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SE VENTI MESI VI SEMBRAN POCHI Gli effetti del programma ENA in provincia di Pisa a cura di Gabriele Tomei Questo e-book appartiene a marianazorila

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Se venti meSi vi Sembran pochiGli effetti del programma ena in provincia di pisa

a cura diGabriele Tomei

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ISBN 978-88-6741-302-7

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Se venti mesi vi sembran pochi : gli effetti del programma ENA in provincia di Pisa / a cura di Gabriele Tomei. Pisa : Pisa university press, 2013. – (Didattica e ricerca. Saggi e studi)

362.849600945551 (22.)I. Tomei, Gabriele 1. Immigrati africani - Assistenza - Pisa

CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa

Pubblicato con il contributo di Regione ToscanaDirezione Generale: Diritti di Cittadinanza e Coesione Sociale

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Indice

Ragioni, obiettivi e metodi di una ricerca valutativasul programma ENA (Emergenza Nord Africa) 1

Parte 1Il contesto sociale ed istituzionale del programma Emergenza Nord Africa

1. L’afflusso dei profughi e la costruzione socio-politica dell’emergenza 21

2. Strumenti normativi e procedure disponibili 41

3. Le scelte di programmazione del governo Italiano 65

4. Rassegna delle esperienze regionali più significative 73

Parte 2L’implementazione del “Programma di accoglienza diffusa” in provincia di Pisa

5. Il programma toscano di accoglienza diffusa 91

6. Il contesto politico ed istituzionale pisano 99

7. L’implementazione locale del modello regionale 121

Parte 3Processi attivati e traiettorie di cambiamento

8. I profughi e le loro storie 147

9. Prematuri, precoci e tardivi. Processi attivati e meccanismi emergenti nelle traiettorie di vita dei profughi 159

10. Traiettorie di cambiamento nelle comunità straniere 189

11. Traiettorie di cambiamento nelle SDS 197

Meccanismi, traiettorie e prospettive. Riflessioni conclusivea 4 mesi dalla chiusura del programma ENA 207

Riferimenti bibliografici 219

Gli autori 223

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a Mohamud Mohamed Guledmorto di disamore e indifferenza

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RAGIONI, OBIETTIVI E METODI DI UNA RICERCA VALUTATIVA

SUL PROGRAMMA ENA (EMERGENZA NORD AFRICA)

Gabriele Tomei

RAGIONI, OBIETTIVI E METODI DI UNA RICERCA VALUTATIVA

SULL’EMERGENZA NORD AFRICA Gli sconvolgimenti politici e sociali avvenuti all’inizio del 2011 nei

paesi della sponda sud del mediterraneo (la cosiddetta “primavera araba”) hanno determinato una ripresa delle migrazioni via mare dal continente Africano verso l’Europa. A seguito dell’implosione dei regimi politici che in Tunisia ed in Libia avevano garantito il controllo militare della migrazione clandestina, il volume dei flussi verso l’Italia è tornato in pochi giorni ai valori di picco registrati nel decennio precedente.

Non avendo mai approntato un adeguato sistema nazionale di

accoglienza dei profughi, l’Italia ha vissuto la ripresa dei flussi come una situazione di emergenza. Il programma ENA (Emergenza Nord Africa) che ne è derivato ha così affrontato e gestito l’accoglienza senza una vera e propria strategia, procedendo secondo gli imperativi della straordinarietà e della temporaneità. Quando il 28 febbraio 2013 è stato decretata la chiusura del programma, 18.000 richieste di asilo rimanevano ancora da istruire e nessuna indicazione era stata data per la gestione del post-emergenza.

Nonostante tutte le sue fragilità e inadeguatezze, i 20 mesi di attività

dell’ENA hanno comunque costituito per il sistema paese un

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importante laboratorio nel quale verificare i limiti e le possibilità delle procedure di accoglienza esistenti, ma al tempo stesso anche sperimentare possibili percorsi virtuosi di sviluppo e di integrazione delle stesse.

In questi anni si è andato progressivamente accumulando un

prezioso patrimonio di analisi e riflessioni scientifiche di alto livello sui flussi di migranti da lavoro che attraverso il canale libico-mediterraneo arrivano in Italia dai paesi dell’Africa sub-Sahariana1. Altre ricerche, di carattere più marcatamente locale e micro-sociologico, hanno progressivamente ricomposto un repertorio di osservazioni e riflessioni estremamente utile in direzione di una ricostruzione critica dei modelli di gestione dei percorsi di accoglienza realizzati2. Ancora non paiono invece all’orizzonte riflessioni scientifiche sugli effetti di breve periodo della chiusura del programma di accoglienza, né tanto meno sugli impatti di medio periodo derivanti dai programmi di accoglienza profughi appositamente realizzati con riferimento alla gestione nazionale-regionale-locale dell’ENA. 1 Ne sono esempio emblematico P. Monzini, P. Pastore, G. Sciortino, L’Italia promessa. Geopolitica e dinamiche organizzative del traffico di migranti verso l’Italia, Roma, Cespi, 2004; S. Hamood, African transit migration through Libya to Europe: the human cost, Cairo, FMRS/AUC, 2006; S. Hamood, EU-Libya cooperation on migration: a raw deal for refugees and migrants?, in «Journal of Refugee Studies», 2008, vol. XXI, n. 1; S. Kleep, “A Contested Asylum System: The European Union between Refugee Protection and Border Control in the Mediterranean Sea”, in «European Journal of Migration and Law», 2010, vol. XII.; E. Paoletti, The migration of power and north-south inequalities: the case of Italy and Libya, Basingstoke, Palgrave MacMillan, 2011; M. Tondini, The Legality Of Intercepting Boat People, in «The Journal of International of Maritime Law», 2012, vol. XVIII 2 Più recentemente, su questo versante, si sono distinte le ricerche di M. Manocchi, Richiedenti asilo e rifugiati politici. Percorsi di ricostruzione identitaria: il caso torinese, Milano, FrancoAngeli, 2012; M. S. Oliveri, L’accoglienza frantumata sotto il peso dell’‘emergenza’, in Aavv., «Cronache di ordinario razzismo. Secondo Libro bianco sul razzismo in Italia» Lunaria, 2011; A.S.G.I., Il diritto alla protezione, la protezione internazionale in Italia quale futuro? Studio sullo stato del sistema di asilo in Italia e proposte per una sua evoluzione, Impressioni Grafiche ONLUS, Alessandria, 2011; L. Manconi e S. Anastasia (a cura di), Lampedusa non è un isola. Profughi e migranti alle porte dell’Italia. Rapporto sullo stato dei diritti in Italia, Roma, LarticoloTre - A Buon Diritto, 2012; O. Forti, Emergenza Nord Africa: verso un nuovo sistema d’accoglienza?, in Caritas-Migrantes, 22° Dossier Statistico Immigrazione, Roma, IDOS, 2012; E. Besozzi, M. Colombo (a cura di), Immigrazione e contesti locali. Annuario CIRMiB 2011-2012, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

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Nel mese di novembre 2012 la Regione Toscana, per il tramite

dell’Osservatorio Regionale per le Politiche Sociali, ha pubblicato un prezioso lavoro3 di ricostruzione sistematica delle azioni realizzate sul proprio territorio dagli enti pubblici e privati coinvolti nella gestione operativa dell’ENA, condotta in Toscana attraverso il modello di “accoglienza diffusa” che territorializzava gli interventi in opposizione alla proposta governativa di insediare un unico e gigantesco centro di accoglienza regionale in provincia di Pisa, in località Coltano. La ricerca costituisce un prezioso ed accurato strumento di conoscenza del funzionamento del sistema ENA in generale e del modello toscano in particolare4, del quale ha intenzionalmente approfondito il versante “istituzionale”, limitatamente al periodo della sua attivazione e scegliendo di dare voce solo agli attori pubblici del sistema di accoglienza (e non anche alle persone accolte)5.

Tuttavia tale riflessione ha dovuto muoversi entro specifici vincoli

prospettici e metodologici che hanno prefigurato le linee di riflessione lungo le quali, di comune accordo con i suoi estensori6, la presente 3 F. Bracci (a cura di), Emergenza Nord Africa. I percorsi di accoglienza diffusa. Analisi e monitoraggio del sistema, Pisa, Pisa University Press, 2012. 4 Sebbene il lavoro sia stato pubblicato nel mese di novembre 2012, i dati si fermano al giugno, perché le ultime visite sono state effettuate nelle prime settimane di quel mese. La ricognizione della banca dati della Protezione Civile relativamente alle presenze erano aggiornati a fine marzo-aprile 2012. 5 Come riferisce l’autore della ricerca: “È interessante sottolineare che nel corso di alcune visite alcuni ospiti hanno chiesto ed ottenuto di parlare direttamente con il ricercatore, considerando quest’ultimo come rappresentante di un’autorità di qualche tipo ed investendolo della funzione di raccogliere lamentele e doglianze. I dati raccolti durante queste interazioni non programmate, prive della sistematicità tipica dell’intervista ma verificatesi in setting altamente significativi, sono stati inseriti nelle schede compilate dai ricercatori e si sono rivelate un prezioso stimolo alla riflessione” F. Bracci, Emergenza Nord Africa, cit., p.11. 6 Al fine di integrare le informazioni acquisite mediante il monitoraggio di cui abbiamo appena fatto cenno e di approfondirne il valore conoscitivo in prospettiva valutativa, la Direzione Generale Diritti di Cittadinanza e Coesione Sociale della Regione Toscana ha approvato in data 22 dicembre 2011 il presente progetto di ricerca presentato congiuntamente dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa e dalla Società della Salute della zona Pisana. Per quanto distinte in relazione a obiettivi e linee di finanziamento, strategie investigative e di analisi e gruppi di lavoro, le due ricerche hanno potuto godere del beneficio di un reciproco, costante e fruttuoso scambio di informazioni e di commenti tra i due coordinatori e tra alcuni ricercatori che

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indagine condotta dall’équipe di ricerca del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa era utile ed opportuno che si sviluppasse7. Sotto il primo profilo (prospettiva istituzionale) si è trattato di integrare il punto di vista dei sistemi di accoglienza con quello degli “accolti”, leggendo il funzionamento del sistema di accoglienza diffusa attraverso l’analisi delle traiettorie personali dei richiedenti asilo prima, durante e dopo la loro permanenza all’interno del programma e cercando di cogliere gli effetti su di queste prodotte (in termini di scelte di radicamento e di mobilità nel medio/lungo periodo) dall’azione dei contesti territoriali ed organizzativi in cui l’ENA le ha temporaneamente inserite. Sotto il secondo profilo (prospettiva temporale) si è trattato infatti di far avanzare la riflessione sul funzionamento del sistema di accoglienza diffusa oltre il limite temporale della sua formale vigenza (aprile 2011-febbraio 2013), e per questo di assumere come oggetto di analisi non solo le pratiche di accoglienza realizzate all’interno del programma ma anche le dinamiche sociali da questo attivate per un verso sulle traiettorie di vita dei profughi e per un altro nei sistemi locali di accoglienza che hanno rappresentato territorialmente il modello toscano di applicazione dell’ENA. Sotto il terzo profilo (prospettiva interpretativa) si è trattato di costruire un disegno di ricerca in grado di raccogliere e di valorizzare il contributo proveniente direttamente dal punto di vista dei profughi, pur nella consapevolezza della sua parzialità così come della sua fortissima connotazione emotiva8.

(volutamente) partecipavano ad entrambi i lavori, garantendo tanto l’autonomia quanto la complementarietà dei due lavori finali. 7 Dell’équipe di ricerca, coordinata da Gabriele Tomei, hanno fatto parte Sergio Bontempelli, Rachele Benedetti, Sandra Burchi, Costanza Cattaneo, Gaia Colombo ed il gruppo di rilevatori dell’associazione Africa Insieme (Sara Palli, Moez Chemkhi, Alice Cirucci, Paola Spataro, Eva Deganello, Denise Capuano, Claudio Ferrante). 8 Più avanti daremo più adeguatamente conto dei problemi che hanno caratterizzato le interviste ai profughi a causa (a) del fatto che gli intervistati confondessero il ruolo dell’intervistatore con quello dell’operatore del centro, del funzionario pubblico o addirittura di un membro della Commissione per il rilascio del permesso, ecc. e (b) della forte connotazione emotiva delle interazioni tra intervistatore ed intervistato a causa di un setting contrassegnato dall’impossibilità per i profughi di avere informazioni sui tempi della permanenza nei centri, né sugli esiti della loro domanda di asilo, né sulle possibilità di mantenimento in Italia dopo la fine dei programmi finanziati dall’ENA.

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Come avvenuto sul piano prospettico e metodologico, il lavoro realizzato dal monitoraggio regionale ha consentito anche dal punto di vista tematico e sostantivo di segnalare le aree meritevoli di approfondimento in questa sede. In particolare la ricerca che qui presentiamo ha inteso, tra gli altri punti, proseguire ed approfondire l’analisi dei tre nodi problematici rilevati da Bracci: (1) l’ambiguità degli obiettivi dell’ENA; (2) le debolezze organizzative del modello di implementazione; (3) le conseguenze dell’incertezza temporale9. Sul primo punto (ambiguità degli obiettivi) si è provveduto ad assumere il tema quale sfondo della riflessione, individuando nella mancanza di strategicità (cioè nella definizione puntuale degli obiettivi così come delle risorse, degli attori e dei processi per il loro raggiungimento) il tratto di contesto più marcatamente caratterizzante lo scenario nazionale, ma anche regionale. Sul secondo punto (debolezza organizzativa) si è trattato di mettere a tema per un verso la diversità e complessità di ruoli, competenze e interessi degli attori, e per un altro della specificità (in termini di esperienza/competenza, centralità/ perifericità, ricchezza/povertà di risorse) dei territori coinvolti nell’implementazione del programma ENA secondo il modello di accoglienza diffusa realizzato in Toscana. Sul terzo punto (conseguenze dell’incertezza) si è trattato di organizzare in modo strategico (pur nei limiti fissati dai tempi di consegna della ricerca concordati con il committente10) il piano delle rilevazioni di terreno in modo da raccogliere informazioni e commenti degli intervistati in ciascuna delle fasi di evoluzione del programma ENA ed in particolare (con riferimento questa volta però esclusivo agli operatori ed ai decisori) prima e dopo la chiusura definitiva del programma avvenuta il 28 febbraio 2013.

Per i motivi sopra descritti, il progetto di ricerca propone una

prospettiva di indagine metodologicamente e tematicamente complementare a quella realizzata con il monitoraggio dell’Osservatorio

9 F. Bracci, Emergenza Nord Africa, cit., pp.212-225. 10 Il finanziamento per la presente ricerca è stato accordato dalla Regione Toscana all’Università di Pisa - Dipartimento di Scienze Politiche a seguito di una proposta di progetto che ha partecipato e vinto una procedura pubblica di valutazione comparativa. Il progetto di ricerca prevedeva un tempo massimo di realizzazione dei lavori di 18 mesi dall’approvazione (avvenuta il 22 dicembre 2011).

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Regionale. Il suo primo obiettivo consiste infatti nel comprendere gli effetti che il programma di accoglienza diffusa realizzato in Toscana ha prodotto sulle traiettorie di vita dei rifugiati, al fine di individuare indicazioni circa le trasformazioni in corso nei loro progetti migratori ed il loro possibile impatto sul percorso d’inserimento dei rifugiati nella società locale in una prospettiva a medio-lungo termine. Come secondo obiettivo la ricerca ambisce poi a registrare gli effetti che il programma ha prodotto sui modelli locali di accoglienza dei profughi che hanno operato nei diversi territori coinvolti dall’emergenza, individuando se e quali cambiamenti strategici ed organizzativi questa sia riuscita a stimolare. Terzo, ma non meno importante, obiettivo è quello di coinvolgere le quattro SDS del territorio pisano all’interno di un percorso di indagine basato sull’osservazione delle trasformazioni in atto, al fine di potenziare la capacità riflessiva degli attori del territorio.

APPROCCIO TEORICO E IPOTESI DI LAVORO L’implementazione di un programma di policy è di per sé processo

fluido e dinamico, i cui percorsi ed effetti non sono quasi mai prevedibili in anticipo, perché in larga parte emergono nell’interazione tra gli input normativi ed organizzativi offerti dai programmi e le reazioni degli attori all’interno dei contesti istituzionali, politici e sociali a cui i primi si dirigono. L’imprevedibilità inevitabilmente si amplifica quanto più il programma che intendiamo considerare si sviluppa in un campo di azione esposto all’influenza di numerosi fattori di contesto ed alle reazioni dei diversi attori sociali coinvolti. E questo è precisamente ciò cui siamo di fronte nel caso degli interventi di integrazione dei migranti in generale e dei profughi in particolare. Usando le parole di Patricia Rogers, in questo caso ci troviamo di fronte a programmi complessi: nei quali i percorsi di implementazione non sono lineari perché dipendono dai contesti e risentono in modo circolare degli effetti che si producono nel corso della loro attuazione11.

Il programma di accoglienza dei profughi, realizzato in Toscana

attraverso i numerosi percorsi di accoglienza diffusa attivati nei territori, 11 P. J. Rogers, Using Programme Theory to Evaluate Complicated and Complex Aspects of Interventions, in «Evaluation», January 2008, vol. 14, 1, pp. 38-39.

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costituisce sicuramente un esempio emblematico di intervento complesso. Il medesimo quadro normativo (risultato già di per sé di una complessa sintesi tra ordinamento comunitario, disposizioni nazionali e scelte politiche regionali) è stato infatti implementato in modo diverso a seconda delle specificità dei contesti territoriali ed istituzionali, dei distinti attori sociali mobilitati e delle loro prevalenti e più consolidate tradizioni di accoglienza, della differente quantità e qualità dei profughi accolti, delle diversificate strategie di accoglienza messe in atto e dei conseguenti meccanismi con i quali ad esse i profughi hanno aderito/reagito, della diversa reazione alla chiusura del programma da parte dei profughi e degli operatori dei diversi territori.

Di fronte a tale molteplicità di fattori e traiettorie non è nemmeno

possibile tentare un’analisi sintetica dei risultati prodotti dal programma dopo i 20 mesi della sua esistenza. Se possiamo infatti monitorare e descrivere le attività realizzate al suo interno, non siamo però in grado, con il solo ausilio delle informazioni provenienti dal monitoraggio, di dare una risposta univoca alla domanda su quale siano stati gli esiti del programma. Primo, perché gli esiti sono numerosi, variegati e differenziati (anche nel segno) quante sono le realtà attraverso le quali il programma si articola. Secondo, perché tra le attività realizzate e gli esiti si nasconde una zona grigia di storie, percorsi e processi particolari senza la comprensione della quale non riusciremo mai a collegare i secondi alle prime.

Lo sforzo compiuto da questa ricerca muove esattamente nella

direzione che abbiamo appena descritto, accantonando la pretesa di rilevare (e misurare) gli esiti ma invece assumendo come obiettivo dell’analisi quello di rilevare i cambiamenti introdotti dal programma di attività realizzate tanto nelle traiettorie di vita dei profughi inseriti al suo interno quanto nei modelli di funzionamento dei sistemi locali di welfare che nei 20 mesi considerati si sono fatti carico della sua implementazione.

Il frame teorico-metodologico che ha sostenuto le scelte di fondo

dell’indagine è quello individuato dagli approcci valutativi che si sono opposti da un lato alla esclusiva focalizzazione della valutazione sui risultati del programma e dall’altro alla sua eccessiva confidenza circa la

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possibilità di rilevare oggettivamente i rapporti di causa-effetto che legherebbero (o meno) i risultati del programma alle attività da questo promosse.

Grazie a questi approcci l’analisi delle politiche pubbliche ha ormai appreso che per valutare un programma complesso i ricercatori devono prima di tutto mettersi in condizione di rilevare i cambiamenti che questo produce, formulando ipotesi sul loro sviluppo che siano plausibili (perché dedotte dalla letteratura o dall’esperienza degli stakeholders) e verificabili attraverso procedure di indagine diretta a comprendere ed interpretare i segnali di trasformazione individuale e collettiva attribuibili al programma. Dalla “valutazione basata sulla teoria”12 abbiamo assunto l’ipotesi che i programmi producono effetti prima di tutto sulla base delle rappresentazioni che gli attori da questo coinvolti si fanno del modo in cui il programma stesso dovrebbe funzionare e, in seguito, sulla base degli stimoli che queste rappresentazioni esercitano sullo sviluppo di meccanismi individuali (affettivi, cognitivi) ed organizzativi che genereranno i vari tipi di risultato. Dalla “valutazione realista”13 abbiamo poi assunto l’ipotesi che i meccanismi che il programma stimola negli attori siano stratificati nei diversi livelli di contesto in cui il programma stesso si realizza (il livello micro e contingente della relazione vis a vis tra gli attori, quello dell’organizzazione preposta alla realizzazione delle attività, quello della vita quotidiana degli stakeholders e dei beneficiari, quello più macro del territorio, del frame socio-economico e/o normativo di riferimento…), e che è solo nella interazione dinamica e reciproca tra meccanismi e contesti che si sviluppano le dinamiche sociali in grado di realizzare il cambiamento voluto dal programma.

Le domande che hanno guidato l’indagine sul funzionamento e sugli

effetti del programma di accoglienza diffusa dei profughi accolti in Toscana hanno seguito le piste di riflessione che abbiamo sopra esposto. Abbiamo infatti assunto il programma come un sistema sociale complesso e dinamico, dotato costitutivamente di una intenzionalità organizzativa e tuttavia sottoposto ad interpretazioni e specificazioni locali, frutto dell’azione autonoma di lettura, declinazione e reazione del

12 C. Weiss, Evaluation research in the political context, Struening e Guttentag, 1975; H. Chen, Theory-Driven Evaluation, London Sage Press, 1990. 13 R. Pawson, N. Tilley, Realistic Evaluation, London, Sage Press, 1997. Questo e-book appartiene a marianazorila

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programma operata nei vari contesti dai diversi attori coinvolti. Questa impostazione del lavoro di valutazione ha determinato la necessità di superare la mera rilevazione delle attività realizzate e del conteggio del grado di raggiungimento dei risultati inizialmente convenuti. Valutare un programma complesso e dinamico come questo ha voluto dire per prima cosa realizzare uno sforzo di comprensione di tutti i punti di vista presenti nel sistema (decisori, operatori, profughi, comunità straniere residenti), dei loro orizzonti simbolici (rappresentazione dei diritti e dei doveri, configurazione delle relazioni di potere e di dipendenza) e teleologici (interessi e finalità). Insieme a questo, la consapevolezza della complessità e dinamicità del programma ha imposto alla ricerca il compito di definire le diverse cornici di contesto (storico-politico, normativo, territoriale, istituzionale) nelle quali le rappresentazioni degli attori si sono affermate ed hanno tra loro interagito.

Compito della ricerca è quello di rilevare la varietà dei meccanismi di integrazione che si sono sviluppati nei diversi contesti analizzati14, individuando come e quanto da un lato le specifiche modalità di implementazione del programma e dall’altro le azioni/reazioni degli attori coinvolti le possano aver influenzate.

Sulla base dell’analisi comparativa delle diverse configurazioni osservate, la ricerca ha l’ambizione di individuare (idealtipicamente) alcune possibili traiettorie di cambiamento che potrebbero caratterizzare nel medio periodo da un lato la condizione di vita quotidiana dei profughi e, dall’altro, il modello organizzativo dei contesti istituzionali di accoglienza. Sebbene costituisca dal punto di vista logico e metodologico un esercizio assolutamente distante da quello dell’analisi controfattuale, tuttavia il confronto delle evidenze raccolte sui percorsi di integrazione dei profughi accolti nel programma regionale di accoglienza diffusa (profughi arrivati in Italia successivamente al 6 aprile 2011) rispetto a quelli dei profughi che sono arrivati ed hanno vissuto in Toscana fuori da tale contesto di accoglienza istituzionale (perché arrivati prima del 6 aprile 2011) ha consentito un interessante strumento di messa a fuoco delle differenze

14 Solo a titolo di esercizio logico individuiamo i meccanismi possibili nella: reazione e contestazione al programma, suo uso opportunistico da parte degli attori, contenimento in attesa della fine dell’emergenza, integrazione paternalistica ed assistenziale, integrazione socio-politica.

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nello sviluppo di modelli e quindi di traiettorie di integrazione per i due gruppi. Analogamente, la riflessione condotta con i decisori e gli operatori delle quattro Società della Salute coinvolte nella ricerca sui cambiamenti strategici ed organizzativi intervenuti nei rispettivi sistemi locali di welfare per effetto dell’esperienza maturata sul tema dell’accoglienza dei profughi ha consentito di registrare le traiettorie di cambiamento delle policy di settore.

LA STRUTTURA E LA METODOLOGIA DELL’INDAGINE L’indagine ha rilevato i potenziali effetti del programma di

accoglienza prima di tutto sui beneficiari (i profughi), poi sulle comunità dei cittadini stranieri già presenti in loco, ed infine sul sistema di emergenza pisano nel suo complesso. Coerentemente con gli approcci valutativi di orientamento realista, il focus dell’indagine è stato collocato al livello delle trasformazioni di comportamento, orientamento e relazioni che i diversi attori in campo (beneficiari ma anche operatori e decisori) hanno prodotto nel contesto dato in corrispondenza degli interventi localmente implementati nel quadro del programma regionale “Emergenza Nord Africa”.

Quale campo di osservazione, tanto dei modelli di implementazione

quanto degli effetti delle politiche di accoglienza, è stato scelto il territorio della provincia di Pisa (ed in particolare quello delle sue quattro zone sociosanitarie15) perché, come già sopra ricordato, è quello da cui ha preso il via la sperimentazione in esplicito dissenso rispetto all’iniziale proposta del governo e quindi più adeguato ad essere considerato (ed a considerarsi) il laboratorio del modello toscano d’accoglienza decentrata dei migranti.

La prima area di indagine della ricerca è stata rappresentata

dall’analisi del contesto istituzionale ed organizzativo che regolava i sistemi di welfare (zone socio-sanitarie e società della salute) nei territori osservati (provincia di Pisa) al momento dell’avvio del programma, e

15 Si tratta delle zone identificate dalle zone Pisana, Valdera, Valdarno Inferiore e Alta Val di Cecina. Per una descrizione più puntuale ed approfondita dell’organizzazione e dell’articolazione geografica di queste zone si rinvia al capitolo 6 del presente volume.

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che si è progressivamente trasformato per effetto di esso. Le domande di ricerca relative a questa prima area di indagine hanno riguardato l’esigenza di ricostruire sia le caratteristiche dei sistemi di welfare locale che si sono trovati a dover gestire la cosiddetta “Emergenza Nord Africa” sia l’entità e le dinamiche dei flussi di richiedenti asilo che, arrivando sul territorio pisano, hanno sollecitato e trasformato la capacità di policy-making e di intervento delle istituzioni locali preposte alla programmazione e gestione delle politiche di integrazione sociale dei migranti. Questa area di indagine è stata empiricamente analizzata facendo riferimento (d’intesa con il gruppo di ricerca che li aveva prodotti) ai dati di monitoraggio messi a disposizione dalla Protezione Civile e dall’Osservatorio Regionale per le Politiche Sociali. Alcune interviste hanno consentito di aggiornare ed integrare i dati con specifico riferimento al territorio oggetto di osservazione ed al periodo successivo al mese di giugno 2012 (data in cui si è conclusa la ricerca di cui in Bracci, 2012).

La seconda area di indagine è costituita dall’analisi delle politiche

di accoglienza che, pur nel medesimo quadro istituzionale ed organizzativo dell’ENA, sono state implementate ed attivate localmente sulla base delle specificità dei singoli contesti e delle caratteristiche degli attori mobilitati. Questo elevato livello di complessità, derivante dalla contemporanea presenza ed interferenza di indirizzi normativi ed organizzativi sovranazionali (direttive europee), nazionale (programmi nazionali), regionali (programma ENA) e locali, ha reso necessario da un lato la ricostruzione del quadro degli indirizzi programmatici di riferimento degli interventi, e dall’altro il confronto con questo delle azioni di gestione dell’emergenza/accoglienza implementate localmente dalle quattro realtà territoriali ed istituzionali osservate nel territorio pisano. Questa seconda area di indagine è stata empiricamente analizzata, per quanto riguarda le procedure di implementazione, sulla base di una rassegna critica e comparativa della letteratura; per quanto riguarda invece l’analisi degli indirizzi politici delle quattro zone socio-sanitarie, attraverso specifici focus group condotti con decisori ed operatori responsabili della gestione delle strutture di accoglienza16.

16 Nei mesi di marzo-maggio 2013 si è tentato, senza grande successo, di realizzare anche alcune interviste al livello istituzionale. Ci è sembrato, però, che non vi fosse grande interesse o voglia di riparlare di una vicenda che, nel bene o nel male, si era

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La terza area di indagine consiste nell’analisi dei processi, ovvero

degli effetti diretti ed indiretti (quindi anche non intenzionali) che le diverse strategie di accoglienza attivate localmente nelle quattro zone socio-sanitarie della provincia di Pisa hanno prodotto da un lato sui percorsi presenti e futuri dei profughi accolti, e dall’altro sui sistemi locali di welfare e sulle comunità straniere residenti che sono state stimolate e sfidate da questa nuova domanda sociale. Il percorso di indagine sui processi derivante dall’implementazione delle policy è stato condotto attraverso tre parallele linee di ricerca. Sulla base della ricostruzione dei progetti migratori iniziali e delle possibilità consentite dalle condizioni giuridiche soggettive dei profughi, una prima linea di riflessione si è concentrata sulla rilevazione degli effetti dell’esperienza di accoglienza sulle traiettorie di vita dei singoli soggetti, tentando di dare conto delle scelte post-accoglienza (rientrare in patria, rimanere a Pisa, spostarsi in altra località) in relazione al diverso peso che nelle principali fattispecie hanno assunto i fattori soggettivi, quelli relazionali e infine quelli contestuali. Questa prima linea di ricerca è stata perseguita implementando due distinte, eppure complementari, campagne di interviste in profondità. La prima campagna ha avuto come oggetto la ricostruzione dei percorsi di arrivo in Italia dei profughi accolti, ed ha quindi assunto come bersaglio alcuni operatori dei centri di accoglienza che nel territorio provinciale avevano raccolto le storie dei richiedenti asilo per istruire le pratiche amministrative da portare alle Commissioni territoriali competenti. La seconda campagna

conclusa, forse anche per il timore di riaccendere nuove polemiche, dopo quelle che si erano sollevate nei giorni concitati della chiusura delle strutture d’accoglienza. L’intento che ci eravamo proposti era quello di ricostruire il ruolo giocato dalle diverse istituzioni ed i meccanismi attivati, comprendere cosa avesse funzionato e soprattutto capire se e come quest’esperienza avesse inciso sul sistema provinciale d’accoglienza, se avesse modificato o perfezionato determinate procedure e se si potessero ricavare delle lezioni apprese da applicare qualora si ripresentasse una nuova emergenza di questo tipo. Solo il referente dell’ufficio immigrazione della Questura di Pisa ha accettato di essere intervistato in merito alle sole attività di sua competenza, ossia concernenti la raccolta delle istanze d’asilo, il loro successivo inoltro alle Commissioni territoriali e le pratiche per il rilascio dei permessi di soggiorno. A suo dire, in questo ambito, non ci sono state particolari problematiche da affrontare. È stato aperto uno sportello appositamente dedicato ai richiedenti asilo dell’ENA e sono stati mantenuti rapporti costanti con i responsabili dei centri di accoglienza per fornire informazioni ed aggiornamenti sullo stato delle pratiche.

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ha avuto come oggetto l’analisi dei cambiamenti intervenuti nei vissuti e nelle prospettive dei profughi per effetto del percorso di accoglienza diffusa in cui erano stati inseriti; per questo motivo questa campagna ha assunto come proprio bersaglio da un lato i profughi inseriti in percorsi di accoglienza (alcuni dei quali riconosciuti come rifugiati e pertanto precocemente usciti dal circuito assistenziale) e dall’altro alcuni profughi che non avevano fatto domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato e che pertanto hanno sviluppato processi di integrazione in modo autonomo e parallelo rispetto ai percorsi istituzionali dell’ENA. La seconda linea di riflessione è invece stata sviluppata per l’analisi dei modelli di implementazione che hanno consentito/ostacolato/ modificato il funzionamento del programma di accoglienza diffusa nei contesti considerati, pervenendo ad una sorta di tipizzazione ideale (con finalità in un certo qual modo sistematico) da un lato dei fattori di successo e di quelli di tensione che hanno operato nelle diverse modalità e, dall’altro, dei cambiamenti introdotti nei sistemi locali di welfare per effetto dell’esperienza ENA. Questa area di indagine è stata empiricamente analizzata mediante un round di focus group con gli operatori ed i decisori coinvolti nei percorsi di accoglienza diffusa implementati in ciascuna zona socio-sanitaria.

La terza linea di riflessione è stata sviluppata per l’analisi dei cambiamenti intervenuti per effetto dell’ENA in alcune comunità di stranieri oramai stabilmente residenti nel territorio della provincia di Pisa. Per indagare empiricamente tale fenomeno si è proceduto mediante una specifica campagna di interviste a leader formali e referenti informali delle comunità straniere entrati in contatto con i richiedenti asilo.

IL VOLUME Nel presente volume presentiamo i risultati della ricerca condotta. Il

testo si articola in tre parti, pensate fin da subito come profondamente intrecciate e dialoganti al fine di mettere il lettore nelle condizioni da un lato di puntualizzare il contributo specifico di ogni singolo segmento dell’attività di ricerca realizzata, ma anche di utilizzare un ampio insieme di materiali e di strumenti di interpretazione necessari a cogliere le diversificate trasformazioni operate dall’intervento di accoglienza

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osservato, nei singoli contesti territoriali ed organizzativi presi in considerazione, con riferimento alle distinte fasi di sviluppo del programma, sulla base del complesso sistema di azioni e reazioni da questo stimolate nel comportamento strategico dei decisori politici e degli operatori da un lato e dei profughi dall’altro.

La prima parte ha il compito di ricostruire in modo sistematico il

contesto storico, politico ed istituzionale all’interno del quale si colloca la cosiddetta Emergenza Nord Africa. In questa direzione il primo capitolo (S. Bontempelli, L’afflusso dei profughi e la costruzione socio-politica dell’emergenza) si incarica di riepilogare i fatti che hanno caratterizzato la crisi migratoria libica, enucleando a partire da essi le scelte politico-strategiche dei vari attori in campo che ne hanno determinato la rubricazione come emergenza da parte delle autorità italiane. Il secondo capitolo (C. Cattaneo, Strumenti normativi e procedure disponibili) passa invece in rassegna il contesto normativo e procedurale (sia comunitario che nazionale) all’interno del quale il governo italiano ha potuto muoversi a partire dai primi mesi del 2011. L’analisi delle procedure potenzialmente attivabili ha consentito la messa a fuoco, nel terzo capitolo (G. Colombo, Le scelte di programmazione del governo italiano), delle strategie operative messe in atto dal governo per la gestione dell’accoglienza dei profughi, individuandone con maggiore chiarezza tanto i vincoli quanto i gradi di libertà realizzati rispetto alla base legale di riferimento. Chiude questa prima parte del lavoro di ricerca dedicata all’analisi del contesto, una rassegna delle principali esperienze di implementazione del programma ENA che nel nostro paese sono state realizzate e documentate a livello regionale e locale (C. Cattaneo, Rassegna delle esperienze regionali più significative); questa rassegna conferma da un lato l’estrema variabilità dei modelli di implementazione (a partire dal medesimo contesto politico e normativo di riferimento) e dall’altro la stretta dipendenza delle procedure attivate e dei risultati monitorabili in corso d’opera dalle combinazioni localmente realizzate tra risorse e vincoli di contesto da un lato e caratteristiche e strategie operative dei principali attori coinvolti dall’altro.

La seconda parte del volume è dedicata in modo specifico alla

riflessione sulle modalità di implementazione del programma Emergenza Nord Africa all’interno del territorio della provincia di Pisa

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oggetto di osservazione. Nel capitolo di apertura si compie una sintesi ragionata delle informazioni disponibili sulle modalità di gestione del “modello di accoglienza diffusa” secondo il quale è stato realizzato il progetto ENA in Toscana ed un loro aggiornamento circa le difficoltà da questo attraversate nelle difficili fasi della sua progressiva ma inevitabile chiusura (G. Colombo, Il programma toscano di accoglienza diffusa). Il capitolo successivo, quindi, si incarica di presentare al lettore il contesto politico ed istituzionale all’interno del quale si collocano gli interventi di accoglienza (G. Colombo, Il contesto politico ed istituzionale pisano), analizzando gli elementi istituzionali, organizzativi e strategici che caratterizzano il sistema locale di welfare specificamente dedicato alla presa in carico e integrazione dei cittadini stranieri immigrati, nelle sue componenti provinciali (Provincia di Pisa, Azienda USL) e sub-provinciali (Società della Salute). Nell’ultimo capitolo della sezione (R. Benedetti, L’implementazione locale del modello regionale) il fuoco dell’analisi si sposta ulteriormente dal generale al particolare, entrando nel merito delle diverse e distinte modalità di implementazione del “modello di accoglienza diffusa” che sono state adottate nelle quattro zone socio-sanitarie del territorio pisano, ricostruendo (grazie al ricorso a interviste di sfondo con alcuni testimoni privilegiati ed a specifiche sessioni di focus group) il quadro degli obiettivi e delle strategie assunte dai decisori pubblici locali nelle prime fasi del percorso di accoglienza.

La terza parte del volume esplora le evidenze raccolte nel corso

della ricerca, ed in particolare quelle emerse dalla ricostruzione dei vissuti dei profughi accolti sul territorio pisano, tentando di attribuire un significato strategico ai racconti, ai commenti, alle emozioni, alle paure ed alle speranze che pur nella estrema complessità dell’operazione i rilevatori sono riusciti a raccogliere. Attraverso la ricomposizione di questi frammenti narrativi, e soprattutto attraverso la loro contestualizzazione all’interno degli scenari istituzionali e di policy messi in evidenza nelle precedenti sezioni del lavoro, è stato qui infatti possibile realizzare un primo tenue schizzo dei processi attivati sui profughi, sia su quelli inseriti nel percorso assistenziale che di quelli prontamente (o prematuramente) usciti da esso. Il capitolo con cui si apre la terza parte si incarica di ricostruire alcune figure tipiche di profugo, sulla base dell’analisi (condotta a partire dai racconti degli operatori) dei diversi modi in cui i migranti arrivati a Pisa hanno

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affrontato e gestito gli snodi principali della loro esperienza migratoria precedente all’arrivo in Italia (S. Burchi, I profughi e le loro storie). Il capitolo successivo, invece, grazie ad un dettagliato lavoro di decostruzione dei racconti e dei commenti raccolti attraverso interviste dirette, indaga i meccanismi che l’esperienza dell’accoglienza ha attivato nel vissuto attuale e nella percezione del futuro dei profughi arrivati sul territorio pisano. Il confronto tra i sistemi di percezione ed i processi di attivazione dei giovani presi in carico dalle strutture del “modello di accoglienza diffusa” e di quelli che da esse sono usciti prontamente (perché resisi autonomi prima del termine del programma) o prematuramente (in quanto dotati di protezione temporanea e quindi liberi di prescindere dal sistema di accoglienza messa a disposizione) consente di realizzare una comparazione tra i processi di attivazione di coloro che hanno sperimentato (o non sperimentato) il sistema di accoglienza diffusa (S. Bontempelli, Prematuri, precoci e tardivi. Processi attivati e meccanismi emergenti nelle traiettorie di vita dei profughi).

Chiudono questa parte due capitoli che affrontano il tema dei cambiamenti introdotti dal programma di accoglienza all’interno di due agenzie presenti nel territorio oggetto di indagine e particolarmente coinvolte dagli effetti di medio e lungo periodo dell’esperienza di implementazione dell’ENA. Il primo dei due indaga, sulla base di interviste a referenti formali e membri informali delle comunità magrebine e sub-sahariane, se e quali cambiamenti sono stati apportati dal programma nelle comunità di stranieri della provincia di Pisa (G. Colombo, Traiettorie di cambiamento nelle comunità straniere). Il secondo capitolo approfondisce invece, sulla base di specifiche sessioni di focus group, se e quali cambiamenti il programma ha determinato negli obiettivi e nelle strategie di medio-lungo periodo delle istituzioni di governo dei processi di programmazione ed implementazione degli interventi socio-sanitari di accoglienza dei profughi (R. Benedetti, Traiettorie di cambiamento nelle Società della Salute).

Nelle Conclusioni del volume (G. Tomei, Meccanismi, traiettorie e

prospettive. Riflessioni conclusive a 4 mesi dalla chiusura del programma di accoglienza) sono sintetizzate le diverse evidenze raccolte nel corso della trattazione, organizzando un quadro esplicativo d’insieme a partire dalla lettura sinottica (ispirata come già detto agli approcci valutativi orientati all’analisi del cambiamento) delle diverse direzioni di cambiamento

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intraprese dalle varie tipologie di profughi, nei diversi contesti socio-politici ed istituzionali, per effetto (anche se non solo) dei meccanismi di adattamento, reazione o manipolazione da essi stessi attivati all’interno di questi ultimi.

L’ambizione che ha mosso il gruppo di ricerca è sempre stata quella

di capire e spiegare i meccanismi sociali ed istituzionali che garantiscono una adeguata ed efficace accoglienza dei rifugiati arrivati in Italia nelle condizioni quantitativamente e qualitativamente drammatiche come quelle determinatesi nel periodo preso in esame. Le regionalizzazione delle tensioni politico-sociali che hanno innescato la primavera araba del 2011 e, soprattutto, l’esito assolutamente incerto delle crisi Egiziana e Siriana rendono oggi quantomai urgente e strategica tale riflessione.

Ci auguriamo che i risultati della nostra indagine possano servire ad

introdurre nel più breve tempo possibile gli aggiustamenti necessari ad adeguare i percorsi di accoglienza oggi disponibili nel nostro territorio alle esigenze di medio e lungo periodo che abbiamo evidenziate nelle conclusioni di questo lavoro. Auspichiamo la diffusione tra gli operatori di quella nuova cultura professionale dell’accoglienza e dell’integrazione sociale dei rifugiati che ha iniziato a svilupparsi con l’ENA, ma che adesso ha bisogno di sistematizzazione ed istituzionalizzazione all’interno delle metodiche del servizio sociale. Ci impegniamo, come ricercatori, a sostenere attivamente i passaggi che anche la comunità scientifica locale dovrà compiere per accompagnare questi due passaggi strategici del nostro sistema di welfare.

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PARTE 1

IL CONTESTO SOCIALE ED

ISTITUZIONALE DEL PROGRAMMA EMERGENZA NORD AFRICA

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CAPITOLO 1

L’AFFLUSSO DEI PROFUGHI E LA COSTRUZIONE SOCIO-POLITICA

DELL’EMERGENZA

Sergio Bontempelli

L’INIZIO DELLE «PRIMAVERE ARABE» IN NORD AFRICA Il 14 gennaio 2011, alle ore 15.15, il Presidente della Repubblica di

Tunisia, Zine El-Abidine Ben Ali, annuncia al mondo lo scioglimento del governo e l’indizione di elezioni anticipate. Tre quarti d’ora dopo, alle 16.00, viene proclamato lo stato di emergenza per fronteggiare la rivolta in corso in tutto il paese. Alle 18 il primo ministro Mohamed Ghannouchi annuncia l’assunzione della presidenza ad interim, mentre si diffonde la notizia che il Presidente Ben Ali ha lasciato il paese.

Si conclude così, dopo quasi un mese di proteste e manifestazioni di piazza17, la prima delle rivoluzioni che hanno preso il nome collettivo di «Primavere Arabe». Gli eventi tunisini, infatti, sono solo l’inizio di un insieme di sollevazioni popolari estese a tutta l’area nordafricana. Il 17 gennaio, due giorni dopo la fuga di Ben Ali, un uomo si dà fuoco al Cairo. Una settimana dopo, il 25 gennaio, migliaia di manifestanti affluiscono in Piazza Tahrir, sempre nella capitale egiziana, per

17 Le rivolte erano scoppiate il 17 Dicembre 2010, dopo che Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante, si era dato fuoco davanti al palazzo comunale per protestare contro il sequestro della sua merce da parte della polizia locale. La vicenda era accaduta a Sidi Bouzid, piccola città rurale della Tunisia. Dalla fine dell’anno, la rivolta si era estesa alla capitale e alle principali città del paese. Si veda la dettagliatissima cronologia degli eventi curata dalla ONG “Ossin”, in http://www.ossin.org/tunisia/ rivoluzione-tunisina-cronologia-rivoluzione-governo-transizione.html. Q

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partecipare a quella che è stata chiamata la «giornata della collera»18. Mentre la rivolta dilaga nel paese di Mubarak, il mese successivo comincia il conflitto libico: tra il 15 e il 20 febbraio un imponente ciclo di manifestazioni a Bengasi si trasforma in una vera e propria insurrezione, che coinvolge tutta la parte est del paese, e che in capo a pochi giorni investe anche la capitale19.

CRISI UMANITARIA A LAMPEDUSA I rivolgimenti politici della sponda Sud del Mediterraneo hanno

inevitabili conseguenze sui flussi migratori diretti verso l’Italia. Da un lato, infatti, i conflitti armati e le violenze spingono molte persone a fuggire, sia perché direttamente vittime di persecuzioni, sia perché residenti in aree investite dagli scontri. Dall’altro lato, il crollo dei regimi genera, come sempre accade in questi casi, un indebolimento complessivo del potere statale: in questo quadro, gli accordi migratori con l’Italia – che fino ad allora avevano impedito le partenze di migliaia di migranti – diventano di difficile applicazione. Il venir meno del controllo capillare sulle coste20 consente così la ripresa dei flussi migratori.

18 Per una cronologia dei primi giorni della rivoluzione egiziana si veda Egitto, due settimane di rivolta, ANSA online, 12 febbraio 2011, in http://www.ansa.it/web/ notizie/photostory/primopiano/2011/02/01/visualizza_new.html_1613484939.html. 19 Per una cronologia degli eventi in Libia si veda Libia, dalle proteste alla guerra civile. Cronologia della crisi, in «Il Sole 24 Ore» ed. online, 28 Febbraio 2011, in http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-02-28/libia-proteste-guerra-civile-094 635. shtml. 20 «La chute de Ben Ali en janvier et l’insurrection en Libye en février», scrivono i ricercatori di due ONG che hanno compiuto una missione conoscitiva in Tunisia agli inizi di Aprile, «ont fait pratiquement disparaître toutes ces contraintes policières. Il nous a été dit que dans la région de Zarzis, point principal des départs récents, le nombre de gardes côtes était passé de 65 à six pendant cette période! Pour certains jeunes qui espéraient des jours meilleurs, le projet est devenu tout à coup possible. Grâce à l’effondrement du dispositif répressif envers les migrants, ces derniers n’ont plus eu besoin de recourir à des réseaux capables de contourner la surveillance. Avec un peu d’argent et le concours de petits bateaux de pêche, l’aventure est devenue accessible. La dynamique a entraîné des jeunes chômeurs ou précaires de la région déterminés à réaliser leur rêve: 5.000 départs en cinq jours, puis 10 puis 20.000. “Cela n’a rien d’exceptionnel, nous a dit un responsable de la Ligue des Droits de l’Homme, souvenez vous de ce qui s’est passé avec les Albanais”» [La caduta di Ben Ali a Gennaio

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Il primo «sbarco»21 sull’isola di Lampedusa si registra già il 15 gennaio, un giorno dopo la destituzione di Ben Ali. Due imbarcazioni vengono rintracciate in alto mare e trasportate al porto: a bordo si trovano 31 persone, tutte tunisine, che si dichiarano legate al vecchio regime appena caduto, e che nel timore di subire persecuzioni chiedono asilo. Da quel momento, gli arrivi si registrano a cadenza pressoché quotidiana: alla data del 1 Febbraio, un primo bilancio del fenomeno parla di venti sbarchi, per un totale di 244 migranti (167 dei quali giunti nella sola isola di Lampedusa)22. Il fenomeno, tuttavia, diviene oggetto

e l’insurrezione in Libia a Febbraio hanno praticamente eliminato tutti i vincoli di polizia. Ci è stato detto che nella zona di Zarzis, principale luogo delle partenze, il numero di guardie costiere è calato da 65 a 6! Per i giovani in cerca di un futuro migliore, il progetto è diventato improvvisamente possibile. A seguito del collasso dei dispositivi repressivi, i migranti non hanno più bisogno di ricorrere ad organizzazioni capaci di eludere la sorveglianza. Con un po’ di soldi e dei piccoli pescherecci, l’avventura è a portata di mano. Giovani disoccupati o precari della zona hanno cominciato a realizzare il loro sogno: 5.000 partenze in cinque giorni, poi 10, poi 20.000. “Non sta succedendo nulla di straordinario, ci dice un responsabile della Lega dei diritti dell’uomo, ricordatevi di quel che è accaduto con gli albanesi”] (CIMADE-GADEM, Défis aux frontières de la Tunisie. Rapport de Mission 23.05.2011, Parigi, CIMADE, 2011, p. 28, in http://cimade-production.s3.amazonaws.com/docu mentationgenerales/contents/3287/original/Rapport_mission_Tunisie_DEF.pdf?1306503967). 21 Manconi e Anastasia fanno notare come il termine “sbarchi” sia improprio, viste le particolari procedure di controllo istituite sull’isola. «Le migliaia di barche, gommoni e natanti di vario genere e natura che in seguito trasporteranno un’umanità dolente e speranzosa dalle coste africane (…) a Lampedusa, non approderanno direttamente nei moli dell’isola, ma saranno praticamente tutte intercettate al largo e poi trainate o comunque scortate in porto dalle vedette della Guardia costiera e della Guardia di finanza, secondo le procedure dette SAR (Search and Rescue)» (Lampedusa non è un isola. Profughi e migranti alle porte dell’Italia, a cura di L. Manconi e S. Anastasia, Roma, Associazione A Buon Diritto, 2012, pp. 19-20). E ancora: «Che la definizione di sbarchi (…) sia non solo inesatta, ma fuorviante lo dicono, inascoltate, fonti diverse e non sospette, e per prima proprio l’amministrazione comunale di Lampedusa e Linosa, che il 15 marzo 2011 dichiara: “nella maggior parte dei casi si tratta di recuperi a distanza varia, tra i cinquanta e le cento miglia marine fuori dall’arcipelago delle Pelagie”. E chiarisce: “la precisazione non ha un valore solo lessicale, poiché la differenza incide sull’immagine complessiva dell’isola. Nel concetto di sbarco vi è un immaginario di aggressività, inesistente in quello di recupero, che invece conferma la tradizione d’accoglienza per la quale Lampedusa è medaglia d’oro. I recuperi potrebbero avvenire con destinazione diversa, come a Malta o in Sicilia. Avvengono per comodità dello Stato italiano su Lampedusa, rotta di passaggio, dai fenici ai greci, dai romani agli arabi, fino ai giorni nostri”» (Ibid., p. 20). 22 Ibid., p. 20.

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di attenzione pubblica su scala nazionale agli inizi di febbraio: solo allora, infatti, stampa e televisioni cominciano a diffondere le immagini di Lampedusa “assediata” dagli sbarchi, affollata fino all’inverosimile di migranti giunti dal mare.

Il congestionamento dell’isola è dovuto senza dubbio alla crescita degli arrivi: alla data del 13 febbraio, i migranti sbarcati dall’inizio dell’anno sono già più di cinquemila (5.278 secondo il Ministero dell’Interno, 5.031 secondo l’Agenzia europea Frontex23). Tuttavia, a determinare questo stato di cose intervengono anche – e forse soprattutto – le scelte del Governo. Lampedusa dispone di un Centro di Soccorso e Pronta Accoglienza (CSPA) perfettamente funzionante, ma chiuso dal 2009. Per giorni e giorni, il centro resta chiuso (aprirà solo il 13 febbraio24), e migliaia di persone sono costrette a dormire all’aria aperta, sui moli del porto o lungo le strade del paese. I trasferimenti dei migranti dall’isola ad altri luoghi procedono a rilento25, e bisognerà attendere il 9 febbraio per veder attivato un “ponte aereo” quotidiano26. Il 12 febbraio, infine, viene emanato un decreto che, pur proclamando

23 Ibid., p. 22. 24 Si veda il dispaccio ANSA che annuncia la notizia della riapertura del centro: V. Sinapi, Sbarchi a Lampedusa, Maroni: “Esodo biblico, l’Ue ci lascia da soli”. “Penso a nostra polizia in Tunisia”. Riaperto il cpt nell’isola per fornire accoglienza ai migranti, ANSA, 13 febbraio 2011 ore 23:52, sul web alla pagina: http://wwww.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2011/02/12/visualizza_new.html_1588526807.html. 25 Il trasferimento dei migranti è ostacolato, secondo i funzionari del Ministero dell’Interno, dal fatto che i centri di identificazione o di accoglienza sono tutti pieni. Si veda l’intervista a Laura Boldrini, all’epoca portavoce dell’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, M.G. Gerina, “Non tirino la corda, Lampedusa è una polveriera”. Intervista a Laura Boldrini, in «L’Unità», 17 febbraio 2011. 26 Così riferisce lo stesso Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, nell’informativa alla Camera del 16 Febbraio: «A partire dal 9 febbraio le imponenti dimensioni del fenomeno hanno reso necessario garantire continui ponti aerei per il trasferimento dei cittadini tunisini in altri centri, ubicati su tutto il territorio nazionale. Sono stati anche organizzati trasferimenti a mezzo nave verso Porto Empedocle, dove è ubicata una tendo-struttura gestita dalla protezione civile regionale. È stata assicurata l’adeguata assistenza in particolare ai minori, collocati nelle 21 strutture di accoglienza ubicate nella provincia di Agrigento e autorizzate dalla regione siciliana» (Camera dei Deputati, atti parlamentari XVI legislatura - discussioni, seduta del 16 Febbraio 2011 n. 435, resoconto stenografico della discussione su Misure in merito all’«emergenza sbarchi», con particolare riferimento alla situazione dell’isola di Lampedusa - n. 3-01465, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 2011, p. 40).

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lo «stato di emergenza umanitaria»27, non reca alcuna indicazione operativa circa la redistribuzione dei migranti sul territorio nazionale. Così, Lampedusa resta sovraffollata, e l’emergenza finisce per diventare praticamente ingestibile.

RIMPATRIARE I MIGRANTI? STRATEGIE E NON DETTI DEL

GOVERNO ITALIANO A cosa si deve questa esitazione? Perché il governo sembra non

voler affrontare la vera e propria “crisi umanitaria” apertasi a Lampedusa?

Vi sono, senza dubbio, difficoltà logistiche: i “centri” attivi sul territorio nazionale, dove dovrebbero essere smistati i migranti (CIE, CARA, CdA28), risultano pieni e non in grado di accogliere ulteriori ospiti29. Ma questa difficoltà non spiega, da sola, i ritardi e le esitazioni del governo. Consultando la rassegna stampa e le dichiarazioni pubbliche dei Ministri interessati, si può avanzare una seconda ipotesi, diversa ma non necessariamente opposta alla prima: quella di una precisa strategia che in quei giorni anima l’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi. Vediamo più da vicino.

27 Cfr. Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 12 febbraio 2011, recante Dichiarazione dello stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa. 28 I Centri di accoglienza (CdA) sono stati introdotti dalla legge 563/95 (cd “legge Puglia”) allo scopo di garantire un primo soccorso allo straniero giunto sul territorio nazionale, in attesa di identificarlo e di accertarne lo status. I Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA), introdotti dal decreto legislativo 25/2008, garantiscono un’ospitalità temporanea ai richiedenti asilo privi di documenti di identificazione (passaporti, documenti di viaggio ecc.), o che abbiano richiesto asilo dopo essere stati rintracciati in condizioni di irregolarità. I Centri di identificazione ed espulsione (CIE) sono previsti dall’art. 14 del Testo Unico sull’Immigrazione (decreto legislativo 286/98): inizialmente chiamati “Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza” (CPTA), hanno assunto la denominazione di CIE con il decreto legge n. 92/2008; si tratta di strutture destinate al trattenimento degli stranieri irregolari in attesa di espulsione. Per un quadro delle strutture attive sul territorio nazionale si veda la scheda sul sito del Ministero dell’Interno: http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/ immigrazione/sottotema006.html. 29 Cfr. M. G. Gerina, “Non tirino la corda, Lampedusa è una polveriera”, cit.

