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Traduzione dei passi antologici di Seneca. Epistula XCIX. 7. Considera la rapidità del tempo rapidissimo, pensa alla brevità di questo spazio attraverso cui corriamo velocissimi, osserva questa massa del genere umano che tende alla stessa meta, distinta da minimi intervalli anche quando sembrano grandissimi: colui che tu credi sia scomparso ti ha preceduto. Che cosa allora è più folle che piangere colui che ti ha preceduto, poiché devi percorrere lo stesso cammino? 8. Qualcuno piange un avvenimento che non ignorò che sarebbe accaduto? o se non pensò ad una possibilità di morte per una persona umana, si è sbagliato. Piange qualcuno un avvenimento che affermava che non poteva non avvenire? Chiunque si lamenti che qualcuno sia morto si lamenta del fatto che era un uomo: infatti, la stessa condizione ha incatenato tutti: a chi toccò di nascere, è destinato il morire. 11. Di questo tempo di vita quanto è occupato dalle lacrime, quanto dalle angosce? Quanto è occupato da una morte desiderata prima che venga, dalla cattiva salute, dalla paura? Quanto è occupato dagli anni teneri o inesperti o inutili? La metà di quel tempo è dormita. Aggiungi le fatiche, i lutti, i pericoli, e capirai che anche nella vita più lunga è minimo il tempo che è vissuto. 12. Ma chi ti concede che non si trovi meglio colui che può tornare indietro subito, per il quale il cammino è stato terminato prima che se ne stancasse? La vita non è un bene né un male: è possibilità di un bene e di un male. Così egli prese nulla se non il rischio più sicuro rivolto ad un danno. Avrebbe potuto riuscire moderato e saggio, avrebbe potuto sotto la tua cura essere plasmato a comportamenti migliori, ma cosa che si tenne con maggiore esattezza, avrebbe potuto diventare simile alla massa. 15. "E che? io ora dovrei persuadere ad una durezza e proprio durante il funerale, dovrei volere irrigidire il mio volto e tollerare che il mio animo nemmeno si rattristi?". Niente affatto. Questa è inumanità, non virtù, guardare i funerali dei propri cari cogli stessi occhi con cui si sono guardati loro e non commuoverai al primo distacco delle persone care. Ma immaginare che io lo vieti: alcuni sentimenti sono autonomi; vengono fuori le lacrime anche a chi cerca di trattenerle e versate alleviano l'animo.

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Traduzione dei passi antologici di Seneca.

Epistula XCIX.

7. Considera la rapidità del tempo rapidissimo, pensa alla brevità di questo spazio attraverso cui corriamo velocissimi, osserva questa massa del genere umano che tende alla stessa meta, distinta da minimi intervalli anche quando sembrano grandissimi: colui che tu credi sia scomparso ti ha preceduto. Che cosa allora è più folle che piangere colui che ti ha preceduto, poiché devi percorrere lo stesso cammino?8. Qualcuno piange un avvenimento che non ignorò che sarebbe accaduto? o se non pensò ad una possibilità di morte per una persona umana, si è sbagliato. Piange qualcuno un avvenimento che affermava che non poteva non avvenire? Chiunque si lamenti che qualcuno sia morto si lamenta del fatto che era un uomo: infatti, la stessa condizione ha incatenato tutti: a chi toccò di nascere, è destinato il morire.

11. Di questo tempo di vita quanto è occupato dalle lacrime, quanto dalle angosce? Quanto è occupato da una morte desiderata prima che venga, dalla cattiva salute, dalla paura? Quanto è occupato dagli anni teneri o inesperti o inutili? La metà di quel tempo è dormita. Aggiungi le fatiche, i lutti, i pericoli, e capirai che anche nella vita più lunga è minimo il tempo che è vissuto.12. Ma chi ti concede che non si trovi meglio colui che può tornare indietro subito, per il quale il cammino è stato terminato prima che se ne stancasse? La vita non è un bene né un male: è possibilità di un bene e di un male. Così egli prese nulla se non il rischio più sicuro rivolto ad un danno. Avrebbe potuto riuscire moderato e saggio, avrebbe potuto sotto la tua cura essere plasmato a comportamenti migliori, ma cosa che si tenne con maggiore esattezza, avrebbe potuto diventare simile alla massa.

