Smool 27 2008

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Transcript of Smool 27 2008

immagini e parole da “Un treno per Auschwitz” (2005­2014)

Seguono tre numeri di Smoll, il giornale telematico creato nel portale delle scuole superiori modenesi: tre nu-!"#$%!&'&(#)*+$%,-../0-..12%+3"%4)%5$5)+"%"%+#")6$5)%#"7)8$&'"%7$%96:7"'6$%3)%7"7$+)6&%)44"%5&+$%7"$%+&"6)'"$%#$"'6#)6$%7)4%5$)(($&%)7%;:9+3<$68=%%>&'&%6"96$%7$5"#9$%?"#%!&7)4$6@%"9?#"99$5"%"%9(:)#7$A%!)%6:66$%9$%)?#&'&%9:%:'%:'$5"#9&%($&5)'$4"%+3"%5:&4"%B%"%9)0%!$9:#)#9$%+&'%"9?"#$"'8"%+&!?4"99"%"%C:&#$%7)44D&#7$')#$&A%+3"%7"5"%C)#+$%#$E"66"#"%9:(4$%96"#"&6$?$%+&'%+:$%9F#$()6$5)!"'6"%5"'(&'&%$7"'6$*+)6$=%

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Provincia di Modena - Progetto TED N° 27 - Marzo 2008

www.ted.scuole.provincia.modena.it/smool Provincia di Modena - Progetto TED - Rif.PA 2003-0004/Mo - D.G. 127/2003 Cofinanziato da:

Un altro treno, per Auschwitz

Giovani memorie – redazionale, Mario Agati (p. 2); Il treno correva veloce, quella notte, Beatrice Senese (p. 3); L’anima messa a nudo, svuotata, Riccardo Orlandi (p. 6); Solo le macerie

e le betulle sono rimaste ad urlare, Federica Belardo (p. 8); Un angolo di paradiso è l’anticamera della morte, Elena Ferrari (p. 11); Lì, c’erano i miei capelli, Federica Baffi (p. 13); Diversamente

sensibili, Milena Lazzaretti (p. 15); Capaci di scoprire, tratto da 00Willy (p. 17); Un silenzio sbigottito e rispettoso, Laura Bulgarelli (p. 18); L’eco dei nostri passi, Ambra Gozzo (p. 19);

Ma il cielo è grigio, Francesco Calzolari (p. 20); Se fossi rimasto a casa, Filippo De Pietri (p. 22); Seduta su un muretto del block 21, Diana Dimiddio (p. 23)

Foto di Francesco Martines

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Giovani memorie (redazionale)

Mario Agati

Anch’io sono stato su quel treno, un anno fa.Anch’io mi sono ricercato fra le immote baracche di Auschwitz. E ho calpestato fragile l’immensa as-surdità di Birkenau. E anch’io, giorni dopo, nella quiete ovattata del mio studio, ho provato a dare una veste dignitosa agli appunti sparsi su taccuini improvvisati, e ai frammenti di pensieri ed emozioni che s’erano impigliati nella mente. Furono eterni minuti, forse ore, di lacerante impotenza verbale. Nessuna parola mi sembrava adatta a cristalliz-zare sulla pagina gli inquieti turba-menti di un’esperienza tanto devastante. Nessuna alchimia lessicale mi pareva adeguata ad esprimere i dubbi filosofici sulla presunta scintilla divina che anima – o dovrebbe animare – la razza umana. Nonostante il doloroso travaglio non riuscii a partorire il mio pezzo. Per fortuna i ragazzi, molti ragazzi, furono assai più coraggiosi e abili di me. E scrissero i loro pezzi. Diedero corpo d’inchiostro alle loro anime turbate, ai loro increduli pensieri, alle loro irate sensa-zioni, al desiderio franco di incidere buon senso a futura memoria. Ne uscì un numero speciale di SMOOL. Un numero vibrante, meditato e intenso. Un numero di cui andiamo fieri e che ciclicamente riproponiamo all’attenzione dei ragazzi che vogliono sapere e ricordare. Quest’anno non avevamo intenzione di dedicare un altro numero al treno per Auschwitz. Avevamo il ti-more di banalizzare l’evento incartandolo in una sorta di routine, di consuetudine celebrativa. E così avevamo già pronto il nostro numero marzolino, fatto di sfoghi giovanili, e pagine d’amore, e ver-si di rabbia, e tenere notti, e rumori adolescenti e avvisaglie di sensuali primavere… Poi, una sera, navigando fra i blog dei miei redattori, sono inciampato incauto nel post di Beatrice che raccontava con garbo e meditata passione del suo treno per Auschwitz. E poi, sono stato catturato dal post di Milena che argomentava con inusuale saggezza la sua incapacità di piangere di fronte a tanto illogico dolore. E poi… Così, ho chiesto ai ragazzi di SMOOL se non era il caso di tornare sui nostri passi per dedicare, ancora una volta, un po’ di spazio a quel treno che ogni anno ci costringe a non scordare. E in pochi minuti, sul tavolo della redazione, sono ricomparsi i diversi contributi che sull’evento già ci avevano inviato i ragazzi di varie scuole: il racconto vibrante di Federica, l’anima denudata di Riccardo, il silenzio sbigottito di Laura, il graffio poetico di Filippo, i sofferti diari di Ambra, Diana, Elena, Federica, Francesco… Ne è uscito uno SMOOL adulto e meditato, con un sano retrogusto di aura celebrativa e ansia di consuetudini e tradizioni . A peritura testimonianza del fatto che i nostri ragazzi - i ragazzi di questa generazione tanto vituperata dalla leggerezza cognitiva dei media - sanno essere grandi nel cuore e nel pensiero.

Il materiale è stato raccolto grazie alla preziosa collaborazione di Federica Gibertini

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Il treno correva veloce, quella notte

Beatrice Senese

Una sottile custodia di plastica, trasparente e sci-volosa, sulla cui superficie sono state tracciate con un pennarello nero le parole: “Riflessioni sul viaggio”. All’interno, un cd riscrivibile, come se ne trovano a migliaia in tutti i discount della città. Lo prendo, lo tolgo dalla custodia e lo metto den-tro al lettore, premo play. La prima cosa che mi colpisce, appena il cd inizia il suo folle giro, è il rumore del treno: si potrebbe quasi dire fastidioso, perché in molti momenti disturba non poco la registrazione. Eppure, è certamente stato questo suono insi-stente a caratterizzare tutto il nostro viaggio; e ora è anche il primo che mi fa rivivere quei mo-menti in treno, nel nostro piccolo e accogliente scompartimento. Dal lettore escono, uno dopo l’altro, tanti altri suoni, rumori, bisbigli, scricchiolii e colpi di tosse, che, come frammenti di un puzzle, vanno a com-pletare quella scena che si sta facendo largo nella mia memoria. E il cd gira, gira… Ecco, sono di nuovo lì: lo scompartimento lungo e stretto, i sedili scomodi sui cui si ammassano zai-netti, giacche, berretti, libri e soprattutto ragazzi dall’aria stanca che si parlano e si ascoltano; se alzo gli occhi vedo le nostre valigie, premute tra loro nelle griglie scure poste sopra le nostre teste. Penso che tra poche ore, a casa, sfarò la valigia e dormirò nel mio letto, ma non riesco davvero a figurarmelo, adesso: mi trovo ancora sospesa in questo ritaglio di mondo lanciato a tutta velocità nel buio della notte su due rotaie, e questo è an-cora territorio di dubbi, paure, insicurezza, men-tre la parte di noi che è rimasta a passeggiare per i sentieri grigi e silenziosi dei campi sembra anco-ra abbastanza vicina da far male… sono di nuovo là, sul treno per Auschwitz, e mi basta sentire le parole dei miei compagni di viag-gio gettate nell’aria: “baracche”, “betulle”, “filo spinato”, per vedere di nuovo davanti a me, reali come non mai, gli edifici e i luoghi che ho visitato in questi ultimi due giorni. Qui dentro tutto è sicuro, caldo e molto intimo; nulla mi fa più paura, l’oscurità che preme contro il finestrino non sembra altro che un brutto sogno distante e lontano – eppure c’è qualcos’altro, qualcosa che ci portiamo dentro tutti noi, e que-

sto fa molto più paura, e anche se è nero e cru-dele non c’è modo di lasciarlo fuori dalla porta o al di là dal vetro. E forse è solo una consapevolezza che ha il sapo-re amaro di una ferita – gli uomini non sono buo-ni, ecco, non sono più una bambina, stavolta non verrà la mamma a svegliarmi dicendo: “è stato solo un brutto sogno, la realtà è un’altra”, adesso lo so e nessuno mi toglierà questo peso, mai più. Sprofondati nei nostri sedili, ci sentiamo pesanti, abbattuti, stanchi. Le nostre parole – che dopo-tutto non sono altro che parole, eppure… le no-stre parole sono gravi e dolorose, e le nostre voci tremano (posso sentirlo anche ora, nella registra-zione: siamo tutti turbati, siamo tutti sconvolti). Di fianco a me, Martina: la guardo, e mi chiedo: quanti anni, ormai, ho trascorso vicino a lei, vo-lente o nolente? Siamo in classe insieme dalla prima superiore, e, adesso, siamo in quarta L’ho vista stanca e abbattuta e snervata e dispia-ciuta e arrabbiata un numero infinito di volte – certo, l’ho vista anche sorridere, e scherzare, ma questo ora non c’entra. Vedo sul suo volto un’ombra diversa da quelle che l’hanno attraversato fino ad oggi – ombre