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In un’audizione alla Camera dei Deputati, il 15 febbraio, il Ministro degli Esteri Franco Frattini si sofferma sulla sua visita in Tunisia, conclusasi il giorno precedente. Le autorità del paese nordafricano, spiega Frattini, hanno

«compreso che le migliaia di giovani tunisini arrivati sulle coste italiane sono le vittime evidenti di un traffico di esseri umani (…). Già a partire da ieri, abbiamo visto alcune azioni intraprese. È stata schierata la Forza armata a difesa e a presidio della legalità sui porti tunisini, il che ha condotto già oggi al (…) blocco di alcuni barconi (…). Non possiamo rinunciare all’impegno che ho riaffermato ancora ieri per una collaborazione bilaterale (…). Occorre rivitalizzare l’Accordo italo-tunisino sull’immigrazione»30. L’obiettivo del Governo è dunque quello di garantire l’applicazione

degli accordi bilaterali, fino ad allora compromessa dagli eventi rivoluzionari e dal conseguente indebolimento della struttura statale tunisina. Ma cosa significa gestire la crisi di Lampedusa riattivando gli accordi bilaterali?

Frattini, come si è visto, fa riferimento soprattutto al pattugliamento delle coste in Tunisia. In realtà, il trattato di cooperazione in materia di flussi migratori, stipulato con il paese nordafricano nel 2009, prevedeva anche misure per il rimpatrio dei migranti già arrivati in Italia: in particolare, era prevista una procedura semplificata per l’identificazione e la successiva espulsione dei tunisini irregolari, nonché l’utilizzo del Fondo Europeo Rimpatri per la gestione di programmi di “ritorno volontario assistito”31.

Letta “in filigrana”, e senza indugiare ad eccessive “dietrologie”32, la dichiarazione di Frattini alla Camera rivela insomma una strategia 30 Camera dei Deputati, atti parlamentari XVI legislatura - discussioni, seduta del 15 Febbraio 2011 n. 434, resoconto stenografico della discussione su Informativa urgente del Governo sugli sviluppi della situazione in alcuni paesi dell’area mediterranea, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 2011, p. 25). 31 Per l’accordo bilaterale tra Italia e Tunisia si veda J.-P. Cassarino, La nuova ondata di sbarchi e gli accordi Italia-Tunisia, in «Affari Internazionali. Rivista online di politica, strategia ed economia», 21 Febbraio 2011, in http://www.affarinternazionali.it/ articolo.asp?ID=1673. 32 Lo stesso Ministro Maroni ha in qualche modo esplicitato questa strategia, in una intervista rilasciata al Corriere della Sera il 28 Marzo: «La Tunisia aveva promesso un impegno immediato per fermare i flussi migratori», spiega Maroni, «ma le barche

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precisa: quella di procedere in tempi rapidi al rimpatrio dei tunisini, utilizzando sia lo strumento coercitivo dell’espulsione, sia quello – più “morbido” – del rientro volontario. Questa ipotesi consente di spiegare alcuni fatti che altrimenti resterebbero oscuri.

I ritardi e le reticenze con cui il Governo avvia lo “svuotamento” di Lampedusa, ad esempio, risultano più comprensibili nella prospettiva di un imminente rimpatrio dei migranti approdati sull’isola. Altrettanto trasparente diventa, alla luce dell’ipotesi che abbiamo appena formulato, il piano di redistribuzione dei tunisini sul territorio nazionale. Definito già agli inizi di marzo, ma tenuto riservato per settimane intere, esso è oggetto di ripetute indiscrezioni giornalistiche33: sarà il quotidiano La Repubblica a rivelarne i dettagli, alla fine del mese34. Secondo il giornale fondato da Eugenio Scalfari, il Governo starebbe lavorando all’allestimento di tre mega-tendopoli: una a Manduria, i cui lavori sono già avviati da alcuni giorni35; una a Trapani, nell’area di Kinisia; infine, una terza struttura sarebbe stata individuata a Coltano, vicino Pisa. Tutte e tre i siti sono di rilevanti dimensioni (quello di Manduria è in

continuano ad arrivare. Se non ci sarà un segnale concreto entro i prossimi giorni, procederemo con i rimpatri forzosi (…). Siamo attrezzati per farlo. Li mettiamo sulle navi e li riportiamo a casa» (F. Sarzanini, Maroni avverte le Regioni: “accogliete i profughi o agiremo d’imperio”, in «Il Corriere della Sera», 28 Marzo 2011). Ciò che non è evidentemente realistico, in queste parole, è il progetto di un rimpatrio forzato dei migranti contro la volontà della Tunisia. 33 Il 4 Marzo 2011, riferendo del Consiglio dei Ministri tenutosi il giorno prima, molti quotidiani si soffermano sul cosiddetto “piano B”, ossia sul progetto di redistribuzione dei migranti nelle Regioni italiane; tale progetto dovrebbe essere messo in pratica qualora le missioni umanitarie predisposte dal Governo in Libia e in Tunisia – il “piano A” – non dovessero servire al contenimento dei flussi migratori. Stando al resoconto dei giornali, l’esistenza del “piano B” viene rivelata dallo stesso Ministro dell’Interno Roberto Maroni, che tuttavia non fornisce alcun dettaglio in proposito. Cfr. per esempio C. Mercuri, Al via le missioni italiane, Maroni: “pronti al piano B”, in «Il Messaggero», 4 marzo 2011; M. Caprara, Piano B per i profughi. Verranno ridistribuiti tra le varie Regioni, in «Il Corriere della Sera», 4 marzo 2011; C. Maniaci, Piano B: invasi dai profughi, in «Libero», 4 Marzo 2011. 34 Cfr. A. Ziniti, In Sicilia e a Pisa le nuove tendopoli, così il governo sistemerà gli immigrati, in «La Repubblica», 29 marzo 2011. 35 Cfr. Ministero dell’Interno, Vigili del fuoco al lavoro per l’allestimento della struttura per immigrati a Manduria (Ta), comunicato stampa, 26 marzo 2011, in http://www.interno. gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/notizie/immigrazione/0000984_2011_03_26_VVF_Manduria_Ta.html.

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grado di ospitare più di 700 persone36, quello di Trapani 80037, quello di Pisa 60038), e tutti e tre si trovano in prossimità di aeroporti militari39. È quindi plausibile l’ipotesi che il Governo stia pensando ad un rimpatrio celere e massiccio dei migranti trasferiti da Lampedusa.

Naturalmente, una strategia del genere prevede una collaborazione delle autorità tunisine: non è pensabile infatti il rimpatrio di migliaia di migranti senza una loro previa identificazione, e senza un’assistenza logistica da parte delle forze dell’ordine sulle coste di arrivo. Ed è qui – sulla collaborazione delle autorità nordafricane – che il progetto manifesta il suo punto più debole.

AL DI LÀ DEL MARE: LE RETICENZE DELLA TUNISIA Alcuni studi sulle politiche migratorie hanno messo in evidenza il

“conflitto di interessi” che si crea, attorno al nodo delle espulsioni, tra i paesi di arrivo e quelli di origine dei migranti. Per i primi, il rimpatrio degli “indesiderati” rappresenta spesso un pilastro delle strategie di governo, e un fattore di rassicurazione delle opinioni pubbliche. Per questo si promuovono “accordi di riammissione” con i paesi di origine, allo scopo di facilitare l’allontanamento degli irregolari. Ma proprio la riammissione rappresenta, per gli Stati di origine, un elemento

36 Cfr. N. Quaranta, Emergenza profughi: tra Manduria e Oria tendopoli da 720 posti, allerta arrivi al Cie, in «Brindisi Report», quotidiano online, 25 marzo 2011, in http://www.brindisireport.it/prima-pagina/2011/03/25/emergenza-profughi-tra-manduria-e-oria-tendopoli-da-720-posti-allerta-arrivi-al-cie-di-brindisi/. 37 Cfr. A. Ziniti, In Sicilia e a Pisa le nuove tendopoli, cit. 38 M. Bocci, Da Lampedusa in arrivo 600 immigrati, in «La Repubblica», cronaca Firenze-Toscana, 29 marzo 2011. 39 Sul sito Geohack l’ex aeroporto militare di Manduria, sede della tendopoli, è indicato con le coordinate «40°26′35″N 17°37′46″E» (http://toolserver.org/~geo hack/ geohack.php?pagename=Aeroporto_di_Manduria&language=it&params=40_ 26_35_N_17_37_46_E_type:airport); prendendo tale localizzazione come luogo di partenza, la distanza dall’aeroporto di Brindisi è, secondo Google Maps, di 44km, equivalenti a 42 minuti di viaggio in automobile. Il sito di Kinisa a Trapani dista circa 3 chilometri dall’aeroporto di Birgi, base delle operazioni militari italiane in Libia (cfr. A. Ziniti, In Sicilia e a Pisa le nuove tendopoli, cit.). A proposito del sito di Coltano, vicino Pisa, il Corriere Fiorentino parlerà di un luogo «a due passi dal Galilei», cioè dall’aeroporto della cittadina toscana (cfr. M. Bonciani, Profughi verso Pisa, accuse a Roma, in «Corriere Fiorentino», 29 marzo 2011).

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fortemente problematico, oggetto di resistenze e di malcontento diffuso40.

Se questa divergenza di interessi è un elemento fisiologico nelle relazioni internazionali, essa diventa più drammatica quando le leadership dei paesi di origine sono fragili, e le loro politiche sono oggetto di controllo da parte della stampa e della società civile. In Tunisia, la “Primavera Araba” rappresenta una vera e propria svolta in questa direzione: sin dalle prime fasi del processo rivoluzionario, il tema delle migrazioni è infatti al centro dell’agenda politica e delle discussioni pubbliche.

Nel marzo 2011, mentre il Governo italiano avvia una trattativa con la Tunisia per il contenimento dei flussi migratori, nel paese nordafricano si diffondono malumori e polemiche: l’avallo alle politiche restrittive viene visto come un “tradimento”, e l’operato dell’esecutivo è oggetto di forti pressioni popolari41. Durante la visita di Berlusconi a

40 La riammissione dei migranti irregolari, scrivono ad esempio Ferruccio Pastore e Giuseppe Sciortino, «non è un problema tecnico quanto piuttosto la cartina di tornasole di una seria divergenza d’interessi tra stati d’emigrazione e stati d’immigrazione: se per questi ultimi la possibilità di allontanare effettivamente dal proprio territorio gli stranieri soggiornanti in condizione irregolare costituisce un tassello fondamentale delle attuali politiche di contrasto, per i primi, invece, l’accettare o il facilitare il rimpatrio coattivo dei propri cittadini è un atto impopolare, che suscita resistenze a molti livelli dell’amministrazione e crea molti più problemi di quanti non ne risolva. Un’ampia collaborazione nel rimpatrio dei propri cittadini produce, dal punto di vista delle classi dirigenti di quei paesi, una maggiore conflittualità politica, minori benefici economici (dato che anche gli emigrati irregolari inviano rimesse) e sovente maggiori tensioni a livello sociale. Lo stesso può dirsi per la repressione delle migrazioni irregolari: investire risorse nel contrasto di tali attività appare sovente alle opinioni pubbliche e alle stesse burocrazie di quei paesi un atto di subalternità politica agli interessi dei paesi “ricchi”» (F. Pastore e G. Sciortino, Tutori lontani. Il ruolo degli Stati d’origine nel processo di integrazione degli immigrati, Ricerca svolta su incarico della Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Roma, CESPI, 2001, p. 17, in http://www.cespi.it/ PASTORE/tutori-lontani.pdf. Il corsivo è nostro). 41 Nel mese di Aprile 2011, due ONG di sostegno ai migranti – la “storica” CIMADE francese, fondata nel 1939 e rappresentativa del mondo evangelico, e il Groupe Antiraciste de Défense Et d’accompagnement des étrangers et Migrants (GADEM) attiva in Marocco – intraprendono una missione conoscitiva in Tunisia. Il resoconto della loro visita si sofferma a lungo sul dibattito in materia di emigrazione. «Notre mission» – scrivono le due organizzazioni – «a coïncidé avec la visite du président du Conseil italien Silvio Berlusconi à Lampedusa où il avait menacé de renvoyer tous les migrants tunisiens par bateaux, suivie quelques jours après, le 4 avril, de sa visite à Tunis pour tenter de convaincre le gouvernement tunisien de réadmettre ses ressortissants. Le thème des

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Tunisi, tre ONG locali – la Ligue tunisienne des droits de l’Homme, che è stata una delle protagoniste della rivoluzione di gennaio, la Fédération des tunisiens pour les citoyens des deux rives (FTCR) e il Forum tunisien pour les droits économiques et sociaux – indicono una conferenza stampa per protestare contro la condizione dei connazionali a Lampedusa, e organizzano un presidio davanti all’Ambasciata italiana42.

Del resto, la questione migratoria è destinata a divenire di lì a poco una delle “poste in gioco” della Tunisia post-rivoluzionaria. Alle elezioni per l’Assemblea Costituente sarà previsto per la prima volta il diritto di voto anche per i residenti all’estero, che conferirà un nuovo protagonismo politico alla diaspora43. Sin dalla tarda primavera 2011, inoltre, si svilupperanno le polemiche sui cosiddetti harragas (migranti irregolari44) dispersi in mare: sia i movimenti della società civile che i partiti politici sosterranno le proteste delle madri dei dispersi, alimentando polemiche con i paesi europei sulla gestione dei flussi

migrations était dans tous les esprits et dans la presse. Et le ton reflétait bien l’attitude nouvelle que l’opinion publique et les autorités entendent assumer face aux pressions jugées inacceptables de l’Italie et de l’Europe: la Tunisie qui vient de faire sa révolution n’est plus celle de Ben Ali et elle n’admettra pas que les questions migratoires soient traitées uniquement sous l’angle sécuritaire, au seul bénéfice des Etats européens» [La nostra missione ha coinciso con la visita del primo ministro italiano Silvio Berlusconi a Lampedusa (durante la quale il premier ha minacciato di rimpatriare tutti i migranti tunisini), seguita pochi giorni dopo, il 4 aprile, da una visita a Tunisi per cercare di convincere il governo tunisino a riammettere i propri cittadini. Il tema delle migrazioni era ogni giorno sulla stampa e nella mente di tutti. I toni del dibattito riflettevano il nuovo atteggiamento che l’opinione pubblica e le autorità intendono assumere di fronte alle pressioni – giudicate inaccettabili – dell’Italia e dell’Europa: la Tunisia uscita dalla rivoluzione non è più quella di Ben Ali, e non è più disposta a tollerare che le questioni dell’immigrazione siano affrontate in una prospettiva securitaria, ad esclusivo beneficio degli stati europei] (CIMADE-GADEM, Défis aux frontières de la Tunisine, cit., p. 28). 42 Ibid., pp. 30-31. 43 Il partito islamista Ennahda sarà uno dei maggiori beneficiari del voto degli emigranti, ottenendo circa un terzo dei voti in Francia, il 43% in Germania e il 50% in Italia. Cfr. H. Boubakri, Migrations Internationales et Révolution en Tunisie, Rapporto di Ricerca, Fiesole, Migration Policy Centre, 2013, p. 16, in http://www.migrationpolicycentre.eu/docs/ MPC-RR-2013-01.pdf. 44 «Harragas» è il plurale spagnolo di un termine arabo dialettale, e significa letteralmente «coloro che bruciano». Secondo l’interpretazione più diffusa, l’espressione si riferisce all’usanza di bruciare i documenti di identità per sfuggire alle espulsioni e ai respingimenti (si veda Harragas - Saperi Migranti: “I mille volti della migrazione”, in «Global Project», 17 aprile 2010, http://www.globalproject.info/it/in_movimento/harragas-saperi-migranti-i-mille-volti-della-migrazione/4636).

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migratori nello spazio mediterraneo45. In autunno, sulla spinta delle rivendicazioni della società civile, verrà istituito anche un ufficio per la tutela degli emigranti (Secrétariat d’Etat aux Migrations et aux Tunisiens à l’Etranger, dipendente dal Ministero degli Affari Sociali), che avvierà un’inchiesta sui migranti morti durante le traversate in mare46.

In un contesto di forte attenzione pubblica su questi temi, il Governo tunisino non è evidentemente in grado di assecondare le richieste di quello italiano. Così, la situazione precipita in pochi giorni. Il 25 marzo Frattini e Maroni si recano a Tunisi per perfezionare l’accordo con il paese nord-africano: i quotidiani annunciano, il giorno dopo, un “pacchetto” di misure concordate dai due governi, tra le quali figurano più attenti controlli sulle coste tunisine per impedire le partenze, e procedure semplificate per i rimpatri; in cambio di questi impegni da parte della Tunisia, l’Italia promette linee di credito per lo sviluppo della piccola e media impresa e per la formazione professionale47. L’accordo sembra fatto, ma pochi giorni dopo arriva la doccia fredda: in una nota diramata alla stampa il 2 Aprile, il Governo tunisino nega di aver stipulato qualsiasi accordo con l’Italia48.

L’OSTACOLO DELLE REGIONI Un secondo ostacolo fa naufragare i piani del Governo: la protesta

delle Regioni. Come abbiamo visto, il 29 marzo il quotidiano La Repubblica rivela i

dettagli del progetto di redistribuzione dei migranti sul territorio. Il giorno successivo, però, i governatori fanno sentire la loro voce, e sollevano polemiche sui siti individuati dal Governo.

45 Cfr. I. Mandraud, Tunisie: les disparus de la révolution, in «Le Monde», ed. online, 21 marzo 2013, in http://www.lemonde.fr/international/article/2013/03/21/tunisie-les-disparus-de-la-revolution_1852032_3210.html. Sul tema dei dispersi in mare si veda anche H. Boubakri, Migrations Internationales et Révolution en Tunisie, cit., pp. 16 e ss. 46 Cfr. H. Boubakri, Migrations Internationales et Révolution en Tunisie, cit., pp. 16 e ss. 47 Cfr. M. Ludovico, Accordo con la Tunisia per limitare gli sbarchi, in «Il Sole 24 Ore», 26 marzo 2011; A. Farruggia, Una dote per chi rimpatria, “ognuno avrà 2.500 dollari”, in «Quotidiano Nazionale», 26 marzo 2011. 48 Cfr. G. Sarcina, La Tunisia nega i patti, scontro sui migranti, in «Il Corriere della Sera», 3 aprile 2011.

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«I Comuni», dice ad esempio Nichi Vendola, Presidente della Puglia, «erano pronti ad accogliere piccoli gruppi e invece ci troviamo dalla sera alla mattina migliaia di persone concentrate in tendopoli»49. Roberto Cota fa sapere che il Piemonte è pronto a collaborare, ma – aggiunge a mo’ di monito – «nella nostra Regione c’è già un alto numero di immigrati, chiederemo di tenerne conto»50. Sulla stessa lunghezza d’onda Roberto Formigoni, della Lombardia, che chiede di non “sovraccaricare” la sua Regione e sollecita l’Europa a farsi carico dell’accoglienza51.

Le proteste maggiori riguardano però la Toscana, dove la mega-tendopoli progettata a Coltano provoca un’aperta ribellione delle autorità locali, sostenuta dal governatore Enrico Rossi52. Da Firenze si fa sapere che c’è ampia disponibilità ad accogliere i migranti, ma si rifiutano soluzioni “concentrazionarie” e ipotesi di mega-tendopoli.

Come si vede da questa piccola carrellata, le proteste hanno segno diverso: alcune sembrano ispirate alla cosiddetta “sindrome NIMBY” (not in my backyard, non nel mio cortile), altre sono orientate a visioni più solidariste. Tutte, però, convergono nel rifiutare il piano allestito dal Ministero dell’Interno.

LA PROTEZIONE TEMPORANEA La situazione è divenuta a questo punto ingestibile. Negli ultimi

giorni di marzo, a Lampedusa vi sono più di seimila migranti53, e lo svuotamento dell’isola non è ormai più procrastinabile. Il progetto di rimpatriare in massa i profughi – reso noto il 2 aprile dal governo tunisino54 – è apertamente osteggiato dalle autorità del paese nordafricano, mentre il piano di redistribuzione sul territorio nazionale

49 Cfr. M. Esposito, Vendola: “Si è mosso solo il Sud, il Nord e l’UE facciano qualcosa”, in «Il Mattino», 30 marzo 2011. 50 Cfr. Redazionale, Cota: “Sì ai profughi, no ai clandestini”, in «La Stampa», 30 marzo 2011. 51 Cfr. C. Sala, “La Lombardia non accoglierà tutti”, in «Libero», 30 marzo 2011. 52 Cfr. V. Frulletti, Toscana, tutti contro la tendopoli, “li accogliamo, ma non nel campo”, in «L’Unità», 30 marzo 2011. 53 Cfr. N.C., Lampedusa, svuotamento a rilento. Tunisini in rivolta, “non rimpatriateci”, in «Il Messaggero», 1 aprile 2011. 54 Cfr. G. Cadalanu, Ma Tunisi frena: “rientri di massa non praticabili”, in «La Repubblica», 2 aprile 2011. Q

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incontra diffuse resistenze da parte delle Regioni e degli enti locali. Mentre sei navi della Marina Militare si dirigono verso Lampedusa per portare i migranti fuori dall’isola, nessuno sa ancora esattamente dove verranno accompagnati i tunisini: l’ipotesi più probabile è quella di una permanenza di qualche giorno a bordo delle navi, in attesa di sbloccare la situazione55. È evidente che l’unica via di uscita è quella di concedere un permesso di soggiorno ai giovani sbarcati a Lampedusa, rinunciando alla prospettiva di un celere rimpatrio.

Il 5 aprile, il Ministro Maroni vola di nuovo a Tunisi con l’obiettivo di varare in extremis un accordo con il governo locale56. Le autorità tunisine si impegnano a fermare ulteriori arrivi e a riammettere i migranti irregolari, ma chiedono in cambio il rilascio di un permesso di soggiorno per tutti coloro che sono giunti in Italia fino a quel momento57.

A questa ipotesi, evidentemente conosciuta in anticipo dalle autorità italiane, stavano del resto già lavorando i tecnici del Ministero dell’Interno: nella stessa giornata del 5 aprile, infatti, viene emanato un decreto di protezione umanitaria per i tunisini58. Utilizzando una clausola espressamente prevista dalla normativa sull’immigrazione59, il 55 Cfr. C. Mercuri, Le tendopoli non sono pronte, i migranti resteranno sulle navi, in «Il Messaggero», 30 marzo 2011. 56 Cfr. Ministero dell’Interno, Immigrazione, Maroni di nuovo a Tunisi: «Siamo qui per concludere l’accordo», comunicato stampa, 5 aprile 2011, in http://www.interno.it/ mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/notizie/immigrazione/000074_2011_04_05_Maroni_a_Tunisi_per_accordo_su_immigrazione.html_1274398082.html. 57 Cfr. Ministero dell’Interno, Immigrazione, siglato l’accordo tra Italia e Tunisia, comunicato stampa, 6 aprile 2011, in http://www.interno.it/mininterno/export/ sites/default/ it/sezioni/sala_stampa/notizie/immigrazione/000073_2011_04_06_ accordo_Italia-Tunisia.html_1274398082.html. 58 Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri del 5 Aprile 2011, Misure umanitarie di protezione temporanea per i cittadini provenienti dal Nord-Africa affluiti nel territorio italiano dal 1 gennaio 2011 alla mezzanotte del 5 aprile 2011, in «Gazzetta Ufficiale» n. 81 dell’8 aprile 2011. 59 Testo Unico delle Leggi sull’Immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, decreto legislativo 286/98 e successive modifiche ed integrazioni, art. 20 comma 1: «Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato d’intesa con i Ministri degli affari esteri, dell’interno, per la solidarietà sociale, e con gli altri Ministri eventualmente interessati, sono stabilite (…) le misure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga a disposizioni del presente testo unico, per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea». La norma era stata introdotta dalla cosiddetta legge

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decreto prevede il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai «cittadini appartenenti ai paesi del Nord-Africa affluiti nel territorio nazionale dal 1 Gennaio 2011 alla mezzanotte del 5 Aprile 2011»60.

ARRIVANO I “LIBICI” Se la concessione di un permesso di soggiorno ai migranti tunisini

sembra dare un primo sbocco positivo alla crisi umanitaria di Lampedusa, la complicata vicenda che ha preso il nome di “emergenza Nord Africa” è ben lontana dall’essere conclusa. Sta infatti per aprirsi un nuovo fronte, che impegnerà il governo italiano e che farà discutere a lungo l’opinione pubblica: dopo i tunisini, stanno per arrivare i migranti dalla Libia.

Il fenomeno degli “sbarchi” dal paese di Gheddafi è in realtà già iniziato. Il 5 aprile, nel corso di un’audizione alla Commissione Affari Esteri della Camera, la portavoce dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, Laura Boldrini, spiega che dall’inizio dell’anno sono arrivati via mare in Italia 22.267 migranti: di questi, 1.864 sono giunti dalla Libia61. Si tratta ancora, come si vede, di una piccola minoranza. Ma i numeri sono destinati a mutare in modo significativo nel giro di poche settimane.

L’8 aprile, proprio quando Lampedusa è quasi svuotata (dei quasi seimila tunisini presenti pochi giorni prima ne sono rimasti appena 72), sull’isola approda una nave con 535 persone a bordo: sono Eritrei, Etiopi e Somali fuggiti dalla Libia62. Due giorni dopo, il 10 aprile, un

Turco Napolitano (legge 40/98), e non è stata mai abolita dai successivi interventi legislativi che hanno novellato il Testo Unico. La misura della protezione temporanea, con il connesso rilascio del permesso di soggiorno, era stata applicata ai profughi provenienti dal Kossovo nel 1999 (Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri 12 maggio 1999, Misure di protezione temporanea, a fini umanitari, da assicurarsi nel territorio dello Stato a favore delle persone provenienti dalle zone di guerra dell’area balcanica, in «Gazzetta Ufficiale» n. 121 del 26 maggio 1999). 60 DPCM 5 Aprile 2011, cit. art. 1. Come si vede, il tenore letterale della norma parla di “cittadini provenienti dal Nord-Africa”, e non si riferisce ai soli tunisini: di fatto, però, saranno questi ultimi i principali beneficiari delle misure di regolarizzazione. 61 Cfr. Lampedusa non è un isola, a cura di L. Manconi e S. Anastasia, cit., p. 126. 62 Ibid., p. 128.

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altro barcone con a bordo 229 migranti approda sull’isola. Il 13 aprile un’altra imbarcazione con 192 profughi subsahariani naufraga sugli scogli di Pantelleria. Il 19 aprile la Protezione Civile fornisce un primo bilancio degli sbarchi dalla Libia: dall’inizio dell’anno, sono giunti sulle coste italiane 4.061 persone, un numero due volte superiore a quello fornito da Laura Boldrini appena due settimane prima63.

È importante sottolineare che gli sbarchi coinvolgono migranti provenienti dalla Libia, ma che nella stragrande maggioranza dei casi non sono cittadini libici. Il paese di Gheddafi era infatti meta di intensi movimenti migratori: secondo una stima dell’OIM, prima della guerra vi erano presenti 2 milioni e mezzo di lavoratori stranieri64, su una popolazione totale di circa 6 milioni e mezzo di abitanti65. Oggetto di diffuse discriminazioni66, con l’avvio del conflitto essi diventano bersagli di violenze e intimidazioni, e sono costretti a fuggire.

Da questo momento, man mano che il conflitto tra i ribelli e l’esercito di Gheddafi si approfondisce, gli sbarchi dalla Libia sono destinati a moltiplicarsi. A dire il vero, ad un bilancio finale l’“esodo” verso l’Italia si rivelerà assai contenuto (dei quasi 800.000 profughi usciti dalla Libia, meno di 30.000 arriveranno nel nostro paese67), ma

63 Ibid., p. 130. 64 Cfr. A. Di Bartolomeo, Thibaut Jaulin, Delphine Perrin, Libya. The Demographic-Economic Framework of Migration. The Legal Framework of Migration. The Socio-Political Framework of Migration, CARIM Migration Profiles, Firenze, CARIM - Consortium for Applied Research on International Migration, 2011, p. 2, in http://www.carim.org/ public/migrationprofiles/MP_Libya_EN.pdf. 65 Secondo la Banca Mondiale, nel 2011 la Libia aveva 6.423 milioni di abitanti (cfr. World Bank, Countries and economies. Lybia, 2011, in http://data.worldbank.org/ country/libya). 66 Cfr. United Nations Watch (UN Watch), Written statement submitted by the United Nations Watch (UN Watch), a non-governmental organization in special consultative status, United Nations, General Assembly, Human Rights Council. Thirteenth session. Agenda item 9, “Racism, racial discrimination, xenophobia and related forms of intolerance, follow-up and implementation of the Durban Declaration and Programme of Action”, A/HRC/13/NGO/122, 16 febbraio 2010, in http://www.unwatch.org/atf/ cf/%7B6deb65da-be5b-4cae-8056-8bf0bedf4d17% 7D/WRITTEN%20STATEMENT%20ITEM%209.PDF. 67 I dati provengono dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni. Cfr. International Organization for Migration (IOM), Migrants Caught in Crisis: The IOM Experience in Libya, a cura di C. Aghazarm, P. Quesada, S. Tishler, Ginevra, IOM, 2012, citato in F. Bracci, Emergenza Nord Africa. I percorsi di accoglienza diffusa. Analisi e monitoraggio del sistema, Pisa, Pisa University Press, 2012, pp. 41-42.

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sufficiente a mettere in crisi la fragile struttura incaricata di gestire situazioni di questo tipo.

LA DEFINIZIONE DELL’«EMERGENZA NORD AFRICA» È nel mese di aprile, con l’arrivo dei profughi “libici”, che si viene

definendo la cosiddetta “emergenza Nord Africa” (ENA). Come abbiamo visto, già con i primi sbarchi dei tunisini il Governo

aveva proclamato lo “stato di emergenza”. Il 7 Aprile, questo viene riconfermato68, mentre il 13 aprile la gestione del fenomeno viene sottratta al Prefetto di Palermo e affidata al Dipartimento della Protezione Civile presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri69.

Il sostanziale fallimento della gestione della crisi tra febbraio e aprile suggerisce al governo di cambiare strategia. Se durante la rivoluzione tunisina si era tentato di avviare una politica di respingimenti di massa, per la Libia questa ipotesi è del tutto impraticabile: a Tripoli manca qualsiasi interlocutore istituzionale con cui negoziare la riammissione dei migranti, la struttura di potere che fa capo a Gheddafi si sta rapidamente dissolvendo e al suo posto non emerge una nuova leadership in grado di guidare il paese. Gli stessi accordi Italia-Libia sono sospesi dal mese di febbraio, e per la loro riattivazione si attende la fine del conflitto70. 68 Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 7 Aprile 2011, Dichiarazione dello stato di emergenza umanitaria nel territorio del Nord Africa per consentire un efficace contrasto all’eccezionale afflusso di cittadini extracomunitari nel territorio nazionale, «Gazzetta Ufficiale», n. 83 del 11 aprile 2011. 69 Il Prefetto di Palermo era stato nominato commissario straordinario per l’emergenza Nord Africa con l’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri del 18 febbraio 2011, n. 3924. L’ordinanza del 13 Aprile dispone, all’art. 1, che «il Capo del Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei ministri è nominato Commissario delegato per la realizzazione di tutti gli interventi necessari a fronteggiare lo stato di emergenza di cui ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri e con i poteri individuati dalle ordinanze del Presidente del Consiglio dei ministri, citati in premessa» (Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri del 13 aprile 2011, n. 3933, Ulteriori disposizioni urgenti dirette a fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa, in «Gazzetta Ufficiale», n. 91 del 20 aprile 2011, art. 1, comma 1). 70 La sospensione dell’accordo di cooperazione con la Libia era stata annunciata dal Governo alla fine di febbraio: non erano stati emanati atti formali di revoca, ma si prendeva atto dello smantellamento della struttura statale libica e della conseguente

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In queste condizioni, è necessario dunque ipotizzare una strada diversa. Quella che prende corpo nella tarda primavera è il frutto di alcune scelte su cui è bene soffermarsi brevemente. In questa sede, per semplicità e chiarezza espositiva, ci concentreremo su un punto cruciale, ovvero quello dello status giuridico dei profughi provenienti dalla Libia, mentre per la descrizione del modello di accoglienza predisposto per decongestionare Lampedusa, si rimanda al terzo capitolo.

LA TRASFORMAZIONE DEI PROFUGHI IN “RICHIEDENTI

ASILO” Come abbiamo visto, durante i primi sbarchi a Lampedusa il

governo aveva considerato i migranti tunisini come semplici irregolari, passibili dunque di respingimento o di espulsione71. Essendo però impossibile rimpatriare coattivamente i profughi in arrivo dalla Libia, questa ipotesi è ora del tutto impraticabile.

Successivamente, con il decreto sulla protezione temporanea, ai tunisini era stato rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari: tale permesso era però riservato, come abbiamo visto, ai cittadini provenienti dal Nord Africa che fossero sbarcati prima della mezzanotte del 5 Aprile 2011: e gran parte dei “Libici” arriva successivamente a tale data. Il governo potrebbe a questo punto emanare un nuovo decreto sulla protezione temporanea, estendendo i

impossibilità di applicare gli accordi con quel paese. «Il trattato italo-libico», spiegava il Ministro della Difesa Ignazio La Russa al Sole 24 Ore «di fatto non c’è già più, è inoperante, è sospeso (…); gli uomini della Guardia di finanza che erano sulle motovedette per controllare quel che facevano i libici, sono ora nella nostra ambasciata». Il Ministro precisava di «aver fatto soltanto una constatazione senza implicazioni operative o diplomatiche, al momento. Il trattato è di fatto inoperante in questi giorni perché non c’è la controparte» (C. Marroni, Italia-Libia, trattato sospeso, in «Il Sole 24 Ore», 27 febbraio 2011). 71 Come noto, il Testo Unico sull’immigrazione non prevede forme di emersione e regolarizzazione dei migranti irregolari, se non in casi specifici e circoscritti (donne in stato di gravidanza, minori di anni 18, vittime di tratta ecc.). Di norma, invece, coloro che attraversino la frontiera privi di visto o di analogo titolo di ingresso, o che siano rintracciati in posizione irregolare sul territorio nazionale, sono soggetti ad espulsione o respingimento. Cfr. Testo Unico delle Leggi sull’Immigrazione e Norme sulla Condizione dello Straniero, decreto legislativo 286/98 e successive modifiche ed integrazioni, artt. 10 e 13.

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termini per il rilascio del permesso di soggiorno: è quanto suggeriscono numerose e autorevoli voci, tra le quali quella dell’Alto Commissariato ONU per i rifugiati72 e dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione73. Il Governo è però restio a concedere ulteriori permessi di soggiorno, e decide di affrontare la situazione in altro modo: facendo richiedere asilo a tutti i profughi in arrivo dalla Libia. Per capire le implicazioni di questa scelta, sarà bene spendere due parole sul suo significato.

La richiesta di asilo è in primo luogo un atto individuale dello straniero: benché, nel caso dei migranti provenienti dalla Libia, siano le stesse forze dell’ordine a sollecitare la presentazione delle domande, e ad invitare i profughi a compilare l’apposita modulistica, dal punto di vista formale sono i migranti stessi a fare richiesta di protezione. Una volta presentata la domanda, lo straniero ha diritto a restare in Italia finché la procedura di asilo non sia conclusa74.

72 «Le persone provenienti da paesi terzi, in fuga dalla Libia, che chiedono protezione internazionale», scrive in un proprio documento l’UNHCR, «dovrebbero essere inserite nella procedura di asilo (…) finché i numeri saranno gestibili. Se dovesse giungere dalla Libia un numero significativo di richiedenti asilo provenienti da paesi terzi, dovrebbe essere riconosciuta loro una protezione temporanea per il tempo necessario a valutare le relative domande d’asilo» (UNHCR - United Nations High Commissioner for Refugees, Considerazioni sulla protezione delle persone in fuga dalla Libia. Raccomandazioni UNHCR (al 29 marzo 2011), Roma, UNHCR, 2011, p. 3, in http://www.unhcr.it/cms/attach/editor/ PDF/UNHCR_posizione_Libia.pdf). 73 Cfr. ASGI - Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, Rilasciare il permesso di soggiorno per motivi umanitari agli stranieri fuggiti dai paesi arabi in rivolta, documento del Consiglio Direttivo del 24 novembre 2011, Roma, ASGI, 2011, http://www.asgi.it/ public/parser_download/save/1_asgidocumenti.umanitario_2011.pdf. In un altro documento, l’ASGI osservava peraltro che «appare anche del tutto arbitraria la fissazione di un limite di tempo per riconoscere un permesso temporaneo per protezione umanitaria a coloro che provengono dal “Nord Africa”, come se, successivamente al 5 aprile, in questi paesi si fosse verificato un tale miglioramento della situazione politica e sociale tale da fare venire meno la necessità di protezione, seppur temporanea, dai cittadini provenienti da quest’area». Cfr. ASGI, Dall’emergenza umanitaria allo Stato d’eccezione, a cura di Fulvio Vassallo Paleologo, Roma, 4 maggio 2011, p. 8, http://www.asgi.it/public/parser_download/save/commento.dall.emer genza.umanitaria.allo.stato.di.eccezione.fulvio.paleologo.pdf. 74 Così dispone l’art. 7, primo comma, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, in «Gazzetta Ufficiale» n. 40 del 16 febbraio 2008.

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Dunque, mentre la regolarizzazione dei tunisini era avvenuta per volontà politica esplicita del Governo – che aveva emanato un apposito decreto – nel caso dei “libici” la regolarità del soggiorno può essere presentata come una conseguenza automatica delle scelte individuali dei migranti. L’esecutivo è così esonerato dal dover giustificare un provvedimento di “regolarizzazione”, che potrebbe suscitare malumori e dissensi nell’opinione pubblica. Al contempo, grazie a questo stratagemma tutti i migranti divengono regolari (almeno fino alla conclusione della procedura di asilo) e possono dunque essere inviati alle strutture di accoglienza distribuite sul territorio nazionale.

Questa scelta ha però conseguenze precise sul destino dei migranti. Questi, come si è visto, provengono dalla Libia ma non sono cittadini libici, mentre la normativa internazionale in materia di rifugiati prevede, di norma, la protezione per coloro che siano perseguitati (o che abbiano il fondato timore di esserlo) nel proprio paese di cittadinanza75.

Un’interpretazione restrittiva delle norme potrebbe dunque spingere a rigettare le domande di asilo, con la motivazione che i profughi, perseguitati o vittime di violenza in Libia, possono comunque far ritorno ai rispettivi paesi di origine76. Così infatti avviene: secondo i dati 75 Secondo la Convenzione di Ginevra, si definisce rifugiato «chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato» (Convenzione sullo statuto dei rifugiati, Conclusa a Ginevra il 28 luglio 1951, ratificata dall’Italia con legge n° 277 del 24/7/1954, art. 1). Definizioni analoghe compaiono sia nelle direttive comunitarie che nelle norme nazionali. Cfr. Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, art. 2 comma 1 lettera c; Direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 1 Dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, art. 2 comma 1 lettera f; Decreto Legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, «Gazzetta Ufficiale» n. 40 del 16 febbraio 2008, art. 2 comma 1 lettera f. 76 Si tratta di un’interpretazione assai restrittiva della norma in quanto, come osserva l’ASGI, «se è vero che le norme comunitarie e nazionali sulla protezione internazionale si riferiscono espressamente a stranieri in fuga dal Paese di cui hanno la cittadinanza, sicché gli stranieri non libici regolarmente soggiornanti in Libia hanno situazioni individuali che spesso mancano dei requisiti per il riconoscimento della protezione internazionale, tuttavia è altresì vero e rilevante che l’art. 32 del D. lgs. 25/2008 stabilisce che le Commissioni territoriali quando non riconoscano lo status di

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diffusi dal Ministero dell’Interno, nel 2011 vengono respinte il 44% delle domande, mentre nei primi tre mesi del 2012 i rigetti coprono il 76% delle richieste di protezione internazionale77.

protezione internazionale possono trasmettere gli atti al Questore per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, nel caso sussistano gravi motivi di carattere umanitario» (ASGI, Rilasciare il permesso di soggiorno per motivi umanitari agli stranieri fuggiti dai paesi arabi in rivolta, cit., pp. 2-3). 77 Ministero dell’Interno, dati sulle richieste di asilo, http://www1.interno.gov.it/ mininterno/export/sites/default/it/assets/files/21/0551_statistiche_asilo.pdf. È da rilevare che queste cifre si riferiscono a tutte le domande di asilo, e non solo a quelle relative all’Emergenza Nord Africa.

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CAPITOLO 2

STRUMENTI NORMATIVI E PROCEDURE DISPONIBILI

Costanza Cattaneo

Il presente capitolo, passando in rassegna il contesto normativo e

procedurale sia comunitario che nazionale, fornisce nel complesso una cornice entro la quale poter inquadrare gli interventi promossi dal Governo Italiano fin dall’inizio dell’emergenza. Si è cercato così di fornire delle basi conoscitive dei principali sistemi di accoglienza che sono stati attivati ed altresì, vedere se e come gli indirizzi normativi a disposizione abbiano potuto rappresentare un’efficace guida nella gestione dell’emergenza, grazie al confronto con gli altri capitoli.

LA PROCEDURA DI SOCCORSO Per far fronte all’arrivo di stranieri sul territorio nazionale il

legislatore italiano si è dotato nel tempo di strutture e procedure il più possibile adeguate alla gestione anche di emergenze. Dal momento in cui il profugo giunge sul territorio italiano ha avvio il processo che lo porterà a presentare domanda di protezione internazionale o ad essere sottoposto a rimpatrio.

Arrivato in Italia, lo straniero viene accolto e soccorso nelle strutture localizzate in prossimità dei luoghi di sbarco, denominate CPSA (Centri di Primo Soccorso e Assistenza), caratterizzate da una permanenza degli immigrati all’interno, per il tempo strettamente occorrente al loro trasferimento presso altri centri (generalmente 24/48 ore)78.

78 “Schema di capitolato di appalto per la gestione dei centri di accoglienza per immigrati”.

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I CPSA sono strutture abbastanza recenti, istituite con un decreto interministeriale del 16 febbraio 2006 e destinate, come detto, ad accogliere gli stranieri intercettati e soccorsi in mare, per fornire loro una prima assistenza basilare e generica79.

Successivamente, il migrante che non ha ancora definito il suo status giuridico viene accolto nei CDA (Centri Di Accoglienza), per il tempo strettamente necessario alla definizione dei provvedimenti amministrativi relativi alla sua posizione sul territorio nazionale80.

La nascita dei CDA risale al 1995 e, in particolare, è legata al decreto legislativo 451/1995, convertito nella legge n. 563 del 1995, chiamata “legge Puglia”, la quale istituiva gli allora chiamati CTA, Centri Temporanei di Accoglienza.

Tali strutture, inizialmente allestite solo nelle città di Brindisi, Lecce e Otranto, servivano a tentare di evitare interventi d’accoglienza improvvisati e a diminuire il consueto ricorso a provvedimenti emergenziali di protezione civile per affrontare il numero sempre più cospicuo di arrivi di cittadini stranieri.

Per quanto riguarda la definizione dei tempi di permanenza all’interno di queste strutture, la normativa italiana presenta una carenza. Non vi è, infatti, alcuna precisazione, ma si afferma che gli stranieri devono rimanervi esclusivamente per il tempo necessario all’adozione dei provvedimenti questorili (art. 23 del d.P.R. 394/1999)81.

Sia i CPSA che i CDA, quindi, sono caratterizzati dal fatto che lo straniero vi permane per un tempo breve, e questo condiziona la tipologia e la strutturazione dei servizi offerti all’interno dei centri.

Analizzando il “capitolato di appalto” di entrambi è possibile notare, infatti, come siano forniti i servizi di assistenza generica alla persona, quali il servizio di mediazione linguistica culturale, l’informazione sulla normativa concernente l’immigrazione, i diritti e doveri e la condizione dello straniero, le regole comportamentali del centro, i servizi di barberia e lavanderia e anche i servizi di assistenza sanitaria, di pulizia e igiene ambientale, così come la fornitura di kit per gli ospiti e dei pasti per il tempo di permanenza di questi.

79 L. Manconi e S. Anastasia, Lampedusa non è un’isola, cit., p. 282. 80 “Schema di capitolato di appalto per la gestione dei centri di accoglienza per immigrati”. 81 L. Manconi e S. Anastasia, cit., p. 270, p. 275.

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Inoltre, nei CDA sono garantiti anche servizi di sostegno socio- psicologico, con particolare attenzione alle categorie vulnerabili (quali i minori, le vittime di tortura, abusi o violenze, i portatori di handicap fisici o mentali…), e l’organizzazione del tempo libero tramite attività ludico-ricreative, sportive, culturali e quelle dedicate all’espletamento delle funzioni religiose82.

Successivamente, dopo questa prima fase di accoglienza, il migrante può essere indirizzato verso due vie alternative: o essere espulso e quindi entrare in un CIE per le pratiche ad esso associate, oppure essere destinatario delle misure di protezione e quindi poter usufruire dei centri CARA o della rete SPRAR (come vedremo in seguito).

LA PROCEDURA DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE Passata la prima fase di accoglienza temporanea, può rendersi

necessario il trasferimento dello straniero presso altre strutture. In particolare, qualora non sussistano le condizioni per presentare

domanda di protezione, lo straniero può essere trasferito in un CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione), struttura adibita al trattenimento dell’immigrato irregolare per il tempo necessario alle forze dell’ordine affinché provvedano ad ulteriori accertamenti della sua identità, per una eventuale espulsione.

Nello specifico, lo straniero irregolare può essere trattenuto in questi centri se:

non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione (art. 13, co. 4 d.lgs. 286/1998, di seguito TU) o il respingimento (art. 10, co. 2 TU) a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento (specifica aggiunta con la legge n. 129/2001);

sia necessario: a) prestare soccorso allo straniero; b) accertarne l’identità e la nazionalità; c) acquisire i documenti di viaggio o un mezzo di trasporto (art. 14 co. 1 TU).

A queste ipotesi si aggiungono:

82 “Specifiche tecniche integrative del capitolato, relative all’appalto di servizi e forniture per la gestione dei centri di accoglienza” e “specifiche tecniche integrative del capitolato, relative all’appalto di servizi e forniture per la gestione dei centri di primo soccorso e accoglienza”.

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il trattenimento in caso di straniero sottoposto a procedimento penale e non in custodia cautelare, nell’attesa che l’autorità giudiziaria emetta il nulla osta, necessario per procedere all’espulsione (art. 13 co. 3 TU);

il trattenimento nelle more del giudizio di convalida del provvedimento di accompagnamento coattivo, qualora non sia possibile decidere nel luogo in cui è stato adottato il provvedimento prima del trasferimento in un CIE (art. 13 co. 5 bis)83.

Infine è disposto il trattenimento in un CIE per lo straniero che: si trova nelle condizioni previste dall’articolo 1, paragrafo F

della Convenzione di Ginevra84; è stato condannato in Italia per uno dei delitti per cui il codice di

procedura penale prevede l’arresto obbligatorio in flagranza, ovvero per reati inerenti agli stupefacenti, alla libertà sessuale, al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati, o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite;

è destinatario di un provvedimento di espulsione85. Il Decreto-Legge n. 89 del 23 giugno 2011, convertito in legge n.

129/2011, proroga il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri dai 180 giorni (previsti dalla legge n. 94/2009) a 18 mesi complessivi86.

La nascita dei CIE, così denominati con decreto legge 23 maggio 2008 n. 92 risale al 1998 con la legge n. 40/98 (detta “Turco-Napolitano”), con la quali si è affermata giuridicamente la possibilità di trattenere i destinatari di provvedimenti di espulsione in apposite strutture definite Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (CPTA).

83 L. Manconi e S. Anastasia, cit., p. 281. 84 All’art. 1, §F della Convenzione di Ginevra del 1951 si stabilisce che: “Le disposizioni della presente Convenzione non sono applicabili alle persone, di cui vi sia serio motivo di sospettare che: a) hanno commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, nel senso degli strumenti internazionali contenenti disposizioni relative a siffatti crimini; b) hanno commesso un crimine grave di diritto comune fuori del paese ospitante prima di essere ammesso come rifugiati; c) si sono rese colpevoli di atti contrari agli scopi e ai principi delle Nazioni Unite. 85 D.lgs. n. 25/2008, art. 21, comma 1. 86 http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/immigrazio ne/sottotema006.html

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L’origine dei centri detentivi è dovuta principalmente a ragioni di politica internazionale e comunitaria, rendendosi necessaria l’istituzione di severi controlli alle frontiere per poter salvaguardare il principio di libera circolazione delle persone all’interno della comunità europea e per poter migliorare il sistema delle espulsioni degli immigrati irregolari87.

In queste strutture vengono forniti gli stessi servizi previsti per i CDA, con la differenza che sono comunque tutti proiettati a fornire informazioni e supporto in vista del rimpatrio.

I casi di trattenimento presso i Centri di Identificazione ed Espulsione sono, quindi, disciplinati da normative nazionali, come i decreti sopradetti; ma è comunque possibile ritrovare dei riferimenti impliciti ai Centri governativi anche nelle direttive guida che il Consiglio fornisce agli stati membri88.

LA PROCEDURA PROTEZIONE Come visto precedentemente, la strada che si apre ad uno straniero

giunto in Italia è duplice: da una parte, può non proseguire il suo cammino ed essere destinatario di un provvedimento di espulsione e rientrare, quindi, nei casi previsti per l’accoglienza in un CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione); dall’altra, può invece attivarsi il meccanismo di accoglienza che sfocerà poi nella protezione e quindi nell’integrazione col territorio.

Più avanti, vedremo come la protezione offerta si possa suddividere in tre tipologie (protezione internazionale, protezione temporanea e protezione umanitaria). Al momento, però, è opportuno vedere i centri e le strutture, diversi dai CIE e che rappresentano questa seconda “via”, per l’accoglienza di un immigrato (il quale abbia già presentato domanda di protezione oppure non ancora) che non abbia i mezzi per poter provvedere a se stesso e/o alla sua famiglia.

In particolare, si tratta dei CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo), centri governativi disciplinati da specifiche leggi, e dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).

87 L. Manconi e S. Anastasia, cit., p. 270. 88 Ad esempio, nella direttiva 2003/9/CE, capo II, sulle condizioni materiali di accoglienza.

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L’essere accolti in un centro CARA non preclude la possibilità di entrare a far parte di uno dei progetti attivati dalla rete SPRAR; è infatti possibile presentare la domanda di accoglienza anche all’interno di un CARA.

Come detto, quindi, se gli stranieri arrivati sul territorio italiano non presentano le condizioni sopradette affinché vengano destinati in uno dei Centri di Identificazione ed Espulsione, questi possono comunque rientrare nelle specifiche riguardanti i Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo.

Possono verificarsi, infatti, le condizioni previste dell’art. 20 del decreto legislativo n. 25/2008 che fanno scattare la possibilità di essere accolti in un CARA; nello specifico questo succede quando:

è necessario verificare o determinare la sua nazionalità o identità, ove lo stesso non sia in possesso dei documenti di viaggio o di identità, ovvero al suo arrivo nel territorio dello Stato abbia presentato documenti risultati falsi o contraffatti;

ha presentato la domanda dopo essere stato fermato per aver eluso o tentato di eludere il controllo di frontiera o subito dopo;

ha presentato la domanda dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare.

In tal caso, il questore rilascia un attestato nominativo che certifica la qualità di richiedente.

Al terzo comma dello stesso articolo si stabilisce, inoltre, il tempo di permanenza nel centro, non superiore a 20 giorni nell’ipotesi prevista al punto a) oppure non superiore ai 35 giorni negli altri casi89.

I CARA, però, hanno una storia precedente. Derivano infatti dai CDI, Centri Di Identificazione, istituiti nel 2002 dalla legge n. 189.

All’art. 32 (art. 1-bis, comma 1, 2 e 3) si vede infatti come i casi previsti per l’accoglienza nei CARA e istituiti con il d.lgs. 25/2008 siano stati ripresi dalla precedente normativa in materia di trattenimento e accoglienza, la quale stabiliva che, visti i casi di trattenimento, questo venga “attuato nei centri di identificazione secondo le norme di apposito regolamento. Il medesimo regolamento determina il numero, le caratteristiche e le modalità di gestione di tali strutture e tiene conto degli atti adottati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR), dal Consiglio d’Europa e dall’Unione europea. Nei

89 D.lgs. n. 25/2008.

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centri di identificazione sarà comunque consentito l’accesso ai rappresentanti dell’ACNUR. L’accesso sarà altresì consentito agli avvocati e agli organismi ed enti di tutela dei rifugiati con esperienza consolidata nel settore, autorizzati dal Ministero dell’interno”90.

Il territorio italiano dispone di 8 Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo operativi, dislocati a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Crotone, Foggia, Gorizia, Roma e Trapani, ma qualora ne ravvisi la necessità il Ministero dell’Interno può predisporre l’apertura, anche temporanea, di nuovi centri91.

Il trattenimento previsto all’interno di queste strutture non deve, tuttavia, risultare come una reclusione senza possibilità di uscita. Al suo interno sono previste regole comportamentali e di gestione a cui ogni beneficiario deve fare riferimento, ma devono comunque essere garantiti i diritti di ogni persona e la possibilità ad ognuno di non sentirsi imprigionato.

A tale scopo, infatti, viene prevista la facoltà di uscire dal centro nelle ore diurne e anche la possibilità di chiedere al prefetto un permesso temporaneo di allontanamento per un periodo di tempo diverso o superiore da quello di uscita, per motivi personali o attinenti all’esame della domanda92.

Allo stesso modo, ogni struttura stipula delle convenzioni con enti pubblici o privati e si dota di personale qualificato affinché si predispongano servizi adeguati alle esigenze primarie e contestuali degli ospiti del centro, rispondenti alla specifica situazione in cui si trovano.

Per fare ciò, è previsto un protocollo nel quale sono descritti gli standard dell’accoglienza tramite un capitolato di appalto dei servizi e delle forniture per la gestione dei Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo.

I centri per richiedenti asilo, come i CDA e i CIE, sono pianificati dalla direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo. Come detto, sono gestiti a cura delle Prefetture tramite convenzioni con enti, associazioni o cooperative aggiudicatarie di appalti del servizio. Le prestazioni e i servizi assicurati dalle convenzioni sono:

90 Legge 30 Luglio 2002 n. 189, Art. 32. 91 http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/immigrazio ne/sottotema006.html e d.P.R. 303/2004 92 D.lgs. 25/2008, art. 20, co. 4.

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servizio di assistenza generica alla persona, consistente in: mediazione linguistica culturale, per coprire le principali lingue ed affiancare gli operatori del centro in modo da facilitare l’operato e da istituire relazioni con gli ospiti; informazione sulla normativa e sui diritti-doveri e sulle regole del centro; servizi di barberia e lavanderia; sostegno socio-psicologico, con particolare riguardo alle categorie vulnerabili, stabilendo anche, se necessario, un coordinamento con i servizi specialistici offerti sul territorio; organizzazione del tempo libero attraverso attività ludico ricreative e quelle dedicate all’espletamento delle funzioni religiose; insegnamento della lingua italiana; orientamento al territorio e informazione sulle possibilità di entrare a far parte della rete SPRAR; informazione sui programmi di rimpatrio volontario assistito

servizio di assistenza sanitaria servizio di pulizia e igiene ambientale (pulizia dei locali,

disinfestazione, raccolta e smaltimento dei rifiuti speciali, manutenzione aree verdi)

kit forniture per gli ospiti comprendente vestiario, oggetti per l’igiene, un borsone da viaggio e lenzuola, federe e coperte

fornitura di pasti, effettuata in proprio o tramite catering o tramite terzi subappaltanti nei locali adibiti ad uso mensa93.

Differentemente dal sistema SPRAR, che a breve vedremo, il capitolato dei CARA mostra come l’attenzione sia rivolta ad un rapporto tra ente gestore e beneficiario dell’accoglienza del tipo assistenziale, non basata sulla reciprocità, individuando nell’ospite solo un tipo particolare di utente.

Pur garantendo la fornitura degli stessi servizi previsti nello SPRAR, nei CARA il percorso di accoglienza non è strutturato e creato intorno alla figura del beneficiario; non si persegue lo scopo primario di attivare un processo di empowerment individuale per far acquisire all’ospite le capacità per potersi ricreare la propria vita.

Inoltre, non si ritrova alcuna parte dedicata alle caratteristiche e agli strumenti che un operatore “ideale” dovrebbe possedere e saper usare nella relazione col beneficiario, affinché sia una relazione di fiducia efficace.

93 “Specifiche tecniche integrative del capitolato, relative all’appalto di servizi e forniture per la gestione dei centri di accoglienza per richiedenti asilo”.

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Solamente attraverso il decreto presidenziale n. 303/2004 si possono recepire delle linee guida rivolte all’individuazione del direttore del centro e di tutto il personale che si necessita avere al suo interno. Queste, però, risultano comunque generali ed esigue a confronto dell’attenzione dedicatavi dal sistema SPRAR94.

