SOCIOLOGIA, CIBO, ALIMENTAZIONE: ALCUNI APPUNTI GENERALE - TEORIE... · SOCIOLOGIA, CIBO,...

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SOCIOLOGIA, CIBO, ALIMENTAZIONE: ALCUNI APPUNTI A cura di Simone Tosi 1: Alimentazione e società: alcuni temi. ............................................................ 2 1.1 L’analisi del cibo nelle scienze sociali .......................................................... 2 1.2 Cibo, rito, rituale ................................................................................................... 7 1.3 Cibo e commensalismo ................................................................................... 10 1.4 cibo: differenziazione e riproduzione dei ruoli sociali ...................... 14 1.5 Gusti e preferenze ............................................................................................. 15 2: Il mangiatore contemporaneo ..........................................................18 2.1 Stabilità e cambiamento ................................................................................. 18 2.2 Cibo e modernizzazione ................................................................................. 20 2.3 Mangiare fuori casa .......................................................................................... 24 2.4 Cibo in viaggio: colonialismo e migrazioni ............................................. 26

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S O C I O L O G I A , C I B O , A L I M E N T A Z I O N E : A L C U N I A P P U N T I

A cura di Simone Tosi

1: Alimentazione e società: alcuni temi. ............................................................ 2

1.1 L’analisi del cibo nelle scienze sociali .......................................................... 2

1.2 Cibo, rito, rituale ................................................................................................... 7

1.3 Cibo e commensalismo ................................................................................... 10

1.4 cibo: differenziazione e riproduzione dei ruoli sociali ...................... 14

1.5 Gusti e preferenze ............................................................................................. 15

2: Il mangiatore contemporaneo .......................................................... 18

2.1 Stabilità e cambiamento ................................................................................. 18

2.2 Cibo e modernizzazione ................................................................................. 20

2.3 Mangiare fuori casa .......................................................................................... 24

2.4 Cibo in viaggio: colonialismo e migrazioni ............................................. 26

1: ALIMENTAZIONE E SOCIETÀ: ALCUNI TEMI.

1.1 L’ANALISI DEL CIBO NELLE SCIENZE SOCIALI

Gli studiosi di scienze sociali hanno iniziato solo in tempi relativamente

recenti ad occuparsi dei fenomeni sociali legati alle pratiche alimentari.

Nella produzione sociologica e antropologica classica sono rari gli autori

che hanno studiato in modo “diretto” questo tema; le incursioni delle

scienze sociali nell’ambito alimentare-culinario sono state subordinate a un

ordine di argomenti ritenuti più “a buon diritto” propri della sociologia e

dell’antropologia, quali i gruppi sociali, la commensalità, il rito, il sacrificio,

ecc.

Le ragioni più evidenti di questo snobismo nei confronti dell’alimentazione

sono probabilmente due:

1) l’importanza del cibo e delle pratiche alimentari era tale e così

quotidianamente sotto gli occhi di tutti che lo studio di questi fenomeni e

pratiche non appariva necessario;

2) il cibo apparteneva alla sfera domestica ed era quindi collegato in

particolare al ruolo della donna; ciò relegava il tema ad uno status inferiore

rispetto a quello dello studio delle attività della sfera pubblica, da sempre

considerate dominio maschile, quali l’economia e la politica, che furono

infatti abbondantemente studiate (Mennell, Murcott, van Otterloo 1992).

Non si può dunque parlare, per il passato, di una vera e propria produzione

sociologica e antropologica sui temi dell’alimentazione. Il tema era

affrontato in modo per così dire “strumentale”, per la rilevanza che poteva

avere in funzione di altri temi o campi di ricerca. Parlando di quelli che

definisce i “padri fondatori dell’antropologia” Fischler sostiene che “il loro

interesse centrale verte in realtà soprattutto sulla religione: più della cucina

li intriga e li coinvolge il sacrificio. Questi precursori si interessano

soprattutto agli aspetti rituali e sovrannaturali del consumo” (1990, 8).

E’ con l’apporto metodologico e ideale della nuova storia che il cibo

diventa a pieno titolo oggetto di indagine delle scienze sociali; esso acquista

autonomia in un processo di rivalutazione della quotidianità rispetto all’

“événementiel”, e si arricchisce anche di una prospettiva dinamica, attenta

allo sviluppo diacronico degli oggetti in esame. A partire dagli anni ‘70, per

ragioni analoghe e con analoghe motivazioni, il cibo e le pratiche alimentari

conquistano uno spazio consistente anche in antropologia e in sociologia: ad

esempio nelle nuove sociologie della vita quotidiana (che d’altra parte

condividono con la nuova storia molti atteggiamenti teorici e metodologici).

In termini generali si possono individuare tre impostazioni teoriche nello

studio sociale del fenomeno cibo1. La prima è il funzionalismo. Grazie agli

studiosi funzionalisti il cibo fa la sua comparsa da protagonista sulla scena

della “grande sociologia”. Il cibo e le pratiche alimentari vengono assunti

come elementi fortemente esplicativi: utilizzandoli per illustrare i processi

sociali fondamentali e per raccordare - secondo la tipica prospettiva

funzionalista - aspetti della società apparentemente scollegati. Già

Radcliffe-Brown (1922) sottolineava la funzione del cibo come catalizzatore

della socializzazione degli individui all’interno di un sistema sociale. Ma è

con i lavori di Audrey Richards che viene attribuito un ruolo di primaria

importanza al cibo. Richards sostiene - in un periodo di incontestato

dominio delle impostazioni di tipo freudiano - che più ancora della

sessualità è l’alimentazione ad avere il peso maggiore nella determinazione

della natura e delle forme di società (1932, 1937, 1939).

Abbastanza presto le posizioni funzionaliste - o almeno le loro varianti più

rigide - vengono sottoposte a critiche più o meno radicali. Come per altri

campi di ricerca, una critica severa riguarda il rischio che - attraverso il

concetto di funzione - venga introdotto il ricorso a spiegazioni extrasociali.

Tentando di definire, in maniera estremamente sintetica, quello che

definisce paradigma funzionalistico-adattivo, Fischler sostiene che in questo

tipo di paradigma “ogni tratto della cultura alimentare adempie a una

funzione molto specifica; l’unico modo di fare apparire questa funzione è

legare il tratto in questione a un fenomeno di ordine extra-culturale o

materiale, ad esempio biologico o fisico. In altri termini, per comprendere,

dobbiamo ricorrere a spiegazioni ‘naturali’, spiegazioni ispirate alle scienze

cosiddette ‘esatte’” (1990, 29). Un esempio, proposto ancora da Fischler, è

l’interpretazione fornita a proposito della proibizione ebraica e musulmana

di mangiare carne di maiale. Secondo l’impostazione funzionalista tale tabù

è legato al fatto che nelle aree geografiche in cui queste culture si sono

sviluppate, la carne di maiale poco cotta è spesso veicolo di infezioni e

malattie parassitarie quale la trichinosi. Questa interpretazione è stata

accantonata, data la sua incapacità di rispondere a due obiezioni: 1) come

mai altri animali, veicolo di trichinosi tanto quanto il maiale, continuano ad

essere consumati in quelle stesse regioni dalle quali il maiale è bandito? 2)

se cuocendo la carne di maiale prima di consumarla si evita il rischio di

malattie ad essa connesse perché invece di un tabù che ne vieta

completamente il consumo non è sorta una prescrizione che imponesse di

consumare quanta carne di maiale si desiderasse purché ben cotta?

La seconda scuola che prendiamo in considerazione, lo strutturalismo,

rappresenta in qualche modo un’inversione rispetto al funzionalismo. Se

questo, come si è visto, dimostrava una tendenza ad interpretare i fatti

1 Per un’analisi più dettagliata che passi in rassegna le diverse scuole della sociologia del

cibo si rimanda ai testi di Goody (1982), Fischler (1990) e Mennell, Murcott, van Otterloo

(1992).

sociali attraverso elementi di ordine naturale-biologico, una caratteristica

comune individuabile negli approcci di tipo strutturalista è l’enfasi

sull’origine culturale e sul carattere socialmente controllato dei gusti

alimentari. All’interno dell’impostazione strutturalista si deve distinguere

però tra l’approccio di Mary Douglas e quello di Lévy-Strauss.

Per Lévy-Strauss (1958, 1964, 1968) il cibo e la cucina costituiscono un

campo interessante in due sensi: 1) la cucina permette di raggiungere una

comprensione della cultura e della società che la pratica; in questo senso la

cucina costituisce un linguaggio nel quale la società trasferisce le proprie

credenze, istituzioni e strutture; 2) inoltre la cucina rivela le strutture

fondamentali del pensiero umano, collocandosi così lo studio della cucina

nell’ambito del tentativo di Lévy-Strauss di rivelare quell’affinità (quasi

identità) che esisterebbe tra strutture profonde della mente umana e strutture

della società.

Mary Douglas (1972, 1984, 1985a, 1985b) condivide l’intento di Lévy-

Strauss di identificare i meccanismi che determinano le scelte e i gusti, ma

non si aspetta che tali meccanismi siano universali, bensì che varino da una

cultura all’altra. In relazione con questo punto di vista, Douglas (1975 e

1985b) ha sviluppato un tipo di analisi che tiene conto non soltanto dei cibi

singolarmente presi ma di intere “sequenze di cibi”, cercando di mettere in

relazione i cibi e i piatti che compongono i diversi pasti nell’arco della

giornata.

Gli esiti possibili dell’approccio strutturalista sono esemplificati dalla

interpretazione che Mary Douglas dà del tabù ebraico relativo alla carne di

maiale: sostenendo che tale divieto è da collegarsi ad una anomalia

tassonomica. La cultura ebraica opera infatti una classificazione delle specie

animali atta a collocare ciascuna di esse all’interno di una delle tre categorie

fondamentali poste dalla Genesi, cioè terra acqua e cielo; gli animali che

non si collocano chiaramente in nessuna delle tre categorie sono considerati

impuri. All’interno di ciascuna delle tre sfere la classificazione si articola in

maniera capillare. Nel caso del maiale l’impurità deriva dal fatto che si tratta

di un animale con zampa unghiata e unghia fessa, ma che a differenza della

maggior parte degli animali che presentano queste caratteristiche non

rumina.