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leggere e futili come il compito di latino o il litigio con la compagna di banco. Vedo la sua mano nervosa che tormenta i capelli castani, e gli occhi stanchi. Mi rispecchio nella sua figura, immagino i miei occhi ancora più tristi, il mio volto corrucciato come quello di una bambina che ha scoperto il suo primo, vero dolore. Di fronte a me, seduto composto nonostante la stanchezza e la situazione intima ed informale, Orlando è cupo e corrucciato a sua volta: mi fa un effetto strano vederlo così, lui, che perfino men-tre visitavamo i lager aveva saputo illuminarsi in un sorriso quando ci vedeva tristi o sconvolti, riu-scendo sempre a rincuorarci. Penso l’opposto, osservando il suo volto aperto, dai tratti regolari: fino a qualche giorno fa non sapevo neppure della sua esistenza, e invece è una persona incredibile e meravigliosa. Ma sono portata a pensare questo di quasi tutti coloro che hanno viaggiato con me su questo tre-no, lo ammetto. Starò davvero dando un giudizio poco attendibile? Decido che non m’importa: provo un sentimento di condivisione assoluta, in questo momento, ver-so i miei compagni di viaggio, e non vedo perché dovrei crucciarmene. Dopotutto, è di questo che ho bisogno, tutti ne abbiamo bisogno. Orlando ora sta parlando, parla del campo, delle sue impressioni, di un certo ingresso laterale di Birkenau che lo ha impressionato più d’ogni altra cosa: si esprime in modo impeccabile, rigoroso come sempre, nonostante l’emozione che trapela dalla sua voce e che leggo nei suoi occhi; il suo sguardo è perso nel vuoto. Sopra di lui, arrampicato sui lettini in alto – prov-visti di scalette, ovviamente, ma noi non siamo in grado di montarle, e così quei posti lassù riman-gono appannaggio di pochi “contorsionisti”, come li ha chiamati, per scherzare, Irene, che salgono aggrappandosi a questo o a quello spigolo – c’è Andrea, e lui sembra l’unico distante e sicuro, tra noi, o forse è perché è troppo grande, troppo bel-lo, con quel volto da angelo caduto e quell’aureola di riccioli d’oro, e pare impossibile che possa avere bisogno di sentirsi vicino a tutti gli altri, di condividere i suoi pensieri… Ascolta per lungo tempo, ma parla poco, e quando lo fa la sua voce è grave, e i suoi occhi grigi vagano qua e là, persi nel ricordare ciò che lo ha colpito. “Quanto era inconsapevole, ignara, la gente che aspettava tra le betulle” dice, e tutti rivediamo la grande foto d’epoca che mostra un gruppo di de-portati, ancora vestiti, sorridenti e ignari, seduti

sulle loro valige, che aspettano la loro terribile sorte tra quelle magnifiche betulle che noi abbia-mo visto solo il giorno prima: così alte e slancia-te, la corteccia bianca screziata, bellissime e dirit-te nella luce del sole, e una stretta al cuore al pensiero degli orrori che devono aver visto quegli alberi. I prof sono con noi, ci guardano con strane e-spressioni assorte, ci ascoltano – e questa è la cosa davvero bella, bella e incredibile: ci ascolta-no, a quanto pare con molta più attenzione e par-tecipazione di quanto noi abbiamo mai ascoltato loro. Li guardo e penso a quanto ci sono stati vicini in questi giorni, e a quanto è stato bello infrangere queste stupide e tristi barriere che ci avvolgono, nella vita di tutti i giorni – mai chiedere qualcosa a un professore, confidarsi, fargli anche solo un mezzo sorriso, potresti passare per il lecchino di turno. Ma durante questo strano viaggio c’è stato spazio per l’empatia, per il dialogo, per le risate fatte tutti assieme anche con loro, per moltissime altre cose fuori dall’ordinario. Adesso si guardano, e la prof di storia, così giova-ne e sempre sorridente, ma con gli occhi che sembrano tanto profondi per il dolore che prova nel rivivere i momenti passati a visitare i campi della morte, sta dicendo piano al prof di religione che tra poco dovranno andare nel vagone risto-rante per assistere ad una riunione riservata ai professori , per discutere dell’esperienza… lo dice sottovoce, rispettosa, perché Giacomo sta regi-strando. Giacomo è lassù, disteso accanto ad Andrea, infa-gottato nella sua felpa scura, non sembra neppu-re lui: ha messo da parte quella sua aria malizio-sa, oggi, perché è molto turbato, e si vede. E, con la sua incrollabile fiducia nella tecnologia, a me del tutto incomprensibile, si è messo a regi-strare quello che raccontiamo: a distanza di quasi un mese da quel momento, riascoltando il cd, devo riconoscergli che è stata davvero una bella idea. In un angolo, quasi accovacciata contro lo schie-nale, di fianco alla prof di storia, c’è Milena: an-che i suoi occhi sono grandi e profondi, mentre riflette. Lei, però, se ne sta in silenzio, e non vuo-le dire una parola. Dopo tutte le cose passate insieme, mi ha fatto piacere trascorrere anche questa esperienza ac-canto a lei, sapendo che potevo contare sul suo aiuto e la sua comprensione, su di una persona con cui ho un’intesa quasi perfetta – anche se abbiamo visto le stesse cose e percepite in ma-niera tanto diversa, è bello essere insieme ancora

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una volta, un motivo in più per aprire il cuore, in presenza di un’amica tanto fidata, senza aver pa-ura. E trovo che sia stato davvero importante riuscire, in questo momento, ad aprire il cuore e la mente, a condividere tutte le sensazioni e i pensieri op-primenti che mi hanno presa durante la visita ai campi di Auschwitz e Birkenau, perché la prima reazione che viene spontanea, di fronte a tutto quell’orrore, è di chiudersi in sé stessi, e fuggire il contatto con gli altri. Ricordo il momento in cui camminavo per Au-schwitz, quando bastava che uno dei ragazzi del mio gruppo mi si avvicinasse e chiedesse “va tut-

to bene?” per farmi scoppiare in lacrime al pen-siero che qualcuno potesse credere che potesse ancora “andare tutto bene” dopo quello che sta-vamo vedendo. Molti altri compagni hanno detto di avere sentito il bisogno di isolarsi; poi però si sente anche il bisogno di rielaborare, di condividere, e allora per fortuna che il treno correva tanto veloce, quella notte, da farci scordare il tempo che passava e la realtà a cui tornavamo, per permetterci, sempli-cemente, di parlare e di ascoltarci.

