Seminario Su Differenza e Ripetizione

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Riprendi da pagina 17 Critica al principio di identità: il frammento 3DK di Parmenide I.1 UNIVOCITÀ E ANALOGIA DELL'ESSERE Torna alla pagina iniziale Sommario Introduzione Univocità, equivocità ed analogia nella filosofia greca o Prima di Aristotele o Aristotele Analogia come riconduzione del diverso all'identità Conclusione Introduzione Torna al Sommario Le nozioni di univocità e analogia dell'essere appartengono alla filosofia medievale, al cui interno vengono elaborate in vista soprattutto del problema della conoscenza dell'essenza di Dio. Semplificando molto, la questione era posta in questi termini: vi è identità di fondo, pur nel rispetto delle incommensurabili differenze specifiche, fra l'essere di Dio e quello delle creature? L'ens increatum et creator e l'ens creatum, in quanto entrambi entia, sono pensati, riguardo al loro essere, univocamente oppure l'incommensurabilità si estende allo stesso essere, per cui solo di Dio l'essere si dice propriamente mentre delle creature si dice in un senso diverso (assolutamente diverso e, allora, si parlerà di equivocità, relativamente diverso e, allora, si parlerà di analogia)? I sostenitori dell'analogia erano in particolare preoccupati di salvaguardare due esigenze ritenute irrinunciabili: da un lato, quella di assicurare inequivocabilmente la differenza fra uomo e Dio, l'assoluta dipendenza della creatura dal creatore, dall'altro, quella di non portare tale differenza fino alla diversità pura e semplice (assoluta equivocità), perché in tal caso Dio sarebbe stato assolutamente inconoscibile per l'uomo. Era essenziale mantenere un riferimento di natura analogica fra l'essere della creatura e l'essere del creatore, per non cadere nell'afasia della teologia negativa. 1

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Riprendi da pagina 17 Critica al principio di identità: il frammento 3DK di Parmenide

I.1

UNIVOCITÀ E ANALOGIA DELL'ESSERETorna alla pagina iniziale

Sommario

Introduzione Univocità, equivocità ed analogia nella filosofia greca

o Prima di Aristotele o Aristotele

Analogia come riconduzione del diverso all'identità Conclusione

Introduzione

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Le nozioni di univocità e analogia dell'essere appartengono alla filosofia medievale, al cui interno vengono elaborate in vista soprattutto del problema della conoscenza dell'essenza di Dio. Semplificando molto, la questione era posta in questi termini: vi è identità di fondo, pur nel rispetto delle incommensurabili differenze specifiche, fra l'essere di Dio e quello delle creature? L'ens increatum et creator e l'ens creatum, in quanto entrambi entia, sono pensati, riguardo al loro essere, univocamente oppure l'incommensurabilità si estende allo stesso essere, per cui solo di Dio l'essere si dice propriamente mentre delle creature si dice in un senso diverso (assolutamente diverso e, allora, si parlerà di equivocità, relativamente diverso e, allora, si parlerà di analogia)? I sostenitori dell'analogia erano in particolare preoccupati di salvaguardare due esigenze ritenute irrinunciabili: da un lato, quella di assicurare inequivocabilmente la differenza fra uomo e Dio, l'assoluta dipendenza della creatura dal creatore, dall'altro, quella di non portare tale differenza fino alla diversità pura e semplice (assoluta equivocità), perché in tal caso Dio sarebbe stato assolutamente inconoscibile per l'uomo. Era essenziale mantenere un riferimento di natura analogica fra l'essere della creatura e l'essere del creatore, per non cadere nell'afasia della teologia negativa. Al contrario, i sostenitori dell'univocità ritenevano che senza un'identità preliminare dell'ens (concepito come un qualcosa di comune ed assolutamente indeterminato) mancasse il presupposto stesso per ogni conoscenza positiva di Dio. Molto schematicamente possiamo individuare in S.Tommaso e nella scuola tomista i sostenitori dell'analogia entis, in Duns Scoto e negli scotisti i sostenitori dell'univocità dell'essere.  Anche se non ci occuperemo di questa controversia, che ho ricordato solo per inquadrare storicamente il problema, è, tuttavia, necessario comprendere bene i concetti di analogia e di univocità, dal momento che rappresentano un punto di riferimento teorico costante e basilare per l'autore al quale è dedicato il corso di quest'anno, Gilles Deleuze. Cominciamo con il leggere due brevi citazioni da Differenza e ripetizione:

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C'è sempre stata una sola proposizione ontologica: L'Essere è univoco. E c'è sempre stata una sola ontologia, quella di Duns Scoto, che assegna all'essere una voce unica. Si è fatto il nome di Duns Scoto, poiché egli seppe portare l'essere univoco al più alto grado di sottigliezza, a rischio di cadere nell'astrazione. Ma da Parmenide a Heidegger, è sempre la stessa voce a riproporsi, in un'eco che forma da sola tutto il dispiegarsi dell'univoco. (Differenza e ripetizione [da ora in avanti DR], 52).