La terza scuola che occorre considerare è quella “developmentalista”. I

sociologi e gli antropologi che possiamo attribuire a questa scuola

condividono una comune attenzione per il processo dinamico al quale le

abitudini e le pratiche sono continuamente sottoposte. Relativamente

all’argomento alimentare, gli autori che hanno dato i contributi più

significativi sono Jack Goody e Marvin Harris (in realtà l’attribuzione di

entrambi ad una stessa “scuola” potrebbe essere contestabile: l’approccio

adattivo del secondo potrebbe assimilarlo da diversi punti di vista alla

tradizione funzionalista).

Per Harris (1985) le diete riscontrabili nelle diverse culture e nelle diverse

parti del mondo sono il frutto di aggiustamenti progressivi negli alimenti

consumati dagli individui sulla base di scelte di ottimizzazione in termini di

costi-benefici; una volta che le scelte alimentari hanno raggiunto l’ottimo

per quell’ambiente e in quell’istante, esse si stabilizzano e si perpetuano

attraverso l’attribuzione ai vari alimenti di significati simbolici e attraverso

l’interiorizzazione di preferenze e ripugnanze. Secondo Harris il tabù del

maiale deriva dai cambiamenti climatici e dalla diminuzione delle foreste

che, nella regione mediorientale, hanno fatto diventare l’allevamento e il

consumo della carne di questo animale anti-economico rispetto ad altri

animali.

Goody (1982) sostiene che la ricerca sociale in campo alimentare non possa

essere esaurita nella descrizione delle strutture che informano le pratiche

culinarie; in questo modo si perderebbe infatti la dimensione diacronica del

fenomeno alimentare. Le pratiche alimentari devono quindi essere

analizzate all’interno di uno schema dinamico che tenga conto e che possa

spiegare il cambiamento, oltre che le strutture, di tali pratiche. Goody

sottolinea inoltre come il cammino sociale del cibo non sia rettilineo ed

uniforme ma subisca accelerazioni e rallentamenti in funzione di diversi

fattori quali l’industrializzazione, il colonialismo, le migrazioni, ecc.

Ho scelto di non presentare l’argomento, a differenza di quanto avviene di

solito nelle introduzioni alla sociologia del cibo, attraverso le principali

scuole di pensiero che se ne sono occupate. In questo capitolo intendo

piuttosto rendere conto di una serie di parole chiave che possano dare l’idea

delle diverse linee di ricerca che sono state sviluppate nello studio del

fenomeno cibo. Tale panoramica costituisce una prima selezione che ha lo

scopo di chiarire le aree di indagine maggiormente collegate all’argomento

specifico dei capitoli successivi: cibo/identità culturale ed etnica,

cibo/immigrazione, cibo/relazioni interculturali e interetniche.

Se è vero che questa scelta comporta alcuni svantaggi per quanto riguarda le

possibilità di comparazione tra le diverse impostazioni, e inoltre mette in

secondo piano le tappe dello sviluppo diacronico del dibattito, d’altra parte

l’opportunità di operare fin d’ora una scelta che sia funzionale allo sviluppo

del discorso nei capitoli successivi è evidente. Naturalmente la condizione è

che le parole chiave si organizzino attorno ad un tema unificante che sia

nello stesso tempo rappresentativo della sociologia e dell’antropologia del

cibo, e significativo per lo specifico oggetto di questa ricerca.

Al di là delle differenze di cui si è detto è possibile individuare un aspetto

fondamentale comune a tutti gli studi sociologici sul cibo: il legame tra il

cibo e l’identità. Tale legame si struttura lungo due dimensioni. Una prima

dimensione è quella presente nell’esperienza culturale, quando vengono

messi in relazione certi tipi di alimenti con alcune determinate

caratteristiche delle persone che li mangiano. E’ l’idea, pressoché

universalmente diffusa, secondo la quale “si è ciò che si mangia”. Tale idea

istituisce una relazione essenziale (spesso in forma magica, oppure

ritualizzata) tra cibo e identità: per dirla con le parole di Fischler, su questa

relazione “sembra fondarsi il tentativo, costante nella maggior parte delle

culture, di padroneggiare il corpo e, attraverso di esso, lo spirito, l’intera

persona e dunque l’identità” (1990, 51). Yosef Yerushalmi cita il caso di

Don Lope de Vera, nobile di famiglia ‘vecchio-cristiana’ che, nel XVII

secolo, fu bruciato vivo come giudaizzante poiché si scoprì che la balia che

lo aveva allattato era una ‘cristiana nuova’, cioè recentemente convertita al

cristianesimo e con degli avi di religione ebraica. Il suo latte doveva quindi

avere infuso un po’ di ebraismo nello sfortunato nobile (1994, 237-238).

La seconda dimensione del rapporto cibo-identità è quella che fa riferimento

all’identità in quanto inerente al senso di appartenenza e di solidarietà nei

confronti di individui che si sentono parte dello stesso gruppo, e implica

contemporaneamente un’idea di opposizione e di alterità rispetto ad altri

individui che a tale gruppo non appartengono.

Igor de Garine (1979) riferisce di due popolazioni del Camerun

settentrionale e del Ciad, i Massa e i Tupuri, che, pur vivendo nello stesso

ambiente, disponendo delle medesime tecnologie, conoscendosi

reciprocamente e sposandosi spesso fra di loro, fanno un uso alimentare

diverso delle risorse di cui dispongono, rinunciando in molti casi a soluzioni

di ottimizzazione nutrizionale. Secondo de Garine le differenze riscontrabili

nelle rispettive diete hanno la funzione di mantenere distinte le identità

culturali delle due popolazioni in un ambiente che favorirebbe

l’uniformazione e la fusione dei due gruppi.

Il legame tra cibo e identità non deve essere considerato una caratteristica

esclusiva delle società tradizionali. In maniera più o meno consapevole tale

legame esiste anche nelle società moderne e in quelle post-industriali. Per il

primo aspetto della relazione l’esempio tipico per le nostre società è la sua

definizione attraverso la dietologia, le cui implicazioni rituali, ma anche

magiche, sono una citazione perfino abusata. Per il secondo aspetto

potrebbe trattarsi di quella che Moulin definisce la “cucina dell’odio” (1975,

61), una modalità di relazione che - eventualmente in forme attenuate - è

ricorrente anche nelle nostre società: si pensi a quante volte gli appartenenti

ad una determinata cultura vengano definiti in base alla loro alimentazione;

gli italiani sono Macaroni, i tedeschi sono Mangia-patate per gli italiani; più

localmente i vicentini sono Magna-gatti e , ci dice Moulin, “gli abitanti di

Bruxelles sono correntemente chiamati kiekefretters (mangiatori di pollo)”

(ibidem).

Storicamente troviamo casi di “cucina dell’odio” dalle implicazioni ben più

pesanti. Un esempio riguarda l’origine di due piatti iberici: lo spagnolo

cocido madrileno e il portoghese porco com ameijoas a alentejana (maiale

alle vongole alla moda di Alentejo). Entrambi questi piatti derivano da un

piatto ebraico (ancora oggi cucinato dalle comunità ebraiche in nord Africa)

chiamato adafina, nel quale “all’epoca dell’Inquisizione le tradizionali uova

sode furono sostituite con carne di maiale e lardo, o con carne di maiale e

vongole, ingredienti cioè severamente vietati agli ebrei e ai musulmani. Era

un modo (...) di verificare se si riceveva a casa propria un cristiano autentico

di ‘pura razza’ o qualche marrano o moresco non del tutto convertito”

(Moulin 1975, 62).

Entro questa cornice generale fornita dal rapporto cibo-identità, le parole

chiave possono essere organizzate in due gruppi: quelle che riguardano in

generale le relazioni tra cibo e processi sociali o istituzioni sociali (cibo e

rito, cibo e commensalità, cibo e differenziazione sociale), che saranno

oggetto di questo stesso capitolo, e quelle che riguardano il cibo o il

mangiatore moderno - o le relazioni tra pratiche alimentari e processi di

formazione o strutture delle società moderne/industriali che saranno trattate

nel secondo capitolo. In entrambi i casi occorre scontare una certa

eterogeneità di riferimenti, che è nella natura degli studi in questo campo.

All’interno di quella che definiamo genericamente sociologia del cibo esiste

una certa variabilità per ciò che riguarda gli elementi presi in

considerazione: tali elementi possono essere il cibo in senso stretto (Kuper

1977), le modalità di produzione del cibo (Braudel 1967) o quelle di

consumo (Corbeau 1992), ecc. Riferimenti del discorso possono quindi

essere di volta in volta il cibo, le relazioni tra i mangiatori, i luoghi in cui il

cibo viene consumato, quelli in cui viene venduto ecc.

I temi che vengono trattati in questo capitolo esprimono le linee più generali

- e anche quelle più “classiche” - del dibattito delle scienze sociali su cibo e

cucina. L’alimentazione e le pratiche ad essa collegate vengono messe in

relazione con alcuni tipi di processi e istituzioni sociali (rito/rituale,

commensalismo, differenziazione e riproduzione dei ruoli sociali, gusti). E’

un campo di indagine che ha avuto nell’antropologia i primi sviluppi di

ricerca e che, di conseguenza, presenta un’abbondante mole di materiali

relativi alle società tradizionali, secondo l’impostazione dell’antropologia

dell’inizio del secolo. Tuttavia, come vedremo, i temi identificati in questo

primo capitolo sono rilevanti anche per l’analisi del cibo e delle pratiche

alimentari nelle società industriali e post-industriali.