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L’anima messa a nudo, svuotata

Riccardo Orlandi

Sono passate ormai due settimane dal ritorno dal viaggio che mi ha condotto a “visitare”, se così si può dire, i campi di lavoro e di sterminio di Auschwitz e Birkenau. Due settimane di riflessio-ne, di rielaborazione, per quanto possibile, di un’esperienza che molti definiscono unica. Eppure, nonostante i miei sforzi per cercare di tornare alla “normalità” modenese, non sono an-cora riuscito a liberarmi di alcune immagini, flash, sensazioni, che, probabilmente, rimarranno in me e con me per sempre. La prima emozione che mi porto dietro ancora oggi, e che non mi so spiegare del tutto, è una sorta di timore, di paura, quasi, che mi ha accom-pagnato per tutto il viaggio di trasferimento da Cracovia ad Auschwitz 1, il campo base, matrice di tutti i successivi. Benché avessi già visitato al-cuni campi alcuni anni addietro, mi sentivo turba-to, forse inadeguato a ciò che stavo per vedere con i miei occhi, quasi come se, nonostante le lezioni, gli incontri preparatori al viaggio, mi sen-tissi, in ogni modo, troppo impreparato a soste-nere il dolore e l’emozione che, di lì a poco, mi dicevo, avrei provato sulla mia pelle. Poi, una volta nel campo, un’altra sensazione si è impadronita di me, qualcosa che raramente avevo provato in precedenza. Un vuoto totale, silenzio-so, mi ha pervaso; qualcuno lo ha definito come una impossibilità di reagire ad un dolore secco, freddo e insensato, e forse è così. Davanti alle montagne di capelli, di scarpe, di occhiali, non sentivo e non provavo niente, se non un nulla soffocante, che mi faceva trascinare i piedi, e il mio intero corpo, da una stanza all’altra, quasi per inerzia. Così è successo anche davanti alle celle cieche, nel tremendo Block 11, di dimensioni 90 x 90 x120 cm entro le quali le SS spingevano a forza fino a quattro persone che, di norma, morivano per soffocamento. Così è stato davanti al cosiddetto “muro della morte”, dove migliaia di detenuti furono uccisi, prima dell’attuazione dell’omicidio di massa per gassazione, con un colpo di pistola alla nuca. Il nulla. Soltanto un grande silenzio dentro e fuori di me, gli altri del gruppo ugualmente afasici e inespressivi.

Emozioni molto simili mi hanno accompagnato nella visita al campo di Birkenau, rese, tuttavia, ancora più intense dalla frastornante immensità di un sistema di morte ampio 200 ettari. Qui, an-cor più che ad Auschwitz 1, dove, a mio parere, è stata effettuata una eccessiva “museizzazione” del dolore, l’anima è messa a nudo, svuotata di tutto, a causa del senso di orrore e di smarri-mento che ho provato nel block dei bambini, da-vanti ai resti dei forni crematori, o sul ciglio delle fosse in cui migliaia di cadaveri furono bruciati all’aria aperta, mentre il loro grasso era raccolto e rovesciato nuovamente sui corpi per favorire una più rapida combustione. Ma non è stato tutto ciò, per quanto macabro e raccapricciante, a rimanere attanagliato al mio pensiero, come un monito che ancora, periodica-mente, ritorna. Non è stato niente di ciò, per nes-suno di noi. Ad Auschwitz, nel suo – forse eterno – enigma, accade anche questo. Durante la visita al campo si può rimanere più colpiti dalla fotografia di una famiglia felice piuttosto che dalla descrizione dei metodi di gas-sazione, che permettevano lo sterminio di 2000 persone in poco più di venti minuti. L’orrore è una realtà di Auschwitz, non l’unica,

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non quella che rimane impressa in noi, sebbene sia sempre presente. E il non fermarsi davanti al macabro, all’eccessiva facilità di dire “oh, che co-sa orribile!”, è, forse, un modo per cercare di co-noscere meglio e di fare, in qualche modo, pro-pria l’esperienza del campo. Sono passate due settimane dal ritorno, e, duran-te questo periodo, ho avuto modo di fare un’ulteriore riflessione: Auschwitz è vero, e re-cente. A prima vista l’affermazione sembra banale – tutti sanno dell’esistenza dei campi –, ma vi è una dif-ferenza abissale tra la conoscenza della “storia” della Shoah, del funzionamento di un lager, e l’esservi dentro. La distanza che si percepisce dalla lettura di un testo di storia, o, persino, di una testimonianza, è annullata, è assente davanti alla scritta, sul cancello ancora originale,

“Arbeit macht frei”.

È una nuova consapevolezza: per la prima volta ho sentito veramente vicino, veramente sulla mia pelle, tutto quello che avevo letto, studiato, visto, ascoltato fino a quel momento. Questa consape-volezza si è formata in me con la pesantezza di un macigno; “vi comando queste parole / scolpi-tele nel vostro cuore”, diceva Primo Levi nella poesia introduttiva a “Se questo è un uomo”. Ebbene, Auschwitz ha scolpito le sue immagini nell’animo di noi ragazzi, immagini di accecante verità, testimoni di una nuova memoria da tra-smettere a voi, che vivete sicuri nelle vostre tiepi-de case.

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Solo le macerie e le betulle sono rimaste ad urlare

Federica Belardo

(dal diario di Federica Belardo – selezione a cura della redazione) Notte prima della partenza Ti ho sognato sai nonno, stavi bene, eri malato, ma stavi bene, e soprattutto c’eri, ma avevamo poco tempo… ma intanto eravamo insieme… era tanto che non mi capitava… sembravi proprio ve-ro… “i sognatori mentono” dice Shakespeare… non voglio tornare da questo viaggio senza poter-tene parlare… forse è proprio per questo viaggio che ti ho pensato così tanto, in fondo è come se tu mi avessi da sempre preparata, come se tutti voi, mi aveste sempre preparata… basterà? Non so… ho paura nonno… in parte ho paura di non provare abbastanza orrore, di rimanere fredda, impassibile e non venire colpita dall’effettività del posto, dal buio che ne deriva. Ho paura di delude-re le vostre e le mie aspettative. Ho paura di non riuscire a essere abbastanza coinvolta. Ho paura. E ho paura invece di rimanerne colpita per sem-pre, troppo colpita. Segnata indelebilmente. Ma credo che sia inevitabile. Ho paura del turbinio di sensazioni che potrò provare, e ho paura perché non avrò te a cui poterle raccontare. Venerdì 25 gennaio: Parto con l’intento di sfruttare e vivere appieno tutto… ogni singolo attimo, scorcio, odore… ho la voglia febbrile di cogliere ogni sfumatura. Non voglio “sprecare” nulla[…] …ci adattiamo ai nostri compagni di viaggio, e ci accorgiamo che stiamo bene, che diventiamo sempre più affiatati, forse perché tutti cogliamo una strana vibrazione, una nota non scritta… […] un filo che ci lega... Sabato 26 gennaio Ci svegliamo in un altro paese. L’Italia è passata. […]La mattina vola, consolidando le conoscenze con nuovi volti, nuove storie, tra gocciole offerte e partite a briscola, laghi ghiacciati e casette dei puffi. Voglio assaporare tutto e raccontartelo non-no. “Io scrivo ai morti. Spesso ci viene voglia di scrivere quando abbiamo vissuto la morte di una persona cara”. Io, nonno, ho sempre scritto per te […] La sera, dopo la conferenza e la cena siamo tutti in camera insieme, a chiacchierare e scambiarci sensazioni e ricordi, tra una risata e una confes-sione. Siamo sempre più vicini […]

Domenica 27 gennaio Sveglia troppo presto. Pronta in poco tempo, po-che parole, non servono… verso il pullman, e l’atmosfera è incredibilmente diversa. Silenzio. Un silenzio rispettoso, meditabondo. Poche parole quasi sussurrate, paure comuni, aspettative co-muni. “Stiamo andando ad Auschwitz… e pensare che un mese fa sembrava così distante”. È vero. Continuiamo a giocare a guardia e ladri col tem-po, ma questo ci prende sempre. Siamo sul pul-lman tutti insieme, ma rimaniamo in silenzio. O-gnuno con i suoi pensieri, la sua musica, le sue parole, le persone che ama in testa. ARBEIT MACHT FREI Silenzio. Ascoltiamo i rumori del campo, immagi-niamo di viverne gli odori. Non sono pronta, credevo di esserlo più o meno, ma non lo sono. E l’unica cosa che sono riuscita a capire qui dentro è che non esiste un momento in cui si è pronti. Non può esistere. Credevo che voi mi aveste preparata abbastanza. Credevo che sarei stata forte dei racconti della nonna, delle bombe che colpivano casa sua, oppure dei tuoi nonno, che mi dicevi di esser nato credendo che tuo padre fosse morto, quando in realtà era in un campo, e che anni dopo la fine della guerra è tor-nato, e che tu non potevi nemmeno immaginarti chi fosse. Credevo che i film sui partigiani, le sto-rie dello zio mi avrebbero aiutata. E invece no. Ero in mezzo all’orrore. L’orrore muto, buio, che

