Sicomoro_Gennaio2011

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Il 27 GENNAIO è il GIORNO DELLA MEMORIA, l’anniversario dell’a- pertura del campo di sterminio di Auschwitz. Questo giorno credo debba rappresentare per ciascuno di noi l’inizio di un assillo, di un tormento duro, mole- sto ma assolutamente necessario: fissa- re nel cuore e nella mente, prendere consapevolezza e raccontare ciò che è stato. A lungo si è utilizzato il termine olocausto” (rito sacrificale in cui l’offerta è interamente bruciata) per descrivere la distruzione degli Ebrei nei Lager, e que- sto anche sulla base dell’analogia con il passo della Genesi che descrive il sacrifi- cio di Isacco per mano del padre Abra- mo. Tuttavia, nel Cap. 22 di Genesi, sa- crificante (Abramo) e sacrificato (Isacco) condividono lo stesso spazio religioso, la stessa fede, il medesimo Dio. Applicare pertanto questo termine allo sterminio del popolo ebreo non è certo pertinente, e appare non solo fuorviante ma forse an- che blasfemo, non volendo associare ad esso alcun atto religioso. Oggi dunque si preferisce utilizzare la parola "Shoah" per definire questa ineffabile tragedia, un’immane catastrofe che ha colpito il popolo ebraico e non solo...un “buco nero” della storia dell’umanità che ha avuto in Auschwitz il suo teatro più ama- ro ed efferato. Auschwitz. Un nome duro; quella “zfinale che sibila e fa terrore, che mette in moto un'onda di reazioni e di pensieri. Un luogo icona di tanti altri campi di stermi- nio, ove si è consumata la barbarie più cupa e atroce della storia. Una tragedia che incute ancora oggi timore e ango- scia, che provoca rabbia e sgomento, che scava dentro di noi a interrogarci con nuove e vecchie domande, a soffiare forte sulle corde della Storia in generale, e su quelle ancora più prossime della "nostra" storia, della storia di ciascuno di noi che vive in questo mondo...perché lo straniero, il diverso, l’”altro” in generale ci sono vicini, sono la nostra gioia ma spes- so anche il nostro inferno, il nostro tor- mento...il nostro nemico: A molti, individui o popoli, può accadere di ritene- re, più o meno consapevolmente, che «ogni stra- niero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione la- tente; si manifesta solo in atti saltuari e non coor- dinati, e non sta all’origine di un sistema di pensie- ro. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conse- guenze ci minacciano. La storia dei campi di di- struzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”. (Primo Levi) È necessario tuttavia affrontare la Shoah senza ritrarre lo sguardo, ancorché inorri- diti, disgustati, atterriti: è la crudezza della storia, unita alla sua complessità e alla violenza dell'uomo sull’uomo che deve essere sondata, conosciuta, fatta gesto e parola, azione e memoria forte e viva, ben sapendo che certe esperienze di dolore non si comunicano, o certamen- te si comunicano non con la parola. Nulla di ciò che è accaduto in quei luoghi e in quel tempo deve essere taciuto. Mai. Come scritto in Isaia 56,5: "concederò nella mia casa e dentro le mie mura un luogo e un nome ... darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato”. Il termine “luogo” va qui inteso come mo- numento, testimone di memoria.…Che anche nel nostro cuore ci sia perciò que- sto luogo, questo monumento. Che que- sta giornata ci abiti quale “testimone di memoria” per ricordare e trasmettere tutto: i luoghi, le storie degli innocenti, dei Santi e dei Giusti tra le Nazioni, dei bam- bini, degli ebrei, degli slavi e degli zinga- ri, delle donne e dei vecchi, degli omo- sessuali, dei deformi, dei sopravvissuti e degli assassini, dei morti. Dell’altro. Rac- contare tutto, soprattutto ai nostri figli: questo è il baratro in cui è capace di pre- cipitare l’uomo, ciascun uomo; questo è il rischio di ritenere l’altro, il diverso, un “nemico”. Tuttavia, occorre ricordare e fare memoria di ciò che è stato dando un senso alla Memoria, perché non resti uno stantio o celebrativo racconto di fatti ac- caduti, di luoghi visitati; perché non di- venti moralismo o peggio ancora una fredda retorica del tipo “...ricordare per- ché non accada mai più”. E se la possibi- le conseguenza della memoria è la bana- lizzazione, il prezzo della dimenticanza è molto più alto. Evitiamo dunque fratelli tutti gli atteggiamenti che non si traduco- no in espressioni di pensiero, perché il ricordo sappia divenire e trasformarsi in un organismo vivo, facendosi prospetti- va, perché la maniera migliore per non dimenticare è costruire. Perché solo l’A- more crea (P. Massimiliano Kolbe). G razie, allora, a tutti voi lettori se di questo numero del Sicomoro - fatto di nostre piccole esperienze e di cenni sul tormento interiore vissuto da testimo- ni sopravvissuti - vorrete prendere il ri- spettoso omaggio a tutte le vittime dei campi di sterminio, ed alla dignità di un popolo la cui elezione dura ancora oggi. Un ricordo non sterile, una memoria fe- conda ed attuale di tutte le vittime, dei 6.000.000 di Ebrei defunti, trucidati, mas- sacrati. I nostri “fratelli maggiori”. Paola Negro Alle 12.000.000 di vittime. Agli 80.000.000 di carnefici. Agli innocenti. Ai colpevoli. Al popolo martoriato di Israele. Al popolo redento di Germania. Affratellati nella Memoria dell'orrore, nell'orrore della Memoria. Periodico del Gruppo Esperienza Anno 15 - Gennaio 2011 Parrocchia S. Teresa di Gesù Bambino Via E. Nicolardi, 225 - Napoli

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Il Sicomoro Gennaio 2011 - La shoah

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Il 27 GENNAIO è il GIORNO DELLA

MEMORIA, l’anniversario dell’a-

pertura del campo di sterminio di

Auschwitz. Questo giorno credo debba

rappresentare per ciascuno di noi l’inizio

di un assillo, di un tormento duro, mole-

sto ma assolutamente necessario: fissa-

re nel cuore e nella mente, prendere

consapevolezza e raccontare ciò che è

stato. A lungo si è utilizzato il termine

“olocausto” (rito sacrificale in cui l’offerta

è interamente bruciata) per descrivere la

distruzione degli Ebrei nei Lager, e que-

sto anche sulla base dell’analogia con il

passo della Genesi che descrive il sacrifi-

cio di Isacco per mano del padre Abra-

mo. Tuttavia, nel Cap. 22 di Genesi, sa-

crificante (Abramo) e sacrificato (Isacco)

condividono lo stesso spazio religioso, la

stessa fede, il medesimo Dio. Applicare

pertanto questo termine allo sterminio del

popolo ebreo non è certo pertinente, e

appare non solo fuorviante ma forse an-

che blasfemo, non volendo associare ad

esso alcun atto religioso. Oggi dunque si

preferisce utilizzare la parola "Shoah"

per definire questa ineffabile tragedia,

un’immane catastrofe che ha colpito il

popolo ebraico e non solo...un “buco

nero” della storia dell’umanità che ha

avuto in Auschwitz il suo teatro più ama-

ro ed efferato.

