenza in sé non ha una

tendenza intrinseca a proliferare. Quando è finita è finita e quello che segue naturalmente è la gioia. Dopo un errore non si devono soltanto rimuovere le cause ma si deve anche correggere l’errore

stesso; dopo un peccato non si deve soltanto eliminare la tentazione (se possibile) ma anche tornare indietro e pentirsi del peccato stesso. È necessario un processo di disfacimento. Ma il dolore non richiede questo disfacimento. Si potrà aver bisogno di curare la malattia che l’ha causato, ma il dolore, una volta finito, è

sterile. Il dolore, a differenza dell’errore e del peccato, non produce in chi ne è testimone alcun effetto negativo; anzi ne produce uno

positivo, la compassione.

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