Sicomoro_Gennaio2011
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Il 27 GENNAIO è il GIORNO DELLA
MEMORIA, l’anniversario dell’a-
pertura del campo di sterminio di
Auschwitz. Questo giorno credo debba
rappresentare per ciascuno di noi l’inizio
di un assillo, di un tormento duro, mole-
sto ma assolutamente necessario: fissa-
re nel cuore e nella mente, prendere
consapevolezza e raccontare ciò che è
stato. A lungo si è utilizzato il termine
“olocausto” (rito sacrificale in cui l’offerta
è interamente bruciata) per descrivere la
distruzione degli Ebrei nei Lager, e que-
sto anche sulla base dell’analogia con il
passo della Genesi che descrive il sacrifi-
cio di Isacco per mano del padre Abra-
mo. Tuttavia, nel Cap. 22 di Genesi, sa-
crificante (Abramo) e sacrificato (Isacco)
condividono lo stesso spazio religioso, la
stessa fede, il medesimo Dio. Applicare
pertanto questo termine allo sterminio del
popolo ebreo non è certo pertinente, e
appare non solo fuorviante ma forse an-
che blasfemo, non volendo associare ad
esso alcun atto religioso. Oggi dunque si
preferisce utilizzare la parola "Shoah"
per definire questa ineffabile tragedia,
un’immane catastrofe che ha colpito il
popolo ebraico e non solo...un “buco
nero” della storia dell’umanità che ha
avuto in Auschwitz il suo teatro più ama-
ro ed efferato.
Auschwitz. Un nome duro; quella “z”
finale che sibila e fa terrore, che mette in
moto un'onda di reazioni e di pensieri. Un
luogo icona di tanti altri campi di stermi-
nio, ove si è consumata la barbarie più
cupa e atroce della storia. Una tragedia
che incute ancora oggi timore e ango-
scia, che provoca rabbia e sgomento,
che scava dentro di noi a interrogarci con
nuove e vecchie domande, a soffiare
forte sulle corde della Storia in generale,
e su quelle ancora più prossime della
"nostra" storia, della storia di ciascuno di
noi che vive in questo mondo...perché lo
straniero, il diverso, l’”altro” in generale ci
sono vicini, sono la nostra gioia ma spes-
so anche il nostro inferno, il nostro tor-
mento...il nostro nemico:
“A molti, individui o popoli, può accadere di ritene-
re, più o meno consapevolmente, che «ogni stra-
niero è nemico». Per lo più questa convinzione
giace in fondo agli animi come una infezione la-
tente; si manifesta solo in atti saltuari e non coor-
dinati, e non sta all’origine di un sistema di pensie-
ro. Ma quando questo avviene, quando il dogma
inespresso diventa premessa maggiore di un
sillogismo, allora, al termine della catena, sta il
Lager. Esso è il prodotto di una concezione del
mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa
coerenza: finché la concezione sussiste, le conse-
guenze ci minacciano. La storia dei campi di di-
struzione dovrebbe venire intesa da tutti come un
sinistro segnale di pericolo”. (Primo Levi)
È necessario tuttavia affrontare la Shoah
senza ritrarre lo sguardo, ancorché inorri-
diti, disgustati, atterriti: è la crudezza
della storia, unita alla sua complessità e
alla violenza dell'uomo sull’uomo che
deve essere sondata, conosciuta, fatta
gesto e parola, azione e memoria forte e
viva, ben sapendo che certe esperienze
di dolore non si comunicano, o certamen-
te si comunicano non con la parola. Nulla
di ciò che è accaduto in quei luoghi e in
quel tempo deve essere taciuto. Mai.
Come scritto in Isaia 56,5: "concederò
nella mia casa e dentro le mie mura un
luogo e un nome ... darò loro un nome
eterno che non sarà mai cancellato”. Il
termine “luogo” va qui inteso come mo-
numento, testimone di memoria.…Che
anche nel nostro cuore ci sia perciò que-
sto luogo, questo monumento. Che que-
sta giornata ci abiti quale “testimone di
memoria” per ricordare e trasmettere
tutto: i luoghi, le storie degli innocenti, dei
Santi e dei Giusti tra le Nazioni, dei bam-
bini, degli ebrei, degli slavi e degli zinga-
ri, delle donne e dei vecchi, degli omo-
sessuali, dei deformi, dei sopravvissuti e
degli assassini, dei morti. Dell’altro. Rac-
contare tutto, soprattutto ai nostri figli:
questo è il baratro in cui è capace di pre-
cipitare l’uomo, ciascun uomo; questo è il
rischio di ritenere l’altro, il diverso, un
“nemico”. Tuttavia, occorre ricordare e
fare memoria di ciò che è stato dando un
senso alla Memoria, perché non resti uno
stantio o celebrativo racconto di fatti ac-
caduti, di luoghi visitati; perché non di-
venti moralismo o peggio ancora una
fredda retorica del tipo “...ricordare per-
ché non accada mai più”. E se la possibi-
le conseguenza della memoria è la bana-
lizzazione, il prezzo della dimenticanza è
molto più alto. Evitiamo dunque fratelli
tutti gli atteggiamenti che non si traduco-
no in espressioni di pensiero, perché il
ricordo sappia divenire e trasformarsi in
un organismo vivo, facendosi prospetti-
va, perché la maniera migliore per non
dimenticare è costruire. Perché solo l’A-
more crea (P. Massimiliano Kolbe).
G razie, allora, a tutti voi lettori se di
questo numero del Sicomoro - fatto
di nostre piccole esperienze e di cenni
sul tormento interiore vissuto da testimo-
ni sopravvissuti - vorrete prendere il ri-
spettoso omaggio a tutte le vittime dei
campi di sterminio, ed alla dignità di un
popolo la cui elezione dura ancora oggi.
Un ricordo non sterile, una memoria fe-
conda ed attuale di tutte le vittime, dei
6.000.000 di Ebrei defunti, trucidati, mas-
sacrati. I nostri “fratelli maggiori”.
Paola Negro
Alle 12.000.000 di vittime.
Agli 80.000.000 di carnefici.
Agli innocenti.
Ai colpevoli.
Al popolo martoriato di Israele.
Al popolo redento di Germania.