Vediamo adesso in che cosa consista tale sistema di accoglienza. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR),

istituito dalla legge n. 189/2002 e affidato dal Ministero dell’Interno all’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) mediante convenzione,

«è costituito dalla rete territoriale degli enti locali che accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (FNPSA) per realizzare – con il fondamentale supporto delle realtà del terzo settore – progetti di accoglienza integrata destinati a richiedenti protezione internazionale, rifugiati, titolari di protezione sussidiaria e umanitaria»95. L’articolo 32 della legge 189/2002 (art. 1-sexies, comma 1) stabilisce,

infatti, che “gli enti locali che prestano servizi finalizzati all’accoglienza dei richiedenti asilo e alla tutela dei rifugiati e degli stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria possono accogliere nell’ambito dei servizi medesimi il richiedente asilo privo di mezzi di sussistenza” e al comma 4 che “al fine di razionalizzare e ottimizzare il sistema di protezione del richiedente asilo, del rifugiato e dello straniero con permesso umanitario, e di facilitare il coordinamento, a livello nazionale, dei servizi di accoglienza territoriali, il Ministero dell’interno attiva, sentiti l’Associazione nazionale dei Comuni italiani (ANCI) e l’ACNUR, un servizio centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico agli enti locali che prestano i servizi di accoglienza. Il servizio centrale è affidato, con apposita convenzione, all’ANCI”.

Si definiscono così i compiti del Servizio Centrale il quale provvede a creare una banca dati degli interventi realizzati, a fornire informazioni

94 D.P.R. n. 303/2004, art. 7, co. 2. 95 SPRAR, Rapporto annuale per il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati 2011/2012, Roma, 2012.

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sugli stessi e assistenza tecnica agli enti locali, e infine a promuovere e attuare programmi di rimpatrio attraverso organismi umanitari96.

Complessivamente i 151 progetti finanziati dal FNPSA, 111 per categorie ordinarie e 40 per categorie vulnerabili (quali disabili anche temporanei, persone che richiedono assistenza domiciliare, sanitaria specialistica e prolungata, vittime di tortura e/o di violenza, minori non accompagnati, anziani, donne sole in stato di gravidanza, nuclei monoparentali, persone con disagio mentale), hanno reso disponibili 3000 posti in accoglienza, di cui 2500 destinati alle categorie ordinarie e 500 alle categorie vulnerabili (di questi, 50 hanno servizi per la presa in carico di persone con disagio mentale).

A tali posti di accoglienza vanno aggiunti ulteriori 816 posti attivati dalla rete dello SPRAR per le misure di accoglienza straordinaria coordinate dal Dipartimento nazionale di Protezione Civile e 163 posti in strutture implementate grazie alle risorse Otto per Mille, nonché 38 progetti straordinari della Protezione civile.

La rete dello SPRAR nel suo complesso contempla, per il biennio 2011/2012, 3.979 posti di accoglienza, e da dichiarazioni recenti si è espressa l’intenzione di estenderli fino a 500097.

Il richiedente protezione internazionale può usufruire di tali progetti qualora non abbia i mezzi sufficienti per poter provvedere a se stesso e alla sua famiglia. In questo caso, occorre che inoltri richiesta di accoglienza alla Questura (o all’ufficio di polizia di frontiera) nel momento stesso della presentazione della domanda di protezione, la quale provvederà ad inviare la richiesta alla Prefettura che deciderà, una volta accertata l’insufficienza dei mezzi di sostentamento, in quale progetto territoriale inserire il richiedente.

Il progetto SPRAR non è un semplice progetto di accoglienza, ma prevede un’accoglienza integrata dove i richiedenti protezione internazionale non sono semplici riceventi di un’assistenza e tutela, ma partecipano attivamente con gli operatori per ridefinire il loro progetto di vita ed acquisire, così, gli strumenti per diventare autonomi.

I servizi garantiti nei progetti territoriali dello SPRAR sono: assistenza sanitaria assistenza sociale

96 Legge 30 Luglio 2002 n. 189, Art. 32. 97 SPRAR, cit.

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attività multiculturali inserimento scolastico dei minori mediazione linguistica e interculturale orientamento e informazione legale servizi per l’alloggio servizi per l’inserimento lavorativo servizi per la formazione Finalità del progetto è, quindi, l’empowerment, “inteso come un

processo individuale e organizzato, attraverso il quale le singole persone possono (ri)costruire le proprie capacità di scelta e di progettazione e (ri)acquistare la percezione del proprio valore, delle proprie potenzialità e opportunità”98.

Finalità perseguibile tramite l’apporto delle competenze degli operatori che lavorano nel progetto e che accompagnano gli ospiti nel loro percorso, aiutandoli a risolvere le questioni della quotidianità e fornendo loro un ponte di collegamento con il territorio e la comunità locale.

L’iter per l’accesso nello SPRAR di richiedenti, rifugiati, titolari di protezione sussidiaria e di protezione umanitaria ha inizio con la segnalazione dei singoli casi alla Banca dati del Servizio Centrale. Questa segnalazione oltre che dalle Questure (solo per i titolari di protezione già riconosciuta) e dalle Prefetture, può essere fatta anche da enti locali appartenenti alla rete dello SPRAR, enti gestori di progetti territoriali dello SPRAR, enti di tutela, associazioni locali e/o nazionali, centri di identificazione o centri di accoglienza per richiedenti asilo.

In base alla disponibilità di posti e delle caratteristiche delle persone si valutano le richieste di accoglienza. A quelle però fatte dalle Prefetture viene riconosciuto un carattere di priorità e i tempi di risposta sono di massimo due giorni.

Per quanto riguarda i tempi di permanenza all’interno del Sistema di Protezione, si può stabilire che sono:

pari alla durata della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, nel caso di richiedenti;

sei mesi nel caso di rifugiati, titolari di protezione sussidiaria e di protezione umanitaria; 98 SPRAR, Manuale operativo. Per l’attivazione e la gestione di servizi di accoglienza e integrazione per richiedenti e titolari di protezione internazionale, Roma, 2012, p. 4.

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sei mesi dalla data della notifica del provvedimento della Commissione territoriale che riconosce la protezione internazionale, qualora il beneficiario sia entrato nello SPRAR da richiedente asilo.

Negli ultimi due casi è possibile procedere a una richiesta di proroga, sempre possibile invece nel caso di persone appartenenti alle categorie vulnerabili99.

Nell’organizzare un progetto territoriale, si dovrà disporre di strutture idonee ad ospitare le persone cercando di rispettare le loro esigenze. Si possono individuare quindi differenti tipologie di strutture:

appartamenti (generalmente destinati a famiglie o comunque laddove vi sono minori)

centri collettivi di piccole dimensioni (circa 15 persone) centri collettivi di medie dimensioni (circa 30 persone) centri collettivi di grandi dimensioni (oltre le 30 persone) All’interno di ogni struttura sono garantiti i servizi di prima necessità,

come ad esempio il servizio mensa (usufruibile anche all’esterno delle strutture) e si dotano gli ospiti anche di indumenti, biancheria e prodotti per l’igiene personale. In alternativa, si possono distribuire buoni pasto convenzionati con mense oppure erogare del denaro ai beneficiari in modo che possano provvedere all’acquisto dei beni alimentari. Allo stesso modo si può dotare ogni beneficiario di un pocket money, un contributo in denaro da destinare alle piccole spese personali, ulteriori rispetto ai beni e ai servizi garantiti dal progetto di accoglienza.

Dal momento dell’ingresso in accoglienza il nuovo beneficiario dovrà assolvere i primi adempimenti. Dovrà tenere alla presenza di un mediatore culturale un colloquio di ingresso tramite il quale gli verranno fornite tutte le informazioni riguardanti il funzionamento del centro, i comportamenti da tenere, le regole da rispettare e gli verrà presentato il contratto di accoglienza tramite il quale si stabiliscono i rapporti tra l’ente locale (e con esso l’ente gestore) e il beneficiario. Una volta sottoscritto il contratto, il beneficiario sarà di diritto inserito nel centro di accoglienza. Successivamente verranno espletate le pratiche burocratiche più urgenti, quali la comunicazione alla Questura e alla Prefettura ela richiesta del codice fiscale (per poter così effettuare anche l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale valida per tutta la durata del permesso di soggiorno).

99 Ibid., p. 8.

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Dopo qualche giorno dal colloquio di ingresso, al beneficiario verrà richiesto un colloquio di orientamento al fine di preparare un fascicolo personale, informare circa i diritti e doveri dei richiedenti e titolari di protezione internazionale e avviare la costruzione di un progetto personalizzato, ovvero un piano individuale di intervento costruito, con l’aiuto dell’operatore, dal beneficiario stesso e in cui saranno stabiliti gli obiettivi da raggiungere, le attività, i contenuti e le modalità di intervento100.

La protezione temporanea Dal momento della permanenza sul territorio italiano il profugo, non

destinatario di un provvedimento di esclusione, può ottenere una delle protezioni previste dall’ordinamento europeo e, al contempo, nazionale.

La prima che prenderemo in esame è la cosiddetta protezione temporanea prevista nei casi di afflusso massiccio di sfollati. Le altre due, la protezione internazionale e la protezione umanitaria, verranno trattate successivamente.

La direttiva europea n.2001/55 del 20 Luglio 2001, definita direttiva “sfollati”, ha lo scopo di istituire norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono ritornare nel paese di origine e di promuovere l’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi.

La tutela immediata e temporanea viene così attuata secondo norma in caso di afflusso massiccio di sfollati. In particolare quando vi sia il rischio che il sistema di asilo non possa far fronte a tale afflusso senza effetti pregiudizievoli per il suo corretto funzionamento e per gli interessi delle persone coinvolte101.

La durata della protezione temporanea è pari ad un anno, prorogabile di sei mesi in sei mesi per un periodo massimo di un anno. Le persone che godono della protezione temporanea, per la durata della stessa, vengono dotate di titoli di soggiorno e possono esercitare qualsiasi attività lavorativa e partecipare ad attività formative.

Inoltre gli Stati membri provvedono affinché sia dato un adeguato alloggio o comunque i mezzi necessari per ottenere un’abitazione e, 100 Ibid. 101 Direttiva 2001/55/CE, art. 2, lettera a).

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laddove le persone non dispongano di risorse sufficienti, sia dato loro aiuto nei termini di assistenza sociale, contributi al sostentamento e cure mediche102.

Nel caso di famiglie già costituite nel paese d’origine prevale la logica del ricongiungimento.

Le persone che godono della protezione temporanea possono presentare in qualsiasi momento una domanda d’asilo.

Terminata la protezione temporanea (o anche in corso di questa) gli Stati membri adottano tutte le procedure affinché si possa consentire il rimpatrio volontario (o forzato, nel solo caso di cessazione della protezione).

Gli attori coinvolti, che giocano un ruolo centrale nel far funzionare l’applicazione pratica della norma sono il Consiglio, la Commissione, nonché naturalmente gli Stati membri coinvolti.

L’esistenza di un afflusso massiccio di sfollati viene accertata tramite decisione del Consiglio su proposta della Commissione, la quale esamina le richieste degli Stati membri.

La Commissione presenta, quindi, una proposta che contenga almeno la descrizione dei gruppi specifici di persone cui si applicherà la protezione temporanea, la data di decorrenza della stessa, una stima della portata dei movimenti degli sfollati, e sulla quale poi il Consiglio deciderà di applicare la protezione temporanea103.

Nel contesto nazionale italiano, tale direttiva viene recepita tramite il decreto legislativo n. 85 del 7 aprile 2003.

Suddetto decreto stabilisce, infatti, le misure di protezione temporanea da adottare qualora si presentassero casi di afflusso massiccio di sfollati nel territorio italiano.

Il decreto di recepimento adotta, in ogni punto, le disposizioni della direttiva “afflussi” confermando il tempo di durata della protezione e la possibilità eventuale di una proroga.

Inoltre, lo stato è tenuto a comunicare al Consiglio la capacità ricettiva del proprio territorio, le caratteristiche dei gruppi di sfollati giunti ed altre informazioni sulla situazione in corso per poter così avviare un percorso di accoglienza.

La direttiva “afflussi”, come visto, fornisce dei criteri rivolti a tutti gli Stati membri della Comunità affinché questi abbiano una base

102 Ibid., art. 4, 8, 12, 13. 103 Ibid., art. 5.

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comune in materia di accoglienza che li guidi nel caso si presentassero le condizioni sopradette.

Detto questo si vede, perciò, come il decreto legislativo italiano riassuma e faccia proprie tali guide fornite dal Consiglio, riproponendo nella sua trattazione gli articoli più importanti ai fini dell’adozione delle misure di accoglienza e significative di tutto il percorso di questa, dall’entrata nel territorio italiano del profugo fino al caso della sua possibile esclusione o, all’opposto, al buon esito della procedura.

La protezione internazionale Come detto precedentemente, la direttiva “afflussi” si applica nel

solo caso in cui si presenti una situazione di afflusso massiccio di sfollati (ricordando che con tale termine si intende l’arrivo nella Comunità di un numero considerevole di sfollati proveniente da una determinata zona geografica o paese) a cui viene concessa la protezione temporanea.

Altra possibile forma di protezione, che si concede in condizioni diverse dalla precedente, è la protezione internazionale, disciplinata dalle direttive europee 2003/9 (direttiva “accoglienza”), 2004/83 (direttiva “qualifiche”) e 2005/85 (direttiva “procedure”) e dai relativi decreti legislativi italiani n. 140/2005 (recepimento direttiva “accoglienza”), n. 251/2007 (recepimento direttiva “qualifiche”) e n. 25/2008 (recepimento direttiva “procedure”).

Il percorso del richiedente protezione si avvia al momento di entrata nel territorio dello Stato membro e in particolare nel momento in cui presenta la domanda di protezione internazionale, unita ad una documentazione del richiedente, presso l’ufficio di polizia di frontiera o presso l’ufficio della Questura territorialmente competente.

Dal momento in cui ha presentato richiesta di asilo, può disporre dell’accesso alle misure di accoglienza, qualora i mezzi di sussistenza siano insufficienti a garantire una qualità di vita adeguata per la salute e per il sostentamento proprio e dei propri familiari104.

Questo particolare compito di valutazione è svolto dalla Prefettura, la quale si occupa anche di accertarsi della disponibilità dei posti di

104 D.lgs. n. 140/2005, art. 5, e art. 6.

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accoglienza all’interno delle strutture (alloggi, case private, centri, alberghi… e nella rete SPRAR) e la successiva comunica del trasferimento della persona nei suddetti centri alla Questura e alla Commissione territoriale.

Qualora non vi fosse posto all’interno del sistema di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati, l’accoglienza è disposta nei centri di accoglienza fintanto che non si trovi una sistemazione adeguata. Se ciò non avviene, la Prefettura eroga un contributo, limitato al tempo strettamente necessario ad acquisire la disponibilità presso un centro di accoglienza.

Nel caso in cui, come sopra detto, il richiedente abbia accesso al Sistema di Protezione, il questore rilascia un attestato nominativo per il trasferimento nella struttura di interesse, mentre sarà poi compito del questore del territorio ospitante la struttura rilasciare il permesso di soggiorno per richiesta di protezione internazionale, con validità temporanea e possibilità di rinnovo.

Se il richiedente protezione, invece, rientra nei casi previsti dall’art. 20 del d.lgs. 25/2008 per l’accoglienza presso un CARA con un tempo di permanenza dai 20 ai 35 giorni, il questore rilascia un attestato nominativo che certifica la qualità di richiedente.

Qualora non vi siano i presupposti per un inserimento nelle strutture governative di accoglienza, il questore rilascia un permesso di soggiorno valido per tre mesi e rinnovabile fino alla definizione della procedura di asilo.

I permessi di soggiorno temporanei fanno sì che il richiedente, nel tempo occorrente alla definizione della domanda, possa spostarsi sul territorio per intrattenere relazioni con i soggetti e gli enti dello stesso, ed avviare così una iniziale integrazione, utile al miglioramento della sua condizione di attesa.

Le Commissioni territoriali sono incaricate dell’esame delle domande di protezione internazionale e stabilire così la concessione della suddetta oppure l’inammissibilità o l’esclusione dallo status di rifugiato (o di protezione sussidiaria).

Per prendere tale decisione, le Commissioni faranno riferimento alle norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato (o di protezione sussidiaria)105.

Nella specie, si definisce rifugiato un 105 Direttiva 2004/83/CE.

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«cttadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese, oppure apolide che si trova fuori dal paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno»

mentre colui che è ammissibile alla protezione sussidiaria è un

«cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno»106. In base a queste caratteristiche, verificata la presenza dei requisiti, gli

Stati possono riconoscere lo status di protezione internazionale o quello di protezione sussidiaria, nonché possono procedere alla revoca o al rinnovo di tali status.

La Commissione territoriale provvede al colloquio con il richiedente entro trenta giorni dal ricevimento della domanda e decide entro i tre giorni feriali successivi107. Nel caso in cui non si rispettino tali tempistiche, il richiedente ne verrà informato e, trascorsi sei mesi dalla presentazione della domanda, potrà esercitare un’attività lavorativa108.

Inoltre, si stabilisce che il richiedente asilo stabilisca una residenza e un alloggio a cui le autorità competenti facciano riferimento per l’espletamento della domanda. In particolare, nel caso in cui l’alloggio sia fornito in natura, deve essere concesso in una delle seguenti forme:

106 Direttiva 2004/83/CE, art. 2. All’art 15 si specifica che “sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione; o b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; o c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. 107 D.lgs. n. 25/2008. 108 D.lgs. n. 140/2005.

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in locali utilizzati per alloggiare i richiedenti asilo durante l’esame della domanda d’asilo presentata alla frontiera

in centri di accoglienza che garantiscono una qualità di vita adeguata

in case private, appartamenti, alberghi o altre strutture atte a garantire un alloggio per i richiedenti

Gli Stati membri possono stabilire ulteriori condizioni materiali di accoglienza, diverse da quelle previste, sempre rispettando la soddisfazione delle esigenze primarie.

Una volta concessa la protezione internazionale, la Questura provvederà a rilasciare un permesso di soggiorno per rifugiati (ai richiedenti lo status di rifugiato) con validità quinquennale e rinnovabile, mentre ai titolari dello status di protezione sussidiaria sarà rilasciato un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria con validità triennale e rinnovabile previa verifica delle condizioni che hanno determinato tale protezione109.

La protezione umanitaria Ai profughi arrivati sul territorio nazionale, come visto, le strade di

avvio ad un percorso di accoglienza si situano tra la possibilità di presentare domanda di protezione internazionale e poter entrare a far parte di uno dei programmi e dei centri previsti, e quella opposta di respingimento della domanda e conseguente fase di espulsione o di trattenimento all’interno di uno dei CIE.

In realtà, la normativa nazionale prevede altre forme di riconoscimento di protezione, diverse da quella operante per l’attribuzione dello status di protezione internazionale.

La protezione riconosciuta per motivi umanitari rappresenta un’ulteriore possibilità di ottenere un permesso di soggiorno, laddove non sia stato ottenuto in altro modo, in quanto non rispondente ai casi previsti per il riconoscimento della protezione internazionale.

109 D.lgs. n. 251/2007, attuazione della direttiva 2004/83/CE. La validità dei permessi di soggiorno si è basata sui criteri minimi stabiliti dalla direttiva, rispettivamente almeno 3 anni e, non inferiore ad un anno.

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La protezione umanitaria é una forma di protezione diversa rispetto allo status di rifugiato e allo status di protezione sussidiaria, ed è disciplinata dal Testo Unico sull’immigrazione e richiamata dal cosiddetto Decreto procedure ai fini della sua applicazione nell’ambito della procedura di asilo.

All’art. 5, comma 6 del Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, si afferma che:

«Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste dal regolamento di attuazione»110. Tale articolo viene richiamato ed è la condizione di validità di quanto

stabilito nel decreto “procedure” (d.lgs. n. 25/2008): «Nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno» ai sensi del citato articolo del T.U.111 E ancora:

«In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione»112. Nella disposizione normativa si fa riferimento, quindi, al fatto che

debbano presentarsi seri motivi affinché possa scattare la protezione umanitaria. Non vi è, però, alcuna specificazione riguardante la

110 T.U. n. 286/1998, art. 5, co. 6. 111 D.lgs. n. 25/2008, art. 32, co.3. 112 T.U. n. 286/1998, art. 19, co.1.

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fattispecie e la natura di tali motivi, lasciando così ampio margine di interpretazione nella valutazione dei singoli casi.

Possono esservi, infatti, ricondotti i bisogni di protezione per soggetti in condizione di particolare vulnerabilità, ma anche un bisogno di protezione riconducibile a fattori interni di instabilità politica dei paesi di origine del profugo o comunque a fattori che potrebbero recare danno o pericolo alla persona (art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), qualora venisse rimpatriata.

Lo stesso testo unico disciplina anche i casi in cui si richiedano misure straordinarie di accoglienza per far fronte ad eventi eccezionali:

«con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato d’intesa con i Ministri degli affari esteri, dell’interno, per la solidarietà sociale, e con gli altri Ministri eventualmente interessati, sono stabilite, nei limiti delle risorse preordinate allo scopo nell’ambito del Fondo di cui all’articolo 45, le misure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga a disposizioni del presente testo unico, per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea»113.

L’USO DELLO STRUMENTO DELLA PROTEZIONE UMANITARIA

NEL CASO ITALIANO DELLA GESTIONE DELL’EMERGENZA

NORD AFRICA Nella gestione dell’emergenza NordAfrica, il succitato strumento

della protezione temporanea di cui all’art. 20, co.1 T.U. è stato utilizzato per gestire gli afflussi di cittadini dei paesi del Nord Africa arrivati a Lampedusa nel periodo 1° gennaio - mezzanotte del 5 aprile 2011114.

Il permesso di soggiorno rilasciato aveva la durata di sei mesi ed era escluso per coloro che fossero entrati nel territorio dello Stato prima o dopo quell’arco di tempo, o che fossero ritenuti pericolosi o denunciati per reati o che fossero destinatari di procedimenti di espulsione.

113 Ivi, art. 20, co.1. 114 Sulle ragioni in base alle quali il Governo italiano ha individuato lo strumento della protezione umanitaria come adeguato agli afflussi di Tunisini e sulle scelte organizzative che ne sono derivate si vedano i capitoli 1 e 3 del presente volume.

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Con tale decreto si prevedeva anche la consegna agli interessati di un documento di viaggio che, unitamente al permesso, consentiva la libera circolazione fino a 3 mesi nei paesi dell’Unione Europea (in base anche a quanto previsto dalla Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen)115.

Successivamente, con decreti 6 ottobre 2011 e 15 maggio 2012, la validità del permesso di soggiorno per motivi umanitari venne prorogata rispettivamente di sei mesi116.

Con la concessione di tali permessi di soggiorno si dava, così, la possibilità ai profughi di varcare il confine nazionale e dirigersi temporaneamente verso la vicina Francia. Non poche polemiche pertanto sono sorte dal momento in cui i cittadini del Nord Africa hanno ottenuto tali permessi.

Si sono verificate, infatti, molte partenze verso il confine francese, che nei giorni seguenti hanno portato ad inasprire i rapporti Italia-Francia.

L’Italia è stata accusata di aver concesso questa forma di protezione solamente per alleggerirsi dal peso degli ingenti arrivi di persone sul suo territorio, consapevole che molti avrebbero scelto di non rimanere avendo anche a disposizione contatti in Francia. Ed è stata anche accusata di non esercitare del tutto le dovute procedure di protezione.

La Francia, a sua volta, ha indurito le misure di controllo alla frontiera, giustificandolo col fatto che non sarebbe stato sufficiente il passaporto e il permesso di soggiorno, ma i migranti avrebbero dovuto dimostrare di possedere risorse finanziare, anche esigue se disponevano di un alloggio, e che non fossero in Francia da più di tre mesi117.

Nelle settimane successive al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri si sono verificati blocchi alla frontiera francese e blocchi alle partenze dei treni.

Inoltre, si sono tenute in varie città manifestazioni di solidarietà nei confronti dei cittadini nordafricani e a sostegno del diritto (sebbene

115 D.P.C.M. 5 Aprile 2011, art. 2 e 3. 116 D.P.C.M. 6 Ottobre 2011, art. 1 e D.P.C.M. 15 Maggio 2012, art. 1. 117 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/04/08/immi grati-scontro-italia-francia-parigi-non-subiremo-ondata.html?ref=search

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temporaneo) di libera circolazione di cui queste persone dovrebbero poter usufruire118.

L’Unione Europea, d’altra parte, non ha assunto una posizione chiara di schieramento.

La Commissaria europea Cecilia Malmstrom ha affermato che i permessi di soggiorno temporaneo a fini umanitari rilasciati dal Governo italiano non hanno causato problemi di incompatibilità con la normativa comunitaria; anzi, l’utilizzo di tali permessi, come affermato dall’art. 2, par. 3 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, è subordinato al rispetto delle norme comuni vigenti in materia di circolazione nel territorio europeo.

Per quanto riguarda, invece, la possibilità di applicare la direttiva 2001/55/CE, recante norme sulla concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati, la stessa Commissaria ha ritenuto che non ne sussistessero le condizioni, in quanto le persone irregolarmente giunte sul territorio italiano non sono altro che migranti economici, i quali non hanno alcun interesse a richiedere la protezione, potendo in tempi brevi ritornare in Tunisia119.

Al di là della controversie nate con la concessione della protezione umanitaria, con decreto del 28 febbraio 2013 il Presidente del Consiglio dei ministri disciplina la cessazione delle misure umanitarie di protezione temporanea concesse ai cittadini dei Paesi del Nord Africa affluiti nel territorio nazionale nel periodo 1° gennaio - 5 aprile 2011.

Si stabilisce infatti che: «i cittadini stranieri beneficiari delle misure di protezione umanitaria concesse ai sensi del citato decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 5 aprile 2011, possono presentare entro il 31 marzo 2013 domanda di rimpatrio assistito nel Paese di provenienza o di origine, con le modalità di cui all’art. 3. Entro il medesimo termine, gli stessi cittadini stranieri possono presentare domanda di conversione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari in permessi per lavoro, famiglia, studio e formazione professionale. La validità dei permessi di soggiorno in possesso dei beneficiari delle misure umanitarie di

118 http://genova.repubblica.it/cronaca/2011/04/17/news/immigrati_la_francia_ blocca_i_treni_presidiata_la_stazione_di_ventimiglia-15050623/?ref=search 119 http://www.repubblica.it/politica/2011/04/10/news/fini_sulla_questione_immi grati_dal_governo_solo_improvvisazioni-14751789/?ref=search

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protezione temporanea è automaticamente prorogata sino alla data di conclusione delle procedure di cui ai commi 2 e 3. Nei confronti di coloro che non abbiano presentato entro i termini su indicati domanda di rimpatrio assistito, ovvero richiesta di conversione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sono adottati, caso per caso, i provvedimenti di espulsione ed allontanamento dal territorio nazionale previsti dalla legislazione vigente. I cittadini stranieri di cui all’articolo 1, comma 2, possono essere ammessi a uno dei programmi di rimpatrio volontario e assistito promossi dal Ministero dell’interno attraverso il Fondo europeo per i rimpatri, nell’ambito della programmazione annuale 2011 e 2012»120. Gli stranieri a cui era stato concesso il permesso di soggiorno per

motivi umanitari hanno, quindi, la possibilità di convertire tale permesso in permesso di lavoro, famiglia, studio e formazione professionale, o presentare domanda di rimpatrio assistito. Nel caso in cui non si verifichino tali condizioni, incorreranno in procedimenti di espulsione e allontanamento dall’Italia, ad esclusione di alcune categorie richiamate dall’articolo 2 dello stesso decreto.

Il suddetto decreto richiama la Decisione n. 575/2007/CE che istituisce il Fondo europeo per i rimpatri per il periodo 2008-2013, nell’ambito del programma generale «Solidarietà e gestione dei flussi migratori».

Inoltre fa appello alle norme stabilite nella direttiva 2008/115/CE recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare e, come visto, prevede come unica alternativa a chi non riesce a convertire il permesso di soggiorno, il rimpatrio assistito, disciplinato dall’art. 14-ter del Testo Unico sull’immigrazione.

120 Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 28 Febbraio 2013, art.1 e 3.

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CAPITOLO 3

LE SCELTE DI PROGRAMMAZIONE DEL GOVERNO ITALIANO

Gaia Colombo

IL PROGRAMMA DI ACCOGLIENZA DEI RICHIEDENTI ASILO Come è già stato indicato nel primo capitolo di questa sezione, la

necessità di predisporre strutture adeguate per l’accoglienza dei richiedenti asilo nasce contemporaneamente e contestualmente alla dichiarazione dello stato di emergenza: il 12 febbraio 2011. È in questa data, infatti, che viene emanato un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per dichiarare lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini provenienti dai paesi del Nord Africa per effetto della situazione di instabilità politica che interessava alcuni stati nazionali nel Maghreb121.

Con la dichiarazione dello stato di emergenza, si scelse di equiparare l’arrivo di alcune migliaia di persone ad una calamità naturale da affrontare con “misure di carattere straordinario ed urgente”, mobilitando così la Protezione Civile per la gestione degli sbarchi a Lampedusa. Con una successiva ordinanza122, infatti, venne affidato a Franco Gabrielli, Capo Dipartimento della Protezione Civile, l’incarico di Commissario Delegato per la realizzazione di tutti gli interventi necessari a fronteggiare la situazione di emergenza.

Le strutture preposte all’accoglienza già in funzione furono ritenute insufficienti e di conseguenza si avviò la procedura per l’individuazione di altri centri. Sebbene sia lo stesso testo costituzionale ad affermare

121 DPCM del 12 febbraio 2011: “Dichiarazione dello stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa. 122 OPCM n. 3933 del 13 aprile 2011: “Ulteriori disposizioni per fronteggiare l’emergenza umanitaria legata all’afflusso di cittadini dal Nord Africa”.

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che «lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge», come enunciato al comma 3 dell’articolo 10, la nozione di asilo di stampo costituzionale non ha però ancora trovato piena attuazione in una normativa ordinaria. Tanto che, come sostiene Gianfranco Schiavone, membro del direttivo nazionale dell’associazione studi Giuridici sull’Immigrazione, «nonostante l’impianto maggiormente garantista della nuova normativa, permane una separazione nettissima tra due sistemi pubblici di accoglienza (sistema CARA a diretta gestione governativa e sistema SPRAR, gestito tramite gli enti locali) con profonde differenze in termini di efficacia della tutela del richiedente asilo» come ricordato nel capitolo precedente123.

In una condizione di grande incertezza politica ed operativa, gli enti locali italiani furono chiamati in quei giorni a partecipare all’accoglienza dei profughi. Da un lato, l’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) dichiarò da subito l’impegno a collaborare attivamente a livello interistituzionale per garantire una gestione dell’afflusso di migranti che non gravasse solo sull’isola di Lampedusa ma che prevedesse la distribuzione sull’intero territorio nazionale. Dall’altro, anche le Regioni italiane fecero sentire la loro voce124. Sin dai primi giorni della dichiarata emergenza, la Regione Toscana, ad esempio, sostenne l’adozione di un modello di accoglienza capillare e decentrata, in antitesi al modello centralizzato proposto dal Governo che prevedeva l’implementazione di grandi strutture dove concentrare migliaia di persone, favorendo così un sistema di gestione a livello locale potenzialmente in grado di promuovere un percorso d’insediamento e d’integrazione guidato dai singoli territori per i richiedenti asilo. L’accordo siglato il 30 marzo125 nella seduta straordinaria della Conferenza unificata tra Governo, Regioni, Province autonome ed Enti Locali, successivamente integrato e precisato il 6 aprile126, ha sancito l’avvio della sperimentazione di tipo decentrata, prevedendo un piano di equa ripartizione in ciascuna

123 G. Schiavone, Corsi di aggiornamento - rete Sprar 2008, Decreto Legislativo 28.01.2008 n. 25 (recepimento della Direttiva 2005/85/CE), www.serviziocentrale.it 124 Cfr. il paragrafo “L’ostacolo delle Regioni” nel primo capitolo. 125 http://www.regioni.it/it/show-immigrazione_accordo_governo-regioni-anci-upi _del_30_marzo_2011/news.php?id=48454 126 http://www.regioni.it/upload/060411_acc_immigraz.pdf

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Regione, ad esclusione dell’Abruzzo. Alcuni giorni dopo in attuazione di tale accordo, venne predisposto il “Piano per l’accoglienza dei migranti” che si proponeva di fornire risposte operative all’emergenza e di favorire un raccordo tra i diversi livelli amministrativi coinvolti ed il Sistema nazionale della Protezione Civile. La distribuzione sul territorio nazionale è stata calcolata sulla base della popolazione residente in ciascuna Regione, applicando i concetti di equa distribuzione e di modularità127, in modo da riadattarla in previsione di flussi di arrivi successivi, per una quota massima stimata di 50000 beneficiari.

A maggio 2012 risultavano inseriti nel programma di accoglienza 22908 persone, dato che si riduce ulteriormente a 16844 a dicembre 2012, come mostra la tabella.

Tab. 1. Accolti nel programma di accoglienza al maggio 2012.

Regione Totale capienza

prevista dal Piano

Presenze a maggio 2012

Presenze al 19/12/2012

Abruzzo 0 12 10

Basilicata 476 254 164

Calabria 1.643 2490 887

Campania 4.728 2477 2.075

Emilia Romagna 3.846 1649 1.509

Friuli Venezia Giulia 1.057 676 355

Lazio 4.892 3462 1.709

Liguria 1.367 549 488

Lombardia 8.557 3045 2.424

Marche 1.345 638 419

127 «La distribuzione sul territorio si basa su un approccio modulare che consiste nel suddividere il numero di migranti attesi in gruppi multipli di 10.000 unità da assegnare alle diverse regioni in base al fattore d, la cosiddetta quota parte per l’equa distribuzione sul territorio». (Documento n. 12/114/CR12/C3-C8 del 25 luglio 2012 di Anci, Upi e Conferenza delle Regioni e delle Province autonome).

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Regione Totale capienza prevista dal Piano

Presenze a maggio 2012

Presenze al 19/12/2012

Molise 260 145 122

P.A di Bolzano 430 147 121

P.A di Trento 452 213 161

Piemonte 3.819 1640 1.358

Puglia 3.300 3298 1.182

Sardegna 1350 491 371

Sicilia 4.093 5406 (compresi 1919 Mineo)

1.130

Toscana 3.221 1293 972

Umbria 787 389 298

Valle d’Aosta 108 27 20

Veneto 4.270 1550 1.069

Totale 50001 24445 16844

Fonte: ns elaborazione su dati della Protezione Civile e del Ministero dell’Interno

Per l’attuazione del suddetto Piano ci si avvalse del supporto di

soggetti attuatori regionali a cui furono demandati i compiti di coordinamento, garanzia dell’assistenza e raccordo con le amministrazioni, le strutture di accoglienza e la struttura commissariale. Confrontando le diverse Regioni e le Province autonome, si può osservare come nella maggioranza dei casi tali funzioni siano state attribuite ad un unico soggetto, individuato per lo più tra dirigenti regionali della Protezione Civile o assessori regionali competenti in un settore affine. Fa eccezione la Lombardia che demanda interamente l’attuazione del Piano di accoglienza alla Prefettura di Milano. Vi sono poi cinque Regioni che, distinguendo per funzioni, si servono ciascuna di due soggetti attuatori. É il caso di Basilicata, Friuli, Piemonte, Puglia e Toscana che demandano l’individuazione e la messa a disposizione

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delle strutture alla Protezione Civile o ad altri dirigenti competenti e la gestione delle stesse alle Prefetture.

Non è semplice ricostruire un quadro ufficiale di come la macchina organizzativa dell’emergenza si sia mossa a livello nazionale nel corso degli ultimi due anni. Ogni soggetto attuatore regionale si è mosso in maniera autonoma per l’individuazione delle strutture d’accoglienza, favorendo così la coesistenza di situazioni molto diverse l’una dall’altra, in termini di tipologia delle strutture convenzionate, di numero di posti disponibili, di servizi erogati e di localizzazione territoriale, come verrà mostrato in maniera più dettagliata nel prossimo capitolo in cui verranno passate in rassegna alcune esperienze specifiche su cui è stato possibile raccogliere informazioni e documenti. Tale disomogeneità è confermata, ad esempio, dal documento congiunto della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, dell’ANCI e dell’UPI del 25 luglio 2012 in cui si richiede l’immediata applicazione degli accordi del 30 marzo e del 6 aprile 2011. Vi si legge, infatti, che

«oltre ad associazioni ed enti con tradizionale esperienza di tutela e accoglienza, si convenzionano con i Soggetti attuatori regionali anche strutture alberghiere, agriturismi, bed and breakfast, etc. per un costo pro-capite giornaliero massimo di 46 euro (sono pagati dalla Protezione civile da 5 a 8 euro die per ogni posto di accoglienza convenzionato e non occupato). Molto spesso tali accordi sono stati presi senza una reale condivisione formale o informale con le amministrazioni locali e allo stesso tempo non hanno previsto procedure uniformi di monitoraggio creando evidenti difformità tra regioni e regioni in parte risolte grazie al lavoro di coordinamento e collaborazione del Tavolo nazionale»128.

Nel corso del primo anno era stato attivato il GMA (Gruppo di

Monitoraggio e Assistenza) istituito con decreto del 27 luglio 2011 dal Commissario delegato per l’emergenza, al fine di fornire supporto ai Soggetti attuatori e verificare il rispetto degli standard minimi di accoglienza e l’omogeneità di trattamento sul territorio nazionale. Il

128 Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome del 5 luglio 2012, n. 12/105/CR8/C8: “Richiesta di immediata applicazione degli accordi 30 marzo e 6 aprile 2011 sull’emergenza Nord Africa”.

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GMA, costituito da rappresentanti del Dipartimento della protezione civile, del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, della Conferenza delle Regioni, dell’UPI, dell’ANCI, dell’Unhcr, dell’Oim e di Save The Children per la tematica dei minorenni, ad agosto 2011 ha avviato le missioni di monitoraggio nelle Regioni. L’iter procedurale ha previsto fasi successive in cui sono stati realizzati incontri con i soggetti attuatori con l’intento di valutare il modello organizzativo adottato e verifiche a campione in alcune strutture del territorio interessato. Le attività del GMA si sono protratte però soltanto per un breve periodo, mentre lo stato d’emergenza è rimasto in vigore fino a febbraio 2013. A tal proposito, Laurens Jolles, delegato per il Sud Europa dell’Unhcr, nel corso della seduta del 24 ottobre 2012 della Commissione straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani del Senato ha espresso il proprio rammarico per il fatto che il Gruppo di monitoraggio ed assistenza abbia smesso di funzionare dopo solo tre mesi di attività, evidenziando la sussistenza di una forte varietà dei modelli organizzativi e gestionali adottati su base regionale: «da una parte si è provveduto molto velocemente a trovare delle strutture che potessero accogliere un gran numero di persone, ma dall’altra, dopo il periodo di emergenza non vi è stato il ritorno ad un sistema ordinario in grado, attraverso un monitoraggio più sviluppato, di individuare quali strutture fossero adeguate e quali no»129.

CRONOLOGIA DELLE FASI DI IMPLEMENTAZIONE DEL PROGRAMMA

Accennando brevemente alle varie fasi del programma

d’accoglienza, occorre partire dal considerare che tale impianto è stato progettato per il superamento di una situazione emergenziale, che per definizione avrebbe dovuto essere breve e circoscritta, e che, invece, si è protratta per quasi due anni. Ovviamente nel corso di questo lungo periodo di attività, il sistema di gestione dell’Emergenza Nord Africa ha

129 Dichiarazione di Laurens Jolles alla 132a seduta di mercoledì 24 ottobre 2012 della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica: “Indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani, vigenti in Italia e nella realtà internazionale”. Resoconto stenografico n. 122.

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subito modifiche ed aggiustamenti in corso d’opera, come s’addice ad un sistema di nuova sperimentazione.

La prima fase dell’accoglienza si avvia con la dichiarazione da parte del Presidente del Consiglio dello stato d’emergenza umanitaria a partire dal 12 febbraio 2011 fino al 31 dicembre 2011.

Porta, invece, la data del 5 aprile 2011 il decreto che definisce le misure umanitarie di protezione temporanea per i cittadini dei paesi del Nord Africa arrivati in Italia dal primo gennaio alla mezzanotte dello stesso 5 aprile. Sono quelle ore a cavallo tra il 5 e 6 aprile a segnare uno degli spartiacque più significativi dell’intera parabola del sistema d’accoglienza Ena. Con l’unica discriminante del momento di arrivo130, a chi giunse in Italia prima di quella data fu rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari della durata di sei mesi, riconoscendogli il diritto di muoversi liberamente sul territorio nazionale ed europeo (art. 2 comma 3). Chi arrivò dopo fu, invece, inserito nel sistema Ena in cui iniziò la lunga trafila per la richiesta d’asilo.

Dopo un paio di giorni, il 7 aprile venne dichiarato lo stato d’emergenza umanitaria nel territorio del Nord Africa con il proposito esplicito di «consentire un efficace contrasto all’eccezionale afflusso di cittadini extracomunitari nel territorio nazionale», che nell’agosto dello stesso anno venne esteso ad altri paesi del Continente africano, col duplice intento di contrastare l’immigrazione clandestina in Italia e di assicurare l’assistenza nelle zone indicate in premessa: Corno d’Africa e Kenya.

In data 6 ottobre 2011 venne prorogato a tutto il 2012 lo stato d’emergenza umanitaria in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa. Tenendo conto della situazione d’instabilità che all’epoca ancora caratterizzava i paesi nordafricani, si ritenne che gli effetti della situazione emergenziale si sarebbero protratti ancora per un anno. Giudicando “particolarmente incisive” le azioni messe in campo fino a quel momento dalle amministrazioni competenti, si stabilì perciò di mantenere un pari livello di operatività e di predisporre interventi e strategie mirate. In quello stesso giorno vennero prorogati di ulteriori sei mesi i permessi di soggiorno rilasciati per motivi umanitari alle persone arrivate in Italia entro la mezzanotte del 5 aprile. Tale scelta venne giustificata nel decreto con l’opportunità di proseguire la cooperazione e la collaborazione con le autorità tunisine, in particolare su tre fronti: la vigilanza delle coste tunisine, la prevenzione e il contrasto 130 Per approfondire: capitolo 1.

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dell’immigrazione illegale e i rimpatri di cittadini tunisini arrivati in Italia dopo il 5 aprile. Dopo un paio di mesi dalla scadenza di questa prima proroga, a maggio 2012 il nuovo presidente del Consiglio Mario Monti, insediatosi a novembre, decretò un ulteriore prolungamento di sei mesi per la durata di tali permessi. Nel decreto in questione si afferma, infatti, «che una ulteriore proroga delle misure umanitarie di protezione temporanea possa rafforzare il processo di graduale inserimento dei predetti migranti nel tessuto sociale ed economico del Paese, consentendo, al contempo, di sviluppare, per quanti di loro siano interessati, programmi per il rientro volontario nei Paesi di origine o di provenienza». Si giunse così a marzo 2013131, mese in cui venne decretata la cessazione delle misure di protezione umanitaria. Nelle premesse di tale decreto si argomenta l’assenza dei presupposti necessari per consentire un’ulteriore proroga. Due sono le alternative offerte ai beneficiari delle misure di protezione umanitaria per evitare l’espulsione: presentare entro il 31 marzo domanda di rimpatrio assistito o di conversione del permesso umanitario in permesso per lavoro, famiglia, studio o formazione professionale.

È solo di alcuni giorni prima della preventivata conclusione dell’emergenza Nord Africa, la nota del Ministero dell’Interno che accompagna l’ordinanza di protezione civile finalizzata a regolare la chiusura dello stato d’emergenza ed il rientro nella gestione ordinaria e fa slittare alla fine di febbraio la conclusione definitiva del sistema d’accoglienza. Nell’ordinanza del Capo della Protezione Civile del 28 dicembre 2012132, si sancisce il passaggio di consegne tra il Commissario Delegato e il Ministero dell’Interno che, a partire dal 1 gennaio 2013, «è individuato quale amministrazione competente in via ordinaria a coordinare le attività». I Prefetti divennero così i soggetti responsabili chiamati «a porre in essere le attività occorrenti per la prosecuzione, in regime ordinario e nei limiti delle risorse disponibili, delle iniziative finalizzate all’accoglienza degli stessi e a favorire percorsi di uscita».

131 DPCM del 28 febbraio 2013: “Disciplina della cessazione delle misure umanitarie di protezione temporanea concesse ai cittadini dei Paesi del Nord Africa affluiti nel territorio nazionale nel periodo 1° gennaio - 5 aprile 2011” (GU n.60 del 12-3-2013). 132 Ordinanza di Protezione Civile finalizzata a regolare la chiusura dello stato di emergenza umanitaria ed il rientro nella gestione ordinaria, da parte del Ministero dell’interno e delle altre amministrazioni competenti, degli interventi concernenti l’afflusso di cittadini stranieri sul territorio nazionale. (Ordinanza n. 33). (GU n.7 del 9-1-2013).

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CAPITOLO 4

RASSEGNA DELLE ESPERIENZE REGIONALI PIÙ SIGNIFICATIVE

Costanza Cattaneo

Come è stato sopra ricordato, con decisione del Presidente del

Consiglio dei ministri, il 12 febbraio 2011, si è provveduto a dichiarare lo stato di emergenza e ad attivarsi per preparare un piano straordinario che potesse far fronte e gestire la situazione caotica che si andava espandendo. Per la sua realizzazione la Protezione Civile nazionale si è avvalsa di soggetti attuatori regionali, con il compito di individuare le strutture, di coordinare gli inserimenti delle persone e di stipulare le convenzioni con gli enti gestori. Molte regioni hanno scelto di seguire una logica che prevede il coinvolgimento delle realtà locali, contando sulla collaborazione del terzo settore e del volontariato, che spesso hanno rappresentato le forze di supplenza ad un’azione istituzionale deficitaria.

In questo capitolo, quindi, si prendono in esame alcune esperienze regionali che ci offrono uno sguardo sulla varietà delle situazioni e dei meccanismi creati e sulla risposta dei diversi contesti locali nell’implementazione del programma ENA.

LA REGIONE LOMBARDIA E IL CASO BRESCIANO Come detto precedentemente, i circuiti utilizzati normalmente per

accogliere richiedenti asilo, non avevano la capacità adeguata per rispondere al flusso ingente di persone che da aprile era cresciuto di proporzioni.

La Regione Lombardia fu una delle regioni chiamate in causa per partecipare al programma di accoglienza diffuso in tutta Italia.

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Considerato il metodo adottato per distribuire equamente i migranti nelle varie regioni, e considerato che in Lombardia risulta essere residente il 17,11% della popolazione nazionale, le previsioni di accoglienza, nel peggiore dei casi, sarebbero state di 8600 persone; un numero che comunque non avrebbe creato squilibrio nei rapporti sociali (in realtà la regione Lombardia ha visto 2424 presenze)133.

Successivamente, il Dipartimento della Protezione Civile ha designato la Regione Lombardia responsabile per la gestione del piano e per l’individuazione delle possibili strutture di accoglienza sul territorio134.

La ricerca delle strutture si è sviluppata in tre direzioni: prima di tutto si è usufruito dei centri di accoglienza già creati e distribuiti sul territorio, come pure dei programmi previsti dalla rete SPRAR; successivamente è stata verificata la disponibilità di ulteriori posti nelle strutture alberghiere, coadiuvate da servizi offerti dal volontariato, che avrebbero dovuto rappresentare una sistemazione temporanea; ed infine si sono cercate altre strutture, come ex caserme o edifici dismessi, all’interno delle quali sarebbero potuti essere allestiti dei nuovi CARA135.

Dopo la ricerca delle strutture, il soggetto attuatore, con l’accordo delle Prefetture provinciali, procedeva alla stipula delle convenzioni.

Non disponendo solamente di strutture appositamente nate ed adibite all’accoglienza dei profughi, la gestione del piano non è risultata di facile attuazione e si sono creati standard e servizi spesso disomogenei, variabili da struttura a struttura.

Ne è un esempio specifico il caso bresciano, in cui non si è seguita un’equa distribuzione sul territorio provinciale. I profughi, per la maggior parte, infatti, sono stati sistemati in strutture alberghiere di alta montagna (es. Montecampione), che non rispettavano gli standard della rete SPRAR, ma fornivano solamente servizi minimi di accoglienza. Nel

133 Dal dossier Emergenza umanitaria Nord Africa: l’accoglienza dei migranti, I numeri dell’accoglienza http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/view_dossier.wp;jsessionid=356C1521E04AE8BD0E5DFC76DC421278?contentId=DOS24974 134 E. Besozzi e M. Colombo (a cura di), Immigrazione e contesti locali, Annuario CIRMiB 2011-2012, Milano, 2012, pp. 146-147. 135 E. Lazzeri, Modelli a confronto: le regioni italiane e l’accoglienza dei rifugiati dal Maghreb nella primavera-estate 2011, tesi di laurea discussa alla Facoltà di Scienze Politiche, Pisa, a.a. 2010-2011, p. 30.

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mese di luglio 2011, ad esempio, 174 profughi su 244 sono stati ospitati in strutture alberghiere di alta montagna; mentre nel mese successivo la stima era di 188 su 315 profughi.

Inoltre, l’ubicazione di tali strutture non facilitava l’integrazione di queste persone nel tessuto societario ed anzi alimentava il senso di prigionia e isolamento che i profughi provavano, andando così a creare tensioni e squilibri (es. fughe, proteste…)136.

I volontari e gli operatori dei centri SPRAR e della CGIL hanno infatti rilevato che:

le persone inserite nelle strutture hanno avuto accesso alla procedura di asilo con molto ritardo e spesso senza ricevere l’orientamento legale necessario. In più molti dei profughi hanno avuto forti difficoltà nel formalizzare la richiesta di protezione internazionale e nella presentazione della memoria essendo analfabeti e/o non parlando nessuna lingua veicolare;

non si è proceduto con la verifica e successiva identificazione di possibili categorie vulnerabili. Di fatto, c’è stato almeno un minore rimasto per alcuni mesi nella stessa struttura in cui erano alloggiati gli adulti;

le strutture non disponevano dei servizi minimi, non essendo dedicate all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, ed erano situate in luoghi totalmente isolati e con evidenti difficoltà di comunicazione;

molti dei profughi non hanno avuto la possibilità di comunicare con la propria famiglia;

per tutto il periodo di permanenza queste persone non hanno ricevuto notizie riguardanti la durata del loro soggiorno, causando così tensioni;

non erano garantiti i servizi minimi di accoglienza; il corso di alfabetizzazione, previsto dagli standard dello

SPRAR, fu intrapreso in ritardo e solo grazie al prodigarsi dei volontari, senza un programma strutturato137.

A causa e grazie a questo modello di accoglienza deficitario, nacque successivamente a Brescia il “Progetto di Accoglienza Diffusa” il quale promuoveva un maggiore coinvolgimento di tutte le realtà locali,

136 E. Besozzi e M. Colombo (a cura di), cit., pp. 147-148. 137 Ibid., pp. 150-151.

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associazioni e cooperative sociali, in modo tale da integrare nel tessuto societario i richiedenti asilo ed avviarli ad un percorso specifico di accoglienza.

Il progetto fu promosso dalla Comunità Montana di Valle Camonica e coordinato dal Centro SPRAR di Breno, dalla Cooperativa K-Pax, con il coinvolgimento delle associazioni locali.

L’obiettivo del progetto era, quindi, la costruzione di una rete di Comuni solidali che si sarebbero fatti carico di accogliere quattro o cinque persone alla volta, con l’intento di inserirle in micro-progetti che riproponevano le linee guida e gli standard del sistema SPRAR.

Obiettivo primario, fu quello di trasferire le persone accolte nelle strutture alberghiere di alta montagna (come Montecampione e Val Palot) verso i Comuni aderenti all’«Accordo Territoriale Enti Solidali per l’accoglienza dei profughi in Valle Camonica». 11 furono i Comuni aderenti: Edolo, Sellero, Capo di Ponte, Cerveno, Breno, Malegno, Berzo Inferiore, Esine, Artogne, Pian Camuno e Pisogne.

Un progetto, questo, che ha rappresentato un modello di accoglienza virtuosa, ma che nella sua applicazione ha incontrato una bassa adesione da parte degli enti locali e una difficoltà nel reperire abitazioni adatte138.

Il trasferimento degli immigrati nella città di Brescia, che a giugno 2012 contava 130 richiedenti asilo, anche se ha portato un miglioramento delle condizioni di accoglienza e permanenza rispetto a quelle fornite dalle strutture di alta montagna, non è stata esente da problemi.

È stata avvertita infatti la mancanza di operatori del settore e di figure di riferimento ed anche un’ostilità del contesto sociale e politico, nonché delle procedure per il riconoscimento della protezione.

A fine giugno 2012, ad esempio, a metà dei richiedenti non era stata riconosciuta alcuna forma di protezione internazionale e un terzo di questi era ancora in attesa dell’esito della domanda139.

138 Ibid., pp. 152-153-154. 139 Ibid., pp. 157, 158.

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LA REGIONE PIEMONTE E IL CASO TORINESE Secondo quanto affermato dalla Protezione civile, a dicembre 2012,

il numero dei migranti assistiti nelle varie strutture individuate nella Regione Piemonte erano 1358, su una capienza totale prevista dal Piano di 3819140.

Il Piemonte assicurò al governo la propria disponibilità a collaborare al piano nazionale di accoglienza, mostrandosi favorevole ad una distribuzione degli immigrati per piccoli gruppi e su tutto il territorio regionale.

Nei fatti però, il proposito della Regione non venne rispettato. L’accordo tra Regione, Province e Comuni, che avrebbe dovuto

stabilire un piano e un metodo diffuso e decentrato di accoglienza, non ci fu e si preferì interfacciarsi solo con la realtà parrocchiale locale, destinando così i sindaci dei Comuni a subire le disposizioni che governo e Regione avevano stabilito per loro.

Si è arrivati, così, ad ospitare la maggior parte degli stranieri in alloggi messi a disposizione dai vari parroci della Regione, con il coordinamento delle caritas diocesane141.

Possiamo vedere anche quanto accaduto nella provincia di Torino per avere un’idea, nello specifico, della capacità di accoglienza e delle procedure avviate per far fronte all’emergenza.

Al mese di aprile 2011, in cui tra l’altro si è verificato l’aggravarsi della situazione, con un flusso sempre maggiore di arrivi, la provincia di Torino conta 50 posti ordinari (suddivisi in un centro da 35 posti per uomini, 2 appartamenti e 5 altri posti per donne) e 6 posti per categorie vulnerabili in accoglienza nello SPRAR, 21 posti divisi in 5 alloggi nel Comune di Ivrea ed altri 15 posti nel Comune di Chiesanuova. I precedenti posti SPRAR, tuttavia, sono riservati anche a stranieri a cui è già stata concessa la protezione.

A fianco al circuito SPRAR, vi sono anche strutture gestite dal Comune, con 28 posti riservati ai richiedenti asilo, e altre attivate tramite finanziamento FER (5 posti per richiedenti asilo con disagio psichico). Il Comune di Torino gestisce, anche, ulteriori 173 posti extra

140 Dal dossier Emergenza umanitaria Nord Africa: l’accoglienza dei migranti, I numeri dell’accoglienza http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/view_dossier.wp;jsessionid =617EE11CD7BD1434971D5BBA81DFF980?contentId=DOS24974 141 E. Lazzeri, cit., p. 33.

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SPRAR destinati a titolari di protezione, divisi in 11 appartamenti (uno solo destinato all’accoglienza di 8 donne), 2 centri di 30 persone ciascuno e un centro di 65 rifugiati.

Come si può notare, molti dei posti a disposizione nella provincia di Torino sono riservati a titolari di protezione, andando così a ridurre la quota di quelli destinati ai richiedenti.

Inoltre, critica risulta essere l’accoglienza di nuclei familiari, in quanto tutti i posti sopra citati sono destinati a singoli, uomini, donne e categorie vulnerabili142.

Al di là però dei numeri dell’accoglienza, rimane problematica la risposta istituzionale alle reali necessità del territorio, richiedendo così un’azione di supplenza delle forze degli Enti di Tutela, dell’associazionismo, delle varie confessioni religiose, nonché di privati cittadini, senza i quali il sistema di accoglienza non potrebbe reggere.

Un altro aspetto critico della realtà dell’accoglienza a Torino risulta essere il particolare processo relativo alla procedura per ottenere il riconoscimento di rifugiato.