15. "E che? io ora dovrei persuadere ad una durezza e proprio durante il funerale, dovrei volere irrigidire il mio volto e tollerare che il mio animo nemmeno si rattristi?". Niente affatto. Questa è inumanità, non virtù, guardare i funerali dei propri cari cogli stessi occhi con cui si sono guardati loro e non commuoverai al primo distacco delle persone care. Ma immaginare che io lo vieti: alcuni sentimenti sono autonomi; vengono fuori le lacrime anche a chi cerca di trattenerle e versate alleviano l'animo. 16. Che è dunque? Concediamo ad esse di cadere ma non imponiamolo; scorra quanto l'affetto avrà fatto uscire, non quanto richiederà l'imitazione. Ma non aggiungiamo nulla al dolore e non accresciamolo sull'esempio degli altri. L'ostentazione del dolore pretende di più che il dolore stesso: quanto pochi sono tristi per sé? Gemono più rumorosamente quando sono ascoltati, e silenziosi e tranquilli finché c'è segretezza, non appena vedono qualcuno, si eccitano a nuovi pianti; allora si mettono le mani nei capelli (cosa che avrebbero potuto fare più liberamente quando nessuno lo impediva), allora si augurano la morte, allora rotolano giù dal letto: senza spettatori il dolore cessa.

Consolatio ad Marciam.

IX 1. Da dove dunque (nasce) in noi una così grande ostinazione nel compianto di noi stessi, se ciò non avviene per ordine della natura? Poiché non ci prospettiamo nulla di doloroso prima che avvenga ma, come se fossimo entrati nel cammino della vita noi soli immuni e in un cammino più sicuro degli altri, dei casi altrui non riceviamo l'ammonimento che questi casi sono comuni.2. Tante esequie passano davanti alla nostra casa: non riflettiamo sulla morte; tante morti precoci: e noi nell'animo immaginiamo la toga virile dei nostri bimbi, il servizio militare e la successione dell'eredità paterna. Ci cade sotto gli occhi l'improvvisa povertà di tanti ricchi, e a noi mai viene in mente che anche i nostri patrimoni sono poti su un terreno scivoloso. Dunque è inevitabile che

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precipitiamo ancor più, poiché piombiamo giù da quello che ci aspettavamo; gli eventi che sono previsti molto prima ci corrono meno violentemente. X 1. Qualunque cosa sia, Marcia, ciò che intorno a noi rifulge provenendo dall'esterno, figli, cariche, ricchezze, grandi atrii e vestiboli affollati da una turba di clienti tenuti fuori, un nome illustre, una moglie nobile e bella e gli altri beni che dipendono da una sorte incerta e mutevole, sono apparati appartenenti ad altri e imprestati. Nessuna di queste cose ci è data in dono. La scena è adornata con suppellettili prese in prestito e che devono tornare ai loro padroni: di esse alcune saranno restituite il primo giorno, oltre il secondo, poche resteranno fino alla fine. 2. Perciò non c'è motivo che noi ammiriamo noi stessi; ci prendiamo sul serio, come fossimo posti tra cose che ci appartengono: abbiamo ricevuto prestiti. L'usufrutto è nostro, la durata del quale regola l'arbitro del suo dono: occorre che noi teniamo pronte quelle cose che ci sono state date fino ad un giorno imprecisato e che una volta chiamati, li restituiamo senza lamentarci; è proprio di un pessimo debitore attaccar lite col creditore.3. Dobbiamo dunque amare tutti i nostri cari, sia quelli che per legge di nascita desideriamo a noi superstiti, sia quelli che è giustificatissimo loro desiderio prenderci, così come se nulla ci fosse stato promesso nella perpetuità, anzi nulla sulla durata di questa. Spesso all'animo bisogna rivolgere l'ammonimento che ami tutte le cose come se destinate a scomparire, anzi come se già stessero scomparendo: possiedi tutto ciò che ti è stato dato dalla fortuna come se fosse stato escluso da una garanzia. 4. Togliete dai figli le gioie e reciprocamente concedetevi ai figli perché ne gioiscono e senza rinviare cogliete ogni gioia: nulla ci è promesso per la prossima notte. (Anzi) ho concesso un eccessivo rinvio: nulla ci è promessa per questa ora. Bisogna affrettarci, ci si incalza alle spalle: tra poco questa folla sarà dispersa; tra poco questa convivenza al levarsi di un grido si scioglierà. Tutte le cose sono trascinate via: voi miseri non sapete di vivere in mezzo a cose che fuggono.