1.2 CIBO, RITO, RITUALE

L’elemento che ha agito da molla nel determinare l’interesse delle scienze

sociali verso le pratiche connesse al cibo e all’alimentazione è stato l’aspetto

rituale di tali pratiche. Ad una analisi esplicita degli aspetti rituali di alcune

pratiche sociali è dedicata l’opera più nota di van Gennep (1909).

Nel periodo a cavallo tra l’ ‘800 e il ‘900, alcuni studiosi si resero conto che

i caratteri rituali che erano stati fino ad allora descritti relativamente alle

popolazioni considerate “primitive”, “erano distribuiti in un’ampia varietà di

società umane ed erano riscontrabili, seppure in una maniera più diluita,

anche nelle loro stesse culture, nell’Europa del diciannovesimo secolo.”

(Goody 1982, 12). La permanenza di queste caratteristiche, considerate

“primitive”, divenne il primo dato da spiegare, e per molti antropologi del

periodo il carattere razionale della spiegazione - una spiegazione che

“giustificasse” tale tipo di pratiche - poteva convergere con le

“razionalizzazioni” operate dalle popolazioni oggetto di studio. In questo

senso possono essere lette molte parti dell’opera di James Frazer ( 1887,

1890) quando sostiene che “in alcuni miti sembra che l’effettiva

discendenza dal totem abbia subito un processo di razionalizzazione (...).

Due clan dell’Australia occidentale, che prendono il nome da una piccola

specie di opossum e da un piccolo pesce ritengono di chiamarsi così perché

si cibavano principalmente di questi animali” (1887, 31-32).

Un tipo di pratica connessa al cibo che ben si presta ad essere studiata nelle

sue caratteristiche rituali è quella relativa alla macellazione e alla spartizione

della carne, come ambito in cui l’aspetto rituale raggiunge un notevole

livello di visibilità, ed è quindi più facilmente analizzabile e comprensibile.

Fischler (1990) si sofferma lungamente su questo genere di pratiche

ritualizzate distinguendo tra i riti direttamente rivolti a “trattare” la carne

rendendola innocua, pura e commestibile, e quelli - immediatamente

conseguenti - dedicati alla distribuzione della carne tra i membri del gruppo.

A proposito del primo tipo di rito la letteratura antropologica ed etnologica

risulta particolarmente ricca. Fischler riporta numerosi esempi tratti dalla

ricerca sulle società primitive che dimostrano la varietà e la complessità dei

riti collegati all’uccisione di un animale per scopi alimentari. Esempi tratti

da ricerche condotte su società culturalmente distanti dimostrano,

innanzitutto, che esiste una notevole omogeneità nel rapportarsi e nel

trattare l’arma o lo strumento con il quale l’animale viene ucciso; tale

strumento viene infatti molto spesso gettato, distrutto, in qualche modo

reputato colpevole dell’uccisione. Questo tipo di pratica ha come scopo

quello di sgravare l’uomo che ha scagliato la freccia o che ha sferrato il

colpo dalla responsabilità dell’uccisione e da possibili vendette divine che

tale atto potrebbe scatenare. Più in generale si può parlare di una tendenza

ad assolvere l’individuo dalle responsabilità legate all’uccisione attraverso

pratiche rituali e attraverso rappresentazioni che liberino l’uomo dalla colpa

dell’uccisione e dalle possibili conseguenze ad essa connesse; i greci, ad

esempio, nelle loro rappresentazioni artistiche, non ritraevano mai il

momento in cui l’arma era calata sull’animale (Fischler 1990, 106 e

seguenti).

Per ciò che riguarda il secondo tipo di pratica ritualizzata esiste molto

materiale etnologico-antropologico che descrive le complesse procedure

rituali finalizzate alla spartizione e alla condivisione del cibo (Fischler tratta

l’argomento con particolare riguardo alla spartizione rituale della carne), per

la cui trattazione rimandiamo alle pagine sul commensalismo.

L’esempio della macellazione suggerisce la centralità culturale che le

pratiche alimentari possono avere, ed il loro carattere “globale”. Sono

queste le caratteristiche che l’analisi dei rapporti tra cibo e rito illumina, e

che possono agevolmente essere rilevate anche nelle nostre società: a

condizione naturalmente che si adotti una nozione di rito rigorosa e precisa,

e che non leghi a priori la nozione a forme di ritualità che appartengono a

società “primitive” o tradizionali. Assumiamo a tal fine la definizione data

da Jean Cazeneuve nella prima parte del suo “Sociologie du rite” (1971), e

le implicazioni in essa contenute.

Innanzitutto Cazeneuve fornisce una prima definizione di rito inteso come

“un atto che può essere individuale o collettivo ma che, sempre, anche

quando è sufficientemente elastico da comportare un margine

d’improvvisazione, resta fedele a determinate regole che, precisamente,

costituiscono ciò che vi è di rituale.” (1971, 13). Già da questa definizione

emerge un primo tratto caratterizzante il rito, e cioè la ripetitività dell’atto.

Partendo da questo tratto, il carattere rituale delle pratiche alimentari

implica di collocare in uno schema interpretativo ampio quelli che risultano

essere due aspetti fondamentali della pratica alimentare stessa: la sua

staticità, la sua attitudine a rimanere relativamente invariante nel tempo, e

“l’attaccamento affettivo” alle proprie abitudini alimentari, riscontrabile

anche nel mangiatore moderno (Fischler 1990, Moulin 1975).

La seconda caratterizzazione che Cazeneuve offre attiene alla valutazione di

utilità del rito stesso. Spesso si utilizza il termine rito (soprattutto da parte

delle società occidentali contemporanee) per intendere una pratica “che non

è indispensabile, che non ha un’utilità positiva osservabile e che si compie

per abitudine, per adeguarsi a una tradizione.” (Cazeneuve 1971, 17). Ma a

questo punto bisognerebbe precisare il concetto di utilità, il che, come ci

avverte Cazeneuve, non è semplice. Innanzitutto occorre tenere presente che

persino “il rito nevrotico è forse utile per il soggetto che lo compie dando

qualche sollievo ai suoi conflitti inconsci” (idem). Ma il punto fondamentale

non è tanto se il rito sia o non sia utile, ma piuttosto se esso sia concepito

come efficace. E ciò porta a interrogarsi sul “senso” delle pratiche, e quindi

a collocarle nel complesso dell’esperienza dei soggetti in questione.

Il carattere rituale delle pratiche alimentari è dunque da inserire all’interno

di un sistema di riferimento ampio che prenda in considerazione diversi

aspetti della società in esame, rendendo così possibile la comprensione

anche di quei riti, di quelle abitudini, che spesso possono apparire

incomprensibili e ingiustificabili se vengono osservate da un unico punto di

vista. Corbeau (1992) esprime questo concetto parlando dei comportamenti

legati al cibo come di una filière di comportamenti, intendendo sottolineare

con ciò la globalità dell’atto culinario: “Apprendere la sociabilità a partire

dalle pratiche alimentari permette di osservare una molteplicità di rituali. Il

carattere privilegiato di questo terreno si afferma con maggior forza se si

considera il ‘mangiare’ come un fenomeno sociale totale che inizia con la

decisione di produrre il tale tipo di alimento piuttosto che tale altro, per

arrivare fino all’immaginario legato alla digestione, alle impressioni

trasmesse con la commensalità e ai discorsi che la presiedono. Lo studio

della totalità dei comportamenti alimentari si ricongiunge allora alla nozione

di ‘trafila’” (Corbeau 1992, 101).

1.3 CIBO E COMMENSALISMO

L’importanza delle pratiche di convivialità, quando si parla di cibo in una

prospettiva sociale, è un argomento ampiamente riconosciuto e discusso

nella letteratura sociologica e antropologica. Già la sociologia classica ha

diffusamente studiato questo tema, e ne ha sottolineato l’importanza.

La relativa facilità con cui il cibo, in relazione alle pratiche di

commensalismo, ha trovato posto nelle scienze sociali è legata alla sua

prossimità con i temi propri degli studi sulla comunità, sui fondamenti della

solidarietà e del legame sociale fioriti nel diciannovesimo secolo (Nisbet

1966). Fondamentali in questo senso sono le teorie di Comte, Fustel de

Coulanges, Le Play, Durkheim, Spencer, Simmel, Tönnies. Molti di questi

studi analizzano le pratiche di commensalismo per le loro relazioni

funzionali con le istituzioni, i processi sociali fondamentali e il ruolo dei

gruppi elementari. In questo senso possono essere lette ad esempio le analisi

condotte da Durkheim e Spencer sui rapporti tra pratiche alimentari e,

rispettivamente, i sistemi di lignaggio e i processi di differenziazione

sociale, su cui si ritornerà nel prossimo paragrafo.

Occorre definire e precisare cosa si intende con il termine commensalità, in

quanto ad esso è connessa una varietà di significati tale da rendere ambiguo

l’uso stesso del termine. Anzitutto occorre registrare la varietà culturale

delle pratiche di commensalismo.

Al lettore europeo di oggi il concetto di commensalità probabilmente

suggerisce un tipo di pratica che in realtà è un tipo specifico di

commensalità: il fatto che a tutti coloro che siedono allo stesso tavolo

vengono serviti gli stessi cibi. Ma la letteratura storica ci insegna che questo

non è affatto l’unico modello (n‚ il più diffuso) di pratica commensale.

“Almeno fino all’inizio del Seicento - scrive Flandrin - non si pensava che

le persone sedute alla stessa tavola dovessero mangiare gli stessi cibi n‚ bere

le stesse bevande. Olivier de Serre, per esempio, consigliava al suo

gentiluomo di campagna di fornirsi di vino di qualità inferiore per gli ospiti

di bassa condizione, che avrebbe potuto accogliere alla sua tavola, per

risparmiare il vino buono e conservarlo per sé e i suoi ospiti di riguardo.

Ancora in pieno Seicento, i trattati di buona educazione - come pure i libri

di cucina, i manuali di taglio ed altre opere relative all’alimentazione - erano

piene di raccomandazioni sui cibi o sui bocconi da presentare al padrone di

casa e ai grandi personaggi che onoravano la tavola della loro presenza.”