Per accedere alla procedura è necessario presentarsi alla Questura di Torino. La domanda di protezione, tuttavia, non è formalizzata nel momento in cui il richiedente manifesta alla Questura la volontà di chiedere protezione internazionale, essendo necessario un previo appuntamento nel quale il richiedente asilo è sottoposto ai rilievi fotodattiloscopici. Solo all’esito di questi ultimi viene dato un appuntamento per la formalizzazione della domanda e la compilazione del modello C3. Tra i due momenti possono trascorrere dai venti giorni sino a due mesi. Se da un lato i richiedenti asilo non vengono inviati nei CARA (tra l’altro mancanti sul territorio) in base all’interpretazione fornita dalla Questura dell’art. 20 del d.lgs. 25/2008 (affermando che l’invio è obbligatorio solo nei casi in cui la persona non sia in grado di indicare alcun domicilio)143, dall’altro, non hanno nemmeno accesso allo SPRAR non avendo ancora formalizzato la domanda. Potranno quindi, come richiedenti asilo, avere accesso ad uno dei 200 posti in dormitorio della città di Torino, che fanno parte dell’accoglienza definita di bassa soglia e di cui possono usufruire, però, anche tutti i senza tetto presenti

142 A.S.G.I., Il diritto alla protezione, la protezione internazionale in Italia quale futuro?, studio sullo stato del sistema di asilo in Italia e proposte per una sua evoluzione, 2011, Alessandria, p. 73. 143 Ibid., p. 77.

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in città e di conseguenza con la possibilità di non trovarvi posto e di essere costretti, così, a cercare sistemazioni di fortuna144.

Nel caso in cui un richiedente asilo trovi posto nel circuito SPRAR, il trasferimento dell’ospite non avviene prima di un mese dal momento in cui la Prefettura ha ricevuto la prima segnalazione; periodo a cui va aggiunto quello sopradetto, precedente alla richiesta di accoglienza, per un totale quindi di circa tre-quattro mesi.

Nel caso in cui non vi sia posto in accoglienza, la Prefettura eroga il contributo previsto dal Decreto Legislativo 140/2005 solo con una specifica comunicazione scritta dal Ministero che li autorizza a procedere in tal senso145.

La città di Torino rappresenta un caso particolare di realtà territoriale di accoglienza, in quanto sede di una delle Commissioni territoriali per la valutazione delle domanda di asilo.

Infatti, prima del 2008, i richiedenti asilo gestiti dalla città venivano convocati presso le Commissioni di Milano o di Roma e quindi i pochi posti SPRAR, in essa presenti, erano comunque sufficienti all’accoglienza. Dall’agosto di quell’anno, invece, con l’arrivo della Commissione territoriale, Torino è diventata un punto di raccolta per i richiedenti asilo e per i successivi rifugiati, al punto di destare preoccupazioni per l’ingente afflusso e per i possibili problemi di gestione del territorio.

Questo, unitamente a proteste, occupazioni, basso intervento della realtà politica torinese, che subiva attacchi dall’opposizione, e la nascita di movimenti spontanei dalle associazioni della città preoccupate della situazione dei rifugiati, ha portato ad una situazione articolata e di difficile integrazione dei vari aspetti che la compongono.

Vista la mancata volontà di intervenire, come già detto, furono le associazioni locali le principali protagoniste dell’accoglienza, le quali cercarono di trovare soluzioni e proporre progetti per far fronte all’emergenza e fornire sistemazioni adeguate e non isolate o di stampo carcerario, come invece furono quelle organizzate dalle istituzioni locali146.

144 Ibid., pp. 71-72. 145 Ibid., p. 75. 146 M. Manocchi, Richiedenti asilo e rifugiati politici. Percorsi di ricostruzione identitaria: il caso torinese, Milano, 2012, pp. 229-231.

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LA REGIONE EMILIA ROMAGNA E IL CASO BOLOGNESE Gli sforzi messi in gioco dall’Emilia Romagna per gestire la presenza

dei richiedenti asilo e dei rifugiati ha radici che risalgono al 2004, quando la Regione ha avviato un Protocollo d’Intesa per attuare un piano di accoglienza diffuso.

Il Protocollo sottoscritto da vari enti (tra cui l’ANCI, l’UPI, il Forum Regionale del Terzo Settore, il Ciac Parma, la Caritas Bologna, Arci, Cgil, Cisl e Uil) ha assicurato un sistema di accoglienza integrato regionale tramite il quale la Regione Emilia Romagna e gli Enti locali si sono posti l’obiettivo di costruire una rete di accoglienza di cui fanno parte Regione, Aziende Sanitarie Locali, Province, Comuni, organizzazioni ed associazioni, attuando azioni concertate ed integrate indirizzate all’inserimento socio-lavorativo di rifugiati, richiedenti asilo e titolari di permesso per motivi umanitari147.

Con questo protocollo la Regione ha sottolineato la necessità di trovare soluzioni abitative che non fossero tutte accentrate nei Comuni capoluogo, ma diffusi su tutto il territorio per favorire una maggiore integrazione delle persone.

Sempre in questo spirito, alcune province della Regione hanno stipulato protocolli d’intesa tra Questura, Prefettura, enti locali e/o provinciali e soggetti del privato sociale, in modo da fornire una rete di competenze e supporti a chi si dovesse trovare in condizioni di disagio.

Con l’Emergenza Nord Africa, l’Emilia Romagna si è dimostrata sin da subito disponibile ad accogliere la quota di immigrati indicata nell’accordo con il governo, stimata attorno alle 3846 persone. Sempre nello spirito di integrazione, mostrato in anni passati, si è dimostrata contraria ad attuare un accentramento delle persone in tendopoli, favorevole piuttosto ad una sistemazione decentrata e pensata in base anche alle caratteristiche delle province della Regione e dei luoghi disponibili all’accoglienza.

Si è cercato, inoltre, di fornire ai richiedenti protezione internazionale, un trattamento analogo a quello riservato ai soggetti ospitati nei centri di accoglienza per richiedenti asilo. Per questo, la Protezione Civile ha stipulato con varie strutture una convenzione di

147 A.S.G.I., cit., pp. 90-91.

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appalto diretto (senza bando), imponendo ai gestori di rispettare le direttive ed i servizi previsti per i CARA.

Infine, passata la fase dell’emergenza, la Regione Emilia Romagna ha deciso di realizzare dei percorsi di integrazione personalizzati, premiando la presenza attiva e partecipativa degli ospiti attraverso la fornitura di servizi specifici148.

Nonostante questi esempi virtuosi di attivismo istituzionale e locale, nella provincia di Bologna si sono riscontrate alcune criticità legate alla fase di pre-formalizzazione della richiesta di protezione internazionale.

La procedura indicata dalla Questura di Bologna per la presentazione della domanda consta nell’invio di una richiesta scritta con l’indicazione dei motivi a fondamento dell’istanza, previa però fissazione di un appuntamento. Pertanto è possibile presentare la domanda:

per il tramite di un legale di fiducia del richiedente asilo; attraverso lo Sportello Protezioni Internazionali tramite l’invio di istanza scritta da parte dei cittadini stranieri

già trattenuti al CIE di Bologna. Al contrario, la presentazione spontanea del cittadino straniero

presso l’Ufficio immigrazione della Questura non determina l’accesso alla procedura, ma di consueto l’invito a presentarsi allo sportello Protezioni Internazionali del luogo.

Tra la dichiarazione della volontà di presentare domanda di protezione internazionale e la formalizzazione della richiesta possono passare da un minimo di trena giorni ad un massimo anche di centottanta giorni.

Durante questa fase, l’aspirante richiedente asilo non ha alcun attestato nominativo che ne accerti la condizione giuridica, ma solo l’attestazione con foto con la quale si dichiara che il soggetto ha manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale ed è in attesa della convocazione in Questura149.

Ulteriore anomalia si riscontra qualora un richiedente protezione debba essere accolto in un CARA.

La Questura e la Prefettura di Bologna, infatti, non seguono le condizioni stabilite dall’art. 20 del decreto legislativo n. 25/2008 per

148 E. Lazzeri, cit. p. 26. 149 A.S.G.I., cit., pp. 93-94-95.

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decidere chi debba essere inviato in tali strutture (tra l’altro non presenti nella Regione), ma l’accoglienza è subordinata alla disponibilità di posti in una delle strutture della rete SPRAR, su comunicazione da parte del Servizio Centrale150. LA REGIONE LAZIO E IL CASO ROMANO

La Regione Lazio ha contribuito al piano nazionale di emergenza

umanitaria accogliendo 3178 profughi. Decisa a rispondere al fenomeno in modo non emergenziale, ha

scelto un modello non solo di prima accoglienza ma anche di integrazione sociale e lavorativa in modo da trasformare un possibile problema di gestione di simili afflussi, in una risorsa per la Regione e le singole province.

Per fare ciò la Regione ha previsto due azioni distinte. La prima mira ad attuare progetti integrati di accoglienza limitati

non soltanto alla fornitura di servizi basilari, ma anche rivolti ad una integrazione lavorativa e sociale.

La seconda, invece, mira alla realizzazione di un censimento dei richiedenti e titolari di protezione internazionale presenti nella Regione, che permetta di creare una vera e propria banca dati, contenente informazioni riguardanti la formazione professionale e scolastica dei rifugiati ed una mappatura dei servizi e dei progetti attivati in loro favore, in vista così di una loro integrazione sociale e di una loro autonomia economica e lavorativa151.

Come visto le Regioni finora trattate non sono esenti da problemi riguardanti l’iter che affrontano gli immigrati per vedersi riconosciuta la protezione internazionale.

Ed anche il Lazio, ed in particolare l’area metropolitana di Roma, non differisce da quanto detto.

Per quanto riguarda il trasferimento presso i centri di accoglienza per richiedenti asilo, ad opera della Questura e della Prefettura di Roma, non si rispettano i requisiti stabiliti dall’art. 20 del d.lgs. n. 25/2008, accogliendo invece persone che secondo quanto stabilito non avrebbero necessità di entrarvi. 150 Cit., p. 99. 151 E. Lazzeri, cit., pp. 27-28.

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Inoltre si ripropongono difficoltà e rallentamenti nella procedura della domanda di asilo presso la Questura.

Per la presentazione della domanda si richiede, infatti, obbligatoriamente un’elezione di domicilio, anche nel caso di persone prive di mezzi di sostentamento, giustificandolo con la necessità della Questura di contattare il richiedente per successive comunicazioni.

Questa richiesta, però, non è ritenuta legittima, in quanto è contraria ai principi affermati dal Decreto Procedure (n. 25/2008). All’art. 6 comma 1 si afferma infatti che «la domanda di protezione internazionale è presentata personalmente dal richiedente (…) presso l’ufficio della Questura competente in base al luogo di dimora del richiedente» (intendendosi con luogo di dimora quel luogo in cui la persona si trova anche temporaneamente).

Inoltre, il tempo che intercorre fra il momento della manifestazione della volontà di richiedere asilo e l’effettiva verbalizzazione è stimabile fra uno e quattro mesi, ed è stato notato come il richiedente venga informato della possibilità di richiedere accoglienza solo al momento della verbalizzazione e non quando invece manifesta la volontà di chiedere asilo152.

Nel Comune di Roma, l’ufficio speciale immigrazione (USI) gestisce normalmente 21 centri di accoglienza sul territorio. Si tratta di medi o grandi centri collettivi (25-100 posti) destinati per lo più a uomini soli (circa 900 posti), a donne singole (48 posti), a madri/padri soli con minori (15 posti) e a nuclei familiari (403 posti), per un totale che si situa intorno ai 1300/1400 posti.

I fondi SPRAR, invece vanno ad integrare le risorse messe a disposizione dal Comune di Roma, finanziando così un’accoglienza di bassa soglia, distante dagli standard previsti dal capitolato SPRAR.

Il CARA di Roma, invece, ha una capienza ordinaria di 650 posti, che devono far fronte ad una presenza di stranieri al loro interno sempre più ingente dato, come detto, l’invio in queste strutture anche di richiedenti per i quali non ricorrono le ipotesi dell’art. 20 del d.lgs. 25/2008153.

152 A.S.G.I., cit., p. 79 e p. 81. 153 Ibid., pp. 83-85. Q

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LA REGIONE PUGLIA Sin dagli inizi dell’emergenza la Regione Puglia, che insieme a Sicilia

e Calabria è tra le più esposte ai flussi migratori, si è trovata ad accogliere fino all’80% dei profughi evacuati da Lampedusa, raggiungendo i 4265 ospiti immigrati. Di questi: 1430 sono stati sistemati nella tendopoli di Manduria, 1148 nel CARA di Bari-Palese, 558 nel CARA di Foggia Borgo Mezzanone, 158 nel CPA di Brindisi Restinco, e 973 nell’accoglienza diffusa sul territorio presso case di accoglienza, fondazioni, alberghi, centri della Caritas.

La tendopoli a Manduria è stata una delle prime ad essere allestita per gestire il flusso di profughi che arrivava da Lampedusa. Essa dispone di 770 posti, che però possono essere ampliati fino ad un massimo di 4000 aumentando il numero delle tende.

Non ritenendo, però, questa una condizione dignitosa di accoglienza, tramite tutti gli attori locali e istituzionali presenti sul territorio, si è provveduto a fare un censimento delle strutture dislocate nella Regione che potessero fornire accoglienza ai profughi temporaneamente collocati nella tendopoli154.

Dopo la fase di avvio dell’accoglienza, per rispondere all’urgenza di reperire strutture disponibili e per affrontare in maniera coordinata la gestione, il soggetto attuatore Puglia (nel mese di luglio 2011) ha insediato la “Cabina di Regia”, un centro di connessione tra tutti i soggetti coinvolti nell’emergenza in modo da coordinare tutti gli interventi, superando le difficoltà e i problemi che molto spesso nascono da una gestione frammentata e da una dislocazione delle responsabilità e competenze.

La Cabina di Regia era così composta: il soggetto attuatore Puglia l’Assessore alle “Politiche giovanili, cittadinanza sociale,

attuazione del programma della Regione Puglia” l’Assessore alle “Opere Pubbliche e Protezione Civile” un rappresentante degli Enti di Tutela un rappresentante delle Prefetture dei vari Comuni un rappresentante della Commissione Territoriale di Bari e di

Foggia

154 E. Lazzeri, cit., pp. 34-35.

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un rappresentante dello SPRAR un rappresentante dell’IOM un rappresentante dell’ANCI Puglia rappresentanti di altre organizzazioni e associazioni attive sul

territorio Per gestire al meglio la situazione e fornire adeguati servizi agli ospiti

delle varie strutture, il soggetto attuatore Puglia ha istituito, inoltre, un apposito elenco, aggiornato periodicamente, degli Enti di Tutela a cui le strutture di accoglienza devono rivolgersi per l’erogazione dei servizi essenziali ai migranti155.

Nel mese di settembre 2011, il Gruppo di Monitoraggio e Assistenza (GMA) istituito dal dipartimento di Protezione Civile nazionale156, ha effettuato un monitoraggio presso la Regione Puglia per verificare il rispetto degli standard minimi di assistenza e l’omogeneità di trattamento sul territorio regionale, col fine anche di predisporre eventuali supporti.

Nel corso del monitoraggio è stata particolarmente apprezzata la scelta del soggetto attuatore di realizzare una “Cabina di Regia”, ma, d’altra parte, è stata fatta presente la necessità di istituire un più preciso e puntuale controllo di tutte le gestioni e un più idoneo sistema di monitoraggio del lavoro svolto all’interno di ogni accoglienza, al fine di garantire il pieno rispetto degli standard richiesti nonché i corretti comportamenti da parte degli stessi enti gestori157.

Per attivare l’accoglienza sono state disposte, quindi, misure di ripartizione dei migranti nelle varie province della Regione e sono stati stabiliti i livelli e l’oggetto dell’assistenza comune a tutte le situazioni e le convenzioni di appalto di tali servizi. Inoltre il soggetto attuatore ha ritenuto opportuno specificare le condizioni di accoglienza e i ruoli chiamati in causa per la gestione, nonché i possibili percorsi di inserimento ed integrazione nel tessuto societario e lavorativo, in vista della concessione della protezione internazionale e dei relativi permessi di soggiorno.

155 Piano di accoglienza “Emergenza Immigrazione Nord Africa”, Soggetto Attuatore Puglia, 2011, p.21. 156 Come ricordato nel capitolo precedente. 157 Ibid., p. 31-32.

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CONSIDERAZIONI FINALI Il piano di creare un’accoglienza diffusa e decentrata è stato seguito

a partire dalla dislocazione dei migranti nelle varie regioni e, al loro interno, nelle varie province e strutture. Ma proprio il fatto di rispettare questo principio, unito all’aspetto emergenziale della situazione, ha fatto sì che si utilizzassero strutture inadeguate ed alcune volte non geograficamente ben collocate per un’accoglienza integrata, andando così a creare fin dal principio problemi di gestione della situazione.

Accogliere persone che arrivano da un’esperienza critica non è già di per sé facile, ed attivare sul momento e in tempi rapidi un sistema funzionante per far fronte alle esigenze di queste persone, come visto, non è esente da problematiche.

Soprattutto, le difficoltà maggiori si sono riscontrate nella fase, per così dire, burocratica, quella riguardante le modalità del percorso di accoglienza e di concessione della protezione internazionale.

I tempi relativi alla procedura che prende avvio al momento dell’entrata in un centro, fino alla concessione del permesso di soggiorno, sono risultati, infatti, dilatati, più lunghi rispetto a quanto stabilito dalle leggi in materia, ed alcune volte si sono date interpretazioni personali e specifiche, ulteriori rispetto alle disposizioni.

Dovendo gestire un afflusso massiccio di sfollati e dovendo creare soluzioni di accoglienza altre, si sono presi come riferimento i protocolli già esistenti per strutture CARA o SPRAR, applicandoli alle nuove sistemazioni, le quali però, spesso, non disponevano di personale ben (in)formato che le potesse replicare in modo fedele.

Nonostante le difficoltà, tuttavia, si sono avuti esempi virtuosi di gestione dell’emergenza ed esempi di collaborazione dei vari enti del territorio, che hanno così fornito un sistema integrato e funzionale alle esigenze del migrante e del tessuto sociale di riferimento.

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Tab. 2. Riepilogo delle esperienze prese in considerazione.

Presenze Modello di accoglienza

Strutture di accoglienza

Procedure normative

Lombardia 2424

Accoglienza diffusa + concentrazione in grandi locali

Strutture ad hoc e strutture ricettive; disomogeneità

Problemi nella procedura di asilo e nelle capacità di accoglienza

Piemonte 1358 Accoglienza diffusa + concentrazione in grandi locali

Strutture del Comune, della rete SPRAR e alloggi/sistemazioni parrocchiali

Problemi nella procedura di asilo + attuazione residuale di alcune prassi

Emilia Romagna

1509 Accoglienza diffusa

Sistemazione decentrata sul territorio + appalti diretti seguendo i protocolli CARA + percorsi di integrazione personalizzati

Criticità nella fase di pre-formalizzazione della domanda + interpretazione altra di alcuni art.

Lazio 1709 Accoglienza decentrata

Medi e grandi centri collettivi gestiti dall’USI e fondi SPRAR che affiancano quelli comunali

Criticità nelle procedure per la richiesta di asilo e nell’interpretazione di alcune normative

Puglia 1182 Accoglienza diffusa + concentrazione in CARA e CIE

Tendopoli, CARA, CPA, case di accoglienza, fondazioni, alberghi, centri della Caritas

Monitoraggio del territorio e distribuzione equa + coordinazione tramite una “cabina di regia

* Presenze al 19 Dicembre 2012 Fonte: http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/view_dossier.wp;jsessionid=356C1521E04AE8 BD0E5DFC76DC421278?contentId=DOS24974

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PARTE 2

L’IMPLEMENTAZIONE DEL

“PROGRAMMA DI ACCOGLIENZA DIFFUSA” IN PROVINCIA DI PISA

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CAPITOLO 5

IL PROGRAMMA TOSCANO DI ACCOGLIENZA DIFFUSA

Gaia Colombo

In opposizione alla costruzione, ipotizzata dal Governo, di una grande

tendopoli presso una ex struttura militare abbandonata a Coltano, alle porte di Pisa, la proposta della Regione Toscana – come è già stato ricordato – si è esplicitata nell’individuazione di «strutture più piccole diffuse nelle varie province, più controllabili e più facilmente integrabili con il territorio»158. Come ha dichiarato il Presidente della Regione al termine dell’incontro del 29 marzo con gli enti locali toscani: «Noi siamo per un federalismo cooperativo e responsabile, non ci rifiutiamo di fare il nostro dovere e vogliamo affrontare questa importante prova di governo. Per questo ci vogliamo assumere la responsabilità di auto-organizzarci e proponiamo un nostro modello»159.

L’Accordo quadro siglato il 4 aprile 2011 tra la Prefettura di Firenze e la Regione Toscana160, in concomitanza con l’arrivo dei primi profughi sul territorio regionale, ha delineato la suddivisione dei compiti e dei ruoli tra i diversi soggetti istituzionali. In base allo schema proposto, la Regione, in collaborazione con le amministrazioni locali e le associazioni di volontariato, si è inizialmente adoperata per rendere disponibili strutture ricettive per una capienza massima di 500 persone, affidando per un periodo di sei mesi i servizi di accoglienza al sistema del volontariato e di protezione civile. La Prefettura di Firenze si è occupata del raccordo delle attività realizzate a livello regionale mentre le altre Prefetture localmente interessate si sono fatte garanti della sicurezza delle strutture d’accoglienza e della correttezza degli adempimenti procedurali. La Regione, inoltre, è

158 Dichiarazione del Presidente della Regione, Enrico Rossi, dall’articolo Sì all’accoglienza, dove diciamo noi del Corriere Fiorentino del 29 marzo 2011. 159 http://toscana-notizie.it/blog/2011/03/29/rossi-no-coltano-si-allaccoglienza-diffusa 160 L’Accordo quadro tra la Prefettura - Ufficio territoriale del Governo di Firenze e la Regione Toscana siglato il 4 aprile 2011 è stato approvato dalla delibera della Giunta regionale n. 222/2011.

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stata individuata come soggetto titolato per la stipula dei contratti-convenzioni per la gestione dell’accoglienza mentre la copertura economica è stata delegata al Commissario straordinario per l’emergenza.

Risale al mese successivo, a maggio del 2011, la sottoscrizione del Protocollo d’intesa tra la Regione, le Province e l’ANCI Toscana per l’emergenza umanitaria relativa all’eccezionale afflusso di cittadini dai paesi del Nord Africa161, al cui interno sono articolati gli accordi presi per proseguire sulla strada dell’implementazione del nuovo sistema d’accoglienza. Nell’allegato 1 al documento viene riportato un esempio di distribuzione territoriale dei migranti utilizzando gli stessi parametri del Piano Maroni, riprodotto qui sotto:

Tab. 3. Distribuzione territoriale dei migranti secondo i parametri del Piano Maroni.

Popolazione Popolazione

% su tot.

Toscana

Distribuzione

teorica migranti

ogni 10.000

arrivati in Italia

Distribuzione

teorica

massima per

50.000 migranti

Toscana 3.730.130 100,00% 702 3510

Province

Massa Carrara 203.642 5,46% 38 192

Lucca 392.182 10,51% 74 369

Pistoia 292.108 7,83% 55 275

Firenze 991.862 26,59% 187 933

Livorno 341.453 9,15% 64 321

Pisa 414.154 11,10% 78 390

Arezzo 348.127 9,33% 66 328

Siena 271.365 7,27% 51 255

Grosseto 227.063 6,09% 43 214

Prato 248.174 6,65% 47 234

161 Il Protocollo d’intesa è stato approvato dalla delibera n. 402/2011 della Giunta regionale.

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Stando ai dati raccolti dal monitoraggio realizzato dall’Osservatorio Sociale Regionale nei primi sei mesi del 2012162, complessivamente sul territorio sono state accolte 1519 persone.

In questo stesso Protocollo vi è un articolo in cui si parla esplicitamente di “modello toscano d’accoglienza”, ribadendo ufficialmente i tre aspetti che l’hanno connotato: l’assegnazione diffusa sul territorio dei profughi, la preferenza per strutture di piccole o medie dimensione ed il distinguo tra associazioni di volontariato di protezione civile da coinvolgere limitatamente alla prima accoglienza e le associazioni di volontariato sociale, a cui poter affidare la fornitura di servizi d’accoglienza.

Nella prefazione che il Presidente della Regione Toscana ha fatto all’e-book Arrivano dal mare. Migranti e profughi: storie e testimonianze fra Africa e Toscana163 pubblicato nel giugno 2011 con l’intento di raccogliere le testimonianze dei protagonisti dei primi mesi dell’accoglienza, si coglie il senso di rivendicazione per una scelta non solo politica, ma anche etica fatta inizialmente. Enrico Rossi scrive, infatti:

«così è iniziato il lavoro: cercare le strutture disponibili ad ospitare piccoli gruppi di profughi, contattare il volontariato religioso e laico, le Prefetture, i Comuni e le Province per organizzare la gestione dei centri, respingendo sul nascere la logica “concentrazionaria” sposata dal governo e disegnata più sul modello del carcere e della separatezza che su quello di una accoglienza lungimirante e intelligente… La Toscana ha sbugiardato l’ipotesi dell’invasione migratoria, ha sconfitto la paura, ha mostrato di aver ben saldi nelle più minute pieghe del territorio e tra le sue caratteristiche sociali e culturali il senso di responsabilità, la capacità, di venire incontro al bisogno e di affrontare i problemi con coraggio e organizzazione, senza fronzoli o retorica». L’affidamento della gestione nella maggior parte dei casi ad enti

locali e ad organismi del terzo settore e del privato sociale è avvenuto in coerenza con l’obiettivo di promuovere «l’istituzione di un sistema regionale che favorisca modalità condivise e partecipate di governo del

162 F. Bracci (a cura di), Emergenza Nord Africa, cit. 163 L’e-book è scaricabile al seguente indirizzo: http://toscananotizie.it/wpcon tent/uploads/2011/06/arrivano dal mare.pdf. È realizzato da Toscana Notizie, agenzia di informazione multimediale della Giunta regionale toscana, ed è edito da Quintadicopertina - Fabrizio Venerandi Editore, Genova.

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fenomeno migratorio, anche in relazione al sistema del welfare e dello sviluppo locale» enunciato dalla Legge regionale 29/2009 Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana.

Col Decreto n. 3343/2011164, la Dirigente responsabile del Sistema regionale di Protezione Civile, Maria Sargentini, ha approvato la prima versione delle procedure operative per la gestione della prima accoglienza dei migranti. Il documento inizia presentando in sintesi la ripartizione delle competenze tra i diversi attori coinvolti sul territorio toscano: Regione, Prefettura di Firenze, Province, Comuni e gestori delle strutture. Prosegue poi indicando nel dettaglio l’iter da seguire per la realizzazione delle attività di gestione dell’emergenza, che vengono suddivise temporalmente secondo diversi momenti specifici. Si distingue infatti tra attività ordinarie di gestione, da garantire quotidianamente; arrivo della comunicazione di un arrivo in Toscana; disponibilità dell’elenco definitivo delle strutture di accoglienza e attività da svolgersi durante il giorno dell’arrivo fino alla conclusione dei trasferimenti. Dalla fase cosiddetta d’allerta si passa alla fase d’accoglienza, che sulla base di questo protocollo si considera conclusa a partire dal giorno successivo al trasferimento, in cui l’erogazione dei servizi che dovrebbero avviare il vero e proprio processo d’accoglienza diventa di esclusiva competenza dei gestori delle strutture. In totale, sul territorio regionale sono stati coinvolti 110 Comuni in cui sono state attivate ben 135 strutture, di cui 95 attive fino alla conclusione dell’emergenza.

Le enunciazioni ideali e le procedure operative puntualmente descritte nei documenti ufficiali sono però state messe a dura prova dall’implementazione quotidiana delle attività in un regime emergenziale che è rimasto in vigore per quasi due anni. L’effettiva messa in pratica del modello d’accoglienza proposto dalla Regione ha dovuto fronteggiare, da un punto di vista sociale, episodi di ostilità, soprattutto nella fase iniziale, di cui sono un triste esempio le proteste di stampo razzista da parte di alcuni cittadini avvenute a Calambrone sul litorale

164 Decreto dirigenziale n. 3343 del 9 agosto 2011, avente ad oggetto: Emergenza migranti OPCM 3924/2011 - Approvazione prima versione delle procedure operative per la gestione della prima accoglienza dei migranti.

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pisano e riprese anche dalla stampa nazionale165. Da un punto di vista materiale, invece, ci si è dovuti confrontare con disomogeneità di funzionamento tra le diverse strutture coinvolte per quanto riguarda l’erogazione dei servizi per l’accoglienza dei richiedenti asilo, così come previsti dalla direttiva europea in materia166, che contemplano, oltre all’assistenza materiale, anche l’orientamento legale e sociale e la gestione delle situazioni vulnerabili. L’incertezza circa il futuro del sistema d’accoglienza ed i tempi di attesa per la definizione dello status giuridico, insieme alla scarsità di opportunità lavorative e alla carenza di programmazione sulle modalità di uscita dalla fase di emergenza, sono problematiche che su tutto il territorio nazionale hanno limitato l’efficacia dei sistemi d’accoglienza locale e che hanno avuto un impatto significativo anche in Toscana, portando di volta in volta a ridefinire in corso d’opera i percorsi di accoglienza avviati.

Dai dati raccolti dal monitoraggio regionale167, emerge che a giugno 2012 meno del 40% dei migranti aveva partecipato a corsi di formazione o ad attività propedeutiche all’inserimento lavorativo. Anche tra coloro che avevano già ottenuto il riconoscimento dello status giuridico la percentuale di partecipazione resta inferiore al 50%. Tra gli ostacoli percepiti in maniera più forte dagli operatori intervistati vi sono stati il coinvolgimento di soggetti privi di competenze specifiche (solo in poco più del 20% delle gestioni almeno un operatore disponeva di esperienze pregresse con richiedenti asilo), e la disomogeneità e frammentazione del sistema nei diversi contesti territoriali. Lo stesso Allocca, assessore regionale al welfare e alle politiche per la casa, ha confermato che nel corso dell’attività d’accoglienza vi sono state alcune difficoltà di gestione, che però a suo parere non hanno intaccato l’impegno profuso in maniera continuativa dall’apparato regionale nella ricerca di risorse aggiuntive da destinare ai

165 A titolo di esempio: M. Bazzichi, Calambrone, lavori e proteste in corso del Corriere Fiorentino del 4 aprile 2011 e M. Carratù, Profughi, raid dei vandali a Calambrone de La Repubblica del 6 aprile 2011. 166 Direttiva 2003/9/CE del Consiglio del 27 gennaio 2003 recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri recepita in Italia dal d.lgs. 140/2005. 167 F. Bracci (a cura di), cit.

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Comuni e nella messa in atto di misure di sostegno all’integrazione, come nel caso dei tirocini formativi168.

Il 31 dicembre 2012 si è tenuta a Firenze una riunione tra i dieci prefetti della Toscana a cui, in base alle disposizioni prese a livello nazionale, erano state prorogate le competenze fino al 28 febbraio 2013. In quell’occasione si è deciso come procedere per la chiusura delle attività, rinegoziando le convenzioni per l’accoglienza, da un lato, e, dall’altro, proponendosi di individuare insieme agli altri soggetti coinvolti: «i percorsi più idonei per accompagnare gli stranieri fuori dai centri che li ospitano, anche con eventuali progetti di inserimento lavorativo e abitativo»169.

In questa stessa direzione andava il Vademecum illustrativo per la definizione dei percorsi d’accoglienza170, realizzato da ANCI Toscana in collaborazione con la Regione lo scorso febbraio. Il Vademecum si presenta come una sorta di guida per accompagnare gli operatori nell’ultimissima fase dell’accoglienza, con l’intento di raccogliere in un unico documento i dispositivi potenzialmente applicabili per mitigare l’effetto negativo della chiusura dell’emergenza sulla vita delle persone accolte. Vi si ribadisce la necessità di prendere a modello il sistema SPRAR e di calibrare gli interventi sulla base delle diverse categorie di utenti, ponendo attenzione ai profili di vulnerabilità e ai livelli di indipendenza raggiunti. Tra gli strumenti operativi descritti, si va dai percorsi di inserimento lavorativo e valorizzazione delle competenze, ai tirocini formativi, ai contributi all’alloggio. Infine una parte consistente del documento è dedicata alla descrizione dei programmi di aiuto al rientro volontario nel paese d’origine.

L’enfasi registrata da più parti sulle opportunità di rientro in patria contrasta in maniera evidente con la scelta nazionale fatta a suo tempo di far avviare a tutti i migranti giunti in Italia dalla Libia, dopo il 5 aprile 2011, le pratiche per la domanda d’asilo, che di per sé dovrebbe

168 http://toscana-notizie.it/blog/2013/03/05/emergenza-nord-africa-allocca-diffi colta-non-sono-mancate-ma-impegno-regione-e-stato-costante/ 169 Citazione tratta da: http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/ it/assets/files/25/2013_01_31_FI_Riunione_prefetti_31gennaio2013.pdf 170 Anci Toscana, Regione Toscana, Vademecum illustrativo degli strumenti e delle opportunità utilizzabili per la definizione di percorsi di autonomia in favore dei profughi inseriti nei percorsi di accoglienza nell’ambito dell’Emergenza Nord-Africa, febbraio 2012, scaricabile all’indirizzo: http://www.ancitoscana.it/allegati/servizicomuni/immigrazione/VADEMECUM%20ILLUSTRATIVO%20%284%29.pdf

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implicare l’impossibilità o quanto meno la complessità di un ritorno. Sembra quasi che in mancanza di una strategia d’uscita dall’emergenza condivisa e pianificata a livello nazionale, al di là della buonuscita di 500 euro pro capite171, la via del rientro volontario sia stata interpretata come un’alternativa di facile accesso all’abbandono, anche se nei fatti è stata poco praticata.

Nonostante gli sforzi fatti a livello locale per provare a dare concretezza al modello d’accoglienza diffuso e a rafforzare l’autonomia dei richiedenti asilo, con la chiusura dell’emergenza il 28 febbraio 2013 molte questioni sono rimaste senza risposta. Occorrerebbe abbandonare una volta per tutte la logica emergenziale con cui viene trattato il fenomeno migratorio in Italia e iniziare a ragionare, anche in termini di risorse disponibili, su percorsi strutturali d’accoglienza a medio e lungo termine. Sarebbe utile perciò che gli attori del modello d’accoglienza toscano avviino una riflessione politica, che tenga conto dei punti di forza e di debolezza registrati, per provare a non disperdere il patrimonio di competenze ed esperienze acquisito in questi anni di attività sul territorio toscano, condividendo le responsabilità e valorizzando le buone prassi esistenti.

171 Come stabilito dalla circolare del Ministero dell’Interno del 18 febbraio 2013, avente ad oggetto la chiusura dell’emergenza Nord-Africa.

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CAPITOLO 6

IL CONTESTO POLITICO ED ISTITUZIONALE PISANO

Gaia Colombo

IL SISTEMA LOCALE DI WELFARE E LE POLITICHE MIGRATORIE L’inizio della sperimentazione delle Società della Salute prende il via

in Toscana con la delibera 155/2003 del Consiglio regionale, che affida a questi organismi il governo dei servizi sociali e sanitari extra-ospedalieri a livello di zona-distretto. La scelta di affidare a consorzi pubblici172 costituiti da enti locali e aziende sanitarie locali la gestione congiunta dei servizi sociali e sanitari territoriali viene legittimata e messa a regime con le leggi regionali 40 e 41 del 2005 e i loro posteriori emendamenti. Con il dispositivo normativo previsto dalla legge 40/2005173, la Toscana ha inteso, infatti, disciplinare la riforma del servizio sanitario regionale, promuovendo un approccio innovativo «per assicurare la presa in carico integrata del bisogno sanitario e sociale e la

172 Con la sentenza n. 326 del 17 novembre 2010 la Corte costituzionale ha respinto il ricorso della Regione Toscana contro la legge finanziaria del 2009 che prevede la «soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali» con assunzione da parte dei comuni «delle funzioni già esercitate dai consorzi soppressi e delle relative risorse e con successione ai medesimi consorzi di tutti i rapporti giuridici ad ogni altro effetto». La sezione regionale della Corte dei conti nella relazione sulle politiche sanitarie della Regione Toscana 2007-2008 ha espresso forti dubbi sulla capacità delle SdS di avere «un significativo impatto sulla programmazione regionale o sulla distribuzione delle risorse». Se da un lato, dunque, vi sono perplessità sulla natura giuridica delle società dalla salute, dall’altro, se ne pone in discussione l’effettiva utilità, con dirette conseguenze sulla loro capacità di gestione. È tuttora aperta la discussione sulla riforma o la soppressione delle sds. 173 La Legge regionale 40/2005 è stata succesivamente modificata dalla Legge regionale 10 novembre 2008, n. 60.

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continuità del percorso diagnostico, terapeutico e assistenziale»174. Tra i principi costitutivi del servizio sanitario regionale, viene ribadita, infatti, la necessità di integrare le «politiche sanitarie sociali con le politiche settoriali che ad ogni livello hanno effetti sulle condizioni di salute e di vita dei cittadini, finalizzata alla promozione della salute, e a concorrere a determinare lo stato di benessere degli individui»175. L’idea di una programmazione di tipo integrata si connette con una concezione della promozione della salute intesa in senso ampio come «insieme degli interventi sui fattori ambientali, sociali ed economici che concorrono a determinare lo stato di benessere degli individui e della collettività»176. Con la norma 41/2005 e le successive modifiche apportate dalla l.r. 83/2009177, il legislatore regionale ha assunto la piena competenza in materia di assistenza sociale, focalizzando l’attenzione proprio sulla costruzione e la disciplina del sistema integrato di servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale. Secondo il costituzionalista Emanuele Rossi, si tratta di «una legge che contribuisce a dare un assetto razionale al modello di welfare sul quale la Regione si è da anni orientata, confermando la scelta per un modello di welfare municipale e di welfare mix coerente con il nostro assetto costituzionale e con alcuni dei principi contenuti nel nuovo statuto regionale»178. Di fatto concorrono alla definizione del sistema integrato non solo gli enti istituzionali, di cui vengono dettagliate le rispettive responsabilità, ma anche i soggetti del terzo settore, del volontariato e del privato sociale179. Le stesse Società della salute nell’esercizio delle loro funzioni si dovrebbero far carico di assicurare anche il coinvolgimento diretto delle comunità locali nell’individuazione dei bisogni di salute e nel processo di programmazione, facendosi così portavoce delle istanze del territorio.

174 Articolo 1 comma 1 lettera e bis della Legge regionale 24 febbraio 2005, n. 40. 175 Articolo 3 comma 1 lettera i bis della Legge regionale 24 febbraio 2005, n. 40. 176 Articolo 6 comma 1 della Legge regionale 24 febbraio 2005, n. 40. 177 La Legge regionale 41/2005 è stata succesivamente modificata dalla Legge regionale 28 dicembre 2009, n. 83. 178 E. Rossi, E. Stradella, La politica regionale in materia di assistenza sociale e sanitaria in Bagnoli P., Carli M., Pizzorusso A. (a cura di), «Il tempo della Regione - La Toscana. II Volume - Un primo bilancio dopo quarant’anni», Consiglio regionale della Toscana, Firenze, 2011. 179 Articolo 2 comma 3 della Legge regionale 24 febbraio 2005, n. 41.

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Sulla base di tali riferimenti normativi e con le attuali incertezze sul futuro180, quattro sono le Società della Salute che ad oggi operano interamente all’interno dei confini della provincia di Pisa:

la Società della Salute della zona Pisana, a cui aderiscono i Comuni di Calci, Cascina, Fauglia, Lorenzana, Orciano Pisano, Pisa, San Giuliano Terme, Vecchiano e Vicopisano;

la Società della Salute della Valdera, a cui aderiscono i Comuni di Bientina, Buti, Calcinaia, Casciana Terme, Capannoli, Chianni, Crespina, Lajatico, Lari, Palaia, Peccioli, Ponsacco, Pontedera, Santa Maria a Monte, Terricciola;

la Società della Salute del Valdarno Inferiore, a cui aderiscono i Comuni di Castelfranco di Sotto, Montopoli in Val d’Arno, San Miniato e Santa Croce sull’Arno;

la Società della Salute dell’Alta Val di Cecina, a cui aderiscono i Comuni di Castelnuovo di Val di Cecina, Montecatini Val di Cecina, Pomarance, Volterra.

I Comuni di Casale Marittimo, Castellina Marittima, Guardistallo,

Montescudaio, Riparbella e Santa Luce partecipano, invece, alla Società della Salute della Bassa Val di Cecina, insieme ad altre amministrazioni locali afferenti alla provincia di Livorno, mentre il Comune di Monteverdi Marittimo afferisce alla Società della Salute della Val di Cornia.

In tema di politiche migratorie le SdS del territorio pisano si ispirano al dettato legislativo regionale. Nel 2009 la Toscana si è dotata, infatti, di una normativa sull’immigrazione che nel panorama nazionale ha rappresentato, in quegli anni, la legittimazione di un modo d’intendere l’accoglienza alternativo alla deriva securitaria del Governo, che, in opposizione alla legge toscana, aveva addirittura presentato ricorso, sollevando alcune eccezioni di incostituzionalità prontamente respinte dalla Corte Costituzionale181. La l.r. 29 del 9 giugno 2009, Norme per

180 Rif. al comunicato stampa della Sds della Lunigiana dell’8 febbraio 2013, Il patrimonio di professionalità racchiuso nella Società della Salute della Lunigiana è destinato a disperdersi, e all’articolo di Toscana Notizie del 9 maggio 2013SdS, le esperienze positive verranno valorizzate e potenziate, Marroni risponde al sindaco di Pontedera. 181 Rif. alla sentenza della Corte Costituzionale n. 269 del 7 luglio 2010, in cui sono dichiarate inammissibili le questioni di leggittimità costituzionale degli articoli 2 e 6 della legge regionale, nei quali sono previsti interventi di tutela non solo per i migranti regolarmente residenti ma anche per i cittadini neocomunitari. Inoltre, i cittadini stranieri

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l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana, fin dal titolo, infatti, tradisce la volontà di promuovere un modello di programmazione delle politiche migratorie per favorire attivamente la partecipazione dei cittadini stranieri nella società civile locale. In particolare, in tema di welfare, la legge regionale garantisce l’accesso ai servizi del territorio ai cittadini stranieri, ribadendo il diritto alla salute e alle prestazioni offerte dal sistema integrato di interventi e servizi sociali a coloro che sono regolarmente soggiornanti. Nello specifico, promuove lo sviluppo di una comunicazione e di una convivenza interculturale attraverso, ad esempio, azioni specifiche finalizzate a garantire parità di condizioni nella ricerca di soluzioni abitative per i cittadini stranieri, l’elaborazione di modelli regionali di protocolli di accoglienza plurilingue per le scuole e per i luoghi di lavoro, la predisposizione di servizi per l’impiego e di mediazione sociale. L’accesso alla rete dei servizi regionali è garantito dal concorso dei diversi soggetti istituzionali – Regione, Province, Comuni e Società della Salute –, che operano ai diversi livelli territoriali, secondo quanto è stabilito, fra l’altro, anche nel Piano di indirizzo integrato per le politiche sull’immigrazione 2012-2015. Tale documento nasce con l’intento di delineare «i riferimenti necessari ad una applicazione organica e completa della nuova legge sull’immigrazione e ha una duplice funzione di raccordo e di coordinamento verticale con le politiche dei diversi livelli di governo locale e orizzontale con le politiche settoriali quali lavoro, istruzione, sanità ecc.»182. In ciascun territorio i contenuti del Piano d’indirizzo regionale dovrebbero poi essere declinati, attraverso un sistema di programmazione puntuale, in maniera differente a seconda delle specificità locali da Province, Comuni e Società della Salute183.

I progetti attuativi del settore immigrazione per il 2012 del piano integrato di salute della SdS pisana, affidati ai soggetti del terzo settore e

comunque dimoranti sul territorio regionale, anche se privi del titolo di soggiorno, in base al comma 35 dell’articolo 6, «possono fruire degli interventi socio assistenziali urgenti ed indifferibili, necessari per garantire il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti ad ogni persona in base alla Costituzione ed alle norme internazionali». 182 Dalla premessa La Legge Regionale 29/2009 Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana - I principi ispiratori e il nuovo modello di governance del Piano di indirizzo integrato per le politiche sull’immigrazione 2012-2015 della Regione Toscana. 183 Per un approfondimento sulle specificità territoriali delle quattro Sds del pisano in tema di implementazione di politiche migratorie si rimanda al capitolo 7.

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dell’associazionismo diffuso si suddividono in quattro categorie distinte. Vi sono gli sportelli informativi, di tipo generico o su specifici aspetti, come l’agenzia casa e lo sportello lavoro. Tra i servizi residenziali, si va dai centri d’accoglienza e gli ambulatori per gli irregolari, fino al progetto SPRAR per i richiedenti asilo ed i rifugiati. Il tema del benessere materno-infantile è accostato a quello della lotta alla violenza di genere, con la predisposizione di percorsi differenziati che comprendono la convivenza guidata per madri con figli minorenni e la casa di accoglienza per donne immigrate. Vi sono poi interventi specifici di accompagnamento e di inserimento abitativo per la popolazione rom.

La SdS della Valdera ha negli anni attivato diversi progetti destinati ai cittadini stranieri che hanno compreso attività di consulenza ed orientamento, servizi di mediazione culturale, laboratori per donne migranti, formazione linguistica e percorsi di sostegno scolastico ai minori d’origine straniera. Dal 2002 è iniziata, ad esempio, l’attività degli sportelli per immigrati che attualmente, con il sostegno dell’Unione dei Comuni e della SdS della Valdera, sono presenti in sei Comuni dell’area, con l’obiettivo di supportare i cittadini stranieri nelle pratiche burocratiche, di fornire consulenza legale, orientamento al lavoro e alla ricerca di una casa e di informare sulle iniziative e sulle opportunità di formazione e finanziamento184.

Nel Valdarno inferiore la SdS, che ha, tra le sue funzioni, quella di attivare progetti per la soddisfazione dei bisogni della popolazione immigrata, gestisce il servizio dei punti informativi per stranieri, mediante l’affidamento a soggetti terzi. Si occupa del coordinamento degli sportelli di San Miniato e di Santa Croce sull’Arno che operano in collaborazione con le agenzie istituzionali. Promuove poi l’attivazione di corsi d’italiano, servizi di mediazione linguistica ed il sostegno scolastico per alunni stranieri degli istituti superiori per il potenziamento delle competenze e per l’apprendimento della lingua ad opera di un’associazione di promozione sociale. Nel 2013 ha sottoscritto un accordo con l’Istituto culturale islamico di Santa Croce per la realizzazione di attività didattiche e culturali destinate a bambini d’origine araba per favorire il mantenimento della lingua, superare l’isolamento e promuovere lo scambio di conoscenze. La SdS del Valdarno Inferiore, insieme alla SdS dell’area pisana e la SdS Valdera, nel 2012 ha aderito e cofinanziato il progetto regionale “Con-trat-To” contro il fenomeno della tratta in Toscana, 184 Informazioni tratte da http://www.sportellostranierivaldera.it

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sostenendo la predisposizione di servizi per l’emersione e l’identificazione delle vittime dello sfruttamento in ambito sessuale e lavorativo.

Tra le sette aree tematiche individuate per la costruzione dell’immagine di salute dell’Alta Val di Cecina, un’attenzione specifica è stata riservata all’immigrazione. Nel piano integrato di salute per il triennio 2006-2008 e successivamente prorogato, per favorire l’integrazione dei cittadini stranieri nel tessuto sociale sono stati potenziati gli strumenti di mediazione culturale ed il sistema degli sportelli informativi. A questi interventi dedicati, si sono affiancati interventi trasversali in tema di collocamento abitativo, percorsi per il lavoro, sviluppo di reti per l’inclusione sociale, prevenzione e supporto delle competenze genitoriali e sostegno economico.

Dall’analisi di alcuni tra i principali progetti promossi dalle SdS della provincia di Pisa in tema di politiche migratorie, a cui, come si vedrà nel prossimo paragrafo, si aggiunge anche l’azione di protezione dei migranti forzati, emerge un quadro variegato. Se da un lato varie e complesse sono le problematiche sociali su cui si lavora, dall’altro i limiti legati ai finanziamenti altalenanti e alle incerte prospettive future riducono la capacità di progettare percorsi di accoglienza ed integrazione che siano sostenibili nel tempo e non meramente episodici.

LE ESPERIENZE PREGRESSE DI ACCOGLIENZA PROFUGHI IN

PROVINCIA «Per tutti gli anni novanta – periodo in cui si è iniziato ad affrontare

in Italia il tema delle migrazioni forzate – l’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati si è basata su interventi autonomi di singole Ong e associazioni, soprattutto a livello locale e tendenzialmente senza alcuna forma di coordinamento o rete»185. Scarne sono le notizie inerenti esperienze di accoglienza profughi nella provincia di Pisa avvenute prima del 1999. Si trova riferimento negli articoli di cronaca locale dell’epoca esclusivamente di un campo predisposto a Tirrenia nel 1997 per l’arrivo di circa 300 persone provenienti dall’Albania presso un ex campeggio della Polizia. Il centro di accoglienza fu attivo per sei mesi

185 M. S. Olivieri (a cura di), La protezione negata. Primo rapporto sul diritto di asilo in Italia, Consorzio italiano di solidarietà, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 125. Questo e-book appartie

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sotto il coordinamento dell’amministrazione comunale e il diretto coinvolgimento delle associazioni locali, fra cui Caritas, Arci, Agesci, Croce Rossa ed il gruppo di protezione civile della Misericordia. Al termine dell’accoglienza, ben 183 persone poterono evitare il rimpatrio e stabilirsi sul territorio. Alcuni ottennero asilo politico e permessi per curare famigliari infermi; altri, invece, grazie alla solidarietà diffusa, trovarono lavoro e poterono regolarizzare la propria situazione186.

Successivamente, il 14 luglio del 1999 il Consiglio italiano per i rifugiati, con il contributo della Commissione europea e del Ministero dell’Interno, avviò il progetto semestrale “Azione Comune” per l’accoglienza dei profughi civili provenienti dal Kosovo, a seguito della guerra che sconvolse la Federazione Jugoslava. Il modello di gestione dell’accoglienza seguito allora anticipa quello promosso dal sistema dello SPRAR. Si basava, infatti, sulla preferenza per piccole strutture sparse su tutto il territorio nazionale e per programmi mirati che andassero oltre il soddisfacimento dei bisogni basilari di vitto ed alloggio, attivando interventi in campo medico, psicologico e legale e promuovendo percorsi di inserimento individuali. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nella valutazione che ne diede, lo definì il primo tentativo strutturato e coordinato di avviare un sistema d’accoglienza per fronteggiare l’arrivo di gruppi numerosi di profughi e sfollati. Furono predisposti trentaquattro centri d’accoglienza in dieci regioni italiane, che alla fine del progetto alla data del 31 dicembre 1999 avevano ospitato un migliaio di persone187. A partire dal gennaio del 2000 fu avviato il progetto “Azione Comune 2000” che, fino ad ottobre dello stesso anno, ripropose il modello d’accoglienza decentrata già sperimentato, estendendo però il target dei destinatari che inizialmente includeva solo Kosovari a tutti i profughi, richiedenti asilo e rifugiati indipendentemente dal paese di origine. In questa seconda fase furono attivi 26 centri dislocati in 10 regioni italiane. La città di Pisa fu coinvolta, insieme ad altre città toscane,

186 Informazioni tratte dai seguenti articoli: (1) Albanesi: i sindaci della provincia in aiuto al Comune di Pisa. Ospiteremo i profughi. In campeggio impossibile vivere d’inverno del 26 settembre 1997 del Tirreno - sezione Pisa; (2) L’Albania si ferma a Pisa di Giampaolo Cerri del 24 dicembre 1997 su VITA; (3) Un lavoro qualificante è stato svolto al campo degli albanesi a Tirrenia. Croce rossa di Pontasserchio in grande crescita del 6 maggio 1998 del Tirreno - sezione Pisa. 187 Le informazioni su “Azione Comune” provengono dal Rapporto Finale del progetto, disponibile al seguente link: http://web.tiscalinet.it/azione-comune/ rapporto_finale.htm

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in entrambe le fasi. L’Arci di Pisa in collaborazione con il Consorzio italiano della solidarietà (ICS onlus) aveva, infatti, attivato un centro d’accoglienza che a fine maggio del 2000 ospitava 26 persone.

Nel 2000 l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI) e l’UNHCR stipularono un Protocollo di intesa sulla promozione e la gestione delle politiche relative all’accoglienza in favore dei richiedenti asilo, dei profughi stranieri e di coloro in possesso di permesso di soggiorno per motivi umanitari188. Il documento sottoscritto dalle due parti traeva fondamento dal riconoscimento del fatto che con l’entrata in vigore della Convenzione di Dublino nel 1997189 l’Italia aveva registrato un considerevole aumento delle richieste d’asilo di cittadini stranieri per i quali non era in grado di assicurare un’adeguata accoglienza in attesa del compimento dell’iter giuridico. Dopo una prima fase di 45 giorni in cui il Ministero dell’Interno provvedeva all’erogazione di un contributo economico, il sostentamento veniva in seguito demandato interamente agli enti locali. Nel Protocollo d’intesa, si conveniva sulla necessità di sostenere e potenziare le esperienze già attive, promuoverne altre e dare vita ad un sistema decentrato e diffuso sull’intero territorio italiano, assicurando il principio della corresponsabilità dei Comuni. ANCI e UNHCR si impegnarono poi a definire gli standard minimi in materia d’accoglienza, coordinare le iniziative, individuare gli strumenti adeguati per il supporto e l’assistenza tecnica e garantire la diffusione di know how e scambi di buone pratiche. Successivamente, in ottemperanza a questo e ad un altro protocollo siglato nell’ottobre del 2000 con il Ministero dell’Interno, venne istituito il Programma Nazionale Asilo (PNA), primo tentativo compiuto di creare un sistema pubblico di accoglienza finalizzato alla costruzione di una rete diffusa di progetti territoriali realizzati da Comuni e terzo settore e coordinati da una segreteria centrale. Per l’attuazione del PNA nel marzo del 2001 fu redatto un invito pubblico ai Comuni italiani a presentare proposte per il finanziamento di servizi congiunti di accoglienza, integrazione di richiedenti asilo e rifugiati, a cui parteciparono fin da subito, in provincia, anche i Comuni di Pisa e Pontedera con esito positivo. Furono presentati 127 progetti, di cui 59 ottennero il finanziamento.

188 http://www.anci.it/index.cfm?layout=dettaglio&IdDett=10668 189 La Convenzione di Dublino (ora Regolamento Dublino II) stabilisce che il primo paese d’arrivo è quello incaricato di trattare la domanda d’asilo.

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Con il supporto economico dei fondi straordinari dell’8 per mille e del fondo europeo per i rifugiati della Commissione europea, venne creato così un sistema d’accoglienza reticolare che coinvolse 150 amministrazioni locali, di cui 60 capofila di progetti territoriali.

Nel 2001 il Comune di Pisa fu ente gestore di un progetto d’accoglienza sostenuto dal PNA e attuato dal comitato locale dell’Arci che prevedeva l’accoglienza per un totale di 18 persone sistemate in appartamento. Come si legge in una scheda di sintesi del progetto, l’obiettivo era «il raggiungimento dell’autonomia dei beneficiari nel più breve tempo possibile, l’acquisizione di conoscenze essenziali per la permanenza sul territorio nazionale/europeo e comunque utilizzabili nell’eventualità del reinserimento nel paese di origine»190. Oltre al vitto e all’alloggio, erano garantiti l’accesso ai servizi del territorio, orientamento, corsi di alfabetizzazione, assistenza sociale e legale, attività per l’integrazione e supporto a percorsi di rientro volontario nei paesi d’origine.

Sin dal 2001, i Comuni di Pisa e Pontedera risultarono destinatari di risorse per l’attuazione del Programma nazionale asilo grazie ai progetti d’accoglienza presentati. Nella tabella sottostante si possono osservare alcuni dati inerenti al periodo 2001-2005: il totale delle persone accolte e la loro condizione giuridica.

Tab. 4. Provincia di Pisa. Totale accolti per progetto territoriale presso il Sistema di protezione asilo, escluse aree metropolitane (dal 1/7/2001 al 31/12/2005).