De brevitate vitae.

IX 1. Vi può essere qualcosa di più stolto che il pensiero di alcuni, dico di quegli uomini che vantano la loro saggezza? (In realtà) sono occupati in modo più fatioso. Per poter vivere meglio, organizzano la loro vita con un dispendio di vita. Ordinano i loro pensieri in una lunga prospettiva; però la maggiore dispersione della vita è il rinvio: esso toglie ogni giorno appena di presenta, esso ci sottrae il presente mentre promette ciò che verrà dopo. Massimo impedimento al vivere è l'attesa che dipende dal domani e sciupa l'oggi. Tu disponi ciò che è nella mano della fortuna e lasci perdere ciò che è in mano tua. Dove guardi? Dove ti protendi? Tutto ciò che verrà giace in un'incertezza: vivi immediatamente.2. Ecco che grida il maggior poeta e quasi ispirato da un brivido divino canta un carme salutare: "Tutti i giorni più felici della vita per i miseri mortali fuggono per primi". "Perchè esiti?", disse, "perchè indugi? Se non lo afferrri, fugge." Anche quando l'avrà afferrato, tuttavia, fuggirà, pertanto bisogna gareggiare con la velocità dell'usarlo contro la velocità del tempo e attingere rapidamente per così dire come da un torrente rapido e che non procederà per sempre.

De ira.

III 43. 1. Perché non concentri piuttosto una vita breve e una trnaquilla e non la offri a te e agli altri? Perché finché vivi non ti rendi amabile a tutti e rimpianto quando te ne sarai andato? Perché cerchi di umiliare quello che tratta con te troppo dall'alto? Perché tenti di aumentare con tutte le tue forze quell'altro che schiamazza contro di te, abbietto certo e spregevole, ma pungente e fastidiosa con chi sta più in alto? perché ti adiri con un tuo servo, con il padrone, il re, il tuo cliente? Sopporta un po' di tempo: ecco viene la morte che ci rende pari.

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2. Siamo soliti vedere tra gli spettacoli mattutini dell'arena una lotta di un toro e un orso legati l'uno all'altro che, dopo che si sono travagliati l'un l'altro, aspetta un uccisore apposito: noi facciamo lo stesso, tormentiamo qualcuno che è legato a noi, mentre incombe sul vinto e sul vincitore la fine e per la verità rapida. Trascorriamo piuttosto quel poco che ci resta quieti e tranquilli! Il nostro cadavere non giaccia odiato da nessuno!

Epistula XLVII.

1. Seneca saluta il suo Lucilio. Con piacere ho saputo da coloro che giungono da parte tua che tu vivi con i tuoi schiavi in modo familiare: ciò s'addice alla tua intelligenza e cultura. "Sono schiavi". Anzi uomini. "Sono schiavi". Anzi commilitoni. "Sono schiavi." Anzi umili amici. "Sono schiavi". Anzi compagni di schiavitù, se rifletterai che alla fortuna è lecita la stessa cosa nei confronti di entrambi.2. Perciò rido di costoro che considerano vergognoso cenare col proprio servo: perché se non perché un'arrogante abitudine ha posto intorno al padrone che cena una folla di schiavi che stanno in piedi? Egli mangia più di quanto cotiene e con grande avidità carica un ventre dilatato e ormai disavvezzo al compito di ventre, per rigettare con fatica maggiore ciò che ha inghiottito.