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non ha spiegazioni, e non può averle, che non è giusto che le abbia. L’orrore cieco. E non ero pronta. Ma sono entrata dal cancello, cinico e pic-colo, molto più piccolo di quanto credessi, strin-gendo la mano del nonno, come lui avrebbe volu-to, come lui mi ha insegnato. E con lui porto con me altri 1000 e 1000 volti con un nome e una storia, che mi aiutano in questo viaggio, e che non abbandono per paura di perdere. Perdere uno di questi volti sarebbe come ammazzarli nuova-mente. Non stiamo parlando di numeri, ma di storie. Di uomini. Ogni valigia ha un nome, una data, un luogo. Sono rimasta minuti interi davanti a quelle valigie a leggere ogni nome, ognuna con una scrittura diversa. Anche i colori erano diversi. Credo che non potrò mai dimenticare quelle scritture. Ora sono dentro di me. Passo in mezzo a un corridoio di un Block e mi sento mitragliata da un numero infinito di occhi: sguardi terrorizzati, incazzati, spiazzati, vacui. Ogni sforzo di trattenere le lacrime, le sensazioni qui è vano. Sono posta davanti alla realtà, ma continuo a non capire. Non posso capire. Credevo che entrando da quel cancello sarei stata investita da un vorti-ce, ma il vortice non è arrivato, ho sentito un for-micolio, una sorta di fastidio, di malinconia, e sì, anche paura. Ma non ne sono stata travolta. Ma davanti a quelle foto, davanti a quelle valigie, davanti a quelle scarpe, davanti a quella foresta di capelli, davanti ai vestiti di bambini, lì sono stata travolta. Lì avrei voluto urlare scappare bru-ciare morire uccidere condannare lacerare. Lì a-vrei voluto non esistere, avrei voluto essere non umana, mi sono vergognata. Mi sono chiesta co-me possa un uomo arrivare a privare un altro si-mile della propria identità. Mi sono vergognata di essere un essere umano. Ho tentato di raccogliere ogni valigia, ogni trec-cia, ogni scarpa e di imprimerli dentro. Ma non so se basterà. Ora è di nuovo notte. Ho ancora nelle orecchie la ninnananna… si alterna con “siamo i soldati della palude, andiamo a lavorare…”. Silenzio, niente musica, ma solo quella nella mia testa, libri sul comodino, la pelle nuda che sfrega con il piumi-no… adoro il contrasto tra il freddo fuori e il caldo sotto le coperte, a contatto con me… qui, in que-sta pace innaturale sono alla ricerca del mio pun-to di rottura. Ma non riesco a trovarlo. Lunedì 28 gennaio Dopo un’altra notte molto breve, di nuovo la sve-

glia. Silenzio di nuovo. Abbiamo capito che le pa-role sono superflue ora. Pullman sempre abitato da una tensione strana. Alberi di betulle ovunque. Paura. Sole. Ci avviciniamo a Birkenau, il campo di sterminio. Il cuore impazza, deciso a non fermarsi, gli occhi che non riescono a cogliere tutto, e allora lascio viaggiare la mente, l’anima, o quello che è, sub-conscio, non so. So solo che qualcosa dentro di me sta scalpitando, fremendo, urlando, ruggendo, vuole essere testimone del crimine, e intanto ha paura. Una paura folle. Paralizzante. Perché paura? Non lo so. Ma è l’unica parole che riesco ad attribuire a questa sensazione. Non lo so. Scendo con il sole che mi colpisce i capelli, e mi fa socchiudere gli occhi per vederci meglio. Il filo spinato. La foresta di betulle che costeggia il campo e nasconde l’orizzonte. Dentro mi sento minuscola. È sconfinato, infinito. Mi sento davvero piccolissima in mezzo all’universo. Sono smarrita e persa. E c’è il sole. Baracche ordinate, in fila. Poi macerie di quelli che erano i forni, le camere a gas. Solo le mace-rie e le betulle sono rimaste ad urlare l’orrore che hanno visto, di cui sono state complici costrette. Mi sento immensamente pesante. E anche tu nonno, davanti a questa distesa di nulla sei quasi scomparso. Mi sono sentita incredibilmente sola. Come non mi era ancora capitato. Ho ripercorso i binari. Li ho seguiti con lo sguardo. Immaginare non basta, non ci si riesce, siamo paralizzati e l’unico modo per portare avanti la memoria è rac-cogliere il silenzio, credo, e cercare un modo, ma-gari più avanti, per farlo urlare […] Ci raduniamo tutti intorno al monumento dedicato ai prigionieri… c’è il discorso prima della fiaccola-ta… ogni viso è chinato… a volte qualcuno si alza coprendosi gli occhi per guardare chi sta parlando o leggendo… siamo tutti commossi, chiusi nel no-stro dolore, nelle nostre sensazioni, nelle lacrime che vorremmo versare e in quelle che non siamo riusciti a trattenere. Poi il sole. Sembra tutto irre-ale. “Non ci sembra vero che un posto così apparente-mente innocente possa esser stato fatto così col-pevole”. Martedì 29 gennaio Il pullman era silenzioso, e il treno sapeva di ri-torno. […] mi siedo nel mio scalino in corridoio. Incrocio lo sguardo di Silvia […]Si siede vicino a me, e anche lei si sente esattamente così, scombussola-ta. Siamo turbate e non abbiamo voglia di fare nulla, se non rimanere lì sedute insieme, in silen-zio scambiando solo 2 o 3 parole, perché abbiamo capito in questo viaggio che le parole a volte sono

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davvero superflue. E così passano i km e il tempo, e ogni secondo ogni metro è un passo in più verso casa, verso la realtà. Mercoledì 30 gennaio Di nuovo io e la Silvia in corridoio, casse, e Cisco che canta tutto ciò che per noi è inesprimibile. Le sue parole, anzi le loro parole sono la musica del nostro viaggio, e lo saranno sempre, e noi le ur-liamo a tutti quelli che hanno voglia di ascoltarle, e ci guardiamo sorridendo e ballando, senza ver-gogna, libere e consapevoli. “Buon viaggio erma-no cherido e buon cammino ovunque tu vada, forse un giorno potremo incontrarci di nuovo lun-go la strada… che le stelle ti guidino sempre e la strada ti porti lontano”. “Addio, addio e un bic-chiere levato al cielo d’Irlanda e alle nuvole gon-fie… e un brindisi anche agli gnomi e alle fate, e ai folletti che corrono lungo le strade”[…] Stazione di Carpi…affacciate al finestrino guardia-mo la gente scendere… occhi lucidi, sensazione indimenticabile, ancora musica… […] “una mattina mi son svegliato o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao…”

Parecchi giorni dopo Ho passato l’ultima settimana cercando di rima-nere sempre fuori, di non tornare a casa, o co-munque di non rimanere sola. Mi tengo occupata. E fortunatamente, grazie a tutti gli amici che ho non mi è difficile… Ora sono ferma, sono in casa da sola… divano, televisione spenta, computer, musica bassa sotto, e io e basta… io e le mie parole, le mie emozioni. Finalmente ci faccio i conti, ci sbatto contro… oc-chi lucidi, e mente confusa, emozionata, istintivi-tà, scrivo di getto, senza tanto pensare, come faccio sempre quando sto male. Scrivo a me. Uso il “foglio” come specchio. E mentre scrivo, non posso mentire. Forse perché questo specchio, questo foglio, è come se fossi tu nonno. Scrivo per raccontarti tutto. Tu sei un ottimo ascoltato-re: non mi interrompi, non fai facce strane, non ti metti a ridere se non è il momento, non mi imba-razzi, non cambi discorso, non mi fai domande difficili, ascolti solo quello che in quell’istante so-no pronta a dirti…

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Un angolo di paradiso è l’anticamera della morte

Elena Ferrari

(dal diario di Elena Ferrari – selezione a cura della redazione) 25 gennaio C’era una gran folla a Carpi questo pomeriggio. A pochi metri dai binari seicento e più persone si sono incontrate, fotografate, salutate, scambiate impressioni e aspettative. Un fitto brulichio di chiacchiere ha dominato in sottofondo per lunghe ore di attesa, ma finalmente, dopo il passaggio al check-in, le parole solenni della cerimonia, le ulti-me foto ricordo, il treno è arrivato, lentamente, con la calma tensione con cui l’abbiamo atteso. E’ arrivato, e tutti noi siamo saliti assieme alle no-stre pesanti appendici. E’ arrivato, e adesso dondola dolcemente. […] La mezzanotte è trascorsa da appena dieci minuti e alla sarabanda generale, alla musica dei nostri cantastorie erranti, si è sostituito il frullare delle ruote sui binari, che per me suona come una nin-na nanna interrotta solo da qualche grida scon-nessa e dai passi di chi non è ancora stato vinto dalla stanchezza[…] Per un attimo il panorama che fugge oltre il finestrino e una folta brughiera decorata da qualche casupola mi fa catapulta fra i fiabeschi scenari di “Train de vie”: il mio animo si riempie, la mia mente si svuota. Penso a tutto e a nulla. Mi sono accorta di avere fame e freddo. 26 gennaio Alle 07.30 eccomi ancora di nuovo sveglia ad am-mirare il paesaggio: un verde potente, accarezza-to dalla fioca luce di un timido sole invernale, come me ancora assonnato. L’istinto di rapirlo è stato immediato: prendo la telecamera e ritraggo colline e cieli dai nomi sconosciuti […] Dopo aver attraversato infinite lande seminate di laghi e casette a punta, giungiamo alla stazione di Krakow. […] Le chiese e le università della capi-tale si stagliano imponenti con i loro pinnacoli verso un cielo puro, e sembrano non temere l’incessante vento del nord che sradica le nostre sciarpe. La Vistola lacera la metropoli e procede austera, senza fretta, come un’anziana signora dell’est […] Ore 21.00: dopo aver placato la fame ci dirigiamo verso il cinema Kyjev. La conferenza dello psico-terapeuta è scivolata lenta e riflessiva quanto una lezione del mio professore di psicologia, o quanto le chiacchierate filosofiche che intrattengo con mio padre durante i momenti vuoti. Il discorso ci