Affratellati
nella Memoria dell'orrore,
nell'orrore della Memoria.
Periodico del Gruppo Esperienza Anno 15 - Gennaio 2011
Parrocchia S. Teresa di Gesù Bambino Via E. Nicolardi, 225 - Napoli
Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 2
«Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha
fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di
fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e
i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto
Dio stesso. Mai»
ELIE WIESEL
Paradossalmente gli unici a provare sensi di colpa sono i sopravvissu-
ti: “Per una strana ironia del destino, soltanto i reduci, i sopravvissuti
erano, e sono, coscienti della loro parte di responsabilità. L'idea che li
domina è concreta, straziante. Fa parte del loro essere. «Perché non
vi siete rivoltati? Perché non avete resistito? Eravate diecimila contro
dieci, contro uno: perché vi siete lasciati condurre al mattatoio come
bestiame?» Vivo, e quindi sono colpevole: se sono ancora qui è per-
ché un amico, un compagno, uno sconosciuto è morto al mio posto. In
un mondo chiuso, questa certezza possiede una potenza distruttrice
dagli effetti facilmente intuibili”. Così il prigioniero risparmiato, scampa-
to alla selezione, non poteva reprimere uno spontaneo sentimento di
gioia. Passato un momento, una settimana, un'eternità, questa gioia
piena di ansia e di paura si trasforma in senso di colpa. Il sentimento
di libertà, di essere stato risparmiato, equivale a confessare: “sono
contento che un altro se ne sia andato al mio posto”. È per non pensa-
re a questo che i prigionieri, aiutati da un meccanismo di difesa, riusci-
vano a dimenticare così presto i loro compagni, i loro genitori selezio-
nati. Il sistema della “selezione” nei campi di sterminio non mirava
soltanto a decimare periodicamente la popolazione, ma anche a far sì
che ogni prigioniero dicesse a se stesso: “Quello avrei potuto essere
io; sono la causa, forse
la condizione della morte
altrui”.
(Brano tratto da “La
nostra colpa comune” di
E. Wiesel)
Deportato adolescente ad Auschwitz con tutta la sua
famiglia, insieme a 12.000 ebrei ungheresi, la
maggior parte dei quali non sopravvisse. Wiesel vide
morire il padre, la madre e le tre sorelle. Scrittore,
nel 1986 riceve il Premio Nobel per la Pace.
L‟arrivo al campo di
sterminio
Lasciateci ricordare, lasciateci ricordare
gli eroi di Varsavia, i martiri di Treblinka, i
bambini di Auschwitz. Essi combatterono
da soli, soffrirono da soli, vissero soli, ma
essi non morirono da soli, per qualcosa in
cui tutti noi morimmo insieme a loro.
“Un sudore freddo mi copriva la fronte,
ma gli dissi che non credevo che si bru-
ciassero degli
uomini nella nostra epoca, che l’umanità
non l’avrebbe più tollerato…
- L’umanità? L’umanità non si interessa
a noi. Oggi tutto è permesso, tutto è
possibile, anche i forni crematori… La
voce gli si strozzava in gola.
Papà - gli dissi - se è così non voglio più
aspettare. Mi butterò sui reticolati elettri-
ci: meglio questo che agonizzare per ore
tra le fiamme.
Lui non mi rispose. Piangeva. Il suo cor-
po era scosso da un tremito. Intorno a
noi tutti piangevano. Qualcuno si mise a
recitare il Kaddìsh, la preghiera dei morti.
Non so se è già successo nella lunga
storia del popolo ebraico che uomini
recitino la preghiera dei morti per sé
stessi.
- «Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rab-
bà»…«Che il Suo Nome sia ingrandito
e santificato» - mormorava mio padre.
Per la prima volta sentii la rivolta cresce-
re in me. Perché dovevo santificare il
Suo Nome? L’eterno, il Signore dell’Uni-
verso, l’Eterno Onnipotente taceva: di
cosa dovevo ringraziarLo?
Continuammo a marciare. Ci avvicinava-
mo a poco a poco alla fossa da cui pro-
veniva un calore infernale. Ancora venti
passi. Se volevo darmi la morte, questo
era il momento. La nostra colonna non
aveva da fare che una quindicina di pas-
si. Io mi mordevo le labbra perché mio
padre non sentisse il tremito delle mie
mascelle. Ancora dieci passi. Otto. Sette.
Marciavamo lenta-
mente, come dietro
ad un carro funebre, seguendo il nostro
funerale. Solo quattro passi. Tre. Ora era
là, vicinissima la fossa e le sue fiamme.
Io raccoglievo tutte le mie forze residue
per poter saltare fuori dalla fila e gettarmi
sui reticolati. In fondo al mio cuore davo
l’addio a mio padre, all’universo intero e,
mio malgrado, delle parole si formavano
e si presentavano sulle mie labbra:
«Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rab-
bà»… «Che il Suo Nome sia elevato e
santificato»… Il mio cuore stava per
scoppiare. Ecco: mi trovavo di fronte
all’Angelo della morte … No. A due passi
dalla fossa ci ordinarono di girare a sini-
stra, e ci fecero entrare in una baracca”.
(Brano tratto da “La notte” di E. Wiesel)
La selezione
La banalità del male! Questa l’ironica conclusione cui è giunta la storica Hannah Arendt: il volto del male è il volto della banalità, dell’inconsistenza e dell’assopimento di una coscienza che si ritaglia – accontentandosene – dei propri spazi di utilità. È quell’atteggiamento che mostra una totale assenza di capacità di riflessione, una correlazione tra pensiero, vita interiore, azione, sentimenti, e che è accompagnato, per contrasto, da una certa facilità all’osservanza di norme e codici precostituiti, ovviamente, in maniera acritica. Alla “radice” della banalità del male vi è un problema di relazione: l’incapacità di interessarsi alla vita ed alla sorte dell’altro, in quanto perfettamente ripiegati su se stessi, e perciò privi di quello sguardo che si fa attenzio-ne, che si prende cura dell’altro.