15. "E che dunque? Farò venire alla mia mensa tutti gli schiavi?" (Certo no), non più che tutte le persone libere. Sbagli se credi che io ne rifiuterò alcuni come se fossero d'attività spregevole come immagina quello che fa il mulattiere e il bovaro. Non li valuterò secondo le loro funzioni, ma i loro costumi: i costumi ciascuno se li dà da sé, le funzioni le assegna il caso. Alcuni cenino con te perché ne sono degni, alcuni perché lo siamo; infatti se in essi vi è qualcosa di servile in conseguenza delle loro basse frequentazioni, la comunione di vita con persone pionorevoli le eliminerà. 16. Non v'è motivo, caro Lucilio, per cui tu ricerchi un amico solo nel foro e nella curia: se farai diligentemente attenzione, lo troverai anche in casa. Spesso un buon materiale resta improduttivo senza un artefice: tenta e prova. Com'è stolto colui che avendo intenzione di comprare un cavallo non osserva l'animale stesso ma la sua gualdrappa e le briglie, così è assolutamente stolto chi valuta un uomo dalla veste e dalla condizione sociale, che a mò di veste c'è stata posta addosso.

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Commento ai passi antologici di Seneca.

- Seneca usa il nos associativo, con cui coinvolge se stesso nelle critiche che fa all'umanità: non si erge, dunque, a modello di perfezione. Se ritiene che la filosofia possa servire come psicoterapia così come faceva Epicuro, egli, però, a differenza di quest'ultimo, non si propone come il saggio che s'è curato, ma come un malato tra i malati.

- Seneca parla continuamente per metafore, spostando il discorso dalla filosofia astratta alle esperienze quotidiane. Tale linguaggio presuppone un pubblico di gente comune, il che spiega anche la scelta dell'epistola. Mentre l'argomentare di Platone è dialettico, quello di Aristotele sillogistico, Seneca più che dimostrare mostra. Sceglie situazioni di vita analoghe ad un problema filosofico, per cui in lui sono frequenti similitudini con aspetti della vita di tutti i giorni, cioé di campi che un pubblico "medio" può avere familiari, inducendo il lettore a pensare anche alla sua esperienza. Di solito egli non ricorre ad una sola similitudine e indugia spesso sulla stessa idea, illuminandola da diversi punti, corroborando le sue verità, ma anche compiacendosi della sua abilità retorica. Questo metodo fu criticato da Frontone, che lo paragona ad un commensale davanti a un piatto di olive. Un uomo educato le porta alla bocca, in modo rapido per non farsi vedere; Seneca invece le lancia in aria, le fa roteare e le prende al volo, per farsi notare, ma non è così, dice Frontone, che si mangiano le olive.

Epistula XCIX.

Seneca invia a Lucilio una lettera che ha indirizzato a Marcello, che non ha saputo sopportare con fortezza la perdita di un figlio ancora bambino. Seneca rimprovera l'amico per indurlo a ragionare con mente lucida sulla precarietà della condizione umana. La vita confrontata con l'eterno è un attimo; tutto muta e passa nel suo contrario: solo la morte è certa e ci uguaglia. Affiorano in questa riflessione motivi di Eraclito e dello stoico Crisippo. La coscienza dell'instabilità non genera in Seneca disperazione o tristezza: l'uomo, se riconosce la realtà, può dominarla con la ragione. Per buona parte della lettera il filosofo sembra esigere da Marcello un atteggiamento freddo e intellettuale, ma in realtà non pretende da lui indifferenza e si oppone a Crisippo e agli stoici, per i quali le affezioni devono essere sradicate per lasciare dominare incontrastato il logos. Seneca, semmai, non approva chi piange per seguire la consuetudine: l'uomo deve attenersi non all'opinione pubblica, ma alla natura e alla ragione. Il giudizio che Seneca dà dell'uomo oscilla tra l'affermazione della sua grandezza (è creatura razionale, la più vicina al logos cosmico, nella quale la parte razionale può disciplinare l'inconscio) e quella della sua fragilità rispetto a forze davanti a cui non può resistere. Dunque sono compresenti due atteggiamenti: quello dello stoico che, forte della sua superiorità, spersonalizza i problemi e quello di chi vive direttamente le ansie di tutti (nos associativo). Ciò è evidente, ad es., nel paragrafo 7, dove l'autore sembra prima indifeso davanti alla scoperta della rapidità del tempo (messa in evidenza dai superlativi), poi trova tranquillità nell'enunciare una legge universale: la contemplazione razionale vince l'emotività irrazionale. Il contrasto si spiega in Seneca su due piani: quello personale e quello storico-politico. Seneca, infatti, vive, a causa della salute cagionevole, un forte senso di precarietà, acuito, del resto, dal vivere in un'età storica nella quale l'umanità ha perso i propri punti di riferimento. Il cittadino si scopre parte di un meccanismo gigantesco e si sente vulnerabile e incapace di incidere sul corso degli eventi, come invece immaginava di riuscire a fare nella polis. Quando Seneca sostiene che "a chi tocca di nascere resta di morire" ("cui nasci contigit mori restat"), esprime benissimo questa nuova sensazione dell'uomo del suo tempo: per la prima volta, nella sua storia, l'uomo antico non si sente più re del cosmo, capisce che non sceglie di vivere, ma che nella vita è gettato. Inoltre, la

