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1 UNIVERSITÀ DI PARMA Corso di Laurea in Relazioni Internazionali ed Europee Corso di Laurea in Servizio Sociale Dispense di: SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI E POLITICHE SOCIALI Corso Profssa VINCENZA PELLEGRINO 1 1 Ringrazio il prof Marco Deriu per gli appunti da lui forniti per queste dispense.

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UNIVERSITÀ DI PARMA

Corso di Laurea in Relazioni Internazionali ed Europee Corso di Laurea in Servizio Sociale

Dispense di:

SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI E POLITICHE SOCIALI

Corso Profssa VINCENZA PELLEGRINO1

1 Ringrazio il prof Marco Deriu per gli appunti da lui forniti per queste dispense.

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POLITICHE SOCIALI E STATO SOCIALE

Cerchiamo di cogliere gli aspetti più generale di definizione e inquadramento

della definizione di Politiche Sociali (rimando al saggio di MT Bordogna).

Innanzitutto non esistono definizioni indiscusse. Esistono finizioni diverse delle

politiche sociali e molte di queste presuppongono punti di vista e sottolineature

particolari. In realtà le definizioni solitamente accompagnano la stessa evoluzione

degli interventi di politiche sociali e quindi sono soggette a cambiamento sulla base

dell’affermazione di nuove forme di intervento.

Quindi le definizioni che proporremo non sono materia di religione ma un tentativo

di definizione di massima.

Un primo aspetto fondamentale da tenere a mente riguarda la differenza tra

politiche pubbliche e politiche sociali.

Per politiche pubbliche si intende generalmente il prodotto di quelle specifiche

decisioni (azioni ma anche non azioni) intraprese, sotto forma di prassi, leggi e

direttive, dalle autorità pubbliche - fondamentalmente le istituzioni di Governo nelle

sue differenti scale, i partiti, lo Stato, le differenti amministrazioni, gli enti e tutti gli

apparati – che coprono un ampio ventaglio di ambiti di interesse collettivo:

- Politiche generali

- Giustizia e diritti civili

- Politiche economiche

- Politiche dell’educazione

- Politiche sociali e del lavoro

- Politiche sanitarie

- Politiche ambientali

- Politiche urbanistiche

- Politica estera, difesa e sicurezza

- Tassazione e spesa

- Politiche turistiche

- Ecc.

Le “politiche sociali” dunque coprono solamente una parte delle politiche

pubbliche ovvero quelle che svolgono l’obbiettivo di promuovere il benessere e la

protezione sociale della popolazione.

Potremmo anche dire che le politiche sociali rappresentano la garanzia

dell’inclusione sociale e le fondamenta di una reale cittadinanza sociale, ovvero la

possibilità di partecipare alla vita sociale, civile ed economica.

Tradizionalmente come politiche sociali vengono considerate:

- le politiche previdenziali (invalidità, infortuni sul lavoro, vecchiaia, malattie

professionali, assegni per le famiglie, congedi parentali);

- le politiche del lavoro (tutela del lavoro e garanzie contro il rischio di

disoccupazione);

- le politiche sanitarie (protezione verso i bisogni sanitari e i rischi di malattie);

- le politiche socio-assistenziali (servizi alla persona e garanzie contro i rischi di

esclusione sociale).

D’altra parte alla definizione delle politiche sociali concorrono oltre al Governo e allo

Stato anche altri attori. Gli attori delle politiche sociali sono principalmente

quattro: lo Stato, il mercato, il terzo settore e le famiglie.

Con Stato intendiamo tutti gli enti pubblici che hanno una qualche forma di

legittimazione e di potere coercitivo nei differenti livelli: federale, statale, regionale,

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provinciale, comunale. A livello territoriale troviamo anche le associazioni di Comuni,

le Comunità Montane, i Consorzi tra differenti enti pubblici, le Asl, le Aziende

Ospedaliere.

Lo Stato si occupa fondamentalmente di regolamentare le attività delle persone e di

attenuare o bilanciare le spinte del mercato. Inoltre gioca un ruolo fondamentale nella

raccolta di risorse e nella redistribuzione delle opportunità tra cittadini, sia attraverso

dei trasferimenti monetari, sia attraverso l’offerta di servizi gratuiti o a basso costo.

Lo Stato svolge anche una funzione produttiva poiché produce una serie di servizi e

prestazioni dirette che offre ai suoi cittadini. Infine garantisce una copertura

assicurativa attraverso meccanismi pensionistici o l’introduzione dell’obbligo di

assicurazione per proteggere i cittadini da possibili rischi.

Naturalmente nel suo operare lo Stato manifesta anche alcuni limiti. Può avere

alcune difficoltà ad individuare e registrare le richieste e le preferenze da parte della

cittadinanza. Di fatto l’indicazione fondamentale è quella delle elezioni, ovvero

l’orientamento espresso attraverso il voto popolare. Tuttavia come indicazione è

piuttosto grossolana ed approssimativa anche perché le scelte di voto dipendono da

varie elementi e questioni ed è difficile trarne indicazioni chiare in merito alle politiche

sociali. Un secondo problema dell’attività dello Stato è data dalla tendenza a fornire un

insieme di servizi tutto sommato standardizzati, che in parte rispondono ad una

necessità di equità ed uniformazione ma dall’altra si dimostrano incapaci di adattarsi

alle specificità e alle differenti necessità emergenti nei diversi casi. Altri limiti

dell’azione statale nelle politiche sociali possono essere ricondotti alla lentezza e

rigidità delle procedure burocratiche o ai problemi di pianificazione e reperimento delle

risorse.

Con Mercato intendiamo tutte quelle imprese e società private che hanno

principalmente uno scopo di lucro. Il mercato svolge fondamentalmente due funzioni

quella produttiva, di produrre beni e servizi e quella allocativa ovvero di garantire una

certa distribuzione e soddisfazione delle richieste dei consumatori. Anche l’azione del

mercato, in particolare per quello che riguarda la risposta ad alcuni bisogni sociali,

presenta diversi limiti. Intanto anche all’interno di un sistema di mercato ci si muove

generalmente in un regime di informazioni imperfette. In secondo luogo sappiamo che

spesso la presenza di monopoli o oligopoli può distorcere la percezione

dell’orientamento dei consumatori e le possibilità di effettiva corrispondenza alle

necessità delle persone. Di fatto il mercato soddisfa solo alcune domande o bisogni,

per esempio quei bisogni che possono essere trasformati in richieste di merci o servizi.

Inoltre il mercato inevitabilmente risponde alle richieste solamente di quei cittadini

consumatori che possono permettersi di pagare per la soddisfazione delle proprie

necessità. D’altra parte si potrebbe anche notare che, seguendo l’imperativo della

creazione di profitto, prima di ogni altra valutazione, il mercato tende a soddisfare

anche domande non necessariamente positive per la comunità.

Con Terzo Settore intendiamo tutta quella galassia di organizzazioni non profit che

riguardano Associazioni e istituzioni private senza scopo di lucro, gli enti religiosi o

morali, le organizzazioni di volontariato, le Cooperative sociali, le Onlus.

Le funzioni che svolge sono di promozione di diritti, l’ascolto e l’interpretazione delle

domande e dei bisogni, la raccolta e la ridistribuzione di risorse, la produzione e

l’offerta di servizi di interesse collettivo. Spesso le politiche sociali promosse dal terzo

settore implicano forme di partecipazione diretta da parte della cittadinanza e in alcuni

casi producono di per sé forme di legame sociale e di integrazione. I limiti del Terzo

settore possono essere ricondotti al carattere di volontarietà che sta alla base della

sua azione, dunque alla frammentarietà e non continuità della propria azione.

Analogamente si rileva una tendenza verso il particolarismo a causa della diversità

delle risorse e della mobilitazione emergente nei diversi territorio, ovvero alla diversa

presenza di organizzazioni del Terzo settore nei diversi contesti. Per sua natura il

Terzo settore rimane esposto anche a possibili diseguaglianze e distorsioni nell’offerta

di servizi e opportunità. Inoltre sono molto più deboli e in qualche caso inesistenti i

meccanismi e le procedure volte al controllo della qualità delle prestazioni erogate.

Alcuni autori individuano inoltre nell’ascesa del ruolo del Terzo settore nelle politiche

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sociali, una volontà di depubblicizzazione e privatizzazione dei servizi e una

deresponsabilizzazione da parte degli attori pubblici.

Parlando di Famiglia facciamo riferimento nei fatti ad una pluralità di nuclei

famigliari, ovvero a tutte quei gruppi di persone caratterizzati da legami formali o

informali che vivono nello stesso aggregato domestico. La famiglia comprende nel suo

ambito diverse dimensioni: di riproduzione, di redistribuzione, di cura, di produzione e

consumo. I limiti dell’azione della famiglia sono legati al carattere di volontarietà dei

suoi servizi, ai particolarismi derivanti dalle differenze culturali, sociali, economiche e

psicologiche dei diversi aggregati. Il rischio di sovraccarico nelle aspettative a fronte

delle limitate risorse sia economiche che umane costituisce a sua volta un limite,

amplificato dall’esposizione alla precarietà a causa di esperienze quali la malattia o la

morte di uno o più componenti famigliari o le occasioni di separazione e divorzi. La

ridotta divisione del carico di lavoro, tra i suoi membri, ed in particolare nelle diverse

attribuzioni alle donne e agli uomini costituisce un altro ulteriore limite, almeno allo

stato attuale ed in particolare nel contesto italiano.

Se complessivamente le politiche sociali svolgono dunque il ruolo di promuovere dei

diritti, di garantire forme di protezione e tutela, di determinare una distribuzione dei

rischi sociali per prevenire forme di esclusione e marginalità, di fatto, dunque, tutti

questi attori si trovano ad interpretare problemi, bisogni, necessità, domande,

aspirazioni, a partire da specificità e condizioni differenti, producendo, raccogliendo e

gestendo risorse per fornire un ventaglio di opportunità, offerte, aiuti che rispondano

al benessere sociale collettivo.

STORIA E MODELLI DI POLITICHE SOCIALI

Abbiamo visto come gli attori delle politiche sociali sono essenzialmente

quattro: lo Stato, il mercato, il terzo settore e le famiglie. Nei diversi sistemi sociali e

politici questi attori contribuiscono in modi e misure differenti, a volte integrandosi e

completandosi tra loro, altre volte mettendosi in competizione gli uni con gli altri. I

diversi attori infatti possono avere in comune lo scopo di offrire beni e servizi per

soddisfare bisogni e necessità collettive ma le modalità, gli scopi, le priorità e i criteri

di valutazione possono essere differenti. Lo Stato può rispondere a logiche

burocratiche oppure essere influenzato nelle sue attività dal peso di alcuni gruppi di

interesse e di alcune pratiche di lobbing. Gli attori di mercato spesso sono guidati dal

proprio tornaconto piuttosto che dalla realizzazione del bene comune. Le famiglie

possono rispondere all’interesse dei propri membri ma di fatto disinteressarsi o

addirittura ostacolare le possibilità per altre famiglie. E anche le organizzazioni del

terzo settore possono essere sviate da esigenze di autopromozione e auto

rappresentazione piuttosto che da valutazioni ragionate sulle prestazioni offerte.

Insomma ciascuno di questi attori ha meriti e limiti e dunque una loro

compenetrazione può essere importante. Tuttavia la presenza, il ruolo e il peso dei

diversi attori può variare molto da paese a paese, da territorio a territorio, da

momento a momento.

Gli elementi che entrano in gioco nel definire la composizione delle forme di

politiche sociali sono differenti:

- fattori storici

- fattori economici

- fattori culturali

- fattori sociali

- fattori giuridici

- fattori organizzativi

- fattori professionali

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Da un punto di vista dell’evoluzione storica, possiamo riconoscere differenti fasi nel

delinearsi dei sistemi di protezione sociale in Europa che andranno a definire i sistemi

di Welfare. Con il termine Welfare State in effetti si intende un insieme di politiche

pubbliche che si sono andate definendo durante il processo di modernizzazione,

attraverso cui lo Stato garantisce una certa protezione sociale attraverso forme di

assicurazione, di assistenza o di tutela sociale.

GLI ANTECEDENTI

Alla base della nascita delle politiche sociali possiamo rintracciare diversi tipi di

esperienze storiche. In genere si prendono in considerazione tre esperienze:

- il caso delle Gilde e successivamente delle società di mutuo soccorso.

- l’obbligo di tutela da parte dei datori di lavoro .

- le forme di pubblica assistenza ai poveri tra il ‘500 e il ‘700.

Le Gilde erano corporazioni di arti e mestieri (mercanti, tessitori ecc..) fondate su

uno spirito di mutua assistenza tra i suoi membri che si svilupparono attorno all’anno

mille in Inghilterra e Germania. I partecipanti si sostenevano in caso di incendi di

abitazioni, di malattie, di offese subite, e arrivavano anche ad offrire delle forme di

contributi alle famiglie dei membri deceduti.

Per quanto riguarda invece le società di mutuo soccorso esse cominciano a

svilupparsi dalla metà del ‘700 in Gran Bretagna, ma ebbero il loro periodo di

espansione soprattutto dopo la metà dell’’800. Si trattava di associazioni di artigiani o

di operai che si sostenevano grazie ai contributi periodici dei propri membri e che

garantivano in cambio un’assistenza medica e forme di sussidi in caso di malattie o di

incidenti. Nel contesto italiano la prima società di mutuo soccorso fu fondata a Pinerolo

nel 1844. Le organizzazioni operaie si diffusero soprattutto in Piemonte, Lombardia,

Emilia Romagna e Toscana.

In secondo luogo abbiamo l’obbligo di tutela dei lavoratori da parte del datore

di lavoro. Questi tipi di obblighi erano diffusi fin dall’età feudale e si diffusero poi a

partire dal ‘700. Per esempio gli armatori dovevano coprire le spese per le malattie dei

marinai. I commercianti per i loro impiegati e commessi. Le aziende artigianali per i

propri operai. Soprattutto a partire dalla seconda metà dell’800 questo tipo di

regolamenti, con maggiori o minori limitazioni, si diffuse in molti paesi europei.

Infine abbiamo le forme di pubblica assistenza verso i poveri che si sviluppano

tra il 1500 e il 1600, in primo luogo in Gran Bretagna. Qui infatti la regina Elisabetta

introdusse fin dal 1573 una tassa fondiaria per i poveri che permise l’organizzazione di

un sistema di assistenza comunale verso i più poveri. A partire dal ‘600 forme di

assistenza pubblica verso i poveri si diffusero in tutti i paesi europei. Tuttavia occorre

notare che queste forme di intervento avevano solo in parte una funzione di

assistenza, mentre per un altro verso costituivano una forma di controllo e di

repressione. Per un verso chi era assistito era giudicato in parte colpevole del proprio

stato. Poteva perdere alcuni diritti civili, poteva essere obbligato a forme di lavoro

coatto o poteva incorrere nei trattamenti di polizia. Dunque queste interventi non si

fondavano su un diritto degli assistiti ma piuttosto su una loro colpa o mancanza.

Come ha notato Jens Alber

«L’impegno della mano pubblica non si limitava ad assistere i poveri inabili al

lavoro, ma prevedeva che quelli abili al lavoro o comunque caduti in miseria per

propria colpa fossero costretti a è riprendere il lavoro. Il controllo dei poveri era

demandato ad una speciale polizia dei poveri. Gli oziosi e i mendicanti venivano

associati a case di lavoro e di correzione» (Alber, 1986, p. 19)

Esistevano inoltre parallelamente anche forme di assistenza dei poveri fornite da

enti e istituzioni religiose.

È interessante riflettere su questa molteplice origine, poiché ci suggerisce la

compresenza e l’intreccio di motivi e spinte differenti. Da una parte l’auto-mutuo

aiuto, dall’altra le responsabilità dei datori di lavoro e infine le forme di assistenza e di

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controllo da parte di soggetti politici o religiosi. Questa ambivalenza si ritroverà anche

nelle fasi successive.

IL PROCESSO DI MODERNIZZAZIONE E LA MODIFICAZIONE PROFONDA DEL

LEGAME SOCIALE che sta alla base della strutturazione crescente dello STATO

SOCIALE

(Rimando gli studenti allo studio delle mappe concettuali utilizzate a lezione

per comprendere il processo di modernizzazione e ai saggi legati.)

LA NASCITA DELLO STATO SOCIALE PROPRIAMENTE MODERNO:

- LA PRIMA FASE O FASE DI SPERIMENTAZIONE E INSTAURAZIONE (1870-

1920)

Nell’analisi delle spinte che hanno caratterizzato l’avvento e l’espansione dei sistemi di

protezione sociale in Europa si prendono in esame diversi aspetti. Da una parte

l’emergere di una serie di problemi relativi ai processi di industrializzazione e

modernizzazione, e quindi all’affacciarsi di nuove esigenze e necessità sociali, dall’altra

l’emergere di soggetti sociali e politici più consapevoli e organizzati, in particolare i

partiti socialisti e le organizzazioni sindacali, che rilanciano le forme di conflitto sociale

e pongono il problema del consenso alle élites politiche ed economiche. Il movimento

operaio premeva infatti per ottenere una serie di garanzie e di diritti sia sul lavoro sia

di partecipazione politica. Dunque le élites accettarono di promuovere alcune riforme

in funzione contenitiva.

Tra i fattori storici e contestuali Abers ha segnalato:

- L’aggravamento dei problemi di sicurezza a seguito di crescita demografica,

urbanizzazione, industrializzazione;

- La ridefinizione delle situazioni di emergenza come problema sociale a seguito del

processo di laicizzazione e della diffusione dei moderni mezzi di comunicazione;

- La politicizzazione dei problemi sociali con l’affermarsi del ruolo dello Stato

nazionale e con la mobilitazione sindacale ne politica dei lavoratori;

- La crescita dei poteri statali a seguito della razionalizzazione dell’amministrazione

statale attraverso il riordino delle finanze pubbliche e l’istituzionalizzazione delle

statistiche ufficiali;

- L’Assenza di conflitti bellici per un periodo prolungato.

Il primo passo verso i moderni sistemi di Welfare viene rintracciato nell’introduzione

dell’assicurazione obbligatoria.

L’apripista fu la Germania di Bismark che introdusse schemi di assicurazione

sociale obbligatoria prima verso i rischi di malattia (1883) poi di infortunio (1884), di

vecchiaia (1889) e di invalidità (1889).

L’assicurazione fornita da Bismark non si rivolgeva dunque più solamente ai membri

di qualche corporazione ma a fasce più ampie di popolazione e di fatto istituiva

contemporaneamente un obbligo e un diritto. In altre parole, come è stato notato, se

in precedenza i poveri erano guardati con sospetto e in fin dei conti ritenuti colpevoli

della loro condizione e dunque gli interventi di assistenza erano di fatto una difesa del

bene pubblico contro la minaccia rappresentata dai poveri, nella nuova cornice i poveri

diventavano invece oggetto di garanzie finalizzate alla tutela del loro benessere

individuale.

L’innovazione tedesca ebbe una grande eco in tutta l’Europa e fu di ispirazione a

molti altri governi, fra questi l’Austria, Norvegia, Finlandia, Italia. Di fatto tra il 1880

e il 1915 le forme di assicurazione obbligatoria vennero estese in tutti i paesi

europei. Lo sviluppo delle riforme seguiva spesso una determinata sequenza: prima

contro gli infortuni, quindi verso le malattie, la vecchiaia, ed infine contro la

disoccupazione (iniziò la Gran Bretagna nel 1911, l’Italia segui nel 1919). Con

l’introduzione di quest’ultima si compie una vera e propria rottura con la tradizione

liberale precedente.

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In questa fase possiamo riconoscere alcune caratteristiche di fondo ben delineate

da Abers.

Siamo di fronte a sistemi regolati da ordinamenti nazionali.

Le prestazioni erogate a garanzia del reddito coprono rischi standard quali: infortuni

sul lavoro, malattie, invalidità, vecchiaia, morte o disoccupazione dell’assicurato

Non si applicano a singole categorie professionali, ma dipendono da criteri più

generali di reddito o status occupazionale, che consentono la copertura di più ampie

fasce di popolazione

Sono di natura obbligatoria, cioè impongono l’assicurazione a determinati gruppi,

oppure prevedono l’obbligo per lo Stato di finanziare i programmi volontari

Oltre agli assicurati, partecipano al finanziamento lo Stato e/o i datori di lavoro

Riconoscono un diritto soggettivo individuale alle prestazioni e la loro fruizione non

comporta alcuna discriminazione sociale o politica

- SECONDA FASE O FASE DI CONSOLIDAMENTO (anni ‘30-‘40)

La seconda fase, quella compresa tra le due guerre mondiali, viene considerata di

consolidamento. Gioca un ruolo ovviamente la crisi del 1929 e la grande Depressione

degli anni ’30. Si accetta che lo Stato giochi un ruolo più forte nelle dimensioni

economiche e sociali. Gli interventi riguardano un allargamento dei beneficiari (in

particolare verso la piccola e media impresa e il settore commerciale e terziario),

l’estensione delle prestazioni mediche anche ai congiunti dell’assicurato, e

l’integrazione del catalogo dei rischi coperti dai vari schemi assicurativi tra cui

l’introduzione di pensioni di reversibilità agli eredi, o gli assegni familiari.

L’impulso decisivo per il consolidamento dello stato sociale venne questa volta dalla

Gran Bretagna. Nel 1939 Wiston Churchill commissionò un piano di interventi

sociali che fu predisposto da Sir William Beveridge. Questo piano era fondato su

alcuni principi:

- l’universalità dell’assistenza pubblica

- i servizi sociali concepiti come diritti di tutti

- una copertura sanitaria universale

Si parlò dell’innovazione nei termini di un assistenza che accompagnava le persone

dalla culla alla tomba.

Il piano Beveridge commissionato da un conservatore fu attuato in realtà dopo il

1945 dal partito Laburista.

Tra le riforme introdotte la più importante fu senz’altro l’Istituzione del Servizio

Sanitario Nazionale (1948) con l’introduzione della figura dei medici di famiglia. Gli

ospedali e i presidi medici passarono dunque sotto il controllo statale.

Questi interventi segnano di fatto il passaggio dall’idea di assicurazione dei

lavoratori all’idea di un’assicurazione sociale.

- TERZA FASE O FASE DI ESPANSIONE (anni ’50-‘60)

Negli anni ’50-’60 si entra in una fase di grande crescita economica (il cosiddetto

“boom economico” che permette una crescita anche dei canali di finanziamento degli

interventi pubblici e quindi un incremento del volume delle prestazioni di welfare.

Il contesto politico definito dalla guerra fredda e da una forte competizione

ideologica tra i partiti di ispirazione socialista o comunista e i partiti di ispirazione

cristiana o liberale mette in campo una rinnovata centralità della questione sociale

vista come spazio di creazione di consenso e di elemento di preferibilità per questo o

quel sistema.

La contingenza economica e politica spinge dunque a destinare all’intervento

pubblico e quindi alle politiche sociali una quota sempre più significativa del prodotto

nazionale finanziando dunque nuovi servizi e forme di assistenza.

In questa fase dunque la copertura degli schemi assicurativi venne estesa sempre

di più. Nei paesi anglo-scandinavi si consolidò un modello universalistico detto

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“beveridgeano”, in riferimento al nome dell’autore della riforma inglese, che

comprendeva tutti i cittadini. Mentre nel resto dell’Europa si diffuse il modello

“bismarkiano” o occupazionale fondato invece sulla pluralità di schemi

occupazionali (legati cioè ai diversi ambiti di lavoro) con prestazioni molto

differenziate tra loro.

In questi anni si diffuse tra l’altro il sistema di ripartizione per il finanziamento delle

pensioni, mediante il quale i contributi versati dai lavoratori attivi sono

immediatamente utilizzati per finanziare la previdenza dei pensionati.

- QUARTA FASE O FASE DI ISTITUZIONALIZZAZIONE E CRISI (anni ’70-’80)

Negli anni ’70 e ’80 le politiche sociali sono ancora in una fase di espansione, nel

senso che aumenta ancora la copertura dei programmi di protezione sociale e nascono

nuovi servizi che complessivamente portano all’affermazione di una “cultura pubblica”

del welfare. Di fatto un certo standard di servizi e di assistenza diventa un tratto

“normale” e caratteristico dell’equilibrio dei sistemi politici ed economici europei. In

questo periodo il sistema del welfare gioca sempre più esplicitamente anche una

funzione “redistributiva” ovvero di tamponamento delle disuguaglianze e delle

ingiustizie sociali. Si tenga conto che dal punto di vista politico negli anni ‘80 i partiti

iniziano a trasformarsi. La componente identitaria o di classe progressivamente si va

indebolendo lasciando il posto alla crescente importanza della rappresentazione degli

interessi di categorie o di specifici gruppi di pressione. Si comincia a parlare a questo

proposito di partiti “pigliatutto”, ovvero che pescano in ambiti anche differenti da quelli

che erano tipici della propria base sociale tradizionale.

Tuttavia con la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta si inaugura

parallelamente anche un periodo di crisi che dipende anche dalla difficoltà di

rispondere a nuovi problemi e condizioni in un contesto mutato: crisi dello sviluppo,

passaggio a una società post-industriale, invecchiamento della popolazione, processi di

globalizzazione e integrazione europea, trasformazione nei rapporti tra i generi e nei

modelli familiari. Inizia in particolare ad emergere un problema di deficit spending,

ovvero la realtà di una forte spesa pubblica sempre meno coperta dalle effettive

entrate tributarie che produce un crescente debito pubblico.

- QUINTA FASE O FASE DI RALLENTAMENTO E CONTRAZIONE (anni ’90-‘00)

Negli anni ’90 il problema del contenimento dei costi acquisisce una centralità nel

contesto delle politiche pubbliche. Da una parte diventa infatti sempre più stringente il

problema dello squilibrio tra l’estensione e la copertura del welfare e la riduzione delle

risorse. Dall’altra si fa strada una nuova cultura sociale e politica che vede una

crescente egemonia delle correnti di neoliberismo, ostili per principio alla centralità

dello Stato e all’intervento pubblico.