ha catturati: parlava di motivazione e coraggio […] 27 gennaio […] Camminando per le vie del campo di Oswiecim mi rendo conto di essere molto ignorante e povera. Mi sono accorta di non aver mai sperimentato davvero il significato di “avere fame” o “soffrire il freddo”, anzi, io non conosco neanche il significa-to di sofferenza in senso lato, per cui non so pian-gere lacrime vere… io da oggi non dovrei più pro-nunciare parole come fatica, tristezza, paura, per-ché sono termini a me completamente ignoti. Quante volte ci riempiamo la bocca di parole vuo-te e le vomitiamo così, ovunque e inutilmente, per di più con la superba certezza di saperle uti-lizzare e di avere il senso nelle nostre frasi. Invece no, la realtà è molto diversa: le parole non sono oggetti che si costruiscono e si rompono, ma sono cultura, storia, umanità; quindi ogni volta che decidiamo di inserire un certo termine nel discorso dovremo averlo scelto accuratamente dopo un attenta selezione, e poi rifletterci ancora per accertarci che sia quello giusto. In questo modo tutti penserebbero di più e parlerebbero di meno, e così facendo si eviterebbero moltissimi guai. Camminando per le vie del campo di Oswiecim ho visto le memorie di “Se questo è un uomo” pren-

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dere sostanza davanti a me. In quelle notti in cui non riuscivo a prendere sonno, in quei freddi po-meriggi di vacanze natalizie in cui mi dedicavo alla lettura del libro, la mia mente pullulava di fantasie orribili e lavorava, e produceva luoghi e scene ben precise che spesso si concludevano con l’ immagine della morte. Ora i volti degli haftling, la piazza dell’appello, il filo spinato, la gamella per la zuppa erano tutti sotto i miei occhi. Così mi ritrovo al primo piano del block 11, sono sola, nessun gruppo di visitatori è salito fin qui. C’è un lunghissimo corridoio alle cui pareti sono appese due file di ritratti dei prigionieri: uomini, donne, giovani e anziani, tutti così simili (il capo rasato, la bocca serrata, la camicia a strisce e un numero che li identifica) eppure così diversi; i loro occhi comunicano sensazioni indescrivibili e particolarissime, occhi che sono stati costretti a vedere l’orrore… Improvvisamente mentre osservo tutto questo, mi sento inghiottita dal silenzio, e aggredita da quegli sguardi: dieci, cento, mille occhi spauriti e interrogativi verso di me sembrano tornare a muovere le pupille e sbattere le palpebre in cerca di risposte. Ma io non ho risposte. Dunque l’istinto mi spinge a fuggire, colta da un moto di ansia, e prima che me ne renda conto sto correndo per le scale, in discesa, verso l’uscita. Camminando per le vie del campo di Oswiecim, ci guardiamo intorno e ci guardiamo negli occhi, nessuno ha voglia di parlare, di commentare. Mi sovviene la canzone di Francesco Guccini “Ad Auschwitz tante persone, ma un solo, grande si-lenzio”.Vale anche per noi, per oggi. Noi studenti italiani siamo in seicento, più la comunità ebraica, e il gruppo visita polacco… siamo davvero in tanti, e siamo diversi, proprio come allora... e ugual-mente silenziosi. Questo campo sembra destinato per sempre all’assurdo, dopo quello che ha visto, ora ode il silenzio di una moltitudine che non suona. Camminando per le vie del campo di Oswiecim è accaduto un fatto singolare. Ce lo avevano de-scritto come il luogo più freddo del mondo (e per certi versi lo è) così mettendo a punto le nostre valigie ne abbiamo dovuto tener conto: tuta da sci, scarponi, guanti e cappelli all’inverosimile. Poi siamo giunti al lager e invece ci ha accolto quel timido sole nordico, e un vento di media intensi-tà... quasi amarezza, quasi dispiacere di non po-ter vedere Auschwitz nelle condizioni peggiori. Poi, come se il cielo avesse scrutato fra i miei pensieri, e letto il mio desiderio, ecco alzarsi il vento, cadere una pioggia sottile, ed improvvisa-mente la neve. Prima fioca, poi incessante, scesa

come atto supremo a battezzare per sempre i nostri ricordi. Venuta la sera la performance di Carlo Lucarelli viene a dar voce a quel silenzioso pomeriggio ap-pena trascorso parlando di memoria, persone, esperienze e numeri… 13 morti al minuto... non si riesce razionalmente a pensare alla sistematica scomparsa di un determinato numero di esseri umani al ripetersi di un intervallo di tempo: 13 in un minuto, 26 in due minuti, 195 in un quarto d’ora… 12 milioni in 5 anni... 28 gennaio Birkenau aveva molta fame. Con la sua bocca larga 175 ettari si è inghiottito milioni di corpi avidamente, inesorabilmente. Io non so se esista un Dio, un regno dei cieli... certamente me lo auguro... non so nemmeno se esista un inferno, ma anche ammesso che esista, credo che l’uomo sia riuscito ad inventarne uno molto peggiore rispetto a quella dimensione oltre-mondana che noi ci figuriamo… se non altro, l’inferno dopo la morte serve a scontare una pena che risponde a crimini e peccati commessi in vi-ta… per chi ci crede ha un senso. Ma il senso di questo regno di gas e fiamme qual è stato? Quale la ragione di un tale immotivato sterminio? Uomini lavoratori e padri di famiglia, donne con la vita in grembo, bambini dal futuro negato… come si è permesso il nazismo di decide-re della sorte di così tante vite umane? con che assurdo coraggio? dietro quale bandiera? In che modo il seme dell’odio e dell’intolleranza si è diffuso nel cuore di così tanti tedeschi? E perché ciò accade anche oggi in tutte le parti del mondo? Dunque non abbiamo imparato proprio nulla da ciò che è stato… […] Ciò che più riesce a sconvolgere di Birkenau non sono le baracche di mattoni così dannatamente uguali, non i resti dei forni crematori, non le foto ritrovate fra gli oggetti personali dei prigionieri che ritraevano volti vividi e scene di quotidianità… ma è senz’altro la bellezza della sua natura. Brze-zinka è il nome polacco della cittadina, e ha in sé il termine “betulla”: proprio a due passi dal bina-rio morto si erge infatti un vasto, avvolgente, bo-schetto di betulle... così bianche ed esili, così me-ravigliose nella purezza delle loro foglie, e si specchiano in un piccolo laghetto assieme ai raggi del sole… si direbbe quasi un’ oasi di pace, dall’aria che pizzica il viso e dall’odore di erba che apre i polmoni. È davvero triste pensare che questo angolo di paradiso sia stato per molti l’anticamera della morte. […]