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presenza di un potere autoritario spesso capriccioso accentua il senso dell'ingovernabilità della vita. Questa disarmonia incide sulla sensibilità di Seneca e sul suo stile spezzato, che la esprime.

7. La collocazione umana è tridimensionale: viviamo tra passato, presente e futuro, ma non sappiamo accettare il presente che è come se non esistesse, perché siamo sempre tesi verso il futuro, in attesa o nella paura di qualcosa, e non sappiamo conservare il passato. Perciò siamo come sospesi nel vuoto, incapaci di vivere sereni, vittime di noi stessi.

11. Seneca, ragionando probabilmente sulla spinta della propria esperienza, ritiene che, quando la vita è invivibile, il pensiero della morte appare all'uomo come una soluzione e lo occupa per un periodo di tempo nel quale spiritualmente è come se fosse morto (morte psicologica). In questo modo, il filosofo rovescia l'idea per cui il corpo è prigione della nostra vera ricchezza, l'anima: infatti, in realtà, è il corpo ad apparire solido, mentre la nostra parte debole è lo spirito.

12. Oggi su temi come l'eutanasia e il suicidio ci si chiede se la vita sia in sé un valore o meno. Seneca riteneva che fosse solo uno strumento per realizzare valori, venendo meno i quali essa è inutile e dannosa. Quest'atteggiamento laico stupisce in un filosofo stoico, dato che nello stoicismo tutto ha significato, perchè è figlio della provvidenza. Ma in età imperiale, di fronte ad una realtà esterna che è disordine, anche gli stoici ritengono che l'ordine si possa realizzare solo dentro l'uomo, quando egli rende autonome le nostre scelte. Ciò giustifica, ad es., il suicidio di Catone. Seneca, dunque, fonda una nuova etica, definita della convinzione, in base a quale ognuno giustifica le proprie scelte morali dentro di sé e non ne è responsabile davanti alla società. Seneca, in questo passo, parla per primo di massificazione (o complesso del vagone), cioé della tendenza ad assimilarsi alla massa, abdicando alla propria personalità e alle proprie responsabilità; dirà, ad es., che più va tra gli uomini più diventa disumano. Similmente, seguendo anche una intuizione dello storico Tacito, Weber e Freud interpretano questo fenomeno come forma di pigrizia di chi, in questo modo, si libera dal problema della scelta.

15. Sui iuris è un termine giuridico che indica chi è indipendente e responsabile di sé e delle proprie azioni; in questo passo, invece, qualifica certi stati d'animo autonomi dalla ragione. L'intuizione dell'irriducibilità dell'irrazionale al razionale è di solito dei poeti (Catullo, ad es.). Il pianto per un morto per gli antichi era legato ad un dovere religioso: chi muore deve essere consolato con la "bella morte" e col pianto del vivo, che gli mostra così che la vita è disagio. Di qui la tradizione delle "piangenti" prezzolate. Qui il pianto ha una funzione psicologica: viene dal di dentro, non dal di fuori.