Le strategie di contenimento dei costi assunte dai diversi governi seguono tuttavia

indirizzi differenti.

Da una parte troviamo delle riforme tutto sommato marginali, che si limitano a

rivedere alcuni parametri (per esempio l’innalzamento dell’età pensionabile, o la

trasformazione delle formule per il computo delle pensioni, o il contenimento dei

consumi sanitari), dall’altra delle riforme più radicali che modificano la struttura dei

sistemi previdenziali, per esempio trasformando i sistemi a ripartizione in sistemi a

capitalizzazione, quindi in direzione di una maggior privatizzazione dei servizi. In

generale l’evoluzione è stata verso modelli cosiddetti di welfare-mix in cui si prevede

un riequilibrio del ruolo dei diversi attori sociali: lo stato, il mercato, le famiglie, il

terzo settore. Si tratterebbe di completare le possibilità degli uni con gli altri e

contemporaneamente di supplire ai limiti di ciascuno ottenendo maggiore

articolazione, decentramento e flessibilità.

Per descrivere queste trasformazioni si sono usati termini differenti – tagli,

modernizazione, contrazione, ristrutturazione, razionalizzazione, ricalibratura,

rallentamento – che in parte tradiscono le diverse possibili letture del fenomeno.

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MUTAMENTI SOCIALI, TRASFORMAZIONE DEGLI ATTORI,

EVOLUZIONI POSSIBILI (RIMANDO GLI STUDENTI AGLI APPROFONDIMENTI IN AULA SUL PASSAGGIO ALLA

TARDO MODERNITA’, E AI SAGGI CORRELATI)

Negli anni ’90, il sistema del Welfare è andato incontro a una crisi. Sulla natura di

questa crisi e soprattutto sulle possibili fuoriuscite ci sono diversi punti di vista e si è

sviluppato in proposito un ampio dibattito.

MUTAMENTI SOCIALI

Possiamo innanzitutto sottolineare come si siano andati definendo profonde

trasformazioni sociali molte delle quali riguardano direttamente gli attori delle politiche

sociali come li abbiamo definiti: lo Stato, il mercato, la famiglia, il Terzo settore.

Innanzitutto abbiamo dei forti cambiamenti sul piano demografico.

Una diminuzione della natalità e una diminuzione della percentuale di popolazione

in età giovanile. In prospettiva si passerà dal 16,4% del 2004 al 13,4% del 2050.

Un allungamento della speranza di vita ed aumento della popolazione

anziana. Si calcola per esempio che la popolazione di età superiore ai 65 anni,

passerà dal 16.1% del 2000 a 27,5% nel 2050. Nel 2000 gli ultraottantenni erano il

3,6% nel 2050 dovrebbero arrivare al 10%. Questi due primi dati corrispondono ad

una redistribuzione del peso delle fasce di età della popolazione che crea una

situazione più squilibrata e instabile. L’invecchiamento demografico infatti significa un

maggior peso finanziario rispetto alle pensioni, alla erogazione di farmaci e prestazioni

sanitarie, ai servizi sociali. Non è solo una questione di numero ma di durata (pensioni

per un maggior numero di anni, degenze per periodi più lunghi) e di tipologia (case di

risposo, assistenza domiciliare, malattie croniche).

Tutto questo produce un maggior carico di oneri sui lavoratori attivi, che al

contrario sono semmai in diminuzione.

Già questi primi cambiamenti producono ovviamente enormi conseguenze sia sul piano

dell’organizzazione famigliare che dell’organizzazione sociale. Ma ci sono anche

trasformazioni che riguardano la famiglia.

Una trasformazione delle forme relazionali e delle strutture famigliari. Le

famiglie per un verso si sono ristrette in termini numerici. È diminuito il numero di

membri sia per effetto della minor propensione a fare figli, sia per l’aumento delle

separazioni e dei divorzi. Sono quindi aumentate le famiglie monogenitoriali (con un

solo genitore con figli) o addirittura monoparentale (ex coniuge senza figli o senza figli

affidati), come i single. D’altra parte stanno emergendo nuove tipologie di nuclei

famigliari: famiglie ricostituite (frutto di nuove unioni) che danno vita a nuove

tipologie di famiglie allargate o complesse. In aumento anche le “famiglie di fatto” o le

“libere unioni” che si sono praticamente triplicate negli ultimi vent’anni. Tutto questo

in generale ha dato vita ad un tessuto in cui le reti sociali risultano più fragili, difficili e

dove aumentano dunque i fenomeni di isolamento ed emarginazione sociale.

Un mutamento dei modelli di genere. Negli ultimi decenni la tradizionale forma

delle famiglie basata sul maschio lavoratore (breadwinner) e la donna casalinga è

andata in crisi. Per un verso abbiamo un importante processo di ingresso delle donne

nel mercato del lavoro, o una femminilizzazione del mercato del lavoro. nell’Unione

Europea negli anni ‘90 il numero delle famiglie con doppio reddito sia aumentato circa

del 10% in modo che la situazione in cui sia il padre che la madre lavorano

rappresenta oramai la condizione della maggioranza delle famiglie europee. Ma questo

non si è tradotto, come vedremo, in una ridistribuzione radicale del lavoro domestico e

di cura, ma in un sovraccarico delle donne di un doppio lavoro. Paradossalmente

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anche il lavoro tradizionale in passato assegnato all’uomo non è poi così sicuro, di

fronte alla crisi del mercato del lavoro e alla precarizzazione del lavoro.

Anche questo ha prodotto l’emergere di nuovi bisogni sociali, di richieste di nuovi

strumenti e servizi di supporto per le famiglie (e di fatto in particolare per le donne).

Occorre mettere in luce a questo proposito anche le trasformazioni di tipo socio-

economico.

L’emergere dei processi di globalizzazione. Introducendo maggior competizione e

delocalizzazione la globalizzazione ha prodotto varie conseguenze nelle politiche

sociali. Per un verso ha prodotto una spinta verso la diminuzione dei diritti e delle

garanzie dei lavoratori per abbassare comparativamente il costo del lavoro. Ha reso

possibile per molte imprese spostare le sedi fiscali all’estero per pagare meno tasse,

quindi ha diminuito il contributo fiscale in molti paesi europei.

La trasformazione delle forme produttive e del mercato del lavoro. Da una

parte l’innovazione tecnologica ha prodotto una diminuzione del numero di lavoratori

necessari, dall’altra le forme di lavoro fordista hanno lasciato il posto ad un modello

più snello e leggero (lean production) o come si dice Just in time che richiede un

ampliamento e una riduzione dell’impiego a seconda dei momenti e delle richieste.

Il diffondersi di nuove forme di precarietà lavorativa: specialmente tra le nuove

generazioni, il lavoro incerto, precario senza garanzie o previdenza, è cresciuto

enormemente. Si sono diffuse le tipologie di working poor, ovvero di persone che pur

lavorando a tempo pieno faticano a garantirsi la sopravvivenza. Questo ha creato

nuove necessità e bisogni di assistenza e ha anche diminuito le possibilità di prelievo

fiscale. Inoltre, come vedremo e discuteremo più avanti, questo ha anche rotto

l’implicito patto intergenerazionale su cui si è basata la nostra società nell’ultimo

secolo. Quel patto per cui i lavoratori attivi partecipano con i loro contributi a pagare le

pensioni dei più anziani, con la promessa che in futuro le loro pensioni saranno pagate

dai giovani lavoratori di domani. Al contrario oggi molti giovani sono costretti a pagare

le tasse ma senza eguali garanzie di previdenza né per l’oggi né tantomeno per la loro

anzianità.

Ci sono altri cambiamenti che concorrono alla trasformazione dei bisogni e delle

aspettative sociali.

Una crescente specializzazione delle cure e delle terapie mediche che

diventano sempre più complesse e costose, e crescita delle aspettative da parte dei

cittadini.

Mutamento del volontariato. Anche il volontariato cambia radicalmente. Da una

parte essendo andato in crisi il modello di lavoro fordista e salariato ed essendosi

diffuse, soprattutto tra i giovani, le forme di precariato, diventa molto più difficile

suddividere i propri tempi di vita in tempo di lavoro e tempo libero (per sé e per il

volontariato). La condizione di mancanza di garanzia e di sicurezza sul piano del

reddito fa anche si, per un verso che i giovani siano più assorbiti dalle necessità di

sopravvivenza, e dall’altra che quanti si rivolgono alle attività sociali, di cura, di

assistenza non si muovano in una cornice di totale volontariato ma che siano piuttosto

alla ricerca di forme di cittadinanza attiva che mescolano elementi di impegno sociale

con un qualche ritorno economico o materiale. Questo non significa che i giovani di

oggi siano diventati meno altruisti o più interessati di quelli del passato, ma

semplicemente che sono cambiati gli equilibri e i bilanciamenti nella loro vita e nel

contesto sociale ed economico in cui vivono. Approfondiremo questi aspetti più avanti.

Occorrerà da questo punto di vista inventarsi modelli di solidarietà ibridi.

In generale dunque si amplia la gamma dei bisogni, delle aspettative, delle tipologie di

intervento richieste: verso anziani e lungodegenti; verso la cura di malattie croniche;

verso terapie costose; verso madri o padri soli; verso disoccupati o precari per lunghi

periodi, ecc. Come ha scritto Maurizio Ferrera:

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«I sistemi di protezione sociale europei appaiono oggi afflitti, in altre parole, da una

grave sindrome di incongruenza: i loro schemi e programmi hanno perso l’originaria

sintonia con il contesto e i comportamenti sociali ed economici circostanti. Più

precisamente si è aperto un divario fra il tradizionale catalogo di rischi tutelati e la

nuova gamma di bisogni e domande sociali» (Ferrera, 1998, P.18)

Tutto questo ovviamente ha importanti ricadute anche sul principale attore

tradizionale delle politiche sociali, ovvero lo Stato, ed in particolare sulle sue possibilità

di risposta.

Crisi di complessità. Per un verso il servizio pubblico si trova a dover ampliare

sensibilmente la gamma dei propri interventi e servizi a fronte di nuove situazioni e

necessità e di aspettative crescenti da parte della popolazione.

Crisi fiscale. Per un altro verso lo Stato si trova di fronte ad un problema di

finanziamento, ovvero di fiscalità e di sostenibilità economica. Rispetto a questo ci

sono letture di tipo differente, dall’impostazione marxista a quella liberale. Già negli

anni ’70 il sociologo americano James O’Connor, aveva cominciato a parlare di “crisi

fiscale dello Stato”, nei paesi a capitalismo maturo. Secondo O’Connor lo stato nel

capitalismo maturo si troverebbe ad assolvere due esigenze tra loro contraddittorie.

Da una parte sostenere il processo di accumulazione (il mercato) e dall’altra garantire

la lealtà e il consenso delle classi subalterne attraverso politiche tipicamente

keynesiane di redistribuzione (welfare state). Questo produrrebbe una tensione tra

spese sociali per il consenso e la necessità di sostenere l’investimento. Tale tensione

darebbe origine a un vuoto finanziario e dunque a una crisi fiscale (e quindi

inflazione). Le letture di stampo neoliberista invece punta il dito sul sovraccarico di

domande rivolte allo Stato da parte dei cittadini e quindi implicitamente induce a

pensare la necessità di proteggere i governi dalle eccessive pressioni popolari,

contenendo gli interventi economici dello stato, e puntando piuttosto a garantire le

opportunità di mercato (sia per il lavoro che per i servizi).

La crisi di crescita. Altro aspetto fondamentale da tenere a mente è il fatto che

l’espansione del welfare è avvenuto in un periodo di crescita economica accelerata,

che negli ultimi anni è decisamente rallentata e che probabilmente non ritornerà più ai

livelli degli anni precedenti.

Potremmo dire che di fatto il Welfare state è stato fino ad oggi il garante della pace

sociale perché ha diminuito i conflitti sociali, garantendo le possibilità di profitto

capitalistico e assieme una serie di servizi e benefici collettivi.

Tuttavia per alcuni decenni nei paesi europei la maggior parte delle élites politiche per

mantenere il consenso si sono poco preoccupate del disequilibrio tra i contributi versati

dai lavoratori e dalle imprese e le spese sociali, creando così un vasto problema di

debito pubblico.

Inoltre si sono registrate molte forme di malfunzionamento, di ingiustizia nelle

distribuzioni di questi beni pubblici e addirittura forme di clientelismo.

Oggi di fronte alla crisi dello Stato sociale – aumento delle spese e dei costi e

riduzione delle entrate - si stanno riproducendo nuove tensioni tra chi vorrebbe

garantire i servizi sociali anche a costo di un alto prelievo fiscale e chi vorrebbe

garantire maggiori margini di reddito o di profitto contenendo le spese sociali (e il

debito pubblico).

La questione che si pone in prospettiva è dunque quella di quale riforme occorre

promuovere in direzione di uno stato sociale equo e sostenibile. Si tratta di

rispondere, trovando il giusto equilibrio, ad alcune questioni

-contenimento delle spese e contrasto dello spreco e delle forme di clientelismo

parassitario.

-equa distribuzione del prelievo fiscale (lotta all’evasione).

-equa distribuzione dei beni e dei servizi pubblici tra fasce sociali, generi e

generazioni. In particolare non garantire solo le generazioni presenti ma anche quelle

di domani.

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-riduzione del debito pubblico per non compromettere le possibilità delle generazioni

future.

In altre parole l’equilibrio da ricercare deve tener conto non solo del momento

presente ma anche dei processi di cambiamento e degli equilibri futuri.

«Tener conto del futuro disponendo per il presente. Le politiche sociali richiedono ai

governanti, agli operatori economici e a quanti hanno una qualche responsabilità nella

vita di una nazione, un’attitudine particolare: riuscire a tener conto del futuro

disponendo per il presente. Si potrebbe quasi dire che questo aspetto delle politiche

pubbliche evochi direttamente il caso delle politiche ambientali. In fondo viene

richiesto il medesimo approccio culturale quando si definiscono normative destinate ad

andare a regime in alcuni decenni e ad ipotecare, attraverso una complicata rete di

diritti e aspettative, il livello di vita e di reddito di coloro che verranno dopo di noi,

oppure quando vengono intraprese opere che modificano per sempre l’ecosistema. In

ambedue i casi si ipotecano risorse che appartengono anche alle generazioni future. In

Italia, ogni bambino che nasce riceve in dono da quanti l’hanno preceduto un debito di

circa 30 milioni. C’è dunque un’etica della responsabilità che deve entrare a far parte

del nostro bagaglio di valori» (Cazzola G., 1984, pp. 23-24).

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APPROFONDIMENTO IL LAVORO: LE POLITICHE E LA TRANSIZIONE AL TARDO

CAPITALISMO

Le politiche del lavoro comprendono tutti quegli interventi pubblici rivolti alla tutela

dell’occupazione e dei lavoratori.

Queste si possono indirizzare in diversi tipi di intervento:

1. La regolamentazione del mercato del lavoro.

2. La promozione dell’occupazione.

3. La tutela, il mantenimento e la garanzia del reddito.

1.La regolamentazione del mercato del lavoro può essere condotta attraverso

una legislazione che disciplini i rapporti di lavoro chiarendo quali sono diritti, doveri e

garanzie che riguardano sia i datori di lavoro che i lavoratori. Si possono predisporre le

forme di incontro tra domanda e offerta di lavoro; si possono stabilire le norme che

definiscono le condizioni di ingresso e uscita dei lavoratori dal mercato del lavoro; si

possono stabilire le norme che garantiscono la salute o la sicurezza nei posti di lavoro;

si possono definire norme contro la discriminazione sessuale, culturale, religiosa,

sindacale e politica. Infine si possono promuovere politiche di concertazione per

definire un sistema di controllo delle retribuzioni, per esempio attraverso la

contrattazione collettiva.

2.La promozione dell’occupazione è ovviamente un aspetto fondamentale delle

politiche del lavoro. Si possono promuovere interventi che stimolino la domanda di

lavoro, per esempio attraverso incentivi fiscali per le aziende. Oppure si possono

prevedere delle misure che supportano la formazione e la professionalizzazione dei

lavoratori. O ancora si possono definire delle vie di facilitazione nell’ingresso nel

mercato del lavoro, ovvero di inserimento professionale. Si possono infine promuovere

anche iniziative pubbliche di creazione diretta di nuovi posti di lavoro, per esempio

attraverso la promozione di lavori pubblici in certi settori o in certe occasioni.

3.La tutela, il mantenimento e la garanzia del reddito si riferisce a quelle

misure che definiscono le norme per il salario minimo o che assicurano il lavoratore

nel caso di disoccupazione o di sospensione temporanea del lavoro.

Un'altra forma generale di classificazione delle politiche del lavoro, distingue tra

Politiche passive e Politiche attive.

Le politiche passive sono quelle che riguardano gli interventi e i contributi

monetari in caso di disoccupazione o sospensione del lavoro. I contributi possono

essere di diversi tipi:

-indennità di disoccupazione, a fronte di un certo numero di anni di occupazione o

del versamento di contribuzioni per un certo periodo;

-sussidi di disoccupazione che dipendono dal reddito, qualora non ci siano le

condizioni per accedere alla normale indennità di disoccupazione o si sia esaurito il

periodo previsto per quel tipo di contribuzione;

-contributi rivolti a tutti i cittadini (non necessariamente lavoratori) che si trovano

in un particolare stato di necessità e di indigenza. In questo caso si può garantire una

reddito minimo a fronte di particolari requisiti di reddito e di patrimonio.

Le caratteristiche che definiscono i diversi tipi di interventi riguardano dunque i

criteri di eleggibilità (obbligatorietà e dimensioni della copertura), i vincoli di

attivazione, le forme di finanziamento, la modalità di erogazione e la generosità della

prestazione (a rata fissa o ad importo correlato al salario e durata della prestazione).

Nel contesto europeo si possono identificare in termini generali quattro gruppi di

paesi.

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Primo gruppo: comprende i paesi che prevedono una sola misura contributiva,

ovvero un’indennità ordinaria di disoccupazione finanziata dai contributi dei lavoratori,

con un importo correlato al salario percepito e ai contributi versati. In genere varia da

1 anno a 2 (è il caso dell’Italia). Ne fanno parte Bulgaria, Repubblica Ceca, Grecia,

Lettonia, Norvegia, Polonia, Romania, Slovenia, Cipro, Austria, Danimarca (in

quest’ultimo paese l’indennità è opzionale e volontaria).

Secondo gruppo: comprende i paesi che prevedono diverse misure di indennità

contributiva a seconda delle diverse categorie di soggetti da proteggere o delle diverse

modalità di pagamento. Ci può essere per esempio un’indennità di base a rata fissa

affiancata da un’altra correlata ai salari, oppure una obbligatoria e una volontaria. Ne

fanno parte Belgio, Malta, Olanda, Svezia, Slovacchia.

Terzo gruppo: comprende i paesi in cui c’è una particolare frammentazione e

complessità delle norme retributive sia di carattere ordinario che speciale, che

contemplano diverse categorie di lavoratori o diverse condizioni. Si tratta in particolare

del caso dell’Italia e dell’Ungheria.

Quarto gruppo: comprende i paesi in cui allo schema di tipo contributivo ordinario

si affianca un’indennità di disoccupazione di carattere assistenziale, ovvero non

vincolata al versamento di una certa quota contributiva minima ma legata solo

all’accettamento delle condizioni di indigenza (prova dei mezzi). Ne fanno parte

Estonia, Finladia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Lituania, Portogallo,

Spagna.

Le condizioni per avere accesso sono legate all’involontarietà della condizione di

disoccupato, alla registrazione presso il collegamento, alla ricerca attiva di lavoro. In

alcuni casi non ci possono essere nemmeno condizioni di lavoro a basso impegno o a

bassa retribuzione o condizioni di studio.

In quasi tutti i paesi europei le indennità di disoccupazione ordinaria sono rivolte a

chi il lavoro lo ha avuto e lo ha perso mentre poca attenzione è stata dedicata a chi il

lavoro non lo ha mai avuto. Questo penalizza ovviamente i più giovani.

Si definiscono invece politiche attive del lavoro, quegli interventi che mirano ad

incidere direttamente sulla struttura del mercato del lavoro sia in termini di offerta di

lavoro che di prevenzione della disoccupazione. Queste politiche comprendono cinque

principali gruppi:

- Sussidi all’occupazione;

- Creazione diretta e temporanea di posti di lavoro;

- Formazione professionale;

- Sostegno finanziario e servizi per l’imprenditorialità (agevolazioni, prestiti finanziari

ecc.);

- Servizi per l’orientamento ed il collocamento lavorativo.

Le politiche del lavoro in Italia

Le politiche passive del lavoro in Italia, ovvero quelle rivolte alla protezione dei

disoccupati sono particolarmente complesse. Ci sono due schemi principali.

Il primo è rivolto alla disoccupazione totale, che prevede prestazioni a seguito

dell’avvenuto licenziamento non per volontà del lavoratore:

a) Indennità ordinaria di disoccupazione. Per lavoratori che hanno almeno due anni di

assicurazione per la disoccupazione volontaria e 1 anno di anzianità contributiva

nell’ultimo biennio. Prevede 40% della retribuzione percepita negli ultimi tre mesi,

viene erogata normalmente per 180 (di più per gli over 50);

b) Indennità di disoccupazione a requisiti ridotti. Per i lavoratori che non rientrano nella

fattispecie precedente ma abbiano almeno 78 giorni lavorativi nell’ultimo anno e

almeno un contributo settimanale. Prevede una retribuzione non superiore al 30%

della retribuzione media giornaliera e per un numero di giornate pari a quelle

effettivamente lavorate nell’ultimo anno;

c) Indennità di disoccupazione per gli operai agricoli. Almeno 102 contributi giornalieri

nel biennio precedente. Importo pari al 30% della retribuzione per durata uguale al

numero dei giorni lavorativi;

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d) Trattamento speciale di disoccupazione per gli operai agricoli. Per coloro che hanno i

requisiti dell’indennità ordinaria. Trattamento pari al 66% della retribuzione media per

90 giorni.;

e) Trattamento speciale di disoccupazione per l’edilizia. Per 90 giorni se hanno versato

almeno 10 contributi mensili o 43 settimanali;

f) Indennità di mobilità. Riguarda i lavoratori iscritti alle liste di mobilità in segituo a una

procedura di licenziamento collettivo.

Il secondo schema riguarda la disoccupazione parziale o temporanea ed è denominato

Cassa integrazione guadagni (CIG), che prevede contribuzioni a sostegno del

reddito quando c’è una sospensione temporanea del lavoro senza licenziamento:

a) trattamento ordinario di integrazione salariale. Natura transitoria da 13 settimane a 24

mesi;

b) trattamento straordinario di integrazione salariale. Per lavoratori di azione in crisi

strutturali o in fase di ristrutturazione, riconversione o rioranizzazione;

c) trattamento di integrazione del salario per i lavoratori agricoli. 80% per massimo 90

giorni.

Come si può vedere si tratta di norme eterogenee con numerose difformità e

discriminazioni.

Le politiche attive in Italia, invece prevedono:

1. Incentivi all’assunzione, all’autoimpiego, al mantenimento o alla stabilizzazione

dell’occupazione

2. Interventi di formazione professionale, regolamentati dalla legge 845/1978 e di

competenza delle Regioni

3. Programmi di inserimento lavorati per persone appartenenti a specifiche categorie

(donne, giovani, disoccupati, stranieri).

4. Contratti a causa mista, ovvero contratti che integrano esperienza professionale e

momento formativo (inserimento, apprendistato).

Ogni regione italiana ha un suo sistema di servizi pubblici per l’impiego (SPI) che

contempla una Commissione regionale, un Comitato istituzionale regionale, dei

Comitati provinciali di concertazione, un’Agenzia Regionale del lavoro, e una rete di

Centri per l’impiego. Esiste inoltre una Borsa continua del lavoro a livello nazionale.

Crisi del lavoro e crisi della democrazia

Le trasformazioni del lavoro sono senz’altro uno degli aspetti di fondo della crisi

attuale della democrazia. Le democrazie liberali sono infatti sistemi politici

costruiti sulla falsariga di una società del lavoro di tipo fordista, ovvero società

ad alta occupazione con un lavoro generalmente dipendente e forme di salariato

indispensabile per il funzionamento della società e dello stato. Questo fatto è sancito

perfino formalmente dalle leggi fondamentali di alcuni paesi. Per esempio nell’art. 1

della Costituzione Italiana, sotto il capitolo dei "Principi fondamentali", si legge:

«L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene

al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

Tale affermazione non è un fatto puramente retorico ma corrisponde effettivamente

ad una connessione profonda tra lavoro e libertà nelle società democratiche. Tuttavia,

oggi è possibile chiedersi criticamente se si può ancora sostenere che la nostra

democrazia sia fondata sul lavoro e in questo caso di quale lavoro si sta parlando. Nel

bene o nel male la civiltà del lavoro così come l'abbiamo conosciuta sta

evaporando e sta lasciando il posto a qualcosa di molto diverso. E se il mercato del

lavoro spinge verso forme di lavoro subordinato, precario, flessibile, deprezzato, senza

diritti o garanzie, al limite del servilismo e della schiavitù, è realistico immaginare

ancora uno spazio significativo per il progetto democratico?

Sarebbe bene non sottovalutare il fatto che, come ha sottolineato Luciano Gallino,

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«il senso di insicurezza per il proprio destino individuale e familiare, unito al tasso

di angoscia collettiva che ne deriva, è stato il motore di alcuni dei più violenti

movimenti sociali della storia, di sinistra come di destra» (Gallino, 2001a, pp. 38-39).

Insomma quale democrazia, e più in generale quale politica, è possibile – se è

possibile - oltre la società del lavoro?

Precariato e crisi del consenso fordista

Nel suo libro Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro (Beck 2000c) Ulrich Beck

suggerisce che dal punto di vista storico è possibile distinguere tre epoche o meglio tre

modelli nel rapporto tra lavoro e libertà, lavoro e agire politico. Nella prima epoca

quella della polis greca, la libertà si declinava come libertà dal lavoro. La stessa

polis democratica, era composta di uomini liberi che tuttavia basavano la loro libertà

sulla base di un regime di schiavitù di altri uomini che provvedevano al lavoro e su un

regime di oppressione delle donne che erano tenute a prendersi cura delle necessità

famigliari di cura e accadimento. La democrazia era uno spazio che si rendeva

disponibile facendo ricadere su altri il carico del lavoro.