Auschwitz. Un nome duro; quella “z”

finale che sibila e fa terrore, che mette in

moto un'onda di reazioni e di pensieri. Un

luogo icona di tanti altri campi di stermi-

nio, ove si è consumata la barbarie più

cupa e atroce della storia. Una tragedia

che incute ancora oggi timore e ango-

scia, che provoca rabbia e sgomento,

che scava dentro di noi a interrogarci con

nuove e vecchie domande, a soffiare

forte sulle corde della Storia in generale,

e su quelle ancora più prossime della

"nostra" storia, della storia di ciascuno di

noi che vive in questo mondo...perché lo

straniero, il diverso, l’”altro” in generale ci

sono vicini, sono la nostra gioia ma spes-

so anche il nostro inferno, il nostro tor-

mento...il nostro nemico:

“A molti, individui o popoli, può accadere di ritene-

re, più o meno consapevolmente, che «ogni stra-

niero è nemico». Per lo più questa convinzione

giace in fondo agli animi come una infezione la-

tente; si manifesta solo in atti saltuari e non coor-

dinati, e non sta all’origine di un sistema di pensie-

ro. Ma quando questo avviene, quando il dogma

inespresso diventa premessa maggiore di un

sillogismo, allora, al termine della catena, sta il

Lager. Esso è il prodotto di una concezione del

mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa

coerenza: finché la concezione sussiste, le conse-

guenze ci minacciano. La storia dei campi di di-

struzione dovrebbe venire intesa da tutti come un

sinistro segnale di pericolo”. (Primo Levi)

È necessario tuttavia affrontare la Shoah

senza ritrarre lo sguardo, ancorché inorri-

diti, disgustati, atterriti: è la crudezza

della storia, unita alla sua complessità e

alla violenza dell'uomo sull’uomo che

deve essere sondata, conosciuta, fatta

gesto e parola, azione e memoria forte e

viva, ben sapendo che certe esperienze

di dolore non si comunicano, o certamen-

te si comunicano non con la parola. Nulla

di ciò che è accaduto in quei luoghi e in

quel tempo deve essere taciuto. Mai.

Come scritto in Isaia 56,5: "concederò

nella mia casa e dentro le mie mura un

luogo e un nome ... darò loro un nome

eterno che non sarà mai cancellato”. Il

termine “luogo” va qui inteso come mo-

numento, testimone di memoria.…Che

anche nel nostro cuore ci sia perciò que-

sto luogo, questo monumento. Che que-

sta giornata ci abiti quale “testimone di

memoria” per ricordare e trasmettere

tutto: i luoghi, le storie degli innocenti, dei

Santi e dei Giusti tra le Nazioni, dei bam-

bini, degli ebrei, degli slavi e degli zinga-

ri, delle donne e dei vecchi, degli omo-

sessuali, dei deformi, dei sopravvissuti e

degli assassini, dei morti. Dell’altro. Rac-

contare tutto, soprattutto ai nostri figli:

questo è il baratro in cui è capace di pre-

cipitare l’uomo, ciascun uomo; questo è il

rischio di ritenere l’altro, il diverso, un

“nemico”. Tuttavia, occorre ricordare e

fare memoria di ciò che è stato dando un

senso alla Memoria, perché non resti uno

stantio o celebrativo racconto di fatti ac-

caduti, di luoghi visitati; perché non di-

venti moralismo o peggio ancora una

fredda retorica del tipo “...ricordare per-

ché non accada mai più”. E se la possibi-

le conseguenza della memoria è la bana-

lizzazione, il prezzo della dimenticanza è

molto più alto. Evitiamo dunque fratelli

tutti gli atteggiamenti che non si traduco-

no in espressioni di pensiero, perché il

ricordo sappia divenire e trasformarsi in

un organismo vivo, facendosi prospetti-

va, perché la maniera migliore per non

dimenticare è costruire. Perché solo l’A-

more crea (P. Massimiliano Kolbe).

G razie, allora, a tutti voi lettori se di

questo numero del Sicomoro - fatto

di nostre piccole esperienze e di cenni

sul tormento interiore vissuto da testimo-

ni sopravvissuti - vorrete prendere il ri-

spettoso omaggio a tutte le vittime dei

campi di sterminio, ed alla dignità di un

popolo la cui elezione dura ancora oggi.

Un ricordo non sterile, una memoria fe-

conda ed attuale di tutte le vittime, dei

6.000.000 di Ebrei defunti, trucidati, mas-

sacrati. I nostri “fratelli maggiori”.

Paola Negro

Alle 12.000.000 di vittime.

Agli 80.000.000 di carnefici.

Agli innocenti.

Ai colpevoli.

Al popolo martoriato di Israele.

Al popolo redento di Germania.

Affratellati

nella Memoria dell'orrore,

nell'orrore della Memoria.

Periodico del Gruppo Esperienza Anno 15 - Gennaio 2011

Parrocchia S. Teresa di Gesù Bambino Via E. Nicolardi, 225 - Napoli

Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 2

«Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha

fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.

Mai dimenticherò quel fumo.

Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di

fumo sotto un cielo muto.

Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.

Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere.

Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e

i miei sogni, che presero il volto del deserto.

Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto

Dio stesso. Mai»

ELIE WIESEL

Paradossalmente gli unici a provare sensi di colpa sono i sopravvissu-

ti: “Per una strana ironia del destino, soltanto i reduci, i sopravvissuti

erano, e sono, coscienti della loro parte di responsabilità. L'idea che li

domina è concreta, straziante. Fa parte del loro essere. «Perché non

vi siete rivoltati? Perché non avete resistito? Eravate diecimila contro

dieci, contro uno: perché vi siete lasciati condurre al mattatoio come

bestiame?» Vivo, e quindi sono colpevole: se sono ancora qui è per-

ché un amico, un compagno, uno sconosciuto è morto al mio posto. In

un mondo chiuso, questa certezza possiede una potenza distruttrice

dagli effetti facilmente intuibili”. Così il prigioniero risparmiato, scampa-

to alla selezione, non poteva reprimere uno spontaneo sentimento di

gioia. Passato un momento, una settimana, un'eternità, questa gioia

piena di ansia e di paura si trasforma in senso di colpa. Il sentimento

di libertà, di essere stato risparmiato, equivale a confessare: “sono

contento che un altro se ne sia andato al mio posto”. È per non pensa-

re a questo che i prigionieri, aiutati da un meccanismo di difesa, riusci-

vano a dimenticare così presto i loro compagni, i loro genitori selezio-

nati. Il sistema della “selezione” nei campi di sterminio non mirava

soltanto a decimare periodicamente la popolazione, ma anche a far sì

che ogni prigioniero dicesse a se stesso: “Quello avrei potuto essere

io; sono la causa, forse

la condizione della morte

altrui”.