“Faceva giorno quando mi svegliai. Allora mi ricordai di avere un padre: dopo l’allarme avevo seguito la folla senza occuparm i di lui. Sapevo
che era allo stremo delle forze, sull’orlo dell’agonia, eppure l’avevo abbandonato. Partii alla sua ricerca. Ma nello stesso istante nacque in me
questo pensiero: «Purché non lo trovi! Se potessi sbarazzarmi di quel peso morto, così da poter lottare con tutte le mie
forze per la mia sopravvivenza, occupandomi solo di me stesso». E subito ebbi vergogna, vergogna per sempre di me
stesso”. (Brano tratto da “La notte” di E. Wiesel)
La vergogna e
i sensi di colpa
Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 3
I l 9 ottobre 1997 era un giovedì.
Direte voi embè?... Embè...era il
34° anniversario della tragedia
del Vajont. (Per chi volesse ap-
profondire, rimando al seguente link:
h t t p : / / v i d e o . g o o g l e . c o m / v i d e o p l a y ?
docid=8879734850960378650#).
Ho visto questa trasmissione - a metà
tra il documentario e la rappresenta-
zione teatrale (molti chiamano il gene-
re orazione civile) - perché fu una scia-
gura rimasta nella memoria di mia ma-
dre allora 20enne, che quella sera mi
«impose» di partecipare a questo
evento televisivo. Ricordo che avevo
visto la diga dal vivo in un nostro viag-
gio nell’estate del 1985, e quel ricordo
di 12 anni prima, di una diga assurda-
mente in cima ad una montagna geo-
logicamente non adatta ad ospitarla,
ritornò così prepotente nella mia men-
te che rimasi incollato alla TV in attesa
dell’orario per la commemorazione
della tragedia celebrata da Marco Pao-
lini (autore ed attore) proprio nel teatro
ricavato sul piazzale della diga stessa.
Torniamo a noi… quale sia la mia
esperienza di come i tedeschi vivono
questa giornata è difficile dirlo: ormai
la società tedesca è così multi-etnica
che qui si trova tutto e il contrario di
tutto. Il 21 aprile del 2009 si celebra lo
Yom HaShoah, Giornata del Ricordo
della Shoah, che cade ogni anno il 27
di Nisan. Quel giorno mi trovai per ca-
so nei pressi del monumento dedicato
alla Shoah, costituito da un tratto di
binario che termina con una rappre-
sentazione in marmo di un camino.
Vidi lì uno sparuto gruppo di ebrei te-
deschi (ne sono rimasti pochi in Ger-
mania!) e, pochi metri più in là, sul
piazzale antistante il magnifico Duomo
in cui sono custodite le reliquie dei
Magi, un ben più consistente gruppo di
palestinesi che inneggiava alla cancel-
lazione dello Stato di Israele, mostran-
do le malefatte del Governo e dell’e-
sercito israeliano a carico della popola-
zione.
Pensandoci bene, le due situazioni
non erano poi così in conflitto; anzi,
mostravano che, nonostante l’atroce
passato di cui i nostri fratelli maggiori
ebrei facevano memoria in quel giorno,
poco o nulla era cambiato nel mondo,
e un altro genocidio era ed è tuttora in
a t t o .
D e v o
d i r e
t u t t a -
via che in Germania si respira un aria
di “penitentiagite” cioè del “fare peni-
tenza” da parte dei Tedeschi discen-
denti dei folli criminali che devastarono
l’Europa tra il 1939 e il 1945, e che si
macchiarono di un tale efferato delitto
contro gli Ebrei. Se non altro per come
tengono a bada le minoranze di estre-
ma destra (i neo-nazifascisti), a cui
raramente autorizzano manifestazioni
pubbliche, e se lo fanno appena
“sgarrano” - inneggiando a qualche
potenziale reato fatto in passato o da
fare - la manifestazione viene bloccata
ed i manifestanti allontanati!
In questo modo i Tedeschi curano la
propria Memoria e rispettano la legge,
analoga a quella italiana, relativa all’a-
pologia di fascismo ed alla ricostituzio-
ne di un partito che porta lo stesso
nome di 70 anni fa.
Non ho mai sentito da alcun Tede-
sco parlare di ciò che è stata la Shoah,
ma ne vedo i segni: interpretano quoti-
dianamente con umiltà e in silenzio il
motto che campeggiava sul cancello di
Auschwitz: “Arbeit macht frei”, il lavoro
rende liberi… in questa società
(nonostante ci siano fette di disoccu-
pazione ed emarginazione) il lavoro è
la prima cosa! Non solo perché il lavo-
ro c’è, ma perché al lavoro sono impli-
citamente associati dignità, stabilità e
garanzia per le famiglie. E come fa un
paese europeo di questi tempi ad ave-
re un basso debito pubblico, bassa
disoccupazione (nella sola Germania
Ovest, la percentuale di disoccupazio-
ne e il debito pubblico sono ridicoli!),
ed un reddito medio soddisfacente?
Perché la stragrande maggioranza
delle persone ogni mattina si rimbocca
le maniche e lavora, o va a scuola ad
imparare quel lavoro che facilmente
troverà dopo, e che - nel giro di pochi
anni di precarietà - si stabilizzerà fino a
diventare un lavoro a tempo indetermi-
nato. Forse proprio con il loro lavoro
stanno riscattando l’ignominia di quei
Lager e di quelle morti. È quindi dove-
roso fare memoria anche con il proprio
comportamento, andando a combatte-
re i pregiudizi del proprio cuore e quelli
delle persone che ci sono attorno.
Nel mio piccolo ho desiderio di in-
dagare su di un’altra storia, quella dei
militari italiani fatti prigionieri perché
dopo l’armistizio, trovandosi nella Re-
pubblica di Salò, avevano deciso di
non aderirvici. Questi ufficiali, conside-
rati traditori, furono inviati in Campi di
punizione (Straf-lager) in cui non esi-
stevano né camini né camere a gas; e
uno di questi si trovava proprio qui a
Colonia! Poiché la loro condizione di
prigionieri non era riconosciuta dalla
Convenzione di Ginevra vissero in una
condizione degradante. Tuttavia, que-
ste persone furono affiancate da un
sacerdote, e questo fu il primo
embrione della Missione Cattoli-
ca Italiana a Colonia! (Spero che
la nostra direttrice responsabile
del Sicomoro acconsentirà a
pubblicarne la storia appena
sarà pronta!).