Nella seconda epoca quella della democrazia moderna del lavoro, la libertà è

essenzialmente libertà attraverso il lavoro. È il lavoro infatti che garantisce le

forme di integrazione, accesso e partecipazione nelle moderne società, sia per quanto

riguarda i diritti sociali, sia per quanto riguarda la costruzione delle istituzioni

democratiche e l’effettivo godimento dei diritti politici. La produzione di reddito tramite

il lavoro e la tassazione sono necessarie per finanziare lo stato, i servizi, i partiti

politici, le elezioni. Il lavoro costituisce anche lo strumento decisivo per assicurarsi la

residenza e la sicurezza materiale che costituiscono la base di partenza fondamentale

per consentire la libertà e la partecipazione alla “cosa pubblica” del “cittadino”.

Secondo Beck questa seconda epoca sta finendo, perché «la società del lavoro sta

raggiungendo i suoi limiti tecnologici ed ecologici» (Beck, 2000c, p. 22). L’epoca

futura, che potremmo chiamare della “democrazia postmoderna” potrebbe secondo

Beck definirsi nella forma di una “società dell’attività plurale” e di una libertà

attraverso la flessibilità e la pluralità delle attività (e dei redditi). Sulla stessa

linea Marco Revelli vede positivamente la possibilità di muoversi verso un

“politeismo dei lavori”, ovvero un ventaglio ampio, articolato di attività possibili

(Revelli, 2001, p. 139).

Se nella democrazia greca la libertà dal lavoro permetteva l’ozio e l’ozio permetteva

l’attività politica del cittadino, nella democrazia moderna il lavoro ha permesso la

libertà del cittadino e ha permesso anche la costruzione di un sistema politico (stato,

istituzioni, partiti, elezioni, welfare, ecc…) e la definizione di una partecipazione alla

politica nella forma tipica del lavoro (funzionario di partito, politico di professione) o

comunque di una militanza totalizzante (professionismo di fatto). Le caratteristiche o

premesse di fondo della democrazia moderna – basate su una specie di modello di

“consenso fordista” (Beck), o quello che io chiamerei il “consenso del

benessere”, potrebbero essere delineate in questo modo:

- a) crescita dell’apparato tecnico e industriale

- b) crescita della produzione di beni e servizi

- c) alta occupazione

- d) produzione di reddito

- e) crescita del consumo

- f) alto prelievo fiscale e alta spesa pubblica sociale (redistribuzione e welfare)

- g) lavoro, reddito e residenza danno accesso ai servizi, alla previdenza, alla cultura,

alle vacanze, alla salute e alla sanità

- h) centralità del lavoro ed etica del sacrificio

- i) introiezione del modello di ordine: inquadramento, compiti e mansioni, gerarchia

- l) fedeltà al lavoro in cambio della garanzia della sicurezza economica e sociale

- m) lavoro e reddito permettono il godimento dei diritti politici reali (informazione,

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conoscenza, diffusione di idee, organizzazioni politiche, riunioni, propaganda

promozione politica)

- n) il “benessere” complessivo e la promessa di “mobilità ascensionale collettiva” (Beck)

anche in presenza di disuguaglianze assicurano la produzione di consenso e stabilità

In questo schema si capisce come nei fatti il cittadino era “cittadino lavoratore”, o

meglio “lavoratore cittadino”, ovvero la cittadinanza democratica si fondava

sull’occupazione reale o tendenziale e su un’assunzione reciproca d’impegni tra

cittadino, impresa, e stato.

Ora l’era del neoliberismo, della globalizzazione e della rivoluzione informazionale

ha portato sconvolgimenti cruciali nel mondo del lavoro e della politica mettendo in

crisi le basi di questo modello di benessere e di consenso. Negli ultimi anni molti

studiosi hanno iniziato a interrogarsi sulla crisi della società del lavoro.

Molti autori sostengono da tempo che stiamo andando verso una riduzione

strutturale dei posti di lavoro salariato a causa dell’introduzione di tecnologie

laborsaving (tecnologie informatiche, automazione, telecomunicazione) e della

competizione globale che spinge a ridurre i costi del lavoro.2 Il re-engineering,

ovvero la ristrutturazione degli ambienti di lavoro sulla base delle nuove macchine

“pensanti”, riguarderebbe fra l’altro non solo le fabbriche ma anche il settore del

terziario e del lavoro impiegatizio.

L’introduzione di nuove tecnologie ad alto consumo energetico ma a basso impiego

di manodopera sta producendo una disoccupazione crescente in Italia, in Europa e nel

mondo. Per far funzionare l’industria o l’agricoltura industriale occorre molto meno

gente di quanto ne occorresse una volta lavorando artigianalmente o lavorando

direttamente la terra.

Il circolo virtuoso di produzione,

lavoro, reddito, consumo sembra

essersi oramai interrotto. La crisi

naturalmente ha dato il suo

contributo.

In Italia la disoccupazione nel

2009 ha raggiunto il tasso dell’8%

(2,138 milioni di persone). Nel

febbraio 2009 è all’8.5% e tra il

2010 e il 2011 si prevede

addirittura di raggiungere un tasso

tra il 9 e il 9,5% (nonostante una

crescita attesa dell’1%).

Il tasso di disoccupazione in

Europa già salito nel 2009 al 9,6%

(23 milioni) secondo la

Commissione Europea salirà ancora

al 10,7% nel 2010 e al 10,9% nel

2011.

Secondo il Global Employment

Trends Report dell’ILO, l’Ufficio

Internazionale del Lavoro dell’Onu (dati di fine gennaio 2010) il numero dei senza

lavoro nel mondo è arrivato a fine 2009 al 6,6% raggiungendo la cifra di 212 milioni

di persone a seguito di un incremento senza precedenti di 34 milioni rispetto al 2007,

all'apice della crisi globale. La disoccupazione è cresciuta significativamente in Europa

UE e non UE, nella Csi, nei Caraibi e in America Latina, mentre più moderatamente in

Africa. Più stabile la situazione del Medio Oriente e dell’Asia.

Si possono proporre distinzioni che riguardano per esempio le condizioni di genere.

In Europa il tasso medio di occupazione femminile tra i 25 e i 49 anni è di

69.8% (Slovenia, Svezia, Portogallo, Bulgaria, Francia, Germania, Regno Unito e

Polonia sopra il 70%). L’Italia è al 58,95.

2 Cfr. Rifkin, 1995, Martin, Schumann, 1997, Gorz,1992, 1994, Aznar,1994, Ulrich Beck, 2000b, 2000c.

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Le analisi e le interpretazioni di medio o lungo periodo delle prospettive lavorative

per le future generazioni sono in verità piuttosto diversificate.

Jeremy Rifkin, nel suo celebre testo La fine del lavoro sostiene che stiamo

entrando

«in una nuova fase della storia del mondo: un’epoca nella quale saranno necessari

sempre meno lavoratori per produrre i beni e i servizi richiesti dalla popolazione

mondiale» (Rifkin, 1995, p. 16).

Egli ritiene che in futuro solamente una piccola élite di lavoratori specialisti, analisti

di simboli, potrà controllare tecnologie e forze di produzione, mentre la gran parte

degli altri lavoratori risulteranno sempre più chiaramente in eccesso.

L’analisi di Ulrich Beck sposta un poco l’accento della questione:

«Io non sostengo la fine dell’attività retribuita, ma la fine della società della piena

occupazione. Per “società della piena occupazione” intendo una società le cui principali

istituzioni si fondano sulla piena occupazione, nella forma del lavoro regolare e in cui il

lavoro dipendente retribuito è il modello della biografia normale degli individui» (Beck,

2000b).

E chiarisce ulteriormente che il problema non è quello della fine del lavoro

retribuito, quanto quello della fine di una società basata tendenzialmente sulla piena

occupazione (Beck, 2000c, p. 55).

Esistono anche altre prospettive di analisi. Per esempio Manuel Castells, a partire

dalla sua analisi della nuova economia fondata sull’informazione sostiene che siamo di

fronte piuttosto a una trasformazione del lavoro e ipotizza un futuro in cui sarà

presente una “forza lavoro centrale” costituita da manager informazionali e una “forza

lavoro disponibile”

«che può essere automatizzata e/o assunta/licenziata/trasferita all’estero, a seconda

della domanda del mercato e dei costi del lavoro» (Castells, 2002a, p. 323).

Qualunque sia la predizione sull’impatto complessivo delle nuove tecnologie - chi

ritiene che si vada verso la “fine del lavoro” (Rifkin), o verso la “fine della società della

piena occupazione” (Beck), chi si ritiene che la tecnologia si “limiterà” a trasformare

radicalmente la natura del lavoro, e dell’organizzazione della produzione, in direzione

di un’”individualizzazione del processo lavorativo” che frammenterà la società

(Castells) - la maggior parte degli studiosi comunque concordano su un punto:

«lo straordinario aumento di flessibilità e adattabilità consentite dalle nuove tecnologie

ha contrapposto la rigidità del lavoro alla mobilità del capitale. Ne è seguita

un’inesorabile pressione per rendere l’apporto del lavoro il più flessibile possibile»

(Castells. 2002a, p. 330).

Il lavoro salariato così come lo conosciamo dunque non sarà più il fulcro delle

biografie lavorative per la maggior parte delle nuove generazioni né, probabilmente, il

fulcro della politica. Il futuro del lavoro procede in direzione di una sempre più forte

flessibilità.

Dunque molto dipenderà dai diritti e dalle garanzie che definiscono il contesto,

sociale, economico e politico che si costruisce attorno ai lavoratori ai quali si chiede di

accettare la possibilità di una maggiore fluidità dell’esperienza lavorativa. Questa

trasformazione sarà di segno completamente diverso a seconda che i rischi ricadano

tutti sui lavoratori che vengono lasciati ad affrontare questa drammatica discontinuità

da soli, senza nessun supporto o garanzia, facendosi carico di tutti i problemi come

singoli, oppure se i diritti, le garanzie, le reti sociali e le risorse predisposte

politicamente saranno adeguate a sostenerli e ad accompagnarli serenamente verso

un nuovo approdo occupazionale. In altre parole se si intende costruire un modello

sociale collettivo di distribuzione equa dei rischi e dei benefici.

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Nel momento attuale l’esperienza della precarietà lavorativa si sta estendendo fino

a diventare un dato strutturale nella vita di un sempre maggior numero di persone

soprattutto nelle nuove generazioni.3

Una parte significativa della generazione dei ventenni e dei trentenni sta

già vivendo immersa nell’esperienza della flessibilità, del precariato, del

cosiddetto lavoro “atipico”.

Se si chiede a questi giovani che lavoro fanno, ci si accorge che un numero sempre

maggiore di persone si arrangiano attraverso una messe intricata di lavori precari,

saltuari, intermittenti. Dal punto di vista contrattuale tutte queste occupazioni

fluttuano tra lavori irregolari, prestazioni occasionali, collaborazioni ed incarichi a

tempo determinato, contratti a progetto, "collaborazioni coordinate e continuative",

lavori in affitto, a cui si sommano e si mescolano talvolta gli hobby o gli impegni e le

energie spese con gruppi o realtà sociali.

Il rapporto con il mondo del lavoro, da parte dei giovani, si caratterizza per diversi

aspetti problematici. Tra questi, uno dei più ricorrenti tra le nuove generazioni che si

indirizzano alla ricerca del lavoro è il mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro

nel senso di una netta discordanza tra competenze offerte dai giovani al

termine della propria formazione e tipologie di impiego offerte dal mercato.

In altre parole coerenza tra il proprio percorso formativo (lauree, diplomi universitari

ecc.) e l'offerta di lavoro disponibile.

Ora tenendo conto di questa situazione, per quelle generazioni di giovani che hanno

speso oltre sedici o diciotto anni della propria vita nello studio (elementari, medie,

superiori, università) e si trovano di fronte ad un mercato di lavoro piuttosto chiuso,

l'alternativa spesso è tra l'andare a lavorare in fabbrica sottoponendosi al regime di

salariato più classico, oppure, nella misura in cui si può contare su un appoggio

famigliare o economico, rendersi disponibile a piccoli lavoretti, in attesa di

un'occasione più favorevole ovvero più adeguata ai propri interessi e alla propria

preparazione. Ora se dal punto di vista dell'imprenditore la richiesta è quella di

adeguarsi o di aggiornarsi nella direzione delle professionalità e delle competenze più

richieste dal mercato, dal punto di vista dei giovani laureati ci può essere una

comprensibile resistenza ad abbandonare completamente aspirazioni, interessi,

competenze acquisite per adattarsi al mercato. Pensate che immensa, straordinaria

dissipazione di energie, di risorse, di tempo, di capacità, di conoscenze la nostra

società – che si rappresenta come razionale, efficiente, avanzata – produce nella

realtà. Che senso ha che persone diplomate, laureate, stageizzate, dottorate,

specializzate, masterizzate siano ancora a trenta, trentacinque, quarant’anni ancora

intente ad arrabattarsi o a fare lavoretti che non centrano nulla con le competenze che

si sono costruite?

Quel che è certo è che per molti giovani un accesso sicuro, diretto e stabile al

mondo del lavoro, un’occupazione regolare e retribuita è un’esperienza sconosciuta. Di

fronte alle statistiche che vengono offerte sulla disoccupazione giovanile credo tuttavia

che si ponga un problema oggettivo di ridefinizione del significato delle

categorie di occupazione e disoccupazione di fronte ad una realtà che presenta

molte e complesse sfumature. A fianco della tradizionale disoccupazione la condizione

di molte persone delle nuove generazioni appare piuttosto quella di una

sottoccupazione, e in certi casi anche di una sovraoccupazione, ovvero di

un’occupazione mal retribuita, spesso irregolare o ai limiti della regolarità e

3 Si possono ricordare alcuni dei più importanti passaggi legislativi che hanno trasformato la disciplina del lavoro:

-legge 196/1997 (pacchetto Treu), introduzione del lavoro interinale e delle Agenzie di fornitura di lavoro temporaneo.

-d.lgs 469/1997 (Bassanini). Trasfrimento delle politiche attive del lavoro e collocamento dallo Stato alle Regioni e agli enti locali. Introduzione per soggetti privati di attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro. Fine del monopolio del collocamento. -legge 14 febbraio 2003 n. 30 (Legge Biagi). Flessibilizzazione in entrata; Ammodernamento servizi per l’impiego, nuove tipologie contrattuali: somministrazione di lavoro internale, lavoro a progetto, lavoro ripartito (job sharing), lavoro intermittente o a chiamata (job on call), lavoro occasionale accessorio, socio lavoratore di cooperative, apprendistato, contratto di inserimento, part time.

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scarsamente riconosciuta dal punto di vista sociale e simbolico. Dunque quello che

ufficialmente viene definito disoccupazione o “non lavoro” è spesso in realtà un lavoro

enorme ed esteso, un lavoro semisommerso e in gran parte invisibile, poco retribuito e

per nulla garantito. A questo proposito si parla di working poors, ovvero di persone il

cui reddito di lavoro non gli permette di garantirsi la tranquillità economica e che

inseguono a fatica il proprio sostentamento.

Molti giovani da questo punto di vista cercano di compensare il basso riconoscimento

economico con una crescita della quantità di lavoro. Inoltre l’incertezza sul futuro

spinge queste persone ad accettare tutto quello che gli viene offerto in un dato

momento spesso ben oltre il limite di quello che riusciranno a gestire serenamente. Il

tempo di lavoro diventa assolutamente indefinito. Ogni momento della giornata,

comprese le ore dedicate ai pasti, al riposo, alle ore serali o notturne possono essere

spese per il lavoro. Se ci guardiamo attorno vedremo sempre di più giovani che hanno

intere giornate piene di lavori, lavoretti, occupazioni che lasciano a malapena il tempo

di respirare.

Anche dal punto di vista formale non è facile fare una distinzione. Le forme possono

essere differenti: collaborazioni a tempo determinato, contratti di formazione lavoro,

lavoratori interinali, lavoratori subordinati con prestazioni occasionali, o

parasubordinati con collaborazioni coordinate e continuative, partite iva, tirocinanti,

stagisti, soci di piccole cooperative autogestite, oppure quelle forme di lavoro

autonomo che sono state definite “di seconda generazione” (Bologna,

Fumagalli, 1997). Nella letteratura inglese c’è perfino chi propone come più

corrispondente la categoria di self employment a quella di lavoro indipendente, a

sottolineare che stiamo parlando di strategie di autorganizzazione del lavoro per tirare

avanti in qualche modo. Tuttavia le forme in questo regime di flessibilità e precarietà,

sono spesso fluide e poco indicative. La forma è determinata dall’offerta del momento

e non rappresenta alcuna continuità. Spesso si passa dall’una all’altra, talvolta si

sovrappongono. Ci sono lavoratori che svolgono un part-time da dipendenti la mattina

e che arrotondano o fanno altre esperienze attraverso collaborazioni e prestazioni

occasionali nel resto del tempo. Ci sono lavoratori formalmente autonomi, ma che in

realtà dipendono principalmente da un contratto di collaborazione o subfornitura con lo

stesso cliente e attorno a questo si costruiscono una serie di lavoretti o commissioni.

Nei fatti i giovani sono sballottati da un lavoro all’altro, spesso in occupazioni che non

hanno una coerenza o una connessione e dunque che non permettono facilmente un

accumulo di professionalità né un’identità professionale e sociale definita.

Si comprende dunque come nel vissuto di molti giovani vi sia una profonda

questione che riguarda l’ansia e l’angoscia rispetto al prossimo lavoro e più

profondamente rispetto al proprio posto nella società. La propria condizione li porta

talvolta a ritenersi non predisposti, non adeguati all’inserimento sociale ed

economico. Si domandano se la società in cui vivono è interessata al proprio

contributo, alla propria esistenza oppure no. Si domandano se la comunità fa in

qualche modo affidamento su di loro, se li “mette al lavoro”, nel senso di dargli

un’occasione per farsi valere. E la risposta è tutt’altro che ovvia. Il lavoratore precario

infatti può trovarsi nella condizione di non avere nessuna offerta, come nessuna

risposta alle proprie offerte, oppure può fare esperienza di un impiego, ad esempio

tramite le agenzie di lavoro interinale, in cui il contenuto determinato del lavoro è

quasi del tutto indifferente, così come è assolutamente indifferente chi lo svolge.

L’importante è che si riesca a coprire quel buco di qualche mese, nel ciclo della

produzione. Dunque se l’incertezza sul futuro può creare una tensione e un’angoscia

costante, il messaggio di silenzio, d’indifferenza quando non di cinismo che le

nuove generazioni ricevono dalla società li può portare anche verso la depressione o la

rabbia.

Capita che giovani laureati e preparati perdano così fiducia in se stessi perché si

passano attraverso lavoretti iperprecari, uno dopo l’altro, e anziché andare avanti si

trovano come chiusi in una porta girevole che continua a farli girare in tondo. Si tratta

di una generazione di lavoratori che quotidianamente si trova ad affrontare tensione,

incertezza, angoscia e che deve trovare risorse e conferme in se stessi e nella propria

rete di relazioni più che nel lavoro in sé. La generazione immediatamente precedente a

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questa non ha affatto un’esperienza sociale, economica e mentale della flessibilità. Per

molti aspetti la condizione dei nuovi lavoratori è inedita e originale.

Senza pretendere di tracciare un profilo completo dei nuovi lavoratori precari, vorrei

prendere in esame alcuni aspetti che segnalano un mutamento di fondo e che a mio

avviso hanno una ricaduta sul senso di appartenenza sociale e civile.

La prima cosa che vorrei notare è che nello scenario postfordista l’ambiente di

lavoro non è preesistente al lavoro e il lavoro non è preesistente al

lavoratore. Nella società fordista il lavoratore veniva inserito in un posto

precostituito, definito e delimitato rigidamente, sia come luogo fisico, sia come

mansioni e competenze, sia infine come organizzazione definita del tempo e della

prestazione. Al contrario oggi il lavoro precario postfordista in tutte le sue forme –

autonoma, subordinata, atipica, di terzo settore - costituisce un terreno in cui il

lavoratore crea, inventa il proprio lavoro, le proprie mansioni e i propri tempi; in gran

parte costruisce o perlomeno delimita conseguentemente il proprio stesso “ambiente

di lavoro” a partire dalle proprie conoscenze, dalle proprie abitudini, dalle tipologie di

relazioni che mette in gioco, da alcune intuizioni di fondo, dalla capacità di reagire agli

imprevisti e ai mutamenti anche contingenti della realtà esterna (del mercato, delle

condizioni sociali, dei partner, dei canali di finanziamento ecc.). Questa attività di

costruzione professionale e sociale contemporaneamente è qualcosa di molto faticoso

e molto esposto al rischio eppure è spesso l’unica possibilità per trovare una

collocazione e anzi per inventarsi un ambiente lavorativo meno costrittivo, meno

dipendente, meno alienato, meno rutinario e ripetitivo.

Lo stesso spazio non è dunque qualcosa di chiaramente definito. Non è più o

non è solo l’ufficio o la fabbrica, intesi come due luoghi chiaramente distinti. Ma è la

casa-ufficio e più ancora la casa-ufficio assieme a gli uffici, e a diversi altri luoghi di

incontro e socializzazione. Nei fatti questi lavoratori si misurano con una pluralità di

spazi, i diversi luoghi che attraversano passando da un lavoro all’altro, o anche

attraverso uno stesso lavoro. Sono luoghi formali e informali, perché sempre di più le

cose si progettano, si decidono, si organizzano anche in luoghi di incontro: bar-tavole

calde, pizzerie, piazze, case private. Dunque virtualmente ogni spazio di incontro e di

scambio diventa spazio di lavoro. Non c’è uno spazio di lavoro a parte. O meglio, come

sottolinea Bologna, il luogo di lavoro – anche quando rimane distinto – viene assorbito

“nel sistema di regole della vita privata”, «la cultura e le abitudini della vita privata si

trasferiscono sul luogo di lavoro» (Bologna, Fumagalli, 1997, p. 16).

Il lavoro spesso è un caratterizzato da una forte presenza di dimensioni

immateriali, relazionali, comunicative, connettive. Al contrario del lavoro

fordista, dove queste dimensioni erano considerate accessori del lavoro centrale di tipo

produttivo e materiale e dunque scarsamente considerate, nel nuovo lavoro invece la

produzione avviene in gran parte attraverso la costruzione di relazioni e di percorsi

comunicativi. Nel nuovo modo di produzione – sostiene Christian Marazzi4 –

comunicazione e produzione sono tutt’uno, c’è un processo produttivo comunicativo e

le tecnologie usate sono fondamentalmente “macchine linguistiche” - che hanno lo

scopo di fluidificare e velocizzare la circolazione di informazioni. Come sottolinea Tiddi:

«La forza lavoro postfordista opera con e nei linguaggi, nella comunicazione, manipola

oggetti di carattere relazionale, intellettuale, affettivo, comunicativo, gestisce saperi

tecnici e scientifici: in questo senso non ha molto a che vedere con la semplice

amministrazione di processi altrui, è produzione di processi non meno di quanto sia

una loro amministrazione» (Tiddi, 2002, p. 45)

Spesso si tratta di un lavoro che ha a che fare direttamente con dimensioni di cura di

persone e di affetti, oppure di cura di contesti relazionali e sociali, attraverso attività

culturali, di organizzazione, di intrattenimento, di divertimento. In senso generale si

può sintetizzare che si tratta in gran parte di attività di “produzione di socialità” e di

“riproduzione sociale”

4 Cit. in Tiddi, 2002, pp. 45-46.

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Un altro aspetto emergente riguarda il diverso vissuto del tempo dei lavoratori

postfordisti. Prima abbiamo descritto la condizione lavorativa di questi nuovi

lavoratori come una situazione in cui la distinzione tra tempo di lavoro e tempo

personale, di vita, viene messa fortemente in crisi. Non ci sono tempi di ufficio, non ci

sono regole esterne e dunque potenzialmente non ci sono limiti se non quello che ci si

da autonomamente. E tuttavia questa autonomia non è mai pienamente tale. Poiché si

è più soli, più precari, più incerti sul futuro, si tende a utilizzare tutto il tempo

disponibile per assolvere consegne, incarichi, e dunque mantenere attiva una rete più

ampia possibile di “clienti” o “committenti” soddisfatti.

Da una parte il lavoro colonizza gran parte delle ore attive di queste persone ben al di

là dei limiti del vecchio tradizionale lavoro d’ufficio, dall’altra parte la vita del soggetto

lavoratore entra fortemente dentro al lavoro e anche alla prestazione professionale:

cultura, conoscenze, passioni, interessi, risorse personali, relazioni, amicizie, desideri

sono immesse continuamente nel proprio impegno lavorativo e ne costituiscono non

una disfunzione ma spesso il di più qualitativo. Ora, questa situazione sembra mettere

sempre più in crisi la distinzione tradizionale tra tempo di lavoro e tempo di vita e con

essa viene a cadere anche la scissione del cittadino/lavoratore in due diversi “cicli

socio-affettivi” quello domestico e quello professionale. Questo fatto si può leggere in

due modi assolutamente differenti.

Da una parte si può leggere questo sfumarsi del confine tra vita e lavoro come la

colonizzazione definitiva del lavoro e della ragione produttiva che conquistano ogni

residuo ultimo di intimità e soggettività degli individui alla logica economica mettendo

al lavoro anche affetti, relazioni, passioni, sentimenti. Marco Revelli per esempio si

interroga sul rischio che dimensioni come l’emotività, la corporeità, la soggettività una

volta entrate nel lavoro vengano risucchiate dalla logica del mercato e diventino esse

stesse merci (Revelli, 2001, p. 188). Questa è anche la prospettiva ampiamente

sviluppata da Jeremy Rifkin nel suo L’era dell’accesso (Rifkin, 2000).