(1987, 209).

Si possono dunque distinguere vari tipi di pratiche di commensalismo, che

cambiano da una società all’altra e nel corso del tempo. Gli invitati a un

banchetto possono sedere tutti allo stesso tavolo e mangiare gli stessi cibi,

come accade normalmente nell’Europa dal Seicento in poi; oppure, come

nella descrizione di Flandrin, alle persone che siedono allo stesso tavolo

possono essere serviti cibi diversi in funzione della loro posizione nella

scala sociale; o ancora, come è ampiamente documentato dalla letteratura

antropologica, possono essere allestiti diversi tavoli (o spazi con funzioni

equivalenti) ai quali vengono serviti diversi cibi, nell’ambito della stessa

cerimonia-pasto (de Garine 1979, 1992).

Al di là delle sue specifiche forme storiche, gli approcci funzionalisti ed

evolutivi sottolineano però la diffusione universale del commensalismo, e la

presenza di alcuni tratti ricorrenti. Questo ci porta di nuovo a problemi di

definizione. Una indicazione viene dalla biologia per cui la caratteristica

peculiare che distingue il commensalismo da altre forme di rapporti tra

individui determinati dal cibo (parassitismo, predazione, ecc.), è che nel

commensalismo entrambi i soggetti che partecipano al rapporto traggono dei

vantaggi dal rapporto stesso. Se dal terreno della biologia passiamo a quello

delle scienze sociali, questa stessa caratteristica mantiene tutta la sua

rilevanza. Per potere assumere questa definizione è dunque necessario

verificare che il tipo di relazione in esame comporti uno scambio, e non sia,

come appare spesso dalla letteratura etnografica una transazione

unilaterale2. Questo tipo di approccio ci costringe ad inquadrare le pratiche

collegate al cibo ed i significati ad esso attribuiti, all’interno di un sistema di

credenze e di abitudini più ampio, che comprenda i diversi aspetti della

società in cui il pasto ha luogo.

In questa prospettiva, il fattore che appare particolarmente interessante

nell’analisi sociologica del commensalismo è il sistema di norme, riti e tabù

che strutturano le pratiche ad esso connesse. E’ il sistema di credenze che fa

sì che il pasto possa essere condiviso con certe persone, secondo certe

regole di comportamento e certe modalità, con altre persone secondo certe

altre modalità, o che non possa affatto essere condiviso con altre persone

ancora.

L’aspetto ora sottolineato e da considerarsi strettamente collegato a quelle

che possiamo definire come le funzioni e i significati sottesi alla pratica in

sé. Al di là dell’interesse che rivestono i diversi modelli di commensalismo,

ha assunto infatti particolare importanza il dibattito che si è sviluppato a

proposito della funzione e dell’origine delle pratiche commensali. Il fatto su

cui sembra esserci un particolare accordo tra gli studiosi che si sono

2 Per una panoramica sulle tipologie di scambi cfr. Mauss (1923).

occupati della pratica di condividere in qualche modo il cibo, è l’importanza

sociale e la diffusione pressochè universale di tale pratica.

Arnold van Gennep sottolinea come alla base dei riti sociali della maggior

parte delle civiltà da lui studiate ci siano spesso delle pratiche che

comportano lo scambio o il consumo di cibi: “La commensalità o rito del

mangiare e di bere insieme (...) è chiaramente un rito di aggregazione, di

unione propriamente materiale che si è denominato come un sacramento di

comunione.” (van Gennep 1909, 25).

A sottolineare l’universalità del commensalismo, van den Berghe perviene a

partire da una prospettiva evoluzionista. Egli ha ricercato l’origine della

pratica del commensalismo conducendo un’analisi comparata tra le

abitudini sociali umane e quelle di altri animali. Il dato che appare

immediatamente importante è che la pratica di condividere il cibo è comune

alla maggior parte degli animali carnivori. In particolare van den Berghe

osserva come alcune specie, quali gli scimpanzé e i cànidi si servano degli

scambi di cibo per creare e mantenere dei legami sociali che vanno oltre i

naturali vincoli di sangue. I cànidi, ad esempio, hanno elaborato un sistema

che permette, agli individui incaricati di cacciare, di distribuire il cibo,

rigurgitandolo, non soltanto tra i figli o tra quanti sono ad essi vincolati da

legami di parentela, ma anche agli adulti lasciati di guardia ai piccoli. Negli

scimpanzé le somiglianze con i comportamenti umani a proposito di

condivisione del cibo sono ancora più accentuate e si estendono alle

modalità dello scambio: “i gesti ritualizzati usati dagli scimpanzé per

chiedere il cibo (estendere le braccia verso il possessore del cibo con le

mani leggermente a forma di coppa e le palme rivolte verso l’alto) sono

identici a quelli riscontrati negli esseri umani.” (van den Berghe 1984, 389).

Secondo l’analisi di van den Berghe il fatto che la pratica di condividere il

cibo sia comune alla maggior parte degli animali carnivori dimostra quanto

le radici di questo comportamento umano siano antiche e profonde e può

servire a spiegarne la centralità ed universalità: “Non solo il cibo è il dono

per eccellenza, ma è anche il dono che non può essere rifiutato senza

offendere.” (van den Berghe 1984, 390).

La condivisione del cibo sembra svolgere una funzione di pacificazione, di

tranquillizzazione, o - in termini più generali - di socializzazione:

“consumando insieme un pasto si sancisce un rapporto di equivalenza tra i

commensali, la tavola stabilisce legami di ‘parentela di pappa’ (a clanship of

porridge scrivono in modo scherzoso L. e R. Makarius nel 1960), che

completano e rafforzano in modo definitivo, i legami di sangue. Il cibo

consumato insieme è il simbolo della pace, tant’è vero che un pasto fraterno

riunisce i clan che si riconciliano.” (Moulin 1975, 8).

Anche se è spesso difficile percepire un proprio comportamento come

appartenente a una dimensione rituale, o attribuirgli un significato

simbolico, bisogna riconoscere che le “società industriali” (come anche

quelle “post-moderne”, o quelle “post-industriali”) sono ricche di pratiche

ritualizzate e cariche di valori simbolici, magari meno consapevoli, e che

spesso tali pratiche passano attraverso il cibo, realizzando anche principi di

commensalismo. Si pensi all’uso che viene fatto e ai significati che vengono

attribuiti alle bevande alcoliche (Moulin 1975; Fischler 1990; Corbeau

1992), o all’importanza che ricoprono alcuni piatti tradizionali in

determinate occasioni di festa (il pranzo domenicale, o quello natalizio o

pasquale, o i pasti delle ricorrenze familiari) (Douglas 1984; Moulin 1975),

o ancora alle numerosissime varianti della pratica sempre più diffusa di

pranzare o cenare fuori casa (Finkelstein 1989).

I comportamenti e le pratiche collegate al pasto - o come sostiene Corbeau

(1992), relativamente alle abitudini in uso nel nostro tipo di società,

soprattutto i “riti di aperitivo” - svolgono un importante funzione di

strutturazione all’interno del gruppo che vi partecipa; le modalità con cui la

tavola viene apparecchiata, i criteri con cui i commensali scelgono i posti

intorno alla tavola imbandita, le modalità di conversazione, etc., “creano la

prossimità e la distanza: si sta seduti insieme ma in un modo che conforta la

distanza e la gerarchia.” (Maffesoli 1985, 7). Il pasto diventa dunque un atto

sociale fondamentale nella misura in cui ai commensali viene data la

possibilità di sperimentare, di fare una specie di “prova generale” di quelli

che sono i rapporti sociali all’interno del gruppo, o più in generale,

all’interno della società a cui appartengono; l’accettazione delle regole

imposte durante il pasto implica l’accettazione dei rapporti sociali e della

gerarchia sociale tra i commensali anche quando il pasto sarà terminato.

Come nella Grecia classica, quando per i banchetti a base di carne

“l’animale sacrificato (...) veniva poi fatto a pezzi e mangiato nel corso di

un banchetto rituale in cui ciascuno riceveva una parte di carne conforme al

suo statuto nella Città. (...) La parte di carne che il cittadino riceve durante il

banchetto sacrificale è letteralmente l’incarnazione del suo statuto politico e

sociale.” (Fischler 1992, 112).

Con riferimento alle società moderne possiamo anche esemplificare i

cambiamenti storici dei modelli, in particolare i loro cambiamenti legati al

passaggio a forme “avanzate”. Corbeau ha sottolineato il fatto che nella

società industriale avanzata ci sia stato una rapida trasformazione di quelle

pratiche di commensalismo che erano state a lungo considerate un esempio

di pratiche estremamente stabili e resistenti al cambiamento. Il senso di

appartenenza al gruppo, in particolare a quello familiare, “si afferma

attraverso qualche rituale di commensalità che non suppone più

necessariamente la riunione intorno alla tavola.” (Corbeau 1985, 111).

Corbeau parla di una pratica di “nomadismo alimentare” osservabile su due

distinti livelli. Un primo livello è quello relativo all’abitudine, in crescente

diffusione, di consumare i pasti al di fuori della propria abitazione e del

proprio gruppo familiare, in relazione a mutamenti negli orari di lavoro e a

una diversa gestione del tempo libero; il secondo livello è invece riferito

allo spazio privato, in cui il pasto non viene più necessariamente consumato

in sala da pranzo o in cucina, n‚ alla presenza di tutti i membri della

famiglia, ma piuttosto davanti alla televisione, magari in tempi diversi

secondo le diverse necessità dei familiari.

1.4 CIBO: DIFFERENZIAZIONE E RIPRODUZIONE DEI RUOLI SOCIALI

Un altro interessante settore nell’indagine sul cibo in prospettiva sociologica

è quello che riguarda le relazioni tra ruoli sociali in generale e ruoli assunti

in rapporto all’attività di produzione, preparazione e consumo di cibo

nell’uomo.