Come faremo memoria io
e Raffaella quest’anno? Il 26
gennaio, alla vigilia della Giorna-
ta della Memoria, La7 trasmette-
rà un’opera proprio di Marco
Paolini dal titolo “Ausmerzen (che si-
gnifica “eliminare”, “sradicare”,
“estirpare”) - Vite indegne di essere
vissute”, che racconterà in diretta
dall’ex-ospedale psichiatrico Paolo Pini
di Milano la terribile vicenda dell’elimi-
nazione dei disabili e dei malati di
mente nella Germania nazista con la
sperimentazione di tecniche di elimina-
zione di massa, le quali furono poi ap-
plicate nella soluzione finale contro gli
Ebrei.
Giorno della Memoria o Memoria ogni giorno?
di Francesco Maria Caridei
Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 4
“Steinlauf mi
vede e mi salu-
ta, e mi doman-
da severamente
perché non mi
lavo. Perché
dovrei lavarmi? Starei forse meglio di
quanto sto? [...] Più ci penso, e più mi
pare che lavarsi la faccia nelle nostre
condizioni sia una faccenda insulsa,
addirittura frivola: un’abitudine mecca-
nica, o peggio, una lugubre ripetizione
di un rito estinto. Morremo tutti o stia-
mo per morire: se mi avanzano dieci
minuti fra la sveglia e il lavoro, voglio
dedicarli ad altro, chiudermi in me stes-
so, a tirare le somme, o magari guarda-
re il cielo e a pensare che lo vedo forse
per l’ultima volta.
[...] Mi risponde: appunto perché il
Lager è una gran macchina per ridurci
a bestie, noi bestie non dobbiamo diven-
tare; che anche in questo luogo si può
sopravvivere, e perciò si deve voler
sopravvivere, per raccontare, per porta-
re testimonianza; e che per vivere è
importante sforzarci di salvare almeno
lo scheletro, l’impalcatura, la forma
della civiltà. Che siamo schiavi,
privi di ogni diritto, esposti a ogni
offesa, votati a morte quasi certa,
ma che una facoltà ci è rimasta, e
dobbiamo difenderla con ogni vi-
gore perché è l’ultima: la facoltà di
negare il nostro consenso. Dobbiamo
quindi, certamente, lavarci la faccia
senza sapone, nell’acqua sporca, e
asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare
il nero alle scarpe, non perché così pre-
scrive il regolamento, ma per dignità e
proprietà. Dobbiamo camminare dritti,
senza strascicare gli zoccoli, non già in
omaggio alla disciplina prussiana, ma
per restare vivi, per non cominciare a
morire”. (Brano tratto da “Se questo è un uomo”)
I prigionieri privilegiati erano in minoranza entro i Lager, ma rappresen-
tano invece una forte maggioranza fra i sopravvissuti; infatti, anche se
non si tenga conto della fatica, delle percosse, del freddo, delle malat-
tie, va ricordato che la razione alimentare era decisamente insufficiente
anche per il prigioniero più sobrio: consumate in due o tre mesi le riserve fisiologiche dell'organismo, la morte
per fame, o per malattie indotte dalla fame, era il destino normale del prigioniero. Poteva essere evitato solo con
un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio, grande o piccolo; in altre parole, un modo
conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma. (Tratto da “I sommersi e i salvati”)
Si laurea con lode in Chimica;
sul diploma di laurea la
precisazione «di razza ebraica».
Nel 1944 viene deportato in un
campo di lavoro vicino
Auschwitz, impiegato in attività
di laboratorio presso una fabbrica
di gomma. L’annullamento della
personalità, il degrado dell‟essere
umano alla condizione di
animale, la privazione della
dignità: tutto nei Campi era
finalizzato al raggiungimento di
questo obiettivo: dalla scritta sul
cancello d‟entrata fino al numero
marchiato sul braccio, come
bestie. Dietro quel numero non
c‟è più un uomo, ma solo un
oggetto, un “pezzo”. Se funziona,
va avanti; se si rompe, è gettato
via. Primo Levi è “il pezzo” n.
174517. Funzionante.
Muore suicida nella sua casa di
Torino.
Ci toglieranno anche il nome:
e se vorremo conservarlo,
dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome,
qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga… perché
accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.
Non può esistere libertà
senza identità…
L'ascesa dei privilegiati, nei Lager e in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile:
essi sono assenti solo nelle utopie. È compito dell'uomo giusto fare guerra
ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è
una guerra senza fine. Nei Lager, la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l'ossatura, ed insieme il
lineamento più inquietante. È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due
campi dei padroni e dei servi. Sonderkommandos (Squadre Speciali). Questa denominazione debitamente vaga
indicava il gruppo di prigionieri - in massima parte ebrei - a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spet-
tava mantenere l'ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dove-
vano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d'oro dalle mascelle;
tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai
crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. L’aver concepito ed orga-
nizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo: si tentava di spostare sulle vittime il
peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti.
“Noi giacevamo in un mondo di morti e
di larve. L’ultima traccia di civiltà era
sparita intorno a noi e dentro di noi.
[…] non è uomo […] chi ha atteso che
il suo vicino morisse per togliergli un
quarto di pane […] e non è umana
l’esperienza di chi ha vissuto giorni in
cui l’uomo è stato cosa vicino all’altro
uomo".
“Credo che nessuno sia autorizzato a
giudicarli, non chi ha conosciuto
l’esperienza del Lager, tantome-
no chi non l’ha conosciuta…” Potere e privilegio: i Sonderkommandos
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi
(Tratto da “Se questo è un uomo”)
Quando piove bisogna cercare di muover-si il meno possibile perché non accada che qualche porzione di pelle venga a contatto con gli abiti zuppi e gelidi. È una fortuna che oggi non tira vento: in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O, ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non sentissi altro nel cuore che sofferenza e noia, che pare veramente di giacere sul fondo, ebbene anche allora noi pensiamo che se voglia-mo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere….
PRIMO LEVI
La zona grigia. Quelle persone
che per avere salva la vita si sono
piegate fino a collaborare ...
Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 5
U n cancello nero con la beffar-
da scritta “Arbeit macht frei”,
il lavoro rende liberi, mi apre
alla vista di uno spiazzo di terra battu-
ta, chiuso tra le torrette di guardia po-
ste come mute sentinelle della storia.