16. Populus ha perso valenza politica e giuridica. Cicerone lo definiva come una comunità organizzata su diritti e doveri. Perché la parola abbia perso la sua valenza politica, occorre che il popolo abbia perso la gestione del potere: la parola così ha ormai solo un valore numerico e negativo, in quanto indica la folla deresponsabilizzata. Se il singolo si ritrova nella massa, è agito, trascinato dal conformismo.

Consolatio ad Marciam.

Le consolazioni sono brevi opere filosofiche di occasione per uomini colpiti da un grande dolore e consolati attraverso la filosofia. Seneca ne scrive tre. Marcia, cui si rivolge in questo caso, è la figlia di un politico e intellettuale stoico: ha perso un bimbo e dopo tre anni non è riuscita a dimenticare.

IX 1. La psicologia umana è in eterna scissione: a livello razionale l'eventualità del dolore è prospettata come possibile, a livello psicologico è rimossa e sepellita nell'inconscio.

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2. Questo paragrafo è un involontario documento storico: l'età senecana vede un grande rimescolamento sociale, in cui la ricchezza è mobile. Scompaiono i vecchi patrimoni legati alle terre e ne crescono nuovi. X 1. Il teatro in Grecia e a Roma tende a divenire spettacolo e sviluppare la teatralità. spesso non ri recita un pezzo intero, ma solo alcune scene "drogate" per catturare l'interesse. La scenografia, prima scarna e essenziale, diventa sempre più curata. Come farà Pirandello, Seneca paragona la vita ad un teatro: nel nostro rapporto con le cose l'uomo recita una parte, quindi esso è senza fondamento naturale. Noi e gli oggetti prima o poi usciremo di scena. Se per Pirandello noi non possiamo esistere senza la socialità, per Seneca esiste un margine in cui si può uscire dal nostro ruolo sociale, quello della razionalità.

3. Le cose che amiamo, già quando le amiamo, stanno scomparendo. Il tempo corrode tutto e l'invecchiamento è un processo sempre presente. Seneca non predica la rinuncia alle cose: esse sono valori e occasioni di gioia legittima. Ma vuole che sia ben chiaro che la vita è perdita, il tempo inarrestabile.

4. La famiglia è sentita modernamente dal filosofo come un nucleo di affetti: anticamente, è invece predominante la sua figura istituzionale, come strumento di perpetuazione del nome e del patrimonio. Lo storico d'età augustea Livio racconta di molti padri che condannano i figli, perchè all'interno di una struttura gerarchica militare. Di questa nuova umanità sono investiti anche gli schiavi.

De brevitate vitae.

L'opera affronta un problema universale: la vita è troppo breve e l'uomo protesta contro la natura che ha reso più longevi altri animali. Seneca si ricorda d'essere stoico e sente di non poter accusare la Natura dei comportamenti umani irrazionali e ingiusti, in quanto essa governa secondo un progetto provvidenziale. Siamo noi a rendere la vita breve, spendendo male il tempo. Siamo gli occupati, maniaci di qualche passione insulsa o superficiale. Anche Orazio indica la stessa strada, ma in nome del piacere epicureo. La conclusione è che il tempo non è misura dell'uomo, ma semmai l'uomo è misura del tempo, che non esiste senza l'uomo.

De ira.