Questo tema è stato trattato in modo particolare da alcuni illustri esponenti

della sociologia classica, caratterizzati, come si è già avuto modo di dire, da

un’impostazione di tipo funzionalista. E’ il caso, ad esempio, di Durkheim

che in relazione ai sistemi di lignaggio si sofferma su una lettura dei cibi e

delle pratiche alimentari nell’ambito delle interdizioni totemiche e delle

classificazioni di sacro e profano; nell’ambito della descrizione di cerimonie

iniziatiche degli Aunta australiani, denominate Intichiuma, scrive: “dopo

che i riti descritti sono stati compiuti sulla roccia sacra, i giovani vanno a

caccia del canguro e riportano la loro selvaggina al campo degli uomini. Qui

gli anziani (...) mangiano un po’ di carne dell’animale e ungono col grasso il

corpo di quelli che hanno preso parte all’Intichiuma. Il resto è suddiviso fra

gli uomini raccolti” (1912, 436-437) . Anche Spencer (1896) si dimostra

interessato al cibo in rapporto alla disuguaglianza sociale; egli sottolinea

soprattutto come le pratiche alimentari siano determinanti nel costruire e

riprodurre alcune norme sociali fondamentali presso le società prese in

considerazione, soprattutto le norme atte a definire un ordinamento

gerarchico all’interno del gruppo come la strutturazione per età o la

strutturazione sessuale.

Si è già detto sopra come le pratiche di commensalità (relative quindi al

consumo dei cibi) siano importanti nel definire e ribadire ad ogni pasto le

“posizioni sociali” dei commensali. Ma il discorso diventa ancora più

evidente se estendiamo l’analisi alle pratiche di produzione e preparazione

del cibo. Poiché, come si è detto, il cibo è utilizzato per creare e mantenere

delle relazioni sociali, esso gioca un ruolo particolarmente importante nei

gruppi primari della famiglia e dei legami domestici.

La cucina appare come luogo e come attività prevalentemente femminile3:

intorno al focolare, cuore della casa e luogo di produzione culinaria, la

madre trasmette alle figlie femmine le tecniche riguardanti la preparazione

dei cibi, riproducendo il modello di strutturazione dei ruoli familiari a cui è

3 Nel numerodi Current Sociology curato da Stephen Mennell, Anne Murcott e Anneke H.

van Otterloo i capitoli 11, 12 e 13 trattano il tema dell’alimentazione in relazione alla

distinzione tra i sessi.

stata a sua volta educata. Anche attraverso la distribuzione dei cibi e

l’imposizione di modelli alimentari distinti per sesso ed età vengono

riprodotte le strutture familiari e sociali. Alle donne e ai bambini in età pre

lavorativa vengono riservati cibi considerati di seconda scelta e spesso

carenti dal punto di vista nutritivo. Di fronte al fatto che non ci sono

spiegazioni plausibili in termini di minori energie spese dalle donne -

poiché, come scrive Mary Douglas, “il loro livello di lavoro fisico spesso

eccede di molto quello degli uomini. (...) Le enormi energie spese sono

supportate da una dieta che sembra essere di gran lunga distante dai valori

nutrizionali previsti da qualsiasi tabella ufficiale” - si sono spesso avanzate

ipotesi che definissero il problema in termini di “scelte alimentari” o di

“preferenze.” (Douglas 1984, 498).

Ma da più parti è stato sottolineato come spesso quelle che definiamo e che

vengono percepite dall’individuo come scelte alimentari non sono in realtà

definibili come tali, in quanto si tratta di comportamenti in un certo senso

“obbligati”, comunque entro una varietà piuttosto limitata di opzioni

determinate da modelli culturali potenti quanto inavvertibili. Si pensi a

questo proposito a come un modello culturale estetico che impone alla

donna di essere snella, interferisca nella definizione dei “gusti alimentari

femminili”, estromettendo dalle cose “preferibili” tutti quegli alimenti che

non permettono di rimanere conformi al modello (Mennell, Murcott, van

Otterloo 1992)

1.5 GUSTI E PREFERENZE

Abbiamo così chiamato in causa un concetto assai controverso, cioè quello

relativo alla definizione di “gusto”. Di fronte alla grande variabilità di diete

osservabili nelle diverse società umane si è fatto spesso riferimento proprio

al concetto di gusto per cercare di rendere conto di tali differenze: “Davanti

alle diverse tradizioni alimentari presenti nel loro immenso impero, i

Romani fecero spallucce e continuarono a mangiare le loro salsine di pesce

putrido. De gustibus non est disputandum, commentarono” (Harris 1985, 4).

Ma lo stesso Harris ci fa presente che l’appellarsi ai gusti non costituisce in

sé una spiegazione. Nell’analizzare la variabilità dei gusti all’interno di una

società, Bourdieu sottolinea come spesso quelli che vengono definiti come

gusti, e che dovrebbero quindi presupporre una libertà di scelta tra diverse

opzioni, sono in realtà non-scelte, imposizioni determinate dall’ambiente,

dalla condizione sociale, economica o culturale, ecc. (Bourdieu 1979). La

stessa osservazione può valere per l’analisi delle differenze tra società. Ma

nel confronto inter-culturale ciò che è in discussione quando si analizzano le

differenze di gusti è la spiegazione complessiva delle specificità culturali.

Per questo la spiegazione dei gusti è un buon indicatore delle caratteristiche

delle diverse scuole di sociologia o antropologia del cibo.

La letteratura etnologica abbonda di esempi di cibi considerati eccellenti in

alcune società e aborriti in altre. Fischler (1990) presenta a titolo

dimostrativo il seguente prospetto nel quale, limitatamente al consumo di

alcune specie animali, si sottolineano la diversità riscontrabile in differenti

culture, per ciò che riguarda la commestibilità o meno delle diverse specie.

Numerosi altri esempi sono presentati da Harris (1985). Benché piuttosto

atipica, ci limitiamo a citare in questa sede l’analisi che l’antropologo

americano conduce a proposito della diversa considerazione riservata al latte

come alimento da diverse culture quali quelle statunitense, brasiliana e

cinese: se per la maggior parte degli Statunitensi il latte costituisce

l’alimento perfetto, quello cioè considerato nutriente e assolutamente non

nocivo, in Brasile tale cibo è tenuto in scarsa considerazione, ed i Cinesi -

dice Harris - “al pari degli altri popoli dell’Est e Sudest asiatico, non solo

sono avversi all’uso alimentare del latte, bensì lo detestano proprio; e

all’idea di trangugiare un bel bicchierone freddo di simile porcheria

reagiscono all’incirca come reagirebbe un occidentale all’idea di trangugiare

un bel bicchierone freddo di saliva di vacca” (Harris 1985, 128).

Commestibile Non commestibile

Insetti America latina, Asia, Africa, ecc. Europa occidentale, Nord America, ecc.

Cane Corea, Cina, Oceania, ecc. Europa, Nord America, ecc.

Cavallo Francia, Belgio, Giappone, ecc. Gran Bretagna, Nord America, ecc.

Coniglio Francia, Italia, ecc. Gran Bretagna, Nord America, ecc.

Lumaca Francia, Italia, ecc. Gran Bretagna, Nord America, ecc.

Rana Francia, Asia, ecc. Europa, Nord America, ecc.

Fischler (1990), 9, tavola 1

Di fronte a questa grande variabilità di gusti, antropologi e sociologi hanno

cercato di dare una spiegazione delle differenze riscontrate. Le

interpretazioni e le teorie che ne sono risultate sono le più disparate e

costituiscono, come ho detto, un utile riferimento per individuare le

caratteristiche di quelle che abbiamo definito più sopra come “scuole” di

antropologia e sociologia del cibo.

Claude Fischler fornisce un’interpretazione dell’origine del rifiuto

alimentare (che lui chiama disgusto) che tiene conto tanto della componente

biologica che di quella cognitiva. La dimensione biologica del disgusto può

essere messa in relazione con il comportamento onnivoro dell’uomo: il

disgusto deriverebbe, secondo questa interpretazione, dal rifiuto di tutto ciò

che appare nuovo e sconosciuto alimentarmente4. La dimensione “ideale-

4 Per una trattazione di questo aspetto si rinvia a Fischler 1980, 1988, 1990.

cognitiva” del disgusto, che è quella che qui interessa maggiormente5,

identifica i rifiuti alimentari che implicano una forte componente affettiva,

che si fondano cioè “sull’idea che il soggetto si fa del cibo, di quello che è,

di dove viene” (Fischler 1990, 58); sempre all’interno della dimensione

ideale-cognitiva rientrano, per Fischler, i rifiuti alimentari derivanti dalla

definizione di un cibo come inappropriato (carta, sassi, ecc.).

Concentrando l’attenzione sugli aspetti ideale-cognitivi del disgusto, quindi

sottolineando la connessione dei gusti con la rilevanza affettiva e le nozioni

che definiscono la maggiore o minore appropriatezza che si riconosce ad un

cibo entro un determinato modello, resta da spiegare come queste nozioni e

questi modelli operano, come si trasmettono e come vengono assimilati e

interiorizzati dagli individui.

Un fatto che appare ampiamente confermato, da esperimenti e osservazioni

di psicologi e sociologi che se ne sono occupati, è che i gusti si formano e si

costituiscono prevalentemente nei primissimi anni di vita dell’individuo;

secondo Fischler (1990) il meccanismo con cui determinati gusti prendono

forma è un meccanismo essenzialmente imitativo del comportamento degli

adulti più prossimi affettivamente, ma anche spazialmente6. In generale,

dunque, “i fattori più importanti nella trasmissione e nella genesi dei gusti

alimentari sono rappresentati dalla famiglia e dall’educazione.” (Fischler

1990, 77). Interessanti sono poi gli esempi di influenza dei gusti degli adulti

da parte dei bambini, come è stato osservato nel caso dei gruppi migranti e

delle minoranze culturali, ma questo aspetto sarà approfondito nei prossimi

capitoli.