(Brano tratto da “La

nostra colpa comune” di

E. Wiesel)

Deportato adolescente ad Auschwitz con tutta la sua

famiglia, insieme a 12.000 ebrei ungheresi, la

maggior parte dei quali non sopravvisse. Wiesel vide

morire il padre, la madre e le tre sorelle. Scrittore,

nel 1986 riceve il Premio Nobel per la Pace.

L‟arrivo al campo di

sterminio

Lasciateci ricordare, lasciateci ricordare

gli eroi di Varsavia, i martiri di Treblinka, i

bambini di Auschwitz. Essi combatterono

da soli, soffrirono da soli, vissero soli, ma

essi non morirono da soli, per qualcosa in

cui tutti noi morimmo insieme a loro.

“Un sudore freddo mi copriva la fronte,

ma gli dissi che non credevo che si bru-

ciassero degli

uomini nella nostra epoca, che l’umanità

non l’avrebbe più tollerato…

- L’umanità? L’umanità non si interessa

a noi. Oggi tutto è permesso, tutto è

possibile, anche i forni crematori… La

voce gli si strozzava in gola.

Papà - gli dissi - se è così non voglio più

aspettare. Mi butterò sui reticolati elettri-

ci: meglio questo che agonizzare per ore

tra le fiamme.

Lui non mi rispose. Piangeva. Il suo cor-

po era scosso da un tremito. Intorno a

noi tutti piangevano. Qualcuno si mise a

recitare il Kaddìsh, la preghiera dei morti.

Non so se è già successo nella lunga

storia del popolo ebraico che uomini

recitino la preghiera dei morti per sé

stessi.

- «Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rab-

bà»…«Che il Suo Nome sia ingrandito

e santificato» - mormorava mio padre.

Per la prima volta sentii la rivolta cresce-

re in me. Perché dovevo santificare il

Suo Nome? L’eterno, il Signore dell’Uni-

verso, l’Eterno Onnipotente taceva: di

cosa dovevo ringraziarLo?

Continuammo a marciare. Ci avvicinava-

mo a poco a poco alla fossa da cui pro-

veniva un calore infernale. Ancora venti

passi. Se volevo darmi la morte, questo

era il momento. La nostra colonna non

aveva da fare che una quindicina di pas-

si. Io mi mordevo le labbra perché mio

padre non sentisse il tremito delle mie

mascelle. Ancora dieci passi. Otto. Sette.

Marciavamo lenta-

mente, come dietro

ad un carro funebre, seguendo il nostro

funerale. Solo quattro passi. Tre. Ora era

là, vicinissima la fossa e le sue fiamme.

Io raccoglievo tutte le mie forze residue

per poter saltare fuori dalla fila e gettarmi

sui reticolati. In fondo al mio cuore davo

l’addio a mio padre, all’universo intero e,

mio malgrado, delle parole si formavano

e si presentavano sulle mie labbra:

«Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rab-

bà»… «Che il Suo Nome sia elevato e

santificato»… Il mio cuore stava per

scoppiare. Ecco: mi trovavo di fronte

all’Angelo della morte … No. A due passi

dalla fossa ci ordinarono di girare a sini-

stra, e ci fecero entrare in una baracca”.

(Brano tratto da “La notte” di E. Wiesel)

La selezione

La banalità del male! Questa l’ironica conclusione cui è giunta la storica Hannah Arendt: il volto del male è il volto della banalità, dell’inconsistenza e dell’assopimento di una coscienza che si ritaglia – accontentandosene – dei propri spazi di utilità. È quell’atteggiamento che mostra una totale assenza di capacità di riflessione, una correlazione tra pensiero, vita interiore, azione, sentimenti, e che è accompagnato, per contrasto, da una certa facilità all’osservanza di norme e codici precostituiti, ovviamente, in maniera acritica. Alla “radice” della banalità del male vi è un problema di relazione: l’incapacità di interessarsi alla vita ed alla sorte dell’altro, in quanto perfettamente ripiegati su se stessi, e perciò privi di quello sguardo che si fa attenzio-ne, che si prende cura dell’altro.

“Faceva giorno quando mi svegliai. Allora mi ricordai di avere un padre: dopo l’allarme avevo seguito la folla senza occuparm i di lui. Sapevo

che era allo stremo delle forze, sull’orlo dell’agonia, eppure l’avevo abbandonato. Partii alla sua ricerca. Ma nello stesso istante nacque in me

questo pensiero: «Purché non lo trovi! Se potessi sbarazzarmi di quel peso morto, così da poter lottare con tutte le mie

forze per la mia sopravvivenza, occupandomi solo di me stesso». E subito ebbi vergogna, vergogna per sempre di me

stesso”. (Brano tratto da “La notte” di E. Wiesel)

La vergogna e

i sensi di colpa

Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 3

I l 9 ottobre 1997 era un giovedì.

Direte voi embè?... Embè...era il

34° anniversario della tragedia

del Vajont. (Per chi volesse ap-

profondire, rimando al seguente link:

h t t p : / / v i d e o . g o o g l e . c o m / v i d e o p l a y ?

docid=8879734850960378650#).

Ho visto questa trasmissione - a metà

tra il documentario e la rappresenta-

zione teatrale (molti chiamano il gene-

re orazione civile) - perché fu una scia-

gura rimasta nella memoria di mia ma-

dre allora 20enne, che quella sera mi

«impose» di partecipare a questo

evento televisivo. Ricordo che avevo

visto la diga dal vivo in un nostro viag-

gio nell’estate del 1985, e quel ricordo

di 12 anni prima, di una diga assurda-

mente in cima ad una montagna geo-

logicamente non adatta ad ospitarla,

ritornò così prepotente nella mia men-

te che rimasi incollato alla TV in attesa

dell’orario per la commemorazione

della tragedia celebrata da Marco Pao-

lini (autore ed attore) proprio nel teatro

ricavato sul piazzale della diga stessa.

Torniamo a noi… quale sia la mia

esperienza di come i tedeschi vivono

questa giornata è difficile dirlo: ormai

la società tedesca è così multi-etnica

che qui si trova tutto e il contrario di

tutto. Il 21 aprile del 2009 si celebra lo

Yom HaShoah, Giornata del Ricordo

della Shoah, che cade ogni anno il 27

di Nisan. Quel giorno mi trovai per ca-

so nei pressi del monumento dedicato

alla Shoah, costituito da un tratto di

binario che termina con una rappre-

sentazione in marmo di un camino.

Vidi lì uno sparuto gruppo di ebrei te-

deschi (ne sono rimasti pochi in Ger-

mania!) e, pochi metri più in là, sul

piazzale antistante il magnifico Duomo

in cui sono custodite le reliquie dei

Magi, un ben più consistente gruppo di

palestinesi che inneggiava alla cancel-

lazione dello Stato di Israele, mostran-

do le malefatte del Governo e dell’e-

sercito israeliano a carico della popola-

zione.