Tuttavia anche la lettura opposta ha le sue buone ragioni. In effetti per la prima

volta, nelle nuove forme di lavoro, specialmente in quelle basate su un principio di

autonomia e innovazione sociale, tutto il mondo soggettivo della persona entra in

gioco per segnare e contaminare in profondità le logiche vigenti nel mondo di lavoro.

Questo significa introdurre altre dimensioni dell'esperienza umana che non hanno a

che fare direttamente con la produzione: le relazioni, i sentimenti, le passioni, la

ricerca personale, l'impegno civile ecc. Il valore del profitto viene affiancato e

temperato, da altri valori, relazionali, sociali, civili. I giovani nel lavoro non cercano

più solamente un rapporto strumentale, legato al reddito e alla carriera ma anche una

creazione di senso e di relazione. 5

Così anche la questione dell’identità professionale del lavoratore postfordista si

connette con la questione dell’identità sociale e personale tout court, ma in senso

affatto differente dal lavoratore fordista. Per quest’ultimo il problema dell’identità

professionale e di quella sociale coincideva in gran parte con lo “status” della

professione stessa. Si era “operai” e quindi semplice manovalanza intercambiabile

oppure “professionisti” (avvocati, professori, medici, giornalisti ecc.) e da queste

forme o “etichette” predefinite si traeva in gran parte la propria identità professionale

e personale. Nel lavoratore postfordista al contrario l’identità professionale

non discende da uno status predefinito non è accertata da un’“etichetta sociale”

corrispondente, ma al contrario è una costruzione soggettiva, lunga, faticosa,

complessa e per nulla scontata. Essa si viene costruendo biograficamente attraverso

una “composizione di differenti esperienze lavorative” in un dato momento e anche per

“stratificazione di successive esperienze lavorative” in maniera più o meno coerente o

articolata. Essendo un prodotto biografico queste professionalità, man mano che si

costruiscono diventano sempre più originali e caratteristiche. L’elemento biografico è

la misura della professionalità.

In questo, come ha suggerito Marco Revelli, si può cogliere una convergenza tra

l’esperienza dei nuovi lavoratori con quella storica delle donne:

5 Per una prima ricognizione sociologica dei valori e degli orientamenti dei giovani di fronte alla realtà attuale del lavoro

cfr. il contributo di Giorgio Gosetti e Michele La Rosa in La Rosa, Kieselbach, pp. 47-66.

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«Nel postfordismo, in sostanza, il lavoro si “femminilizza”: non solo perché quantità

crescenti di donne entrano nel mercato del lavoro, ma perché l’attività lavorativa

prevalente assume i caratteri mobili, frastagliati, irregolari e insieme iper-

soggetivizzati, intrisi di personalizzazione, emotivamente non neutralizzati né

neutralizzabili che avevano fatto, appunto, della forza-lavoro femminile un segmento

non perfettamente assimilabile nel sistema razionalizzato fordista» (Revelli, 2001, p.

142).

Tornando alle due letture di cui dicevamo prima - quella che insiste sui caratteri di

frammentazione, di precarizzazione, di neoservilismo, di mancanza di garanzie, di

sfruttamento delle nuove forme di lavoro flessibile e quella al contrario che mette in

luce la fine dell’alienazione nel lavoro e gli aspetti di liberazione, di creatività, di

autoinvestimento, di socialità si può concludere che non è possibile sciogliere questo

dubbio una volta per tutte. Entrambe queste letture sono legittime, perché lo stato

attuale è di grande in definizione e quindi è aperto a sviluppi in direzioni opposte: un

asservimento totalitario dell’intera persona perfino nelle sue passioni ed emozioni alla

logica utilitaria ed economica del profitto oppure una umanizzazione e un riconduzione

del lavoro in una più ampia sfera personale, relazionale e sociale. Entrambe le letture

hanno ovviamente anche una ricaduta ideale e politica.

Nel complesso questi dati antropologici, sociali, cognitivi, psicologici, costituiscono

un grande cambiamento e confermano quel «presentimento della tarda società del

lavoro che il suo modello e la sua morale dominante stanno invecchiando

storicamente come già accaduto, per esempio, per la morale cavalleresca o l’etica

corporativa degli artigiani» (Beck, 2000c, p. 24). Da questo punto di vista è bene

chiarire che è in gioco anche un ripensamento dell’ordine simbolico della nostra

società. Come sottolinea Ralf Dahrendorf,

«Adesso inizia un tempo in cui cambieremo nuovamente le forme di vita – non per

tutti, ma per un numero crescente di persone. Queste forme di vita assomiglieranno

più a quelle diffuse tra le donne nel corso degli ultimi decenni, che non a quelli degli

uomini. Non si tratterà cioè di carriere, quanto piuttosto di combinazioni di part-time,

di rapporti di lavoro saltuari, di lavoro non retribuito e attività volontarie a beneficio

della collettività, di una grande quantità di cose. Il fatto decisivo è che questa radicale

trasformazione dovrebbe essere agevolata e non ostacolata dalla politica. Qui sta il

fallimento dei politici. I loro discorsi continuano a muoversi entro binari totalmente

antiquati, mentre nella realtà gli uomini già da tempo si trovano omai a percorrere

altre vie. I disoccupati non se ne stanno semplicemente seduti con le mani in mano o

in fila davanti all’ufficio di collocamento, ma vanno alla ricerca di quello che si

potrebbe chiamare un portafoglio di attività. Di queste alcune sono pagate, altre no. È

un mondo assolutamente bizzarro quello in cui stiamo entrando, se misurato in base ai

rigidi parametri della vecchia società del lavoro. Ma è la transizione che, finché dura,

fa male a più di uno, soprattutto agli uomini, incapaci di abituarsi al fatto che la rigida

idea di carriera intesa come opportunità per la vita intera non ha più futuro».6

Il fatto importante è che riconoscere come molte persone stanno già vivendo e

incarnando questa nuova concezione. Molti giovani sono già passati da una

società del “lavoro monogamo” (Peter Gross) ad una “società pluralistica

delle attività” (Ulrich Beck). Le nuove generazioni in gran parte già vivono in

questo modo. E questo non è un fatto solamente materiale, ma in gran parte è anche

psicologico e antropologico. Questo significa essere abili e abituati per esempio a

occuparsi di più cose contemporaneamente, più che a ripetere più volte la stessa

mansione; a attraversare diversi ambienti fisici, relazionali e virtuali ogni giorno e

diverse volte al giorno occupandosi di cose personali e di cose professionali piuttosto

che a dividersi tra casa e lavoro; a sintetizzare differenti stimoli, discorsi e questioni,

più che a concentrarsi a lungo su una stessa cosa; a orientarsi navigando attraverso

6 Ralf Dahrendorf citato in Beck 2000c, p. 133.

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portali, motori di ricerca e web page più che attraverso gli scaffali delle biblioteche; a

manipolare simboli, segni immagini e suoni più che a maneggiare oggetti e macchine;

a gestire relazioni, comunicazioni e situazioni più che a fare cose; a parlarsi e a

riconoscersi con una rete di persone sparse nel mondo via internet più che con i vicini

di casa; a scambiare e cooperare e ad accordarsi con diversi gruppi di persone per

realizzare diversi progetti piuttosto che sposarsi ad un’azienda; a mettere insieme

passioni, interessi e divertimenti piuttosto che a sacrificare tutto per la carriera. È così,

sarà sempre più cosi. È assurdo e illusorio pensare di rinchiudere queste nuove

generazioni nell’ordine – fisico, mentale, sociale e politico - del lavoro

fordista.

Ora, dal mio punto di vista, si deve ammettere che il lavoro tradizionale dipendente

salariato sta via via perdendo di attrazione. Un numero crescente di lavoratori

accettano una condizione di flessibilità in cerca di una maggiore libertà e autonomia.

D’altra parte ci sono persone che sono stanche di passare da un lavoro all’altro senza

alcuna garanzia e tranquillità. In quelle condizioni non riescono infatti a decidere nulla

per il futuro, non riescono a fare progetti, a fare passi avanti nella loro vita personale,

affettiva, lavorativa. Queste persone stanche della precarietà sarebbero ben felici di

avere una maggiore sicurezza rispetto al posto del lavoro. Ma sarebbe semplicistico

dedurne che il loro ideale torna ad essere quello di un impiego a vita. Il problema è

proprio mettere in discussione questo schema polarizzato tra un posto di lavoro per

tutta la vita e una precarietà intollerabile. La ricerca può a mio avviso procedere ben

distante tra questi due estremi.

La possibilità di svolgere diversi lavori, di impegnare le proprie energie, la propria

sensibilità e la propria intelligenza in occupazioni diverse contemporaneamente o nel

tempo può essere un’esperienza interessante e una fonte di crescita personale

importante se sostenute da adeguate garanzie e sostegno sociale. Promuovere lo stato

sociale, da questo punto di vista, non significa necessariamente puntare unicamente

su misure conservative e difensive dei diritti individuali ma può anche significare

creazione di nuove opportunità e garanzie a partire dalle tipogie di lavoro esistenti,

«rendere meno rigida la flessibilità», come suggerisce Gallino, permettendo di

scegliere caso per caso la specie e il genere di flessibilità che preferisce (Gallino,

2001b, p. 85) e più in generale sostenendo e promuovendo sistemi di garanzia e

forme di legami sociali che evitino i rischi di anomia ed esclusione. Da questo punto di

vista ha ragione Ulrich Beck quando sottolinea che

«solo se si riuscirà a trasformare la nuova precarietà delle forme di occupazione in un

diritto a un’attività lavorativa discontinua, in un diritto alla scelta del proprio tempo di

lavoro, cioè a una nuova sovranità sul tempo di lavoro, regolata all’interno delle

condizioni contrattuali di base, potranno essere sviluppati e assicurati nuovi spazi per

conciliare tra loro lavoro, vita e azione politica» (Beck, 2000c, p. 12).

Da questo punto di vista è cruciale cogliere la sfida attuale dal punto di vista di un

possibile rilancio democratico radicale e non da posizioni difensive destinate a essere

travolte dai mutamenti sociali ed economici. In particolare si deve comprendere che

«la rottura dell’orario di lavoro normato e l’autorganizzazione del tempo di lavoro

hanno consegnato a una fetta importante della società moderna un nuovo senso della

libertà, un nuovo abito mentale nei confronti delle istituzioni e dei processi di

disciplinamento, hanno dislocato le frontiere della democrazia e imposto all’individuo

un governo della propria esistenza capace di creare sistemi di vita migliori di quelli del

lavoro salariato» (Bologna, Fumagalli, 1997, p. 23).

In altri termini si tratta di procedere ampliando gli spazi e le possibilità di quella che

André Gorz definisce una «integrazione autoregolata», ovvero «una capacità di

autorganizzazione di individui che accordano le loro condotte in vista di un risultato da

raggiungere attraverso l'azione collettiva» (Gorz, 1992, p. 43) e per contro di

contenere e diminuire le dimensioni di “eteronomia” (mansioni programmate e

coordinate dall’esterno) indotte dal mercato e anche dallo stato centralistico. Si tratta

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quindi di ripensare profondamente il lavoro che cambia con la consapevolezza che per

diversi aspetti la crescita della libertà, e degli spazi di autodirezione nel lavoro va in

parallelo con la crescita delle libertà e dell'autogoverno nel progetto democratico.

Dunque senza sottovalutare l’importanza delle forme di garanzie tradizionali, si

tratta tuttavia di far parlare ed ascoltare le esperienze e il significato che i/le giovani

vivono e creano nel rapportarsi con il lavoro attraverso forme e modalità nuove

confrontandosi con il senso delle scelte e dei progetti che cercano di mettere in piedi.

Solamente partendo dalla condivisione delle esperienze dei giovani, dei loro percorsi,

dei loro bisogni e desideri è possibile sottrarre le comunità in cui viviamo

all'indifferenza e all'ostilità e ricostruire un tessuto sociale e cittadino attento,

accogliente, intelligente e piacevole. La sfida dunque è quella di contrastare la

passività, l’isolamento, la perdita di identità collettiva e riflettere sui mutamenti del

paesaggio sociale ed economico a partire dalla propria esperienza. Si tratta di agire

riflessivamente a partire dai mutamenti della propria coscienza, dalle dimensioni

antropologiche implicite nella propria condizione, cercando di indirizzare il

cambiamento attraverso un attivo e diretto coinvolgimento che connetta i percorsi

individuali alla necessità di un mutamento sociale.

Io credo che ci sia un grande bisogno da parte delle nuove generazioni di

raccontarsi francamente quello che stanno vivendo, la rivoluzione sociale e

antropologica che stanno in maniera piuttosto silenziosa attraversando in

termini di rapporto con il lavoro, nelle relazioni tra generazioni, nelle relazioni tra i

sessi, con se stessi ecc…

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APPROFONDIMENTO: MUTAMENTI NELLE FAMIGLIE E POLITICHE DI GENERE

In questi decenni è in corso, in mezzo a cambiamenti più generali, anche una

rivoluzione profonda nel modo di costruire le relazioni, di concepire i legami familiari, i

rapporti tra i sessi, tra le generazioni. Di fatto la struttura patriarcale che

sottontendeva le relazioni sociali e famigliari è stata messa radicalmente in

crisi.

Da una parte abbiamo avuto delle forti trasformazioni socio economiche e

lavorative. L’ampliamento delle opportunità di studio e formazione e per le donne e il

loro ingresso nel mondo del lavoro ha dato una maggior autonomia sociale ed

economica alle donne lavoratrici, minando il dominio maschile nel sistema famigliare e

aumentando la capacità di contrattazione da parte femminile. Più recentemente la

trasformazione del lavoro verso forme postfordiste e la precarizzazione del lavoro ha

ulteriormente indebolito il lavoro maschile, uno dei bastioni dell’identità patriarcale, e

avvicinato – anche se non del tutto parificato - le condizioni socio-economiche degli

uomini e delle donne.

In secondo luogo dobbiamo ricordare le trasformazioni della sessualità. A

partire anzitutto dalle forme di contraccezione, che hanno liberato – almeno in parte –

le donne dalla paura della gravidanza e della morte, permettendo l’accesso ad una

sessualità più libera. La trasformazione della cultura sessuale assieme all’avvento della

moderna contraccezione hanno permesso una maggiore libertà sessuale anche da

parte femminile. Nelle relazioni questo ha significato anche la ricerca e la richiesta di

un piacere e di una gratificazione sessuale anche da parte femminile. Inoltre l’avvento

dei movimenti gay e lesbo (e più recentemente queer) hanno messo in discussione la

norma dell’eterosessualità e delle famiglie tradizionali.

Un terzo elemento riguarda l’introduzione della possibilità del divorzio e la

desacralizzazione dell’istituzione matrimoniale. Con il referendum del 1974 più

ancora che con la legge sul divorzio (898/1970) si afferma in seguito ad una forte

battaglia culturale un principio che afferma il diritto di scelta nella costituzione e nella

risoluzione dei rapporti matrimoniali. Questo permetterà alle donne di scegliere

quando interrompere un rapporto non soddisfacente o addirittura pericoloso.

Attualmente in Italia ci sono all’incirca 250 mila matrimoni all’anno, oltre 41

mila divorzi e 79mila separazioni. Ci sono oltre due milioni e mezzo di persone

divorziate o separate. Al di là dei numeri questo ha portato al passaggio da una

situazione in cui una relazione matrimoniale era sostanzialmente un destino, o una

strada senza uscita ad un esperienza che può continuare o essere interrotta a seconda

del benessere delle persone che lo contraggono. Questo cambiamento inoltre ha

portato nuove e più diversificate strutture famigliari, sia famiglie monoparentali che

famiglie ricomposte o ricostituite. Si diffonde inoltre il fenomeno delle convivenze,

delle coppie di fatto ed aumentano le coppie omosessuali.

Complessivamente numerosi cambiamenti, innovazioni e conquiste civili da parte

del movimento delle donne hanno poi cambiato la cultura e la mentalità modificando

abitudini, aspettative e attese da parte delle donne introducendo forti elementi di

stimolo al cambiamento anche sul versante maschile.

La rivoluzione che questi cambiamenti hanno portato può essere riassunta in un

fatto fondamentale: gli ultimi decenni hanno visto l’avvento della libertà delle

donne nelle società contemporanee, anche se in modo e in misura diversa a

seconda dei paesi e dei contesti.

Anche se spesso non ci facciamo caso, la famiglia è uno dei luoghi in cui

stanno mutando più radicalmente le nostre vite e le nostre esperienze umane.

Noi oggi parliamo ancora di “famiglie”, come se ci stessimo riferendo allo stesso

oggetto sociale che indicavamo con quel nome in passato. Ma la situazione a cui ci

riferiamo adesso è notevolmente diversa da quella che si registrava anche solo pochi

decenni fa. Il nome è lo stesso, ma la realtà è cambiata radicalmente, si è

diversificata, complessificata.

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28

La democratizzazione della famiglia

Le famiglie sono dunque il luogo dove si registrano in maniera più evidente i

cambiamenti del modo di concepire e vivere le relazioni tra i sessi nella società

contemporanea.

La famiglia tradizionale era prima di ogni altra cosa una unità sociale ed

economica, dove ruoli, atteggiamenti, forme di scambio e di relazione erano spesso

predefiniti attraverso modelli e diversità di ruolo piuttosto rigidi. Rigide erano le

distinzioni tra il ruolo paterno e quello materno. Il ruolo economico e sociale del padre

e il ruolo di cura e domestico della madre erano chiari. Il padre si occupava del

sostentamento economico e dello status sociale della famiglia, mentre alla madre

erano delegate le faccende domestiche e di cura.

Rigide erano anche le distinzioni tra genitori e figli. Questi ultimi erano pensati in

maniera molto diversa da come accade oggi. In passato i figli rappresentavano fra

l’altro un aiuto per la famiglia, oggi sono prima di tutto un impegno e una

responsabilità. In passato erano totalmente soggetti al volere dei genitori e dovevano

rispondere alle necessità e all’ordine della famiglia, oggi ci si preoccupa piuttosto dei

loro sentimenti, della loro soddisfazione, addirittura dei loro diritti. I figli diminuiscono

in numero ma crescono straordinariamente in importanza. L’attenzione a quello che

spesso è l’unico figlio diventa notevole.

Oggi ci troviamo in una situazione caratterizzata da quelle che il sociologo inglese

Anthony Giddens chiama “relazioni pure” (Giddens, 2000, p. 78). Per relazioni

pure si intendono relazioni non dettate, non ordinate da obblighi sociali o economici.

In confronto al passato, attualmente le relazioni sia amicali che famigliari si fondano in

primo luogo sulla comunicazione e sull’intesa affettiva ed emozionale. Tale intesa in

passato non era la base dei legami familiari che rispondevano ad altri obiettivi (anche

se naturalmente era benvenuta quando si creava), oggi al contrario ne è pressoché

l’unico presupposto e fondamento. Così quando cessa questa intesa si rompe anche il

legame familiare. Questo contribuisce a spiegare, la trasformazione delle famiglie.

Oggi si registra necessariamente una ridefinizione delle strutture famigliari:

l’alto tasso dei divorzi e separazioni, la pluralità dei modelli famigliari, la realtà di

famiglie semplicemente conviventi e non unite da legami matrimoniali, il diffondersi di

famiglie monogenitoriali da una parte e di famiglie “ricostruite” o “complesse”

dall’altra.

«Il rapporto tra famiglia e biografia individuale si allenta. La famiglia standard, che

dura per tuta la vita, alla quale sono subordinate le biografie genitoriali, in essa

riassunte, di uomini e di donne, diventa un caso limite, e la regola diventa un

andirivieni, in corrispondenza delle diverse e particolari fasi della vita, tra varie forme

di vita in comune, familiare e non familiare. […] Situato tra gli estremi della famiglia e

della non famiglia, un numero crescente di persone comincia a “decidere” per una

terza via: una biografia complessiva contraddittoria, soggetta a costanti rivolgimenti.

Questo pluralismo delle forme di vita, vale a dire l’alternarsi di famiglie, mescolato con

– e interrotto da – altre forme di vita assieme o da soli, diventa (paradossalmente) la

“norma” della cooperazione e dell’opposizione tra uomini e donne nelle condizioni

dell’invividualizzazione» (Beck, 2000, pp. 170-171).

Tutto questo modifica evidentemente le relazioni tra uomini e donne, tra padri e

madri, ma anche – contemporaneamente – tra genitori e figli. La famiglia si è andata

democratizzando non solo nel rapporto tra i sessi ma anche in quello fra generazioni.

Naturalmente questo non significa – o non dovrebbe significare - che vengono

cancellate le diversità di età, esperienza, maturità e responsabilità, ma che dal punto

di vista dei bisogni, dei diritti e soprattutto della vita emotiva il punto di vista del

padre, quello della madre e quello dei bambini viene posto su uno stesso piano e anzi

oggi la tendenza– spesso anche retorica - è quella di mettere al primo posto i bisogni

del bambino. Gli effetti di questa rivoluzione sono molteplici.

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29

Paesi Uomini Donne

Tasso

occupazione

totale

Paesi Bassi 83,2 71,1 77,2

Danimarca 81,9 74,3 78,1

Cipro 79,2 62,9 70,9

Austria 78,5 65,8 72,1

Regno Unito 77,3 65,8 71,5

Svezia 76,7 71,8 74,3

Germania 75,9 65,4 70,7

Repubblica

Ceca 75,4 57,6 66,6

Grecia 75,0 48,7 61,9

Irlanda 74,9 60,2 67,6

Portogallo 74,0 62,5 68,2

Estonia 73,6 66,3 69,8

Spagna 73,5 54,9 64,3

Finlandia 73,1 69,0 71,1

Slovenia 72,7 64,2 68,6

Malta 72,5 37,4 55,2

Lettonia 72,1 65,4 68,6

Lussemburgo 71,5 55,1 63,4

ITALIA 70,3 47,2 58,7

Slovacchia 70,0 54,6 62,3

Francia 69,8 60,7 65,2

Belgio 68,6 56,2 62,4

Bulgaria 68,5 59,5 64,0

Lituania 67,1 61,8 64,3

Polonia 66,3 52,4 59,2

In primo luogo, vengono meno le strutture di potere tradizionale in modo tale

che l’autorità maschile non è più affatto scontata, né può essere semplicemente

ereditata o mutuata da modelli sociali e culturali esterni al nucleo famigliare. Per certi

versi questo può portare a discutere e a contrattare tutto. Poiché non c’è un’autorità

superiore, tutto va giustificato e concordato. O meglio l’autorità può esserci, ma non è

predefinita, può nascere fondamentalmente se non esclusivamente su di un piano

relazionale. Ma è chiaro che questo richiede anche competenze relazionali nuove o più

raffinate.

In secondo luogo, nella coesione e nel “clima” famigliare, la dimensione emotiva

diventa assolutamente fondamentale, a tal punto che si potrebbe parlare di una

maggiore “densità emotiva” della vita famigliare contemporanea coerente con

quella che altri sociologi descrivono come una «crescita della densità emozionale della

vita sociale» (Beck, 2000, p. 75).7 Nello specifico, dunque, la capacità di interpretare

comunicazioni e conflitti emotivi diventa una risorsa cruciale.

In terzo luogo, i ruoli tradizionali (di cura, di educazione, di sostegno, di indirizzo,

di contenimento), pur non sparendo del tutto, perdono progressivamente la loro

pregnanza, vengono lasciati al libero gioco delle condizioni materiali, culturali e sociali,

alla contrattazione tra persone e al desiderio e all’atteggiamento dei singoli, e infine

alla capacità soggettiva di interpretare ruoli e posizioni differenti.

In generale l’evoluzione del percorso femminile ha suscitato notevoli cambiamenti

sulla società: livelli di natalità inferiori, posticipazione della prima gravidanza, aumento

dell’instabilità coniugale, moltiplicazione delle famiglie atipiche. Tutto questo comporta

una situazione differente sia rispetto al funzionamento della famiglia che alle

aspettative rispetto ai servizi e alle politiche sociali. L’aspetto più importante da questo

punto di vista riguarda il massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro e

la modificazione delle aspettative nel contesto famigliare.

Lavoro retribuito e lavoro di cura

Un primo dato di fondo che si può segnalare è

che nell’Unione Europea negli anni ‘90 il

numero delle famiglie con doppio reddito sia

aumentato circa del 10% in modo che la

situazione in cui sia il padre che la madre lavorano

rappresenta oramai la condizione della

maggioranza delle famiglie europee.

Ci sono tuttavia forti differenze da paese a

paese. Se si prende come riferimento il tasso di

occupazione della popolazione in età 15-64

anni per sesso nei paesi Ue (anno 2008)

vediamo che le percentuali di donne occupate sono

molto alte nei paesi nordici quali Danimarca

(74,3%), Svezia (71,8%), Paesi Bassi (71,1%),

Finlandia (69,0%), più contenute nel Regno Unito

(65,8%), in Germania (65,4%), e Francia (60,7%)

e decisamente più basse nei paesi dell’Europa

meridionale come Spagna (54,9%), Grecia

(48,7%) e Italia (47,2%) che rappresenta la

penultima posizione dopo Malta (37,4%).8

In molti paesi più industrializzati le donne

possono vantare un grado di istruzione superiore a

quello degli uomini.

La tradizionale figura della casalinga è in

diminuzione ovunque. La figura della donna in

7 L’espressione è tratta da Beck (2000) ma questo autore si richiama a sua volta a Talcott Parsons.

8 Il dato è tratto dallo studio Noi Italia. 100 statistiche per capire il paese in cui viviamo, Istat 2010 (http://noi-

italia.istat.it). La situazione italiana si alza comunque al 58,95 se si restringe l’analisi allo spettro 25-49 anni.

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carriera, che antepone il lavoro alla famiglia, riguarda anch’essa una minoranza.

Mentre la stragrande maggioranza delle donne cercano di conciliare l’impegno

lavorativo con il progetto famigliare. Nella maggior parte dei casi abbiamo di fatto un

tempo pieno per entrambi i coniugi lavoratori anche se il lavoro femminile è

generalmente più precario.