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Lì, c’erano i miei capelli

Federica Baffi Ma che ore sono? Mmm… Che sonno! Cos’è que-sto profumo? È la torta, quella al cioccolato che mi piace tanto! Ma che giorno è? Oggi, è il giorno del mio del mio compleanno! Vedo dalla finestra entrare dei raggi di sole. Che bello! Durante la notte la neve ha coperto tutto, rendendo le cose immobili, come statue di marmo che osservano in silenzio. Il sole darà calore agli alberi, alle case, rendendo l’atmosfera fiabesca. Sicuramente la mamma mi darà un bacio, e ap-poggerà sul comodino una fetta di torta ricoperta di zucchero a velo, accompagnata da un biglietto e qualche soldo che userò per comprarmi tante caramelle. Mia sorella uscirà all’ultimo momento per trovarmi un piccolo pensiero. Secondo me mi regalerà un foulard che in questo periodo le don-ne perbene usano per acconciarsi i capelli. Lei segue molto la moda: l’anno scorso mi aveva re-galato una stupenda spilla in stoffa a forma di fiore. Mio padre mi guarderà in silenzio: lui dice tutto senza usare una parola, e mi darà un pacco con il mio regalo chiuso da un bel fiocco rosa. Così mi alzo, vado di là da loro ancora immusoni-ta, ma mentre attraverso il corridoio un forte ru-more mi fredda: ci sono degli uomini, hanno rotto la porta con un calcio, cosa vogliono? Chissà papà come si arrabbierà. E invece no… no… papà sta zitto e abbassa gli occhi, mentre uno di loro in una strana lingua urla qualcosa di incomprensibi-le. Poi, velocemente, come sono entrati, sono usciti. Mia madre si agita e, terrorizzata, prende dall’armadio due grandi valigie e le riempie di tutto: abiti, foto, pettini, scarpe. Mia sorella gri-da: “Dove andiamo?”. Quando le viene data ri-sposta corre da me, dicendo di nascondere nelle tasche e sotto la giacca più dolci e caramelle pos-sibili. Io, incredula, guardo tutta quella frenesia, quell’ansia che giace sul volto di mia madre. Fatti i bagagli usciamo di casa, dietro di noi una folla carica di valigie. Un uomo dice a mio padre che dobbiamo fare un lungo viaggio. La meta? Un campo di lavoro. Arrivati in stazione, un lungo treno formato da tanti vagoni per carico merci… Penso che evidentemente il nostro treno deve ancora arrivare, invece… I soldati ci buttano come sacchi alla rinfusa in quei vagoni. Stringo la mano a mia sorella e dico: “Ho paura”, e lei per rassicu-rarmi mi guarda e sorride, finché afferrano anche noi. Vedo gli occhi di mia madre spalancati e le sue mani incrociate in una preghiera. Siamo stretti, tutti in piedi, la gente urla e piange… Io ho

paura, poi solo un gran buio, e il fischio del treno che annuncia la partenza. Quel buio ci accompagna per ore, le ore diventa-no giorni… C’è puzza, un acre odore misto di su-dore e sporco, con ce la faccio più, come tanti altri ho bisogno di un bagno, così faccio, come tutti, i miei bisogni dove posso e scoppio in un pianto nervoso. Ho sonno… voglio uscire, mi sta venendo una crisi d’ansia; mia sorella mi dà uno schiaffo e mi dice di farmi forza. Di nuovo dopo tanto tempo il treno fischia e pian piano si ferma. Così, stanchi e impauriti, scendia-mo dai vagoni, stremati, e sporchi. Mia madre ci viene incontro con le valigie, e sono contenta di potermi cambiare. Ma… i soldati strappano le valigie dalle mani di mia madre che urla, mio pa-dre si lancia come un leone che difende il suo branco da un pericolo immane… Ma i soldati sono troppi e lo dividono da noi. Poi noto che fanno lo stesso con altri uomini e donne. Ora siamo in fila, come tante marionette. I soldati ci spogliano di tutto; io piango e cerco di coprir-mi, mi sento un verme. Mai sentita tanta vergo-gna. Mi guardo intorno, mi sembra di annullarmi; mia sorella guarda a testa alta, come se niente fosse… troppo orgoglio la pervade. Non ha freddo né vergogna, e scorgo in lei uno strano ghigno: ora lei non è qui, sta correndo su una spiaggia e diventa un tutt’uno con il mare che pian piano l’avvolge, ma per me quello è un incubo senza

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fine. I tedeschi ci osservano, a un certo punto con i loro visi di pietra iniziano a farci rapide doman-de, le risposte prevedevano direzioni diverse; io cerco il più possibile di dare informazioni simili a quelle di mia madre e di mia sorella, non voglio essere divisa da loro; i tedeschi volevano capire se eravamo utili o no, per lavorare per il Reich. Poi ci rasano i capelli e ci danno un pigiama di cotone, a righe, maleodorante, e un paio di zoc-coli. Il freddo si fa troppo pungente, e io piango i miei splendidi capelli che ogni sera spazzolavo con cu-ra, inoltre ci segnano il braccio con un numero: mia madre dice che quello è il mio nuovo nome, e io mi sento un misto tra un carcerato e una bestia di un gregge. Ogni giorno la stessa routine: lavorare nelle ore di luce, e ogni giorno arriva sempre gente nuova, e molti spariscono… finché scopro che ci vogliono morti… tutti. Ho paura, sono stanca… nel campo ogni cosa è proibita. Un giorno cado stremata a terra, i soldati urlano che mi devo alzare, ma il mio corpo non si muove: quella brodaglia e quel pezzo di pane non mi bastano più, sogno i pran-zetti di mia madre, e piango… piango. Le mie lacrime puliscono il mio viso terroso; mia sorella corre ad alzarmi, ma i soldati ci picchiano, così lei si alza tutta insanguinata e sputa addosso a un soldato. Il tempo si ferma, rallenta, vedo solo lei che mi guada e mi dice: “Fatti forza!” e mi fa l’ultimo dei suoi bellissimi sorrisi… un colpo dietro l’altro la massacrano con la parte posterio-re del fucile, finché sparano e la uccidono. Mia

madre si scaglia contro i soldati che aprono nuo-vamente il fuoco. Io svengo. Al mio risveglio mi ritrovo in una cella larga 60 centimetri per 60, e al suo interno solo una fine-strella, da dove mi passano il cibo… sto morendo lentamente, urlo e piango… ho perso tutto, mi dispero a tal punto da essere indifferente: alla fame, al freddo, al dolore… ci sono riusciti… ormai non sono più nulla. Dopo una settimana di prigionia le articolazioni cedono, non riesco a tenermi in piedi, i soldati mi spogliano e mi buttano in un fosso, qui c’è gente morta, e mi chiedo cosa ho fatto per sopportare questo… come uomini possano fare male a degli innocenti. Mi abbandono alla morte, ora sono ne-gli alberi, nella terra, sono nel cielo. “Fede! Fede! Stai piangendo nel sonno!” Mi alzo dal letto come quando si va in apnea per troppo tempo e si cerca di risalire. Mi guardo intorno, mia sorella mi chiede cosa mai avevo sognato, ma non riesco a rispondere. Ora anche la più pic-cola cianfrusaglia mi sembra un tesoro. Così mi alzo, l’abbraccio e racconto tutto il mio incubo. Questo viaggio ad Auschwitz deve essere fatto da tutti, perché leggere semplicemente gli eventi su un libro non darà mai lo stesso impatto emotivo. Io in un momento ero diventata un numero, una foto fra centinaia di volti. In un momento lì c’erano i miei capelli, i miei occhiali, le mie scar-pe… In quel momento ero diventata cenere che vola nel vento!

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Diversamente sensibili

Milena Lazzaretti Appena tornata da Auschwitz, la prima cosa che mi ha chiesto l'Ila è stata: “hai pianto?” Va bè, lo sappiamo che all'Ila piace lo spettacolo del dolore, perché, se così non fosse, non si capi-rebbe cosa trovi di bello in tutta quella televisione che guarda. Comunque, alla sua domanda – come prevedibile da parte mia – ho risposto di no. Molti di quelli sul treno con me, invece, hanno pianto. E io mi sono sentita tremendamente insensi-bile rispetto a loro, perché non riuscivo a com-muovermi fino a quel punto, e me ne dispiacevo anche. Sono salita sul Treno per Auschwitz perché volevo rendermi davvero conto che “questo è sta-to”. Volevo vedere coi miei occhi e toccare con le mie mani i luoghi che hanno vissuto tanto orrore e tanta cattiveria. Non è che non ci credessi: ne avevo letto tanto! Ma leggere di Kapo che torturano ebrei - che in fin dei conti è leggere di esseri umani che tortura-no esseri umani - per me è leggere di storie as-surde, senza senso. Non riesco a concepire come si possa essere indifferenti davanti a un uomo ridotto a un osso, o a un bambino che pensa di fare la doccia e in-vece va a morire. Non ci arrivo proprio, a come abbiano potuto i Nazisti, in quanto uomini, con sentimenti e ragio-ne, aver preso parte a quel gioco, senza mai porsi una domanda, o senza mai fermarsi, o senza mai provare orrore, o senza mai dire “Basta!”. Io non lo capisco, perché non ce l'avrei mai fat-ta. Per questo sono salita sul Treno. E ho pregato che mi scegliessero fra quei 14 fortunati che a-vrebbero intrapreso l’avventura. E quando ho saputo che ci sarei stata anch’io, mi sono detta: “Vedi, Milena, ora capirai, e darai un senso a ciò che hai letto”. Invece, anche adesso che sono tornata, non rie-sco bene a capacitarmi che “questo è stato”. Cioè, so che ho camminato tra quegli stessi luo-ghi; che ho visto i block dove tanti prigionieri so-no morti soffocati o di fame; che il vento mi ha scomposto i capelli sotto una forca, dove, 70 anni prima, erano cadaveri di impiccati a essere mossi da quello stesso vento.