Progetti Tipologia Pisa PontederaTotale accolti 33 124 Cedolino - 6 Diniego - - Pendente/ricorso 1 20 Protezione umanitaria 4 31 Richiedente asilo 12 12 Rifugiato 16 55 Altro - -

Fonte: Pubblicazione IDOS-EMN191 e Servizio Centrale del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati

190 http://digilander.libero.it/rete.immigrazione.pi/prog02/02arci2.htm 191 C. Ammendola, O. Forti, S. Garavini, F. Pittau, A. Ricci, Strutture ricettive e condizione sociale dei richiedenti asilo all’interno del Sistema di accoglienza italiano, a cura di IDOS-EMN

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Dopo mesi di lavoro sul campo e attività di lobby da parte del terzo settore e degli enti locali coinvolti, con l’articolo 32 della legge Bossi-Fini192, si giunse al riconoscimento normativo del PNA, che assunse il nome di Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR)193.

Con l’istituzione dello SPRAR, «il Servizio centrale raccoglie l’eredità del Programma nazionale asilo (Pna) che ha saputo dare, attraverso il coordinamento e la messa in rete dei servizi offerti dai Comuni a rifugiati e richiedenti asilo, valenza nazionale a interventi prima frammentati sul territorio»194. Il modello SPRAR, per come si è andato definendo negli anni, si fonda su interventi di “accoglienza integrata” che si pongono l’obiettivo di accompagnare i singoli verso l’autonomia, affiancando al supporto materiale ed essenziale, servizi volti all’inserimento socio-economico delle persone.

A livello locale, va dato conto del fatto che il territorio pisano, nel decennio che ha portato alla costruzione e al pieno compimento di un sistema italiano per l’asilo, ha sempre svolto un ruolo attivo, assicurando negli anni l’accoglienza a piccoli gruppi di persone secondo gli standard definiti a livello nazionale. La tabella 5 mostra la capacità ricettiva avuta anno per anno dai due progetti di accoglienza di Pisa e Pontedera a partire dall’istituzione del PNA fino al periodo di ingresso e lavoro nel sistema SPRAR. La variabilità dei posti disponibili talvolta ha dipeso, oltre che da mere questioni di finanziamento, anche dall’attivazione grazie a risorse straordinarie di progetti d’accoglienza aggiuntivi ma di breve periodo e/o destinati a categorie specifiche.

A Pisa il progetto SPRAR è promosso dall’amministrazione comunale, coordinato dalla SdS dell’area pisana, gestito dall’USL 5 e attuato sul terriorio dall’Arci - Comitato di Pisa. La tipologia dei beneficiari è quella di uomini singoli e nuclei famigliari. A Pontedera, invece, il Comune è il soggetto capofila del progetto SPRAR, a cui partecipano anche le amministrazioni di Bientina, Castelfranco di sotto e Santa Maria a monte, con la collaborazione dell’USL 5, e

Punto Nazionale di Contatto, in collaborazione con il Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes e con il supporto del Ministero dell’Interno, Roma, 2005. 192 Legge 30 luglio 2002, n. 189, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo. 193 Per un approfondimento della base legale e delle procedure organizzative del sistema SPRAR rinviamo al capitolo 2 del presente volume. 194 M.S. Olivieri (a cura di), cit., p. 134

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l’associazione Accoglienza Toscana è l’ente gestore. La tipologia dei beneficiari si allarga alle donne singole, donne in stato di gravidanza e donne sole con minori.

Tab. 5. Provincia di Pisa. Posti disponibili previsti da progetto

presso il Sistema di protezione asilo (2001-2010).

Progetti Anni Pisa Pontedera 2001 18 56 2002 12 56 2003 12 56 2004 12 37 2005 12 37 2006 15 23 2007 22 23 2008 21 27 2009 15 23 2010 15 23

Fonte: Rielaborazione a partire dalla banca dati del Servizio Centrale dello SPRAR

Tra le buone prassi raccolte a livello nazionale come esempio da

replicare nei progetti SPRAR195, si segnala l’esperienza di Pisa che ha attivato un accordo informale con una farmacia per l’acquisto di farmaci a prezzo ridotto da parte dei beneficiari, col duplice risultato di effettuare un monitoraggio sulle spese e sul ricorso, talvolta eccessivo, a determinati farmaci. Pontedera, invece, viene indicata come caso da seguire per quel che concerne la creazione di circoli di studio per l’apprendimento della lingua italiana da parte di ospiti accolti nel periodo estivo, quando vi è assenza di corsi istituzionali attivi. Altra esperienza da rammentare è l’adesione del progetto di Pontedera al Fondo di accompagnamento all’integrazione (Fai) 2006/2007 istituito dall’ANCI per la realizzazione di interventi mirati per singoli beneficiari o nuclei famigliari, che ha consentito di sostenere l’avvio di una attività di ristorazione, coprendo alcune delle spese iniziali necessarie196.

195 Servizio Centrale, Raccolta delle Prassi segnalate dagli enti locali dello SPRAR. Anni 2007-2008, a cura del settore Assistenza tecnica e consulenza agli enti locali. 196 M. S. Olivieri (a cura di), cit.

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Stando ai dati raccolti dal Rapporto Annuale SPRAR 2010-2011, in Toscana nel 2007 ai sette enti già titolari dei progetti d’accoglienza, se n’è aggiunto un altro, con cui sono saliti ad otto, numero che si è mantenuto inalterato fino al 2011. I posti finanziati, invece, tra il 2007 e il 2011 sono diminuiti del 2,5% con una punta massima di 224 nel 2008, come si evince dalla tabella che segue.

Tab. 6. Toscana. Posti finanziati con fondi ordinari e straordinari,

valori assoluti, anni 2007-2011.

2007 2008 2009 2010 2011

Posti totali 198 224 196 196 193

Fonte: Rielaborazione a partire dalla banca dati del Servizio Centrale dello SPRAR Per il triennio 2011-2013, sono stati assegnati a Pisa 15 posti e a

Pontedera 20 per la categoria di utenti ordinari. Inoltre nel novembre 2012 il Ministro dell’Interno ha firmato il decreto con il quale, ai sensi dell’articolo 2 dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3965 del 21 settembre 2011, viene finanziato l’ampliamento della rete SPRAR per un totale di 702 posti, con l’obiettivo di rafforzare la capacità d’accoglienza degli enti locali, anche in considerazione delle criticità emerse nel sistema ENA. Tra i Comuni disponibili ad attivare immediatamente ulteriori posti in accoglienza rispetto a quelli finanziati nel 2012, vi sono anche Pisa e Pontedera, a cui rispettivamente vengono assegnati 4 e 5 posti aggiuntivi.

L’aumento dei posti disponibili all’interno del sistema nazionale, per quanto significativo, non ha inciso però sulla marginalità intrinseca dello SPRAR che viene finanziato in base alla disponibilità dei fondi e non sulla base di un’analisi attenta ai bisogni, come ha affermato Daniela Di Capua, direttrice del Servizio Centrale197.

Tra i progetti approvati e ammessi al finanziamento del Fondo Europeo per i rifugiati per l’anno 2010, vi era anche quello presentato dal Comune di Firenze, denominato “Beautiful mind” a cui ha

197 In occasione della giornata di informazione e riflessione comune sugli strumenti disponibili e sulle modalità di avvicinamento all’autonomia lavorativa dei richiedenti e titolari di protezione internazionale inseriti nei percorsi di accoglienza che si è tenuta il 28 giugno 2012 presso la sede della Provincia di Lucca.

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partecipato anche il Comune di Pontedera, insieme ad altre amministrazioni locali toscane aderenti al Sistema SPRAR. Il progetto ha attivato misure di supporto e riabilitazione in favore di soggetti richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale portatori di disagio mentale, attraverso un processo di presa in carico personalizzato, di cui in caso di necessità hanno usufruito anche utenti accolti nel sistema Ena.

Seppure in provincia l’esperienza in tema di asilo maturata all’interno dei programmi nazionali d’accoglienza, prima dell’avvio del sistema ENA, si sia basata sui piccoli numeri, si è trattato di un lavoro di presa in carico continua e competente, che, a detta di molti, si sarebbe potuto valorizzare e mettere a frutto in modo più proficuo nella gestione delle problematiche che hanno accompagnato l’ENA. I NUMERI DELL’EMERGENZA NELLA PROVINCIA DI PISA198

All’inizio dell’emergenza, tra il 4 e il 6 aprile in Toscana giunsero 507

migranti. Di questi, 110 Tunisini199 furono accolti sul territorio provinciale e smistati in quattro strutture approntate appositamente a San Piero a Grado, San Rossore, Montopoli in Val d’Arno e Santa Croce sull’Arno.

Con il passare del tempo ed il rilascio del permesso umanitario a buona parte di questo primo gruppo di Tunisini arrivati in provincia di Pisa, la geografia dell’ospitalità è andata a modificarsi e ad allargarsi sensibilmente.

Due delle quattro strutture utilizzate inizialmente nel frattempo furono chiuse. La “Torretta” a San Piero a Grado fu utilizzata fino al settembre 2011 sotto la gestione diretta, per un primo periodo, della Protezione Civile e poi della Pubblica Assistenza di Pisa. Con l’arrivo dell’autunno la struttura, inadatta per affrontare l’inverno e sovradimensionata rispetto all’effettivo numero delle persone rimaste, fu abbandonata e sostituita da un appartamento nel centro di Pisa. Caso significativo è poi quello della struttura della Piaggerta nella Tenuta di

198 Parte delle informazioni riportate nel presente paragrafo provengono dalle interviste realizzate per il monitoraggio realizzato dall’Osservatorio Sociale Regionale. 199 Riepilogo distribuzione regionale degli arrivi, Toscana - notizie: http://toscana-notizie.it/wp-content/uploads/2011/04/accoglienza-migranti.pdf

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San Rossore, utilizzata per un breve periodo nella primissima fase dell’emergenza coordinata direttamente dalla Protezione Civile e poi riaperta intorno a ferragosto per fronteggiare l’arrivo imprevisto di un gruppo consistente di migranti. Forse proprio per la concitazione di quei giorni e la concomitanza di date, questa struttura non risulta presente nel monitoraggio effettuato nei giorni tra il 16 e il 20 agosto dall’Istituzione Centro Nord Sud della provincia di Pisa, di cui si riportano alcuni risultati nella tabella sottostante. La gestione dell’accoglienza fu per questo secondo periodo affidata alla SdS della zona pisana. Inizialmente gli accordi avrebbero previsto un utilizzo temporaneo della struttura, limitato ai giorni a cavallo dell’estate, soprattutto per il forte isolamento dell’area. Basti pensare che la struttura di San Rossore si trova in una zona protetta del parco regionale, in cui non è possibile muoversi liberamente e in cui vivono animali selvatici. È situata a 4 km di strada sterrata dall’ingresso della tenuta, che dista alcuni km dal centro della città di Pisa. La difficile accessibilità unita alla difficoltà di usufruire dei servizi cittadini ha indotto a cercare soluzioni differenti, anche se l’accoglienza in quella struttura che inizialmente sarebbe dovuta essere limitata a qualche settimana si è protratta fino a novembre, quando gli ospiti sono stati trasferiti in altre sedi a Pisa e a Volterra.

Come mostra la tabella sottostante, già ad agosto 2011, il quadro dell’accoglienza provinciale cambia e si struttura in maniera più compiuta. Otto erano all’epoca le strutture operanti sul territorio provinciale, equamente suddivise tra le quattro SdS locali a cui, nel rilevamento di marzo 2012, si aggiunsero le gestioni di Calci e Cascina.

Prendendo a riferimento i dati raccolti al 28 marzo 2012 dalla Protezione Civile e riportati sotto, si può avere una rappresentazione abbastanza chiara di come il sistema ENA sia stato declinato localmente nella fase di maggiore afflusso. Sono riportate come attive dodici strutture. Ad ogni gestore corrisponde un luogo fisico in cui erano ospitati i richiedenti asilo. L’unico caso che esula da questa norma è quello della Valdera, che complessivamente ha accolto il maggior numero delle persone e che da subito ha scelto una modalità alternativa di lavoro. La gestione operativa è stata affidata e delegata ad un unico soggetto, la cooperativa Il Ponte, che ha coordinato ogni aspetto dell’accoglienza. La responsabilità economica e legale è, invece, stata condivisa tra le amministrazioni locali afferenti all’Unione dei Comuni.

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Così facendo, in linea con la proposta iniziale di un modello capillare e decentrato fatta dal Presidente della Regione, si è deciso di distribuire sul territorio i migranti, che sono stati accolti a piccoli gruppi in tredici appartamenti dislocati su undici dei quattordici Comuni afferenti all’Unione Valdera e su Crespina200.

L’accoglienza in appartamento è stata la via privilegiata seguita da nove gestioni su dodici. Proprio per questo, fatta eccezione per il caso a sè stante della Valdera, di cui abbiamo già detto, per lo più si è trattato di strutture che hanno ospitato piccoli numeri, da un minimo di due persone fino ad un massimo di sei.

Le restanti tre gestioni hanno invece accolto gruppi più grandi. A Santa Croce è stata predisposta un’ala aggiuntiva all’asilo notturno gestito dal Comune in collaborazione con una cooperativa. A Volterra è stata riadattata una vecchia scuola dismessa. A Pisa, invece, la scelta è ricaduta sulla foresteria della Croce Rossa, costituita da una serie di container. La struttura è tristemente nota alle cronache locali perchè le condizioni degli ospiti in questi mesi di permanenza hanno sollevato più volte interrogazioni da parte di consiglieri comunali e regionali e perchè la fine della dichiarata emergenza si è conclusa con l’occupazione degli spazi da parte dei richiedenti asilo.

Tab. 7. Strutture operanti sul territorio provinciale. Confronto presenze.

Comune SdS di

appartenenza

Gestore Presenze al

20/08/ 2011

Presenze al

28/03/2012

Presenze al

26/02/2013

Calci Zona Pisana Unità

Pastorale

della Val

Graziosa

- 3 2

Cascina Zona Pisana Associazio

ne Il

Gabbiano

- 2 -

Montecati

ni Val di

Cecina

Alta Val di

Cecina

Croce

Rossa

Italiana;

Comitato

locale

3 3 -

200 Il Comune di Crespina è uscito lo scorso anno dall’Unione della Valdera.

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Comune SdS di

appartenenza

Gestore Presenze al

20/08/ 2011

Presenze al

28/03/2012

Presenze al

26/02/2013

Montopoli

in Val

d’Arno

Valdarno

Inferiore

Domus

Sociale

6 2 2

Pisa Zona Pisana Croce

Rossa

Italiana;

Comitato

Provinciale

- 28 22

Pisa Zona Pisana Pubblica

Assistenza

di Pisa

14 6 -

Pomarance Alta Val di

Cecina

Welcome in

Val di

Cecina

Onlus

2 2 1

San

Giuliano

Terme

Zona Pisana Cooperativ

a Il Ponte

Onlus

- 6 5

Santa

Croce

sull’Arno

Valdarno

Inferiore

SdS

Valdarno

Inferiore

20 13 12

Vicopisano Zona Pisana Caritas di

Vicopisano

5 5 3

Volterra Alta Val di

Cecina

Santa

Chiara

APSP

19 24 23

Unione dei

Comuni

della

Valdera

Valdera Cooperativ

a Il Ponte

Onlus

25 47 39

TOTALE 94 141 109

Fonte: ns elaborazione su dati raccolti da Provincia di Pisa (al 20 agosto 2011), da Protezione Civile (al 28 marzo 2012) e Regione Toscana (al 26 febbraio 2013).

Stando ai dati raccolti dalla Protezione Civile, al 28 marzo 2012 in

provincia di Pisa erano inseriti nel sistema Ena 141 individui, a fronte delle 134 persone già uscite dal programma d’accoglienza. Tra queste

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ultime, vi sono 14 Tunisini a cui è stata concessa la protezione umanitaria (ex art. 20 DLG n. 286/98) e 120 richiedenti asilo di diversa nazionalità.

Tra i 141 presenti a marzo 2012 sul territorio provinciale, come mostra la tabella sottostante, sono rappresentate ben 19 nazionalità. Si può osservare una netta prevalenza di Nigeriani, che costituiscono il 29% del totale degli accolti, seguiti a distanza dai Ciadiani, che sono poco più dell’11% del totale. La predominanza di migranti provenienti dalla Nigeria è un dato che si rileva chiaramente anche a livello regionale. Come segnala Fabio Bracci nel testo che presenta i risultati emersi dal monitoraggio realizzato dall’Osservatorio Sociale Regionale201, non si tratta però di una specificità toscana ma si registra ugualmente in tutte le regioni per cui è disponibile il dato dettagliato per nazionalità: Emilia Romagna, Puglia ed Umbria.

Tab. 8. Migranti accolti per nazionalità in provincia di Pisa al 28 marzo 2012.

Paese d’origine Valori assoluti

Nigeria 41 (di cui 1 migrante ex art.20 DLG n 286/98)

Ciad 15

Mali 14

Bangladesh 10

Costa D’avorio 9

Togo 8

Ghana 7

Sudan 7

Somalia 6

Niger 5

Pakistan 4

Guinea 3

201 F. Bracci (a cura di) (2012), cit.

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Paese d’origine Valori assoluti

Tunisia 3 (migranti ex art.20 DLG n 286/98)

Senegal 3

Iraq 2

Burkina Faso 1

Liberia 1

Libia 1

Mauritania 1

Totale 141

La tabella qui sotto si propone di operare un confronto tra residenti

stranieri e richiedenti asilo per nazionalità. Ovviamente va premesso che tale comparazione sconta i limiti dovuti al differente periodo in cui sono state effettuate le rilevazioni. Ma al di là dell’analisi del singolo dato, è interessante osservare il quadro d’insieme, che mostra una netta distinzione tra la popolazione che stabilmente ha deciso di insediarsi sul territorio e la collettività giunta a seguito dell’emergenza Nord Africa. È chiaro che si tratti di flussi migratori completamente differenti. Nel caso dei richiedenti asilo si può parlare propriamente di migrazione forzata dalla Libia, istituzionalizzata all’interno del sistema ENA, che ha necessariamente seguito percorsi e canali migratori ben differenti da quelli che hanno guidato le esperienze di migrazione economica e famigliare che caratterizzano maggiormente il tessuto sociale pisano. Si possono osservare alcuni casi emblematici. Ad esempio, a fronte di più di tremila Senegalesi legalmente residenti in provincia, a testimonianza di una lunga e solida tradizione di migrazione in queste zone, attraverso il sistema ENA sono giunti solo tre cittadini originari del Senegal. Vi è, all’opposto, il caso del Ciad: se al 31 dicembre 2010, risultava residente solo un cittadino ciadiano, a marzo 2012 risiedevano in provincia ben 15 richiedenti asilo dello stesso paese.

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Tab. 9. Cittadini stranieri in provincia di Pisa per nazionalità. Confronto tra residenti e inseriti nel sistema ENA.

Paese d’origine Residenti in provincia di Pisa al 31 dicembre 2010

Richiedenti asilo inseriti nel sistema ENA al 28 marzo 2012

Senegal 3092 3

Bangladesh 633 10

Tunisia 535 3 (migranti ex art. 20 DLG n.286/98)

Nigeria 318 41 (di cui 1 migrante ex art. 20 DLG n.286/98)

Somalia 156 6

Pakistan 125 4

Costa d’Avorio 27 9

Togo 27 8

Libia 19 1

Iraq 17 2

Niger 13 5

Ghana 12 7

Sudan 12 7

Guinea 11 3

Liberia 6 1

Mali 3 14

Burkina 2 1

Ciad 1 15

Mauritania 1 1

Fonte: Elaborazione propria su dati Istat e Protezione Civile

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Esaminando la distribuzione per genere delle persone accolte, si nota che la componente femminile rappresenta solo il 15% del totale, a fronte dell’85% costituito da uomini. Dati del genere si discostano un poco dalla media regionale in cui le donne raggiungono a stento il 12%. Si conferma però un andamento in cui la disparità di genere la fa da padrona registrato anche in altri contesti territoriali, come ha documentato efficacemente Fabio Bracci, il quale sottolinea inoltre come “la composizione per genere degli ospiti ENA conferma la tradizionale prevalenza della componente maschile nei flussi per richiesta di asilo, dato che va considerato ancora più significativo ove si noti che sul totale dei permessi di soggiorno rilasciati in Italia nel 2011 si registra un sostanziale equilibrio di genere (le donne sono 49,5% e gli uomini 50,5%)”202.

La quasi totalità delle donne inserite nelle strutture d’accoglienza della provincia di Pisa è di nazionalità nigeriana, fatta eccezione per tre donne del Sudan ed una della Somalia.

Fig. 1. Richiedenti asilo accolti per genere in provincia di Pisa al 28 marzo 2012.

Al 28 marzo 2012 solo quattro sono i minori presenti (tre femmine

ed un maschio). È un numero questo che, a seguito di alcune gravidanze, è andato a crescere nel corso dell’ultimo anno. Nel

202 Ibid.

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complesso, alla stessa data, erano presenti sul territorio dodici nuclei famigliari.

Alla chiusura del sistema d’emergenza, 21 sono i soggetti che appartengono a categorie vulnerabili in carico alle strutture del territorio pisano e 44 sono i soggetti ancora privi di definizione completa dello status giuridico o ancora in attesa del rilascio del permesso di soggiorno.

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CAPITOLO 7

L’IMPLEMENTAZIONE LOCALE DEL MODELLO REGIONALE

Rachele Benedetti

Nei capitoli precedenti sono state discusse le linee strategiche che

hanno orientato, nelle contingenze storiche date, gli interventi di assistenza ed accoglienza die profughi arrivati in Toscana nella primavera-estate 2011 a seguito degli sconvolgimenti avvenuti in Tunisia e Libia. Il compito specifico di questo capitolo è di evidenziare le specificità che hanno caratterizzato l’implementazione a livello locale del piano di interventi predisposto a livello nazionale e regionale, ed in particolare la ricostruzione degli obiettivi e dei quadri strategici ed organizzativi attivati nei territori della provincia di Pisa assunti come oggetti della presente ricerca.

Nell’ambito del progetto di ricerca, l’analisi delle politiche implementate sulle quattro zone socio-sanitarie della provincia di Pisa è stata effettuata attraverso la tecnica del focus groups, valutato come lo strumento più adeguato per cogliere la pluralità dei soggetti coinvolti, le diverse dinamiche e i percorsi attivati, in un processo collettivo di condivisione, confronto e valutazione.

Tale tecnica è infatti finalizzata a sviluppare il dibattito su un argomento e analizzarne i contenuti emergenti, attribuendo una particolare attenzione all’interazione tra i soggetti partecipanti203. Si tratta quindi di un processo in cui il ruolo del ricercatore è esclusivamente quello di guidare il dibattito, facilitando la discussione e la partecipazione di tutti i soggetti presenti, e che vede questi ultimi come soggetti protagonisti di un percorso che si costruisce attraverso la loro interazione, i contenuti che sviluppano e le dinamiche relazionali

203 R.K. Merton, M.O. Fiske and P.L. Kendall, The Focused Interview, New York, Free Press, 1956.

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che si attivano durante l’incontro. Oggetto di analisi, infatti, sono tanto i contenuti che emergono dal dibattito, quanto le interazioni, le relazioni, le dinamiche di ‘alleanze ed opposizioni’ che si creano tra i soggetti, offrendo un contenuto di dati, informazioni e conoscenze maggiore e più articolato204.

Nello specifico, sono stati realizzati due focus group per ognuna delle quattro Società della Salute205: nel primo, l’obiettivo è stato quello di ricostruire il percorso intrapreso nei quattro diversi territori, la rete degli attori attivata, i cambiamenti apportati dal progetto di accoglienza e le peculiarità di ogni caso locale, al fine di delinearne lo scenario, riflettere sui risultati attesi e sulle implicazioni determinate dall’accoglienza. Il secondo, invece, condotto a due mesi di distanza dal precedente e dopo la chiusura del progetto di accoglienza, ha mirato a sviluppare una riflessione sul progetto nel suo complesso, sia valutandone punti di forza e di debolezza, sia aprendo una riflessione sulle strategie e le possibili prospettive per la fase ‘post emergenza’.

Ai focus, hanno partecipato gruppi composti da 4 a 8 soggetti, a seconda della grandezza del territorio e della rete coinvolta nella gestione dell’accoglienza; elemento comune, invece, è stata la composizione del gruppo: in ciascuna SdS, infatti, il gruppo è stato costituito in maniera tale da garantire l’equilibrio tra posizioni, ruoli e funzioni dei partecipanti, al fine di avere una sufficiente eterogeneità di punti di vista e, al tempo stesso, un’adeguata ‘rappresentatività’ (ovviamente non in senso statistico) delle espressioni del territorio. Il gruppo ha infatti visto la presenza sia di soggetti politici ed istituzionali, quali sindaci, assessori, direttori della SdS e coordinatori dei servizi presso i Comuni e/o le Asl, sia di soggetti provenienti dal mondo del Terzo Settore. Si è cercato in questo modo di avere la presenza, a ciascun incontro, di soggetti che (1) avessero una funzione di coordinamento nell’accoglienza, (2) gestissero l’accoglienza, (3) svolgessero un ruolo di supporto attraverso attività integrative (quale

204 D. L. Morgan, Focus groups as qualitative research, Qualitative research methods series, n. 16, 1997; E. F. Fern, The use of focus groups for idea generation: The effects of group size, acquaintanceship and moderator on response quantity and quality, in «Journal of Marketing Research», n. 19, 192, pp. 1-13 205 Nella SdS di Pisa, per motivi di carattere organizzativo, è stato organizzato un solo focus group, comprensivo però di tutti gli argomenti trattati, nelle altre SdS, nel corso dei due incontri.

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per esempio l’organizzazione di corsi di lingua italiana) o (4) facessero riferimento alla rete SPRAR.

Nel primo focus, sul quale si concentra l’analisi di questo capitolo206, la discussione si è sviluppata fondamentalmente intorno ai seguenti nodi tematici:

(1)la ricostruzione dello scenario, della visione e della missione del progetto ENA, con una particolare attenzione nel cogliere l’eventuale distanza che si è venuta a creare tra gli obiettivi del sistema locale prima dell’emergenza e con l’emergenza, sia in termini di strategie che di risorse;

(2)la ricostruzione della situazione alla fine del progetto, al fine di acquisire dati aggiuntivi, verificare il mantenimento/il consolidamento/le variazioni nella rete di attori coinvolta e cogliere le prime eventuali criticità;

(3)l’identificazione dei partner strategici nella gestione dell’accoglienza.

(4)i primi elementi di valutazione, focalizzando su punti di forza e criticità del progetto

Indagando queste dimensioni tematiche, le quattro SdS oggetto di

studio hanno evidenziato interessanti diversità di approcci nel modo di impostare e gestire l’accoglienza, evidenziando come, pur nella cornice di un modello comune quale è quello dell’accoglienza diffusa proposto dalla Regione Toscana, la specificità, le risorse, i punti di forza e di debolezza di ciascun territorio abbiano influito nel delineare percorsi peculiari, caratterizzati da sistemi di relazioni diversi e che hanno dato vita a modelli d’intervento spesso differenti, sia nell’impostazione, che negli effetti.

In maniera trasversale a tutte e quattro le aree coinvolte nell’indagine, tuttavia, si può riscontrare come l’elemento centrale su cui si imperniano le esperienze raccolte attraverso i focus, sia costituito dal concetto di rete e di governance del territorio. Come emergerà chiaramente nei paragrafi successivi, infatti, la valutazione del progetto di accoglienza sviluppata attraverso i focus ha rappresentato un momento di analisi che, soprattutto in alcuni casi, è andata oltre l’esperienza dell’emergenza, aprendo ad una riflessione sul sistema di

206 Per l’analisi dei risultati emergenti dal secondo focus si rimanda invece al capitolo 12.

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governance territoriale e sulla capacità della rete territoriale di fronteggiare le sfide, sempre più numerose, a cui anche (o forse soprattutto) i sistemi di welfare locale sono chiamati a rispondere.

TRA PRIMA E DOPO: OBIETTIVI, STRATEGIE E REAZIONI DEL

TERRITORIO La diversità delle quattro SdS, in termini di esperienza, attori

presenti sul territorio, approcci e modalità di intervento, ha influito molto sulla capacità/possibilità di attivare i percorsi di accoglienza richiesti dall’emergenza. Tra i territori oggetto d’indagine, infatti, si può riscontrare una profonda diversità che rimanda ai diversi percorsi storici, sociali e, soprattutto, economici caratteristici di ciascuna zona. In questo senso, sono emblematici i casi da un lato del Valdarno e della Valdera (che pur se con differenze e peculiarità specifiche, si caratterizzano per una pregressa e consolidata esperienza nel campo dell’immigrazione) e, dall’altro, dell’Alta Val di Cecina (che invece tende a configurarsi come un territorio in cui l’immigrazione ha costituito storicamente un fenomeno sporadico, aumentato solo negli ultimi anni e comunque sempre gestito in un’ottica di ‘ordinarietà’). Prima dell’Emergenza Nord Africa207, infatti, il territorio dell’Alta Val di Cecina non aveva mai conosciuto esperienze di accoglienza profughi e gli interventi del sistema locale in materia di immigrazione erano essenzialmente mirati alla promozione dell’integrazione, che si traduceva in attività di sportello e di mediazione. In particolare è proprio sulla mediazione, vista come strumento essenziale di promozione dell’integrazione, che si concentravano gli interventi, attraverso servizi di mediazione culturale e linguistica nelle scuole e negli ospedali, con specifica attenzione ai consultori, dove è sempre stata presente una mediatrice.

Tali interventi, sottolineano le partecipanti al focus group, erano molto più numerosi durante gli anni della programmazione zonale, mentre nella fase attuale sono stati fortemente ridotti; tuttavia, sia durante quella fase che nell’attuale programmazione integrata, il territorio non ha mai avuto esperienza di accoglienza profughi, quindi non si

207 Da qui ENA.

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conosceva la procedura da intraprendere per le richieste d’asilo e il lavoro da fare in vista delle convocazioni in Commissione. Ne deriva che l’accoglienza richiesta dall’ENA ha comportato una vero e proprio stravolgimento delle attività ordinarie, richiedendo competenze e risorse, anche in termini di capitale umano, nuove, poiché sul territorio non era presente personale preparato a gestire sia la componente burocratica, sia le dinamiche relazionali (problema linguistico, diversità culturali etc…) implicate dalla presenza di profughi e dalla procedura per la richiesta di asilo.

Molto diversa, invece, appare la situazione nella SdS del Valdarno e della Valdera: in Valdera, per esempio, si sottolinea come su tutto il territorio esista una pregressa esperienza di assistenza ai rifugiati attraverso lo SPRAR gestito dall’Arci; si tratta di un’attività iniziata nel 2001 con l’accoglienza per i rifugiati da tutto il Nord Africa, a partire dalla quale si è sviluppato un piano d’intervento capace di gestire le pratiche per la richiesta asilo, fornire accoglienza (con una particolare attenzione per donne e bambini) e, anche, alloggi, grazie all’associazione Casa Valdera, attraverso cui dispongono di diversi appartamenti. In questo caso, quindi, l’emergenza ha impattato sul territorio, apportando alcuni cambiamenti rispetto alla normale gestione di attività ed interventi, ma inserendosi in un contesto maggiormente pronto ad affrontare l’accoglienza. In particolare, i partecipanti al focus group apportano una distinzione per quanto riguarda il cambiamento negli obiettivi prima e durante l’emergenza: per quanto riguarda l’attività pre-esistente di sportello (sportello informazioni, regolarizzazioni etc…) si sottolinea come «questo tipo di intervento non sia cambiato negli obiettivi o nella qualità», ma si sia «piuttosto adeguato alla richiesta del momento e ha sopperito alle eventuali mancanze per far fronte alle esigenze dell’accoglienza». Lo strumento degli sportelli ha costituito tuttavia un’importante facilitazione anche nel caso dell’accoglienza perché, avendo già a disposizione dei mediatori esperti di tutte le pratiche necessarie e di un referente sempre in contatto con la questura di Pisa, è stato più facile ottenere tutte le informazioni necessarie e facilitare le attività di sportello.

Di nuovo, l’ENA ha invece apportato una serie di necessità logistiche per la quotidianità, che sono state gestite utilizzando la rete e le competenza presenti sul territorio (v. paragrafo successivo), non con degli obiettivi ben chiari in termini di prospettiva, strategia e continuità

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(poiché non c’erano indicazioni a proposito), ma con l’obiettivo principale di fronteggiare l’emergenza. I (tentati) obiettivi di inserimento o comunque di avvio di percorsi di integrazione si sono sviluppati progressivamente e con difficoltà, ma non – si sottolinea – per incapacità degli attori locali, quanto per l’impasse tra livello centrale (Ministero, Regione, Provincia…) che non dava risposte chiare, e il livello locale, che voleva attivarsi diversamente.

Affine al caso della Valdera, la SdS del Valdarno inferiore costituisce ancor meglio un esempio di territorio in cui la consolidata esperienza, sia a livello istituzionale che del terzo settore, così come l’interesse e la disponibilità dei soggetti politici, ha permesso di affrontare l’emergenza con un bagaglio solido di risorse e competenze. In questo caso, in particolare, è la forte attrattiva economica che il territorio del Valdarno ha rappresentato per molti anni a innescare la necessità di politiche ed interventi per l’integrazione dei soggetti stranieri già a partire dagli anni Ottanta. Trattandosi di un contesto caratterizzato da un’elevata industrializzazione, fin dagli anni Ottanta il territorio è stato infatti meta di numerosi arrivi di stranieri per motivi lavorativi, seguiti da ricongiungimenti familiari. Si tratta di un’immigrazione per motivi di lavoro (quindi ben diversa da quella attuale per motivi politici), ma che comunque ha posto il territorio di fronte alla necessità di organizzare progetti e interventi di accoglienza già a partire da quegli anni, per rispondere in primo luogo ad un’esigenza abitativa forte e, in generale, ad un’immigrazione che, da occasionale, è diventata presto un fenomeno strutturale. Dal punto di vista politico-organizzativo, i primi interventi in questa direzione risalgono ai tempi dell’accordo empolese-valdelsa negli anni Novanta, fino alla realizzazione di una serie di politiche migratorie che all’inizio avevano come sede l’empolese, ma che si è estesa con i cambiamenti della programmazione regionale e l’entrata in gioco delle programmazioni zonali, mantenendo sempre una forte attenzione ai problemi migratori. In particolare si sottolinea come i PdZ abbiano attuato, indipendentemente dalla forma associativa regolamentata, tutta una serie di progetti a livello di zona che nascevano in maniera informale e poi progressivamente si strutturava da un punto di vista organizzativo. In questa lunga fase i progetti messi in piedi sono stati molti, anche se con differenze da Comune a Comune, ma «sempre comunque con una grande attenzione al problema e alla volontà di lavorare sulla questione immigrazione come su una questione di diritti e

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di cittadinanza». Si è lavorato molto sul piano dell’accoglienza, in primo luogo per quanto riguarda la lingua, anche in collaborazione con la scuola (sia dell’obbligo che superiore) e la questione abitativa, prima attraverso un progetto, poi con la nascita di una società che gestiva appositamente le questioni abitative. Dal 2006-2007, con l’apertura degli Sportelli, si è avuta un’ulteriore evoluzione: gli sportelli, presenti sul Comune di S. Croce e di S. Miniato, finalizzati a dare informazioni e consulenza legale per permessi di soggiorno, ricongiungimenti etc… sono diventati la chiave di volta di un servizio che intercettava tutto quello che stava cambiando sul territorio.

Pur in un contesto di consolidata e condivisa esperienza nel settore, durante il focus si sottolinea più volte come, a livello dei singoli Comuni, non ci fosse nel territorio del Valdarno una particolare esperienza in materia di accoglienza profughi; tuttavia, proprio l’esperienza di lavoro con gli immigrati tanto da parte del pubblico, quanto del volontariato, ha permesso di affrontare l’emergenza con preparazione, sia in termini di esperienza lavorativa, grazie all’ampia disponibilità di mediatori e personale formato, sia di logistica (soprattutto, come si vedrà, nel caso di S. Croce, grazie all’esistenza del centro notturno).

LA RETE DEGLI ATTORI Il modello dell’accoglienza diffusa proposto dalla Regione Toscana,

pur caratterizzandosi in tutti i contesti locali per un’attiva collaborazione del terzo settore e del volontariato nell’organizzare e gestire un’accoglienza dislocata sul territorio, si è sviluppato nella provincia di Pisa attraverso sistemi di intervento differenziati, con una diversa distribuzione di ruoli, funzioni e responsabilità dei soggetti coinvolti e con reti di attori diversificate. In alcuni casi, infatti, si è assistito alla formazione e/o al consolidamento di reti ben equilibrate tra pubblico e terzo settore, mentre in altri è stata messa in luce una non sempre chiara e facile attribuzione di competenze, con conseguenze sul piano della gestione e, soprattutto, della legittimazione degli interventi.

In questa seconda direzione si muovono, benché con caratteristiche e dinamiche molto diverse tra loro, i casi della SdS di Pisa e dell’Alta Val di Cecina. Nell’Alta Val di Cecina, per esempio, non esistendo una

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pregressa rete di lavoro in materia, si è sviluppata un’accoglienza gestita in maniera diversa da Comune a Comune, con una rete di attori anche’essa fortemente differenziata, anche per la forte discrepanza nel numero degli accolti. I Comuni di Pomarance e Montecatini, infatti, hanno gestito l’accoglienza rispettivamente per 2 coppie e per un nucleo familiare con minori, benchè si sia trattato in entrambi i casi di situazioni personali e familiari complesse, che hanno richiesto quindi molto impegno. Nel caso di Pomarance, la rete si è costruita intorno a: associazione Welcome, Comune, sindaco, parroco e 118; con i servizi sociali territoriali ci sono stati solo dei contatti, ma non sono entrati nella rete ed anzi su questo fronte si è rilevato una leggera polemica da parte dell’associazione Welcome. Montecatini, invece, che ha gestito una difficile accoglienza per un nucleo familiare con un minore, ha visto il coinvolgimento quasi esclusivo della Croce rossa, referente sia per l’ospitalità che per l’accoglienza. Si è trattato tuttavia di un’esperienza molto complessa, finita col rimpatrio della famiglia e dopo la quale il Comune si è rifiutato di accogliere altri profughi.

A Volterra, che si è caratterizzata per un’accoglienza di grossi numeri, la rete ha assunto una diversa configurazione: qui, infatti, si è registrata una certa debolezza da parte dell’ente comunale, che non ha rivendicato un proprio ruolo specifico nella gestione ed ha piuttosto teso a delegare tale funzione alla rete che si è costruita – anche in maniera abbastanza informale e in qualche modo ‘improvvisata’, come affermano le partecipanti al focus – intorno alla questione. Nello specifico, la rete si è attivata per esigenza dell’ente gestore, la residenza S. Chiara, che non avendo competenze specifiche in materia, ha attivato l’associazione Welcome, un’insegnante d’italiano, la Croce Rossa e la Misericordia per i trasporti, più alcuni avvocati per i ricorsi. Da parte sua, la residenza S. Chiara ha messo a disposizione un’operatrice, che, pur non avendo competenze specifiche in materia di immigrazione e accoglienza profughi, ha svolto un ruolo di primo piano nella gestione di tutti i percorsi, svolgendo un importante e non facile ruolo di mediazione tra gli accolti e la cittadinanza locale (v. infra). Come è stato più volte sottolineato durante il focus, per il S. Chiara è stata importantissima la collaborazione con l’Associazione Welcome, intercettata perché sono gli unici interlocutori sul territorio che si occupano di tal questioni e quindi necessaria sia per gestire le dinamiche

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burocratiche, sia per offrire un «un minimo di opportunità, in particolare per quanto riguarda lingua e assistenza legale».

Ancor più complessa si è dimostrata la situazione della SdS di Pisa: in questo caso, probabilmente anche a causa delle diverse fasi che hanno caratterizzato l’accoglienza pisana e che hanno visto il susseguirsi di diversi soggetti titolari dell’accoglienza, la rete che si è inizialmente costruita ha visto l’adesione e la disponibilità di molti soggetti del terzo settore e del volontariato locale, che si sono riuniti a partire dal tavolo immigrazione della SdS. Tali adesioni, tuttavia, si sono progressivamente allentate e la rete si è di fatto centrata su: SdS (il cui ruolo però – come ci tiene ad affermare lo stesso referente durante il focus group – è stato principalmente nella fase di avvio, quando cioè la SdS era responsabile per l’accoglienza), Protezione Civile e tutte le organizzazioni che facevano capo alla protezione civile, vale a dire Misericordie, Pubblica Assistenza e Croce Rossa, ARCI, quale soggetto referente per lo SPRAR e alcune cooperative sociali ed associazioni che hanno gestito corsi di lingua e varie iniziative di promozione dell’integrazione (partite di calcio, cene, etc…). Nel caso della SdS pisana, si evidenzia quindi un duplice processo: da un lato, il complesso alternarsi di diversi soggetti titolari del percorso (SdS, Comune, Protezione civile) che indubbiamente ha influito nel mantenimento della rete e nella sua capacità di guidare le dinamiche scaturite dall’accoglienza; dall’altro lo sfaldamento della rete che – come afferma il referente per la SdS – «non ha tenuto» e non è riuscito a far coesistere le due diverse anime, quella logistica-organizzativa della Protezione civile, e quella più propriamente volta alla promozione dell’integrazione del terzo settore.

Nei casi del Valdarno inferiore e della Valdera, invece, l’accoglienza ha seguito una dinamica più lineare, che si è retta su una rete di attori già forte e consolidata, dove l’emergenza ha sì impattato, ma senza alterare eccessivamente la gestione ordinaria ed in cui gli equilibri già definiti tra ruoli, funzioni, competenze e responsabilità hanno permesso un lavoro più improntato all’accoglienza in toto che non alla gestione dell’emergenza.

Nel caso della Valdera, per esempio, si sottolinea come la rete che ha gestito l’accoglienza fosse composta da quegli stessi attori che gestiscono normalmente gli interventi in materia di immigrazione e come tale rete si sia perciò mantenuta inalterata durante tutti i diciotto

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mesi. Questa ha visto la presenza attiva di tutti i Comuni della zona (operazione facilitata dal fatto che la Valdera ha costituito, a partire dal 2008, un’unione tra i 14 Comuni della zona), dei servizi sociali dei rispettivi comuni, dell’ARCI quale soggetto attivo per il protocollo SPRAR, di diverse cooperative sociali, tra cui in particolare Il Ponte (cooperativa coordinatrice dell’accoglienza), Il Progetto e Il Delfino, e l’associazione Casa Valdera, che ha permesso di accogliere tutti i profughi in appartamenti. In questo caso emerge molto chiaramente, e viene sottolineato dagli stessi partecipanti, come l’esistenza di un insieme di soggetti già abituati a lavorare insieme, dotato di competenze specifiche e professionalità, abbia costituito una base importante su cui impostare un lavoro di gruppo, ben articolato e capace di valorizzare tutte le risorse presenti sul territorio. La rete, infatti, ha lavorato prima di tutto per realizzare una chiara distribuzione delle competenze e, secondariamente, per coinvolgere tutte le altre realtà esistenti sul territorio (quali per esempio Pubblica Assistenza, Caritas, associazioni etc…) che non hanno avuto un’attività continuativa in merito all’accoglienza, ma si sono rese disponibili per attività specifiche come per esempio il cibo, i trasporti, etc…

Un’esperienza molto simile si è realizzata anche nel Valdarno Inferiore: benchè con una modalità molto diversa dal punto di vista della gestione dell’accoglienza (v. paragrafo successivo), anche in questo caso si è però evidenziata l’esistenza di una rete molto solida, dotata di grandi competenze e professionalità, grazie ad un’esperienza di lavoro con gli immigrati che costituisce un elemento tipico di questo territorio, e che si fonda su un equilibrato e costruttivo rapporto tra pubblico e privato, dove il primo mantiene le proprie specifiche competenze istituzionali di guida e responsabilità, ed il secondo svolge un importante e continuativo lavoro di supporto e promozione dell’integrazione. L’accoglienza, benchè gestita da un punto di vista logistico in maniera diversa nei due comuni che hanno accolto i profughi, S. Croce e Montopoli, ha visto il coinvolgimento di una rete trasversale di attori, alcuni dei quali hanno svolto il proprio ruolo specificatamente in un comune (come per esempio la diocesi, che si è attivata soprattutto sul comune di Montopoli), ma sempre nella prospettiva di un progetto condiviso. Più specificatamente, la rete ha visto il coinvolgimento dei due comuni interessati e della SdS, della Domus sociale srl (un’agenzia di proprietà dei Comuni per il

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reperimento di alloggi), della diocesi, dell’associazione Le Querce di Mamre, che ha gestito l’accoglienza nel centro notturno, e dell’associazione Arturo, che si è invece occupata di tutta la parte relativa ai corsi di lingua e agli interventi di mediazione, della Cooperativa Lo Spigolo, delle Misericordie e delle Pubblica Assistenza- che hanno fatto fare ai profughi ospitati delle esperienze di volontariato dentro le loro strutture – e la Cooperativa Ponte verde per la gestione dei pasti. Hanno inoltre svolto un ruolo importante la Caritas, che ha supportato economicamente gli spostamenti dei profughi che hanno cercato contatti e/o lavoro in altre zone d’Italia o fuori dall’Italia e tutto il volontariato informale (singoli, famiglie etc…) che si è attivato per dare un supporto (per esempio nel fornire gli abiti).

Comparando i quattro casi locali, quindi, si evidenzia come l’esistenza di una rete di attori e di rapporti solida e con una chiara distribuzione di funzioni, competenze e responsabilità costituisca l’elemento centrale su cui impostare percorsi di accoglienza che, pur tra le criticità che comunque sussistono, riescano a superare la logica della mera emergenza.

L’ACCOGLIENZA NELLE QUATTRO SDS: PERCORSI, APPROCCI

E DINAMICHE Sulla base di quanto descritto fino ad ora, si può intuire come i

percorsi attivati nelle quattro SdS si caratterizzino per approcci, dinamiche e tendenze differenti, sia da un punto di vista organizzativo, sia per quanto attiene ai percorsi di integrazione sviluppati sui territori.

Sotto il profilo logistico, si possono delineare tre modalità d’intervento: l’accoglienza dei profughi in strutture (SdS di Pisa), l’accoglienza di piccoli nuclei distribuiti in appartamenti (SdS Valdera) e un modello ibrido che ha visto l’alternanza e/o la coesistenza di accoglienza in strutture e in appartamenti (SdS Alta Val di Cecina e SdS Valdarno inferiore).

Per quanto riguarda l’accoglienza in grandi strutture, si è trattato solitamente di strutture pubbliche o di proprietà della Protezione Civile, adattate o trasformate in tempi molto rapidi in modo tale da poter rispondere alle esigenze prioritarie (letti, bagni, spazi per mangiare). Anche all’interno di questa modalità si osservano tuttavia delle

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differenze: nel caso di strutture già destinate ad usi di residenza (quali per esempio la residenza per anziani S. Chiara a Volterra o il centro notturno di S. Croce), si è trattato di sistemare gli spazi o, come nel caso di S. Croce, acquisire uno spazio maggiore per avere letti sufficienti, ma avendo già a disposizione strutture quali in primo luogo bagni e mense per la distribuzione dei pasti. Per Pisa la situazione è stata diversa: dopo il danneggiamento, quale manifestazione di protesta di alcuni gruppi di abitanti del litorale, della struttura che l’ospedale S. Chiara aveva messo a disposizione a Tirrenia, la prima accoglienza è stata fatta in due strutture: una a Torretta messa a disposizione dall’Università ed un’altra all’interno del Parco di S. Rossore a Piaggerta. In questo caso le collocazioni, lontane dal centro e da ogni possibilità di relazione con la città, hanno ostacolato la possibilità di integrazione e hanno reso più difficile anche la logistica quotidiana (v. trasporti), per cui poi si è optato per spostare i profughi in alloggi più vicini al centro, presso la ex-sede della Croce Rossa nella zona di Pietrasantina. Anche in questo caso, tuttavia, la sistemazione ha causato alcune rimostranze e critiche, poiché i profughi sono stati accolti in containers abitativi, secondo alcuni attori del territorio non adeguati alla permanenza per molti mesi.

Ancora diversa la situazione a Montopoli: qui, non essendoci strutture già attrezzate come nel caso del vicino comune di S. Croce o come la residenza S. Chiara a Volterra, si è dovuto allestire, similmente a quanto accaduto a Pisa, uno spazio apposito, in questo caso offerto dalla diocesi e che è stato adattato alle esigenze dell’accoglienza grazie ad una pronta collaborazione tra questa ed il Comune. L’accoglienza svolta a Montopoli si caratterizza, rispetto alle altre gestite in strutture, per la sua relatività brevità: Montopoli ha infatti accolto i profughi tunisini che, appena ricevuti i documenti, hanno lasciato il paese procedendo verso la Francia. Per i sei profughi che sono rimasti sul territorio, è stato invece attivato un percorso diverso, in quanto sono stati accolti in due appartamenti grazie alla collaborazione con una srl pubblica che lavora per la ricerca di appartamenti per persone in situazioni di vulnerabilità. Il Valdarno inferiore, quindi, ha impostato un’accoglienza diversificata, così come l’Alta Val di Cecina: qui, infatti, all’accoglienza per grossi numeri gestita a Volterra attraverso l’istituto S. Chiara, si è affiancata un’accoglienza per numeri ben più limitati svolta dai comuni di Montecatini e Pomarance, che hanno accolto

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rispettivamente una famiglia con minore e due coppie, optando per la soluzione degli appartamenti.

La scelta esclusiva dell’alloggio in appartamenti è invece il tratto distintivo della Valdera: in questo territorio, infatti, grazie alla collaborazione dell’associazione Casa Valdera, si è preferito impostare l’accoglienza alloggiando tutti i profughi in appartamenti distribuiti sui vari comuni, in quanto ritenuta la soluzione migliore per promuovere l’integrazione dei profughi con la cittadinanza locale, la conoscenza reciproca e, progressivamente, l’apertura alla diversità anche per quei comuni più piccoli ed interni, in cui l’immigrazione è ancora un fenomeno limitato. In questa prospettiva, si evidenzia come la modalità alloggiativa possa costituire, di per sé, un fattore di promozione o, al contrario, di ostacolo, alla socializzazione ed all’integrazione. E questo sia perché, come evidenziato nel caso della Valdera, la sistemazione in appartamenti ha teso a favorire le dinamiche di integrazione, o quanto meno di relazione, informali, sia perché là dove i nuclei erano più piccoli, anche la possibilità da parte degli operatori di seguire i percorsi degli accolti è stata maggiore. A questo proposito, per esempio, le operatrici che hanno operato nell’Alta Val di Cecina sottolineano chiaramente gli sviluppi e gli esiti diversi dei due percorsi intrapresi: a Volterra, dove sono stati alloggiati presso il S. Chiara una cinquantina di profughi, le dinamiche di interazione e integrazione col territorio sono state molto limitate, ed al tempo stesso anche quelle tra profughi non sono state facili, poiché la prolungata coabitazione tra gruppi etnici, spesso ostili tra loro, hanno acuito dinamiche di razzismo interne, con conseguenti rapporti squilibrati di autorità/sudditanza tra le varie etnie. Dal punto di vista del percorso di richiesta asilo, poi, la convivenza in una grande struttura ha reso meno proficui i corsi di lingua, poiché il malcontento e la noia per le lunghe attese hanno progressivamente allentato l’interesse per l’apprendimento in un contesto di influenze reciproche.

Al contrario, al di là delle situazioni personali spesso complesse, l’accoglienza delle coppie in appartamento ha permesso di ottenere sia una maggiore integrazione sul territorio, sia una maggior efficacia dei corsi di lingua (poiché gli insegnanti svolgevano lezioni appositamente per loro e non rivolte a 40-50 persone), consentendo quell’apprendimento della lingua fondamentale per migliorare/favorire la possibilità di integrarsi, trovare un lavoro e, ancor prima, riuscire a

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gestire meglio la convocazione in Commissione. Nel caso dell’Alta Val di Cecina, quindi, l’accoglienza in appartamento ha rappresentato un elemento propulsivo per l’integrazione, mentre, al contrario, l’esperienza in struttura ha fatto registrare diverse criticità: per l’operatrice che ha gestito l’accoglienza al S. Chiara, qui il percorso si è talmente allentato che chi è riuscito ad uscirne positivamente (per esempio con una proposta di lavoro), lo ha fatto solo grazie ad una capacità e volontà soggettiva, ma non per una reale capacità d’impatto del percorso di accoglienza messo in atto dalle istituzioni.

Ovviamente questo non significa che, al contrario, l’accoglienza di grossi numeri in strutture sia destinata a fallire: là dove questa è stata supportata da specifiche competenze, professionalità e da un lavoro di rete ben strutturato, si è potuto comunque attivare percorsi di orientamento, promozione dell’integrazione sociale e lavorativa. In questo senso il caso di S. Croce è emblematico: qui, grazie alla rete di attori e alle competenze acquisite in anni di lavoro con gli immigrati, l’accoglienza è stata fin da subito impostata in una logica che ha cercato di andare oltre l’emergenza, proponendo non solo corsi di lingua, ma anche esperienze di volontariato presso cooperative ed associazioni, dando così la possibilità ai profughi di attivarsi, e supportando, anche economicamente, gli spostamenti di coloro che volevano cercare lavoro in altre zone d’Italia o fuori Italia.

Si può quindi affermare che la logistica dell’accoglienza ha sicuramente un ruolo rilevante nello sviluppo di tutto il percorso successivo, ma che al di là di questa l’elemento centrale e prioritario è indubbiamente costituito dalle risorse in termini di conoscenza, competenza e lavoro di rete, che si possono mettere in campo. Dalle esperienze analizzate, infatti, emerge come il tentativo di superare la logica emergenziale e di attribuire al percorso di accoglienza una valenza più ampiamente orientata all’inserimento ed all’integrazione dipenda fortemente dalla capacità di lavorare in rete dei territori. Sotto questo punto di vista, benchè con sviluppi ed esiti diversi, si evidenzia come tutti e quattro i territori abbiano cercato di promuovere percorsi di inserimento: prima di tutto, i profughi hanno ottenuto il libretto formativo per il riconoscimento delle loro competenze, inoltre sono stati organizzati dei corsi di formazione (per esempio l’hcpp) finalizzati ad aumentare le possibilità di trovare un’occupazione. Inoltre sono state promosse, come si è già visto, delle esperienze di volontariato utili ad

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attivare i profughi e a far conoscere loro il contesto in cui si trovavano, e, in alcuni casi, si è riusciti anche ad avviare dei percorsi di inserimento occupazionale in aziende del territorio, come per esempio nel Valdarno e nell’Alta Val di Cecina. In quest’ultimo caso, in particolare, è interessante notare come tale attività sia stata svolta dall’operatrice del S. Chiara in maniera informale, cioè svincolata dal percorso di accoglienza istituzionale, ma facendo leva su canali personali e conoscenze del territorio, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di inserire alcuni giovani profughi in aziende agricole della zona per lavori stagionali, quale primo step di un percorso di progressiva autonomia.

Nell’ultima fase dell’accoglienza, infine, essendo stato dato il via libera dalla Regione alla possibilità di tirocini retribuiti anche per i profughi, diversi territori si sono mossi per attivarli, anche se è stato sottolineato come tale provvedimento avrebbe potuto dare maggiori risultati se sbloccato nei mesi precedenti e non nella fase di chiusura dell’accoglienza.

Guardando nel complesso alle ‘strategie’ implementate nei diversi territori, si possono quindi notare sia elementi trasversali ai diversi percorsi, sia tratti e dinamiche peculiari; un aspetto sicuramente interessante è però rappresentato dal modo in cui si è costruita questa strategia: in almeno due casi tra quelli analizzati, i partecipanti ai focus group dichiarano esplicitamente che non c’è stata una strategia vera e propria, ma che si è andati avanti «senza obiettivi ben chiari in termini di prospettiva, strategia e continuità (poiché non c’erano indicazioni a proposito), con l’obiettivo principale di fronteggiare l’emergenza»; gli obiettivi di progetto, di costruzione di un minimo di prospettiva sono arrivati successivamente, con tempi e modalità diverse da contesto e contesto. Da notare come questa mancanza di strategia iniziale non sia riconosciuta solo da quei territori meno preparati a gestire l’accoglienza, ma anche in contesti caratterizzati da una buona capacità di fronteggiamento, reti e competenze solide. Questo perché, come afferma la coordinatrice del progetto accoglienza in Valdera, la mancanza di strategia non è da imputare agli attori del territorio, quanto all’«impasse tra livello centrale (intendendo con questo Ministero, Regione, Provincia…) che non dava risposte chiare, e il livello locale, che voleva attivarsi diversamente». Tale impasse, come si vedrà nel paragrafo successivo, ha influito molto sulla possibilità di impostare fin

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dall’inizio percorsi definiti, in alcuni casi ostacolando anche la chiara distribuzione delle competenze e la definizione di ruoli, funzioni e responsabilità.