Pensandoci bene, le due situazioni

non erano poi così in conflitto; anzi,

mostravano che, nonostante l’atroce

passato di cui i nostri fratelli maggiori

ebrei facevano memoria in quel giorno,

poco o nulla era cambiato nel mondo,

e un altro genocidio era ed è tuttora in

a t t o .

D e v o

d i r e

t u t t a -

via che in Germania si respira un aria

di “penitentiagite” cioè del “fare peni-

tenza” da parte dei Tedeschi discen-

denti dei folli criminali che devastarono

l’Europa tra il 1939 e il 1945, e che si

macchiarono di un tale efferato delitto

contro gli Ebrei. Se non altro per come

tengono a bada le minoranze di estre-

ma destra (i neo-nazifascisti), a cui

raramente autorizzano manifestazioni

pubbliche, e se lo fanno appena

“sgarrano” - inneggiando a qualche

potenziale reato fatto in passato o da

fare - la manifestazione viene bloccata

ed i manifestanti allontanati!

In questo modo i Tedeschi curano la

propria Memoria e rispettano la legge,

analoga a quella italiana, relativa all’a-

pologia di fascismo ed alla ricostituzio-

ne di un partito che porta lo stesso

nome di 70 anni fa.

Non ho mai sentito da alcun Tede-

sco parlare di ciò che è stata la Shoah,

ma ne vedo i segni: interpretano quoti-

dianamente con umiltà e in silenzio il

motto che campeggiava sul cancello di

Auschwitz: “Arbeit macht frei”, il lavoro

rende liberi… in questa società

(nonostante ci siano fette di disoccu-

pazione ed emarginazione) il lavoro è

la prima cosa! Non solo perché il lavo-

ro c’è, ma perché al lavoro sono impli-

citamente associati dignità, stabilità e

garanzia per le famiglie. E come fa un

paese europeo di questi tempi ad ave-

re un basso debito pubblico, bassa

disoccupazione (nella sola Germania

Ovest, la percentuale di disoccupazio-

ne e il debito pubblico sono ridicoli!),

ed un reddito medio soddisfacente?

Perché la stragrande maggioranza

delle persone ogni mattina si rimbocca

le maniche e lavora, o va a scuola ad

imparare quel lavoro che facilmente

troverà dopo, e che - nel giro di pochi

anni di precarietà - si stabilizzerà fino a

diventare un lavoro a tempo indetermi-

nato. Forse proprio con il loro lavoro

stanno riscattando l’ignominia di quei

Lager e di quelle morti. È quindi dove-

roso fare memoria anche con il proprio

comportamento, andando a combatte-

re i pregiudizi del proprio cuore e quelli

delle persone che ci sono attorno.

Nel mio piccolo ho desiderio di in-

dagare su di un’altra storia, quella dei

militari italiani fatti prigionieri perché

dopo l’armistizio, trovandosi nella Re-

pubblica di Salò, avevano deciso di

non aderirvici. Questi ufficiali, conside-

rati traditori, furono inviati in Campi di

punizione (Straf-lager) in cui non esi-

stevano né camini né camere a gas; e

uno di questi si trovava proprio qui a

Colonia! Poiché la loro condizione di

prigionieri non era riconosciuta dalla

Convenzione di Ginevra vissero in una

condizione degradante. Tuttavia, que-

ste persone furono affiancate da un

sacerdote, e questo fu il primo

embrione della Missione Cattoli-

ca Italiana a Colonia! (Spero che

la nostra direttrice responsabile

del Sicomoro acconsentirà a

pubblicarne la storia appena

sarà pronta!).

Come faremo memoria io

e Raffaella quest’anno? Il 26

gennaio, alla vigilia della Giorna-

ta della Memoria, La7 trasmette-

rà un’opera proprio di Marco

Paolini dal titolo “Ausmerzen (che si-

gnifica “eliminare”, “sradicare”,

“estirpare”) - Vite indegne di essere

vissute”, che racconterà in diretta

dall’ex-ospedale psichiatrico Paolo Pini

di Milano la terribile vicenda dell’elimi-

nazione dei disabili e dei malati di

mente nella Germania nazista con la

sperimentazione di tecniche di elimina-

zione di massa, le quali furono poi ap-

plicate nella soluzione finale contro gli

Ebrei.

Giorno della Memoria o Memoria ogni giorno?

di Francesco Maria Caridei

Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 4

“Steinlauf mi

vede e mi salu-

ta, e mi doman-

da severamente

perché non mi

lavo. Perché

dovrei lavarmi? Starei forse meglio di

quanto sto? [...] Più ci penso, e più mi

pare che lavarsi la faccia nelle nostre

condizioni sia una faccenda insulsa,

addirittura frivola: un’abitudine mecca-

nica, o peggio, una lugubre ripetizione

di un rito estinto. Morremo tutti o stia-

mo per morire: se mi avanzano dieci

minuti fra la sveglia e il lavoro, voglio

dedicarli ad altro, chiudermi in me stes-

so, a tirare le somme, o magari guarda-

re il cielo e a pensare che lo vedo forse

per l’ultima volta.

[...] Mi risponde: appunto perché il

Lager è una gran macchina per ridurci

a bestie, noi bestie non dobbiamo diven-

tare; che anche in questo luogo si può

sopravvivere, e perciò si deve voler

sopravvivere, per raccontare, per porta-

re testimonianza; e che per vivere è

importante sforzarci di salvare almeno

lo scheletro, l’impalcatura, la forma

della civiltà. Che siamo schiavi,

privi di ogni diritto, esposti a ogni

offesa, votati a morte quasi certa,

ma che una facoltà ci è rimasta, e

dobbiamo difenderla con ogni vi-

gore perché è l’ultima: la facoltà di

negare il nostro consenso. Dobbiamo

quindi, certamente, lavarci la faccia

senza sapone, nell’acqua sporca, e

asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare

il nero alle scarpe, non perché così pre-

scrive il regolamento, ma per dignità e

proprietà. Dobbiamo camminare dritti,

senza strascicare gli zoccoli, non già in

omaggio alla disciplina prussiana, ma

per restare vivi, per non cominciare a

morire”. (Brano tratto da “Se questo è un uomo”)

I prigionieri privilegiati erano in minoranza entro i Lager, ma rappresen-

tano invece una forte maggioranza fra i sopravvissuti; infatti, anche se

non si tenga conto della fatica, delle percosse, del freddo, delle malat-

tie, va ricordato che la razione alimentare era decisamente insufficiente

anche per il prigioniero più sobrio: consumate in due o tre mesi le riserve fisiologiche dell'organismo, la morte

per fame, o per malattie indotte dalla fame, era il destino normale del prigioniero. Poteva essere evitato solo con

un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio, grande o piccolo; in altre parole, un modo

conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma. (Tratto da “I sommersi e i salvati”)

Si laurea con lode in Chimica;

sul diploma di laurea la

precisazione «di razza ebraica».