Però per me è comunque molto assurdo e non sento di aver colto che tutto ciò è successo davvero, perché ancora mi chiedo come possano averlo fatto, così, senza mai uno straccio di scru-polo. E se contiamo che sono partita con lo spirito di capire davvero, allora mi sento davvero insensibi-le a pensare che a me non è sfuggita nemmeno una lacrima. Non penso che sia vero che “chi non è stato ad Auschwitz non può capire”, intanto perché anche chi ci è stato non capisce, e poi perché è sempli-cemente la stessa differenza che c’è tra leggere un libro o sentirne il riassunto. Questo fatto comunque di “non aver pianto” mi ha colpito molto, perché avrei tanto voluto pian-gere: forse, se mi fossi commossa fino alle lacri-me, per me avrebbe significato aver capito l’orrore di quel luogo, averlo fatto mio, essersene resa conto. Invece… Mi ha fatto molto ridere la prof di tedesco quando lei mi ha detto “tu sei diversamente sensibi-le”: mi sono sentita un po’ handicappata, come

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se mi mancasse un qualche sentimento dentro l’anima. Poi la prof di filo invece mi ha detto che a “non piangere” non c’è nulla di male, anzi che mi am-mira per non averlo fatto. Ma io scommetto che lei si sarebbe commossa, mentre io sono rimasta fredda. Quando, sul treno di ritorno, dentro la cabina, abbiamo cominciato a riordinare le idee di quelle giornate, tutti hanno parlato del loro “punto di rottura”, cioè di quel momento in cui si sono sen-titi più vicini allo spirito di Auschwitz; il momento in cui hanno realizzato di essere lì, in quegli stessi luoghi di morte che funzionavano davvero negli anni ’40; il momento in cui, davanti a tutto quello spettacolo, si sono sentiti disarmati e impotenti, e qualcosa dentro loro si è spezzato. Io non sapevo cosa dire. C’è stato solo un momento in cui ad Auschwitz ho avuto davvero paura. Ma è stato un momento stupidissimo, in cui mi trovavo sola, in una stanza di un block di cui non ricordo il numero. Ho avuto così insensatamente paura che sono dovuta subito correre dal gruppo, perché mai ce l’avrei fatta a stare lì, senza nes-sun altro vicino. Che sia stato quello il mio punto di rottura? Ma non ho pianto. E ancora non ho capito. Non riesco a concepire l’orrore di quel luogo e di quel tempo.

E ancora, non capisco

Sono salita sul treno per Auschwitz perché

volevo rendermi conto. Perché

leggere di un campo di concentramento non significa capire cosa sia.

Perché volevo toccare con mano e vedere con i miei occhi

se “questo è stato”. Era come se non credessi

fino in fondo che tanti ebrei e non ebrei erano passati per i camini

ed erano stati soffocati nelle camere a gas. Come si potrebbe prendere parte a un atto così

disumano?

Non riuscivo a figurarmi un SS calciare un essere umano come lui,

con la testa rasata, il corpo dimesso, costringerlo a lavorare nel freddo inverno polacco

vestito di una divisa leggera, e decidere poi

su 2 piedi se ucciderlo o no.

Erano storie che sembravano assurde. Eppure erano vere.

Così sono salita sul treno per Auschwitz:

per capire. Ma non capisco ancora.

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Capaci di scoprire

(testi tratti da 00Willy, Marzo-Aprile 2008) Il primo grande impatto all'arrivo ad Auschwitz è rappresentato dalla crudele semplicità della scritto bef-farda: "Arbeit Macht Frei" ("il lavoro rende liberi"): la condanno all'ingresso in un vero e proprio inferno. Come si può infatti parlare di libertà in un luogo dal quale si poteva uscire solo dai camino di un crema-torio o col "volo dell'anima”? Oltre un milione e mezzo di persone sono morte ad Auschwitz. Ma quanto possono i grandi numeri e-sprimere la singolarità delle sofferenze, delle umiliazioni e dei maltrattamenti? Non sono tanto le cifre che ci colpiscono quanto gli occhi terrorizzati immortalati nelle foto e gli oggetti personali. È nelle sette tonnellate di capelli, nelle stanze piene di occhiali, scarpe, spazzole, valigie e protesi che ricostruiamo la quotidianità di quella che fino a poco tempo prima potevano chiamare vita: ridiamo così esistenza e identità a ciascuno di loro. " ... Ad Auschwitz tante persone ma un solo grande silenzio..." Le urla incomprensibili delle SS, il caos babelico delle lingue, il battere degli zoccoli di legno e la marcia scandita dalla banda contrastano con il silenzio totale e la quiete assoluto con cui il campo accoglie oggi noi visitatori. Ma non potrebbe essere diversamente: pur in così tanti, sentiamo la necessità del silenzio, di un momento di solitudine in cui rimanere a tu per tu con noi stessi, con i nostri pensieri, con l'intimo del nostro io. È indispensabile, per potere approcciarsi in modo un po' meno inadeguato a ciò che quelle baracche testimoniano. Testimoniare, appunto: è questa la parola giusta, il compito che Auschwitz ci lascia. Non basta, infatti, che quel che abbiamo vissuto trasformi noi stessi, come peraltro è importantissimo che faccia. Deve diventare fecondo anche per chi ad Auschwitz non c'è materialmente stato, per i nostri familiari, amici, conoscenti. È nostro dovere, insomma, farci testimoni, testimoni con la testa, capaci di scoprire e far scoprire quel che eventi lontani hanno ancora da dirci, qui a Modena, oggi. (Laura Casini, Jessica Maccieri, Alberto Cavazzuti, Luca Toso, Simone Dondi, Giovanni Zini)

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Un silenzio sbigottito

Laura Bulgarelli Birkenau, senza troppe didascalie o interpretazioni storiche come avviene in un museo, ti schiaffa bru-

talmente contro la realtà.

Quella realtà che è stata costruzione dettagliata e precisamente calcolata, estremamente funzionale alla morte di migliaia di persone. Come me.

Forni a legna per cuocere la pizza.

Mentre scatto qualche foto la mia mano non è ferma. E mi chiedo, in silenzio, come fossero in grado di infornare esseri umani. Come se infornassero pizze.

Birkenau è veramente la parte più sconvolgente del “viaggio”: la sua vastità e il suo grido silenzioso non

possono che ammutolire le persone che ne calpestano il terreno. Così l’unico rumore percepibile è quello delle nostre scarpe contro la ghiaia. A fatica scorgo i limiti del campo e ho l’impressione di camminare a vuoto.

Ininterrottamente.

Dall’alto osservo. E rabbrividisco pensando alla moltitudine di persone serrate qui dentro.

L’unico commento che riesco a balbettare è il silenzio. Un silenzio sbigottito e rispettoso.

Sembra insensato e inutile stare in questo luogo. Mi sento piccola e incapace di fare o dire qualcosa di

positivo per combattere ciò che è stato.

L’unica consolazione è il ricordo di tanti uomini che hanno combattuto e vinto contro i numerosi Hitler che hanno tentato di cancellare etnie e di codificare razze.

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L’eco dei nostri passi

Ambra Gozzo

Auschwitz, 27-01-2008

Ho visto cose che voi umani…

Ho visto montagne di capelli, di valigie, di zoccoli, di pentole, di foto…

Tanti oggetti che testimoniano il metodo crudele, freddo, preciso e calcolatore che ha portato allo

sterminio di migliaia di persone.

E poi il famosissimo cancello, i block, le camere a gas…

Ma sono state due le cose che mi hanno colpito.

La prima è una foto in cui si vede una giovane donna che guarda il vuoto con lo uno sguardo

pieno di dolore e rabbia e intanto cerca di coprirsi i seni con le mani. Credo sia quanto di più umano

ci può essere.