VERSO LA CHIUSURA DEL PROGETTO DI ACCOGLIENZA: PUNTI

DI FORZA E CRITICITÀ DEI PERCORSI TERRITORIALI Con il 28 febbraio si è formalmente chiuso il progetto accoglienza;

per i territori, tuttavia, permangono ancora molte situazioni in sospeso, sia perché in alcuni casi si attendono ancora convocazioni e permessi, sia perché si avverte l’esigenza di impostare un percorso di sostegno ed accompagnamento nella difficile transizione verso l’autonomia per coloro che, seguendo la circolare del 18 febbraio 2013, sono rientrati nella categoria di vulnerabili e perciò supportati fino a giugno attraverso un percorso più graduale di fuoriuscita dal programma, o per coloro che hanno deciso di restare sul territorio ospitante. Si tratta, quindi, di una situazione complessa, che richiama ad una responsabilità condivisa, ma che, in alcuni contesti, rischia di sfuggire in un continuo rimando di responsabilità che aggrava l’incertezza tanto per i profughi quanto per gli attori locali.

In questo contesto, si può intuire come la valutazione del percorso tenda a variare a seconda dell’esperienza realizzata, anche se alcuni elementi, soprattutto per quanto attiene alle criticità riscontrate, appaiano trasversali alle diverse situazioni.

Per quanto riguarda gli elementi positivi del percorso, bisogna apportare un’importante distinzione tra quelle esperienze territoriali che hanno funzionato bene e quelle che, invece, hanno riscontrato maggiori difficoltà nell’intraprendere e sviluppare un percorso di accoglienza condiviso e integrato. Nel primo caso, infatti, pur nella complessità della situazione e la fatica dovuta alla lunga durata del percorso, si sottolineano alcuni, fondamentali elementi positivi. Là dove, infatti, il percorso di accoglienza si è tradotto in un percorso progettuale condiviso, con una chiara distribuzioni di ruoli, poteri e funzioni, gli attori sottolineano come tale percorso abbia costituito un’esperienza importante, grazie alla quale si sono maturate e/o consolidate competenze e grazie al quale si è potuto soprattutto rafforzare un lavoro di rete, che, seppur già presente su territorio, ha in questa

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occasione trovato un’opportunità di arricchimento e di sviluppo. In questi casi, infatti, si evidenzia come anche quei rapporti tra attori che prima dialogavano e interagivano solo su questioni specifiche e definite, ora si siano trasformati in rapporti più solidi, di reciproco supporto e funzionalità. Tale relazione vale sia per quanto riguarda i rapporti tra soggetti istituzionali e terzo settore, sia tra gli stessi attori del terzo settore: soprattutto in rapporto a questi ultimi, come ha esplicitamente dichiarato la coordinatrice del progetto per la Valdera, questa esperienza ha permesso di superare quella logica di chiusura nel proprio circuito di competenze e relazioni, frutto della routine lavorativa, aprendosi al confronto e alla collaborazione quotidiana con gli altri attori, non più visti come potenziali competitors, ma anzi proiettati in un percorso di integrazione tra funzioni, capacità e specificità delle diverse organizzazioni.

In questa prospettiva, l’emergenza ha costituito uno stimolo forte per rafforzare lo spirito solidaristico della comunità, che a colmato i vuoti e le assenze dei livelli istituzionali centrali, facendo leva sulla capacità del territorio di far fronte in maniera collettiva, condivisa e consapevole alle difficoltà. È il caso, per esempio, dell’Unione dei Comuni della Valdera, dove prima del provvedimento che ha garantito la buonuscita di 500 euro ad ogni accolto, era stata decisa un’autotassazione per provvedere autonomamente a garantire loro una buonuscita. Si è trattata di una decisione presa in maniera sinergica da tutti e 14 i comuni coinvolti, con la partecipazione anche di quei comuni che non hanno ospitato profughi208, ma che erano comunque dentro al progetto e hanno condiviso ogni fase.

Nei contesti in cui il percorso ha trovato maggiori ostacoli, o per la minor preparazione del territorio, o per la difficoltà di gestire il percorso con una regia chiara in termini di responsabilità e ruoli, la valutazione sui punti di forza del programma di accoglienza è indubbiamente più difficile: qui, infatti, la complessità e la difficoltà nella gestione dei rapporti in mancanza di una rete ben solida ha inciso molto nello sviluppo del percorso. Anche in questi casi, tuttavia, nonostante le difficoltà e, soprattutto in un caso, le conflittualità nate nello svolgimento del percorso (non solo nel rapporto con gli accolti,

208 Durante il focus si sottolinea esplicitamente come alcuni comuni non hanno ospitato profughi, ma solo per la casualità nella fase di dell’assegnazione, poiché la disponibilità c’è stata da parte di tutti.

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ma anche tra gli stessi attori a diverso titolo coinvolti nelle attività di accoglienza), viene messo in luce un importante punto di forza, vale a dire l’acquisizione di nuove competenze che, sul piano soggettivo, sono state sviluppate e acquisite dai singoli operatori nello svolgimento delle loro attività. Mentre, quindi, nei contesti dove la rete ha funzionato, l’elemento di forza del progetto si gioca sul piano delle relazioni e sul consolidamento dei rapporti in una prospettiva che va oltre l’emergenza, nei contesti caratterizzati da percorsi più difficili e meno sinergici, gli aspetti positivi di questa esperienza si legano alla dimensione soggettiva, all’arricchimento formativo e culturale che gli operatori hanno potuto acquisire dal percorso svolto.

Trasversali alle diverse esperienze, invece, sono gli elementi di criticità riscontrati dagli attori coinvolti nel percorso di accoglienza. In particolare, si possono distinguere cinque dimensioni critiche, legate a specifici e differenti ambiti, quali: (1) il progetto di accoglienza; (2) le dinamiche istituzionali; (3) il rapporto con la questura e la burocrazia; (4) la rete; (5) il contesto.

(1) Criticità del progetto. In merito all’impostazione del progetto sono

fondamentalmente due le critiche che vengono fatte: da un lato, infatti, si critica la scelta fatta dal Ministero di inserire i profughi in un percorso di richiesta asilo, un percorso molto lungo e non adeguato alla situazione contingente; dall’altro, si critica proprio l’estrema lunghezza del progetto, protratto in un clima di incertezze, di attese e di ritardi, creando anche episodi di tensione nel rapporto tra operatori e accolti, che vedevano nell’operatore l’unica interfaccia istituzionale con cui interagire. In questo senso, del progetto si critica anche la mancanza di risorse adeguate per proporre dei percorsi di accompagnamento e, soprattutto nella fase di chiusura, dei percorsi di uscita più graduali: in molti, infatti, ritengono controproducente per gli stessi profughi (che non comprendono questo cambiamento) passare «da un’assistenza totale – valutata di per sé in maniera molto critica – ad un azzeramento di tutti i supporti» e propongono un’uscita “più soft”, quale per esempio lasciare l’appartamento, ma togliere la risorsa del pocket money, in modo da consentire un percorso progressivo verso l’autonomia. Tale scelta, viene sottolineato, doveva tuttavia essere decisa a livello ministeriale con anticipo, perché è impossibile deciderla e gestirla arrivati alla fine del percorso di accoglienza.

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Sempre con riferimento alla fase di chiusura del progetto, poi, si critica il modo in cui è stata gestita la questione dei rimpatri: da un lato, si sottolinea come i profughi sarebbero stati maggiormente disponibili al rimpatrio, se fosse stato possibile in Libia e non nel proprio paese d’origine, come disciplinato dalla normativa internazionale209. Dall’altro lato, si evidenzia come, se sostenuti da una cifra economica funzionale non solo a sostenere le spese di viaggio, ma anche ad avere un minimo di autonomia dopo l’arrivo, diversi profughi avrebbero accettato di partire, poiché raramente l’Italia costituisce per loro un paese attrattivo ed in cui restare. In questo senso, la decisione arrivata con la circolare ministeriale del 18 febbraio, che prevede la corresponsione di 500 euro pro capite per l’uscita dal percorso di accoglienza, è stata vista come un- seppur tardivo- accoglimento delle proposte più volte avanzate dagli operatori durante il progetto.

(2) Dinamiche istituzionali. Le criticità riscontrate nel modo di agire e di

gestire il percorso da parte delle istituzioni sono numerose, e coinvolgono tanto le istituzioni centrali, quanto quelle locali. In primo luogo, come in parte è già emerso dal punto precedente, si riscontra una certa perplessità sulle scelte del Ministero: la scelta di far entrare tutti nel percorso di richiesta asilo non è stata condivisa con gli attori territoriali, che ritengono tale scelta lunga, farraginosa, difficile e non adeguata data la situazione dei profughi, non in linea con la normativa internazionale per la richiesta di asilo. Di fatto tale situazione ha determinato la messa in pratica di un percorso lento e non ben gestito, dagli esiti incerti e che, alla fine del percorso di assistenza, ha posto il Ministero di fronte alla necessità di intervenire su un percorso non concluso (da qui la scelta di riconvocare coloro che hanno avuto esito negativo nella prima Commissione e di concedere più permessi possibile).

Diverse critiche vengono tuttavia mosse anche agli altri livelli istituzionali, in particolare a Regione, e Provincia. La Regione, per alcuni, è infatti responsabile di avere proposto un modello che «di fatto

209 Nonostante la guerra, infatti, molti accolti avrebbero preferito tornare in Libia, dove avevano un lavoro o avevano comunque contatti utili per ritrovare un lavoro, piuttosto che tornare nel proprio paese d’origine, nel quale spesso li attendono situazioni difficili (conflitti tra gruppi etnici, povertà, etc…) e dal quale dovrebbero quindi intraprendere nuovamente nuovo viaggio per emigrare in un altro paese, co tutte le difficoltà, i rischi e le spese che questo comporta.

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è stato semplicemente uno scarica barile ai territori, che si sono dovuti arrangiare». Tale situazione, insieme alle difficoltà burocratiche che hanno caratterizzato tutti i territori (v. punto successivo), ha creato un sistema in cui «non c’era tempo né modo per pensare ad un dopo». In questa prospettiva, è sempre sulla Regione che ricade l’accusa di aver attivato solo con molto ritardo, rispetto alle proposte degli operatori, alcuni strumenti di inserimento lavorativo quali i tirocini, che avrebbero permesso, se istituiti prima, di promuovere alcune possibilità in più.

Particolarmente critiche, poi, sono le valutazioni apportate nei confronti della Provincia di Pisa: se, infatti, in diversi territori si lamenta la mancanza di un percorso di accompagnamento da parte delle istituzioni locali, è in particolare sulla Provincia che ricadono le note critiche degli attori coinvolti, in quanto molto assente nel percorso, rispetto ad altre Province, e con scarsa capacità di definire con chiarezza ruoli e funzioni210.

In maniera trasversale a Provincia, Protezione Civile e Regione, viene inoltre criticato il modo con cui si è gestito il percorso nella fase successiva alla prima emergenza, in quanto non sono state date indicazioni, non hanno supportato il programma ed hanno convocato i territori solo con molto ritardo, quando rivedere la programmazione era ormai difficile.

Con riferimento al rapporto tra i diversi livelli istituzionali, infine, si osserva come in molti territori sia mancata una governance dei Comuni e una mancata assunzione di responsabilità nella gestione dell’emergenza da parte del pubblico, con un conseguente errore da parte del terzo settore che ha assunto una responsabilità non di sua competenza. Come chiaramente sottolineato da un’operatrice locale, infatti,

«ci sono zone dove la parte pubblica non ha fatto il proprio ruolo e lo ha delegato a soggetti come Croce rossa e Pubblica Assistenza e dove il terzo settore ha fatto un grande errore ad accettare questo ruolo: la condizione ottimale per una buona accoglienza deve essere il ruolo dell’ente pubblico di governo della cosa, poi il volontariato è indispensabile, perché il pubblico senza il volontariato sarebbe con le mani legate, però la parte pubblica non può cedere questo ruolo».

210 In particolare, viene criticata la confusione che si è creata con la sovrapposizione di ruoli tra Provincia e Istituzione Nord Sud, senza che la prima riuscisse a dare chiare e precise indicazioni su chi e con quali funzioni dovesse agire.

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Al contrario, là dove la parte pubblica ha mantenuto il proprio ruolo

di responsabilità e coordinamento, dando una regia al progetto, il terzo settore ha trovato uno spazio di intervento proprio e con una chiara legittimazione, che ha permesso l’attivazione di interventi condivisi e integrati tra pubblico e privato.

(3) Rapporti con la questura e la burocrazia. Un elemento riscontrato in

maniera trasversale a tutte le realtà indagate, è sicuramente il difficile rapporto instauratosi con la questura e, conseguentemente, la difficile gestione della procedura burocratica per il rilascio dei permessi, con procedure lente, farraginose e spesso poco chiare. In particolare, si sottolinea chiaramente e più volte come la questura sia intervenuta in maniera lenta, caotica, a volte dimostrando anche una scarsa competenza e/o attenzione211, facendo dilatare le attese e, di conseguenza, le tensioni e le incomprensioni. Si denuncia in particolare come questa modalità di intervento abbia creato una distanza insormontabile tra soggetti e istituzione, con una questura che sembra trattare i profughi come «macchine che a un certo punto le puoi spegnere».

(4) La rete. Come emerso già nei punti e nei paragrafi precedenti,

uno degli elementi di maggiore criticità va ricercato nell’esistenza e nelle modalità di funzionamento della rete attivata, che ha costituito la chiave di volta per la buona riuscita del progetto. Come evidenziato nel punto 2, infatti, là dove c’è stata una proficua collaborazione tra pubblico e privato, il progetto è riuscito ad andare oltre la logica dell’emergenza; là dove, invece, la rete o non era ben consolidata, o comunque non ha riuscito ad instaurare un meccanismo di relazioni funzionali, si è determinata un’impasse che ha ostacolato, a volte affaticando il lavoro, a volte irrigidendo anche rapporti e relazioni, a scapito del lavoro da svolgere e del percorso da sviluppare con gli accolti.

211 In particolare questa critica è rivolta alla questione del rilascio dei documenti con i nomi sbagliati e quindi non utilizzabili. Si tratta di un episodio riscontrato in tutti i territori e ripetuto nel tempo, fino all’arrivo dell’ultima circolare, quando nel giro di un mese i documenti sono arrivati con i nomi corretti. Tale coincidenza ha suscitato in alcuni operatori delle perplessità circa l’attenzione con cui il lavoro è stato svolto nei mesi precedenti.

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(5) Il contesto. Sussistono infine anche degli elementi di contesto che hanno a diverso titolo impattato sul progetto, a livello nazionale e locale. A livello nazionale, in particolare, è la crisi politica ed economica che ha reso ancor più difficile il percorso di accoglienza: sotto il profilo politico, infatti, si sottolinea come l’ENA si sia inserita in una fase istituzionalmente complessa, caratterizzata dal cambio di governo e la cui fine ha coinciso con la campagna elettorale per le ultime elezioni politiche. L’avvicendarsi di governi diversi, da un lato, e le preoccupazioni per la campagna politica, dall’altro, secondo gli interlocutori hanno influito sul percorso, sia perché è mancata una visione strategica complessiva e di prospettiva, sia perché le ‘emergenze’ politiche del momento hanno in qualche modo distolto l’attenzione dalla questione profughi.

Sotto il profilo socio-economico, poi, la crisi economica ha acuito la difficoltà di sviluppare una strategia di prospettiva, perché i tagli alla spesa pubblica rendono sempre più difficile la programmazione e gli interventi non riescono ad avere una prospettiva di lungo periodo. In particolare, la crisi economica sembra aver impattato in maniera forte sui contesti locali, che si sono trovati a dover affrontare un’emergenza in una fase in cui i territori stessi vivono un’emergenza socio-economica probabilmente senza precedenti. In questo senso, per i comuni in particolare la difficoltà è stata quella di trovare un equilibrio tra i bisogni espressi dalla cittadinanza locale e gli obiettivi dell’accoglienza, cercando costantemente un equilibrio ed evitando l’insorgere di una «guerra tra poveri». Inoltre, la mancanza di risorse e la difficoltà nell’offrire possibilità d’inserimento occupazionale “in territori in cui gli abitanti stessi hanno difficoltà a collocarsi”, ha reso ulteriormente difficile la possibilità di sviluppare percorsi post-emergenza, dotati di una prospettiva e di una, seppur minima, progettualità.

ALCUNI ELEMENTI DI SINTESI Cercando di dare uno sguardo di sintesi alle dinamiche descritte nei

paragrafi precedenti, si può affermare come l’elemento centrale emergente dai diversi casi locali sembri essere quello della rete degli attori e delle relazioni stabilite tra questi. In altri termini, la capacità di fronteggiare l’emergenza e la buona riuscita del percorso di accoglienza

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si definisce in relazione al tipo di soggetti chiamati a gestire il percorso ed alle modalità con cui questa rete ha impostato l’accoglienza. In questa prospettiva, un ruolo prioritario è assunto dalla chiara distinzione di ruoli e funzioni dei soggetti coinvolti (con una particolare attenzione al ruolo svolto dalla parte pubblica nella definizione delle attività), quale step fondamentale nella legittimazione di un percorso che altrimenti ha rischiato di sfaldarsi e allentarsi, restando in un’ottica puramente emergenziale. Come sottolineato da diversi operatori, solo là dove c’è stata fin dall’inizio «chiarezza, corresponsabilità e condivisione» si è riusciti a sviluppare un percorso capace di andare oltre la logica dell’emergenza e sviluppare una progettualità.

Una progettualità, per altro, che non costituisce solo l’esito del percorso di accoglienza, ma rappresenta anche un elemento importante su cui costruire o rafforzare le future attività, sia nella gestione ordinaria, sia nelle emergenze. A questo proposito, c’è unanimità nell’evidenziare che la categoria stessa di emergenza è forse fuorviante, poiché il contesto, internazionale, ma sempre più spesso anche locale, richiede di guardare alle esigenze della popolazione in un’ottica non di ‘emergenzialità’, ma di normalità: una normalità sicuramente più complessa e a cui è più difficile dare risposte, ma che non si può pensare costituisca solo un fattore occasionale ed eccezionale. In questa prospettiva, la sfida che ha posto l’ENA è proprio quella di sviluppare un approccio ed una modalità d’intervento per un fenomeno che tende a costituire un tratto sempre più comune e trasversale ai nostri territori e che richiede lo sviluppo o il potenziamento di apprendimenti e competenze che passano, prima di tutto, dal saper lavorare in rete.

Si tratta, insomma, come chiaramente messo in luce in alcuni contesti locali, di lavorare sulla governance del processo, vale a dire sull’insieme di meccanismi, strumenti e, soprattutto, relazioni, attraverso i quali si costruisce il percorso stesso212 (Jessop 1999, 2000, 2002). In

212 B. Jessop, The Governance of Complexity and the Complexity of Governance: Preliminary Remarks on some Problems and Limits of Economic Guidance, Department of Sociology, Lancaster University, 1999 http://www.comp.lancs.ac.uk/sociology/papers/Jessop-Governance-of-Complexity.pdf accessed 29 November 2003; Id., Governance Failure. In Stoker, G. (ed.), The New Politics of British Local Governance, 2000 London, Macmillan, pp. 11-32; Id., Governance and Metagovernance: On Reflexivity, Requisite Variety, and Requisite Irony, Department of Sociology, Lancaster University, 2002, http://www.comp. lancs.ac.uk/sociology/papers/Jessop-Governance-and-metagovernance.pdf> accessed 5 December 2003.

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questa prospettiva, l’obiettivo non è solo il risultato strettamente connesso al tipo di intervento, ma è il processo stesso, quale strumento di apprendimento e di cambiamento e come opportunità di operare criticamente in un contesto che si struttura nel sistema di relazioni intessute sul territorio a livello istituzionale, non istituzionale e, anche, informale. Tale approccio, quindi, non chiama in causa l’emergenza Nord Africa e basta, ma richiama piuttosto alla necessità di sviluppare o consolidare un approccio che diviene sempre più trasversale ad ambiti di intervento, di programmazione e di progettazione, soprattutto in campo sociale, socio-sanitario e socio-assistenziale. In questo senso l’esperienza apportata dell’ENA non si esaurisce con la chiusura del progetto, ma apre ad una riflessione su nuovi modelli, strumenti e approcci che superino il concetto di emergenza213.

213 Per questi aspetti si rimanda anche al capitolo 9.

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PARTE 3

PROCESSI ATTIVATI E TRAIETTORIE

DI CAMBIAMENTO

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CAPITOLO 8

I PROFUGHI E LE LORO STORIE

Sandra Burchi

Una delle principali ipotesi di ricerca dalle quali ha preso le mosse il

lavoro complessivo di indagine è quella secondo cui l’intervento di accoglienza diffusa realizzato in Toscana (così come implementato nelle quattro Società della Salute della provincia di Pisa) abbia prodotto effetti diversi e variegati nei vari profughi presenti sul territorio a causa dell’azione concomitante di due fattori: (1) la storia migratoria dei profughi precedente al loro arrivo in provincia di Pisa; (2) le specifiche misure di intervento messe in atto dal sistema locale di welfare che si è fatto carico della loro accoglienza.

In questo primo capitolo della terza parte ci incarichiamo di mettere a fuoco la ricostruzione che abbiamo condotto delle storie e dei percorsi migratori dei profughi precedentemente al loro arrivo a Pisa; l’enucleazione di percorsi e modelli tipici ci aiuterà in seguito a ricostruire con maggiore attenzione gli sviluppi che l’intervento ha stimolato su ciascuno di questi, riconoscendone l’effetto derivante dal livello di complessità, esposizione emotiva, temporalità di cui ciascuno si connota in modo specifico e pertanto differente.

Raccogliere le storie, spesso tragiche, di profughi non è mai un’operazione semplice. Non lo è dal punto di vista emotivo nè da quello più specificatamente tecnico-metodologico. Nel nostro caso specifico il tentativo di raccogliere i racconti dei nuovi arrivati a Pisa avrebbe avuto l’ulteriore problema di sovrapporsi (e confondersi) con quello praticamente analogo che già stavano conducendo operatori e volontari delle strutture di accoglienza con il fine di predisporre la documentazione da presentare all’esame delle Commissioni per la presentazione della richiesta di asilo.

Per conoscere il profilo dei migranti accolti in provincia di Pisa, per conoscere le loro storie e il percorso migratorio precedente all’arrivo in Italia, si è pertanto proceduto in modo indiretto: coinvolgendo cioè gli

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operatori che sono stati a diretto contatto con i migranti o quelli che sono stati d’aiuto nella ricostruzione delle memorie da presentare alla Commissione per la Richiesta d’Asilo e chiedendo loro di raccontarci le storie da loro ascoltate e raccolte. È stato pertanto lo sguardo degli operatori a fare da filtro nell’identificare i tratti unificanti di queste storie e le differenze. Si è scelto di rivolgerci a quegli operatori.

Nella tabella seguente è possibile avere il piano delle interviste effettuate e gli enti o le strutture di riferimento:

Tab. 10. Interviste effettuate e strutture di riferimento.

Ente/struttura Comune Referenti/opera

tori intervistati Caritas Vicopisano Vicopisano F.A. Cooperativa Paim Cascina S.L. Welcome Val di Cecina Pomarance C.M. Cooperativa il Ponte San Giuliano I.G. Cooperativa il Ponte Unione

Valdera J.S.

Società della Salute Pisa G.C. Croce Rossa Italiana Pisa S.D. Unita Pastorale Valgraziosa

Calci C.R.

Sprar Pontedera L.M. Santa Chiara Volterra F.C. Società della Salute Valdarno S.L.

Da queste interviste abbiamo “rilevato” un numero significativo di

biografie, sempre prodotte dal racconto degli operatori. Per biografia si intende una narrazione organica di una storia o, più precisamente, del percorso migratorio che un singolo profugo ha realizzato partendo dalla propria località di origine per arrivare prima in Libia e poi, a seguito degli eventi bellici, in Italia. Le varie biografie raccolte sono state esaminate con l’intento di individuare in esse le similitudini e le differenze che le connotavano, in modo così da poter estrapolare delle tipologie di percorso che servissero in seguito da guida per la riflessione sugli effetti delle strategie di presa in carico.

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Tab. 11. Biografie.

Ente Biografie Cooperativa Vicopisano 5 biografie Cooperativa Paim 3 biografie Welcome Val di Cecina 2 biografie Cooperativa il Ponte 2 biografie Cooperativa il Ponte (Valdera) 2 nuclei familiari Unità Pastorale Valgraziosa 3 biografie Società della Salute Pisa Gruppo Santa Chiara Volterra Gruppo di 20+ 1 biografia Società della Salute Valdarno Gruppo di 20+ 1 biografia

Da quanto è stato possibile ricostruire in questo step della ricerca è

sembrato chiaro che il quadro delle persone accolte mostra una nettissima prevalenza di migranti provenienti dai Paesi dell’Africa Occidentale, paesi come Nigeria, Niger, Togo, Ghana, ma sono presenti anche migranti dall’Asia Sud-orientale, residenti soprattutto in Alta Val di Cecina, precisamente a Volterra.

La composizione dei migranti ENA ospitati nelle strutture del territorio pisano sembra rispecchiare le caratteristiche socio-anagrafiche delle persone accolte su scala regionale e nazionale. Si tratta di giovani di età compresa prevalentemente tra i 18 e i 25 anni, o più in generale quella 18-30, ma non mancano – pur rappresentando una minoranza – persone più adulte, comprese nella fascia 30-40.

La giovane età sembra essere il tratto unificante dei richiedenti asilo ENA presenti in provincia di Pisa, mentre le persone sopra i 40 anni rappresentano una piccola minoranza.

Sempre in linea con i dati regionali e nazionali, la composizione per genere degli ospiti ENA registra la tradizionale prevalenza maschile nei flussi di richieste d’asilo ma, secondo i racconti degli operatori, questa prevalenza è giustificata anche dalla maggiore disponibilità, sul territorio provinciale, di centri d’accoglienza organizzati in spazi tali da contenere gruppi di persone appartenenti allo stesso sesso, e più precisamente uomini. È il caso del centro di accoglienza di Santa Croce – già in funzione e operante – e di quello di Volterra – approntato sull’emergenza in una scuola e in una casa di riposo. Dalle parole degli operatori attivi in questi due diversi territori è risultato chiaro che i rispettivi Comuni, quando è stato il momento di dare la disponibilità

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per ospitare le persone temporaneamente alloggiate nei CARA, hanno esplicitamente fatto riferimento alle risorse esistenti, determinando così l’arrivo di uomini adulti e senza famiglia. Sul territorio pisano, fra i rifugiati ENA, sono presenti sia giovani donne sole ospitate in strutture o in appartamenti, sia donne con figli, per la cui accoglienza si è pensato un sistema di aiuti (oltre che di abitazioni) più articolato. La composizione delle persone ospitate sul territorio pisano, dunque, da una parte è in linea con la composizione generale degli immigrati ENA, dall’altra è coerente con un sistema di aiuti improntato in un quadro di emergenza, che, facendo riferimento a risorse esistenti, ha permesso l’arrivo prevalente di giovani uomini senza famiglia.

Nel raccogliere le storie dei richiedenti asilo ENA è stato proposto agli operatori di seguire una traccia molto semplice che aiutasse a ricostruire la storia precedente all’arrivo in Italia.

La traccia si articolava sui seguenti punti, ciascuno dei quali costituisce il perno della ricostruzione comparativa delle informazioni raccolte che faremo nei prossimi paragrafi: (a) provenienza e situazione nel paese di origine; (b) il viaggio verso la Libia; (c) la vita in Libia; (d) il viaggio verso l’Italia; (e) il viaggio verso il centro di accoglienza.

(a) Provenienza e situazione nel paese d’origine

Tutti gli operatori si sono dichiarati in difficoltà nel raccogliere con precisione il percorso biografico dei migranti; anche la scrittura delle memorie, un atto formale da presentare alla Commissione, è risultata faticosa. Alcuni operatori hanno attribuito questa difficoltà alla scarsa abitudine, per questi soggetti, di pensarsi in un percorso di vita scandito da una visione del tempo e del succedersi degli eventi estranea alla cultura di provenienza. Gli operatori hanno teso a spiegarsi la difficoltà nel ricostruire date, eventi, tappe, successioni temporali come un portato della diversità culturale e la sovrapposizione di un modello culturale, il nostro, a un modo diverso di misurare e ricordare il tempo e gli eventi della vita. Probabilmente si è trattato di un incrocio di fattori, dalla semplice difficoltà linguistica, al tentativo di ripercorrere le vicende passate in un momento di forte disorientamento.

Volendo tracciare dei percorsi tipo si possono individuare alcune tipologie:

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(a.1) In fuga da un conflitto La tipologia dei migranti ENA che proviene da paesi instabili

politicamente o attraversati da conflitti fra gruppi contrapposti. È il caso dei cittadini nigeriani, per esempio, molti dei quali, arrivati

sul territorio pisano, hanno fatto riferimento per ottenere lo status di rifugiato per motivi politici ai conflitti che si sono sviluppati nel paese fra la maggioranza islamica e la minoranza cristiana e cattolica. Fra questi alcuni hanno potuto ricostruire le prove del loro coinvolgimento diretto nei conflitti facendo riferimento a momenti ed episodi precisi di particolare violenza, mostrando documenti, articoli di giornali, o ricostruendo le vicende delle persecuzioni subite dai familiari.

Lo stesso vale per i migranti provenienti dal Sudan. Alcuni sono riusciti a ricostruire il proprio coinvolgimento in queste situazioni di persecuzione religiosa e a farli valere come motivazione per vedersi riconoscere la richiesta di asilo e la condizione di rifugiato.

Anche alcuni cittadini del Ciad, della Guinea, del Togo hanno alle spalle una storia di fuga dal proprio paese motivata da una situazione di conflitto politico e dalla necessità di mettersi in salvo fuori dai confini nazionali.

Non mancano, nei racconti di questi migranti, storie di torture, di prigionia, di ferite, anche di traumi fisici che sono stati curati e riparati nelle strutture sanitarie toscane. Sembra di poter rilevare che i migranti che hanno lasciato il proprio paese d’origine per raggiungere la Libia, sono quelli che provengono dalle città, dalle capitali dei propri paesi o dai centri maggiormente urbanizzati.

(a.2) In fuga da una situazione di pericolo

Fra le storie raccolte alcune fughe non sono riconducibili a conflitti politici o religiosi interni al paese d’origine ma a situazioni di pericolo per la propria vita o quella di un familiare. Un cittadino del Niger, molto giovane, ha raccontato di essere stato insieme alla sua intera famiglia, vittima di ripetuti atti di violenza da parte di un gruppo di Tuareg che nelle zone rurali del paese cerca di controllare il territorio indebolendo la popolazione che vive di agricoltura o pastorizia. Un altro migrante ha una storia di fuga motivata da una persecuzione mirata alla sua persona, una storia di economie ai margini della legalità, con risvolti molto violenti e atti di vendetta perpetrati all’intera famiglia. Le vicende di tipo economico miste a casi di violenza non sono rare:

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difficoltà economiche, debiti da saldare, vendette personali si risolvono spesso – attraverso la violenza – in una situazione di grande rischio per chi è direttamente coinvolto e per l’intera famiglia. Per questo, fra i migranti ENA, esistono casi di persone, confinatesi in una situazione senza via d’uscita, per cui la fuga e il viaggio nel deserto verso la Libia hanno rappresentato l’unica soluzione possibile.

(a.3) In fuga per cercare lavoro

È la tipologia più rappresentativa. Molti dei rifugiati hanno affrontato una migrazione (non solo interna all’Africa ma anche intercontinentale) per motivi di ordine economico. La speranza di trovare un lavoro in Libia e quella di poter partire per l’Europa in un secondo momento è bastata a motivare la partenza e a correre il rischio del viaggio.

(b) Il viaggio verso la Libia

Non tutti gli operatori hanno informazioni dettagliate su questo viaggio. La conoscenza diffusa di un viaggio molto difficile, traumatico, non privo di episodi di violenza ha portato gli operatori ad avere molta cautela nella richiesta di dettagli e informazioni su questa esperienza. La raccolta di memorie ha però confermato in molti casi che i viaggi interni all’Africa sono nelle mani di trafficanti che riescono a passare illegalmente i confini.

Questo tipo di viaggio, per quanto rischioso perché affidato a organizzazioni criminali, permette ai soggetti in fuga, e quindi senza documenti, di lasciare la propria terra e raggiungere la Libia. Esistono alcune tappe intermedie in questo viaggio. Alcune città del Niger costituiscono una tappa per i cittadini nigeriani e altri che vengono dai paesi dell’Africa subsahariana. In queste città, che fanno da punto di raccordo, si resta il tempo utile per essere raggiunti da altri familiari o per trovare il denaro, lavorando a giornata, per pagare i trafficanti.

Si tratta di un viaggio molto duro, che avviene su mezzi di fortuna e che mette a rischio le possibilità di sopravvivenza. Nell’esperienza di molti si è trattato di un viaggio molto traumatico e con perdite gravi. Questo viaggio torna nelle storie di accoglienza e assistenza dei rifugiati, poiché le vicende traumatiche vissute durante la traversata del deserto (in molti casi violenze, in altri la perdita di un famigliare) sono

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all’origine della difficoltà di adattamento alle complicate situazioni di accoglienza.

A partire da quanto raccolto dagli operatori è apparso chiaro che nella quasi totalità dei casi i viaggi verso la Libia avvengono in condizioni molto difficili. Un operatore ha fatto notare che proprio nei casi in cui per l’estrema miseria di chi partiva era impossibile pagare i trafficanti, si sono verificati viaggi più lunghi e casuali ma meno sottoposti a un regime di violenza o di scarsità di viveri e di acqua.

(c) La vita in Libia

Nelle storie raccolte dagli operatori l’immagine della vita in Libia rappresenta una sorta di periodo positivo. Molti lavoravano o dichiarano di aver lavorato e di aver trovato una sistemazione stabile, anche dal punto di vista abitativo e delle relazioni sociali. Quello che è un tratto unificante dei percorsi di vita prima dell’imbarco (forzato) verso l’Italia è un periodo di vita in Libia medio-breve, dai 2 ai 5 anni, un periodo raccontato con una certa serenità. Il percorso di migrazione interna all’Africa o il lungo viaggio dall’Asia sud-orientale ha caratteristiche diversificate, legate al profilo dei migranti, alla loro terra d’origine e anche al loro ambiente di partenza.

È noto che dopo il 2000 le politiche di Gheddafi hanno giocato un ruolo cruciale nella trasformazione del Paese in un polo di attrazione delle migrazioni dall’Africa. La peculiarità del ri-orientamento delle politiche migratorie libiche nell’ultimo decennio consiste nello sviluppo della pre-esistente mobilità transahariana, sia di tipo carovaniero che di tipo commerciale. Come rilevato da studiosi del fenomeno e testimoniato dalle esperienze raccolte, alcuni paesi come il Ciad o il Niger diventano dei veri e propri corridoi per quelle centinaia di lavoratori che – rispondendo all’appello ai “fratelli africani” a venire in Libia – partono per lo più dall’Africa Occidentale e vanno a lavorare nelle famiglie, nelle fattorie, e negli impianti libici.

La rappresentazione della vita in Libia appare, nelle storie dei migranti sbarcati in Italia, una sorta di pausa all’interno di un percorso di vita fatto di cambiamenti imposti, fughe, difficoltà, viaggi traumatici ma, come vedremo, scavando di più nei racconti le operatrici hanno avuto modo di conoscere anche le contraddizioni e le tensioni di quel periodo. È noto infatti che le migrazioni in Libia non hanno mancato di provocare tensioni sociali e che nel corso del tempo si sono verificati

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scontri fra la popolazione locale e la popolazione dei migranti. Queste tensioni hanno indotto il governo libico a una politica persecutoria nei confronti dei migranti irregolari che ha portato la vita di molti a svolgersi ai margini delle città, in condizioni di estrema precarietà. Ma non è questo che emerge immediatamente dai racconti fatti agli operatori o dalla scrittura delle memorie: quello che emerge è piuttosto un equilibrio portato dalla possibilità di avere lavoro.

(c.1) Le donne nei lavori di servizio

La maggior parte delle immigrate in Libia hanno trovato un impiego nei lavori di servizio, molte hanno dichiarato di aver lavorato presso le famiglie libiche come cameriere, governanti o colf, cercando di dare un’immagine positiva e stabile della loro vita negli anni trascorsi in Libia. Le operatrici che hanno avuto un contatto prolungato con gli ospiti delle strutture o che hanno seguito da vicino il loro inserimento nel contesto d’accoglienza, hanno potuto conoscere le contraddizioni e le difficoltà del periodo trascorso in Libia.

Un’operatrice di una delle cooperative che, dopo aver raccolto tutte le memorie, ha seguito l’inserimento dei nuclei familiari in Valdera, è stata in grado di fornire un’immagine più articolata degli anni in Libia di molte delle ospiti ENA. Come era facile ipotizzare le condizioni di lavoro delle donne impiegate nelle famiglie dei libici non erano così buone. Soprattutto per quelle senza documenti, che portavano avanti il loro lavoro di colf in condizioni molto difficili, non solo sottopagate ma anche nell’impossibilità – per motivi linguistici – di comunicare in maniera adeguata o di rendere esplicite esigenze e necessità. La condizione di bisogno, la mancanza di documenti, la totale precarietà economica rendevano la situazione di molte lavoratrici completamente esposta alla casualità e all’instabilità. Migliore la situazione di quelle che hanno potuto contare su una rete sociale, spesso di connazionali immigrati, o di quelle che per motivi di provenienza geografica (il Sudan) o di maggiore istruzione hanno potuto esprimersi in arabo.

Oltre a questo tipo di lavoro di servizio, in qualche modo “previsto” dalla stratificazione della società libica, alcune donne hanno saputo inserirsi nel piccolo commercio o nei negozi di parrucchiera, riutilizzando il lavoro appreso nel paese d’origine. Non è chiaro invece il grado di coinvolgimento nei circuiti del lavoro sessuale, anche se le lacune di alcune memorie e di alcuni racconti hanno fatto pensare a più

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di un’operatrice che i percorsi migratori di alcune giovani donne avessero coinciso con gli affari della tratta.

(c.2) Gli uomini nei lavori di fatica

Gli uomini, spesso anche molto giovani, hanno quasi tutti alle spalle un periodo medio-breve di permanenza in Libia. Anche gli uomini dichiarano di aver lavorato in Libia e di aver raggiunto una sorta di stabilità, anche se in molti casi la prospettiva era quella di raggiungere l’Europa.

Quelli che sono riusciti a inserirsi meglio nel mercato del lavoro libico sono riusciti a fare in Libia lo stesso lavoro che facevano nel paese d’origine, lavori legati all’edilizia, come il piastrellista o il muratore, nei grandi cantieri che hanno caratterizzato lo sviluppo delle città libiche negli ultimi anni. Lavorare in condizione relativamente stabile e continua, impiegati nella stessa impresa o dallo stesso datore di lavoro per un tempo medio-lungo, ha consentito a questi giovani uomini di poter contare su una rete di sostegno e di consolidare abitudini e relazioni di aiuto. Alcuni migranti hanno dichiarato, infatti, di aver trovato il sostegno dei propri datori di lavoro nel periodo in cui, in seguito ai disordini, le forze di Gheddafi hanno cominciato una politica persecutoria nei confronti degli immigrati (è l’esperienza di uno degli ospiti del centro di Santa Croce).

Questo tipo di stabilità non ha rappresentato la normalità. Molti infatti hanno vissuto di lavori saltuari quando non a giornata, come lavamacchine, corriere, trasportatore, manovale. Molti giovani provenienti dalle zone rurali dell’Africa occidentale e sub sahariana hanno fatto in Libia la prima esperienza di vita e di lavoro in città. Nonostante l’instabilità, le condizioni di vita molto precarie (non è facile capire le situazioni abitative di questi migranti), il lavoro permetteva alla maggior parte di loro di procurarsi il necessario per vivere e per provvedere alle famiglie, spesso rimaste nei paesi di origine. È normale dunque che la vita in Libia, trasmessa nei racconti, si configuri come un periodo relativamente buono e che difficoltà e impedimenti non vengano riportati al presente.

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(d) Il viaggio verso l’Italia Dalle storie degli operatori si ricava che la quasi totalità dei profughi

ha subito un imbarco forzato. Molti hanno detto di non sapere dove erano diretti. Altri hanno

capito che quelle navi sarebbero sbarcate dall’altra parte del Mediterraneo e hanno pensato, pur nelle condizioni tragiche in cui tutto stava avvenendo, che fosse meglio scappare dal Paese. Sulle condizioni in cui è avvenuto l’imbarco esistono anche, seppur rare, testimonianze diverse, di persone che hanno scelto autonomamente di imbarcarsi e che, contrariamente alla versione più comune (arricchita da particolari atroci come le uccisioni dimostrative di chi non voleva salire a bordo) fosse necessario corrompere i soldati.

Nel riportare voci così contrastanti gli operatori tendono a restituire tutta la difficoltà incontrata nell’avere versioni condivise degli stessi avvenimenti, ma quella che resta la versione dominante è quella dell’imbarco forzato e violento. Versione, del resto, che sembra quella in grado di confermare quanto si è appreso in seguito dell’intera Emergenza Nord Africa.

È bene far notare che se si considera l’insieme degli spostamenti di popolazione determinati dalla guerra e dalla conseguente crisi umanitaria, l’Italia ha rappresentato una destinazione complessivamente trascurabile, e non è strano che gli imbarcati non fossero a conoscenza del loro destino. Se si guarda al fenomeno complessivo di uscita dal Paese da parte dei cittadini immigrati in Libia si deve considerare che gli arrivi via mare in Italia sono stati 27.465 (25.935 a Lampedusa e 1530 a Malta), appena il 3,9% del numero delle persone uscite dal Paese. La mossa degli imbarchi forzati, dunque, che pure ha suscitato una eco così rumorosa in Italia, tanto da parlare di “invasione”, ha interessato soltanto una esigua parte dei tanti fuoriusciti dalla Libia che hanno attraversato i confini dell’Egitto, della Tunisia o hanno affrontato a ritroso il viaggio di arrivo, varcando i confini del Ciad o del Niger.

Quello che è certo è che le imbarcazioni erano tali da non rendere sicuro l’esito del viaggio, così come tutti i migranti ospitati dalle strutture del pisano hanno confermato. Molti hanno raccontato di navi andate in avaria e del lungo tempo trascorso in alto mare, senza viveri e con l’acqua che scarseggiava. I racconti, quando sono entrati nei dettagli, hanno confermato lo stato irreale di corpi ammassati nelle stive di navi ferme al largo, corpi inconsapevoli l’uno dell’altro, chiusi nel

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silenzio e nella paura. Questa condizione disperata, per gli operatori è anche alla base di quei racconti “magici” con cui alcuni profughi hanno ricostruito il loro miracoloso approdo sulle coste italiane: molti infatti hanno fatto ricorso a tutte le risorse che avevano per sopravvivere a quello stato di cose. Lo stato di semi-coscienza, portato dalle condizioni fisiche, era aggravato dalla totale mancanza di consapevolezza rispetto alla propria destinazione. Molti hanno scoperto di essere in Italia quando sono sbarcati ma non avevano comunque idea di dove si trovavano.

(e) Il viaggio verso il centro di accoglienza

Le traiettorie seguite in Italia, dopo lo sbarco sono state principalmente tre: (a) Lampedusa-Manduria-Toscana; (b) Lampedusa-Genova-Toscana; (c) Lampedusa-La Spezia-Toscana.

Nel racconto di molti migranti si è trattato di un viaggio confuso in cui le informazioni non arrivavano. Fondamentalmente le tappe intermedie verso la Toscana sono servite a consolidare delle conoscenze con i connazionali e a cercare, per via informale, di creare una rete di sostegno e di ricevere notizie. Del soggiorno nei vari centri i migranti hanno raccontato poche cose, la maggioranza di quelli arrivati sul territorio pisano sono passati da Manduria dove il campo era ben organizzato e, nonostante la totale incertezza sul futuro, le condizioni di accoglienza erano buone.

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CAPITOLO 9

PREMATURI, PRECOCI E TARDIVI. PROCESSI ATTIVATI E MECCANISMI EMERGENTI NELLE TRAIETTORIE

DI VITA DEI PROFUGHI

Sergio Bontempelli

PREMESSA: LA VOCE DEI PROFUGHI I “diretti interessati”: un focus sui migranti accolti nelle strutture

Per valutare l’efficacia, le potenzialità e i limiti del programma di

accoglienza dei profughi, era indispensabile ascoltare la voce dei destinatari diretti di quel programma: dei migranti che, dopo aver attraversato il Mediterraneo, dopo essere sbarcati a Lampedusa o in altre località costiere del Sud Italia, sono stati trasferiti in provincia di Pisa, e hanno vissuto nelle strutture allestite appositamente per loro. Comprendere in che modo il periodo trascorso in quelle strutture ha influito sul vissuto dei profughi, sulle loro aspettative e sulle loro percezioni, è un tassello fondamentale per valutare gli effetti concreti del programma di accoglienza: per questo motivo, nell’ambito della nostra ricerca abbiamo deciso di dedicare un focus alle testimonianze dei migranti.

Come per gli altri ambiti dell’indagine, si è utilizzato lo strumento delle interviste in profondità, più adatto a “scandagliare” il vissuto delle persone interpellate. Il gruppo di ricerca ha in questo senso predisposto una traccia di intervista, strutturata non con domande vere e proprie ma con una lista aperta di temi da affrontare nei colloqui: gli aspetti su cui si è deciso di sollecitare gli intervistati spaziavano dal racconto della loro esperienza passata (il viaggio verso l’Italia, l’arrivo in Toscana, il primo impatto con la nuova realtà locale) alla vita quotidiana nelle

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strutture di accoglienza (i rapporti con gli operatori, le amicizie e le reti sociali sul territorio, l’accesso ai servizi, le attività lavorative ed extralavorative), fino agli aspetti più emotivi e legati al vissuto personale (i desideri, le paure, le speranze, le priorità).

La traccia di intervista, volutamente scarna per lasciare un ampio margine di autonomia nella conduzione dei colloqui, è stata poi affidata ad un gruppo di intervistatori selezionato dall’Associazione Africa Insieme, che da anni opera sul territorio locale a fianco di migranti, profughi e rifugiati. Il gruppo, coordinato da chi scrive, era composto dai volontari più attivi ed esperti della stessa associazione: da coloro, cioè, che hanno maturato un’esperienza specifica nella relazione con i migranti (e in particolare con i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale).

Del gruppo hanno fatto parte, oltre al sottoscritto, Sara Palli, Moez Chemkhi, Alice Cirucci, Paola Spataro, Eva Deganello, Denise Capuano, Claudio Ferrante.

Il presente capitolo, che ricostruisce in forma narrativa unitaria le molteplici testimonianze dei profughi, si deve dunque in primo luogo al lavoro di questo nucleo di operatori.

Le interviste: i metodi, l’approccio Come si è accennato, la finalità delle interviste era quella di

ricostruire, per quanto possibile, gli effetti dell’accoglienza sulle traiettorie di vita e sul vissuto dei profughi. Affinché l’indagine restituisse risultati coerenti con questo scopo, il gruppo di ricerca e il nucleo degli intervistatori hanno condiviso due scelte di fondo, che hanno costituito la premessa metodologica dell’intero lavoro.

La prima scelta era relativa al ruolo degli intervistatori rispetto al contesto in cui si sarebbero trovati ad operare. Per poter ascoltare i migranti, “scavando” sulle loro percezioni e sul loro vissuto, era necessario creare un clima di fiducia e di serenità, che consentisse agli intervistati di sentirsi a proprio agio e di parlare senza condizionamenti esterni: in particolare, i migranti dovevano essere messi in condizione di esprimere liberamente le loro (eventuali) critiche all’operato degli enti gestori dell’accoglienza. Da questo punto di vista, gli intervistatori dovevano essere percepiti come estranei alla fitta rete di figure

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istituzionali coinvolte nella gestione dell’ENA (operatori, autorità pubbliche, assistenti sociali ecc.). Perciò, d’accordo con il gruppo di ricerca, i volontari di Africa Insieme si sono presentati senza la mediazione degli operatori delle strutture.

La seconda scelta riguardava invece, per così dire, la restituzione finale delle interviste, e dunque le modalità di stesura del presente capitolo. In molti casi, i migranti hanno parlato della loro vita quotidiana, delle loro speranze e paure, senza fare riferimento diretto all’operato delle strutture di accoglienza. In alcune interviste, però, compaiono valutazioni relative agli enti gestori o ai singoli operatori: si tratta, come è ovvio, di opinioni talora positive, talora articolate e critiche, in qualche caso pesantemente negative. Nel riportare questi commenti, si correva però il rischio di distorcere il senso e gli obiettivi della ricerca, che non è finalizzata alla valutazione dell’operato delle singole strutture. Per dirla in termini semplici, lo scopo della nostra indagine non è quello di “dare i voti” ai vari enti gestori, ma di comprendere le dinamiche complessive dell’accoglienza ENA, così come si è andata strutturando nel nostro territorio. Per questo motivo, nel sintetizzare le interviste, abbiamo preferito omettere i riferimenti diretti ai singoli “centri” che hanno ospitato i profughi. Ciascuna intervista è stata perciò contrassegnata da un numero progressivo: nel corso della nostra ricostruzione indicheremo l’età e la nazionalità dell’intervistato, e ometteremo invece il centro di accoglienza e la zona in cui il migrante è stato ospitato (area pisana, Valdera, Valdarno, Valdicecina).

Prematuri, precoci e tardivi: le tre differenti campagne di interviste Come si è accennato nella parte introduttiva del presente rapporto

di ricerca214, uno degli obiettivi della nostra indagine era quello di mettere a confronto l’esperienza dei profughi presi in carico dal sistema ENA con quella dei migranti che, per motivi diversi, sono usciti precocemente dalle strutture di accoglienza, usufruendo così di un’ospitalità più limitata nel tempo. Si sono perciò condotte tre diverse e distinte “campagne” di ricerca.

214 Si veda l’Introduzione di Gabriele Tomei.

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La prima (più consistente in termini di numero di interviste) riguardava quei profughi che, fuggiti dalla Libia, sono arrivati in Toscana e, inseriti nelle strutture ENA, vi sono rimasti fino al 28 Febbraio (data in cui è stata definitivamente chiusa l’accoglienza a livello nazionale). Per questa parte, abbiamo realizzato 15 interviste ad altrettanti migranti, avendo cura di selezionare persone di nazionalità diverse, provenienti da varie strutture di accoglienza, a loro volta dislocate in zone differenti della provincia di Pisa. Non senza una punta di ironia, abbiamo deciso di definire “tardivi” questi profughi, alludendo alla loro permanenza prolungata nel sistema di ospitalità diffusa. A questa categoria è dedicata la prima parte del presente capitolo.

La seconda campagna di interviste ha riguardato invece quei profughi – anch’essi fuggiti dalla Libia, e anch’essi inseriti nei centri ENA – che hanno scelto, per i motivi più diversi, di allontanarsi dalle strutture di accoglienza prima del fatidico 28 febbraio: si tratta di coloro che abbiamo definito i “prematuri”. Sono state realizzate in questo caso 5 interviste: ciascuna di esse, nel corso del testo, verrà indicata con un numero progressivo da uno a cinque.

Infine, la terza serie di colloqui ha preso in considerazione i tunisini che, accolti sul territorio nella primissima fase degli sbarchi (prima dell’avvio del sistema ENA vero e proprio215), hanno poi abbandonato i centri di accoglienza a seguito del rilascio del permesso di soggiorno: li abbiamo definiti i “precoci”. Anche per questa categoria sono state realizzate 5 interviste, indicate con numeri progressivi da uno a cinque.

Di seguito, ciascuna di queste categorie sarà trattata in paragrafi distinti. Cominciamo dunque dagli ospiti dell’Emergenza Nord Africa che sono rimasti nelle strutture loro destinate fino alla conclusione del programma: a coloro che abbiamo definito “i tardivi”.

215 Per le modalità di accoglienza dirette ai tunisini si veda il primo capitolo della prima parte, L’afflusso dei profughi e la costruzione socio-politica dell’emergenza.

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VITE IN ATTESA: L’ESPERIENZA DEI “TARDIVI” E I LUNGHI

MESI DELL’ACCOGLIENZA

Da Lampedusa alla Toscana I migranti intervistati provengono dall’Africa sub-sahariana, dal

Pakistan e dal Bangladesh. Molti sono arrivati in Italia con gli sbarchi dell’Estate 2011, a bordo di imbarcazioni piene fino all’inverosimile di profughi. Il viaggio viene spesso evocato come un’esperienza drammatica: le condizioni del mare sono proibitive, si rischia la vita e le condizioni igieniche a bordo sono molto precarie. La traversata si trasforma così in un vero e proprio incubo, che viene descritto in modo sommario e talvolta reticente: la rievocazione di quei momenti è, per tutti, un passaggio emotivamente complesso.

In questo quadro, non è difficile immaginare la sensazione di sollievo provata al momento dello sbarco in territorio italiano. L’accoglienza a Lampedusa – destinazione finale di molti intervistati – è dipinta generalmente in modo positivo:

«Ci hanno dato una bella accoglienza… Ci hanno portato in un posto dove ci hanno dato da mangiare, ci hanno dato il cibo, ci hanno dato i vestiti… Ci hanno spiegato che questa era una cosa temporanea, e che poi ci mandavano da qualche altra parte. Devi stare in questo posto, mi dicevano, poi vengono le navi e vi portano in un altro posto. C’era anche un medico. Si stava bene, l’unica cosa che non andava bene è che non si poteva uscire dal centro. Siamo rimasti lì 18 giorni».

Talvolta, la traversata in mare annichilisce i migranti: si arriva a

Lampedusa sfiniti, incapaci di gioire, di sorridere e persino di parlare. Lo stesso impatto con i soccorritori è fatto di gesti automatici, senza parole e senza sguardi: poliziotti e medici fanno il loro dovere, forniscono un primo soccorso, ma appaiono figure mute, quasi prive di una dimensione “umana”. Anche perché, talvolta, le loro azioni sembrano orientate all’immunizzazione del contesto, più che alla cura e all’accoglienza dei migranti:

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«Dopo due giorni [siamo arrivati], sapevamo che era una piccola isola, Lampedusa. Sempre, tutto il viaggio [ho] vomitato, tutto il viaggio, ero troppo malato, vomitavo, perché [ero] senza mangiare. Quando [sono] entrato a Lampedusa qualche poliziotto ha preso me e messo sacco di plastica, vestiti di plastica, perché quando viaggi in mare hai diversi tipi di disease [malattia], per questo motivo loro mettono vestiti di plastica […], anche perché hanno paura che la disease poi passa ad altri». Lampedusa è il primo approdo: vi si trascorre qualche giorno o

qualche settimana, poi si viene trasferiti altrove. Molti non conoscono l’Italia, e non hanno idea di dove stanno andando: attraversano la penisola, in pullman o in nave, senza conoscere la destinazione finale. Tuttavia, il peggio è passato, la guerra in Libia è lontana e finalmente si abbandona anche Lampedusa: comincia una nuova vita. Il primo impatto con le strutture di accoglienza toscane è spesso ricordato con gioia dagli intervistati:

«Erano tutti molto gentili, la parrocchia, gli operatori, i cittadini, erano tutti a nostra disposizione»216. «Quando sono entrato [era] più bello [rispetto a Lampedusa]…»217. «Al nostro arrivo erano tutti molto disponibili, gli operatori, i cittadini, la chiesa, la Croce Rossa e la Misericordia (…). All’inizio gli operatori ci dedicavano molto tempo per cercare di aiutarci, organizzavano con noi incontri e riunioni»218.

Cominciano i problemi All’entusiasmo iniziale subentrano ben presto i problemi. Il primo, segnalato da tutti gli intervistati, riguarda la condizione

giuridica. I migranti arrivano come richiedenti asilo, hanno compilato il

216 Intervista n. 3, cittadina nigeriana di 26 anni. L’intervista non è stata registrata, abbiamo riportato una sintesi di quanto ci è stato riferito. 217 Intervista n. 13 citata, minuto 54.17. 218 Intervista n. 2, cittadino del Pakistan, 56 anni. L’intervista non è stata registrata, abbiamo riportato una sintesi di quanto ci è stato riferito.

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“modello C3” – il formulario attraverso cui si fa domanda di “protezione internazionale”219 – e sono in attesa di essere ricevuti dalla Commissione competente220.