Nel 1944 viene deportato in un

campo di lavoro vicino

Auschwitz, impiegato in attività

di laboratorio presso una fabbrica

di gomma. L’annullamento della

personalità, il degrado dell‟essere

umano alla condizione di

animale, la privazione della

dignità: tutto nei Campi era

finalizzato al raggiungimento di

questo obiettivo: dalla scritta sul

cancello d‟entrata fino al numero

marchiato sul braccio, come

bestie. Dietro quel numero non

c‟è più un uomo, ma solo un

oggetto, un “pezzo”. Se funziona,

va avanti; se si rompe, è gettato

via. Primo Levi è “il pezzo” n.

174517. Funzionante.

Muore suicida nella sua casa di

Torino.

Ci toglieranno anche il nome:

e se vorremo conservarlo,

dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome,

qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga… perché

accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.

Non può esistere libertà

senza identità…

L'ascesa dei privilegiati, nei Lager e in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile:

essi sono assenti solo nelle utopie. È compito dell'uomo giusto fare guerra

ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è

una guerra senza fine. Nei Lager, la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l'ossatura, ed insieme il

lineamento più inquietante. È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due

campi dei padroni e dei servi. Sonderkommandos (Squadre Speciali). Questa denominazione debitamente vaga

indicava il gruppo di prigionieri - in massima parte ebrei - a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spet-

tava mantenere l'ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dove-

vano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d'oro dalle mascelle;

tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai

crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. L’aver concepito ed orga-

nizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo: si tentava di spostare sulle vittime il

peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti.

“Noi giacevamo in un mondo di morti e

di larve. L’ultima traccia di civiltà era

sparita intorno a noi e dentro di noi.

[…] non è uomo […] chi ha atteso che

il suo vicino morisse per togliergli un

quarto di pane […] e non è umana

l’esperienza di chi ha vissuto giorni in

cui l’uomo è stato cosa vicino all’altro

uomo".

“Credo che nessuno sia autorizzato a

giudicarli, non chi ha conosciuto

l’esperienza del Lager, tantome-

no chi non l’ha conosciuta…” Potere e privilegio: i Sonderkommandos

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi

(Tratto da “Se questo è un uomo”)

Quando piove bisogna cercare di muover-si il meno possibile perché non accada che qualche porzione di pelle venga a contatto con gli abiti zuppi e gelidi. È una fortuna che oggi non tira vento: in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O, ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non sentissi altro nel cuore che sofferenza e noia, che pare veramente di giacere sul fondo, ebbene anche allora noi pensiamo che se voglia-mo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere….

PRIMO LEVI

La zona grigia. Quelle persone

che per avere salva la vita si sono

piegate fino a collaborare ...

Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 5

U n cancello nero con la beffar-

da scritta “Arbeit macht frei”,

il lavoro rende liberi, mi apre

alla vista di uno spiazzo di terra battu-

ta, chiuso tra le torrette di guardia po-

ste come mute sentinelle della storia.

Tutto intorno i muri di cinta, che ab-

bracciano senza speranza quello che

rimane delle baracche; poi l‟immenso

e silenzioso “Cortile dell‟appello”,

luogo della raccolta degli ebrei depor-

tati… luogo in cui giungevano uomini

che di lì a poco avrebbero perso ogni

sembianza e dignità umana per diven-

tare un numero! E ovunque quella

regolarità fastidiosa nella disposizione

degli edifici, nelle distanze calcolate

tra le baracche, nella simmetria delle

docce della morte…Tanto senso

dell‟ordine e della misura mi colpisce

come uno schiaffo in pieno viso, per-

ché contrasta paradossalmente con la

smisurata follia di quello che è stato.

Persino il sole che splende nel cielo

limpido appare fuori luogo, come una

nota stonata in questo contesto così

grigio e buio, in questa oscura pagina

di storia che suscita disgusto e che si

vorrebbe tanto dimenticare.

Ripercorrere attraverso immagini, fil-

mati, visita al museo e testimonianze

di sopravvissuti, la tristezza e la soffe-

renza della Shoah, fa male. D‟altronde

come rimanere inermi di fronte alla

narrazione e alla vista di corpi denuda-

ti, diseredati, denutriti, infreddoliti,

violati, ammonticchiati, privati della

vita? Immaginare uomini disperati,

scheletri semoventi in fila per grattare

resti di cibo da un pentolone, fa pensa-

re. Capacitarsi del fatto che tutto ciò

sia realmente accaduto, fa venire vo-

glia di vivere.

Proseguo visitando i bagni, le sale

comuni, le baracche con le file di letti

scarni e assolutamente piccoli, stretti

come scatole di fiammiferi; percorro

questi luoghi con il cuore chiuso in

una morsa.

Nel campo di Dachau c‟è silenzio e

angoscia, ovunque compassione e

amarezza. A ridosso dei luoghi comu-

ni vi è il monumento commemorativo

per tutti coloro che persero qui la vita:

è una sorta di “circolo della sofferen-

za”, rappresentante esili corpi in ferro

battuto disposti in maniera circolare,

quasi a formare un abbraccio di amore

e disperazione. Di fronte, oltre un lun-

go viale, sono state edificate tre cap-

pelle: una evangelista, la centrale cat-

tolica e la terza ebraica.

La cappella cristiana è denominata

“La sofferenza di

Cristo”, ma credo

che la posizione di

tutte e tre le cappel-

le, poste di fronte al

monumento per i

defunti, vogliano

essere un grido di dolore per tutte le

vittime dell‟Olocausto. Subito dopo la

zona più terribile, la concretizzazione

della crudeltà umana: gli spogliatoi, le

docce a gas e i forni crematori, dove

venivano “smaltite” vite….

Dopo questo “tour dell‟orrore” la vo-

glia ti tirare un respiro e tornare alla

vita di sempre è grande, ma inevitabil-

mente un groppo alla gola mi prende,

assieme ad un senso di vuoto. Proprio

in quest‟immenso piazzale dove un

tempo si faceva l‟appello dei detenuti

e dove spesso si stabiliva la loro morte

per mano di simili, la paura ha la me-

glio. I muri del campo sembrano cor-

rere lontano e una distesa infinita di

male dà spazio all‟assenza di vita di

quel luogo, all‟incredibile dolore. E tu

diventi piccolo, incredulo, indifeso,

incapace di reagire…Capisci allora

che film e libri sull‟argomento non

sono una esasperata visione dell‟acca-

duto, ma una appena accennata rico-

struzione della realtà.

L‟esperienza a Dachau mi ha cambia-

ta, mi ha fatto crescere, mi ha insegna-

to ad amare ogni piccola cosa della

mia vita, mi ha dato la forza di vedere

le cose così come sono, senza nascon-

dimenti, anche se mi fanno paura, an-

che se ho timore che l'orro-

re si riproponga: conscia

che il mondo, in ogni epo-

ca, può ricadere nell'oblio e

che “il sonno della ragione

genera mostri” (F. Goya).