L’altra è stata la casa di Hoss, il comandate di Auschwitz. Vederla, è stato uno schiaffo. Ho letto

l’autobiogarfia di Hoss. Pagina dopo pagina ho conosciuto in tutto e per tutto il comandante. Le sue paure, le sue ansie, la sua freddezza, la sua meschinità, la sua vita. Ma è pur sempre un libro e co-me tale abbiamo sempre un po’ il pregiudizio che sia irreale, fantastico. E trovarmi davanti alla sua ca-sa, così grande e bella, dove lui viveva con sua moglie e i suoi bambini… lì, a pochi metri dalle camere a

gas… mi ha fatto capire.

Birkenau, 28-01-08

“Ad Auschwitz tante persone, ma un solo grande silenzio.”

Siamo in mille a riempire la sterminata distesa di Birkenau. Non s’ode suono umano.

Soltanto i nostri passi riecheggiano nel silenzio.

Diverso. Tanto diverso questo silenzio che ci inghiotte,

diverso dalla bocca serrata di un uomo che non è più umano, dagli occhi sbarrati che hanno visto l’orrore materializzarsi davanti a sé.

Debolezza, rassegnazione, terrore.

Memoria, riflessione, consapevolezza, rispetto.

Questo è il nostro silenzio.

Il silenzio di chi solo può immaginare.

Il silenzio di chi, grazie a questo viaggio, ha trovato il coraggio di confrontarsi, di scavare in quella storia tanto distante da noi, dai nostri ideali democratici, dalla nostra vita fatta di comodità.

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Ma il cielo è grigio

Francesco Calzolari 25-01-08, ore 20:40 circa Mi trovo nel vagone ristorante del treno (FFSS) per Cracovia. Ho appena sostenuto un’intervista con la Federica e sto amabilmente conversando con du bi zuvnot di nome Martina e Luca. A fianco, qualche professore della loro scuola di Finale. Qui solo, di studenti, siamo in seicento! Più gli Akkura, giornalisti, scrittori, cameraman e Carlo Lucarelli… E i professori. Si respira (oltre all’aria stantia, puzzo-da-treno e profumo di caffè della macchinetta) un odore di piacevole spossatezza e pensieri differenti […] 27-01-08, ore 00:47 È già il giorno della memoria, ed io e Budda siamo nella stanza 234 dell’Holiday Inn di Cracovia. Una lampada proietta un’offuscata luce (sempre che si possa dire offuscata luce) sulla scrivania dove stiamo affabilmente scrivendo, mangiando Emmental, uvetta passa e mandarini cinesi. Budda mi ha appena raccontato di un importantissimo giorno della sua vita. È un momento bellissimo, e cullato dalle note di De Andrè, mi sto predisponendo per Auschwitz. Ho già preparato la roba, anche quella per un’eventuale ricambio. Ma la mia mente? Posso solo dire che sono carico fino al midollo di aspettative. 27-01-08, ore 18:05 E il giorno della memoria visitai Auschwitz. Auschwitz I, si intende. È stato intenso e toccante, un’incredibile sinfonia di emozioni. Credo che questo viaggio sia il logico e punto di arrivo di un approc-cio alla Shoah che iniziò dalla mia prima educazione. Credo sia impossibile capire come e perché sia suc-cesso uno schifo così mirabilmente malvagio. Non è razionalmente comprensibile. È però altrettanto vero che è obbligatorio da parte di un uomo tentare di farlo; anche se forse è impos-sibile arrivare a una conclusione logica, bisogna farsi delle domande. Farsi delle domande è l’unico modo per evitare che ciò si ripeta.

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29-01-08, ore 1:43 circa A parer mio, la vera differenza nel visitare Auschwitz I e Auschwitz II Birkenau sta nell’impatto emotivo: esso è intellettualmente sottile a Oswiecim poiché si passa - con quello che si può definire un climax ascendente di emozioni - dalle baracche in muratura - che a prima vista sembrano case normali - ai mu-sei che ti travolgono, svegliandoti. Ti travolgono, sì, letteralmente. Credo che lo sconvolgimento emotivo sia al culmine quando ti rendi conto di essere nella camera a gas[…] Invece Birkenau è totalmente differente, anche come approccio. Esso è molto più devastante e rivelato-re di Oswiecim, all’inizio. Pare tutto subito rivelato, in tutta la sua crudeltà e verità. Giuro che sono stato quasi terrorizzato alla vista delle maledette rotaie, con in fondo il portone della morte. Confermo inoltre che pareva di essere, che so, nell’ottobre del ’44. Vedevo come avrebbe dovuto essere allora e mi veniva una tristezza insostenibile; addirittura il silenzio che regnava era rivelatore della geo-metria, delle dimensioni, delle baracche, dei forni, dello schifo di campo simbolo per sempre della Sho-ah. […] Suggestiva la fiaccolata. […]Dunque, l’impatto di Birkenau unito alla rielaborazione dell’iperbole di Auschwitz I è un’esperienza agghiacciante, ma bellissima allo stesso tempo. Si può scrivere, ma è impossibile smettere di pensarci, o di parlarne. Sono sereno, ma non smetto ancora (e spero di non farlo mai del tutto) di rifletterci, è troppo forte. 30-01-08, ore 11:22 Ho sentito con piacere la lettura finale di Lucarelli e il discorso dell’organizzatrice sotto lo sfondo chitarri-stico dei mitici Akkura. È stata una conclusione molto suggestiva. Ora sono solo un po’ triste, ma penso sia normale. Effettivamente, è stata un’esperienza irripetibile. Le ragazze che ciozzano qui a fianco sono un inno alla vita. Ma il cielo è grigio.

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Se fossi rimasto a casa

Filippo De Pietri

Se fossi rimasto a casa, non mi sarei mai reso conto di ciò che è veramente Auschwitz. Se fossi rimasto a casa, non avrei mai potuto vedere con miei occhi.

E ricordare gli eccessi, e l’oppressione, e la violenza che permea questo spazio, e gronda dai muri, e scivola a terra.

Evaporando.

Impregnando l’aria di morte.

Se fossi rimasto a casa non avrei mai visto le nuvole, che sopra Birkenau non si muovono.

Sul campo, il sole colpisce. Il grigio sudario di nuvole, lo lasciano stare, in disparte.

Come se fosse un qualcosa che viene dall’alto. Quel qualcosa, mi ha fatto visitare il campo con occhi cupi e il cuore in angoscia.

Forse le nuvole erano solo una trasposizione del mio animo.

Ma le nuvole, quelle nuvole,

mi hanno dato la consapevolezza che tutto è accaduto. E mi hanno fatto crescere.

Auschwitz mi ha graffiato nel profondo, e spero che questo graffio non si cicatrizzi mai.

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Seduta su un muretto del block 21

Diana Dimiddio Sono seduta su un muretto vicino al block 21 di Auschwitz. Sono molto scomoda, così scomoda da non riuscire a star seduta per scriverti, e immagino quello che hanno dovuto subire e soffrire gli Ebrei, e non

solo loro, rinchiusi in questo block.

Mi sono fermata qui, perché avevo bisogno di parlare con qualcuno di quello che ho visto: una vetrina piena di capelli: i prigionieri, all’arrivo, venivano rasati per evitare epidemie e avviati alle docce. E pen-sare che oggi noi dedichiamo molto del nostro tempo alla cura dei capelli, vanto della bellezza femmini-le. Le donne prigioniere prive dei loro capelli sembravano tutte uguali, niente le distingueva tranne che il

numero marchiato sul braccio.

Nel libro di Primo Levi “Se questo è un uomo” i prigionieri venivano chiamati dai tedeschi “stuken”, cioè “pezzi”.

Noi siamo stati fortunati e non abbiamo trovato la neve, ma solo freddo. Mentre scrivo ho i denti che battono dal gelo, nonostante sia molto vestita, con maglione, tuta da sci, scarponi da neve, guanti e

berretto. Mi chiedo, allora, come abbiano fatto i prigionieri a sopravvivere a un inverno nevoso, indos-sando solo una misera camicia rattoppata, i pantaloni leggerissimi, scarpe malconce, in baracche senza riscaldamento… Non lo so, so solo che non sentirò più il freddo, pensando alle sofferenze e alle morti

assiderate dei prigionieri. Ho voglia di piangere, ma ho paura che qualcuno mi veda, mi vergognerei troppo. Posso solo dirti che

terrò viva la memoria, parlando con gli altri del dolore e delle mie emozioni di questa esperienza.

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Redazione: Agati Mario, Astarita Claudia, Barsuola Giulia, Casagrande Gabriele, Costarella Babita, Bekiaris Francesca, Gazzoletti Eugenia, Lazzaretti Milena, Luppi Giacomo, Montorsi Caterina,

Petracca Linda, Raimondi Sara, Senese Beatrice, Rosi Silvia, Visconti Giacomo