Il problema è dunque come supportare questo cambiamento per evitare che

l’alternativa si ponga nei termini della scelta tra bassa fecondità e bassa condizione

lavorativa delle donne. Fonte: Eurostat, Labour Force Survey

Ora questa trasformazione ha fatto emergere alcuni bisogni fondamentali legati alla

cura, in particolare dei bambini e anche degli anziani. Questo apre due questioni: la

prima legata alla redistribuzione del lavoro di cura tra madri e padri, tra uomini

e donne; la seconda il passaggio da un modello di Welfare che si appoggiava ad

un sistema familistico tradizionale a una nuova concezione di Welfare che sa

trasformarsi in relazione alla diversa situazione culturale, economica e sociale.

Vediamo per il momento il primo punto.

Come è logico pensare, permettere e rafforzare l’ingresso delle donne nel mondo

del lavoro retribuito significa molto inevitabilmente diminuire la parte di lavoro

salariato di “produzione” riservata agli uomini e ridistribuirla permettendo un maggiore

accesso e una maggiore autonomia alle donne e ai giovani. D’altra parte le

metamorfosi del lavoro dovrebbero essere guidate in modo da consentire agli uomini

abituati al lavoro salariato di produzione di compartecipare in maniera più paritaria

all’impegno domestico di “riproduzione”, ovvero alla cura delle relazioni, degli affetti,

della crescita dei figli, alla cura dello spazio abitativo e conviviale, riequilibrando in

questo modo l’eccessivo carico e la tradizionale delega alle donne. Questo riequilibrio

dovrebbe ridurre la “disoccupazione salariata” femminile e la “disoccupazione

domestica” maschile. Si tratta come hanno detto alcune donne di andare oltre

l’aspirazione all’indipendenza per «aprire lo spazio all’interdipendenza» (Aa.Vv.,

2005, p. 15).

Certamente le trasformazioni sociali e culturali che negli ultimi decenni hanno

trasformato la maggior parte delle famiglie europee da “monoreddito” a

“doppio reddito” ha contribuito a mettere in crisi il modello tradizionale in cui la

divisione dei ruoli ripercorreva rigidamente uno schema complementare tra un padre

responsabile degli introiti familiari e una madre occupata nelle necessità domestiche.

In linea generale certamente all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro è

corrisposto anche una maggiore presenza e partecipazione dei padri nelle dimensioni

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di cura dei figli. Ma in generale questo cambiamento è stato tutt’altro che simmetrico e

proporzionale.

Ma qual è, in effetti, il reale contributo dei padri nelle famiglie attuali e

dunque quali sono le condizioni “normali” di questa presenza sia in relazione allo stato

attuale che in prospettiva?

A questo proposito possiamo cercare di desumere qualche dato e qualche

riferimento dagli studi e dalle ricerche effettuati sulla presenza dei padri nello spazio

domestico nel contesto italiano.

Alcune indicazioni possiamo trarle dall’indagine Multiscopo dell’ISTAT sulle

famiglie “Uso del tempo” che concentra le sue analisi fra l’altro sulle “differenze di

genere nelle attività del tempo libero”. Da questa indagine emerge in generale che

l’Italia è uno dei paesi con meno tempo libero a disposizione dei suoi cittadini in

Europa e per quanto riguarda le donne il tempo libero scende ancora. In Italia:

“la dimensione del tempo libero evidenza un forte e generalizzato gap di genere:

nel corso della giornata le donne dispongono mediamente di meno tempo libero

rispetto agli uomini in tutte le fasi della vita. Questa differenza si presenta durante

l’infanzia, si acuisce con l’ingresso nell’età adulta e l’assunzione di ruoli di

responsabilità familiare, e continua fina alle età più avanzate”.9

Si può capire dunque come una certa disparità rispetto all’uso del tempo per sé e

per gli altri abbia origini piuttosto profonde e remote. Tra l’altro un dato noto ma che

questa indagine conferma è che comparando la condizione delle madri la presenza del

partner lungi da permettere un alleggerimento del carico di lavoro e quindi un

aumento del tempo libero costituisce un ulteriore svantaggio per il proprio tempo

libero. In effetti le madri sole possono contare su circa 3h21’ al giorno contro le 2h57’

delle madri con partner.10

Anche tra gli occupati la differenze nella disponibilità di tempo libero permangono

anche se attenuate: 2h52’ delle donne contro le 3h48’ degli uomini.

L’indagine rivela che le donne rimangono penalizzate perfino nel week end e che a

quasi tutte le ore del giorno le donne impegnate nelle attività del tempo libero sono

meno numerose degli uomini.

In termini generali quello che emerge dalle ricerche11 è che in corrispondenza della

nascita dei figli le donne lavoratrici cercano di conciliare professione e impegno di

cura, dunque affrontano un’autolimitazione delle proprie opportunità lavorative,

rinunciando spesso alla propria carriera e assumendosi un maggior carico di cura nello

spazio domestico. Mentre da parte dei padri non c’è la stessa disponibilità. Il tempo

dedicato ai figli e alla famiglia è comunque residuale rispetto al proprio impegno

lavorativo. Generalmente l’assunzione di responsabilità di fronte alla famiglia e ai figli

non corrisponde ad un’autolimitazione o addirittura ad una rinuncia sul piano delle

opportunità di carriera.12 Nel caso dei padri si può parlare solo di un qualche

aggiustamento ma non di una riorganizzazione reale, di una rivoluzione o di

un’interruzione temporanea di carriera come accade alle madri.

Anzi talvolta si può registrare l’atteggiamento inverso: di fronte alla nascita dei figli

i padri si preoccupano di aumentare le occasioni di lavoro per accrescere le

9 ISTAT, Le differenze di genere nelle attività del tempo libero. Anni 2002-2003, Roma, aprile 2006, p. 2.

10 Ibid., p. 4.

11 Vd. per esempio, Fortuna Procentese, Padri in divenire. Nuove sfide per i legami familiari, Franco Angeli,

Milano, 2005, p. 51, dove si afferma che nella ricerca svolta circa metà delle madri (50,8%) dichiara di aver cambiato orario di lavoro dopo la nascita di un figlio, mentre la maggioranza dei padri padri (63,8%) dichiara di non aver apportato nessun cambiamento nella propria attività lavorativa. 12

Si può sottolineare tuttavia, da questo punto di vista, che l’atteggiamento di delega dei padri è favorito anche dal fatto che, almeno per quanto riguarda il contesto italiano, la riduzione del tempo di lavoro, nell’ottica di un regime più flessibile atto a rispondere anche alle necessità familiari, il più delle volte corrisponde concretamente e senza differenziazioni possibili, al passaggio ad una condizione di precarietà lavorativa. È possibile immaginare che forme più regolamentate e garantite di flessibilità lavorativa potrebbero risultare più attraenti e accettabili anche da parte dei nuovi padri.

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disponibilità economiche in vista delle nuove necessità della famiglia. Questo fatto

naturalmente non è una colpa, ma tuttavia evidenzia che di fronte all’allargamento

della famiglia padri e madri reagiscono con modalità in qualche misura determinate dai

ruoli e dai modelli di genere introiettati e suggeriti dalla cultura e dal contesto sociale.

Come ha sottolineato Chiara Saraceno,

“l’avere figli accentua innanzitutto il ruolo di breadwinner del padre,

simmetricamente a quanto avviene per le madri in direzione del ruolo di caregiver”.13

Anche le possibilità14 offerte dalla legge 53, 8 marzo 2000 “Disposizioni per il

sostegno della maternità e della paternità per il diritto alla cura e alla

formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”, e dal Decreto

legislativo 26/3/2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di

tutela e sostegno della maternità e della paternità) a norma dell’articolo 15 della

legge 53/2000 non sembrano aver apportato grandi cambiamenti.

Certo ci sono anche difficoltà concrete – dall’effettiva conoscenza di questi

strumenti alle difficoltà incontrate nei contesti lavorativi, all’impossibilità per i

lavoratori autonomi di accedere a queste misure – ma il limitato ricorso15 a questa

opportunità segnala quantomeno una scarsa attenzione da parte dei padri ad

assumersi una diretta responsabilità nella cura fin dal momento della nascita dei figli.

Si può sottolineare tuttavia, che l’atteggiamento di delega dei padri sembra favorito

dal fatto che la riduzione del tempo lavorativi o la concessione di permessi viene

spesso osteggiato o mal tollerato da parte delle imprese e degli altri contesti di lavoro.

Il rischio che un regime più flessibile atto a rispondere anche alle necessità familiari,

finisca col corrispondere concretamente ad un declassamento ad una condizione di

precarietà lavorativa può rappresentare un notevole ostacolo non solo culturale. È

possibile immaginare che forme più regolamentate e garantite di flessibilità lavorativa

potrebbero risultare più attraenti e accettabili anche da parte dei nuovi padri. Per ora

quello che si registra è un sentimento molto diffuso di insoddisfazione per la propria

condizione lavorativa e un forte desiderio di cambiamento. Da questo punto di vista

questo tipo di problemi interrogano anche il mondo dell’impresa.

In che misura le aziende, le amministrazioni pubbliche, possono aiutare i padri in

questo dilemma e in queste tensioni? Alcune imprese – questo è l’auspicio -

potrebbero trovare interessante sperimentare nuove condizioni di lavoro favorevoli ad

una conciliazione dei tempi lavorativi e famigliari. Tuttavia il problema non si pone

semplicemente a livello della singola impresa. La tensione verso il massimo impiego

possibile del singolo lavoratore dipende anche dalle logiche competitive vigenti nel

mercato globale.

Dunque a mio modo di vedere il tema della conciliazione riguarda non solo

un’articolazione del tempo ma un confronto, una conciliazione di senso, di significato,

di logiche tendenzialmente differenti. Oggi è in atto un conflitto simbolico sul senso del

tempo: da una parte il tempo ottimizzato per la produzione, e il consumo concepito

come prioritario, dall’altra il tempo per rigenerarsi, per relazionarsi, per conoscere, per

riprodursi che diventa sempre più oggetto di lusso e di desideri sociali. Il sistema

tradizionale è fondamentalmente orientato al profitto e alla competizione attorno alla

produzione di cose e non è per nulla interessato alle dimensioni della riproduzione che

concepisce come esternalità. La riproduzione delle persone, delle famiglie, della natura

sono pensate solamente come qualcosa di esterno al sistema economico. La

procreazione, la nutrizione, le relazioni, la cura, gli affetti, l’amore, a fatto privato,

assegnato alla responsabilità femminile ed escluso dalla considerazione sociale,

economica e politica. La crisi cui ci troviamo di fronte dunque è allo stesso tempo

politica, economica e sessuale. Ripensare la politica, ripensare il lavoro, ripensare

13

CHIARA SARACENO, “Paternità e maternità. Non solo disuguaglianze di genere”, relazione al convegno “La paternità in italia” del 20 ottobre 2005, disponibile on line: http://www.istat.it/istat/eventi/paternita2005/ 14

I coniugi possono godere di sei mesi a testa e dieci insieme, ma i padri che decidono di usufruire del congedo per un periodo di almeno tre mesi possono avere un mese in più (per un totale di undici mesi di congedo insieme). 15

Per una sintesi di alcune ricerche in merito si veda Fortuna Procentese, Padri in divenire. cit., pp. 73-83 e 108-112.

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l’economia significa creare un nuovo ordine simbolico delle relazioni tra uomini e

donne che vada oltre le logiche di contrapposizione tra pubblico/privato,

competizione/solidarietà, produzione/riproduzione. Le famiglie, da questo punto di

vista, sono uno dei terreni principali dove si sta giocando questa partita. Dalla

possibilità di ritrovare un equilibrio tra tempo di lavoro e tempo di vita non dipende

solo la realizzazione di una vita famigliare soddisfacente ma dipende il futuro stesso

della nostra società.

Tuttavia restano le difficoltà di mentalità da parte degli stessi padri, in

particolare italiani. Anche per quanto riguarda più specificamente la cura dei figli il

cambiamento non ha finora determinato un sostanziale superamento delle tradizionali

divisioni di genere, e al di là della retorica non si è ancora realizzata una totale

fungibilità dei ruoli materni e paterni.

Come mostra l’indagine dell’ISTAT, Diventare padri in Italia. Fecondità e

figli secondo un approccio di genere (2006), in termini generali il tempo medio

impiegato nella cura da parte dei padri in quindici anni (1988-2003) è aumentato

mediamente di 18 minuti giornalieri:

“Il confronto con il 1988-89 mette in luce dei mutamenti nella direzione di un

maggiore coinvolgimento dei padri come per le madri, nella cura dei figli: di fatto,

sono aumentati i padri che si prendono cura dei figli (di 17 punti percentuali: dal 41,8

per cento al 58,6 per cento) ed è aumentato di 18 minuti il tempo impiegato nella cura

(da 27’ a 45’). Anche le durate medie specifiche, risultano più elevate di 11’, il che

significa che non aumenta solo il numero di padri coinvolto in tali attività, ma anche il

tempo che effettivamente i padri vi dedicano”.16

Per quanto riguarda le altre attività esse sono aumentate solo lievemente nel caso dei

lavori domestici (da 35’ a 38’ = + 3’) o sono rimasti sostanzialmente stabili nel caso

delle attività di acquisti di beni e servizi (16’).

Si può notare tuttavia che queste medie non fanno emergere né la distribuzione

dell’incremento dell’impegno dei padri in riferimento all’età e al grado di istruzione

(per alcuni l’impegno è aumentato significativamente mentre per altri può essere

rimasto assolutamente invariato), ma anche i diversi investimenti da parte dei padri

nelle differenti attività di cura e di relazione.

Per quanto riguarda il primo aspetto, si può osservare che il cambiamento va

misurato anche focalizzando l’attenzione sui cambiamenti generazionali. In effetti si

può presumere che i cambiamenti nei modelli di paternità si affermino man mano che

di generazione in generazione si modificano mentalità e abitudini.

Nell’indagine ISTAT, La vita di coppia (2006), le donne intervistate dichiarano

che tra le attività più condivise con i propri partner ci sono quelle svolte assieme ai

figli. Complessivamente è aumentata nella graduatoria delle attività svolte insieme il

giocare con i figli che è passato dal 37,4% nel 1998, al 40,2% nel 2003. Mentre

l’uscire assieme con i figli è leggermente diminuito: dal 36,2% al 35,7%. Tra le attività

svolte assieme anche l’andare a fare la spesa assieme è aumentata dal 28,5% del

1998 al 31,2% del 2003. Queste attività diventano ancora più presenti nelle coppie più

giovani. L’85,5% delle donne fino a 44 anni dichiarano di uscire assieme con i loro

partner e con i figli e addirittura l’88,6% dichiarano di giocare con i figli assieme al

proprio partner. Tale propensione decresce drasticamente col crescere dell’anzianità

della coppia.

Questa trasformazione emerge ancora meglio se si prende in esame la frequenza di

queste attività. Tra le donne più giovani, quelle tra i 35 e i 44 anni, il 29,1% dichiara

di andare a far la spesa assieme al proprio compagno “spesso”, e il 37,9% “qualche

volta”, il 56,8% dichiara di giocare “spesso” con il figlio assieme al partner e il 25,8%

“qualche volta”, mentre il 61,7% dichiara di uscire “spesso” con i figli ed il partner e il

25,9% “qualche volta”. Nelle donne ancora più giovani - di età inferiore ai 34 anni – il

dato cresce ulteriormente: il 35,8% dichiara di andare a far la spessa assieme

16

ISTAT, Diventare padri in Italia. Fecondità e figli secondo un approccio di genere, a cura di Alessandro Rosina e Linda Laura Sabbadini, Roma, Edizione provvisoria, 2006, p. 231.

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“spesso” mentre il 37,1% “qualche volta”, il 71,4% di giocare “spesso” con i figli

assieme e il 73,6% di uscire “spesso” assieme con figli e partner e il 16,8% “qualche

volta”.

Il cambiamento generazionale ha una sua importanza e sottolinea una tendenza

positiva in prospettiva. Non solo, ma si può presumere che da questo punto di vista i

comportamenti trasmessi per imitazione e interiorizzazione potrebbero portare a

modificazioni esponenziali nel giro di breve tempo. I figli di quei padri che oggi

cominciano ad essere presenti nelle relazioni domestiche e nelle attività di cura molto

probabilmente verranno socializzati secondo queste nuove condizioni e apprenderanno

un certo stile di presenza e di impegno relazionale come forma di consuetudine.

Dunque lo rimetteranno in atto con una “naturalezza” ancora maggiore dei propri

padri.

E ancora va sottolineato che nei padri che sperimentano la novità dell’impegno nelle

relazioni di cura non si tratta solamente di un aumento di presenza sul piano

quantitativo ma di una effettiva sperimentazione di nuove dimensioni relazionali. Si

tratta di padri più coinvolti emotivamente ed affettivamente, più disponibili a mettersi

in gioco, più capaci di coinvolgersi anche attraverso modalità nuove per esempio

corporee e non verbali. Non possiamo qui approfondire questi aspetti ma si deve

sottolineare che anche se parliamo di una piccola “avanguardia” di padri, le esperienze

che questi fanno porteranno probabilmente conseguenze molto ampie e profonde.

Contemporaneamente, tuttavia, per comprendere meglio cosa effettivamente sta

cambiando e cosa invece rimane sostanzialmente immodificato occorre analizzare più

nel dettaglio l’impegno da parte dei padri.

In effetti si può osservare con chiarezza come il cambiamento nel

coinvolgimento da parte dei padri sia un processo sostanzialmente selettivo e

ambivalente. Nelle attività di cura dei figli si può distinguere infatti tra attività

routinarie, ripetitive ma essenziali (far da mangiare, lavare e pulire il bambino,

vestirlo, farlo addormentare) e le attività interattive più aperte e relazionali (attività

educative, attività ludiche e di svago).

La già citata indagine ISTAT Diventare padri in Italia prende in esame a questo

proposito cinque diverse attività di cura di routine o “strumentali”:

i) vestire il bambino;

ii) preparargli i pasti;

iii) cambiargli il pannolino;

iv) fargli il bagno;

v) metterlo a letto.

Si nota quindi che una quota più cospicua di padri svolge quotidianamente attività

quali mettere a letto il bambino o dargli da mangiare, mentre ci sono ancora molti

padri che non si occupa mai di far loro il bagno - 37,8% di padri con figli 0-2 anni e il

39% con figli 3-5 anni - o di cambiargli il pannolino - 31% di padri con figli 0-2 anni e

49,3% di padri con figli 3-5 anni (ma a questa età naturalmente l’esigenza

diminuisce).

Sommando i punteggi delle cinque attività in particolare per i figli più piccoli, i

ricercatori dell’ISTAT notano che solo una piccola minoranza dei padri, pari a meno del

5% del campione, svolge quotidianamente tutte le attività essenziali per la cura dei

figli.17 Dunque nel complesso ancora oggi la presenza dei padri nelle attività di

cura riguarda il più delle volte un ruolo di sostegno e di supporto alle madri

cui è ancora in gran parte demandato la continuità delle attività essenziali di

cura. In termini generali il coinvolgimento paterno aumenta quando anche la

donna lavora e nelle coppie con più alto livello di istruzione.

Nei fatti, nonostante il progressivo impegno lavorativo delle donne,

17

ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 154.

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35

“continuano a ricadere sulla giornata della donna oltre i tre quarti (78,3%) del

tempo complessivamente dedicato dalla coppia al lavoro familiare”.18

Generalmente i padri tendono a giustificare la minor presenza nelle attività di cura

rispetto alle madri sulla base della limitata disponibilità di tempo dovuta all’impegno

lavorativo. Tuttavia l’idea che sia il tempo a spiegare la suddivisione e lo squilibrio

nelle attività di cura dei figli tra uomini e donne si scontra con il fatto che la

disponibilità dei padri è fortemente disomogenea rispetto al tipo di attività.

Attualmente relativamente alle coppie in cui entrambi i genitori sono occupati, si

registra infatti una suddivisione dell’impegno piuttosto equa tra padri e madri

solamente nelle attività più gratificanti quali quelle legate alla comunicazione e al

gioco e al tempo libero ma per tutto il resto (cura del corpo, preparazione dei pasti,

pulizia della casa ecc…) l’asimmetria di presenza e di impegno tra padri e madri

permane molto forte.19

Inoltre al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare il coinvolgimento dei padri

nell’attività di routine non è direttamente proporzionale al tempo libero. La

partecipazione è più alta tra i padri con un orario di lavoro intermedio (36-40 ore

settimanali) mentre è più bassa tra i padri con un orario lavorativo estremamente

breve. Il che significa che con l’aumentare del tempo libero dei padri il proprio

coinvolgimento non va proporzionalmente a tutte le attività di cura dei figli ma si

indirizza comunque alle attività più ricreative e gradevoli.20

Dunque emerge piuttosto chiaramente che il diverso coinvolgimento dei padri non

varia solo in funzione del tempo ma anche della propensione e disponibilità verso

specifiche attività.

Per tentare un’interpretazione, lo stato attuale delle ricerche sulla disponibilità al

coinvolgimento dei padri nei confronti dei figli, suggerisce che il cambiamento si

situa più nella dimensione emotiva e affettiva che in quella educativa; più in

quella educativa che in quella di cura; e più in quella di cura che in quella

della responsabilità e condivisione del lavoro domestico.

Si tratta quindi di registrare il fatto che c’è una selezione e una resistenza da parte

maschile verso alcune pratiche e alcune forme di responsabilità nei rapporti genitoriali

e di cura. Da questo punto di vista si può anzi sottolineare che l’avversione maschile al

lavoro domestico e materiale, confrontando i dati sull’investimento di tempo del

1988/99 con quelli del 2002/03 sembrerebbe addirittura aumentata (-2’).21

Perfino nel cambiamento sembra dunque agire una specie di griglia o di

grammatica di genere. Alcune attività considerate positivamente e ritenute

onorevoli e gratificanti possono lentamente ma progressivamente essere assunte dai

padri, mentre altre ritenute noiose, faticose, gravose continuano ad essere evitate e

delegate alle madri. Indagini condotte in 14 paesi europei danno lo stesso risultato:

“il padre è più coinvolto nelle attività interattive, come giocare o aiutare nel fare i

compiti scolastici, meno in quelle cosiddette di sorveglianza. Praticamente ovunque

l’attività meno condivisa è preparare i pasti, quella più frequentemente condivisa è il

gioco”.22

E nel contesto europeo i padri italiani risultano essere tra i più tradizionalisti.

Che significato dare a tutto questo? La persistenza di abitudini culturali, la

resistenza verso le dimensioni meno gratificanti o la presenza di elementi simbolici

non riconosciuti?

18

ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 224. 19

L’indice di asimmetria più bassa tra padri e madri si registra nelle attività di parlare con i bambini (42, 6) o di parlare e giocare con i bambini (53,1) mentre l’indice di asimmetria più alto si registra nella sorveglianza e nelle cure fisiche (85,0) e nell’aiutare i bambini nei compiti (79,4). Vd. Tavola 9.3 ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 229. 20

ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 189. 21

ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 243. 22

PAOLA DI GIULIO, SIMONA CARROZZA, Il nuovo ruolo del padre, in Genere e demografia, a cura di Antonella Pinnelli, Filomena Racioppi, Rosella Rettaroli, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 316.

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36

Sul piano simbolico si potrebbe dire per un verso che i padri sono disposti a

sperimentarsi in rapporti emotivi e relazionali con i figli, ma che attuano ancora forme

di resistenza rispetto ad attività ritenute troppo “materiali” o “servili”.

Questo tuttavia significa che c’è ancora in nuce la tendenza da parte di alcuni padri

di farsi servire dalle proprie compagne. Fatto salvo che queste attività più servili

possono essere sempre delegate a figure esterne alla famiglia. Ed è piuttosto

significativo che sempre più spesso queste figure esterne siano donne immigrate. Qui

si rivela un intreccio forte tra relazioni di potere sessuali e relazioni di potere socio-

culturali. Al di là di questo emerge comunque un problema culturale molto forte.

L’idea di cura e di accudimento da parte degli uomini e dei padri è ancora

largamente incompleta e immatura. In generale c’è dunque una sopravvalutazione

dei cambiamenti dei padri. Certamente non è legittimo parlare oggi di “padri assenti”

negli stessi termini con cui se ne parlava in passato, e tuttavia questi dati, confermati

in tutte le ricerche, suggeriscono che ancora oggi siamo di fronte a una situazione

familiare nella quale

“il ruolo di cura si caratterizza per la centralità di una delle due figure parentali

e la perifericità dell’altra”.23

Ora le dimensioni affettive ed educative costituiscono solo una parte del più ampio e

complesso impegno relazionale verso i figli che necessita anche di un

accompagnamento quotidiano, del soddisfacimento dei bisogni essenziali, della cura

del corpo e della salute, dell’attenzione agli ambienti e ai contesti ecc.

Da questo punto di vista si possono riconoscere diversi tipi di cura a seconda

che il coinvolgimento e la responsabilità riguardino:

- cura del gioco: dimensioni ludiche, di svago;

- cura degli affetti: dimensioni emotive e relazionali;

- cura dell’educazione: dimensioni dell’apprendimento cognitivo (linguaggio,

esperienze, conoscenze e significati);

- cura della socializzazione: reti di relazioni, incontri, condivisioni;

- cura della salute: sorveglianza, assistenza nei bisogni corporei e psicologici;

- cura dei contesti: organizzazione degli spazi e dei tempi;

Quello che è in gioco dunque è un cambiamento culturale, psicologico e potremmo

dire anche antropologico. Se è vero che il lavoro è stato uno dei pilastri portanti della

costruzione dell’identità maschile in tutte le generazioni precedenti, attualmente

l’incertezza lavorativa sta creando negli uomini una fortissima insicurezza psicologica e

anche identitaria. Mentre stanno cercando di trovare un equilibrio tra lavoro e vita, tra

lavoro e famiglia, le nuove generazioni di uomini stanno anche costruendo dei percorsi

di trasformazione dell’identità maschile e dei modelli di paternità. Per esempio oggi i

padri si trovano nella condizione di dover trovare un senso di autorevolezza nelle

relazioni famigliari che non dipenda più né dallo status sociale né dal potere.