5 Secondo Fischler, che si rifà alle ricerche di Rozin, occorre distinguere tra due principali

categorie di rifiuto alimentare. La prima categoria è determinata da fattori che possiamo

definire di tipo biologico; ne fanno parte 1) il distaste, cioè “un tipo di rifiuto puramente

sensoriale, prodotto dall’esperienza di uno stimolo sensoriale - olfattivo, gustativo o altro-

che è percepito come sgradevole dal soggetto”; 2) i rifiuti che derivano dalla percezione del

pericolo, ad esempio il rifiuto che il soggetto prova nei confronti dei funghi che sa o

sospetta velenosi.

La seconda categoria, alla quale si è già accennato, comprende le avversioni che

coinvolgono una dimensione che Fischler definisce ideale: 1) un primo tipo di rifiuto che

appartiene a questa categoria è quello che in inglese si riassume nel termine disgust; in

questo caso si tratta di un rifiuto cognitivo (e non più sensoriale). 2) Un secondo tipo di

rifiuto è dato dagli oggetti che sono definiti impropri (inappropriate) dato che non sono

classificati come cibi. 6 Esistono numerosi esperimenti che risultano interessanti in tal senso. Cfr. Fischler 1990,

pag. 75 e seguenti.

2: IL MANGIATORE CONTEMPORANEO

In aggiunta al gruppo di temi “generali” trattati nel primo capitolo, altri temi

rilevanti nascono dall’applicazione dell’analisi alle società moderne: in gran

parte come diretta conseguenza dell’elaborazione in contesti moderni dei

problemi relativi al legame tra cibo e identità, in entrambe le dimensioni che

abbiamo precedentemente individuato. Per i temi trattati in questo capitolo,

il dibattito sociologico sull’alimentazione non può essere disgiunto da

quello più generale sulla “natura” delle società industriali avanzate e sul

senso del passaggio a forme di società “post-industriali”.

Lo studio delle pratiche alimentari nelle società post-industriali implica

innanzitutto la necessità di fare luce su alcuni nodi concettuali:

1) occorre definire il rapporto - al quale si è già accennato nel primo

capitolo come uno degli elementi di interesse del sistema cibo - tra le

caratteristiche di stabilità che caratterizzano il sistema cibo e gli elementi di

cambiamento che si possono osservare nelle pratiche alimentari, e di cui non

è facile cogliere la reale discontinuità;

2) vanno ricercate le possibili relazioni tra gli elementi di cambiamento

delle pratiche alimentari e le tendenze strutturali di mutamento in atto nella

società o in specifici settori di pratiche sociali.

Due aspetti della pratica alimentare nelle società post-industriali meritano

una trattazione a sé, per la relazione che hanno con l’oggetto di questa tesi:

il primo è la pratica del mangiare fuori casa; il secondo è l’influenza che il

colonialismo e le migrazioni hanno avuto sulle recenti tendenze del sistema

cibo. Entrambi questi temi, che qui accenno soltanto, verranno approfonditi

nei capitoli successivi.

2.1 STABILITÀ E CAMBIAMENTO

Si è già avuto modo di dire nel primo capitolo, discutendo degli aspetti

rituali del cibo e soprattutto dei gusti e delle preferenze in materia

alimentare, quanto le abitudini alimentari tendano ad essere stabili nel

tempo e resistenti ai cambiamenti. Le preferenze alimentari riscontrabili nei

membri di un certo gruppo sembrano essere molto più statiche di quelle

espresse in altri settori di pratiche (come l’abbigliamento, la musica, ecc.); e

a livello di una società questa stabilità sembra coinvolgere l’intero sistema

del cibo, comprese le pratiche e le istituzioni che attorno ad esso si

organizzano.

“In campo alimentare l’uomo è particolarmente conservatore.” (Moulin

1985, 18). Questa constatazione sembra ampiamente condivisa dalla

maggior parte degli studiosi delle pratiche alimentari. Il primo elemento che

viene chiamato in causa a spiegare questo fatto è che, contrariamente a

quanto avviene per le nostre opinioni politiche o artistiche, che si formano e

si strutturano gradualmente, attraverso un processo in certa misura

cosciente, i gusti in campo alimentare si formano prevalentemente nei

primissimi anni della nostra vita. Non sono quindi vagliati criticamente e

coscientemente ed è per questo che vengono generalmente considerati

innati, naturali, istintivi (come si è detto nel paragrafo sulle preferenze).

Moulin sottolinea in modo particolare come “mangiamo ciò che nostra

madre ci ha insegnato a mangiare” (Moulin 1975, 12). In un’indagine

condotta presso alcuni studenti dell’Institut d’Enseignement supérieur di

Namur è risultato che il 60 per cento degli intervistati ritiene che ci sia

almeno un piatto nel repertorio culinario della propria madre che non ha

eguale altrove per originalità e sapore.

Per spiegare la stabilità delle abitudini alimentari si è spesso cercato di fare

riferimento a determinismi biologici o ambientali, o di spiegarli come tratti

culturali collegati a una precisa “funzione epistemologicamente ‘solida’,

cioè in realtà ‘esatta’, nel senso in cui si parla di ‘scienze esatte’ in

opposizione alle altre, quelle umane. Quando, in via eccezionale, non ci si

riusciva, se ne concludeva che si era in presenza di un comportamento

‘controproducente’, di un’aberrazione evolutiva, che ci si affrettava a

cercare di correggere senza chiedersi altro.” (Fischler 1990, 7). Invece anche

per il cibo è con riferimento ai generali problemi teorici e metodologici

posti dalle teorie del cambiamento sociale che può essere affrontato

correttamente il problema dei rapporti tra stabilità e cambiamento.

Due esempi possono servire a illustrare le due possibilità. La prima è la

grande resistenza al cambiamento, evidente nella stabilità delle abitudini

alimentari, nell’attaccamento degli individui ai propri cibi e alle pratiche ad

essi connessi. Un esempio abbastanza recente e che ben si presta ad

un’analisi dettagliata (anche se qui ci limiteremo ad accennarlo) è quello che

riguarda i fallimenti ottenuti alla fine dell’ottocento dai riformatori della

New England Kitchen, che vollero tentare di “migliorare” le abitudini

alimentari della classe operaia americana, alla luce delle recenti scoperte

della nascente scienza nutrizionale. Il loro tentativo fallì poiché non tennero

conto del valore culturale, simbolico ed affettivo che avevano le diete dei

sottogruppi (in gran parte etnici) che formavano la classe operaia americana;

“all’alimentazione ‘scientifica’ proposta ognuno di essi opponeva la propria

grammatica e le sue personali competenze culinarie.” (Fischler 1990, 119).

Di fatto gli usi alimentari della classe operaia americana non cambiarono

affatto, o quasi7. Altri esempi del genere potrebbero essere presi dai

7 Per una trattazione maggiormente approfondita in merito all’esperienza statunitense di

trattamento dell’immigrazione italiana dal punto di vista alimentare si veda Levenstein

1985.

numerosi tentativi fatti, anche recentemente, in diversi paesi del Terzo

Mondo, e conclusisi in gran parte in modo altrettanto fallimentare.

Tuttavia non si può negare il fatto che, in genere, le famiglie italiane non

mangiano allo stesso modo, n‚ gli stessi cibi, che mangiavano nel XVIII

secolo, e neppure negli anni ‘50 di questo secolo. Il cibo, per quanto

resistente al cambiamento, non è immutabile. Molte analisi dimostrano che

negli ultimi trent’anni si è assistito a una grossa serie di cambiamenti anche

nelle pratiche alimentari. Ad esempio nelle pratiche relative al pasto: dove

le novità, come vedremo, sono in rapporto con cambiamenti relativi anche

all’alimentazione.

Un tentativo di analizzare il problema nelle società industriali avanzate è

stato condotto da Herpin (1988). Partendo dall’osservazione delle

caratteristiche che identificano il pasto come “fatto sociale”8, Herpin ritiene

che tale istituzione stia subendo un processo di “destrutturazione”, di

destabilizzazione, e che tale processo possa assumere diverse forme:

1) la “de-concentrazione”: l’assunzione di cibi non avviene più in due o

tre momenti della giornata ma, in quantità minori, nel corso di numerosi

spuntini;

2) la “de-impiantazione” : gli orari in cui si consumano i pasti non sono

più contenuti in una precisa fascia ma variano ampiamente;

3) la “de-sincronizzazione”: anche all’interno dello stesso gruppo

(famiglia o gruppo di lavoro) gli orari del pasto non coincidono più, facendo

perdere al pasto una delle sue funzioni tradizionali quale quella di incontro e

di scambio;

4) la “de-localizzazione”: il pasto non viene più consumato in una

stanza precisa ma sempre più spesso “dove capita” (nella propria camera da

letto, sul posto di lavoro, in macchina, ecc.);

5) la “de-ritualizzazione”: il pasto quotidiano infra-settimanale diviene

sempre meno sottoposto a regole; al contrario si rinforzano le norme e i

rituali osservati durante il pasto domenicale o nelle occasioni particolari

(compleanni, anniversari, ecc.).

2.2 CIBO E MODERNIZZAZIONE

I due esempi suggeriscono i principali elementi, o assi teorici, rilevanti per

lo studio del cambiamento delle abitudini e delle pratiche alimentari: (a) la

discontinuità vs. il carattere graduale/evolutivo del cambiamento; e (b) la

“durata” del processo/periodo - breve vs. lungo - cui il cambiamento viene

riferito. Queste coppie concettuali - che hanno valenze generali - possono

8 Tali caratteristiche sono secondo Herpin: il momento che il pasto occupa all’interno della

giornata; il luogo ove si consuma; il menù; le altre attività che si svolgono

simultaneamente; il tipo di relazione che si svolge tra i commensali.

inoltre essere applicate (come nelle teorie del cambiamento in generale) alla

formazione e alle evoluzioni delle società moderne, dando luogo a due

principali tipi di problemi:

(a) la relazione tra cambiamenti relativi al cibo e i principali processi

costitutivi delle società moderne;

(b) i rapporti tra cambiamenti relativi al cibo e le “fasi” di sviluppo delle

società moderne e industriali: con particolare riferimento ai processi recenti

o in corso che identificano il passaggio a forme “avanzate”, “post-

industriali” ecc.