A lla Redditio, innanzi a

Cristo ed accompagnata

per mano dai miei fratelli

della 34° Esperienza, ho riavvolto il

nastro dei miei ricordi… tre anni

dall‟Esperienza ad oggi. Compare e

scompare ogni immagine, ma con-

creto è il ricordo dei tanti tentativi di

fuga… fuga da me stessa,

„carcerata‟, schiava del momento e

dei miei sentimenti di quel tempo….

impedita di raggiungere la verità…

destinata a vivere nel mio deserto

che non lasciava scampo. Eppure il

seme dell‟Esperienza germoglia: una

lotta intensa, una

battaglia vinta!!!

Rifiorisce la mia

fede, il dono che

mi salva e distrugge la gabbia che

rintana il mio cuore e comprime l‟a-

more...

Così esplode l‟amore e comprendo il

senso, il senso del mio esserci in

questa storia… dell‟esserci sempre

stata, anche quando non c‟ero.

Ringrazio i miei fratelli che hanno

saputo cogliere ed accogliere questo

splendido dono di Dio e tutti quelli

che, contro le intemperie, hanno re-

sistito nell‟amore di Cristo…. ed

hanno resistito anche per me, per noi

della 34° Esperienza e tanti altri an-

cora.

Con gioia restituiamo, con un unico

cuore, gli insegnamenti ricevuti dai

nostri catechisti, autentici strumenti

di Dio.

Percorrerò da domani la strada

dell‟amore con quel coraggio che

non mi appartiene…orientata da

quell‟unica stella!!! Lascerò scorge-

re, insieme ad ognuno di voi, l‟attra-

zione dell‟Amore e lo slancio gene-

roso della speranza a chi è ancora

nel buio… ed io manterrò accesa,

nel profondo, la nostra speranza: in

questa vita tutti abbiano la gioia di

esserci per essere illuminati dalla

luce della Parola di Cristo e dal Suo

amore senza confini che non feri-

sce… non tradisce, ma guarisce l‟a-

nima!!!!

“IL SONNO DELLA RAGIONE GENERA MOSTRI”

di Chiara Sellitto

Dietro di me sentii il solito uomo

domandare: «Dov'è dunque Dio?»

E io sentivo in me una voce che gli

rispondeva: «Dov'è? Eccolo: è

appeso lì, a quella forca”...»

(Tratto da La Notte di Elie Wiesel)

AMEN La Redditio della 34° Esperienza

di Gabriella Dragotti

Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 6

EDITH STEIN

Dall’omelia di Giovanni Paolo II in

occasione della canonizzazione di

EDITH STEIN

"Quanto a me non ci sia altro vanto che

nella croce del Signore nostro Gesù Cri-

sto" (Galati 6,14). Le parole di S. Paolo

ben si addicono all'esperienza umana e

spirituale di Teresa Benedetta della Cro-

ce. Ci inchiniamo dinanzi alla memoria di

Edith Stein, proclamando la testimonian-

za da lei resa durante la vita e soprattut-

to con la morte. […] Pochi giorni prima

della sua deportazione Edith - a chi le

offriva di fare qualcosa per salvarle la

vita - aveva risposto: "Non lo fate! Per-

ché io dovrei essere esclusa? La giusti-

zia non sta forse nel fatto che io non

tragga vantaggio dal mio battesimo? Se

non posso condividere la sorte dei miei

fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo

senso distrutta". Per amore di Dio e

dell'uomo ancora una volta io levo un

grido accorato: mai più si ripeta una simi-

le iniziativa criminale per nessun gruppo

etnico, nessun popolo, nessuna razza, in

nessun angolo della terra! È un grido che

rivolgo a tutti gli uomini e le donne di

buona volontà; a tutti coloro che credono

all'eterno e giusto Iddio; a tutti

coloro che si sentono uniti in Cri-

sto, Verbo di Dio incarnato. Tutti dobbia-

mo trovarci in questo solidali: è in gioco

la dignità umana. Esiste una sola fami-

glia umana. Per i cristiani - e non solo

per loro - nessuno è «straniero». L'amore

di Cristo non conosce frontiere. Nel no-

stro tempo la verità viene scambiata

spesso con l'opinione della maggioranza.

Inoltre è diffusa la convinzione che ci si

debba servire della verità anche contro

l'amore o viceversa. Ma la verità e l'amo-

re hanno bisogno l'una dell'altro. Suor

Teresa Benedetta ne è testimone.

Edith appartiene ad una famiglia

ebraica ortodossa. Si professa

atea fino all‟età di 21 anni. Nel

1921 legge per caso la “Vita” di

S. Teresa d‟Ávila, rimanendone

conquistata: dopo aver chiesto e

ricevuto il Battesimo si ritira

dall‟insegnamento per entrare

nel Carmelo di Colonia,

scegliendo di chiamarsi Teresa

Benedetta della Santa Croce.

Nel 1942 Edith e la sorella Rosa

sono deportate ad Auschwitz,

dove vengono uccise nelle

camere a gas.

ETTY HILLESUM

“Non sono i fatti che contano

nella vita, conta solo ciò che

grazie ai fatti si diventa”

“Se sopravvivrò a questo tempo e se dirò: «La vita è bella e ricca di significato» bisognerà pur cre-

dermi. Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle

piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile. La miseria che c’è qui è terribile, ep-

pure alla sera tardi mi capita spesso di camminare lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innal-

za una voce che dice: «La vita è una cosa splendida e grande, più tardi

dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimi-

ne o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che

avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo

soccombere». E se sopravvivremo a questo tempo, corpo e anima ma

soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il

diritto di dire la nostra parola a guerra finita” .

Etty è ebrea. Durante gli ultimi

anni della sua vita scrive un

diario personale (che verrà

pubblicato solo nel 1981) da

cui traspare la sua forte pro-

pensione al dialogo interiore,

“quella parte di me, la più

profonda e la più ricca in cui

riposo, è ciò che io chiamo

Dio”. Nel 1942 i Tedeschi

invadono l‟Olanda: gli ebrei

vengono licenziati, ma ad Etty

viene offerta una grande oppor-

tunità di lavoro che le consenti-

rebbe di avere salvare la vita.

Etty però sceglie di non sottrar-

si al destino del suo popolo,

convinta che “l’unico modo per

render giustizia alla vita sia

quello di non abbandonare

delle persone in pericolo e di

usare la propria forza interiore

per portare luce nella vita

altrui”. Nel 1943 sale volonta-

riamente sul treno che la porta

ad Auschwitz, dove muore

dopo aver portato in quell'in-

ferno di dolore il suo appassio-

nato incanto per la bellezza

della vita, nel desiderio di di-

ventare “il cuore pensante

della baracca”.