Il problema di cosa definisce l'uomo è stato risolto nel tempo in modi sempre diversi: per Cicerone, che sistema il concetto di humanitas in età cesariana, è uomo chi diventa padrone di una dimensione culturale, che gli viene insegnata e che si traduce in valori spirituali (razionalità, tolleranza, rinuncia alla violenza). Per Seneca, invece, humanitas significa tolleranza e fratellanza, che nascono dal fatto di rendersi conto d'essere tutti nella stessa terribile condizione, per cui l'umanità deve collaborare e non competere, con attenzione per la dignità altrui e rispetto della nostra stessa dignità in quella altrui. Ad esiti simili arriva anche il cristianesimo, le cui premesse però non stanno nella dimensione culturale (Cicerone) o nella riflessione razionale (Seneca), ma nella scoperta di essere tutti figli di Dio. Insomma, obbedendo a Seneca, obbediamo a un calcolo; obbedendo a Cristo, all'amore.Ciò non impedì che Seneca fosse letto come un pensatore pre-cristiano e che fosse creata una falsa corrispodnenza tra lui e San Paolo. Anche in campo cristiano, però, c'è chi condivide alcuni atteggiamenti di fondo degli intellettuali pagani: il filosofo cristiano Origene, ad es., introduce ad Alessandria l'idea di una scuola per

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preparare i cristiani. Il vescovo si oppone, perché non vuole distinguere doctiores da humiliores, che sarebbero più lontani da Dio solo perchè meno istruiti. Il pensatore cristiano, infatti, generalmente rimprovera al pensatore classico l'idea che l'umanità si possa raggiungere a tappe e che da questa meta siano tagliati fuori i poveri e le donne, sulla base di una discriminante sociale.Nel Medioevo, lo stesso Petrarca, nel De sui ipsius et multorum ignorantia, si pone su questa linea, contestando gli averroisti che cercano gli errori filosofici di tutte le altre scuole: secondo lui, c'è più umanità, che in loro, in una vecchia che biascica il "Padre nostro".

III 43. 2. Il circo, lo spettacolo più seguito, aveva orari continuati (gli spettacoli mattutini e meridiani erano più grossolani). Seneca, che lo paragona ad un mattatoio, ritiene che sia uno spettacolo di crudeltà gratuita e lo condanna perché corrompe gli spettatori, facendo emergere in loro il gusto dell'aggressività primigenia.

Epistula XLVII.

1. Nel dialogo l'antagonista senecano ha un'idea sola: lo schiavo è uno strumento con l'anima, come diceva Aristotele. Egli è descritto come un uomo ostinato, incapace di dialettizzare. Le obiezioni di Seneca sono graduate e arricchite di sfumature che approfondiscono l'umanità degli schiavi. Il rapporto descritto all'inizio è puramente formale, poi acquista valore: essi sono compagni di tenda (perché la vita è "milizia", una continua lotta contro noi stessi e la sorte), amici (tra cui deve essere solidarietà), conservi (perché tutti abbiamo un'autorità comune da rispettare, la fors).

2. In una sua celebre ode, Orazio invita lo schiavo a non affaticarsi ad adornare il suo banchetto, perché gli basta una corona di mirto, la quale è adatta ad entrambi. Col servo il poeta stabilisce criteri di affinità. Al tempo di Orazio, lo schiavo era trattato con naturalezza, perchè in genere non metteva in discussione lo status del padrone. Finite le guere d'espansione e con esse conclusosi l'afflusso di schiavi, si determina una tensione tra questi ultimi e i padroni, per cui avvengono casi di ribellione. Plinio racconta di un padrone spietato, il quale viene arrostito sulla piastra della sauna dai suoi sottoposti. Seneca rappresenta l'atteggiamento di chi non ha molti schiavi.

15. L'affermazione della pari dignità di tutti gli uomini non è assoluta, ma subordinata alla pari dignità culturale. Seneca crede che l'uomo abbia innate certe radici della sua morale, ma, attento alla realtà, si rende conto che l'uomo è anche ciò che lo rende l'ambiente: non a caso evita la folla che lo farebbe diventare meno umano.

16. La differenza tra libero e schiavo era considerata assoluta, al massimo tra loro poteva esserci una qualche familiarità, intesa in senso paternalistico, dato che l'amicizia esisteva solo tra liberi, uguali non in assoluto, ma in quel momento, nel campo dei loro bisogni. Seneca, così come i cristiani, non contesta la dimensione giuridica degli schiavi, ma esige per loro il rispetto della sua umanità. I cristiani andranno oltre, pretendendo l'amore per tutti.