Entro questo schema, i contributi forniti dalla letteratura fanno riferimento a

tre principali processi o tipi di “fattori”.

1. Il primo tipo di contributi collega le trasformazioni relative

all’alimentazione al processo di industrializzazione, in particolare alle sue

componenti tecnologiche, accentuando quindi nella spiegazione gli elementi

considerati “di rottura” e la rapidità del cambiamento rispetto alle

caratteristiche osservabili nelle società precedenti.

In questo senso è l’analisi di Jack Goody, che ha individuato

nell’industrializzazione una “molla” che è stata capace di imprimere un

potente impulso al cambiamento delle abitudini e delle pratiche alimentari.

Egli distingue diversi elementi che nell’ambito dell’industrializzazione

hanno influenzato le abitudini in campo alimentare: il primo è l’evoluzione

delle tecniche di conservazione, verificatasi con l’espansione tecnologica

industriale; i miglioramenti nella tecnica di conservazione dei cibi hanno

sempre avuto una grande importanza per le società che li ottenevano: Goody

passa in rassegna le varie tappe dello sviluppo delle tecniche di

conservazione, a partire da quelle più antiche della salatura e

dell’essiccazione, fino ad arrivare alle tecniche più moderne di

inscatolamento e congelamento. Il secondo elemento che Goody considera è

la diffusione e il perfezionamento della meccanizzazione; lo sviluppo di

settori come quello dell’inscatolamento, al di là della loro teorica attuabilità,

diventarono possibili grazie agli sviluppi della meccanizzazione che

accompagnarono il processo di industrializzazione; fu cosi possibile

applicare le tecniche di inscatolamento su vasta scala e su una gamma

crescente di alimenti (Goody 1982, 157 e seguenti; v. anche Fischler 1990,

151). L’evoluzione delle tecniche di conservazione, accompagnata dalla

meccanizzazione, è stata dunque per Goody l’elemento fondamentale per

spiegare le abitudini alimentari del “mangiatore moderno”; ma anche

l’evoluzione dei mezzi di trasporto e la costituzione di una rete sempre più

capillare di comunicazione tra i principali centri viene considerata da Goody

un importante fattore di cambiamento delle abitudini alimentari.

2. Un altro tipo di contributi mette in relazione le trasformazioni nel

sistema del cibo con i processi culturali, di lunga durata, che in senso

proprio identificano la modernizzazione. A questo tipo di contributi può

essere attribuito il lavoro di Norbert Elias (1969, 1980) sul processo di

civilizzazione. Piuttosto che le relazioni di rottura col passato, Elias ha

tentato di individuare una tendenza profonda, di lungo periodo, che sia in

grado di spiegare la genesi dei gusti osservabili nell’Europa Occidentale

moderna, gusti che toccano anche il sistema del cibo. Egli critica i tentativi

di fornire una spiegazione di tipo funzionale9, e propone invece una

spiegazione che assuma come chiave interpretativa ciò che definisce uno

“spostamento in avanti della soglia del pudore e della ripugnanza” (Elias

1969, 10). Questa tendenza è chiaramente visibile in cucina e in sala da

pranzo (ma lo è altrettanto chiaramente in altre stanze, come ad esempio

nella camera da letto)10

. Elias cita una abbondante quantità di documenti che

mostrano come l’evolversi delle abitudini alimentari o legate al consumo di

cibi vadano nel senso di una progressiva individualizzazione e

privatizzazione delle pratiche, e a questo possono collegarsi mutamenti

decisivi intervenuti nelle pratiche relative al cibo. Scompare l’abitudine di

attingere tutti con le mani da uno stesso piatto posto al centro della tavola; si

fa largo l’uso della forchetta individuale; proliferano le piccole regole che

tendono alla “non-contaminazione”, come quella per cui non è più

opportuno servirsi della propria forchetta per versarsi il cibo dal piatto di

portata, ecc. (Elias 1969, capitolo IV).

Il processo di civilizzazione è evidentemente un processo che coinvolge

meccanismi di tipo “profondo”, oltre che di lunga durata, come si vede

dall’analisi che Elias propone sulle relazioni tra quelle che definisce

eterocostrizioni, imposte dall’esterno, e le autocostrizioni. L’individuo viene

dunque, fin dalla prima infanzia, indirizzato verso certi comportamenti e

certe pratiche; il controllo delle sue pulsioni più istintive diventa “fin da

piccolo, a tal punto un’abitudine da provocare nel suo intimo la creazione di

una sorta di relais degli standard sociali, un automatico autocontrollo degli

istinti volta per volta adeguato agli schemi e modelli di ciascuna società,

cosicché egli è soltanto parzialmente consapevole di reprimere pulsioni e

tendenze” (Elias 1980, 314).

3. Infine un tipo di contributi mette l’accento sulle trasformazioni che

sono piuttosto in rapporto con le logiche organizzative del capitalismo

moderno o delle società industriali, colte nelle loro diverse fasi storiche. Un

elemento che da questo punto di vista è risultato particolarmente potente nel

determinare cambiamenti in abitudini che sembravano immutabili è stata la

“rivoluzione” dei sistemi e dei circuiti di vendita dei prodotti. A grandi linee

si possono descrivere i cambiamenti intervenuti nelle modalità di

9 Si veda a tale proposito Elias 1980, nota 1 a pag. 298-300.

10 Per una trattazione storica che tenga conto di diversi ambiti, staccandosi da quello

strettamente legato all’alimentazione risulta particolarmente interessante l’opera di Ariès e

Duby.

commercializzazione dei cibi individuando una tendenza alla massificazione

e alla delocalizzazione dei prodotti: grandi aree geografiche e culturali sono

state adibite alla produzione di una limitata gamma di beni alimentari

(quando non addirittura ad una monocoltura), senza che ciò si riversasse sui

consumi; mentre alla specializzazione produttiva si è affiancata una

omogeneizzazione e una standardizzazione dei consumi (all’interno, però, di

una maggiore varietà di prodotti disponibili).

Fischler dedica un’attenzione particolare all’analisi degli effetti di questi

cambiamenti sul mangiatore moderno e sulle sue abitudini. Egli, cercando di

analizzare contemporaneamente i diversi ambiti in cui l’alimentazione ha

subito il cambiamento imposto dall’industrializzazione, sviluppa le sue

argomentazioni partendo proprio dal presupposto che ci si trovi di fronte a

un fenomeno che genera due tendenze distinte e apparentemente opposte: la

prima tendenza è quella che porta verso una progressiva omogeneizzazione

e standardizzazione dei consumi alimentari, nel senso che i mercati

alimentari di tutto il mondo sembrano offrire prodotti sempre più simili e

meno differenziati “geograficamente”; la seconda tendenza indica una

sempre maggiore diversificazione dei prodotti consumati.

La diffusione dei cibi nei grandi circuiti di commercializzazione, che è

risultata dunque strettamente connessa ai progressi nelle tecniche di

conservazione e dei mezzi di trasporto, è descritto da Fischler come un

importante veicolo di cambiamento: “E’ sugli scaffali dei supermercati, e in

particolare negli espositori refrigerati, che si sono visti comparire a ranghi

serrati i nuovi prodotti destinati a diventare fondamentali nella nostra

alimentazione. E’ qui che hanno proliferato prima gli yogurt (ancora venduti

in farmacia nell’anteguerra), poi i formaggi freschi e i dessert a base di latte,

i gelati e i surgelati. E’ sempre negli espositori dei supermercati che si sono

visti imporsi progressivamente il ketchup e i corn-flakes, l’ananas in scatola

e il succo d’arancia nel cartone, il caffè istantaneo e le bottiglie di plastica”

(Fischler 1990, 151).

Come conseguenza (soprattutto della prima tendenza) Fischler nota che “i

sapori forti, le specificità fondate su tradizioni locali, regionali, di territorio

tendono a diluirsi a vantaggio di un minimo comune denominatore”

(Fischler 1990, 150). La grande distribuzione introduce dunque una sorta di

“sincretismo culinario generalizzato”; le particolarità culinarie locali non

vengono annientate, disintegrate, ma contemporaneamente a quella che si

può considerare in un certo senso la distruzione di tali particolarità si assiste

all’integrazione in un sistema più ampio delle particolarità stesse, alla loro

diffusione su scala mondiale.

Non si tratterà più delle “versioni originali” delle ricette, quanto piuttosto di

versioni omogeneizzate o edulcorate. “Mentre dunque smussa le differenze

e le specificità locali, l’industria agroalimentare spedisce nei cinque

continenti delle specialità regionali ed esotiche, adattate o standardizzate.”

(Fischler 1990, 152). Fischler cita alcuni esempi che vale la pena

menzionare di specialità regionali che hanno ottenuto ampi consensi, con

versioni “universalizzate”, al di fuori della loro area (geografica e culturale)

d’origine: la mussaka greca, commercializzata in Francia dalla Findus per

conto della Nestlè, o il müsli svizzero sempre più diffuso nelle diete inglesi

e francesi.

2.3 MANGIARE FUORI CASA

Un dato importante con il quale le pratiche alimentari moderne possono

essere messe in relazione, in una prospettiva di lungo periodo, è l’emergere

di una sfera pubblica come elemento caratterizzante delle società moderne.

E’ con la modernità che si verifica una distinzione vera e propria tra una

sfera pubblica e una sfera privata che risultavano fino a questo periodo con-

fuse l’una nell’altra (Ariès 1986).

In questa prospettiva deve essere inquadrato il ristorante in senso moderno;

Mennell, Murcott, e van Otterloo ne forniscono una panoramica e

un’abbondante bibliografia di carattere storico-sociologico, con una

particolare attenzione alle diverse “funzioni” che questo tipo di locale ha

svolto nei diversi periodi storici (1992, 81-87). Da questa analisi si vede

come, con la progressiva privatizzazione della società in un senso, si

sviluppa nell’altro una domanda di occasioni di incontro, di contatto e di

scambio sociale; il ristorante appare offrire una facile occasione per

praticare questi contatti.