La procedura, come noto, prevede un colloquio con la Commissione: si viene “intervistati”, e si deve riferire delle eventuali persecuzioni nel paese di origine o in Libia, delle vicende belliche, della fuga verso l’Italia. I funzionari non si accontentano dei resoconti dei profughi, ma com’è ovvio fanno domande, chiedono approfondimenti, sollevano obiezioni: si tratta di un vero e proprio “esame”, da cui dipende la vita futura degli interessati. Sulla base di questo colloquio, infatti, la Commissione può decidere di riconoscere la protezione221, e

219 Si chiama così, in termini giuridici, l’istanza di riconoscimento dello status di rifugiato (cioè la domanda di asilo). 220 Le «Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale» sono organi previsti dagli artt. 3 e 4 del Decreto Legislativo 28 gennaio 2008, n.25, recante Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, da ora in poi indicato come “decreto procedure”. Ciascuna Commissione è composta da un funzionario della carriera prefettizia, da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante di un ente territoriale designato dalla Conferenza Stato-città ed autonomie locali e da un rappresentante dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati. Con Decreto ministeriale del 6 marzo 2008, il Ministero dell’Interno ha creato dieci Commissioni (Gorizia, Milano, Torino, Roma, Caserta, Foggia, Bari, Crotone, Trapani e Siracusa), ciascuna competente per un territorio specifico. Nel decreto, la commissione competente per le province toscane era quella di Roma: successivamente, con provvedimento del Presidente della Commissione Nazionale per il diritto di asilo, la competenza era stata trasferita temporaneamente alla Commissione di Torino. Infine, a seguito dell’emergenza Nord-Africa, un’ordinanza del governo autorizzava il Ministero a creare sezioni distaccate delle Commissioni per velocizzare l’esame delle domande (cfr. Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3958 del 10 agosto 2011, recante Ulteriori disposizioni urgenti dirette a fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa, art. 2). A seguito di tale provvedimento, è stata istituita una speciale sezione a Firenze. 221 In particolare, la Commissione può concedere tre diverse forme di protezione internazionale. La più nota è lo status di rifugiato, ossia l’asilo politico vero e proprio, riconosciuto al cittadino straniero che abbia «il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica» (Decreto Legislativo 19 novembre 2007, n. 251, recante Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, da ora in poi indicato come “decreto qualifiche”, articolo 2, comma 1, lettera e). Vi è poi la

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quindi il permesso di soggiorno, oppure può rigettare la domanda di asilo (e in questo caso l’interessato deve lasciare l’Italia, oppure presentare ricorso al tribunale).

Al momento delle nostre interviste, alcuni sono ancora in attesa di essere convocati; altri sono già stati in Commissione, ma attendono la risposta; altri ancora hanno avuto il rifiuto, e hanno presentato ricorso tramite un legale. Per tutti, l’esito della domanda di asilo è fonte di ansia e di preoccupazione. L’attesa è lunga, quasi interminabile: tra la richiesta di protezione – spesso presentata direttamente a Lampedusa – e la prima “intervista” in Commissione passano mesi; poi bisogna attendere la risposta, e trascorrono altre settimane; infine, se si è avuto il rigetto e si presenta il ricorso, i tempi si prolungano, perché bisogna aspettare l’udienza in Tribunale, poi la sentenza del giudice.

I migranti non capiscono i motivi di attese così lunghe. I criteri di convocazione non sono trasparenti, e danno luogo a sospetti e diffidenze: perché alcuni sono stati chiamati subito e altri devono aspettare? Perché, se ho fatto ricorso, il Tribunale non ha ancora fissato la data per la mia udienza?

Anche gli esiti delle Commissioni appaiono privi di una logica comprensibile: perché il tale, che ha raccontato una storia simile alla mia e magari proviene dal mio stesso paese, ha avuto il permesso di soggiorno, mentre la mia domanda è stata rigettata? Perché nella mia struttura di accoglienza alcuni hanno già l’asilo e io non sono stato nemmeno convocato? Perché nessuno mi spiega le ragioni del ritardo?

cosiddetta “protezione sussidiaria”, che viene concessa allo straniero che, pur non avendo i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, in caso di rimpatrio «correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno» (decreto qualifiche, articolo 2, comma 1, lettera g). All’art. 14 dello stesso decreto sono definiti come “gravi danni” la condanna a morte, la tortura o altra forma di trattamento inumano o degradante, nonché la minaccia alla vita derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato. Infine, vi è la “protezione umanitaria”, che viene concessa quando lo straniero non abbia i requisiti per ottenere l’asilo o la protezione sussidiaria, ma la Commissione «ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario» (così l’art. 32, terzo comma, del decreto procedure). Come è facile intuire, le definizioni giuridiche (“persecuzione”, “grave danno”, “gravi motivi di carattere umanitario”) sono sufficientemente ampie da lasciare spazio ad interpretazioni diverse. Quel che conta in questa sede è però che in tutte e tre le forme di protezione viene rilasciato un permesso di soggiorno idoneo allo svolgimento dell’attività lavorativa. Per un approfondimento su questi temi si veda, in questo stesso volume, il secondo capitolo della prima parte: Costanza Cattaneo, Strumenti normativi e procedure disponibili.

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Questi dubbi, alimentati dalle attese interminabili, gettano un’ombra di sospetto sui legali incaricati di assistere i migranti.

«Non so se [gli avvocati] hanno fatto davvero il ricorso oppure no (…). Sono qui ad aspettare il ricorso (…), ma non so se il ricorso l’hanno fatto oppure no. Siamo qui, siamo qui ad aspettare questo ricorso, ora rimangono due mesi alla scadenza del contratto [il contratto di accoglienza, ndr.] e siamo qui ad aspettare (…). Mi avevano detto che dovevo andare a Bari a Maggio per il ricorso, ma a Maggio ho ricevuto una lettera che rimandava tutto a Ottobre. Quando è arrivato Ottobre nessuno ci ha detto più nulla, Ottobre è passato e non abbiamo più saputo nulla. Adesso rimangono due mesi alla fine del contratto, e non so cosa fare… in Italia senza documenti non puoi fare nulla»222. «Quando siamo arrivati qui alcuni sono andati in Commissione, e hanno avuto i documenti. Noi abbiamo provato a chiedere perché non ci avevano ancora chiamato. Abbiamo dovuto aspettare tre mesi per andare in Commissione. Poi quando siamo andati in Commissione, la Commissione ha dato i documenti a quattro persone di questo centro, tutti gli altri hanno avuto il rifiuto, e noi abbiamo provato a chiedere perché (…). Finora non abbiamo alcun segno del fatto che loro [cioè gli avvocati] hanno fatto ricorso, non sappiamo se l’hanno fatto o no. Perché quelli che hanno fatto ricorso hanno avuto un appuntamento [per l’udienza], e dicono che in quella data devi andare dai giudici con l’avvocato (…). Io invece non ho un appuntamento, e non so perché non mi hanno dato un appuntamento (…). Io credo che l’avvocato non ha fatto davvero ricorso, perché non ho avuto nessun segno che il ricorso è stato presentato»223. Un secondo problema, sentito da tutti gli intervistati, è la mancanza

di lavoro. Per chi è appena arrivato in Italia è molto difficile orientarsi nel mercato occupazionale: non si conosce il territorio, non si conoscono le aziende disponibili ad assumere, non si hanno contatti utili, spesso non si sa nemmeno dove iniziare a cercare.

222 Intervista n. 14, cittadino del Ghana, 28 anni, minuto 3 e ss. L’intervista è stata effettuata in lingua inglese, qui si riporta la traduzione. 223 Intervista n. 15, cittadino del Togo, 20 anni, minuto 9 e ss. L’intervista è stata effettuata in lingua inglese, qui si riporta la traduzione. Questo e-book appartiene a marianazorila

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La sensazione, che traspare da molti racconti, è che ci si muova “a tentoni”: si va in città, o nel paese più vicino, e si cercano a caso aziende, cantieri edili, negozi, per chiedere un lavoro. Il risultato è ovviamente fallimentare, e i migranti maturano la convinzione (non del tutto infondata, in un periodo di crisi) che trovare un impiego in Italia sia quasi impossibile:

«Io vai a Pisa, io cerca lavoro, cerca (…). Vai a Pisa, [ho] preso [il] permesso [di soggiorno], adesso io ce l’hai permesso. Permesso di cinque anni, Al-Hamdulillāh224… Solo questo è [cosa] buona. Problema, poi problema, italiani tutti [dicono] no lavoro (…). Vai, cerca lavoro, cerca, cerca (…). Andato Centro per lavoro [centro per l’impiego], tutti dicono “lavoro dopo, dopo, dopo”. No lavoro ora, dopo, dopo, dopo. Io… aspettiamo, [per] ora niente…»225

Il lavoro dipende dal permesso di soggiorno Nella percezione degli intervistati, la possibilità di trovare un lavoro

dipende dalla condizione giuridica: le aziende italiane, dicono molti profughi, non assumono le persone che non hanno completato la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato: il semplice permesso di soggiorno per “richiesta asilo” non è ritenuto un titolo sufficiente per l’assunzione, perché la sua breve durata (tre mesi) è percepita come indice di precarietà della presenza legale.

A volte, viene richiesta persino la residenza e la relativa carta di identità.

224 Al-„amdulillāh, in arabo «grazie a Dio», espressione diffusa in tutto il mondo islamico. Indica generica soddisfazione per una sorte favorevole. 225 Intervista n. 5, cittadino del Ciad, 29 anni, secondo file, minuto 3 e 30 e ss. L’italiano è stentato, e come si vede l’intervistato usa la seconda persona del verbo per indicare se stesso (“io cerca lavoro”, “io ce l’hai permesso di soggiorno” ecc.), come accade a molti non italofoni (i quali, diversamente da quanto si crede, non utilizzano l’infinito, “io avere permesso di soggiorno”). Gran parte dell’intervista è stata fatta in lingua araba alla presenza di un interprete. In questa parte, invece, l’intervistato ha cercato di parlare italiano.

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«Per mantenere la mia famiglia avrei bisogno di un lavoro stabile, ma è difficile trovarlo perché ho un permesso che dura solo 3 mesi»226. «Non [c’è] lavoro. Non c’è modo di cercare lavoro se non hai la residenza. Se vai da una ditta e non hai la residenza non ti danno il lavoro (…). Mi hanno dato un permesso di soggiorno per tre mesi, e con un permesso così breve nessuno ti dà lavoro (…). A volte non ti danno un lavoro nemmeno con buoni documenti, come posso lavorare con un documento di tre mesi soltanto?»227 I migranti attribuiscono queste rigidità alla legge italiana: in realtà, la

normativa consente esplicitamente l’accesso all’impiego ai richiedenti asilo, purché siano trascorsi almeno sei mesi dalla presentazione della domanda di protezione228.

La difficoltà nel reperire un lavoro potrebbe dipendere non tanto da un’errata interpretazione della legge da parte dei datori di lavoro, quanto dalla precarietà dello status dei migranti, che non fornisce alcuna garanzia sul futuro.

Gli operatori, unica risorsa disponibile Il permesso di soggiorno e il lavoro sono dunque i due problemi più

urgenti, citati in quasi tutte le interviste. Come fare per risolverli, o almeno per cercare di affrontarli? I migranti non hanno, da questo punto di vista, risorse autonome: arrivati da poco in Italia, non hanno rapporti con i connazionali, né una rete di relazioni in grado di fornire informazioni, contatti utili, assistenza.

Le conoscenze con gli immigrati già residenti nella zona, ad esempio, sembrano abbastanza superficiali:

226 Intervista n. 1, cittadino del Togo, 24 anni. L’intervista non è stata registrata, abbiamo riportato una sintesi di quanto ci è stato riferito. 227 Intervista n. 14 citata, minuto 13.31 e ss. 228 L’art. 11 del decreto legislativo 30 maggio 2005, n. 140, dispone che «qualora la decisione sulla domanda di asilo non venga adottata entro sei mesi dalla presentazione della domanda ed il ritardo non possa essere attribuito al richiedente asilo, il permesso di soggiorno per richiesta asilo è rinnovato per la durata di sei mesi e consente di svolgere attività lavorativa fino alla conclusione della procedura di riconoscimento». La stessa disposizione è ripresa all’art. 7 comma 1 del decreto procedure.

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«Non conosco bene gli stranieri che sono qui in città (…). Ogni tanto incontro qualche senegalese, ci diciamo “come va”, e nient’altro (…). Sto tutto il tempo qui a casa, non frequento nessuno. Vedo solo i rifugiati che sono qui al centro con me»229. Ancor più complesse sono le relazioni con gli italiani: privi di un

radicamento sul territorio, i profughi di solito non conoscono né vicini di casa né famiglie residenti nella zona. Nei paesi più piccoli, le parrocchie e i circoli cercano di attivarsi, e organizzano momenti di socialità con i nuovi arrivati (cene, feste, incontri pubblici). Ma le reti relazionali costruite da queste iniziative sono troppo episodiche per rappresentare un punto di riferimento:

«Tutte [le] persone sono buone, tutti paesi buoni (…). Però [le] persone che aiutano [a trovare] lavoro, nessuno (…). Qui persone viene, mangiare, bere vino, e basta. Fanno incontri, fanno meeting per mangiare insieme, ci sono feste, vieni, mangiare insieme, bevi insieme, ma nessuno aiuta con lavoro»230. In un quadro del genere, l’unica vera risorsa sono gli operatori delle

strutture di accoglienza. Questi, in effetti, si fanno carico di tutte le necessità dei profughi: dal sostentamento quotidiano (cibo, vestiti) all’assistenza sanitaria, dalla ricerca di un lavoro al permesso di soggiorno. In più, gli operatori rappresentano spesso il “filtro” obbligato per comunicare con il mondo esterno: sono loro che accompagnano i profughi al Centro per l’Impiego o in Questura, che fissano l’appuntamento con il medico o con l’avvocato, che avviano gli ospiti ai corsi di italiano (promossi dagli stessi enti gestori, o da cooperative convenzionate), che organizzano attività sociali e ricreative.

Questo rapporto così pervasivo con le strutture di accoglienza non è percepito allo stesso modo da tutti gli intervistati. Alcuni sembrano trovarvi una forma di protezione, quasi un surrogato di legami familiari perduti: una ragazza, ad esempio, dice che l’operatrice è affettuosa e

229 Intervista n. 10, cittadino della Costa d’Avorio, 26 anni, minuto 1 e ss. L’intervista si è svolta in lingua francese, qui si riporta la traduzione. 230 Intervista n. 12, cittadino del Bangladesh, 26 anni, minuto 8 e ss.

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disponibile «come una mamma»231. Altri lamentano invece la distanza emotiva di alcuni operatori, la loro freddezza, le frequenti disattenzioni nei confronti degli ospiti232. In altri casi ancora, i profughi vivono con sofferenza questa mancanza di autonomia: vorrebbero essere loro a gestire e organizzare la propria vita, a decidere tempi e modi del rapporto con il mondo esterno. E questa sofferenza si traduce non di rado in conflitti espliciti:

«La Commissione non mi ha dato l’asilo. Io devo fare ricorso, e per il ricorso ci vogliono soldi. Il Comune mette soldi e trova l’avvocato. Loro [gli operatori] dicono che il loro avvocato è necessario se vogliamo rimanere qui. Dicono che se prendiamo un altro avvocato non possiamo più stare qui, dobbiamo andare via. Io ho un altro avvocato, voglio prendere un altro avvocato…»233. Figura positiva o negativa, materna o ostile, attenta o distratta,

l’operatore è vissuto in ogni caso come un «angelo custode», nonché come deus ex machina incaricato di risolvere tutti i problemi o, almeno, come persona potenzialmente capace di risolverli. Su di lui (o su di lei) ricadono quindi le responsabilità di tutto ciò che “non funziona”, anche quando si tratta di questioni lontane dalle sue competenze.

Uno degli intervistati, ad esempio, racconta di avere un problema ai denti: ha chiesto un dentista ma gli è stato risposto che “costa troppo”234. Per chi non conosce il Sistema Sanitario italiano (nel quale, in effetti, le cure odontoiatriche non sono sempre garantite a titolo gratuito235), una risposta del genere suona come un rifiuto sprezzante. E

231 Intervista n. 3 citata, minuto 11. 232 Intervista n. 5 citata, minuto 25. 233 Intervista n. 15 citata, minuto 10 e ss. 234 «Qualche volta gli operatori ci aiutano, qualche volta no… perché io per esempio ho un problema con i denti, i denti sono un problema per me (…). Quando mangio mi fa male… io ho chiesto aiuto, loro dicono che il dentista costa tanti soldi e non vogliono spendere questi soldi…» (intervista n. 14 citata, minuto 7.24 e ss.). 235 «L’assistenza odontoiatrica», si legge in un allegato al decreto sulla “Definizione dei Livelli essenziali di assistenza” «rappresenta il settore in cui il Servizio sanitario nazionale (SSN) ha tradizionalmente presentato un impegno limitato malgrado le molteplici implicazioni di carattere sanitario e sociale, dal punto di vista dei servizi offerti, dei potenziali miglioramenti della qualità della vita e della sostenibilità economica per i singoli e per la collettività» (Decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 23 aprile 2008, Livelli essenziali di assistenza - L.E.A., Allegato 4C - Criteri di

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così la interpreta il diretto interessato: per lui, l’impossibilità di avere cure adeguate è «colpa» dell’operatore.

Talvolta, persino i ritardi nel rilascio del permesso di soggiorno vengono attribuiti alla responsabilità, diretta o indiretta, della struttura di accoglienza236. In questa condizione, come è facile intuire, il rapporto con gli enti gestori è fonte di conflitti e di continue incomprensioni.

Vite “in attesa di status” Dal racconto dei profughi emerge insomma una sorta di regressione

all’infanzia: impossibilitati ad esercitare una qualche “sovranità” sulla propria vita, i migranti dipendono pressoché interamente dai “custodi” delle strutture. Il rapporto col territorio, con il vicinato, con gli uffici pubblici e i servizi, è costantemente “filtrato”, e molte semplici azioni della vita quotidiana devono essere negoziate e concordate con il personale del centro di accoglienza.

Si tratta di una vera e propria “istituzionalizzazione”, che tuttavia dipende solo in parte dalle scelte degli enti incaricati di assistere i profughi, dai loro metodi di lavoro, dalle loro strategie organizzative e gestionali. Certo, il comportamento delle singole strutture, o addirittura dei singoli addetti, può fare la differenza: dalle interviste emergono situazioni molto diversificate, e non sono pochi i casi in cui ci si adopera per favorire la più ampia autonomia degli ospiti237. E tuttavia,

erogazione delle prestazioni odontoiatriche, in http://www.epicentro.iss.it/focus/ lea/lea.asp). 236 Si veda per esempio intervista 13 citata, minuto 14 e ss.; intervista n. 15 citata, minuto 9 e ss.; intervista n. 4, cittadino del Ciad, 25 anni, minuto 18 e ss. 237 Nell’intervista n. 3, ad esempio, una ragazza nigeriana racconta di essere ospitata in un appartamento autonomo, in cui abita assieme al fidanzato: la coppia non vive dunque in un centro di accoglienza, non è costretta alla coabitazione con altri profughi, e conduce una vita familiare del tutto ordinaria. La casa si trova nel centro di un piccolo paese, e questo ha consentito ai due giovani di stringere buoni rapporti di vicinato anche con famiglie italiane. La vita quotidiana (fare la spesa, cucinare, mangiare) è gestita in totale autonomia, e la ragazza racconta di aver fatto amicizia con il gestore di un piccolo negozio africano, dove compra abitualmente verdure e prodotti del suo paese. L’operatrice è attiva, assiste il nucleo familiare, segue le pratiche di soggiorno e fornisce consigli utili sulla ricerca di lavoro: ma la sua presenza è discreta, e lascia ampia autonomia alla coppia nella gestione della vita quotidiana (intervista n. 3 citata). All’opposto, altri profughi restituiscono l’immagine di una vita costantemente regolata e

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siamo di fronte a un problema strutturale, su cui i margini di intervento per gli enti gestori sono abbastanza limitati: è infatti la particolarissima condizione giuridica delle persone accolte ad ostacolare, se non proprio ad impedire, l’avvio di percorsi di inserimento sociale. Vale la pena interrompere per un momento la nostra ricostruzione, e soffermarci brevemente su questo punto.

Tutti i profughi sbarcati a Lampedusa hanno dovuto presentare domanda di asilo: la compilazione del “modello C3” rappresentava, di fatto, la condizione per entrare nel progetto ENA, e per usufruire dell’accoglienza nelle relative strutture. Come abbiamo visto, coloro che chiedono la protezione internazionale devono sottoporsi al “verdetto” della Commissione: nel frattempo, hanno diritto ad un permesso di soggiorno provvisorio, generalmente di breve o di brevissima durata, in attesa dell’esito della procedura.

Ora, proprio questo status “di transizione” ostacola qualunque progetto a lungo termine. Per andare in un’altra città a cercare un lavoro stabile, ad esempio, i profughi ENA devono aspettare il permesso di soggiorno definitivo; per “emanciparsi” dalla struttura di accoglienza, e trovare un alloggio proprio, devono ottenere lo status di rifugiato (o quello di protezione sussidiaria/umanitaria). Tutte le decisioni importanti devono essere rimandate: nel frattempo, i profughi devono solo aspettare, e gli enti gestori devono farsi carico della loro vita quotidiana.

I ritmi della burocrazia sono però lenti, lentissimi, e la vita dei migranti resta “sospesa” per un tempo indefinito. La dipendenza dagli enti gestori ha origine da questa singolare condizione giuridica, che potremmo definire – se ci è concesso il gioco di parole – lo “status dello straniero in attesa di status”. Si tratta di una precarietà che modifica radicalmente la vita quotidiana: nelle strutture di accoglienza si vive, per così dire, “alla giornata”, non si fanno progetti a lungo termine, non si costruiscono percorsi di emancipazione e di autonomia, non si pensa al futuro. Le settimane passano monotone, tutte uguali:

«Sono in questo centro da quasi un anno e mezzo… Il giorno non faccio nulla… Mangiare dormire, mangiare dormire… Mangio solo

controllata dagli operatori: nelle interviste n. 4 e n. 5, ad esempio, raccontano di non poter nemmeno cucinare, perché i pasti sono forniti da una ditta di catering.

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pasta, pasta, pasta, pasta… Pasta è cibo italiano, non cibo africano, io non piace pasta…»238 «In Italia sto bene perché almeno qui non ci sono guerre. Non faccio nulla tutto il giorno, e questo mi fa male, perché ho troppo tempo per pensare. Penso sempre ai problemi, ai problemi di mia moglie e delle mie figlie in Pakistan. Ci penso tutti i giorni e non posso fare nulla»239. «Io sempre in tensione, molti problemi… sempre pensieri di problemi, senza lavoro, senza documenti, che fai? Però qua [il] responsabile [non] fa niente… sempre dice “aspettare, presto, presto”»240.

Radio profughi: le voci che corrono «Sempre in tensione, sempre pensieri…». Le parole dell’intervistato

riportate qui sopra descrivono bene la condizione emotiva dei profughi. Le giornate trascorrono lente e vuote, e così ci si abbandona volentieri ad una sorta di “flusso di coscienza”: si rievocano i drammi del passato – la guerra, la fuga dalla Libia, l’arrivo in Italia –, si ripercorre a ritroso la propria vita, si richiamano alla mente i familiari rimasti al paese di origine.

Di tanto in tanto, però, c’è bisogno di tornare al presente. A quella domanda di asilo che giace ancora nei cassetti della burocrazia italiana. A quella procedura che non si sblocca, a quella Commissione che dovrebbe decidere e che invece non decide. C’è bisogno di capire cosa sta succedendo: le risposte degli operatori e dei legali, come abbiamo visto, suonano incomprensibili, e generano diffidenza e sospetto.

Isolati dal contesto sociale, senza radici in Italia e senza legami col territorio, i profughi hanno però una risorsa preziosa: il passa-parola, le “voci che corrono” tra le diverse strutture di accoglienza. La pur breve esperienza migratoria ha infatti sedimentato qualche legame: nel viaggio

238 Intervista n. 14 citata, minuto 14. Le lamentele sulla qualità del cibo sono presenti in molte interviste: in molti casi gli enti gestori non consentono ai profughi l’uso della cucina, e forniscono i pasti tramite ditte di catering, come si è visto. Queste ditte di solito preparano piatti italiani, e nel menu compaiono abitualmente la pasta e il formaggio, che difficilmente sono apprezzati dai migranti provenienti dalle aree sub-sahariane. 239 Intervista n. 2 citata. 240 Intervista n. 13 citata, minuto 14 e ss.

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via mare, i migranti hanno incontrato connazionali con cui hanno condiviso emozioni e paure; durante il soggiorno a Lampedusa hanno stretto qualche amicizia, di cui restano ora i numeri di telefono o gli account di posta elettronica; nei frequenti spostamenti da un “centro” all’altro hanno lasciato amici e conoscenti.

Questi contatti, frutto di incontri episodici ma cementati dalla solidarietà tipica di chi vive una condizione comune, sono ora preziosi per avere qualche notizia. Così, chi è ancora in attesa di essere convocato dalla Commissione, alza il telefono, chiama amici e connazionali, chiede cosa sta succedendo in altri centri di accoglienza. Le informazioni così ottenute rappresentano uno strumento prezioso per farsi una propria idea, autonoma – e qualche volta contrapposta – alle “versioni ufficiali” fornite da operatori e avvocati241.

La presenza di questo network di contatti è ben visibile in molte interviste: i migranti fanno spesso paragoni tra la propria condizione e quella di amici, parenti o connazionali ospiti di altre strutture. Un giovane del Bangladesh, ad esempio, durante il colloquio apre una cartellina rossa e ne estrae quattro documenti: sono i permessi di soggiorno rilasciati ai profughi di varie città italiane, scannerizzati e inviati per posta elettronica. Il giovane si avvicina e ci mostra i fogli uno ad uno. I permessi sono tutti per richiesta di asilo: il primo è stato rilasciato dalla Questura di Napoli per la durata di un anno; il secondo è della Questura di Torino, ed è valido per sei mesi; il terzo è ancora di Napoli (“yes, Napoli, mafia…”, scherza il ragazzo), e anch’esso ha una durata di un anno; l’ultimo proviene da Alessandria ed è di sei mesi242.

Il giovane, che ha un permesso per richiesta di asilo della durata di appena tre mesi, si chiede perché la Questura si sia limitata a concedere un tempo così breve. Per questo ha deciso di fare qualche confronto con altre città, scoprendo che altrove si rilasciano permessi più lunghi. In questo come in altri casi, i contatti tra i diversi centri di accoglienza sono decisivi per far circolare informazioni, suggerimenti, consigli, notizie.

241 Sulle “voci che corrono” tra i profughi si è soffermato anche il lavoro curato da Fabio Bracci: cfr. F. Bracci (a cura di), Emergenza Nord Africa. I percorsi di accoglienza diffusa. Analisi e monitoraggio del sistema, Pisa, Pisa University Press, 2012, pp. 129 e ss. 242 Intervista n. 12 citata, primo file, minuto 27 e ss.

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I “PRECOCI”: LE TRAIETTORIE DI CHI HA SCELTO DI

ALLONTANARSI Volontariamente precosi: le ragioni di una rottura

Non tutti i profughi dell’Emergenza Nord Africa hanno seguito il

percorso di accoglienza fino alle sue battute finali: fino, cioè, a quel fatidico 28 Febbraio 2013, quando le strutture che avevano ospitato i migranti sono state definitivamente chiuse. Alcuni si sono allontanati volontariamente a metà del percorso, quasi sempre dopo aver ottenuto un permesso di soggiorno per protezione internazionale.

Abbiamo ritenuto utile dedicare uno specifico focus a queste persone, per valutare se, e in quale misura, il loro inserimento sociale e lavorativo abbia seguito traiettorie diverse rispetto a quelle dei profughi assistiti per tutto il periodo previsto dal sistema ENA.

Prima di cominciare la nostra analisi, sarà bene chiarire un elemento di fondo: per un richiedente asilo o un rifugiato, abbandonare la propria struttura di accoglienza rappresenta un gesto tutt’altro che banale. Per capirne la portata, dobbiamo avere ben chiare le differenze tra la condizione dei profughi e quella degli immigrati: questi ultimi decidono consapevolmente di abbandonare i paesi di origine, e per intraprendere il loro percorso migratorio si appoggiano di solito alle reti sociali dei connazionali già presenti in Italia. Una letteratura ormai ricchissima243 si è soffermata a lungo su questi network informali, che orientano le scelte migratorie dei singoli, e offrono una preziosa assistenza logistica nei paesi di arrivo.

Per dirla in termini semplici, chi decide di venire nel nostro paese si appoggia ai fratelli, ai cugini, ai vicini di casa che hanno intrapreso lo stesso percorso: questi contatti consentono spesso di ottenere un regolare visto di ingresso (perché, ad esempio, sono i parenti già in Italia a trovare un datore di lavoro disposto a richiedere l’assunzione

243 Gli studi sulle reti sociali connesse ai fenomeni migratori sono numerosissimi, ed è ovviamente impossibile (oltre che inutile) darne conto in questa sede. Per un primo inquadramento si veda almeno: M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 79-100; L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, Bari-Roma, Laterza, 2004, pp. 69-101; M. Ambrosini, Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, Bologna, Il Mulino, 2008.

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dall’estero244), e garantiscono comunque una prima ospitalità, nonché un supporto nel primo periodo di permanenza.

La condizione dei richiedenti asilo – e in particolare dei profughi in arrivo dalla Libia – è del tutto diversa: di norma, essi sono giunti in Italia senza l’appoggio di reti sociali e parentali. La stessa destinazione del viaggio non è sempre stata scelta liberamente, ma può essere frutto di circostanze casuali: molti profughi raccontano di essere fuggiti all’improvviso dalle loro case e dai loro luoghi di lavoro, di essere stati scortati nei porti dalla milizia di Gheddafi, e imbarcati con la forza sulle navi; spesso hanno appreso di essere diretti in Italia solo al loro arrivo a Lampedusa245.

Privo di risorse relazionali, il profugo si trova in una condizione di maggiore fragilità, e spesso la struttura di accoglienza di cui è ospite rappresenta l’unico suo punto di riferimento: la decisione di abbandonare il percorso ENA può costituire da questo punto di vista un vero e proprio “salto nel buio”, difficile e rischioso.

Prima di effettuare le interviste, eravamo persuasi che all’origine di una scelta del genere vi dovesse essere necessariamente un conflitto con gli operatori, o comunque un vissuto di forte disagio all’interno delle strutture di accoglienza. I diretti interessati, però, hanno smentito questo assunto iniziale: chiamati a rievocare la loro storia recente, molti hanno trasmesso un’immagine sostanzialmente positiva del percorso ENA, pur sottolineando criticità e inefficienze. In qualche caso, 244 Come noto, l’ingresso per lavoro è regolato da una complessa procedura, che deve essere avviata quando lo straniero si trova ancora al paese di origine: secondo il Testo Unico sull’Immigrazione, infatti, non è consentita l’attività lavorativa allo straniero giunto in Italia senza un idoneo visto per lavoro. La normativa prevede sanzioni molto severe nei confronti del datore di lavoro che proceda all’assunzione di un immigrato privo dei requisiti richiesti (si veda Testo Unico Immigrazione, decreto legislativo 286/98 e successive modifiche ed integrazioni, art. 22 comma 12). D’altra parte, lo straniero presente in Italia senza permesso di soggiorno non può essere regolarizzato con un contratto di lavoro, perché la normativa prevede l’espulsione dal territorio nazionale (art. 13 comma 2). Per poter procedere ad un’assunzione regolare, il datore di lavoro deve dunque effettuare una chiamata dall’estero (art. 22). Su questi temi mi permetto di rimandare ad un mio scritto: S. Bontempelli, Il governo dell’immigrazione in Italia: il caso dei “decreti flussi”, in Tutela dei diritti dei migranti, a cura di P. Consorti, Pisa, Plus, 2009, pp. 115-136. 245 Testimonianze di questo tipo sono assai numerose: ne abbiamo trovato traccia non solo nelle interviste effettuate per questa ricerca, ma anche – più in generale – nella nostra esperienza associativa con i rifugiati. Si veda anche, in questa stessa ricerca, il capitolo 8 (parte terza): S. Burchi, I profughi e le loro storie.

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abbiamo registrato parole di esplicita gratitudine nei confronti degli enti gestori246:

«Oggi vivo a Roma, ma fino a poco tempo fa ero a Pisa nella struttura XXX… gli operatori mi hanno trattato bene, sono stati sempre gentili con me. Oggi li ringrazio, perché hanno fatto tante cose, mi hanno insegnato l’italiano, mi hanno fatto avere i documenti, il permesso di soggiorno, il passaporto… se non era per loro oggi ero clandestino, e invece faccio una vita normale, con documenti a posto…»247 «Quando ero a Pisa gli operatori mi hanno aiutato tanto. Era un periodo difficile per me e loro mi sono stati vicini… Oggi li ringrazio perché mi hanno aiutato, davvero. Poi è anche vero che non tutto funzionava bene… per esempio non sono riusciti a trovarmi un lavoro, e anche il mio permesso di soggiorno è arrivato tardi, ho dovuto aspettare tanti mesi per averlo. Però sono contento lo stesso, so che hanno fatto di tutto per aiutarmi e li ringrazio…»248 Chiamati a valutare la loro esperienza, molti ricordano le attese

infinite per ottenere i sospirati documenti di soggiorno, o lamentano la scarsa efficacia degli enti gestori nella ricerca del lavoro. Ma nel complesso non emergono veri e propri conflitti, tali da giustificare la scelta di andarsene: al contrario, molti intervistati riconoscono nell’accoglienza ENA una tappa fondamentale del loro percorso migratorio, che ha favorito (e non ostacolato) il successivo inserimento sociale.

A cosa si deve allora la decisione di abbandonare le strutture? Le risposte sono, su questo punto, assolutamente convergenti: tutti hanno raggiunto familiari, amici e connazionali già emigrati in Italia, e residenti in altre città. Abbiamo dunque a che fare con richiedenti asilo “fortunati”, la cui condizione li avvicina in un certo senso ai migranti

246 I migranti sono stati intervistati quando già avevano abbandonato i loro centri di accoglienza. Non vi è dunque motivo di pensare che le parole di gratitudine da loro espresse non fossero sincere: non vi sarebbe stato alcun motivo di mentire. 247 Intervista n. 1, cittadino della Costa d’Avorio, 25 anni. L’intervista è stata effettuata in lingua italiana al telefono: su richiesta dell’interessato, il colloquio non è stato registrato, e le parole qui trascritte sono tratte dai nostri appunti. 248 Intervista n. 2, cittadino del Ghana, 28 anni. Anche in questo caso l’intervista, effettuata per telefono, non è stata registrata.

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cosiddetti “economici”: si tratta cioè di persone che disponevano di qualche contatto nel nostro paese, e che per questo hanno deciso – avendone l’opportunità – di intraprendere un proprio percorso di vita, appoggiandosi alla rete sociale o familiare di riferimento.

«Ho un cugino che sta a Milano, e ha un negozio di kebab. Quando sono arrivato in Italia volevo andare da lui, ma lui mi ha detto di rimanere fino a che non prendevo un permesso di soggiorno definitivo. Così ho aspettato di andare in Commissione. Poi finalmente mi hanno dato l’asilo politico e sono andato da mio cugino»249. «Mio zio sta in Italia da tantissimo tempo. Abita a Roma ed è proprietario di un phone center vicino alla Stazione. Io non volevo stare al centro di accoglienza, ma dovevo starci per avere i documenti. Quando finalmente è arrivato il permesso di soggiorno sono andato a Roma»250. In altre parole, ciò che ha spinto alcuni profughi ad abbandonare

l’ENA non è tanto (o non solo) l’insoddisfazione per le strutture di accoglienza, quanto (soprattutto) la possibilità di vivere una vita diversa: giocando un po’ con i termini tecnici della sociologia delle migrazioni, si potrebbe dire che la “migrazione” (dal sistema ENA) non è stata causata dai push factors (dai fattori “di spinta”, così chiamati perché inducono ad abbandonare il proprio luogo di residenza), ma dai pull factors (i fattori “di attrazione”, ossia le opportunità offerte dai luoghi di arrivo).

L’integrazione “autogestita” e i circuiti dell’informale Abbandonate le strutture di accoglienza, raggiunti parenti e amici in

altre città, i profughi non fanno fatica a trovare un lavoro: quasi tutti riescono, sfruttando le proprie conoscenze, a ottenere un primo impiego, spesso precario o comunque percepito come provvisorio.

249 Intervista n. 3, cittadino del Pakistan, 34 anni. L’intervista è stata effettuata al telefono in lingua inglese, le parole qui riportate sono una traduzione. 250 Intervista n. 4, cittadino del Bangladesh, 32 anni. L’intervista è stata effettuata al telefono in lingua inglese, le parole qui riportate sono una traduzione.

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«Sono andato a vivere da un mio parente. Lui lavora in una ditta, fa il manovale… Ha un buon rapporto con il padrone della ditta, e una volta gli ha chiesto se avevano bisogno di qualcuno per venire a lavorare. Lui gli ha detto di sì e così mi hanno chiamato… Ho fatto un periodo di prova, e il padrone era contento di me… ora lavoro, non ho ancora il contratto regolare, mi dicono sempre “domani, domani, domani”… lavoro al nero… comunque lavoro, e questo per ora è l’importante»251. «Avevo dei parenti in Italia che mi hanno aiutato a trovare una stanza da alcuni amici… ora vivo con i miei connazionali della Costa d’Avorio: ho anche trovato un lavoro, faccio il manovale in una ditta dove lavorano dei miei amici. Mi hanno preso con un part-time, non prendo tanti soldi, ma almeno riesco a pagare l’affitto… spero magari di trovare un lavoro migliore»252. «Mio zio è proprietario di un phone center… io ora lavoro da lui. Per la verità non c’è moltissimo lavoro, è un brutto momento anche per lui e non sempre riesce a pagarmi. Però intanto lo aiuto, a volte lo aiuto al negozio e a volte sto a casa, gli tengo i bambini e pulisco. Non prendo tanti soldi, però almeno ho una casa e sono tranquillo»253. Quel lavoro che si cercava inutilmente, attraverso la paziente stesura

di curriculum e le visite periodiche (e inutili) al Centro per l’Impiego, sotto l’attenta supervisione degli operatori dei centri di accoglienza, viene ora trovato nel modo più semplice: attraverso il passa-parola tra connazionali, utilizzando i canali fiduciari che dai profughi arrivano fino ai datori di lavoro, passando per amici, familiari, conoscenti, intermediari di vario tipo.

Il carattere informale della comunicazione (il passaparola al posto del curriculum, la “raccomandazione” di un amico al posto dell’iscrizione al collocamento) consente ai profughi di entrare in contatto con quei segmenti del mondo del lavoro nei quali prevale l’informalità: con i canali del lavoro nero o grigio, sommerso o semisommerso, “a chiamata” o senza contratto; con il mondo

251 Intervista n. 2 citata. 252 Intervista n. 1 citata. 253 Intervista n. 4 citata.

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dell’impresa familiare, dove l’orario di lavoro si dilata fino a confondersi coi tempi di socialità e di riproduzione della vita quotidiana (emblematico è il caso del giovane che aiuta lo zio nella conduzione del phone center, assistendolo anche nella cura dei bambini e nella pulizia della casa).

L’ingresso in questi circuiti non sarebbe stato possibile nel corso della permanenza all’interno delle strutture ENA: perché nessun datore di lavoro assumerebbe “al nero” uno straniero inviato dal Centro per l’Impiego, assistito dagli operatori, ospitato dalle Prefetture, seguito dalla Protezione Civile…

Il prezzo da pagare: dalla “emersione” alla “immersione” Questo (relativo) inserimento sociale comporta però dei prezzi da

pagare. Inseriti nel sistema ENA, i profughi si erano visti garantire una qualche forma di “emersione”: grazie alla richiesta di asilo, e alla complessa procedura delle Commissioni, erano stati rilasciati loro dei permessi di soggiorno; in qualche caso, i migranti avevano ottenuto anche la residenza anagrafica, ed erano comunque in contatto con uffici e servizi pubblici (ospedali e medici di famiglia, Centri per l’Impiego, Questure e Prefetture, Comuni e servizi sociali).

Ora i rapporti con i servizi tendono a diradarsi, e l’«informalità» dell’inserimento lavorativo sembra contagiare anche altri ambiti della vita. Si finisce così per abitare in alloggi senza un regolare contratto di affitto; si perdono del tutto i contatti con il Centro per l’Impiego, che ormai non è più percepito come un’istituzione utile; la precarietà abitativa rappresenta un ostacolo (reale o percepito) per l’ottenimento della residenza anagrafica, e si perde così il diritto al medico di famiglia.

«Non ho ancora preso la residenza perché sono ospite di miei connazionali, e il padrone di casa non sa che abito lì… Non ho ancora un medico, so che se mi sento male posso andare all’Ospedale, ma per fortuna non ho mai avuto bisogno di andarci»254. «Non ho mai pensato di prendere la residenza, e non ho un medico perché sto bene, non ho bisogno di andare dal dottore… se succede

254 Intervista n. 1 citata.

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qualcosa ho delle persone che mi aiutano, che mi portano in Ospedale»255. Laddove l’accoglienza ENA aveva garantito una forma di

«emersione», ora i profughi sembrano ricacciati in una sorta di «reimmersione». La stessa regolarità di soggiorno rischia di esserne compromessa: se nell’immediato tutti i profughi hanno un permesso in tasca, la mancanza di un regolare contratto di lavoro, di una residenza anagrafica e di un alloggio idoneo mette a rischio le successive possibilità di rinnovo256.

Si tratta di una constatazione che facciamo, per così dire, “dall’esterno”: come emerge anche dai brevi stralci di intervista riportati qui sopra, i diretti interessati non sembrano vivere in modo problematico la loro nuova condizione. Al contrario. Molti si dichiarano soddisfatti del permesso di soggiorno, che consente di circolare liberamente senza il rischio di provvedimenti espulsivi: la residenza anagrafica, il medico di famiglia, il rapporto con i servizi sociali e con gli uffici pubblici non vengono percepiti come “necessari”. Molti bisogni vengono soddisfatti attraverso altri canali: la solidarietà familiare

255 Intervista n. 4 citata. 256 A termini di legge, il permesso di soggiorno per protezione internazionale (asilo politico, protezione sussidiaria e umanitaria) rappresenta un diritto soggettivo del migrante, e deve dunque essere garantito finché permangono le condizioni che ne hanno imposto il rilascio: persecuzione individuale nel paese di origine, rischio di subire un grave danno in caso di rimpatrio, gravi motivi di carattere umanitario che giustificano la permanenza in Italia (si veda, per i profili di diritto soggettivo nella normativa sull’asilo politico, M. Gestri, Obblighi internazionali di protezione dello straniero e tutela dei diritti “universali” della persona, in Immigrazione, diritto e diritti: profili internazionalistici ed europei, a cura di A.M. Calamia, M. Di Filippo e M. Gestri, Padova, CEDAM, 2012, pp. 279 e ss.). Ai fini del semplice rinnovo di questi documenti, dunque, non è necessario avere un lavoro regolare o un alloggio idoneo. Tuttavia, quando vengono a mancare i requisiti per la protezione (e ciò riguarda in particolare i titolari di permessi per protezione umanitaria), i migranti possono richiedere di convertire i loro titoli di soggiorno in permessi per motivi di lavoro: in questo caso, la normativa impone la sussistenza di requisiti di lavoro (un regolare contratto), di reddito (di importo minimo equivalente all’assegno sociale), e di alloggio (idoneità ai sensi della normativa regionale sull’Edilizia Residenziale Pubblica). Si veda in particolare Testo Unico Immigrazione, decreto legislativo 286/98 e successive modifiche ed integrazioni, artt. 5-bis (per i requisiti di alloggio) e 22 (per i requisiti di lavoro); Regolamento di Attuazione del Testo Unico Immigrazione, DPR 394/99 e successive modifiche ed integrazioni, art. 30-bis, comma 3, lettera c (per i requisiti di reddito).

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e quella comunitaria, l’assistenza offerta da parenti e amici, in alcuni casi anche l’aiuto offerto dalla comunità religiosa di appartenenza257.

I “PREMATURI”: LA BREVE ACCOGLIENZA DEI TUNISINI

I fuga dalla “Rivoluzione dei Gelsomini” Come noto, il flusso dei profughi provenienti dalla Libia era stato

preceduto dagli sbarchi di migranti tunisini, in fuga dai tumultuosi eventi che avevano portato al rovesciamento del regime di Ben Ali.

Abbiamo già avuto modo di vedere le due differenti strategie adottate dal Governo italiano per governare questi flussi: mentre i profughi in arrivo dalla Libia sono stati trattati come richiedenti asilo, e inseriti nel sistema ENA, i tunisini hanno beneficiato di una prima accoglienza – durata poche settimane – e successivamente si sono visti rilasciare un permesso di soggiorno per “motivi umanitari”. In seguito alla concessione di tali permessi, solo pochi sono rimasti ospiti delle strutture di accoglienza: tutti gli altri si sono volontariamente allontanati.

Che ne è stato di queste persone? Quale è stato il loro percorso, dopo l’uscita dai centri di accoglienza? Quali conseguenze ha avuto, sulla loro successiva traiettoria di vita, il mancato inserimento nella complessa macchina assistenziale dell’Emergenza Nord Africa?

La Francia, Terra Promessa È noto che molti tunisini, una volta ottenuto il permesso di

soggiorno italiano, hanno scelto la strada della Francia: le immagini della frontiera di Ventimiglia “assediata” dai migranti nella Primavera 2011 hanno fatto il giro del mondo, suscitando un vivace dibattito tra le forze politiche, e provocando qualche problema diplomatico con il paese transalpino. Anche tra i profughi ospiti delle strutture pisane vi

257 Uno degli intervistati, ad esempio, è un cristiano pentecostale, e una volta arrivato a Torino si è messo in contatto con una chiesa appartenente a questa denominazione. I confratelli garantiscono non solo l’inserimento in una comunità, ma anche aiuti materiali e assistenza in caso di bisogno (cfr. intervista n. 2 citata).

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sono persone che hanno scelto la Francia come destinazione del loro viaggio: molti di loro avevano parenti, amici e connazionali emigrati oltralpe (in particolare nella zona di Marsiglia), e sin dai primi giorni della loro permanenza a Pisa non fecero mistero della loro volontà di lasciare l’Italia258.

Tra i tunisini intervistati, due si trovano attualmente ad Aix-en-Provence. Una volta ottenuto il permesso di soggiorno, hanno attraversato la frontiera di Ventimiglia e hanno raggiunto alcuni connazionali:

«Quando mi hanno dato il permesso di soggiorno sono venuto via da Pisa, perché in Italia è impossibile trovare un lavoro. Ho dei parenti in Corsica ma loro mi avevano detto che anche laggiù trovare lavoro era difficile. Così ho cercato degli amici che vivevano a Marsiglia e sono andato a vivere a casa loro per qualche tempo. Loro mi hanno ospitato e mi hanno messo in contatto con altri tunisini che stavano ad Aix, dicevano che ad Aix c’era la possibilità di trovare un lavoro e infatti quando sono andato lì l’ho trovato»259. «Prima sono andato a Marsiglia, perché un mio amico aveva dei parenti laggiù. In realtà il mio amico è andato a vivere dai suoi parenti, ma loro non potevano ospitare anche me. Così per un periodo ho dormito fuori, ero senza casa, spesso passavo le notti alla Stazione, o in qualche casa abbandonata. Non riuscivo a trovare un lavoro, così ho provato ad andare a Parigi ma lì se non conosci nessuno la vita è difficile… dopo un po’ il mio amico mi ha chiamato al telefono, mi ha detto che mi aveva trovato un lavoro ad Aix-en-Provence e allora sono partito. Ho vissuto in una casa di tunisini per qualche tempo, poi ho conosciuto una ragazza marocchina e mi sono sposato. Tramite degli amici di mia moglie ho trovato un lavoro, lavoro in un cantiere, sono al nero ma lavoro»260.

258 Nell’Aprile 2011, al momento dell’arrivo dei profughi tunisini a Pisa, i volontari dell’associazione Africa Insieme avevano preso contatti con gli ospiti del campo della Bigattiera. Già in quei primi colloqui – dunque ben prima di cominciare la presente ricerca – era emersa la volontà di raggiungere i propri parenti in Francia. Se ne trovano tracce anche in alcuni articoli dei giornali locali, che riportavano interviste ai profughi (cfr. per es. A. Casini, Duiss, 26 anni, “sogno un lavoro”, da ieri vive sulla Bigattiera, «La Nazione», cronaca di Pisa, 7 Aprile 2011). 259 Intervista n. 6, cittadino tunisino, 27 anni. 260 Intervista n. 7, cittadino tunisino, 23 anni.

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Nel racconto dei due ragazzi intervistati, la vita in Francia appare molto difficile. Il permesso di soggiorno italiano consente di non essere espulsi, ma non abilita all’attività lavorativa né all’ottenimento di una residenza: si resta come “turisti”, ma di fatto si vive in una situazione di semi-irregolarità.

Per di più, il permesso italiano non era indefinitamente rinnovabile: terminata la fase dell’«emergenza», e dunque della protezione umanitaria, si poteva procedere alla conversione per motivi di lavoro, qualora si disponesse di un contratto di assunzione e di un alloggio idoneo sul territorio nazionale. Ovviamente, chi si era trasferito oltralpe non poteva avere questi requisiti: così, l’ambigua condizione di “turisti” si è presto trasformata nel più complesso e umiliante status di sans-papier.

«Ora che i nostri permessi italiani sono scaduti la polizia francese è più cattiva, se ti trovano ti rimandano in Italia, in Italia ti prendono il permesso scaduto e ti rispediscono in Tunisia. Per questo siamo tutti molto preoccupati, e io ho paura di essere mandato via»261. Eppure, l’assenza di regolari documenti non impedisce di trovare

una qualche forma di inserimento: gli intervistati lavorano, sia pure al nero, vivono nelle case dei loro connazionali, pagano un affitto e riescono persino a mandare un po’ di soldi alle famiglie rimaste nel paese di origine.

I “sommersi” in Italia Chi, per scelta o per necessità, è rimasto in Italia, ha finito per

condurre una vita assai più precaria. Uno degli intervistati, ad esempio, è stato ospite di un centro di accoglienza a Modena: ha scelto di fuggire ed è venuto a Pisa, dove aveva alcuni cugini. Poi, ha saputo che ai tunisini veniva rilasciato un permesso di soggiorno, e si è precipitato a Modena, dove è riuscito ad ottenere il sospirato documento. Tornato nuovamente a Pisa, non è riuscito ad ottenere un’abitazione stabile, e anche i suoi parenti non lo hanno aiutato. Così, si è trasformato in un senza fissa dimora, e ha avuto anche qualche problema con le forze dell’ordine:

261 Intervista n. 6 citata.

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«Non avevo un posto dove dormire e allora sono andato con alcuni amici in una casa abbandonata. Un giorno sono venuti i Carabinieri e mi hanno fatto uscire, dicevano che ero abusivo e che non potevo stare là. Dopo ho scoperto che mi avevano fatto una denuncia per furto, dicevano che avevo rubato delle cose dentro la casa, che ero andato lì per rubare, ma non era vero, io ero lì solo per dormire. Ho dovuto mettere un avvocato ma nel frattempo mi hanno levato il permesso di soggiorno, e ora sono clandestino…»262. Alcuni suoi connazionali si sono offerti di ospitare il giovane in una

casa a San Miniato. Così, abbandonata Pisa, è cominciata una nuova vita nella zona del Valdarno: una vita fatta di piccoli lavori saltuari (nei cantieri, o nei campi durante le stagioni del lavoro agricolo), in condizione di irregolarità, senza un permesso di soggiorno.

Un altro giovane tunisino, già ospite di un centro di accoglienza a Pisa, dopo aver ottenuto i documenti ha deciso di andare a Bologna, anche in questo caso per raggiungere alcuni parenti. Non è riuscito a trovare un lavoro stabile e ha avuto molte difficoltà anche nell’inserimento abitativo. Tuttavia, la sua condizione di regolare gli ha consentito almeno di usufruire dei servizi erogati dal Comune di Bologna:

«Mi hanno dato una casa del Comune [si tratta probabilmente di un alloggio di emergenza abitativa, ndr.] fino alla fine del 2012, poi mi hanno buttato fuori. Ora vivo al dormitorio e mangio alla mensa del comune… faccio qualche piccolo lavoro, ho lavorato per un mese come magazziniere e facchino, poi con una ditta mi sono messo a dare i volantini, però non riesco a trovare un lavoro stabile…»263

Fuori dall’ENA: l’integrazione “in proprio” Come si vede, le storie dei migranti che sono usciti

“prematuramente” dall’Emergenza Nord-Africa, o quelle dei tunisini che non vi sono mai entrati, restituiscono un’immagine contraddittoria, e per molti aspetti paradossale.

262 Intervista n. 8, cittadino tunisino, 24 anni. 263 Intervista n. 8, cittadino tunisino, 25 anni.

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Privi di quell’assistenza continuativa che ha caratterizzato le strutture dell’ENA, questi migranti hanno dovuto, per così dire, “fare tutto da soli”: hanno dovuto arrangiarsi per cercare un lavoro, per trovare una stanza in affitto o un letto dove dormire, per risolvere i problemi della vita quotidiana. Nel loro percorso di inserimento, si sono avvalsi per lo più delle reti informali dei connazionali, non potendo fare riferimento a quell’organizzazione complessa e formalizzata che ha invece aiutato e indirizzato i profughi ENA.

Hanno, senza dubbio, pagato un prezzo per questa loro diversa condizione: nei casi peggiori, hanno finito per perdere il permesso di soggiorno e per diventare irregolari. Nei casi (relativamente) più fortunati, sono riusciti ad inserirsi nei circuiti dell’integrazione “informale”: oggi lavorano in modo precario o al nero, vivono in alloggi spesso fatiscenti, hanno redditi bassi e devono appoggiarsi, per sopravvivere, ai circuiti della solidarietà familiare o comunitaria. In molti casi, essi hanno reciso il rapporto con i servizi pubblici: non hanno la residenza, non hanno un medico di famiglia, non frequentano il Centro per l’Impiego né i servizi sociali. Vivono, insomma, in quella condizione di “inclusione subordinata” che è tipica di gran parte dei migranti.

Nonostante questo, essi hanno comunque raggiunto una qualche forma di inserimento: precario e deteriore, ma pur sempre un inserimento. Chi invece ha seguito il percorso dell’Emergenza Nord Africa si è spesso trovato, al momento della chiusura delle strutture, al punto di partenza: a doversi orientare nel mondo del lavoro, a dover trovare una qualche sistemazione alloggiativa, a dover quasi cominciare da zero.

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CAPITOLO 10

TRAIETTORIE DI CAMBIAMENTO NELLE COMUNITÀ STRANIERE

Gaia Colombo

L’idea alla base del progetto di ricerca da cui nasce questa

pubblicazione è stata, fin da subito, quella di offrire una lente d’ingrandimento attraverso cui osservare il concreto, quotidiano evolversi e dispiegarsi di un sistema d’accoglienza in relazione a un territorio e a un tessuto sociale specifico. L’intento era, a partire dai risultati di un monitoraggio puntuale già effettuato a livello regionale, approfondire l’analisi, affondare lo sguardo sui percorsi personali e le reti di relazioni costruite, dentro e fuori dalla macchina istituzionale. Da qui è nata l’esigenza di ascoltare anche la voce di alcuni migranti che vivono stabilmente nella provincia di Pisa e che, direttamente o indirettamente, sono entrati in relazione con i richiedenti asilo arrivati nel corso degli ultimi due anni. L’obiettivo era quello di descrivere il punto di vista delle comunità migranti del territorio, l’eventuale coinvolgimento ed il ruolo giocato dagli intervistati e la loro valutazione dell’esperienza.

Inizialmente abbiamo cercato di individuare i soggetti da intervistare a partire direttamente dalle conversazioni fatte con i richiedenti asilo, in particolare sul tema delle relazioni sociali che hanno instaurato all’esterno dei centri di accoglienza. Questa strategia non ha portato a molto, per lo più sono stati indicati i nomi di alcuni negozianti da cui si recavano per acquistare prodotti dei propri paesi d’origine e con cui nel tempo si sono sviluppati i rapporti e le occasioni di scambio di informazioni e confidenze.

Già di per sé questo è stato un fatto significativo. Unito alla scarsa corrispondenza di nazionalità tra popolazione straniera residente e gruppo di profughi accolto, di cui si è già parlato nel sesto capitolo, inoltre, potrebbe essere interpretato come segno della apparente

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mancanza di connessione tra i due gruppi. In realtà stando a quanto raccontano alcuni intervistati, come si vedrà più avanti, la questione è ambivalente. Certamente il fatto che alcuni gruppi di richiedenti asilo fossero dispersi sul territorio in zone difficilmente raggiungibili e in cui non ci sono alti tassi di migrazione, non ha certo contribuito a rafforzare i rapporti.