Le minacce e il terro-

re crescono di giorno

in giorno. M'innalzo

intorno la preghiera

come un muro oscu-

ro che offre riparo,

mi ritiro nella pre-

ghiera come nella

cella di un convento,

ne esco fuori più

"raccolta", concen-

trata e forte. Questo

ritirarmi nella chiusa

cella della preghiera,

diventa per me una

realtà sempre più

grande. Dappertutto

c'erano cartelli che ci

vietavano le strada

per la campagna: ma

sopra quell'unico

pezzo di strada che

ci rimane c'è pur

sempre il cielo, tutto

quanto. Non posso-

no farci nulla, non

possono veramente

farci niente.

“Per umiliare qualcuno si deve essere in

due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si

lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è

immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano

solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di

tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose”

L‟umiliazione

“È un problema attuale: il grande odio per i

tedeschi che ci avvelena l’animo. Espres-

sioni come: «Che anneghino tutti, canaglie, che muoiano col gas»

fanno ormai parte della nostra conversazione quotidiana; a volte fan-

no sì che uno non se la senta più di vivere di questi tempi. Ed ecco

che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero

liberatore, simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto

d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente,

quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda

di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio

odio su un popolo intero” La preghiera

“L’odio non serve a

niente”...

Il nostro amore verso il

prossimo è la misura

del nostro amore a Dio.

Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 7

«La Repubblica italiana riconosce il

giorno 27 gennaio, data dell’abbatti-

mento dei cancelli di Auschwitz,

“Giorno della Memoria”, al fine di

ricordare la Shoah (sterminio del popo-

lo ebraico), le leggi razziali, la persecu-

zione italiana dei cittadini ebrei, gli

italiani che hanno subìto la deportazio-

ne, la prigionia, la morte, nonché colo-

ro che, anche in campi e schieramenti

diversi, si sono opposti al progetto di

sterminio, ed a rischio della propria

vita hanno salvato altre vite e protetto i

perseguitati.» Così recita la Legge della

Repubblica Italiana n. 211 del 20 luglio

2000. Purtroppo però il 27 gennaio è

sempre più un giorno come gli altri piut-

tosto che il Giorno della Memoria della

Shoah.

Ho visitato i campi di concentramento

di Auschwitz e Auschwitz II-Birkenau

nel maggio del 2007 e,

anche se sono trascorsi

ormai più di tre anni e

mezzo da quel giorno, mai potrò dimen-

ticare le cose viste e quelle sentite rac-

contare in quelle ore. Davvero un‟espe-

rienza toccante… e non è retorica…

Visitando quei luoghi, teatro di uno dei

più atroci massacri della storia, il pen-

siero non può che andare ai milioni di

vittime e alle condizioni in cui venivano

costrette a vivere quelle persone prima

di essere condotte alle camere a gas: un

bagno (un buco nel terreno, in realtà)

per ogni casermone ospitante anche più

di 100 persone... vestiti leggerissimi e

capelli rasati a zero per tutti anche du-

rante il freddo inverno polacco... poco

cibo... poche ore di sonno, per di più

passate in letti a castello assurdamente

stretti e poco stabili con il rischio di

rimanere schiacciati e non svegliarsi

più.

E precarie erano, ovviamente, anche le

condizioni psicologiche: sempre nel

terrore di essere fucilati, ignari della

fine che di volta in volta facevano i loro

compagni che venivano portati “a fare

una doccia”, messi l‟uno contro l‟altro

in una continua lotta per la sopravviven-

za.

Oltre a tutto questo, però, ciò che mi

resta impresso a caratteri speciali nella

mente è l‟appello sentito della guida che

ci ha accompagnò durante la visita:

«Invitate quante più persone è possibile

in giro per il mondo a visitare questi

luoghi… Perché è importante che questi

luoghi diventino luogo di educazione

per le nuove generazioni… Per NON

dimenticare!»

Non bisogna dimenticare, soprattutto

ora che quello stesso male è perpetrato

in tante altre zone del mondo: Darfur,

Somalia, Cecenia, Iraq, Afghanistan, e

altre regioni del Sud America e dell‟A-

sia.

IL DOVERE DELLA MEMORIA

di Davide Basile

Caricati su un camion fummo portati alla

Stazione Centrale di Milano. Fummo fatti

salire a calci e pugni, e piombati nei vagoni.

Il viaggio durò una settimana. Eravamo

ammassati l‟uno sull‟altro: un secchio per

gli escrementi e un pò di paglia per terra,

senza né luce, né acqua. Il 6 febbraio 1944 il

treno si fermò ad Auschwitz. Ricordo il

rumore osceno e assordante degli assassini

intorno a noi, i fischi, i latrati; ricordo i co-

mandi e ricordo quando fui separata per

sempre da mio papà. Con altre 30 ragazze

italiane, spaurite, stupite da questo destino,

entrammo nel grande lager femminile di

Birkenau. Era una città fantasma: una distesa

senza fine di baracche spaventose. Il primo

giorno fummo denudate, rapate a zero e ci fu

tatuato un numero sul braccio. Questo nume-

ro sostituiva allora il nostro nome, ma è

diventato negli anni una parte di me: si iden-

tifica per me con il dolore puro, con il vio-

lento cambiamento di ruolo che dovetti subi-

re, da figlia a ragazzina disgraziata e sola in

un lager.

Imparai in fretta che lager significava morte,

fame, freddo, botte, punizioni; significava

schiavitù, umiliazioni, torture, esperimenti.

Vivevo con una incessante paura, mi chiude-

vo sempre di più in me stessa, cercando di

essere invisibile. Sul mio corpo di adole-

scente la pelle era cascante e le ossa sporge-

vano da tutte le parti. Non sapevamo che

giorno e che ora fosse, non potevamo avere

notizie di nessun genere. Vivevamo in asso-

luta promiscuità, senza rimanere un attimo

sole. Dormivamo in 5, 6 per giaciglio, utiliz-

zando i nostri zoccoli come cuscino. Ci ser-

vivamo dei gabinetti in 20, 30 contempora-

neamente e, senza un cucchiaio, dovevamo

inghiottire a sorsate, come animali, la zuppa

che ci veniva data una volta al giorno. La

lotta per la sopravvivenza era senza quartie-

re: le prigioniere affamate e disperate avreb-

bero fatto qualunque cosa per un pezzo di

pane.

Passavano i mesi e noi obbedivamo cieca-

mente agli ordini, poiché volevamo vivere.

Cercavamo di non perdere almeno il nostro

cervello. Io tentavo di sdoppiarmi, immer-

gendomi in un mondo irreale e mi sforzavo

di non vedere e di non sentire. Di non vedere

i cadaveri nudi e scheletriti, ammucchiati in

attesa di essere

bruciati; di non

vedere le punizioni, la fiamma del camino,

la neve sporca, i fili spinati percorsi da cor-

rente elettrica. Di non sentire di notte le

grida, i fischi, i comandi urlati; i racconti

delle altre prigioniere sulle atrocità viste o

subite. Alla fine del 1945, con l‟avvicinarsi

dei russi, il campo fu in parte distrutto dai

nazisti in fuga e tutti i prigionieri in grado di

muoversi furono evacuati verso altri campi.