Alcuni osservatori contemporanei sono però pessimisti rispetto al fatto che i

ristoranti possano essere un effettiva occasione di relazione. Lo studio di

Joanne Finkelstein (1989) è particolarmente significativo da questo punto di

vista. Nella sua analisi il pessimismo nei riguardi del ristorante riflette le

preoccupazioni che molti osservatori esprimono sui destini della sfera

pubblica in generale nelle nostre società. Ma il lavoro ha anche un interesse

metodologico in quanto esemplifica e illustra, per un aspetto del sistema del

cibo, i rapporti con i molteplici fattori che costituiscono il passaggio a forme

“avanzate” di società moderne.

Finkelstein fornisce una serie di dati che indicano come negli anni ‘70 e ‘80

si sia verificata una vera e propria esplosione per quanto riguarda le attività

dei ristoranti. La spesa presso ristoranti, taverne e tavole calde si è, in questo

periodo, più che raddoppiata in tutti i paesi occidentali e, secondo certe

previsioni, verso la fine del secolo consumeremo due pasti su tre fuori casa.

Numerose sono le spiegazioni del dilagare di questo fenomeno. Una prima,

e più ovvia, spiegazione viene spesso offerta in termini di “economia e di

cambiamento dei modelli di famiglia” (Finkelstein 1989, 9); secondo questa

spiegazione il fatto che i membri della famiglia, maschi e femmine, passino

una parte sempre crescente della giornata lontano da casa fa sì che siano

sempre più richiesti i servizi dei ristoranti. Ma questa interpretazione

sarebbe esauriente se le massime concentrazioni di affluenza ai ristoranti si

verificassero durante la settimana lavorativa; al contrario, il fatto che la

maggior parte dei ristoranti lavora soprattutto nei week-end mette in crisi

questa spiegazione.

Anche l’interpretazione che vuole che al ristorante ci si vada per il piacere

fisiologico che deriva dal consumare cibo di qualità superiore, che non si

consuma abitualmente a casa, non convince la Finkelstein che sottolinea

come la fatica della digestione conseguente a un pasto al ristorante, unita al

fatto che spesso al ristorante ci si va per consumare “robaccia”, rendano

anche questa spiegazione insoddisfacente.

La spiegazione della fioritura di ristoranti osservabile nel nostro tipo di

società è da ricercarsi, secondo Finkelstein, nella particolare concezione e

organizzazione della sfera pubblica che di queste società è caratteristica. La

distinzione tra sfera privata e sfera pubblica, tipica, come si è detto, delle

società industriali occidentali, e la sempre più evidente prevalenza della

prima sulla seconda, fanno sì che sia sempre più sentita la necessità di un

momento di scambio sociale al di fuori della dimensione privata. Una facile

occasione per agire in questo senso è data proprio dai ristoranti che, con le

loro regole standardizzate e prevedibili, permettono di manifestare la

propria condizione sociale in un rassicurante teatro. In questa prospettiva

sono da leggersi, sempre secondo Finkelstein, alcune tendenze della pratica

alimentare contemporanea, come ad esempio il fatto che si moltiplichi il

numero di pasti (comprendendo spuntini, merende, aperitivi, ecc.) per

aumentare le occasioni di incontro sociale (Finkelstein 1989, 68)11

.

Ma Finkelstein sostiene, con particolare riferimento all’uso del ristorante

osservabile nelle società post-industriali, che “gli stili di interazione

incoraggiati dal ristorante creano una società incivile. L’artificio del

ristorante fa del pranzare fuori un esercizio di buone maniere disciplinato da

usanze che ci collocano in una cornice di azioni prefigurate. Pranzare fuori

ci consente di agire a imitazione degli altri, secondo nuove immagini, in

risposta alle mode, fuori dalle solite abitudini, senza bisogno di riflessione e

autoconsapevolezza” (Finkelstein 1989, 13).

Anche per Felice Liperi (1990) il ristorante incomincia, a partire dagli anni

‘70, a perdere la sua dimensione di luogo di incontro e punto di riferimento

“consapevole”, per trasformarsi in semplice luogo di consumo; questa

situazione di non-partecipazione alla sfera pubblica in maniera attiva e

critica, ma piuttosto di fruizione passiva, è secondo Liperi un dato che va

oltre la realtà dei ristoranti, per essere esteso ai luoghi di ritrovo in genere.

11

A proposito dei riti di aperitivo si veda anche Corbeau 1992

2.4 CIBO IN VIAGGIO: COLONIALISMO E MIGRAZIONI

Un altro aspetto che identifica le pratiche alimentari nelle società complesse

rispetto a quelle delle società tradizionali è la compresenza di diverse

concezioni del cibo, abitudini alimentari, “gusti” e tradizioni culinarie, e la

relazione che si instaura tra gli elementi che costituiscono questa diversità.

Questo argomento è stato studiato sotto diversi punti di vista e secondo

diverse impostazioni: Mennell, Murcott, e van Otterloo (1992) nel

presentare una panoramica generale sull’argomento hanno sottolineato

quelle che ritengono essere le due principali cause che hanno favorito il

contatto tra differenti cucine, e cioè il colonialismo e le massicce

migrazioni, soprattutto nel secondo dopo guerra. Goody (1982, 1989)

affronta l’argomento dimostrandosi interessato a quello che definisce il

processo di “mondializzazione della cucina”, osservabile in due distinte,

anche se collegate, manifestazioni: da una parte si verifica una sempre

maggiore reperibilità di cibi stranieri, dall’altra nasce un tipo di cucina che

Goody definisce “internazionale”, nel senso che non è specificamente

riferibile a questa o a quella cultura.

L’accelerazione del cambiamento per quanto riguarda molte pratiche

culturali, e l’avvicinamento progressivo tra luoghi e culture (almeno in

termini di collegamenti e comunicazioni) che si è verificato negli ultimi

decenni hanno messo in luce in maniera sempre più evidente la nuova

“mobilità” del cibo. Suzanne Cervera nota come l’intersecarsi dei legami

che si formano tra luoghi e tra culture sia spesso chiaramente individuabile

attraverso l’osservazione dei cambiamenti alimentari. In ogni epoca e nella

storia di ogni civiltà si osservano “infiltrazioni” da parte dei popoli e delle

culture confinanti e tali infiltrazioni hanno spesso avuto come avamposti gli

ingredienti e le ricette12

. Significativo a tale proposito è un episodio citato

da Cervera: durante un discorso di fronte ai senatori romani, Catone mostrò

un fico fresco “per dimostrare l’imminenza e la prossimità della minaccia

cartaginese” (Cervera 1995, 107). Questo esempio rivela anche un’altra

caratteristica con la quale il “cibo in viaggio” ha sempre dovuto fare i conti,

e cioè il carattere di diffidenza con cui ad esso si è sempre guardato. La

diffidenza verso i piatti di altre culture e di altri gruppi, talvolta persino il

più aperto disprezzo, sono stati spiegati in termini bio-psicologici da Rozin

(1976) nella formulazione di quello che ha definito il “dilemma

dell’onnivoro”, o in termini di difesa e arroccamento identitario secondo

altre impostazioni (de Garine 1979,1992; Beaulieu 1994; Scaraffia 1995).

Abbiamo visto numerosi esempi dell’importanza che il cibo può assumere

12

Massimo Montanari (1993) percorre la storia dell’alimentazione in Europa con grande

attenzione ai processi di “infiltrazione alimentare” e alle ragioni che sottostanno ai

cambiamenti osservabili nelle diete dei diversi gruppi nelle diverse arre geografiche e

culturali.

come elemento di distinzione dell’identità, e dell’uso “oppositivo” che su

questa base poteva svolgere: “La presenza del lardo e del maiale

nell’alimentazione dei cristiani aiutava anche, soprattutto nelle regioni di

frontiera, a distinguersi dagli ebrei e dai musulmani. In Spagna ce ne si

serviva per smascherare i falsi convertiti. Nei paesi limitrofi all’Impero

ottomano, come la Polonia, il maiale da latte aveva addirittura rimpiazzato il

tradizionale agnello pasquale, dato che il montone era visto come la carne

dei Turchi” (Scaraffia 1995, 31).

Un altro settore di studi collegati alla diffusione di cucine straniere in

seguito a fenomeni storico-sociali come il colonialismo e le migrazioni è

sviluppato da autori come Freedman (1973), Calvo (1982) e van den Berghe

(1984), che hanno approfondito in particolare il tema della cucina e

dell’alimentazione dei gruppi immigrati in relazione ad altre pratiche

culturali quali l’abbigliamento, la musica, ecc. Un interrogativo centrale di

tutti questi studi riguarda il rapporto tra le pratiche alimentari e i diversi

livelli di integrazione, di chiusura/apertura rispetto alla cultura ospitante o

alle altre culture con cui si trovano a convivere.

Altri interrogativi che scaturiscono dallo studio dei contatti tra pratiche

alimentari diverse riguardano il tipo di società che tali contatti potrebbero

favorire. Il problema è stato posto in particolare a proposito del significato

della crescente diffusione della cucina straniera nelle società post-

industriali. “L’occidentalizzazione del mondo da una parte, la

banalizzazione dell’esotismo culinario dall’altra danno dunque ragione a

quanti vedono nell’emergere del famoso ‘villaggio globale’ la morte dei

particolarismi?”, si chiede Sophie Bessis (1995, 12). Le risposte a questo

tipo di domande sono le più disparate. La scarsità di ricerche empiriche

sull’argomento e i residui di ideologicità che il dibattito suscita non rendono

chiarezza in merito. Si avrà modo di ritornare su questi interrogativi nei

prossimi capitoli, nei quali essi assumeranno un’importanza centrale.