Tutto intorno i muri di cinta, che ab-
bracciano senza speranza quello che
rimane delle baracche; poi l‟immenso
e silenzioso “Cortile dell‟appello”,
luogo della raccolta degli ebrei depor-
tati… luogo in cui giungevano uomini
che di lì a poco avrebbero perso ogni
sembianza e dignità umana per diven-
tare un numero! E ovunque quella
regolarità fastidiosa nella disposizione
degli edifici, nelle distanze calcolate
tra le baracche, nella simmetria delle
docce della morte…Tanto senso
dell‟ordine e della misura mi colpisce
come uno schiaffo in pieno viso, per-
ché contrasta paradossalmente con la
smisurata follia di quello che è stato.
Persino il sole che splende nel cielo
limpido appare fuori luogo, come una
nota stonata in questo contesto così
grigio e buio, in questa oscura pagina
di storia che suscita disgusto e che si
vorrebbe tanto dimenticare.
Ripercorrere attraverso immagini, fil-
mati, visita al museo e testimonianze
di sopravvissuti, la tristezza e la soffe-
renza della Shoah, fa male. D‟altronde
come rimanere inermi di fronte alla
narrazione e alla vista di corpi denuda-
ti, diseredati, denutriti, infreddoliti,
violati, ammonticchiati, privati della
vita? Immaginare uomini disperati,
scheletri semoventi in fila per grattare
resti di cibo da un pentolone, fa pensa-
re. Capacitarsi del fatto che tutto ciò
sia realmente accaduto, fa venire vo-
glia di vivere.
Proseguo visitando i bagni, le sale
comuni, le baracche con le file di letti
scarni e assolutamente piccoli, stretti
come scatole di fiammiferi; percorro
questi luoghi con il cuore chiuso in
una morsa.
Nel campo di Dachau c‟è silenzio e
angoscia, ovunque compassione e
amarezza. A ridosso dei luoghi comu-
ni vi è il monumento commemorativo
per tutti coloro che persero qui la vita:
è una sorta di “circolo della sofferen-
za”, rappresentante esili corpi in ferro
battuto disposti in maniera circolare,
quasi a formare un abbraccio di amore
e disperazione. Di fronte, oltre un lun-
go viale, sono state edificate tre cap-
pelle: una evangelista, la centrale cat-
tolica e la terza ebraica.
La cappella cristiana è denominata
“La sofferenza di
Cristo”, ma credo
che la posizione di
tutte e tre le cappel-
le, poste di fronte al
monumento per i
defunti, vogliano
essere un grido di dolore per tutte le
vittime dell‟Olocausto. Subito dopo la
zona più terribile, la concretizzazione
della crudeltà umana: gli spogliatoi, le
docce a gas e i forni crematori, dove
venivano “smaltite” vite….
Dopo questo “tour dell‟orrore” la vo-
glia ti tirare un respiro e tornare alla
vita di sempre è grande, ma inevitabil-
mente un groppo alla gola mi prende,
assieme ad un senso di vuoto. Proprio
in quest‟immenso piazzale dove un
tempo si faceva l‟appello dei detenuti
e dove spesso si stabiliva la loro morte
per mano di simili, la paura ha la me-
glio. I muri del campo sembrano cor-
rere lontano e una distesa infinita di
male dà spazio all‟assenza di vita di
quel luogo, all‟incredibile dolore. E tu
diventi piccolo, incredulo, indifeso,
incapace di reagire…Capisci allora
che film e libri sull‟argomento non
sono una esasperata visione dell‟acca-
duto, ma una appena accennata rico-
struzione della realtà.
L‟esperienza a Dachau mi ha cambia-
ta, mi ha fatto crescere, mi ha insegna-
to ad amare ogni piccola cosa della
mia vita, mi ha dato la forza di vedere
le cose così come sono, senza nascon-
dimenti, anche se mi fanno paura, an-
che se ho timore che l'orro-
re si riproponga: conscia
che il mondo, in ogni epo-
ca, può ricadere nell'oblio e
che “il sonno della ragione
genera mostri” (F. Goya).
A lla Redditio, innanzi a
Cristo ed accompagnata
per mano dai miei fratelli
della 34° Esperienza, ho riavvolto il
nastro dei miei ricordi… tre anni
dall‟Esperienza ad oggi. Compare e
scompare ogni immagine, ma con-
creto è il ricordo dei tanti tentativi di
fuga… fuga da me stessa,
„carcerata‟, schiava del momento e
dei miei sentimenti di quel tempo….
impedita di raggiungere la verità…
destinata a vivere nel mio deserto
che non lasciava scampo. Eppure il
seme dell‟Esperienza germoglia: una
lotta intensa, una
battaglia vinta!!!
Rifiorisce la mia
fede, il dono che
mi salva e distrugge la gabbia che
rintana il mio cuore e comprime l‟a-
more...
Così esplode l‟amore e comprendo il
senso, il senso del mio esserci in
questa storia… dell‟esserci sempre
stata, anche quando non c‟ero.
Ringrazio i miei fratelli che hanno
saputo cogliere ed accogliere questo
splendido dono di Dio e tutti quelli
che, contro le intemperie, hanno re-
sistito nell‟amore di Cristo…. ed
hanno resistito anche per me, per noi
della 34° Esperienza e tanti altri an-
cora.
Con gioia restituiamo, con un unico
cuore, gli insegnamenti ricevuti dai
nostri catechisti, autentici strumenti
di Dio.
Percorrerò da domani la strada
dell‟amore con quel coraggio che
non mi appartiene…orientata da
quell‟unica stella!!! Lascerò scorge-
re, insieme ad ognuno di voi, l‟attra-
zione dell‟Amore e lo slancio gene-
roso della speranza a chi è ancora
nel buio… ed io manterrò accesa,
nel profondo, la nostra speranza: in
questa vita tutti abbiano la gioia di
esserci per essere illuminati dalla
luce della Parola di Cristo e dal Suo
amore senza confini che non feri-
sce… non tradisce, ma guarisce l‟a-
nima!!!!
“IL SONNO DELLA RAGIONE GENERA MOSTRI”
di Chiara Sellitto
Dietro di me sentii il solito uomo
domandare: «Dov'è dunque Dio?»