Il cambiamento che devono affrontare gli uomini per disporsi alla condivisione del

lavoro domestico è una questione piuttosto ampia che coinvolge anche

l’acquisizione di competenze e di una maggior fiducia nelle relazioni. Posto

infatti che dal punto di vista tecnico vengano predisposte anche per gli uomini tutte le

possibilità di prendersi il tempo necessario per il lavoro di cura, la domanda è: ma poi

lo faranno effettivamente?

Evidentemente il fatto non riguarda solamente la soluzione tecnica della

riorganizzazione del tempo di lavoro, ma riguarda soprattutto dimensioni psicologiche

e culturali: l’immagine di sé, la disponibilità a mettersi in gioco, a mettersi a nudo sul

terreno dell’intimità, la confidenza con il linguaggio e la comunicazione relazionale

ecc… Il desiderio di mettersi alla prova in questi ambiti potrebbe dunque esistere, ma

confrontarsi con altri desideri: il desiderio di sicurezza e di tranquillità, o quello di

mantenere un certo controllo, un distacco, un potere. La possibilità di questo

23

Fortuna Procentese, Padri in divenire. cit, p. 60.

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cambiamento riposa in gran parte sul desiderio degli uomini di oggi e di domani. E

d’altra parte quei padri che cercano di essere presenti e compartecipi in senso più

profondo devono al contempo riuscire ad far accettare culturalmente la propria nuova

idea di maschilità nella società attuale. L’impegno di cura è un impegno oneroso,

faticoso, e certamente non sempre gratificante ma che forse costituisce veramente un

salto verso una presenza più completa e profonda nelle relazioni familiari che

regala anche una percezione diversa di sé, dei figli e della vita, poiché il lavoro di cura

non è solo fatica “ma anche maggiore costruzione di intelligenza delle cose e delle

persone”.24

Ora la seconda questione riguarda dunque come le politiche sociali possono

supportare questo cambiamento. Le osservazioni che possiamo fare sono diverse.

In generale le innovazioni che hanno introdotto la possibilità di un congedo o

interruzione temporanea dal lavoro nei diversi paesi europei non hanno inciso molto.

L’interruzione è tutt’al più simbolica. Ci sono tuttavia due eccezioni significative Svezia

e Norvegia dove molti padri prendono un congedo prolungato di paternità che non è

trasferibile sull’altro coniuge.

Secondo Gosta Esping-Andersen ci sono essenzialmente tre sistemi per spingere gli

uomini a una maggiore collaborazione:

1) Rafforzare la posizione della donna nella famiglia in termini di capacità

reddituale. La posizione negoziale più forte delle donne che hanno una buona

sistemazione lavorativa e un più alto reddito rappresenta un forte incentivo a una

maggiore redistribuzione dei compiti. Come ha scritto Gosta Esping-Andersen «Il loro

potere di negoziare deriva principalmente dal grado d’indipendenza economica»

(Esping-Andersen, 2010, p. 44). Questo invita anche a pensare l’importanza delle

politiche di supporto ai percorsi lavorativi femminili. L’aumento del contributo maschile

è più forte ai vertici della piramide sociale e con una più alto livello di scolarizzazione.

2) Diminuire il carico complessivo di cura che grava sulla famiglia. Infatti le

ricerche dimostrano che la disponibilità di impegnarsi nella cura dei figli da parte dei

padri aumenta in modo significativo quando durante la giornata i figli sono affidati ai

servizi educativi o di custodia.

3) Diminuire complessivamente la durata standard della giornata

lavorativa. I paesi mediterranei come Italia o Spagna che sono anche quelli che

hanno la giornata lavorativa più lunga sono anche quelli con un più basso contributo

maschile. Occorre dunque liberare tempo anche per il lavoro di cura.

24

PIAZZA, MAPELLI, PERUCCI, Maschi e femmine: la cura... cit., p., 140.

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APPROFONDIMENTO:

CARCERI E POLITICHE REINSERIMENTO SOCIALE

La realtà delle carceri in Italia è un grave problema sociale. C’è intanto un problema

di sovraffollamento. Visto che a gennaio 2010 i detenuti nelle carceri italiani sono

65.067 contro 44.066 posti letto previsti. Vi sono dunque circa 21.000 persone in

eccesso rispetto ai posti letto regolari tanto che nel luglio 2009 l’Italia è stata

condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3

quello contro le pene e i trattamenti umani degradanti.

L’aspetto che ci interessa però è comprendere la connessione tra le politiche sociali

e le politiche carcerarie. Queste connessioni emergono da diversi punti di vista.

Innanzitutto l’aumento progressivo del tasso di carcerazione è il risultato non solo

delle politiche penali (per esempio la legge n. 251/2005 “ex Cirielli” che nega il

riconoscimento delle attenuanti quali il danno lieve ai recidivi) ma anche delle politiche

sociali. Si pensi per esempio all’effetto della legge Bossi-Fini sull’immigrazione e della

criminalizzazione dell’immigrazione, e all’effetto della Legge Fini-Giovanardi sulle

droghe (il 15,2% dei detenuti sono stati condannati per violazione di questa legge).

In altre parole le carceri oggi vengono utilizzate in modo massiccio anche per

gestire problematiche sociali quali quelle dell’immigrazione o quelle delle

tossicodipendenze, in alcuni paesi, come gli Stati Uniti il sistema penale colpisce in

particolare le fasce di popolazione più povere ed emarginate. Secondo alcuni autori la

crescita del tasso di carcerazione sarebbe connesso anche alla debolezza e allo

smantellamento dello Stato sociale e alla crescente precarizzazione del lavoro.

Il sociologo francese Loïc Wacquant ha parlato a questo proposito dello sviluppo di

quello che ha chiamato lo “Stato Penale” che negli ultimi trent’anni negli Stati Uniti e

negli ultimi quindici anni in Europa si è tradotto in un incremento sorprendente della

popolazione carceraria. Wacquant fa notare che

«l’inarrestabile ascesa dello Stato penale americano nei tre decenni scorsi

corrisponde non a un aumento della criminalità – che è rimasta complessivamente

costante per poi conoscere una flessione alla fine di tale periodo – ma alle

frammentazioni provocate dal sottrarsi dello Stato al proprio ruolo sociale e urbano e

dall’imposizione del lavoro precario come nuovo criterio di cittadinanza per gli

americani delle classi inferiori» (Wacquant, 2006, p. 8).

Oltre a questo ci sono altri temi molto importanti che riguardano le politiche sociali.

Tra questi sicuramente il tema del reinserimento e della possibilità di riorganizzare la

propria vita su altre basi alla conclusione della pena, costituisce un punto chiave.

L’intervento di Roberto Cavalieri ci aiuterà dunque a far luce non solo sulla realtà del

carcere in Italia e a Parma ma anche sulle reali possibilità e di difficoltà di

reinserimento.

Chi è dietro le sbarre. Il 46% dei detenuti (circa 30 mila persone) è in stato di custodia cautelare, cioè in attesa di giudizio. Di questi il 77,5% sono stranieri, quasi la metà dei quali (il 30%) finisce dietro le sbarre per trasgressioni che hanno a che fare con le leggi sull'immigrazione. Negli istituti di pena sono sempre meno le persone che scontano pene

lunghissime; cresce il numero, al contrario, di coloro i quali scontano sentenze fino a tre anni e potrebbero accedere a misure alternative. Il 55,32 % della popolazione detenuta è in attesa di condanna definitiva. Il tasso medio europeo dei detenuti in attesa di giudizio è invece ben inferiore al 25%. In Italia: si incarcerano i

presunti innocenti in modo più che doppio rispetto agli altri paesi dell’area Ue, dura di più la custodia cautelare, durano molto di più i processi. Il 29,5% dei reati ascritti alla popolazione detenuta consiste in delitti contro il patrimonio. Il 16,5% in reati contro la persona. Il 15,2% in violazioni della legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Il 3,2% dei reati consiste in crimini di associazione a delinquere di stampo mafioso. 1.357 sono

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gli ergastolani. 10.800 detenuti devono scontare una pena residua inferiore ai tre anni. Oltre

10.000 i casi seguiti in misura alternativa.

Donne con e senza prole Le donne sono 2.385 pari al 4,3 del totale. Una percentuale invariata nell’ultimo quindicennio e corrispondente ai tassi di detenzione femminile a livello europeo. Sono 68 le detenute madri e 70 i bambini di età inferiore ai tre anni reclusi con le mamme. 23 sono le donne in stato di gravidanza.

Stranieri I detenuti stranieri sono 23.530 pari al 37,4% del totale della popolazione detenuta. Nel 2000, ossia prima dell’approvazione della legge Bossi-Fini, la percentuale era del 29,31%. Nel 1991 era del 15,13%. Il 21,9% proviene dal Marocco, il 13,6% dalla Romania, il 12,1% dall’Albania, l’11% dalla Tunisia. Il 29,1% ha commesso reati contro il patrimonio. Il 24,3% ha commesso

reati in violazione della legge sugli stupefacenti. Lo 0,3% ha commesso un crimine di associazione a delinquere di stampo mafioso. Sono già 1873 gli stranieri in carcere per violazione della legge Bossi-Fini, ossia per irregolarità nell’ingresso in Italia.

In Europa

Sono circa 600mila i detenuti, definitivi o in attesa di giudizio, ristretti nelle carceri dei paesi dell’Unione Europea. Di questi, circa 131.000 sono in attesa di giudizio. Le donne rappresentano circa il 5% dell’intera popolazione carceraria. Nella UE negli ultimi anni in 23 stati su 27 è aumentata costantemente la popolazione carceraria. 14 stati su 27 hanno superato il limite della capienza regolamentare. I paesi con maggiori problemi di sovraffollamento sono la Grecia (168%), la Spagna (140%), l’Ungheria (137%) e il Belgio (117.9%). Tra i 14 paesi che non superano il limite della capienza regolamentare, il primato spetta alla Slovenia, seguita da

Danimarca, Finlandia, Irlanda e Svezia. I tassi di carcerazione (numero di detenuti ogni 100.000 abitanti) sono elevatissimi. Il primato spetta all’Estonia (321.6), seguita dalla Lettonia (285.3), Lituania (237.0), Polonia (229.9), Repubblica Ceca (185.6). Nell’Europa occidentale il primato spetta al Lussemburgo (163.6), seguito da Spagna (146.1) e Inghilterra (145.1). Il paese con il minore tasso di carcerazione è la Slovenia (65.0) seguita da Danimarca (69.2), Finlandia (70.6), Irlanda (74.3) e Svezia (79.0).

I suicidi. L'anno record del 2009, con 72 detenuti che si sono tolti la vita in carcere, è ormai

alle spalle. Ma il 2010 - per così dire - promette bene: nei primi 15 giorni di gennaio, già sei persone hanno deciso di farla finita con la propria esistenza in cella. Negli ultimi 10 anni ad uccidersi sono stati in 1560.

Attualmente negli Stati Uniti le persone rinchiuse nelle carceri superano i

due milioni, in una condizione di sovraffollamento inimmaginabile.

Più in generale oltre sette

milioni di persone attualmente

negli Usa sono sottoposte a

controllo giudiziario, con un grande

investimento economico proprio

nel periodo in cui al contrario le

spese sociali per i meno abbienti

subiscono grandi tagli.

L’ascesa di questo stato penale

secondo Wacquant corrisponde a

tre funzioni correlate:

1. in fondo alla scala sociale

l’incarcerazione serve da deposito e da neutralizzazione fisica degli esuberi della classe

operaia;

2. il dispiegamento della rete poliziesca, giudiziaria e penitenziaria dello Stato ricopre

una funzione al tempo stesso economica e morale con l’imposizione della disciplina del

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lavoro salariato desocializzato alle fasce sociali del proletariato e della classe media in

declino;

3. l’attivismo dell’istituzione penale corrisponde ad una missione simbolica: la

riaffermazione dell’autorità statale e il tentativo di far risaltare la suddivisione tra

cittadini meritevoli e categorie devianti, tra poveri buoni e vattivi, tra i recuperabili e i

marginalizzabili.

In altre parole secondo Wacquant questa ascesa dello stato penale corrisponde ad un

vero e proprio progetto politico.

Fonte: Loïc Wacquant, Punire i poveri, Deriveapprodi, Milano, 2006.

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41

APPROFONDIMENTO:

POVERTÀ E POLITICHE SOCIALI

Oggi affronteremo il tema della povertà e delle politiche sociali di contrasto. Quando

si affronta questo tema uno dei primi problemi in cui ci si imbatte è la definizione di

povertà e la rilevazione della povertà. Ovviamente le due cose sono connesse. Tra

le istituzioni e nella letteratura prevale storicamente un approccio alla povertà di tipo

economicistico che concentra l’attenzione sulla disponibilità finanziaria e sulla

possibilità di consumo. Questo tipo di approccio spesso sottovaluta altre dimensioni

quali le risorse culturali, psicologiche, relazionali, ambientali che possono influire

fortemente sulla costruzione di un benessere individuale e famigliare. Ma da questo

punto di vista non si è ancora diffuso un approccio più critico e complesso. Su questi

aspetti ritorneremo, ma per ora vediamo come generalmente si valuta la questione

della povertà nel nostro paese e in Europa.

Nell’ambito delle rilevazioni sociali solitamente si fa riferimento a due tipi di

indicatori di povertà: la povertà relativa e la povertà assoluta. Entrambe possono

essere misurate in riferimento ai nuclei famigliari o in riferimento ai singoli individui.

La povertà relativa viene misurata in riferimento allo stile di vita prevalente nella

popolazione, verificando se rimane nella media o se si discosta troppo dalla media del

paese o del territorio di riferimento.

La povertà assoluta invece viene misurata in riferimento ad un costo di uno

specifico paniere di beni e servizi che in uno specifico contesto viene considerato il

minimo di consumi indispensabile, dunque si verifica, indipendentemente dalle

condizioni economiche della popolazione, se si hanno le risorse necessarie e sufficienti

per acquistare quel paniere di beni e servizi.

Di fatto in Italia oggi si usano tre differenti definizioni e misurazioni di

povertà.

La prima riguarda la misura di povertà relativa pubblicata da EUROSTAT

(l’Ufficio statistico dell’Unione Europea). Secondo la metodologia di questa agenzia si

definisce povero chi ha redditi equivalenti inferiori al 60% del reddito mediano

nazionale equivalente.

Una seconda misurazione è quella di povertà relativa storicamente adottata

dall’ISTAT (l’istituto nazionale di statistica) che definisce povero chi ha consumi

equivalenti inferiori al 60% del consumo medio pro capite nazionale.

Una terza metodologia (ISTAT) misura la povertà assoluta, confrontandola come

abbiamo detto in riferimento ad un paniere di beni e servizi.

Ovviamente i tre criteri danno luogo a rilevazioni differenti.

Secondo EUROSTAT in Italia il numero di individui poveri relativi sarebbero il 20%

della popolazione, ovvero 11.800.000 persone (redditi 2006).

Secondo ISTAT in Italia il numero di poveri relativi sarebbero il 13,6% del totale

ovvero 8.078.000 persone (consumi 2008).

Mentre il numero dei poveri assoluti, sempre secondo l’ISTAT, sarebbero il 4,9%

della popolazione, ovvero 2.893.000 persone (consumi 2008).

A questo si aggiunge il fatto che l’ISTAT solitamente insiste sul dato relativo alle

famiglie povere piuttosto che agli individui singoli. Secondo l’ISTAT le famiglie

considerate nella fascia di povertà relativa nel 2008 sarebbero circa l’11.3% del

totale (la condizione di povertà è più diffusa tra le famiglie numerose).

Nel 2007 la soglia di povertà per una famiglia di due componenti era fissata a

986,35 euro (equivalente al 60% del consumo medio) nel 2008 a 999,67 euro. In

altre parole una famiglia che consumava meno di quella cifra poteva essere definita

relativamente povera. La soglia di povertà essendo definita in relazione al consumo

nazionale medio cambia con il modificarsi di quest’ultimo.

Nell’ultimo decennio la povertà in Italia è stata fondamentalmente stabile con

un’oscillazione di pochi punti percentuali da un anno all’altro (max. 12,3% nel 2000,

min. 10.8% nel 2003).

Tuttavia la moderata riduzione di incidenza di povertà relativa è ritenuta un effetto

non di un miglioramento della condizione dei poveri ma di un generale abbassamento

delle condizioni complessive della popolazione.

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Un altro riferimento importante riguarda invece l’intensità della povertà.

Quest’ultima misura la distanza dalla soglia media di consumo. In Italia l’intensità

della povertà in media nazionale è del 20,5%. Questo significa che le famiglie

relativamente povere consumano circa il 20% in meno rispetto alla soglia di povertà

(equivalente al 60% del consumo medio). Anche l’intensità della povertà in Italia è

sostanzialmente stabile.

Tuttavia il dato più evidente riguarda la forte divaricazione nell’incidenza del

fenomeno tra il nord e il sud del paese e più specificamente da regione a regione.

L’incidenza del fenomeno nelle regioni meridionali è circa quattro volte quello del

resto del paese. Più in dettaglio si passa da un’incidenza di povertà di circa 3% un

Veneto a quasi il 30% in Sicilia.

Tutte le regioni del centro nord sono sotto il 10% (alcune come Toscana, Lombardia

e Veneto sotto il 5%), e quasi tutte quelle del sud sopra il 20% (Sicilia e Basilicata

oltre il 25%).

Per quanto riguarda il calcolo della povertà assoluta, recentemente l’ISTAT ha

aggiornato i propri criteri ricostruendo un paniere molto dettagliato e differenziando la

rilevazione delle famiglie in relazione al numero di componenti, all’età dei componenti,

alla grandezza del comune di residenza, alla collocazione territoriale nel paese.

Attualmente si contano addirittura 342 soglie di povertà assoluta. Questo ci

permette un dettaglio molto più accurato ma rende poi difficile la costruzione di

politiche generali di intervento.

Rispetto alle vecchie soglie c’è stato un forte cambiamento. La vecchia soglia era

inferiore al nuovo minimo solo per i single mentre era superiore per tutti gli altri casi.

In generale la vecchia metodologia sottostimava l’incidenza della povertà assoluta

nelle regioni del Nord e sovrastimava la povertà nel sud. Insomma con la nuova

metodologia è emerso più chiaramente anche un problema di povertà anche nel nord.

Come abbiamo visto la condizione di povertà assoluta in Italia riguarda il

4,1% della popolazione ovvero quasi due milioni e mezzo di persone nel 2007

e il 4,9% della popolazione, ovvero 2 milioni e 893 mila nel 2008.

Esiste inoltre ancora una sottovalutazione soprattutto delle condizioni dei single e

delle coppie. Basta pensare che per i single si prende come riferimento come

accettabile un’abitazione di 28 mq. e per una coppia di 38mq (42mq per 3 persone e

56mq per quattro). Ora in realtà esistono poche abitazioni di questa dimensione in

relazione alla popolazione.

In generale possiamo notare tuttavia altri elementi. In particolare con la crisi del

2008-2009 la situazione è peggiorata sotto molti punti di vista. In particolare è

aumentato notevolmente il numero dei “quasi poveri” cioè delle persone a rischio di

caduta nella povertà. Questo è dovuto soprattutto alla crescente divaricazione tra il

reddito percepito e il reale costo della vita.

Vediamo a questo proposito qualche dato di altro tipo:

-L’Enel ha comunicato che nella prima parte del 2009 gli abbassamenti di potenza e

i distacchi per morosità prolungata sono aumentati del 30% rispetto all’anno

precedente.

-Le famiglie in ritardo con il pagamento delle bollette del gas sono aumentate dle

15% rispetto al 2008.

-Gli sfratti per morosità dei pagamenti sono aumentati del 18% nel 2009.

-Nel 2008 si è registrato un aumento del numero di pignoramenti immobiliari di

oltre il 22,3% rispetto al 2007. Un’ulteriore aumento del 5% si è registrato nella prima

parte del 2009.

-l’80% delle famiglie paga le spese condominiali con ritardi da 3 a 6 mesi.

Proviamo ora a prendere in considerazioni le possibili cause di povertà.

-disoccupazione (8%, 2,138 milioni di persone nel 2009). È povero il 27,5% delle

famiglie con a capo una persona in cerca di lavoro). È molto legata al contesto

territoriale di residenza e alla formazione oltre che ovviamente alla predisposizione

individuale al lavoro.

-occupazione precaria quale contratti a termine, lavoratori a progetto, partite iva

obbligate ecc. (2,8 milioni di atipici nel 2008), che significa sia discontinuità, che

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43

scarso reddito, che maggiore difficoltà (o impossibilità) di accesso agli ammortizzatori

sociali.

-crescita dei componenti della famiglia a fronte di redditi stabili.

-diminuzione del reddito reale o della capacità di spesa.

-crescita delle spese, per esempio tassi dei mutui.

-incidenti o malattie invalidanti o richiedenti cure costose.

-invecchiamento e diminuzione dell’autosufficienza.

-cambiamento nella condizione di stato civile (separazione, divorzi, decessi di

parenti).

-mancanza di reti famigliari e sociali di appoggio (per esempio per aiutare

nella cura dei figli o per affrontare imprevisti). Tipico per esempio degli immigrati o

delle persone sole.

-scarsità o diminuzione di servizi o garanzie in base a condizioni regionali o a

riforme politiche o amministrative.

-eventi ambientali e degrado del territorio o delle condizioni di lavoro (per

esempio terremoti, alluvioni, maremoti, cambiamenti climatici).

Per contrastare le forme di povertà di fatto un governo ha possibilità di intervenire

con tre tipi di meccanismi:

-Attraverso il sistema di tassazione progressivo

-Attraverso dei trasferimenti sociali a favore dei poveri

-Attraverso l’erogazione dei servizi sociali (buoni spesa o buoni pasto,l contributi

per servizi alla persona, contributi per cure, rette per centri diurni, prestiti d’onore,

contributi per l’alloggio, integrazione al reddito famigliare, contributi per associazioni

ecc..).

Fino ad oggi, in particolare per quanto riguarda l’Italia, non c’è stata una chiara

volontà o una capacità di costruire un piano adeguato di lotta contro la povertà. Ci si è

appoggiati molto alla solidarietà spontanea ma poco si è inventato in termini di

solidarietà istituzionale.25

La Commissione Europea ha designato il 2010 l’”Anno europeo della lotta alla

povertà e all’esclusione sociale”, vedremo se questo produrrà qualcosa di concreto.

Per quanto riguarda le forme di assistenza queste sono principalmente di

competenza delle Regioni, mentre ai Comuni spetta l’attuazione di queste

politiche.

Da questo punto di vista però abbiamo delle contraddizioni le Regioni che spendono

di più in spese sociali sono quelle in cui l’incidenza della povertà è più bassa e

viceversa. La regione d’Italia che spende di più è il Trentino Alto Adige con un indice di

povertà basso. Tra coloro che spendono di più c’è il trentino, il Friuli Venezia Giulia, il

Lazio e la Sardegna. Tra coloro che investono di meno Abruzzo, Campania, Basilicata,

Umbria. Nelle regioni meridionali la spesa pro capite è quasi sempre al di sotto della

media nazionale con l’eccezione di Sardegna e Sicilia.

25

Oltre la normale spesa sociale gli interventi del Governo negli ultimi anni hanno riguardato sostegni al costo dei figli, bonus incapienti, aiuti ai pensionati, misure di sostegno alle spese per la casa (es. la Social Card).

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APPROFONDIMENTO:

LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE

Partiamo da alcuni dati sulla violenza contro le donne. L’indagine Multiscopo

dell’ISTAT “Sicurezza dei cittadini”, diffusa nel dicembre 2004, è stata effettuata

nel 2002 tramite contatti telefonici, selezionando un campione di 60 mila famiglie per

un totale di 22 mila 759 donne di età compresa tra i 14 e i 59 anni. Le informazioni si

riferiscono alle molestie e violenze sessuali subite dalle donne nel corso della vita e nei

tre anni precedenti l’intervista.

- Sono più di mezzo milione (520 mila), le donne dai 14 ai 59 anni che nel

corso della loro vita hanno subito almeno una violenza tentata o consumata;

si tratta del 2,9% del totale delle donne di 14-59 anni.

- Circa la metà (9 milioni 860 mila) delle donne in età 14-59 anni hanno

subito nell’arco della loro vita almeno una molestia a sfondo sessuale; si tratta

del 55,2% del totale delle donne di 14-59 anni.

- Sono 373 mila (il 3,1,%) le donne di 15-59 anni che nel corso della vita lavorativa

sono state sottoposte a ricatti sessuali sul posto di lavoro: in particolare l’1,8%

per essere assunte e l’1,8% per mantenere il posto di lavoro o avanzare di carriera.

- L'estensione del fenomeno più alto al Nord, 3,4%, e specialmente nelle grandi

aree metropolitane, 3,6%.

- Soltanto il 7,4% delle donne che ha subito una violenza tentata o

consumata ha denunciato il fatto (9,3% negli ultimi tre anni). La quota di violenza

che rimane sommersa è dunque altissima.

Quali sono le conseguenze della violenza subita? Quasi la metà delle donne

intervistate è divenuta più diffidente e fredda (48,9%), mentre c'è chi ha difficoltà ad

instaurare relazioni (8,6%) fino ad avere rapporti sessuali (6,8%). Insomma cambia la

vita per una donna violentata: l'11,7% dichiara di non essere più tranquilla quando

esce, il 7,7% di evitare strade isolate quando esce, il 2,7% di non uscire più di sera.

Gli uomini e lo specchio della violenza

Che significa interrogarsi come uomini sulla violenza maschile? Come riconosceva

tempo fa Carmine Ventimiglia significa riconoscere innanzitutto che «l’universo non

è indifferenziato» e che la differenza sessuale è una variabile centrale e non

accidentale nei fenomeni sociali in generale e tanto più nello specifico della violenza.

In secondo luogo significa riconoscere – come uomini e come studiosi - la propria

parzialità e dunque la necessità di un rapporto complesso e non immediato con i due

generi: con il genere della vittima e con il genere del persecutore.