Fui avviata con altre disgraziate come me, a

piedi, sulle strade della Germania. Non mi

voltavo a guardare le compagne che cadeva-

no e che venivano finite con una fucilata alla

testa. Andavo avanti e comandavo alle mie

gambe di camminare. La strada era dissemi-

nata di morti senza tomba. Vive per miraco-

lo, scheletri senza parvenza di femminilità,

vedemmo fuggire i nostri aguzzini e giunge-

re gli americani da una parte e i russi dall‟al-

tra. Eravamo testimoni della Storia che cam-

biava sotto i nostri occhi, sconvolte, stan-

chissime ed emozionate. Tornai a Milano

nell‟agosto del 1945 su un camion america-

no. Mi avviai alla mia casa di corso Magenta

per vedere se c‟era qualcuno dei miei, ma le

finestre rimasero chiuse per sempre.

Liliana Segre, deportata e sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz

Scritto a matita in un vagone piombato

Qui in questo convoglio

Io sono Eva

con Abele mio figlio

Se vedete mio figlio maggiore

Caino figlio di Adamo

ditegli che io

(Poesia di Dan Pagis [1930-1986], poeta ebreo deportato ancora bambi-

no in un campo di concentramento dal quale riuscì a fuggire nel 1944)

Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva

a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse in avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul

luogo. Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. (Lc 19, 1-6)

Il sicomoro è l’albero su cui sale Zaccheo; è ciò che gli permette di vedere oltre il proprio punto di vista e i propri limiti e di lasciarsi “guardare” e scegliere

da Gesù.

e-mail: [email protected]

Il Sicomoro - Gen 2011 Pag. 8

Vi racconterò l'inferno. Avevo 18 anni quando sono stato

arrestato e non avevo fatto nulla, nessuna colpa. Sono

stato messo in carcere. Dal carcere sono stato portato al

campo di concentramento, e dal lì al campo di sterminio.

Dal campo di sterminio non si può uscire vivi, né morti,

perché dal campo può uscire solo l'anima, perché tu

«uscirai dal camino». In quel campo ho perso tutta la mia

famiglia, 10 persone. Tutti sapevamo che non saremmo

ritornati a casa, e se anche fossimo riusciti a tornare, non

avremmo trovato nessuno. Questa è stata la terribile perfi-

dia nazista.

Auschwitz vuol dire soprattutto forni crematori, sicurezza

quasi matematica di non arrivare a sera..., non a domani, a

sera. «Un pidocchio - la tua morte»: ogni 15 giorni i prigio-

nieri venivano sottoposti ad un attento controllo e chi aveva

un pidocchio veniva messo da una parte. Dopo 4 ore era

garantito cenere, né più né meno cenere, e tu sentivi la

morte che ti scendeva dentro, ti sentivi svuotato, non eri più

un uomo, eri già cadavere. La più piccola infrazione veniva

punita con 25 nerbate sui glutei o sui polpastrelli, e se il

punito non era capace di contare fino a 25 in tedesco, il

Kapò ricominciava fino alla morte del prigioniero. Ad Au-

schwitz i prigionieri si alzavano alle 4 del mattino per

poter uscire alle 7 fuori del campo: nella piazza d'appello,

che neppure Dante avrebbe potuto immaginare altrettan-

to tragica, i prigionieri passavano 2 o 3 ore, anche più, sot-

to la neve, la pioggia, le nerbate, la fame e la paura, unica-

mente per avere il diritto di uscire a lavorare per prendere

un'altra dose di nerbate. I prigionieri dovevano stare rigidi,

immobili. Non un uomo, fra 150 mila, osava fare il più pic-

colo movimento. Era quello il momento sacro della discipli-

na germanica, dell'ordine, della ferocia di trasformare gli

uomini in macchine, era la distruzione dell'umano, la crea-

zione di un uomo che non è più uomo, la personificazione

della paura. Noi non eravamo più niente, noi non esisteva-

mo, eravamo stati annientati nel nostro essere più profon-

do, eravamo soltanto alla ricerca disperata di mangiare, di

riposare, di metterci al riparo. Ma preferisco parlarvi delle

condizioni interiori. Un uomo, intanto, non esce più da

«quel» campo. Un uomo è sempre là. Chi ha sofferto fa

sua la sofferenza degli altri, sente un'affinità con chi soffre.

Chi non ha mai sofferto non sa che cosa vuol dire soffrire.

Diceva Socrate: «Solo chi è stato schiavo può capire che

cos'è la libertà». Leggete la Storia, cercate di capire cos’è

successo e perché, e sappiate donare agli uomini quello

che è il dono più bello: l'Amore.

Testimonianza di Nedo Fiano, prigioniero numero A5405

Scrittore italiano di religione ebraica, sopravvissuto alla depor-

tazione nazista nel campo di concentramento di Auschwitz.

Autobiografia

La mia famiglia è onorata, un po’ grazie a

me

Mio fratello inventò il massacro,

I miei genitori - il pianto

Io - il silenzio.

(Poesia di Dan Pagis)

“Il mio Rebbe soleva raccontarmi la storia di lui ebreo che era sfuggito con la moglie e il figlio all’Inquisizione spagnola, e con una piccola barca, sul mare in tempesta, aveva raggiunto un’isoletta rocciosa. Cadde un fulmine e uccise sua mo-glie. Venne una tempesta e gettò suo figlio in mare. Solo e derelitto, nudo e scalzo, stremato dalle tempeste e atterrito dai tuoni e dai fulmini, con i capelli arruffati e le mani tese a Dio, l’ebreo prose-guì il suo cammino sull’isola rocciosa e de-serta, e si rivolse al suo Creatore con queste parole: «Dio d’Israele, sono fuggito qui per poterTi servire indisturbato, per obbedire ai

Tuoi comandamenti e santificare il Tuo no-me. Tu però fai di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riu-

scire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti av-verto, Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezio-so e caro posseggo al mondo, mi puoi tortu-rare a morte, io crederò sempre in Te. Sem-pre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stes-

sa volontà!»”. E queste sono anche le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d’ira: Non Ti servirà a nulla! Hai fatto di tutto per-

ché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, io invece muoio così come sono vissuto, pervaso di un’incrollabile fede in Te. Sia lodato in eterno il

Dio dei morti, il Dio della vendetta, della verità e della giustizia, che presto mostrerà di nuovo il suo volto al mondo, e ne scuoterà le fondamenta con la sua voce onnipotente.

(Brano tratto da “Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz).

«Credo nel sole, anche quando non splende; credo nell’amore,

anche quando non lo sento; credo in Dio, anche quando tace».

(Scritta sul muro di un cantina di Colonia, dove alcuni Ebrei si nascosero durante la II Guerra Mondiale)

CHI NON CONOSCE LA STORIA, SARÀ COSTRETTO A RIVIVERLA