E io sentivo in me una voce che gli
rispondeva: «Dov'è? Eccolo: è
appeso lì, a quella forca”...»
(Tratto da La Notte di Elie Wiesel)
AMEN La Redditio della 34° Esperienza
di Gabriella Dragotti
Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 6
EDITH STEIN
Dall’omelia di Giovanni Paolo II in
occasione della canonizzazione di
EDITH STEIN
"Quanto a me non ci sia altro vanto che
nella croce del Signore nostro Gesù Cri-
sto" (Galati 6,14). Le parole di S. Paolo
ben si addicono all'esperienza umana e
spirituale di Teresa Benedetta della Cro-
ce. Ci inchiniamo dinanzi alla memoria di
Edith Stein, proclamando la testimonian-
za da lei resa durante la vita e soprattut-
to con la morte. […] Pochi giorni prima
della sua deportazione Edith - a chi le
offriva di fare qualcosa per salvarle la
vita - aveva risposto: "Non lo fate! Per-
ché io dovrei essere esclusa? La giusti-
zia non sta forse nel fatto che io non
tragga vantaggio dal mio battesimo? Se
non posso condividere la sorte dei miei
fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo
senso distrutta". Per amore di Dio e
dell'uomo ancora una volta io levo un
grido accorato: mai più si ripeta una simi-
le iniziativa criminale per nessun gruppo
etnico, nessun popolo, nessuna razza, in
nessun angolo della terra! È un grido che
rivolgo a tutti gli uomini e le donne di
buona volontà; a tutti coloro che credono
all'eterno e giusto Iddio; a tutti
coloro che si sentono uniti in Cri-
sto, Verbo di Dio incarnato. Tutti dobbia-
mo trovarci in questo solidali: è in gioco
la dignità umana. Esiste una sola fami-
glia umana. Per i cristiani - e non solo
per loro - nessuno è «straniero». L'amore
di Cristo non conosce frontiere. Nel no-
stro tempo la verità viene scambiata
spesso con l'opinione della maggioranza.
Inoltre è diffusa la convinzione che ci si
debba servire della verità anche contro
l'amore o viceversa. Ma la verità e l'amo-
re hanno bisogno l'una dell'altro. Suor
Teresa Benedetta ne è testimone.
Edith appartiene ad una famiglia
ebraica ortodossa. Si professa
atea fino all‟età di 21 anni. Nel
1921 legge per caso la “Vita” di
S. Teresa d‟Ávila, rimanendone
conquistata: dopo aver chiesto e
ricevuto il Battesimo si ritira
dall‟insegnamento per entrare
nel Carmelo di Colonia,
scegliendo di chiamarsi Teresa
Benedetta della Santa Croce.
Nel 1942 Edith e la sorella Rosa
sono deportate ad Auschwitz,
dove vengono uccise nelle
camere a gas.
ETTY HILLESUM
“Non sono i fatti che contano
nella vita, conta solo ciò che
grazie ai fatti si diventa”
“Se sopravvivrò a questo tempo e se dirò: «La vita è bella e ricca di significato» bisognerà pur cre-
dermi. Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle
piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile. La miseria che c’è qui è terribile, ep-
pure alla sera tardi mi capita spesso di camminare lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innal-
za una voce che dice: «La vita è una cosa splendida e grande, più tardi
dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimi-
ne o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che
avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo
soccombere». E se sopravvivremo a questo tempo, corpo e anima ma
soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il
diritto di dire la nostra parola a guerra finita” .
Etty è ebrea. Durante gli ultimi
anni della sua vita scrive un
diario personale (che verrà
pubblicato solo nel 1981) da
cui traspare la sua forte pro-
pensione al dialogo interiore,
“quella parte di me, la più
profonda e la più ricca in cui
riposo, è ciò che io chiamo
Dio”. Nel 1942 i Tedeschi
invadono l‟Olanda: gli ebrei
vengono licenziati, ma ad Etty
viene offerta una grande oppor-
tunità di lavoro che le consenti-
rebbe di avere salvare la vita.
Etty però sceglie di non sottrar-
si al destino del suo popolo,
convinta che “l’unico modo per
render giustizia alla vita sia
quello di non abbandonare
delle persone in pericolo e di
usare la propria forza interiore
per portare luce nella vita
altrui”. Nel 1943 sale volonta-
riamente sul treno che la porta
ad Auschwitz, dove muore
dopo aver portato in quell'in-
ferno di dolore il suo appassio-
nato incanto per la bellezza
della vita, nel desiderio di di-
ventare “il cuore pensante
della baracca”.
Le minacce e il terro-
re crescono di giorno
in giorno. M'innalzo
intorno la preghiera
come un muro oscu-
ro che offre riparo,
mi ritiro nella pre-
ghiera come nella
cella di un convento,
ne esco fuori più
"raccolta", concen-
trata e forte. Questo
ritirarmi nella chiusa
cella della preghiera,
diventa per me una
realtà sempre più
grande. Dappertutto
c'erano cartelli che ci
vietavano le strada
per la campagna: ma
sopra quell'unico
pezzo di strada che
ci rimane c'è pur
sempre il cielo, tutto
quanto. Non posso-
no farci nulla, non
possono veramente
farci niente.
“Per umiliare qualcuno si deve essere in
due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si
lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è
immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano
solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di
tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose”
L‟umiliazione
“È un problema attuale: il grande odio per i
tedeschi che ci avvelena l’animo. Espres-
sioni come: «Che anneghino tutti, canaglie, che muoiano col gas»
fanno ormai parte della nostra conversazione quotidiana; a volte fan-
no sì che uno non se la senta più di vivere di questi tempi. Ed ecco
che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero
liberatore, simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto
d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente,
quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda
di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio
odio su un popolo intero” La preghiera
“L’odio non serve a
niente”...
Il nostro amore verso il
prossimo è la misura
del nostro amore a Dio.
Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 7
«La Repubblica italiana riconosce il
giorno 27 gennaio, data dell’abbatti-
mento dei cancelli di Auschwitz,
“Giorno della Memoria”, al fine di
ricordare la Shoah (sterminio del popo-
lo ebraico), le leggi razziali, la persecu-
zione italiana dei cittadini ebrei, gli
italiani che hanno subìto la deportazio-
ne, la prigionia, la morte, nonché colo-
ro che, anche in campi e schieramenti
diversi, si sono opposti al progetto di
sterminio, ed a rischio della propria
vita hanno salvato altre vite e protetto i
perseguitati.» Così recita la Legge della
Repubblica Italiana n. 211 del 20 luglio
2000. Purtroppo però il 27 gennaio è
sempre più un giorno come gli altri piut-
tosto che il Giorno della Memoria della
Shoah.
Ho visitato i campi di concentramento
di Auschwitz e Auschwitz II-Birkenau
nel maggio del 2007 e,
anche se sono trascorsi
ormai più di tre anni e
mezzo da quel giorno, mai potrò dimen-
ticare le cose viste e quelle sentite rac-
contare in quelle ore. Davvero un‟espe-
rienza toccante… e non è retorica…
Visitando quei luoghi, teatro di uno dei
più atroci massacri della storia, il pen-
siero non può che andare ai milioni di
vittime e alle condizioni in cui venivano
costrette a vivere quelle persone prima
di essere condotte alle camere a gas: un
bagno (un buco nel terreno, in realtà)
per ogni casermone ospitante anche più
di 100 persone... vestiti leggerissimi e
capelli rasati a zero per tutti anche du-
rante il freddo inverno polacco... poco
cibo... poche ore di sonno, per di più
passate in letti a castello assurdamente
stretti e poco stabili con il rischio di
rimanere schiacciati e non svegliarsi
più.
E precarie erano, ovviamente, anche le
condizioni psicologiche: sempre nel
terrore di essere fucilati, ignari della
fine che di volta in volta facevano i loro
compagni che venivano portati “a fare
una doccia”, messi l‟uno contro l‟altro
in una continua lotta per la sopravviven-
za.
Oltre a tutto questo, però, ciò che mi
resta impresso a caratteri speciali nella
mente è l‟appello sentito della guida che
ci ha accompagnò durante la visita:
«Invitate quante più persone è possibile
in giro per il mondo a visitare questi
luoghi… Perché è importante che questi
luoghi diventino luogo di educazione
per le nuove generazioni… Per NON
dimenticare!»
Non bisogna dimenticare, soprattutto
ora che quello stesso male è perpetrato
in tante altre zone del mondo: Darfur,
Somalia, Cecenia, Iraq, Afghanistan, e
altre regioni del Sud America e dell‟A-
sia.
IL DOVERE DELLA MEMORIA
di Davide Basile
Caricati su un camion fummo portati alla
Stazione Centrale di Milano. Fummo fatti
salire a calci e pugni, e piombati nei vagoni.
Il viaggio durò una settimana. Eravamo
ammassati l‟uno sull‟altro: un secchio per
gli escrementi e un pò di paglia per terra,
senza né luce, né acqua. Il 6 febbraio 1944 il
treno si fermò ad Auschwitz. Ricordo il
rumore osceno e assordante degli assassini
intorno a noi, i fischi, i latrati; ricordo i co-
mandi e ricordo quando fui separata per
sempre da mio papà. Con altre 30 ragazze
italiane, spaurite, stupite da questo destino,
entrammo nel grande lager femminile di
Birkenau. Era una città fantasma: una distesa
senza fine di baracche spaventose. Il primo
giorno fummo denudate, rapate a zero e ci fu
tatuato un numero sul braccio. Questo nume-
ro sostituiva allora il nostro nome, ma è
diventato negli anni una parte di me: si iden-
tifica per me con il dolore puro, con il vio-
lento cambiamento di ruolo che dovetti subi-
re, da figlia a ragazzina disgraziata e sola in
un lager.
Imparai in fretta che lager significava morte,
fame, freddo, botte, punizioni; significava
schiavitù, umiliazioni, torture, esperimenti.
Vivevo con una incessante paura, mi chiude-
vo sempre di più in me stessa, cercando di
essere invisibile. Sul mio corpo di adole-
scente la pelle era cascante e le ossa sporge-
vano da tutte le parti. Non sapevamo che
giorno e che ora fosse, non potevamo avere
notizie di nessun genere. Vivevamo in asso-
luta promiscuità, senza rimanere un attimo
sole. Dormivamo in 5, 6 per giaciglio, utiliz-
zando i nostri zoccoli come cuscino. Ci ser-
vivamo dei gabinetti in 20, 30 contempora-
neamente e, senza un cucchiaio, dovevamo
inghiottire a sorsate, come animali, la zuppa
che ci veniva data una volta al giorno. La
lotta per la sopravvivenza era senza quartie-
re: le prigioniere affamate e disperate avreb-
bero fatto qualunque cosa per un pezzo di
pane.
Passavano i mesi e noi obbedivamo cieca-
mente agli ordini, poiché volevamo vivere.
Cercavamo di non perdere almeno il nostro
cervello. Io tentavo di sdoppiarmi, immer-
gendomi in un mondo irreale e mi sforzavo
di non vedere e di non sentire. Di non vedere
i cadaveri nudi e scheletriti, ammucchiati in
attesa di essere
bruciati; di non
vedere le punizioni, la fiamma del camino,
la neve sporca, i fili spinati percorsi da cor-
rente elettrica. Di non sentire di notte le
grida, i fischi, i comandi urlati; i racconti
delle altre prigioniere sulle atrocità viste o
subite. Alla fine del 1945, con l‟avvicinarsi
dei russi, il campo fu in parte distrutto dai
nazisti in fuga e tutti i prigionieri in grado di
muoversi furono evacuati verso altri campi.
Fui avviata con altre disgraziate come me, a
piedi, sulle strade della Germania. Non mi
voltavo a guardare le compagne che cadeva-
no e che venivano finite con una fucilata alla
testa. Andavo avanti e comandavo alle mie
gambe di camminare. La strada era dissemi-
nata di morti senza tomba. Vive per miraco-
lo, scheletri senza parvenza di femminilità,
vedemmo fuggire i nostri aguzzini e giunge-
re gli americani da una parte e i russi dall‟al-
tra. Eravamo testimoni della Storia che cam-
biava sotto i nostri occhi, sconvolte, stan-
chissime ed emozionate. Tornai a Milano
nell‟agosto del 1945 su un camion america-
no. Mi avviai alla mia casa di corso Magenta
per vedere se c‟era qualcuno dei miei, ma le
finestre rimasero chiuse per sempre.