Qualunque maschio che riflette o lavora su queste tematiche sa che non è agevole

rileggersi come uomini in rapporto alla violenza. Tanto più se si ritiene di non aver

commesso simili violenze. Da una parte, viene immediato stabilire delle distanze,

distinguersi in qualche modo dagli “uomini violenti”, ma si comprende presto come

questa reazione rischia di essere un modo di liberarsi dalla propria possibile violenza

per proiettarla all’esterno, sugli altri, su maschi “diversi”. Tutte le ricerche ci dicono

invece che non esiste una categoria “speciale” di maschi violenti. Le violenze contro le

donne provengono da uomini di tutte le categorie sociali e professionali, senza

distinzioni di sorta. In altre parole la violenza non è circoscrivibile ad una

specifica tipologia di maschi. Insomma, come ha notato Ventimiglia,

«il problema della violenza contro le donne non è delegabile, né in quanto a

ricostruzione né in quanto a strategie preventive, alla semplice politica criminale ma

deve essere assunto come problema centrale del genere maschile e delle sue modalità

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di porsi, di rappresentarsi e di legittimarsi nel rapporto con l’altro genere. È, insomma,

nello scenario del pensare e dell’essere “normale” del genere maschile che si ritrovano

le condizioni potenziali che possono produrre esiti relazionali violenti» (Ventimiglia,

2006, p. 165).

D’altra parte, non è possibile nemmeno “naturalizzare” la violenza maschile,

ovvero attribuirla ad un qualche carattere originario – biologico, etologico o psicologico

- degli uomini in quanto tale, determinando in qualche modo una connessione univoca

tra maschilità e violenza. È altrettanto chiaro infatti che non tutti gli uomini sono

violenti e che la violenza fisica – pur riguardando percentualmente più

maschi che femmine - non è appannaggio unicamente degli uomini.

Interrogarsi come uomini significa dunque scegliere di interrogarsi sui legami non

ovvi, non lineari, non deterministici che avvicinano socialmente e culturalmente gli

uomini alla violenza. Allo stesso tempo significa scegliere di osservare e interrogare i

ruoli e le specifiche posizioni assunte dagli uomini nelle dinamiche relazionali tra i

sessi.

Una questione maschile?

La violenza maschile sulle donne è un fenomeno antico e di ampie

dimensioni. Un fenomeno talmente radicato da permeare gran parte delle nostre

istituzioni e delle nostre produzioni sociali, culturali economiche e politiche. Proprio per

questo è una realtà che non riusciamo a comprendere e ad afferrare fino in fondo, in

tutta la sua portata e il suo significato. È troppo aderente al paesaggio consueto delle

società in cui viviamo.

Certo anche le donne possono commettere violenza: sugli uomini, su altre donne

più spesso sui figli. Ma questi episodi sono infinitamente meno frequenti dell’inverso,

ed in genere non hanno gli stessi esiti letali. Il motivo di questa differenza va

principalmente ricercato nel fatto che per lungo tempo e in parte ancora oggi la

violenza degli uomini sulle donne è stata socialmente accettata e ritenuta normale

mentre il contrario no. Ci sono dunque radici culturali profonde che hanno strutturato,

potremmo dire culturalmente “ordinato” questa violenza.

Allora il lavoro che possiamo fare è quello di comprendere da quali forme di

apprendimento, da quali dinamiche psicologiche, da quali contesti relazionali può

emergere una modalità violenta da parte maschile.

La violenza maschile contro le donne non è un fatto isolato. Come è stato

sostenuto26 il dominio e la violenza maschile si fondano su un dominio e una

gerarchia tra uomini, ovvero su una gerarchizzazione tra i dominanti e in

conclusione su una forma di dominio, di violenza, su se stessi.

Dunque la violenza sulle donne per un verso implica a monte un dominio tra

uomini, ovvero una gerarchia di potere a cui gli uomini sono chiamati a sottomettersi:

una gerarchia di potere e di minacce e un regime di competizione tra maschi.

In generale i rapporti tra maschilità e violenza sono complessi e articolati. Volendo

darne conto in maniera sintetica si potrebbe sottolineare che la violenza è una

modalità che gli uomini usano:

come abitudine, perché è qualcosa a cui sono stati socializzati, che è stato appreso ed

è diventato parte della loro modalità di reazione e comportamento;

come espressione identitaria, in quanto modalità espressiva culturale della propria

maschilità o virilità;

come strumento di controllo e dominio sugli altri ed in particolare sulle persone

importanti.

26

Per esempio da Maurice Godelier in La production des Grands Hommes, Fayard, Paris, 1982.

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Poi ovviamente ci sono anche altre motivazioni – il sadismo, il risentimento, per

esempio – ma lasciamo questi aspetti particolari da parte.

Come abitudine

Parliamo di abitudine, nel senso di un comportamento appreso in processi di

“socializzazione primaria” o “secondaria”27 per sottolineare che la violenza degli uomini

spesso è qualcosa di visto, sentito, annusato o sperimentato dagli uomini fin da

piccoli.

Per esempio nel Rapporto “Rapporto sulla criminalità in Italia” (2006) del Ministero

dell’Interno nel capitolo V – “Le violenze contro le donne”, si nota che

«La violenza subita e di cui si è stati testimoni da piccoli aumenterebbe il rischio

che il comportamento venga riprodotto da adulti come persecutore o come vittima se

non addirittura entrambi, a seconda del contesto» (p. 138).

Si aggiunge inoltre:

«Considerando, invece, l’autore della violenza, la quota di partner attuali violenti

con la propria partner è pari al 30% fra coloro che hanno assistito a violenze familiari,

al 34,8% fra coloro che l’hanno subita dal padre, al 42% tra chi l’ha subita dalla madre

e al 6% circa tra coloro che non hanno subito o assistito a violenze nella famiglia

d’origine» (p. 138).

Dunque nel 94% dei casi gli autori hanno assistito o direttamente subito violenze

nella famiglia di origine.

In alcuni casi la violenza è l’unica modalità di comportamento appresa e

riproducibile automaticamente in certe circostanze a meno che non intervengano

risorse, strumenti differenti.

Come espressione identitaria

Il fatto concreto della violenza maschile sulle donne è infatti espressione di un

immaginario culturale specifico - quello patriarcale - che in misura minore o maggiore

ci riguarda tutti. Naturalmente anche nella nostra tradizione esistono subculture o

ambienti familiari o soggetti più sani ed equilibrati, ma in termini generali si deve

riconoscere che l’immagine del dominio maschile sul corpo femminile impregna a più

livelli la nostra cultura e la nostra società. In questi termini i fantasmi di queste

violenze fisiche o sessuali ci riguardano tutti e condizionano comunque le nostre

relazioni con le donne. Molti uomini in un momento o in un altro, sono stati

attraversati da questo fantasma, molti hanno sentito che la possibilità della violenza

era iscritta nel nostro immaginario, nella nostra cultura, nella nostra storia.

A me pare che la questione fondamentale sia riconoscere che la violenza nelle sue

diverse forme è un tratto ricorrente e per molti aspetti fondante delle esperienze di

identificazione e socializzazione maschile. La violenza cioè è un elemento

importante nella costruzione dell’identità maschile e mantiene un ruolo

importante nelle forme di apprendimento e di costruzione di legami sociali.

27

La socializzazione primaria, avviene nello stadio infantile, attraverso le relazioni con figure fondamentali dal punto di vista affettivo: la madre, il padre o affini. In questa fase si apprende a vedere la realtà attraverso gli occhi di queste figure più prossime. In altre parole si interiorizza la visione delle cose che ci viene trasmessa dai genitori e in qualche modo la si oggettivizza. I ruoli, le idee, le rappresentazioni, le convinzioni dei genitori divengono anche i propri. Questa percezione della realtà diventa qualcosa di assoluto, di rigido, di indiscutibile. La socializzazione secondaria invece interviene in una fase successiva della vita della persona. Ha a che fare con l’ingresso in altri contesti sociali non primari, ovvero non connotati in maniera così forte dal punto di vista affettivo. Pensiamo alla scuola, al gruppo di amici, alla parrocchia, al partito, al mondo del lavoro. Confrontandosi con questi nuovi contesti via via si impara che il mondo appreso e interiorizzato dai genitori non è l’unico esistente, è solo una percezione della realtà tra le tante possibili.

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Fin da piccoli gli uomini imparano che la propria identità sessuale non è scontata,

non è certa. È invece qualcosa di dubbio, di precario, di instabile. La propria identità

deve essere costruita, affermata, testimoniata continuamente.

La possibilità di conformarsi ad un certo ordine maschile o di sottrarsi ad esso

comincia molto presto. Fin da piccolo al giovane maschio sono richieste prove di forza,

di coraggio, di affermazione di sé nel confronto con altri. Fin dalle scuole medie

inferiori i ragazzi danno luogo a delle piccole bande e vanno ad esibire in giro la

propria presunta virilità. Vanno a cercare lo scontro con altri ragazzi per mostrare

forza e coraggio. Anche quando non accade nulla ad ogni modo lo scontro è

continuamente evocato e simbolizzato nel linguaggio, nel comportamento, persino nel

modo di vestire.

Tutto questo ci dice appunto che l’identità maschile è qualcosa di molto incerto, e

che molti comportamenti maschili avvengono non per spinte semplicemente individuali

ma anche nella cornice dello sguardo e della relazione sociale anzitutto con altri

maschi.

In molte culture e in molte subculture esistono e vengono ricreati dei rituali per

simbolizzare il passaggio del giovane nel mondo degli adulti, il diventare uomo. Molti

di questi rituali sono connessi ad esperienze di violenza e di dolore. Ad esempio alcuni

rituali di guerra avrebbero svolto e ancora svolgerebbero la funzione di far rinascere il

giovane guerriero nel mondo maschile, in contrapposizione alla nascita biologica

avvenuta dal corpo femminile. Anche il simbolismo della prova del sangue - che molte

culture tradizionali per esempio richiedevano ai giovani maschi come condizione per

potersi sposare - funzionerebbe quindi come rito di passaggio al mondo degli uomini

adulti. In altri contesti – per esempio nelle organizzazioni mafiose, in quelle criminali

talvolta in alcune gang di strada - gli atti di violenza rappresentano dei testi da

affrontare e superare per essere ammessi nella comunità maschile.

È come se i giovani uomini dovessero dunque procurare e procurarsi artificialmente

le ferite e dunque le rotture simboliche che segnerebbero la discontinuità evolutiva

nello sviluppo del sé maschile.

Anche nelle società contemporanee e in contesti molto comuni vengono

continuamente inventati e ridefiniti riti e rituali di maschilità. Le stesse modalità

continuano nei gruppi di adolescenti, nei quartieri, nelle manifestazioni sportive, nel

tifo negli stadi.

Sia in alcune manifestazioni di tifo, sia in alcune manifestazioni politiche, voi potete

trovare gruppi di giovani maschi provocatori che ricercano esplicitamente lo scontro

con la polizia e con le forze dell’ordine. Il motivo molto spesso non va ricercato in un

obiettivo politico o in un episodio concreto, ma nel fatto che questo scontro

rappresenta un terreno di manifestazione della propria maschilità.

Come dicono due psicologi francesi Miguel Benasayag e Gérard Schmit, a

proposito delle problematiche dei quartieri difficili in Francia,

«ci troviamo spesso ad affrontare delle situazioni tragiche (e comiche allo stesso

tempo), dovute alla mancanza di un contesto familiare strutturante, che porta

l’adolescente a tentare, come diciamo in gergo, di “farsi il suo Edipo con la polizia”: il

giovane che deve esplorare la sua potenza, sperimentare i limiti della società, che

deve insomma affrontare tutte le funzioni tipiche dei riti di passaggio dell’adolescenza

occidentale, non trovando un quadro famigliare sufficientemente stabile, sposta la

scena nella città, nel quartiere» (Benasayag, Schmit, 2005, pp. 36-37).

In questi casi il carattere espressivo e identitario della violenza prevale su qualsiasi

obiettivo o motivazione esterna o dichiarata. Ci si mostra aggressivi e violenti per

mostrarsi “maschi”, per sentirsi forti, coraggiosi, indifferenti alla paura e al dolore.

Questo aspetto teatrale della violenza, la sua rappresentazione è rivolta sia al mondo

maschile per stabilire dei meriti, degli onori, delle gerarchie, sia al mondo femminile

poiché si ritiene che la forza e l’audacia siano caratteristiche vincenti.28

28

Per questo stesso motivo alcune donne apprezzano un certo tipo di immagine maschile ma poi incappano nelle conseguenze di questo genere di mentalità una volta che questa idea di virilità viene rivolta da questi uomini contro loro

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Anche la violenza maschile sulle donne presenta caratteristiche di questo tipo.

Certamente quando viene esercitata in gruppo, ma spesso anche nei contesti

famigliari. Per non parlare di contesti particolari dal punto di vista simbolico. Non so se

ricordate per esempio la dichiarazione nell’ottobre del 2006 del presidente

Russo Vladimr Putin nel corso di un incontro con il premier israeliano Ehud

Olmert al Cremlino. Pensando che i microfoni dei giornalisti fossero spenti fa una

battuta con Olmert a proposito del presidente israeliano Katsav sotto accusa per

diversi episodi di violenza sessuale. Putin avrebbe detto “Katsav si è rivelato un uomo

forte, ha struprato ben dieci donne! Non me lo sarei mai aspettato da lui. Ci ha

sorpreso tutti, lo invidiamo”.29

Pensate il presidente della Russia, che ragiona in questi termini. La violenza

maschile diventa un vanto, un prestigio perfino per i più potenti.

La violenza sessuale dunque lega un piacere sessuale ad un piacere dettato dal

senso di potenza e di superiorità del maschio e contemporaneamente ad una

sottomissione e degradazione imposta alla donna.

Come strumento di controllo e di potere

In molti casi inoltre la violenza serve per imporre un certo ordine alla donna e nella

relazione. La violenza serve per “farla cedere…” per “insegnarle come deve

comportarsi…”. Serve per mantenere un certo equilibrio e non mettere in discussione

l’uomo. In altre parole come strumento di potere nella relazione.

Quello che si può notare a questo proposito è che la violenza sulle donne ordina

le relazioni non solo nel privato ma anche nello spazio pubblico, trasforma non

solo le relazioni interpersonali ma quelle sociali. La violenza infatti non colpisce solo le

vittime reali ma anche tutte quelle potenziali. Attraverso la paura, il terrore, il trauma

contribuisce a modificare le possibilità e le forme delle relazioni tra uomini e donne per

tutta la società.

La violenza sessuale secondo alcune studiose – come per esempio Susan

Brownmiller – fa parte di un sistema di intimidazione maschile che tiene tutte le

donne in uno stato di paura.

Non è difficile fare degli esempi per capire di cosa sto parlando. La possibilità della

violenza infatti impedisce o condiziona molte possibilità o esperienze delle donne:

- uscire da sole di notte

- accettare un passaggio in macchina

- andare a casa di amici

- consentire un intimità corporea

Tutto questo viene vissuto come esperienze pericolose. Tale pericolosità del

comportamento maschile è talmente “naturalizzata” che si arriva al

paradosso che se una donna viene violentata di notte per strada il giudizio

sociale colpisce anche lei: “Una donna che esce di notte da sola se le va a cercare”

Questa condizione e questa mentalità dunque modificano le condizioni di tutti.

Poi dobbiamo chiederci quante fra le persone che abbiamo attorno a noi hanno

vissuto di queste esperienze. Difficilmente le donne ne parlano. Ma difficilmente noi

uomini ci mostriamo attenti a questa possibilità. Non ci pensiamo assolutamente. A

me è capitato che man mano che cominciavo a occuparmi di queste cose a parlare di

questi problemi molte persone a me vicine, donne e uomini mi hanno parlato di

esperienze di questo tipo. Ho iniziato a guardare il mondo attorno a me con altri occhi.

A saper osservare difficoltà, paure, blocchi. Senza andare tanto lontano, nelle mie

amicizie, nelle mie relazioni, tra i miei conoscenti.

L’ordinarietà della violenza maschile

stesse. In qualche modo bisogna comprendere queste associazioni e diminuire il prestigio sociale che questo immaginario virile ha in generale non solo quando si fa esplicitamente violento. 29

Si veda La repubblica del 20 ottobre 2006, «Gaffe di Putin: “Che uomo forte Katsav ha stuprato 10 donne, lo invidiamo”.

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Prima di approfondire questo aspetto è bene tener presente alcuni dati di fondo che

riguardano la violenza maschile sulle donne.

L’indagine multiscopo dell’Istat “Sicurezza dei cittadini” del 2002, per

esempio sottolinea che il 43,8% delle donne che ha subito uno stupro o un tentativo di

stupro, lo ha subito in luoghi familiari e, negli ultimi tre anni, il 25,8% delle violenze

subite si è verificato a casa della vittima o di amici e parenti, l'11,8% in automobile, il

9,9% a lavoro o negli spazi attinenti. Il 28,8%, invece, è avvenuto in strada, il 4,3%

in un parco pubblico, o in un giardino o al mare e il 5,9% in un locale pubblico.

Inoltre l’indagine Istat del 2006 “La violenza e i maltrattamenti contro le

donne dentro e fuori la famiglia” ha messo in luce che i partner sono autori di:

- violenze fisiche nel 62,4% dei casi.

- violenze sessuali senza contare le molestie nel 68,3% dei casi.

- stupri nel 69,7% dei casi.

In concreto 2 milioni 938 mila donne hanno subito violenza fisica o sessuale dal

partner attuale o dall’ex partner.

A questo si aggiunge il fatto che solo il 18,2% delle donne che hanno subito

violenza fisica o sessuale in famiglia considera la violenza subita un reato. Il 44% la

considera qualcosa di sbagliato, il 36% solo qualcosa che è accaduto. Solo il 7,2%

della violenza in famiglia è stata denunciata.

La questione dell’ordinarietà della violenza non interroga solamente gli uomini, o

la posizione maschile, ma va al cuore stesso delle relazioni affettive, della loro natura

e delle loro caratteristiche. La violenza è talmente intrecciata alle nostre relazioni che

è difficile riconoscerla. È questo che ci è difficile riconoscere, il fatto che dobbiamo

prima di tutto interrogare la normalità: interrogare la famiglia, i nostri rapporti

affettivi, ciò che chiamiamo amore; ciò che ci sembra luminoso e trasparente e che

invece è oscuro e ambivalente.

Questo rapporto con la quotidianità delle relazioni ci permette di comprendere al

tempo stesso quanto facilmente la violenza possa nascere da un retaggio condiviso e

quanto, per lo stesso motivo, molto spesso si faccia fatica a riconoscerne e a criticarne

le premesse. Se l’atto violento può essere in sé condannato dall’opinione

comune, non altrettanto si può dire delle premesse culturali e psicologiche

che lo precedono e lo rendono possibile. Su quelle non è difficile accorgersi che vi

è un’ampia condivisione: il senso di possesso, la gelosia, l’incapacità di accettare il

conflitto, il rifiuto delle comunicazioni negative, il bisogno di controllo della relazione,

la mancanza di libertà e di autonomia, la riduzione della partner a sostegno e

appendice dei nostri bisogni ecc… La difficoltà sta dunque nell’interrogare non tanto

l’atto violento in sé, ma le premesse che sono stabilmente insediate nella “normalità”

della coppia, della famiglia ovvero nella cultura diffusa delle relazioni e degli affetti.

Per comprendere quello che sta succedendo dobbiamo avere presente la storia e le

strutture storiche in cui si inseriscono le relazioni tra i sessi in occidente, ma anche i

cambiamenti che queste stanno attraversando. La violenza maschile è una forma di

regolazione delle relazioni affettive, un modo per stabilire un controllo – o l’illusione di

un controllo – su una relazione importante per il proprio equilibrio. L’atto di violenza

dunque non è casuale, ma si ripresenta ogni volta che viene soggettivamente

percepita l’autonomia della partner (e inconsciamente la propria fragilità e

dipendenza). Come rilevava Carmine Ventimiglia già una dozzina d’anni fa,

«il comportamento violento si attiva sempre a fronte di una minaccia che l’uomo vive

rispetto all’esercizio del proprio dominio relazionale, anche come conseguenza dei

segnali o delle rivendicazioni di autonomia esplicitamente prodotte dalla donna, e

rispetto alla smentita di una autostima in precedenza garantita solo dalla dipendenza e

dalla sottomissione femminile» (Ventimiglia, 1996, p. 110).

Se c’è dunque un rapporto tra la violenza e la questione della libertà

femminile, questo diventa un tema su cui come uomini dobbiamo soffermarci a

riflettere. Che cosa ha significato per noi uomini l’avvento della libertà femminile?

L’avvento del libero desiderio delle donne?

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50

Io credo abbia significato anzitutto la necessità di confrontarsi per la prima volta

con un desiderio femminile autonomo che in passato restava invece sullo sfondo.

Ritengo che il cambiamento avvenuto possa essere spiegato nei termini di un

passaggio da una struttura relazionale costruita su un unico desiderio (o quantomeno

su un desiderio dominante), quello maschile, ad una struttura relazionale rispondente

al confronto tra due desideri più o meno liberi.

Ora una parte degli uomini ha accolto questo passaggio, l’avvenire della libertà

femminile e la crisi dell’ordine patriarcale, come un’occasione di libertà anche per sé.

La libertà femminile ha aperto anche per gli uomini una possibilità diversa di stare in

relazione con gli altri e con sé, al di fuori dei vincoli di ruoli e identità prestabilite e in

fin dei conti avvilenti.

Altri uomini stanno invece vivendo questo passaggio con un senso di paura, se non

di minaccia. Comprendono che è cambiato qualcosa. Vedono le donne più libere e

autonome nelle relazioni, nei sentimenti, nella sessualità, nel lavoro, nella politica.

Capiscono che esse non sono più lì a supporto dei loro bisogni e delle loro necessità,

ma che sono soggetti autonomi che mettono avanti anche le proprie attese e le

proprie aspirazioni e che richiedono a loro volta un tipo di presenza nuovo nelle

relazioni. E ritengono che tutto questo rappresenti un ostacolo al proprio benessere e

alla propria tranquillità.

Infine ci sono molti uomini che non ostili a questo cambiamento, ma che si sentono

comunque spaesati. Semplicemente non hanno strumenti per leggere o interpretare

questo mutamento o per condividere un percorso di cambiamento, magari assieme ad

altri uomini.

Molto dipenderà da come si racconterà questa condizione e questo cambiamento.

Quello che voglio dire è che raccontare questo confronto o conflitto tra uomini e donne

come un gioco a somma zero, in cui il guadagno delle donne sia uno svantaggio per gli

uomini, o come una battaglia in cui ciò che hanno perso gli uomini sia stato sottratto

dalle donne, è non solo sbagliato ma gravemente controproducente.

Il punto dunque è questo: per noi uomini oggi si tratta per un verso di riflettere

sulla capacità di confrontarsi con il desiderio e l’autonomia delle donne e la paura che

questo può evocare in termini psicologici e, in secondo luogo, di pensare alle relazioni

come un terreno di maturazione umana e personale.

L’ordine della fiducia e l’ordine del potere

Molti uomini oggi sono in difficoltà di fronte all'autonomia e alla libertà femminile

non per ragioni di principio, ma perché un desiderio autonomo di una donna fa paura.

Da un certo punto di vista si può dire che oggi si manifesta esplicitamente e

apertamente quello che è sempre stato il problema di fondo della storia fra i sessi,

ovvero una paura “storica” del desiderio femminile da parte degli uomini. La paura di

un desiderio che fuoriesce da regole e cornici. La paura di un desiderio che mette in

discussione la retorica dell’indipendenza e dell’autocontrollo. Di un desiderio che ci

porta fuori e che travolge l’illusione di dominarci razionalmente e di amministrare le

nostre vite. Più avvertiamo l’importanza di quella figura, più temiamo di scoprirci

dipendenti e più cerchiamo di controllare il nostro e l’altrui desiderio.

Tutto sommato credo che nella costruzione di relazioni si possano seguire due

direzioni: una punta sulla fiducia, l’altra sul potere. Nella prima si cerca di raggiungere

una forma di riconoscimento reciproco nella differenza, nella seconda si cerca di

ottenere un determinato ordine ed una certa stabilità attraverso il controllo e il

dominio. In quest’ultimo caso la violenza diventa un modo per cercare di controllare e

vincolare a sé le persone da cui si dipende affettivamente e psicologicamente. Poiché

quella persona è importante, si cerca di mantenerla docile e legata, si prova a

rinchiuderla in uno stato di terrore e di remissività.

Se questo è vero, ne emerge una condizione di fragilità e debolezza più profonda

ancora negli uomini che nelle donne. La violenza copre un’insicurezza e una mancanza

di presenza anzitutto a se stessi.

Se si vuole, si può osservare in filigrana una doppia paura:

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- la paura della propria insignificanza, ovvero il senso di precarietà del proprio ruolo

affettivo; dunque un sentimento di impotenza, di inutilità, se non di disprezzo di sé.

- la paura di una relazione libera, come se la propria presenza e il proprio contributo

non possano essere valorizzati e nutriti da una relazione fondata su un desiderio e una

scelta reciproca.

Le due paure si intrecciano in modo tale che una riconduce continuamente all’altra.

Si rispecchiano, si nutrono e si confermano, rafforzandosi.

D’altra parte non dobbiamo perdere di vista che queste violenze nascono dentro a

specifici pattern relazionali. Le situazioni di violenza sono difficili da risolvere o da

curare proprio perché nascono in contesti relazionali, e come tutte le relazioni

presentano dei vincoli bilaterali.

La violenza si fonda su relazioni di potere che spesso incatenano in ruoli diversi ed

opposti entrambi i soggetti. Come scrisse lo psicologo Arno Gruen,

«coloro che dominano e coloro che si fanno dominare, oppressori ed oppressi, sono

intrappolati in uno scambio di potere» (Gruen, 1992, p. 29).

È chiaro allora che per liberarci dalla violenza, o quantomeno per diminuirla, occorre

lavorare sia con uomini che con donne, sia con i persecutori che con le vittime.

Da questo punto di vista va sottolineato che in realtà soffriamo tutti di un certo

analfabetismo relazionale. Non c’è un’attenzione verso l’educazione alle relazioni. Anzi

in pochi ritengono che la conoscenza delle nostre dinamiche relazionali e affettive sia

un apprendimento importante, forse il più importante, e che occorre dare a questo

fatto lo spazio sociale che gli spetta.