Sono state realizzate sei interviste aperte, a partire da alcuni temi proposti, che non consentono in alcun modo di standardizzare le risposte ma che raccolgono il punto di vista, parziale ma non per questo meno importante, di alcuni migranti che vivono sul territorio e che, a diversi livelli e con differenti ruoli, sono stati vicini ai richiedenti asilo accolti sul territorio provinciale. Si va dalla guida religiosa musulmana del capoluogo, alla referente della comunità nigeriana di Pontedera, al rappresentante dell’associazione senegalese della Valdera, passando da chi ha fatto da mediatore volontario all’inizio dell’emergenza, fino a chi in maniera informale, vendendo alimenti, ha raccolto gli sfoghi e le speranze di alcuni degli arrivati.

Cercando di ricostruire i processi che il sistema ENA ha attivato sulla popolazione migrante del territorio, abbiamo innanzitutto provato ad indagare qual è stato l’impatto iniziale. Quali sono state le percezioni, i timori e le speranze dei migranti rispetto all’arrivo dei richiedenti asilo? Vi è stato un eventuale coinvolgimento richiesto dalle istituzioni?

In qualche caso, oltre alle notizie provenienti dalla stampa, le informazioni circa l’imminente avvio del sistema d’emergenza sono state date direttamente dalle amministrazioni locali. Nel caso di Pontedera, ad esempio, a detta di un intervistato, l’arrivo dei profughi all’inizio è stato ben accolto, grazie anche alla lunga storia di solidarietà ed accoglienza che caratterizza il Comune. Anche per questo, ha sostenuto, la città fin da subito ha fatto la sua parte e l’assessore di riferimento l’ha comunicato alle comunità straniere. Era chiaro fin da subito il fatto che si trattasse di uno spostamento dovuto ad un’emergenza, alla guerra e che non ci sarebbe stata una competizione per il lavoro. Ritiene che le contrapposizioni o i timori iniziali siano stati frutto dell’ignoranza.

Per lo più però i primi contatti sono avvenuti in modo informale. La comunità musulmana di Pisa seppur informata di ciò che stava accadendo poiché si mantiene sempre aggiornata su quanto succede nei paesi di provenienza, non ha ricevuto alcuna comunicazione ufficiale da

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parte delle autorità. Fu solo col passar del tempo che l’Imam venne coinvolto formalmente sia in veste di guida religiosa che di mediatore culturale. La stessa cosa avvenne anche per chi in maniera informale, per puro spirito solidaristico, si era presentato presso una delle prime strutture aperte per l’arrivo dei tunisini, per offrire il proprio aiuto. Iniziando semplicemente a dialogare con i ragazzi al di là della recinzione che li separava, era finito per diventarne il mediatore di riferimento per i ventisette giorni successivi, aiutandoli ad orientarsi nel sistema italiano, in particolare nell’ambito sanitario. Ripensando a quei giorni dell’aprile 2011, racconta di un’esperienza intensa in cui realmente ha avuto la percezione di fare qualcosa di utile. Al tempo stesso, però, afferma, quasi parlando tra sé e sé: «Già la rete intorno alla struttura non era un buon segnale di come poi sarebbe andato il programma di accoglienza».

Nelle interviste condotte sono poi state approfondite le dinamiche relazionali, nel tentativo di avere un quadro più strutturato della rete dei soggetti che hanno gravitato intorno ai richiedenti asilo, al di là dell’apparato istituzionale, e di come l’intenzione di contribuire alla loro accoglienza sia stata declinata in vario modo.

In Valdera l’apporto delle associazioni di migranti ha seguito essenzialmente due vie differenti. Da un lato vi è stato il supporto diretto e continuativo ai profughi che ne facevano richiesta, adoperandosi per fornire indicazioni, aiuto nel gestire i rapporti con gli operatori dei servizi e orientamento nella ricerca di un impiego. Dall’altro si è cercato, non senza difficoltà, di coinvolgerli in eventi pubblici e attività sportive. In entrambi i casi si è trattato di attività informali, non istituzionali. Uno dei negozianti intervistati ha raccontato che talvolta il fare la spesa si trasformava in un’occasione di sfogo e di richiesta di consigli: «Parlavano dei loro problemi che sono uguali a quelli degli altri: casa, lavoro… Cercavano qualcuno che li potesse aiutare…».

Nel contesto pisano, stando a quanto raccontano alcuni intervistati, gli ospiti hanno ricevuto la solidarietà da parte di collettivi universitari che, tra l’altro, hanno fatto collette per le sigarette, che non erano fornite dalle strutture. Anche le comunità migranti della città hanno espresso la loro vicinanza. Ad esempio i cittadini senegalesi e bengalesi hanno organizzato raccolte di abiti e altri generi di prima necessità.

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L’Imam, dal suo canto, racconta di un andamento altalenante dei rapporti con i richiedenti asilo. Inizialmente i ragazzi, isolati nella struttura di San Rossore a 14 km dal centro della città non sapevano neppure della presenza di una comunità musulmana a Pisa. Col passare del tempo e su richiesta dell’amministrazione, ha iniziato ad andare due o tre volte alla settimana per raccogliere le loro necessità, per fare da traduttore e all’occasione da mediatore culturale. Al venerdì, giorno di preghiera, venivano accompagnati dagli operatori al luogo di preghiera. Con lo spostamento nella struttura di via Pietrasantina sono state organizzate delle cene con la collaborazione delle donne della comunità islamica e sono continuate le visite anche se con minor frequenza, fino ad un paio di mesi prima della chiusura. Da un lato, a detta dell’Imam, i ragazzi sono diventati più autonomi e in caso di necessità si recavano da soli nel centro islamico. Dall’altro, con alcuni ci sono state delle difficoltà legate ad incomprensioni e diffidenza. Hanno iniziato a credere che l’Imam e i suoi collaboratori fossero schierati dalla parte dei gestori della struttura e si sono allontanati. Qualcuno ha continuato a partecipare alle preghiere del venerdì senza però aprirsi molto col resto della comunità: «Molti non conoscono la loro storia, vanno a pregare e basta».

Nel valutare l’esperienza fatta, si è cercato di individuare, attraverso i commenti degli intervistati, i punti di forza e di debolezza del sistema d’accoglienza toscano. A livello istituzionale, alcuni hanno concordato sul fatto che all’inizio ci sia stata, effettivamente, la volontà di gestire al meglio la situazione, finendo però poi quasi per dimenticarsene, non partecipando attivamente alla ricerca di soluzioni per i problemi che via via si presentavano, delegando tutto ai soli gestori operativi. Altri hanno, invece, tenuto a sottolineare come l’unico aspetto positivo sia stato quello di aver mobilitato tanta solidarietà dal basso, da parte delle associazioni. Secondo altri ancora, nonostante i vari sforzi fatti dalle istituzioni, ci sono state delle problematicità connesse in particolare alle difficoltà nell’apprendere la lingua italiana e nella gestione dei trasporti, soprattutto per chi stava in realtà più isolate.

Il tema dell’isolamento, insieme a quello degli ostacoli burocratici per accedere ai documenti, è stato specialmente sentito sopratutto nella prima fase dell’accoglienza. Col passare del tempo, a detta di una delle persone intervistate, le preoccupazioni dei richiedenti asilo e dei rifugiati si sono fatte simili a quelle del resto della comunità straniera: la

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ricerca di un lavoro e di una stabilità. Pochi però hanno trovato un’occupazione e sono andati fuori dall’Italia, gli altri sono qui e cercano opportunità: «ora sono frustrati».

Qualcuno tra gli intervistati è arrivato anche ipotizzare che senza poter garantire opportunità di lavoro per tutti e soluzioni abitative post emergenza, non si sarebbero dovuti dare i documenti, domandandosi cosa sarebbe successo alla chiusura del sistema d’accoglienza, avvenuta da lì a poche ore dopo: «Come finiranno?», «Dove andranno?», «Finiranno a fare i delinquenti?», «Dormiranno per strada?», «Domani cosa faranno?».

Vi è anche chi riflette sul fatto che si sia sbagliato «dar loro tutto, fargli trovare la pappa pronta», sostenendo che i richiedenti asilo andavano educati, preparati a gestire da subito piccole responsabilità per abituarli a quello che avrebbero trovato fuori. Alcuni hanno passato il tempo a «dormire, dormire, dormire». Se da un lato, racconta che qualcuno ha approfittato per non fare nulla, dall’altro la maggioranza era demotivata, stanca, triste. I ragazzi hanno sbagliato a non attivarsi prima, a non cercare un’alternativa anche se ciò è dipeso in parte dalle difficoltà con la lingua e dal non sapere come muoversi. Osserva però che coloro che pur si sono mossi, cercando lavoro, non hanno avuto buoni risultati, a parte qualche rara eccezione.

Le constatazioni più amare vengono poi da chi amplia il ragionamento e afferma che il problema fondamentale è che in Italia non c’è una vera politica di accoglienza per chi chiede l’asilo politico. Si danno i documenti ma non c’è una politica reale di sostegno: «l’Italia vuole lo straniero che produce, non che riceve servizi… è stato lo stesso per i palestinesi: l’Italia non sa gestire come si deve».

Diversi sono poi gli orientamenti degli intervistati che hanno approfondito la questione di cosa si sarebbe potuto fare di diverso o di migliore. Vi è chi sostiene chiaramente che non è possibile offrire un’accoglienza degna finché non sarà attivo un piano concreto e strutturato d’accoglienza. Fa, anzi, un appello affinché si pensi ad una serie condivisa di azioni che, a suo dire, costerebbero meno di quello che è stato complessivamente speso per l’ENA. Basterebbe secondo lui fare un calcolo di costi-benefici: «Questa esperienza è finita, bisogna mettere un punto e ricominciare, riaprire, risistemare le strutture [già disponibili] e fare un piano permanente d’accoglienza».

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C’è chi, rispetto alle strutture che hanno ospitato gruppi numerosi, afferma che potevano essere trovate soluzioni diverse che consentissero una maggiore autonomia, come l’inserimento in appartamenti, così come avvenuto altrove.

Il tema di una corretta comunicazione è stato da più parti indicato come saliente. Da un lato, si è fatto riferimento alle difficoltà iniziali di spiegare alle persone accolte il percorso in cui erano state inserite, qualcuno ha ricordato come all’avvio del programma gli stessi ospiti non riuscissero a rendersi conto neppure del fatto che fossero richiedenti asilo e non detenuti. Dall’altro lato, si è ragionato sulle scarne spiegazioni ricevute dagli accolti sulla chiusura dell’emergenza, creando confusione e incertezza. Si è sostenuto, inoltre, che se talvolta i cittadini si sono mostrati diffidenti ciò è dovuto anche al fatto che non conoscono la loro storia, pubblicamente se ne parla sempre meno e questo non ha favorito la loro condizione.

C’è chi, viste le difficoltà finanziarie dei Comuni, l’incapacità reale di sostegno continuativo e la difficile situazione che vivono i migranti sul territorio, dice che la soluzione sarebbe dovuta essere quella di un’accoglienza breve con l’obiettivo finale del ritorno. Oppure pensa a percorsi lavorativi, anche ad orari ridotti, ritenuti indispensabili per dare loro la possibilità «di iniziare a stare sulle proprie gambe da soli». Altri più semplicemente sostengono che occorreva accorciare i tempi, magari istituendo delle Commissioni territoriali itineranti, perché situazioni che sarebbero dovute essere temporanee, hanno finito per trascinarsi per quasi due anni.

«A tutti deve essere data una possibilità… una chance di vita». A parere di questo intervistato, l’unica cosa buona fatta dal governo precedente è stata quella di dare all’inizio i permessi di soggiorno umanitari. Questo, secondo lui, ha garantito sia ai migranti di provare ad integrarsi, sia alla società di potersi tutelare ed, eventualmente, identificare chi commette reati e punirlo.

Sul diverso trattamento ricevuto dai primi tunisini accolti, si è discusso anche con un’altra persona che più da vicino ha seguito i loro percorsi. Racconta che la maggioranza ha cercato fortuna altrove, all’estero o in altre città italiane. Qualcuno ha trovato lavoro, qualcuno si è sposato, anche se tanti altri hanno avuto problemi, in particolare allo scadere del permesso. Alcuni sono ricaduti in clandestinità. Sintetizzando, dice che la differenza tra quelli che se ne sono andati e

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quelli che son rimasti è che gli uni, pur con le difficoltà incontrate, ora hanno un tetto di muratura e sono potuti andare avanti con la loro vita, gli altri hanno un tetto di lamiera, riferendosi in particolar modo all’esperienza del centro di via Pietrasantina.

Sebbene il livello di interazione registrato tra migranti e richiedenti asilo non sia stato particolarmente alto, si può sicuramente affermare che l’ENA abbia offerto un’occasione di confronto tra esperienze di migrazione differenti, favorendo alcune riflessioni critiche di cui sarebbe utile far tesoro per l’implementazione di un futuro sistema d’accoglienza, che sappia valorizzare il ruolo e le competenze dei migranti, evitando di considerarli esclusivamente meri utenti.

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CAPITOLO 10

TRAIETTORIE DI CAMBIAMENTO NELLE SDS

Rachele Benedetti

BREVE PREMESSA

In questo capitolo si presentano i risultati emersi dal secondo ciclo di focus group realizzati nelle quatto SdS della provincia264. Rispetto al primo focus, centrato sulla dinamica del percorso di accoglienza, il secondo ha promosso una valutazione partecipata del progetto nel suo complesso, con una particolare attenzione alle diversità dei quattro contesti territoriali. Svolto a conclusione del progetto ENA, infatti, questo focus ha permesso di sviluppare una valutazione condivisa sull’esperienza e, soprattutto, di aprire una riflessione sulle prospettive da dare, costruire ed elaborare per il dopo emergenza. In particolare, si noterà come tale riflessione abbia costituito lo stimolo per un dibattito che va oltre l’esperienza dell’accoglienza, per focalizzarsi sul sistema di welfare locale come centro di una programmazione e di un intervento sempre più integrato e multilivello. In questo senso, l’esperienza conclusa ha rappresentato un modo per ragionare sulle più ampie traiettorie di cambiamento attraversate dai sistemi di welfare locali e sulla necessità di superare un’ottica emergenziale, in un contesto in cui l’emergenza, nelle sue diverse declinazioni, sembra essere diventata la normalità.

264 Per gli aspetti metodologici relativi all’organizzazione dei focus group si rimanda al primo paragrafo del capitolo sette. Le persone coinvolte in questo secondo ciclo di focus group sono le stesse del primo, proprio perché l’obiettivo era quello di sviluppare un percorso di valutazione partecipata e riflessione collettiva sul progetto nel suo complesso.

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I GIUDIZI DELLE SDS: ESPERIENZE A CONFRONTO La complessità del percorso implementato, caratterizzato, come si è

visto nel capitolo sette, da un’eccessiva lunghezza, una certa farraginosità delle procedure burocratiche e, in alcuni casi, dalla mancanza di una chiara distribuzione di ruoli e responsabilità, ha impattato in maniera forte, ma diversa sulle quattro SdS della provincia di Pisa.

I giudizi sul percorso svolto risentono perciò della diversa configurazione che questo ha assunto in ciascun territorio. Riprendendo un argomento già ampiamente trattato nel capitolo sei, è da sottolineare come tali differenze rimandino in gran parte alla capacità del sistema di intervenire sull’emergenza attraverso una rete forte e consolidata e, quindi, come i giudizi sul percorso nel suo complesso varino in relazione alle dinamiche che hanno caratterizzato le diverse reti di attori. In generale, infatti, si può affermare che là dove la rete ha funzionato, i giudizi sul percorso svolto tendano ad essere più positivi e, pur evidenziando la fatica del percorso e gli ostacoli che hanno caratterizzato certe fasi di implementazione del progetto, si focalizzino sugli elementi di forza che tale progetto ha permesso di rafforzare. In questo senso, il giudizio che si dà sull’operato tende a sottolineare l’importante contributo dato dal lavorare in maniera sinergica con gli altri attori del territorio e, soprattutto in un caso, si evidenzia come questo approccio abbia permesso di superare un’ottica puramente emergenziale e sviluppare un percorso con una sua progettualità.

Il riferimento alla progettualità sviluppata attraverso l’ENA si definisce in una duplice accezione: da un lato, infatti, si parla di una progettualità, seppur parziale, relativa al percorso di accoglienza dal punto di vista dei contenuti, vale a dire a quel superamento della prospettiva emergenziale che ha portato alla sperimentazione di piccoli percorsi di promozione dell’integrazione e di progressivo sviluppo dell’autonomia dei soggetti accolti. Si tratta di esperienze circoscritte, di piccole sperimentazioni, come per esempio quella proposta dalla SdS del Valdarno inferiore, dove, attraverso la collaborazione con associazioni, cooperative e mondo del volontariato, sono stati sviluppati dei percorsi di inserimento per gli accolti, che hanno così potuto svolgere attività di volontariato dentro a queste organizzazioni, impegnando il loro tempo e, contemporaneamente, promuovendo la

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loro integrazione sul territorio e le loro capacità. L’obbiettivo di questa iniziativa è stato infatti quello di inserire i profughi in un percorso che potesse dare loro la possibilità di essere impegnati nel lungo periodo di attesa, dando a questo un senso in termini di conoscenza del territorio di accoglienza e di promozione dell’integrazione e non restando bloccati nell’impasse di un’emergenza incerta e non definita.

Dall’altro, la progettualità di cui gli attori parlano è una progettualità di tipo metodologico: con l’esperienza dell’ENA, infatti, si sono sviluppati e consolidati rapporti che hanno permesso di mettere o rafforzare le basi per un lavoro condiviso e concertato che andrà avanti al di là dell’ENA ed anche su altri ambiti di intervento socio-assistenziale.

Su questo fronte i giudizi più positivi arrivano sicuramente dalle SdS della Valdera e del Valdarno inferiore: in Valdera, in particolare, si sottolinea ripetutamente l’importanza in termini di approccio e di relazioni sviluppatasi attraverso l’ENA, mettendo in luce come sia stata favorita la comunicazione e l’interazione, sia a livello istituzionale, sia nei rapporti tra i diversi attori del privato sociale, sviluppando partnership anche a carattere intersettoriale, da mantenere e consolidare anche con riferimento ad altri ambiti di intervento. In Valdarno, invece, si evidenzia come, al di là della forte presenza istituzionale e dell’ormai storica sinergia tra istituzioni locali e territorio, l’emergenza abbia consentito di ampliare la rete grazie al prezioso contributo di quel Terzo Settore più piccolo, a volte quasi informale, ma che ha saputo mettere in gioco e valorizzare al meglio le proprie risorse.

Sempre con riferimento a questa “progettualità di metodo”, è interessante sottolineare infine come, anche nel caso della SdS dell’Alta Val di Cecina, caratterizzata da un percorso più difficile perché non dotata di una rete forte e pre-esistente, tali difficoltà non abbiano comunque inficiato il giudizio dei singoli operatori per quanto attiene l’opportunità di aver cooperato con soggetti portatori di esperienze e competenze diverse, dando così la possibilità di porre le basi per future collaborazioni, un elemento che rimane quindi trasversale a quasi tutte le esperienze indagate.

Là dove la rete ha funzionato poco o si sono evidenziate difficoltà di tenuta nel corso del progetto, è tuttavia evidente che i giudizi forniti sull’implementazione dell’accoglienza si fanno più critici e tendono a sottolineare gli elementi di difficoltà. In particolare, emerge il senso di

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abbandono da parte delle istituzioni, la cui “latitanza” e vaghezza ha causato un’estrema difficoltà per i gestori nello sviluppare un percorso chiaro e coerente, dotato di una propria autonomia. Si tratta in effetti di un giudizio espresso anche nelle SdS dove l’accoglienza è stata gestita con maggior facilità; tuttavia, mentre in questi casi la presenza di una rete territoriale forte e, anche, di un intervento attivo dei Comuni ha reso possibile l’implementazione di un percorso che, pur tra le numerose difficoltà, ha assunto una sua fisionomia specifica, là dove la rete non era così forte e i Comuni non hanno dimostrato lo stesso forte coinvolgimento, la vaghezza dei livelli ministeriali e regionali si è tradotta in un’ulteriore vaghezza a livello territoriale. In altre parole, come esplicitamente affermato da diversi partecipanti ai focus, in questi casi è mancata una chiara “cabina di regia” capace di coordinare le attività.

In questo senso, i giudizi critici vengono evidenziati non solo dai soggetti direttamente interessati sul territorio, ma anche dai soggetti delle altre SdS che, comparando le proprie esperienze con quelle dei territori più critici, hanno sottolineato più volte come tali criticità in questi contesti siano derivate proprio dalla mancata messa in gioco delle istituzioni comunali e dalla loro mancata assunzione di responsabilità, che è ricaduta tutta su un Terzo Settore non sempre sufficientemente in grado di farvi fronte e che comunque non aveva la legittimazione per farlo.

In questo quadro, il giudizio critico si rivolge sia nei confronti dei Comuni, sia nei confronti del Terzo Settore e ancor di più verso Pubblica Assistenza e Croce Rossa che, accettando di farsi carico interamente dell’emergenza «hanno commesso un grosso errore perché si tratta di funzioni e competenze che spettano al Comune».

È perciò facilmente comprensibile come in questi contesti maggiormente critici, anche le stesse difficoltà burocratiche e amministrative riscontrate in tutti i territori analizzati, assumano un peso maggiore, proprio perché non sostenute da un lavoro ripartito, condiviso e con chiari referenti.

Come già evidenziato nel capitolo sei, dai giudizi espressi nei territori caratterizzati da una maggiore complessità emerge quindi un problema di governance locale: la mancanza di un’attiva partecipazione delle istituzioni comunali o quanto meno di una loro continua e coerente presenza, insieme alle difficoltà della rete territoriale di

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sviluppare e consolidare un tessuto di rapporti sinergici e integrati, ha impattato sulle capacità del sistema locale, amplificando anche le difficoltà e le incertezze del sistema nel suo complesso ed anzi intrecciandosi con queste in un complesso nodo di responsabilità mancate e competenze delegate.

I CAMBIAMENTI APPORTATI DALL’EMERGENZA E L’IMPATTO

(POTENZIALE) SUI SISTEMI DI WELFARE Come in parte anticipato dai giudizi espressi sul percorso di

accoglienza, l’ENA ha apportato alcuni elementi di cambiamento nelle quattro SdS, impattando in maniera diversa sui sistemi di welfare locale. La logica messa in moto dall’emergenza ha infatti introdotto dinamiche e variabili che hanno inciso sui quattro territori, sottoponendo i sistemi locali a stress, sfide e spunti di riflessione diversi, per quanto attiene al vissuto apportato da questa esperienza e, anche, alle prospettive che essa apre.

In particolare, si possono individuare due diversi livelli di cambiamenti apportati dall’emergenza: quelli strettamente connessi all’esperienza e ai contenuti del percorso di accoglienza, e quelli legati invece alla valutazione dei possibili cambiamenti, delle prospettive da definire e degli obiettivi da darsi.

Sotto il profilo dei cambiamenti relativi ai contenuti e alle diverse esperienze realizzate con l’accoglienza, si può affermare che, ancora una volta, il nodo forse centrale per la valutazione dei cambiamenti conseguenti all’ENA va individuato nella rete territoriale e nel sistema di relazioni che l’accoglienza ha determinato, consolidato, sviluppato o, al contrario, indebolito e irrigidito. In particolare, si evidenzia una chiara contrapposizione tra promozione/consolidamento vs irrigidimento di rapporti e posizioni, soprattutto per quanto riguarda le relazioni tra istituzioni locali e terzo settore, ma anche tra Terzo Settore da un lato e Protezione Civile e Croce Rossa dall’altro. Se, infatti, il funzionamento della rete ha permesso di superare l’emergenza lasciando “qualcosa in più sul territorio” in termini di sinergie e collaborazioni, là dove la rete si è dimostrata (quantitativamente o qualitativamente) debole, la mancata tenuta del sistema di attori locali ha determinato un irrigidimento di rapporti che sembra tendano a mantenersi al di là della questione

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emergenza profughi. Con l’emergenza, infatti, si sono rese manifeste quelle distanze e quelle diversità di posizioni che, già presenti prima dell’ENA, si sono tradotte con questa in un vero e proprio irrigidimento, a volte esploso in forme di esplicito dissenso, protesta ed opposizione.

Ovviamente, in questa sede non si entra nel merito delle diverse motivazioni che hanno spinto verso questi irrigidimenti, né tanto meno si vuole prendere le posizioni dell’una o dell’altra parte; piuttosto, si cerca di capire, o quanto meno di riflettere, su tali diversità e su come queste rischino di tradursi in un ulteriore rafforzamento delle distanze, che può pregiudicare altri interventi futuri e si ripercuote negativamente su tutto il sistema di welfare locale.

Nello specifico, queste difficoltà fanno riferimento al caso della SdS pisana, dove si è assistito ad una vera e propria separazione tra la visione portata avanti da Comune, Protezione Civile e Croce Rossa da un lato, e una parte del mondo dell’associazionismo dall’altra. Qui, la tensione si è fatta progressivamente più forte e, nella fase conclusiva del percorso, si è esplicitata con l’occupazione della struttura di accoglienza da parte di alcuni profughi e di alcune associazioni locali, contrari alle modalità di gestione decisa dal Comune, con il supporto della Protezione Civile e della Croce Rossa.

Come evidenziato durante il focus – dove questo nodo ha costituito l’elemento principale del dibattito – il problema a monte di tutto questo va probabilmente ricercato nell’incapacità di coinvolgere in maniera effettiva e continuativa l’ampia rete di soggetti di cui il territorio peraltro dispone, riuscendo a valorizzare i contributi che questi soggetti avrebbero potuto dare proprio per la loro diversità di esperienze, vissuti e competenze. La frammentazione sia della rete – dalla quale numerosi soggetti, dopo una prima fase di coinvolgimento, sono usciti – sia degli interventi di promozione dell’integrazione e di supporto legale che gli attori del terzo settore hanno realizzato265, mettono in luce come sia mancata chiarezza e coerenza nell’impostazione del progetto, con ricadute negative sul sistema locale, tanto in termini di risorse, quanto di risultati. Tale debolezza è secondo molti imputabile in buona misura ai

265 Durante il focus, risulta evidente come gli attori che hanno curato gli interventi di promozione dell’integrazione e di supporto legale, siano stati coinvolti in maniera frammentaria, senza avere conoscenza reciproca tra gli interventi messi in atto e senza una visione complessiva del progetto.

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numerosi cambi di gestore che hanno caratterizzato il percorso pisano, non consentendo di sviluppare un processo con una sua coerenza e dove gli stessi attori coinvolti non sempre avevano cognizione del percorso in tutta la sua completezza, perché chiamati su singoli, specifici aspetti. La principale conseguenza è stata la messa in moto di un circuito che ha fronteggiato l’emergenza, garantendo agli accolti i servizi necessari, ma non ha saputo lavorare sulle risorse del sistema locale di welfare, che ne è uscito stanco e fortemente provato.

La capacità della rete di gestire l’emergenza ha assunto un ruolo centrale anche nel contenere le potenziali tensioni scaturite nella cittadinanza locale dall’accoglienza e le reazioni di protesta di alcuni gruppi locali. In una fase particolarmente difficile quale quella attuale, con la crisi economica che taglia posti di lavoro e amplia i margini di una povertà sempre più diffusa, per i singoli sistemi di welfare locale non è stato facile gestire l’emergenza profughi, senza che tale accoglienza venisse stigmatizzata da alcuni gruppi di cittadini come un privilegio rispetto alle proprie condizioni di disagio e di difficoltà, che spesso non trovano risposta istituzionale.

In questo senso, là dove la rete ha ben funzionato, si è cercato di costruire un tessuto di relazioni, di conoscenza reciproca e di conoscenza del progetto stesso, che ha scongiurato lo scoppio di quella “guerra tra poveri” temuta da diversi sindaci. Dove la rete territoriale ha avuto più difficoltà, si sono invece manifestate tensioni e/o proteste tra le parti contrapposte. È il caso dell’alta Val di Cecina: mentre nel piccolo centro di Pomarance intorno all’arrivo di una giovane coppia si è sviluppato un circuito di solidarietà molto forte, a Volterra, dove il numero degli accolti è stato molto elevato e la cittadinanza non era pronta ad un fenomeno di questo tipo, la permanenza dei profughi si è accompagnata ad un generale malcontento della popolazione locale. Pur non verificandosi, fortunatamente, alcun episodio specifico di protesta o violenza, gli operatori – sui quali sono ricadute le principali manifestazioni di contrarietà – hanno sottolineato come tale fattore abbia costituito un elemento di ulteriore tensione, all’interno di un contesto già molto delicato.

Confermando un risultato già ampiamente emerso, quindi, si può notare come la capacità della rete territoriale di fronteggiare l’emergenza non abbia impattato solo sulla gestione dell’accoglienza in sé, ma abbia avuto ampie ricadute sul sistema di welfare locale.

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Spostandosi dal livello delle ricadute dirette sul sistema di welfare, verso quello della riflessività sviluppata attraverso questa esperienza, si può notare come l’ENA abbia maturato gradi e modi diversi di riflessione sull’accaduto. In questo senso, è interessante notare come una maggiore riflessività sull’esperienza svolta si registri là dove tale esperienza si è dimostrata più difficile, probabilmente proprio perché le difficoltà e gli ostacoli incontrati nel percorso hanno messo in evidenza la necessità di sviluppare un diverso approccio ed un diverso modello d’intervento.

Nel caso dell’Alta Val di Cecina, per esempio, si sottolinea l’importanza di “fare sistema” e cominciare a ragionare in questa logica, per evitare di ritrovarsi a gestire possibili situazioni simili con un approccio “a compartimenti stagni” che ha ben evidenziato i suoi limiti.

Nella SdS pisana, invece, le difficoltà affrontate soprattutto con riferimento alla dimensione relazionale, hanno messo in luce come sia necessario pensare ad un diverso modello di accoglienza, che, come già analizzato nel capitolo sesto, sappia integrare i diversi ambiti di competenza ed esperienza dei soggetti coinvolti. In particolare, si auspica lo sviluppo ed il consolidamento di un modello capace di integrare le capacità logistiche ed organizzative di strutture come la Protezione Civile e la Pubblica Assistenza con le competenze e le esperienze in termini di promozione dell’integrazione e della solidarietà di cui si fa portatore il terzo settore. L’esperienza vissuta, quindi, ha spinto questi contesti a proiettarsi verso un diverso scenario, elaborando ipotesi di intervento diverse o quanto meno integrative rispetto all’esperienza appena conclusa.

Anche in Valdera, l’esperienza appena conclusa ha favorito comunque un atteggiamento riflessivo nei confronti del sistema locale: in questo caso, che come si è visto ha sviluppato un sistema di accoglienza centrato su una proficua rete territoriale, l’accento non viene posto sulle relazioni tra attori territoriali, ma sui rapporti tra attori territoriali e attori regionali, sviluppando un sistema di coordinamento regionale, che favorisca una più facile gestione delle future emergenze, in un quadro di maggiore chiarezza e completezza.

Al contrario, è interessante notare come in uno dei casi in cui l’accoglienza ha funzionato meglio, quello del Valdarno Inferiore, tale esperienza non si sia tradotta in una maggior riflessività sulle possibili strategie da sviluppare. Di fronte a questa domanda, infatti, i

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partecipanti sottolineano come non si possa, ora, ragionare su una strategia per fronteggiare una nuova emergenza, poiché se questa arriva è, appunto, un’emergenza e come tale verrà affrontata. Probabilmente tale atteggiamento è derivato sia dall’eccessiva lunghezza e la conseguente stanchezza che tale esperienza ha determinato, sia dalla consapevolezza di poter contare comunque su una rete di soggetti competenti e collaborativi. Tuttavia, tale manifestazione tende a contraddire almeno in parte la volontà di superare quella logica emergenziale che si è esplicitata invece come uno dei tratti trasversali alle quattro SdS.

Il cambiamento forse più rilevante apportato dall’emergenza è infatti da individuare nella necessità, secondo tutti i soggetti coinvolti nei focus sui diversi territori della provincia, di superare la categoria di emergenza, in quanto i cambiamenti in atto a livello mondiale condurranno sempre più spesso a situazioni similari. In questo senso, si avverte la stringente necessità di elaborare un modello di accoglienza che non sia incardinato in una logica emergenziale, ma divenga piuttosto terreno per una riflessione condivisa e costruttiva su come porsi di fronte a queste sfide, quali strumenti potenziare e quale strategia definire.

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MECCANISMI, TRAIETTORIE E PROSPETTIVE. RIFLESSIONI CONCLUSIVE A 4 MESI DALLA

CHIUSURA DEL PROGRAMMA ENA

Gabriele Tomei

1. Per poter esprimere un giudizio rispetto alle evidenze raccolte e

sistematizzate nelle pagine precedenti è necessario tornare sul campo: voltare nuovamente lo sguardo verso l’attualità, per coglierne il loro potere drammaticamente sintetico rispetto alle traiettorie che abbiamo tentato di comprendere. Nel momento in cui stiamo scrivendo queste conclusioni, i locali del centro di accoglienza di Via Pietrasantina a Pisa continuano ad essere occupati dai profughi che lì erano stati ospitati durante l’emergenza. Con questo atto i manifestanti, ai quali si sono associate diverse organizzazioni locali, protestano contro la decisione di chiudere il programma prima di aver completato le istruttorie di richiesta asilo e, soprattutto, senza aver predisposto alcuna strategia di accompagnamento alla nuova condizione di sottrazione dell’insieme di garanzie e benefit fino ad allora garantiti. Uno dei giovani che era transitato da quel Centro e che dopo la sua chiusura aveva deciso di trasferirsi a Firenze per occupare insieme ad alcuni connazionali un locale dismesso dove sistemare il proprio giaciglio in attesa della conclusione della sua istruttoria, Mohamud Mohamed Guled, in questi giorni si è suicidato, non più capace di sopportare il peso dell’attesa e della forzata inattività senza l’aiuto del servizio di salute mentale che durante la permanenza nel centro lo aveva in carico. Eppure per Mohamud il programma aveva formalmente funzionato: dopo 20 mesi la Commissione territoriale gli aveva riconosciuto lo status di rifugiato proprio qualche giorno prima del suo ultimo gesto disperato. Purtroppo nessuno lo ha potuto (o saputo) informare.

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2. Le politiche di accoglienza intraprese hanno prodotto i loro effetti sulle traiettorie di vita dei richiedenti asilo e sui sistemi locali di welfare all’interno di un contesto di forte frustrazione delle aspettative iniziali del programma ENA. Per certi versi ed in alcuni casi (come quelli più drammatici che abbiamo appena riportato) si tratta addirittura di un contesto di fallimento. Dati i numeri dei processi di integrazione riuscita, una valutazione rigorosamente centrata sui risultati avrebbe solo da prendere atto della radicale inefficienza e della sostanziale inefficacia del programma attuato. Tuttavia non siamo tra coloro che riducono il valore di un programma all’insieme degli output che è stato in grado di produrre e delle performance che è stato capace di realizzare. Come abbiamo indicato nell’Introduzione, il lavoro di indagine ha inteso piuttosto esplorare il processo di funzionamento del programma, i meccanismi che è stato in grado di attivare nei diversi contesti e le loro ragioni, i cambiamenti di medio periodo che paiono essersi avviati sul territorio per effetto diretto o indiretto di tali meccanismi. In questa direzione anche l’analisi di un fallimento può rappresentare occasione per l’individuazione di tendenze positive e degne di nota.

3. Il percorso che abbiamo compiuto nella ricerca e che in questo

volume abbiamo rappresentato è consistito nell’analisi delle storie dei profughi, del reciproco impatto tra queste ed i contesti di accoglienza, dei meccanismi che si sono conseguentemente attivati e nelle traiettorie che ne sono derivate sia (traiettorie individuali) con riferimento ai profughi che (traiettorie istituzionali) con riferimento ai sistemi istituzionali di welfare. Al loro interno abbiamo ricercato le caratteristiche peculiari, i fattori distintivi e gli elementi identificativi. Abbiamo trovato varie specificità, che abbiamo cercato di ricondurre a tipologie (di storie, di percorsi di accoglienza, di traiettorie di vita). Tra quelle abbiamo però individuato solo alcune variabili, che abbiamo definito strategiche perché (nella nostra ricostruzione) si sono dimostrate capaci di fare la differenza nei processi e negli esiti. Di seguito cercherò di sintetizzare l’insieme delle tipologie raccolte e, in esse, delle variabili strategiche individuate, al fine di proporle in forma idealtipica alla successiva ed ulteriore riflessione comparativa (e controfattuale) che altri intenderanno sviluppare.

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4. L’esperienza dell’accoglienza sembra aver neutralizzato le differenze derivanti dai motivi e dei percorsi che caratterizzano la pluralità delle storie migratorie dei profughi. Questa evidenza deriva da una doppia constatazione. Da un lato, infatti, sono chiaramente distinguibili le tre diverse tipologie cui è possibile ricondurre le originarie migrazioni verso la Libia (fuga per motivi politici, fuga a causa di diffusa violenza, emigrazione da lavoro) così come la diversa configurazione socio-culturale e socio-professionale dei corrispondenti gruppi di migranti (minoranze o élites, nel primo caso; classe medio-bassa urbana, nel secondo; ceti subalterni nel terzo). Dall’altro lato, però, è analogamente riscontrabile la forza centrifuga con la quale i sistemi di collegamento (traffico) ed i modelli di integrazione economica (prevalentemente informale e subalterna) in Libia hanno provveduto ad obliterare ed omologare tali originali differenze.

5. Tuttavia l’esperienza dello sradicamento e della migrazione

forzata ha consentito la generazione di nuove reti di relazione tra migranti. I tempi ed i modi con i quali queste donne e questi uomini sono, infatti, arrivati dalla Libia prima a Lampedusa e poi nei centri di accoglienza della Toscana hanno provveduto a costituire un nuovo ed inedito contesto relazionale fortemente empatico (in quanto segnato dalla condivisione di un’esperienza drammatica, della paura, dello sgomento per la morte di parenti ed amici) nel quale si ri-generano e ri-definiscono nuove reti e sistemi di alleanze solo in parte legate ai vincoli nazionali o etnico-culturali. È in questo inedito terreno di coltura inter-nazionale e multi-culturale che sono sorti i legami sui quali si mantiene attiva la cosiddetta “radio-profughi”, ovvero il sistema di comunicazione (via mail o cellulare) tra profughi accolti in vari centri italiani attraverso il quale sono transitate informazioni, parallele a quelle ufficiali, circa i modi ed i tempi delle procedure amministrative, le condizioni di vita nei diversi centri di accoglienza, le opportunità di alloggio e di lavoro nei diversi territori. È a partire dalla forza di questa rete che andrebbero letti i percorsi di integrazione (spesso tuttavia informale e subalterna) che alcuni profughi sono riusciti a realizzare.

6. Uno tra i principali fattori discriminanti delle diverse traiettorie di

vita dei profughi arrivati in Toscana è tuttavia costituito dal modello di accoglienza offerto. La ricostruzione condotta nei capitoli precedenti ha

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permesso di evidenziarne quattro, ciascuno dei quali (come vedremo più avanti) ha contribuito non poco alla determinazione delle traiettorie di vita dei profughi: (a) il primo (protezione senza accoglienza) corrisponde alla soluzione offerta dal governo nazionale ai profughi (prevalentemente tunisini) arrivati in Italia prima del 6 aprile 2011, che ha permesso loro, dopo un brevissimo passaggio in strutture di accoglienza territoriali, di acquisire il permesso di protezione umanitaria e quindi di potersi rendere autonomi sull’intero territorio nazionale così come all’interno dello spazio Schenghen; (b) il secondo modello (assistenza totale) è complementare al precedente e corrisponde alla soluzione emergenziale adottata dalla Protezione Civile (anche regionale) di fronte alla necessità di contenimento (e forse anche di contenzione) dei profughi all’interno di strutture di accoglienza di dimensioni medio-grandi, generalmente affidate alla gestione di organizzazioni con significativa esperienza di soccorso civile o sanitario ma non di accoglienza dei migranti (Pubbliche Assistenze, Croce Rossa, IPAB, ecc.); (c) il terzo modello (accoglienza SPRAR) corrisponde all’esperienza dei pochi posti disponibili all’interno del sistema nazionale SPRAR (piccoli nuclei, molteplici servizi di supporto, specifici e mirati percorsi di attivazione) e pertanto riservati alle situazioni segnate da particolare fragilità; (d) il quarto modello (accoglienza locale) corrisponde al variegato panorama di soluzioni offerte ai profughi dalle diverse realtà locali (Comuni, SdS, associazioni e cooperative sociali) reclutate dal livello regionale anche in assenza di specifiche competenze in materia, pur se in grado di elaborare una qualche progettualità territoriale che tenesse uniti obiettivi vaghi e astratti con risorse minime e di durata incerta.

7. I quattro contesti di accoglienza hanno impattato diversamente

sulla condizione personale e sociale dei profughi a seconda di due variabili chiave. La prima ha a che fare con la modalità di relazione tra servizio/operatore ed utente e, più in particolare, con l’orientamento dominante (OR) di tipo assistenziale (eterodirezione dei tempi e dei ritmi della quotidianità, deresponsabilizzazione e passivizzazione dell’utente, operatore come unica interfaccia con il mondo esterno) o, al contrario, di attivazione (riconoscimento e potenziamento delle abilità residue, responsabilizzazione e promozione dell’autonomia dell’utente). La seconda ha a che fare invece con la capacità del sistema di accoglienza

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(GC) di accompagnare (o lasciare soli) i profughi nel percorso di ricomposizione, di potenziamento o anche solo di valorizzazione delle proprie reti di supporto esterne.

Come mostrato nella tabella successiva, il diverso grado di combinazione tra le modalità in cui si articolano dette variabili individua (pur in primissima approssimazione) alcune configurazioni idealtipiche dei meccanismi che il loro intreccio promuove negli orientamenti sia dei servizi che dei profughi, delle traiettorie che ne conseguono nell’esperienza di questi ultimi e delle possibili prospettive che parrebbero derivarne nel medio periodo.

Tab. 12. Meccanismi, traiettorie e prospettive risultanti dalla combinazioni dei diversi orientamenti nella relazione servizi-profughi e dei diversi gradi di connessione servizi-reti dei profughi.

GC - Grado di connessione del sistema di accoglienza con la

rete sociale dei profughi

GC1 - Sistema connesso (profugo accompagnato)

GC2 - Sistema non connesso (profugo solo)

OR - Orientamento della relazione servizio/operatore-profugo

OR1 – Attivazione

Meccanismo: il programma sostiene (anche oltre il proprio mandato) la tessitura di una rete di supporto sociale all’esterno del sistema di accoglienza senza privare il profugo delle garanzie fornite da ENA (protezione sanitaria, residenza, assistenza legale, ecc.) Traiettoria: si realizzano processi di integrazione di medio periodo e formali sulla base delle opportunità segnalate e degli aiuti forniti dalla rete Prospettiva: uscita dal circuito assistenziale

Meccanismo: il profugo si sgancia dal sistema di accoglienza e si affida alla propria rete di supporto sociale (“radio profugo”) senza le garanzie fornite da ENA Traiettoria: si realizzano processi di integrazione di breve periodo e prevalentemente informali sulla base delle opportunità segnalate e degli aiuti forniti dalla rete, ma senza sistema di tutele e garanzie fornite da ENA. Prospettiva: rientro in carico al sistema locale di welfare

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GC - Grado di connessione del sistema di accoglienza con la rete sociale dei profughi

GC1 - Sistema connesso (profugo accompagnato)

GC2 - Sistema non connesso (profugo solo)

OR2 - Passivazione

Meccanismo: gli operatori costituiscono l’unica e la totalizzante interfaccia del profugo con il mondo esterno, provvedendo a tutti i suoi bisogni (vitto, alloggio, minute spese, vestiario, ecc.)

Traiettoria: i profughi perdono motivazione e capacità ad attivarsi in modo autonomo, attendendosi le risposte a tutti i loro bisogni dal sistema locale di welfare Prospettiva: impossibilità di uscire dal sistema locale di welfare

Meccanismo: il profugo si sgancia dal sistema di accoglienza e si affida alla propria rete di supporto sociale (“radio profugo”) senza le garanzie fornite da ENA Traiettoria: i profughi non hanno motivazione e capacità ad attivarsi in modo autonomo, attendendosi le risposte a tutti i loro bisogni dal sistema locale di welfare o dai circuiti dell’assistenza informale/clientelare/criminale nella quale sono scivolati Prospettiva: rientro in carico al sistema locale di welfare e/o trasformazione in problema di ordine pubblico

7.1 La prima configurazione (OR1-GC1) è quella che sicuramente

appare come la più virtuosa, oltre che la più efficace. La combinazione, infatti, di un esplicito orientamento all’attivazione dei profughi ospitati da parte dei servizi e degli operatori (OR1) ed una scelta da parte di questi ultimi di accompagnare i primi nella mobilitazione del loro capitale sociale (GC1) sviluppa traiettorie positive di emancipazione dal sistema di accoglienza, tanto più efficaci e durature quanto più tutelate ed accompagnate nella loro autonomizzazione. Con riferimento alla precedente tipizzazione delle esperienze di accoglienza la possiamo Questo e-book appartiene a marianazorila

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trovare più diffusa nei contesti caratterizzati da modelli di “accoglienza SPRAR” e di “accoglienza locale”.

7.2 La seconda configurazione (OR1-GC2) è quella corrispondente al percorso seguito dai profughi “tunisini” (che non sono entrati nel programma ENA) e da quelli che invece hanno precocemente abbandonato il programma di accoglienza. In entrambi questi casi, infatti, pur in presenza di un orientamento all’attivazione (OR1), i servizi e gli operatori non hanno potuto/saputo accompagnare i percorsi di autonomizzazione dei profughi (GC2), lasciandoli soli nei percorsi di integrazione subalterna cui in molti casi li ha costretti la mancanza di documenti e di tutele/sostegni istituzionali. In prospettiva tali profughi potrebbero così tornare in carico al servizio di welfare. Con riferimento alla precedente tipizzazione delle esperienze di accoglienza la possiamo trovare più diffusa nei contesti caratterizzati da modelli di “protezione senza accoglienza”.

7.3 La terza configurazione (OR2-GC1) è quella nella quale si intrecciano da un lato una elevata capacità del sistema di prendere in carico e di rispondere ai bisogni dei profughi, sostituendosi del tutto alle reti naturali di questi ultimi (GC1), e dall’altro un debole orientamento all’attivazione, generalmente sostituito da un’attitudine al trattamento terapeutico-passivizzante (OR2). I meccanismi che si sviluppano in queste condizioni sono di progressiva deresponsabilizzazione dei profughi assistiti, cui consegue in alcuni casi perfino la perdita della capacità di reazione e mobilitazione. La prospettiva che parrebbe derivarne a seguito della chiusura del programma ENA è quella dell’inevitabile impossibilità per questi soggetti di uscire dal sistema assistenziale conosciuto durante l’ENA. Con riferimento alla precedente tipizzazione delle esperienze di accoglienza la possiamo trovare più diffusa nei contesti caratterizzati da modelli di “accoglienza totale”.

7.4 La quarta ed ultima configurazione (OR2-GC2) è quella relativa al percorso dei profughi che si sono sganciati da un sistema di accoglienza nel quale hanno sperimentato esclusivamente pratiche assistenziali e deresponsabilizzanti, che ne hanno perpetrato lo status di sradicati in balìa degli eventi (e della volontà del più forte) senza che fosse dato loro alcuno stimolo per attivarsi nella direzione di una qualche autonomia (relazionale, linguistica, occupazionale, ecc.). Nella totale assenza di accompagnamento di questo percorso, molti di questi

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profughi saranno facile preda dei gorghi clientelari e/o criminali della assimilazione verso il basso, rimanendo così in prospettiva ancora in carico ai servizi locali di welfare o (peggio ancora) trasformandosi in un problema di ordine pubblico. Con riferimento alla precedente tipizzazione delle esperienze di accoglienza la possiamo trovare più diffusa nei contesti caratterizzati da modelli di “accoglienza totale” (anche se gli stessi meccanismi e le medesime prospettive connotano anche esperienze di “protezione senza accoglienza”).

8. Nelle esperienze raccolte nei casi analizzati queste diverse

configurazioni trovano rinforzo nell’azione di quattro ulteriori variabili di contesto. Le prime due riguardano i modelli organizzativi del sistema locale di welfare: (1) la capillarizzazione del sistema di accoglienza (che garantisce la presa in carico di piccoli nuclei, rispetto ai quali il sistema locale di welfare è sia in grado di attivare percorsi individualizzati di accompagnamento, sia di prevenire/gestire eventuali tensioni emergenti nei confronti della popolazione autoctona); (2) la capacità di fare rete e di consolidarla nel tempo da parte degli attori istituzionali del sistema locale di welfare, superando le idiosincrasie di ruoli e funzioni per essere in grado di disporre del capitale sociale necessario a garantire l’accompagnamento richiesto. Le altre due variabili sono invece relative ai saperi taciti degli operatori del settore: (3) la capacità degli operatori di linea di introdurre flessibilità e discrezionalità nel rispetto delle prescrizioni circa i mezzi e le procedure da seguire proprio al fine di garantire la funzionalità dei processi rispetto agli obiettivi da raggiungere (come nel caso dell’avvenuto utilizzo del pocket money per pagare i biglietti dell’autobus necessari a realizzare le visite a parenti ed amici residenti fuori zona); (4) la capacità degli operatori di linea di mobilitare conoscenze extra-professionali ed affettività da utilizzare nel processo di accompagnamento e di aiuto, senza che queste possano però venire delegittimate o, peggio ancora, interpretate come manipolatorie (come invece purtroppo è avvenuto) a causa della debolezza strategica del progetto ENA.

9. È difficile, dopo un lavoro di analisi e sistematizzazione come quello che abbiamo condotto, sottrarsi alla domanda tanto imbarazzante quanto cruciale del “che fare”. Ovviamente non è compito degli analisti prospettare scenari operativi ai quali allineare le policy; tuttavia è loro compito almeno individuare delle indicazioni

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strategiche intorno alle quali elaborare raccomandazioni. Ci muoveremo pertanto in questa direzione.

Molto è stato detto sui fattori macro che hanno indebolito e talvolta destabilizzato il programma di accoglienza ENA266. Nella nostra ricerca le principali ragioni di perplessità evidenziate sono state ulteriormente articolate nei seguenti sei punti: (1) l’ambiguità e la vaghezza degli obiettivi del programma ENA; (2) l’assenza di una strategia nazionale o almeno regionale in grado di orientare nel dettaglio l’operatività dei territori; (3) la disponibilità di risorse scarse e di durata incerta; (4) la mobilitazione di attori senza esperienza nel settore; (5) l’assoluta incertezza dei tempi; (6) la mancata tematizzazione (e relativa pianificazione) della fase di phasing out. Possiamo tuttavia evidenziare alcuni importanti (ma non esclusivi) fattori che hanno favorito, dove si sono verificati, un esito positivo del programma ENA: (c) la capillarizzazione del sistema di accoglienza; (b) l’adozione di modelli organizzativi basati su una rete di attori diversificati ma coesi; (c) la mobilitazione dei territori e di attori con esperienze di accoglienza pregresse e consolidate; (d) l’orientamento dei servizi/operatori verso l’attivazione dei profughi accolti; (e) la capacità di accompagnare i profughi nel percorso di ricomposizione, di potenziamento o anche solo di valorizzazione delle reti di supporto; (f) la capacità degli operatori di linea di introdurre flessibilità e discrezionalità; (g) la capacità degli operatori di linea di mobilitare conoscenze extra-professionali ed affettività.

10. Ovviamente queste raccomandazioni hanno bisogno di un forte

processo di istituzionalizzazione per potersi trasformare in patrimonio culturale ed operativo dei futuri programmi di accoglienza. La prima sfida da cogliere è quella dell’adozione su tutto il territorio di comuni linee guida vincolanti che, nel rispetto dei diritti fondamentali dei rifugiati, stabiliscano ed offrano risorse per l’attivazione di percorsi individualizzati di soccorso, protezione, accoglienza temporanea e (laddove pertinente) integrazione permanente nel paese ospite. La Direttiva 2013/33/UE del 26 giugno 2013 interviene a livello comunitario per coordinare i percorsi di accoglienza tra i diversi paesi ed evitare così le profonde disparità esistenti. A livello nazionale le recenti dichiarazioni del Governo di voler estendere i posti disponibili 266 Bracci, Emergenza Nord Africa, cit.

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del sistema SPRAR sono sicuramente un ottimo segnale nella direzione attesa; tuttavia i numeri indicati rimangono ancora gravemente sottodimensionati rispetto al reale fabbisogno e, soprattutto, niente ancora è stato fatto per ordinare e regolamentare le procedure di accoglienza che rimangono fuori dal suddetto protocollo.

La seconda sfida da affrontare è di natura culturale ed ha a che fare con la necessità di un rapido aggiornamento dei percorsi formativi delle professioni sociali per consentire ai loro diversi livelli e profili di maturare competenze teoriche ed operative (sociologia e diritto delle migrazioni, cooperazione internazionale, mediazione sociale e culturale, diagnosi e gestione delle vulnerabilità, ecc.). Questo sforzo si rende assolutamente inderogabile per mettere in condizione il nostro sistema paese di gestire positivamente le tensioni derivanti dal carattere sempre più transnazionale delle sfide sociali che si trova ad affrontare, offrendo nuove e più potenti risorse intellettuali e strategiche agli operatori così come ai progettisti degli interventi di welfare.

Ovviamente quanto indicato fino ad ora non potrà trovare effettiva concretizzazione fintanto che il sistema paese non affronterà la terza sfida: quella delle risorse e delle strategie economiche. L’attuale fase di drastico contenimento della spesa pubblica non può infatti essere invocata come giustificazione per alleggerire i capitoli di bilancio destinati al soccorso, alla protezione ed all’accoglienza dei rifugiati. Il programma ENA ci ha mostrato come nel medio periodo l’inazione si trasforma in un boomerang che riporta sui territori le situazioni non adeguatamente seguite e protette, spesso drammaticamente peggiorate e quindi bisognose di molte più energie e risorse (soprattutto economiche) per essere gestite. Ma anche la troppa dedizione produce il medesimo risultato, annichilendo le abilità residue dei rifugiati iper-sorvegliati ed iper-assistiti che al termine del periodo di tutela escono dal programma di accoglienza senza alcuna capacità di mediazione tra aspettative maturate, competenze acquisite, possibilità esistenti. La vera sfida consiste pertanto nella ridefinizione di una strategia di accoglienza che, per essere efficace, deve poter intervenire in modo tempestivo e generoso, accompagnando con percorsi modulari e personalizzati le diversificate domande di protezione che si presentano e, soprattutto, considerando tali interventi non emergenziali ma strutturali di un sistema di welfare che investe nella diagnosi precoce e nella prevenzione

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per evitare lacerazioni ben più gravi della vita individuale e sociale delle popolazioni che risiedono nei propri territori.

11. Pur non avendo la pretesa di indicare nel dettaglio proposte

operative, tuttavia questa rassegna ambisce almeno a segnalare i punti di forza e di debolezza del programma appena concluso, identificando le aree sulle quali concentrare maggiormente l’attenzione in vista di una sua messa a regime più efficiente e più efficace. Il territorio pisano, da questo punto di vista, non è certo né unico né solitario, ma rappresenta un caso la cui esplorazione in profondità – pur nella rilevazione di tutte le specificità ed idiosincrasie – ha consentito la messa a fuoco di fattori e dinamiche di portata più ampia. Ed in questa prospettiva le offriamo adesso, concludendo il presente volume, all’attenzione ed al dibattito della comunità scientifica, degli operatori e dei decisori pubblici.

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GLI AUTORI

RACHELE BENEDETTI Laureata in Sociologia, ha conseguito il dottorato in Storia e sociologia della modernità presso l’Università di Pisa. Svolge attività didattica e di ricerca su temi di Politica sociale presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. SERGIO BONTEMPELLI Laureato in Filosofia, presidente dell’Associazione “Africa Insieme” di Pisa. Svolge attività di ricerca sui temi dell’integrazione degli stranieri e del razzismo. SANDRA BURCHI Laureata in Filosofia, ha conseguito il dottorato in Storia e sociologia della modernità presso l’Università di Pisa. Svolge attività didattica e di ricerca su temi di Sociologia del lavoro presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. Collabora con la rivista DWF e fa parte della redazione di Iaph Italia. COSTANZA CATTANEO Laureanda in Sociologia e politiche sociali presso l’Università di Pisa, ha condotto studi comparativi sui programmi di accoglienza profughi in alcune regioni italiane. GAIA COLOMBO Dottoranda in Storia e sociologia della modernità presso l’Università di Pisa, si occupa prevalentemente di sociologia delle migrazioni e di sociologia dello sviluppo.

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2013

da Tipografia Monteserra S.n.c. - Vicopisano

per conto di Pisa University Press

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