Liliana Segre, deportata e sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz
Scritto a matita in un vagone piombato
Qui in questo convoglio
Io sono Eva
con Abele mio figlio
Se vedete mio figlio maggiore
Caino figlio di Adamo
ditegli che io
(Poesia di Dan Pagis [1930-1986], poeta ebreo deportato ancora bambi-
no in un campo di concentramento dal quale riuscì a fuggire nel 1944)
Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva
a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse in avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul
luogo. Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. (Lc 19, 1-6)
Il sicomoro è l’albero su cui sale Zaccheo; è ciò che gli permette di vedere oltre il proprio punto di vista e i propri limiti e di lasciarsi “guardare” e scegliere
da Gesù.
e-mail: [email protected]
Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 8
Vi racconterò l'inferno. Avevo 18 anni quando sono stato
arrestato e non avevo fatto nulla, nessuna colpa. Sono
stato messo in carcere. Dal carcere sono stato portato al
campo di concentramento, e dal lì al campo di sterminio.
Dal campo di sterminio non si può uscire vivi, né morti,
perché dal campo può uscire solo l'anima, perché tu
«uscirai dal camino». In quel campo ho perso tutta la mia
famiglia, 10 persone. Tutti sapevamo che non saremmo
ritornati a casa, e se anche fossimo riusciti a tornare, non
avremmo trovato nessuno. Questa è stata la terribile perfi-
dia nazista.
Auschwitz vuol dire soprattutto forni crematori, sicurezza
quasi matematica di non arrivare a sera..., non a domani, a
sera. «Un pidocchio - la tua morte»: ogni 15 giorni i prigio-
nieri venivano sottoposti ad un attento controllo e chi aveva
un pidocchio veniva messo da una parte. Dopo 4 ore era
garantito cenere, né più né meno cenere, e tu sentivi la
morte che ti scendeva dentro, ti sentivi svuotato, non eri più
un uomo, eri già cadavere. La più piccola infrazione veniva
punita con 25 nerbate sui glutei o sui polpastrelli, e se il
punito non era capace di contare fino a 25 in tedesco, il
Kapò ricominciava fino alla morte del prigioniero. Ad Au-
schwitz i prigionieri si alzavano alle 4 del mattino per
poter uscire alle 7 fuori del campo: nella piazza d'appello,
che neppure Dante avrebbe potuto immaginare altrettan-
to tragica, i prigionieri passavano 2 o 3 ore, anche più, sot-
to la neve, la pioggia, le nerbate, la fame e la paura, unica-
mente per avere il diritto di uscire a lavorare per prendere
un'altra dose di nerbate. I prigionieri dovevano stare rigidi,
immobili. Non un uomo, fra 150 mila, osava fare il più pic-
colo movimento. Era quello il momento sacro della discipli-
na germanica, dell'ordine, della ferocia di trasformare gli
uomini in macchine, era la distruzione dell'umano, la crea-
zione di un uomo che non è più uomo, la personificazione
della paura. Noi non eravamo più niente, noi non esisteva-
mo, eravamo stati annientati nel nostro essere più profon-
do, eravamo soltanto alla ricerca disperata di mangiare, di
riposare, di metterci al riparo. Ma preferisco parlarvi delle
condizioni interiori. Un uomo, intanto, non esce più da
«quel» campo. Un uomo è sempre là. Chi ha sofferto fa
sua la sofferenza degli altri, sente un'affinità con chi soffre.
Chi non ha mai sofferto non sa che cosa vuol dire soffrire.
Diceva Socrate: «Solo chi è stato schiavo può capire che
cos'è la libertà». Leggete la Storia, cercate di capire cos’è
successo e perché, e sappiate donare agli uomini quello
che è il dono più bello: l'Amore.
Testimonianza di Nedo Fiano, prigioniero numero A5405
Scrittore italiano di religione ebraica, sopravvissuto alla depor-
tazione nazista nel campo di concentramento di Auschwitz.
Autobiografia
La mia famiglia è onorata, un po’ grazie a
me
Mio fratello inventò il massacro,
I miei genitori - il pianto
Io - il silenzio.
(Poesia di Dan Pagis)
“Il mio Rebbe soleva raccontarmi la storia di lui ebreo che era sfuggito con la moglie e il figlio all’Inquisizione spagnola, e con una piccola barca, sul mare in tempesta, aveva raggiunto un’isoletta rocciosa. Cadde un fulmine e uccise sua mo-glie. Venne una tempesta e gettò suo figlio in mare. Solo e derelitto, nudo e scalzo, stremato dalle tempeste e atterrito dai tuoni e dai fulmini, con i capelli arruffati e le mani tese a Dio, l’ebreo prose-guì il suo cammino sull’isola rocciosa e de-serta, e si rivolse al suo Creatore con queste parole: «Dio d’Israele, sono fuggito qui per poterTi servire indisturbato, per obbedire ai
Tuoi comandamenti e santificare il Tuo no-me. Tu però fai di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riu-
scire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti av-verto, Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezio-so e caro posseggo al mondo, mi puoi tortu-rare a morte, io crederò sempre in Te. Sem-pre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stes-
sa volontà!»”. E queste sono anche le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d’ira: Non Ti servirà a nulla! Hai fatto di tutto per-
ché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, io invece muoio così come sono vissuto, pervaso di un’incrollabile fede in Te. Sia lodato in eterno il
Dio dei morti, il Dio della vendetta, della verità e della giustizia, che presto mostrerà di nuovo il suo volto al mondo, e ne scuoterà le fondamenta con la sua voce onnipotente.
(Brano tratto da “Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz).
«Credo nel sole, anche quando non splende; credo nell’amore,
anche quando non lo sento; credo in Dio, anche quando tace».
(Scritta sul muro di un cantina di Colonia, dove alcuni Ebrei si nascosero durante la II Guerra Mondiale)
CHI NON CONOSCE LA STORIA, SARÀ COSTRETTO A RIVIVERLA