Eppure le radici di questa violenza sono legate proprio all’analfabetismo relazionale

e alla mancanza di autonomia nelle relazioni affettive. Più precisamente c’è un nodo

autonomia-dipendenza nelle nostre relazioni su cui culturalmente non abbiamo

ragionato e lavorato in profondità. L’autonomia per come propongo di intenderla, non

è il contrario di dipendenza né un sinonimo di indipendenza. A mio avviso qualsiasi

relazione sana è un intreccio di dipendenza e autonomia. Si tratta di rispettare ed

equilibrare entrambe. C’è infatti una condizione di chiusura difensiva o di paura

dell’altro da sé che è fondamentalmente sfavorevole alle relazioni affettive e d’altra

parte uno stato di simbiosi patologica che è sfavorevole sia al riconoscimento della

propria dipendenza sia allo sviluppo dell’autonomia.

Arno Gruen definisce l’esperienza dell’autonomia come «capacità di vivere

liberamente le proprie percezioni, i propri sentimenti e i propri bisogni» (Gruen, 1992,

p. 13). Sarebbe questo accesso, questo contatto vivente con le proprie percezioni e

sentimenti che permetterebbe attraverso le proprie esperienze la nascita di un senso

del sé autonomo. «L’autonomia comporta un sé che abbia accesso ai propri sentimenti

e ai propri bisogni» (Gruen, 1992, p. 16)

Viceversa la maggior parte degli uomini vive una specie di distacco e di separazione

dalle proprie emozioni e sentimenti e dalle proprie sensazioni fisiche. Fin da

piccoli gli uomini sono educati a disconoscere le proprie fragilità, la propria sofferenza,

la propria vulnerabilità. Finché si era all’interno di un sistema simbolico patriarcale, il

sistema sociale e culturale permetteva all’uomo di rimuovere questi vissuti. Le

sicurezze, i supporti, i riconoscimenti erano tali da sottrarre all’uomo la necessità di

fare realmente i conti con queste esperienze. Oggi invece per la prima volta gli uomini

iniziano a fare un’esperienza conflittuale con se stessi e con l’altro sesso.

«Qual è la natura della realtà da cui l’uomo fugge? – si domanda Arno Gruen - Un

mondo pieno di emozioni, permeato dell’esperienza dell’inadeguatezza, dell’impotenza,

del dolore, della disperazione e della paura del fallimento; un mondo in cui i

sentimenti di impotenza e rabbia sono presenti, ma devono costantemente essere

tradotti in un senso di invulnerabilità e inattaccabilità» (Gruen, 1992, p. 65).

La ricerca maschile del potere non è altro che un modo per fuggire da queste

esperienze di dipendenza, di sofferenza e soprattutto di impotenza. Più si vivrà

l’angoscia dell’impotenza e più si costruiranno relazioni di potere.

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Ora possiamo notare che se siamo sordi e anestetizzati rispetto al nostro corpo, al

nostro dolore, alle nostre emozioni, tantomeno riusciremo a immedesimarci e a sentire

il vissuto altrui. Questa impossibilità di un movimento empatico è uno degli elementi

che rende possibile la violenza maschile verso le donne.

Una doppia dipendenza

Se proviamo ad osservare la problematica in termini di dinamiche relazionali

vediamo che spesso è all’opera uno schema complementare, tale per cui l’analisi del

ruolo e delle modalità maschili, pur fondamentale, coglie solo un aspetto del problema.

Da una parte possiamo evidenziare che alcuni uomini si sentono al sicuro nella

misura in cui la partner si cura costantemente e silenziosamente di soddisfare i loro

bisogni, nella misura in cui le proprie fragilità sono coperte e riempite dalla presenza

dell’altra. In questo senso una semplice mancanza da parte della partner è percepita

come grave non solo per l’insoddisfazione in sé ma anche perché svela la condizione

sottostante di bisogno e totale dipendenza del maschio.

Da un'altra parte si può notare che alcune donne si sentono sicure quando vedono

che il proprio partner non ce la fa da solo e ha bisogno di loro per andare avanti. È

come se pensassero “più ha bisogno di me e più posso tenerlo legato a me e

condizionarlo” oppure “più ha bisogno di me e più sono al sicuro”.

Nei fatti agisce uno schema dinamico di tipo complementare che rafforza i

convincimenti e i comportamenti di ciascuno e finisce con rendere il legame ancora più

stretto e vincolante anche in presenza di un malessere e di un pericolo. Quello che

occorre capire è che una simile condizione di dipendenza reciproca, simbiotica e

patologica si crea sia tramite un comportamento basato su modalità di violenza e di

dominio (in genere da parte maschile), sia tramite comportamenti basati su premura,

gentilezza e sollecitudine (in genere da parte femminile). La sollecitudine e la

condiscendenza possono essere interpretate dall’uomo come una forma di

sottomissione e di conferma del proprio controllo sulla relazione, mentre l’instabilità e

la incalzante violenza può essere interpretata dalla donna come il risultato di un

bisogno insoddisfatto e quindi di una propria mancanza o inadeguatezza.

In questo senso, dunque, la convinzione protratta per anni di poter cambiare il

proprio partner violento, di soddisfarlo e di redimerlo, è anch’essa basata

contemporaneamente su una negazione dei propri bisogni individuali (di

riconoscimento, di valorizzazione, di serenità e di rispetto) e sul disconoscimento

dell’alterità che si ha di fronte, che viene disconosciuta nella sua manifestazione

concreta in ragione di una proiezione delle proprie fantasie. Da un certo punto di vista

entrambi i comportamenti – quello violento e quello premuroso – rappresentano una

fuga dal conflitto.

Dunque c’è un doppio disconoscimento dell’alterità nella forma della

violenza manipolatoria e della sollecitudine manipolatoria. In realtà non

possiamo cambiare e modellare l’altro attraverso la nostra volontà, sia che utilizziamo

la violenza, sia che utilizziamo la premura. Questo non vuol dire che le relazioni non ci

cambino o che lo scambio e la condivisione non generino anche forme di adattamento

reciproco, ma piuttosto che una relazione sana comincia con il riconoscimento della

discontinuità tra sé e l’altro, ovvero col riconoscimento di una pluralità di bisogni,

emozioni, desideri che non vanno negati o sottaciuti.

Quello che voglio sottolineare è che spesso uomini e donne sono vincolati in

meccanismi che si rafforzano mutualmente.30 Anche l’uomo violento agisce con dei

30

Si tratta di quei processi di «differenziazione nelle norme del comportamento individuali risultante da interazione cumulative tra individui» che Gregory Bateson chiamava “schismogenesi”. Bateson parlava di “schismogenesi simmetrica” quando un comportamento da parte di un individuo viene assunto da un altro come uno stimolo a rispondere con un comportamento eguale e simmetrico. Viceversa Bateson parlava di “schismogenesi complementare” quando un comportamento di un certo tipo – per esempio autoritario – veniva assunto da un altro individuo come stimolo per un comportamento opposto e complementare – per esempio di sottomissione – che a sua volta richiamava un movimento successivo opposto in una progressione continua. Per un approfondimento si veda Bateson, 1988, p 166 e ss.

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vincoli, ovvero si muove in uno schema chiuso di possibilità da cui lui stesso non riesce

a uscire. A questo proposito val la pena riflettere su quanto suggeriva Simone Weil in

un suo celebre testo:

«Tale la natura della forza. Il potere ch’essa possiede, di trasformare gli uomini in

cose, è duplice e si esercita da ambo le parti; essa pietrifica diversamente, ma

ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano» (Weil, 1984,

p. 31).

Diversamente ma ugualmente, nota Simone Weil. Gli uomini che con la violenza

riducono al silenzio la propria partner, rinchiudono nel silenzio anche se stessi. Non

solo non sono più capaci di empatia, di uscire da sé e approssimarsi all’altra, ma

divengono anche incapaci di uscire dai propri schemi di comportamento per essere

assorbiti nella coazione cieca della violenza. Incapaci di mettersi in discussione non

possono più aprirsi al cambiamento di sé, della relazione e della propria vita. Si può

anche osservare che gli uomini che ricorrono alla violenza difettano di una visione

dinamica della propria condizione e non riescono a concepire l’idea di un cambiamento

più ampio attraverso altre modalità di comportamento e di relazione. Nei fatti

rimanendo dentro a un meccanismo rigido perdono la possibilità gestire la propria

esistenza con libertà e creatività.

Dunque personalmente ritengo che come uomini dobbiamo lavorare

contemporaneamente sul piano del rapporto con noi stessi e sul piano delle relazioni

tra i sessi. Sul primo aspetto il lavoro che possono fare gli uomini è quello di arrivare a

disconoscere le forme di potere e di controllo maschili. Ma la questione ovviamente è a

quali condizioni questo è possibile? Con quale forza interiore e sociale possiamo come

uomini deciderci ogni giorno a questa rinuncia?

Liberarsi via via dell’ossessione del potere e del controllo è possibile infatti solo se

contemporaneamente si intraprende un percorso di ritrovamento di un senso di sé

differente che permetta ad ogni uomo di uscire da un’immagine monolitica e

degradante di se stesso. Il rispetto di sé e il rispetto dell’altro - soprattutto in presenza

del negativo, nell’esperienza del dolore, del rifiuto, dell’abbandono - non possono

infatti che procedere insieme. Poiché come ricordava ancora Simone Weil:

«quando si è dovuta distruggere ogni aspirazione di vita in se stessi, per rispettare in

altri la vita è necessario uno sforzo di generosità da spezzare il cuore» (Weil, 1984, p.

31).

Soltanto chi ha sviluppato un minimo di autonomia può accettare lo sviluppo

autonomo delle capacità della partner senza farsi prendere dalla paura e dall’angoscia

di essere abbandonato o di essere inadeguato. Dunque si tratta di lavorare sulla

costruzione positiva di un senso di sé differente che faccia uscire il maschile da

un’immagine in realtà abbastanza miserabile di sé stesso. Anche per questo le forme

ideologiche di stereotipizzazione e svalorizzazione del maschile – assunte in termini

acritici da alcune donne - non solo non hanno senso ma si pongono come ostacolo alla

concreta possibilità di un cambiamento nelle relazioni tra i sessi. Gli uomini devono

trovare in se stessi e nelle proprie relazioni con altri uomini e con le donne la fiducia

nella possibilità di vivere la propria maschilità in modo ricco e più aperto, al di fuori dei

codici del potere e della legge.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello del lavoro sulle relazioni, mi sono

sempre più convinto negli anni che il punto di partenza più forte (ma certamente se ne

danno altri) è quello dell’attraversamento dell’esperienza del “negativo”.

Attualmente stiamo andando sempre di più verso una situazione caratterizzata da

quelle che il sociologo inglese Anthony Giddens ha chiamato “relazioni pure”31

ovvero relazioni non dettate da obblighi sociali, religiosi o economici ma basate

principalmente sulla comunicazione, sull’intesa emozionale, sulla soddisfazione diretta.

31

Si veda Giddens, 1995 e Giddens, 2000.

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In altre parole le relazioni per un verso dipendono da una maggiore intesa, intimità

e soddisfazione, ma per lo stesso motivo sono più fragili e più esposte alla precarietà e

alla dissoluzione. Zygmunt Bauman rincara la dose e parla di “relazioni liquide”, di

“amore liquido” (Bauman, 2005).

In termini concreti possiamo ricordare che oggi le separazioni, le discontinuità nelle

relazioni affettive e famigliari non sono più l’eccezione, sono la normalità. Attualmente

in Italia, secondo i dati ISTAT, la durata media di un matrimonio è tredici anni. Circa il

25% delle separazioni avviene tuttavia durante i primi sei anni. Le nostre vicende

affettive sono sempre più fatte di numerose esperienze di incontri e separazioni.

Quello che voglio dire è che anche le separazioni parlano anche di noi. Ci stimolano

a rileggere anche i nostri rapporti. A portare dentro di noi l’esperienza dell’abbandono,

del tradimento, della perdita. Certo, queste esperienze possono renderci più duri, più

difesi, più diffidenti, più superficiali. Ma possono anche, se accettate e fatte proprie,

permetterci di pronunciare parole più umane, più umane perché dolenti e riconoscenti

insieme. Noi siamo fatti di relazioni e queste stabiliscono assieme la nostra

dipendenza, la nostra identità e la nostra vulnerabilità. Dunque oggi dobbiamo trovare

un modo per pronunciare un “noi”, un “io e te”, in un modo diverso da quel “noi” di un

tempo. Perché oggi è tutto diverso.

Come notava Carmine Ventimiglia:

«occorre anche attraversare i luoghi dei “no”, nella relazione riconoscendo la piena

legittimità dei “no” dell’altra in quanto segnalazione, appunto, di confini identitari

necessari per il pieno riconoscimento e per il rispetto integrale delle differenze: dal

“no” in amore, al “no” della relazione sessuale, al “no” nella reciproca determinazione

di soggettività che pure nella interdipendenza non risultano annullate nelle loro

rispettive specificità e prerogative soggettive. Imparare ad accogliere i “no” e a dire i

“no” nella loro valenza positiva è un esercizio inedito per gli uomini perché estraneo

alle proprie memorie» (Ventimiglia, 2006, p. 167).

Si tratta dunque di riuscire a rielaborare e integrare nella propria esperienza di

umanità la dimensione della fragilità e dell’impotenza. Impotenza di fronte al rifiuto,

all’abbandono, al tradimento, al dolore, alla morte. Le esperienze di negazione e di

perdita non sono al di sotto della nostra umanità. Al contrario l’accettazione di queste

esperienze ci aprono ad una comprensione della vita e delle persone più ampia e

profonda. Imparare ad amare significa incorporare in sé tutte le esperienze che si sono

vissute. Portare sempre con sé il sapore dolce e dolente, fragile e potente della propria

vita emotiva e affettiva e saperne trarne un modo nuovo per stare al mondo, per stare

in relazione, un modo intenso e coraggioso sia nel rapporto con l’altro che nel rapporto

con sé. Contrariamente al senso comune, a quello che tutti siamo abituati a pensare,

contrariamente all’idea romantica dell’amore, in verità si può amare veramente solo

ciò che si è disposti a perdere. Amare è anzitutto acconsentire all’esistenza e al

desiderio dell’altro, affinché qualcosa possa accadere ma anche non accadere. Come

uomini, se vogliamo davvero incontrare il desiderio femminile dobbiamo rinunciare a

controllarlo. Questa è la scommessa.

Due tipi di violenze: patriarcale e post-patriarcale

Tuttavia oggi abbiamo di fronte un cambiamento anche qualitativo e non solo

quantitativo della violenza. Penso in particolare al femminicidio.

Negli ultimi anni si è registrata una catena di omicidi maschili contro donne. In

alcuni casi sono semplicemente uomini che uccidono mogli e compagne per liti di

qualsiasi genere. Ma in numerosi casi si tratta di omicidi che riguardano ex mogli, ex,

compagni.

In molti casi dietro questi omicidi contro donne c’è di mezzo anche l’esperienza

della separazione, del rifiuto, della scelta della ex compagna di costruirsi un’altra vita.

Possiamo a questo proposito prendere in considerazione le poche indagini

sistematiche compiute a questo riguardo per avere qualche elemento in più.

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Nella ricerca svolta qualche anno fa dal Centro documentazione dell’Eurispes in

collaborazione con l’Associazione Ex sono stati proposti una seri di dati relativi ad

omicidi familiari/parentali e “di coppia” (compagni o ex compagni), accaduti tra

gennaio e dicembre 2003. I dati del 2003 registrano 157 omicidi di cui 101 omicidi di

coppia (111 secondo i dati EURES). Fra questi ultimi gli autori erano in 87 casi uomini

e in 14 casi donne. Un particolare che si può cogliere è che mentre gli omicidi da parte

di donne riguardavano solo relazioni in corso (7 tra coniugi, 4 tra conviventi, 3 tra

amanti o fidanzati) e nessun ex compagno o rivale, viceversa gli omicidi da parte di

uomini oltre a relazioni in corso (59 casi) riguardavano in ben 24 casi ex compagne

(mogli, conviventi o amanti) e in 4 casi rivali. In 37 episodi si tratta di situazioni in cui

gli uomini non accettano la separazione attuata o imminente.

Nella ricerca “L’omicidio volontario in Italia. Rapporto 2005” curata

dall’EURES in collaborazione con l’ANSA i dati diversamente aggregati (dunque non

completamente paragonabili) registravano nel 2004 187 delitti maturati in “ambito

domestico” ovvero di coppia o tra familiari. In sostanza in Italia c’è un omicidio “in

famiglia” ogni due giorni. Gli omicidi “di coppia” sono invece 100. Fra questi gli uomini

sono in 85 casi autori e in 17 casi vittime mentre le donne sono in 15 casi autrici e in

83 casi vittime. Si può notare inoltre che gli uomini hanno ucciso 17 ex partner (contro

i 3 casi di donne) e in 1 caso la donna desiderata. Uomini sono anche gli autori dei 12

episodi (in questa ricerca sono conteggiati fuori dai 100 omicidi di coppia) in cui le

vittime sono stati i rivali (maschi). Secondo questa ricerca gli episodi in cui il partner

uccide chi lo sta abbandonando sono addirittura 59 (il dato è aggregato e non

distingue tra uomini e donne).

I casi in cui il fattore scatenante del delitto sarebbe dovuto alla decisione di

separazione da parte della vittima coprirebbero nel 2004 circa il 31,6% degli omicidi in

ambiente domestico. Questo problema riguarda soprattutto gli uomini e suggerisce

così abbastanza chiaramente la realtà di una maggiore fragilità e dipendenza

psicologica e di una minore autonomia da parte maschile.

La novità che abbiamo di fronte agli occhi e che dobbiamo riconoscere è che, a

fianco della violenza che colpisce donne in situazione di marginalità sociale, oggi

registriamo una violenza che sembra nascere dall’incapacità soprattutto da parte degli

uomini di accettare e accogliere un’autonomia e una libertà già entrate nella vita di

molte donne. Le donne non si mettono più nel ruolo di ancelle dell’identità maschile, di

rassicurazione e conferma del senso di sé. Non confermano, criticano, discutono e

perfino fanno delle scelte di autonomia: chiudono una relazione, cercano nuove

possibilità per se, investono su altri aspetti della loro vita, cercano di ricostruire le loro

vite in altre condizioni: si riinnamorano, si risposano, allevano i loro figli. Oggi si

registra una violenza che colpisce donne che hanno già manifestato la loro libertà, la

loro autonomia, il loro desiderio.

La violenza oggi comincia a colpire la donna che non accetta più di costituire il

supporto permanente dei bisogni dell’uomo dentro e fuori la coppia, si riversa sulla

donna che – a torto o a ragione - apre conflitti e pone in questione l’uomo. In qualche

caso – ma su questo bisognerebbe aprire un ragionamento a parte perché la questione

è più complessa e contraddittoria - anche l’affidamento e la relazione coi figli

diventano un ulteriore elemento di conflitto e di risentimento (i dati registrano 4

situazioni di questo genere nel 2004 e 5 nel 2003)

Credo che il tipo di violenza che abbiamo di fronte agli occhi non sia una semplice

riproposizione della cultura e del potere patriarcali. Questa violenza non implica

alcun rifiuto dell’uguaglianza tra i sessi e tanto meno un pregiudizio di

inferiorità verso la donna. Al contrario, si può ipotizzare, segnala

l’involontaria l’ammissione della compiuta autonomia femminile con un senso

di inadeguatezza e difficoltà da parte degli uomini. Questa violenza ci racconta di

un affanno e di una mancata rielaborazione maschile di fronte ad una libertà e

un’autonomia femminile piuttosto che un potere maschile e una sottomissione

femminile. Il delitto segnala semmai l’impossibilità, l’impraticabilità della sottomissione

femminile. Da questo punto di vista i termini della violenza sulle donne sono dunque

cambiati, stanno cambiando.

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È facile naturalmente riconoscere una certa continuità di questa violenza con la

violenza tradizionale maschile di tipo patriarcale, ma quello che voglio sottolineare è

che al contempo si sta manifestando una discontinuità importante: questa violenza

parla sempre più di una mancata rielaborazione e di un affanno maschile di fronte ad

una libertà femminile piuttosto che non di un potere maschile e di una sottomissione

femminile. I termini di questa violenza sono cambiati. E forse proprio per questo

assume forme sempre più efferate e incontrollate.

Riportando questo ragionamento alla sfera delle relazioni credo che oggi come oggi

gli uomini commettano violenza soprattutto perché non accettano la differenza, ovvero

non accettano l’alterità della propria compagna. Non accettano che la donna che

hanno di fronte non sia semplicemente una continuazione, un riflesso del proprio

desiderio o dei propri bisogni. Non accettano che essa possa scegliere in base al

proprio desiderio e che questo non coincida con il loro o con la loro idea di relazione.

In questo scacco – e nel conseguente senso di “impotenza” verso l’autonomia e la

libertà femminile - emerge tutta la dipendenza, la fragilità e l’insicurezza nascosta

degli uomini.

Quando questa esperienza si produce, quando la donna da spazio al suo desiderio e

alla sua libertà, quando la relazione finisce, l’uomo perde contemporaneamente

l’oggetto d’amore, un senso di relazione simbiotica e un senso di sé che era

supportato dall’altra.

Poiché tutti questi aspetti sono ancora intollerabili per molti uomini, li si nega

ancora una volta tramite la violenza. Si potrebbe dire che molti uomini preferiscono

cancellare l’alterità piuttosto che riconoscerla e accettare così la propria

parzialità, la propria vulnerabilità, la propria impotenza. In questo senso la violenza

maschile sulle donne è un tentativo di cancellare la differenza e non l’uguaglianza.

Ciò che è difficile per gli uomini oggi non è riconoscere che le donne hanno pari

dignità o valore degli uomini. Ciò che è difficile è stare di fronte ad una donna ed

accettare che essa è altro da noi. Ebbene io credo che la relazione vera e propria può

nascere solo nel momento in cui ogni uomo riconosce che la donna che ha di fronte

non è una sua proiezione o un suo oggetto e che essa può differire da lui in tante

cose, nel bene e nel male. Solo a quel punto può cominciare una relazione ed uno

scambio reale e nonviolento. Dunque accettare la libertà di differire della donna,

accettare la propria parzialità e limitatezza e accettare una relazione reale sono tre

aspetti intimamente connessi.

Da questo punto di vista, questa violenza, in un modo o nell’altro, ci interroga tutti.

Non si tratta di prendere le distanze da una violenza che sta fuori di noi, che

appartiene “agli altri”, agli “uomini violenti”, ma piuttosto di fare realmente i conti con

una possibilità che è inscritta nella cultura comune. La violenza, il delitto sono soltanto

una delle possibili conclusioni. Il dato comune a tutti, non è l’episodio conclusivo della

violenza, ma ciò che la precede: la concezione della coppia, dell’amore, della

relazione. Ciò che ci sembra normale perché non si manifesta nella forma della

violenza esplicita e del crimine, ma che probabilmente è invece all’origine del

problema.

Quello che noi uomini possiamo fare è cominciare a parlare delle nostre modalità

relazionali, di come siamo nelle relazioni, di come costruiamo le relazioni, di come le

neghiamo, di come ne abbiamo paura. Dobbiamo chiederci in che misura siamo riusciti

ad accogliere la libertà e il libero desiderio delle donne nelle nostre relazioni e nel

nostro modo di amare.

Dunque non si tratta di difendere le donne o di dare sostegno alla loro condizione di

persone svantaggiate o minacciate. Si tratta di reinventare uno spazio di relazioni più

soddisfacenti, intense e libere. Dove la libertà, il desiderio, la percezione a

l’accoglienza della differenza sono la precondizione dell’intensità e della soddisfazione

e della nonviolenza.

Il problema è la capacità di tenere insieme relazione e autonomia, amore e

riconoscimento dell’alterità, passione e conflitto.

Il cambiamento del quadro normativo

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Il quadro normativo però sta cambiando.

Legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119 e pubblicato

in Gazzetta Ufficiale 15 ottobre 2013, n. 242.

Sulla base delle indicazioni provenienti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa, fatta

ad Istanbul l’11 maggio 2011, concernente la lotta contro la violenza contro le donne e

in ambito domestico di Istanbul, recentemente ratificata dal Parlamento, il decreto

mira a rendere più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di

maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori (stalking).

Vengono quindi inasprite le pene quando:

•il delitto di maltrattamenti in famiglia è perpetrato in presenza di minore degli anni

diciotto;

•il delitto di violenza sessuale è consumato ai danni di donne in stato di gravidanza;

•il fatto è consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o dal partner.

Un secondo gruppo di interventi riguarda il delitto di stalking:

•viene ampliato il raggio d’azione delle situazioni aggravanti che vengono estese

anche ai fatti commessi dal coniuge pure in costanza del vincolo matrimoniale, nonché

a quelli perpetrati da chiunque con strumenti informatici o telematici;

•viene prevista l’irrevocabilità della querela per il delitto di atti persecutori nei casi di

gravi minacce ripetute (ad esempio con armi).

Sono previste poi una serie di norme riguardanti i maltrattamenti in famiglia:

•viene assicurata una costante informazione alle parti offese in ordine allo svolgimento

dei relativi procedimenti penali;

•viene estesa la possibilità di acquisire testimonianze con modalità protette

allorquando la vittima sia una persona minorenne o maggiorenne che versa in uno

stato di particolare vulnerabilità;

•viene esteso ai delitti di maltrattamenti contro famigliari e conviventi il ventaglio delle

ipotesi di arresto in flagranza;

•si prevede che in presenza di gravi indizi di colpevolezza di violenza sulle persone o

minaccia grave e di serio pericolo di reiterazione di tali condotte con gravi rischi per le

persone, il Pubblico Ministero – su informazione della polizia giudiziaria - può

richiedere al Giudice di irrogare un provvedimento inibitorio urgente, vietando

all’indiziato la presenza nella casa familiare e di avvicinarsi ai luoghi abitualmente

frequentati dalla persona offesa.