L'essenziale dell'univocità non è che l'essere si dica in un solo e stesso senso (questo sarebbe monismo) ma che si dica, in un solo e stesso senso, di tutte le sue differenze individuanti o modalità intrinseche.... L'Essere si dice in un solo e stesso senso di tutto ciò di cui si dice, ma ciò di cui si dice differisce: si dice della differenza stessa. (DR, 53)

Solo se tutte le differenze sono differenze nello stesso senso, senza che nessuna, in altri termini, reclami per sé l'essere in senso proprio, pretendendo, con ciò, di rappresentare un'unità di senso e di riferimento per le altre differenze, tutte le differenze possono essere differenze effettive. Tutte le cose sono "essere": non c'è differenza in rapporto alla partecipazione delle cose all'essere, tale da autorizzare una gerarchia di valori. Il senso di queste affermazioni si chiarirà nel corso dei seminari che dedicheremo a Differenza e ripetizione. Per ora basti rilevare la centralità del concetto di univocità dell'essere nel pensiero di Deleuze ed il riferimento non solo a Duns Scoto, ma a tutta una corrente di pensiero che si estende da Parmenide, il primo grande sostenitore dell'univocità dell'essere (ricordiamo che contro Parmenide, o meglio, contro un'interpretazione del senso univoco dell'essere in Parmenide, elaboreranno la propria filosofia prima Platone e poi Aristotele e che proprio quest'ultimo è storicamente indicato come il primo assertore dell'analogia dell'essere) fino ad Heidegger (fino al Novecento, quindi, passando per Spinoza e Nietzsche). Non a caso Heidegger "riprenderà" Parmenide ed il senso dell'essere che il pensatore di Elea ha enunciato. Tanto Tommaso d'Aquino quanto Duns Scoto enunciano la loro concezione dell'essere, analogico o univoco, richiamandosi all'autorità di Aristotele. Né la posizione di Tommaso né quella di Scoto, naturalmente, possono essere ricondotte tali e quali a quella di Aristotele. Al filosofo greco, infatti, era del tutto estraneo il presupposto fondamentale di tutta la filosofia medievale, la bipartizione ontologica, scandita dal concetto di creazione, fra il creatore e le creature, e con ciò erano estranei tanto lo sfondo concettuale quanto la motivazione etica della disputa medievale. Tuttavia, nella metafisica di Aristotele viene posto con grande rigore teorico il problema dei molteplici modi in cui l'essere si dice, sicché è a questa fonte che dobbiamo innanzitutto rivolgerci.

Univocità, equivocità ed analogia nella filosofia greca

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Vediamo, allora, ciò che dice Aristotele in due celebri passi tratti dalla Metafisica:

L'essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad una unità e ad una realtà determinata. L'essere, quindi, non si dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo "sano" tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la conserva, o in quanto la produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla. (Met. IV, 1003a 33-37 / ed. Rusconi p. 131)

Parlando, poi, dell'uno e del suo essere non sostanza ma predicato scrive:

... l'essere e l'uno sono i predicati più universali; ... l'uno non può essere un genere per le stesse ragioni per cui né l'essere né la sostanza possono essere un genere. (Met. X, 1053b 20-24 / ed. cit. p. 443)

Nel primo capitolo delle Categorie leggiamo una fondamentale distinzione fra sinonimia, omonimia e paronimia. Noi ci soffermeremo solo sulle prime due: Sinonimia:

Quando due nomi indicano, sotto un determinato riguardo, la medesima cosa. Es.: l'uomo ed il bue sono sinonimi in quanto entrambi animali; la specie, l'individuo ed il genere, se nella stessa colonna, sono fra loro sinonimi.

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Omonimia: Quando solo il nome è comune, ma la definizione corrispondente al nome è diversa. Es.:

due persone che si chiamano con lo stesso nome; due cose che si chiamano con lo stesso nome come il termine cane, riferibile sia all'animale che ad

una parte del fucile; due cose fra loro assolutamente diverse, ma che intrattengono un rapporto analogico, per cui dell'uno

il nome è detto in senso proprio, dell'altro in senso figurato (i piedi di un uomo, i piedi di una montagna).

animale detto di un uomo in carne ed ossa e di un uomo dipinto.

Allora due termini sono sinonimi se sono in grado di accogliere la medesima predicazione essenziale (uomo e bue accolgono allo stesso modo il predicato animale), altrimenti sono omonimi (uomo in carne ed ossa ed uomo dipinto accolgono diversamente lo stesso predicato, essenzialmente il primo, accidentalmente il secondo). Fissata questa distinzione, cerchiamo di capire come possiamo usarla per chiarire il problema che stiamo trattando, cioè il modo in cui l'essere si dice di ogni cosa.

Prima di Aristotele

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Il problema dell'essere in quanto essere, cioè il problema ontologico nella sua specificità, si pone per la prima volta in modo esplicito con Parmenide, per il quale l'essere è il puro essere, il puro positivo che si contrappone senza mediazioni al puro negativo, il non essere. Il pensatore di Elea pone drasticamente l'alternativa: se c'è l'essere non può esserci il non-essere. Il non-essere è impensabile e indicibile (pensare è sempre e solo pensare l'essere, dicibile è sempre e solo qualcosa che è). Tale concezione ontologica viene definita una concezione integrale ed univoca dell'essere, perché l'essere si dice in una sola accezione ed in modo assoluto, alla quale corrisponderà in modo altrettanto assoluto un'unica accezione del non essere. Ora, se l'essere si dice con lo stesso senso di ogni cosa che è, nasce il problema di spiegare il divenire, il mondo fenomenico, il quale, nella molteplicità e diversità del suo manifestarsi, sembra implicare in vario modo il non essere: se l'essere ha un solo senso, ogni differenza è illusoria. Ed è proprio l'illusorietà dei fenomeni e la fallacia dell'esperienza che li attesta ad essere affermata da Parmenide e dalla scuola eleatica: la realtà è solo come noi la pensiamo con il lógos e non come la sperimentiamo con i sensi. La prima grossa riforma dell'ontologia eleatica avviene con Platone: senza dilungarci più di tanto sulla concezione platonica, diciamo schematicamente che il filosofo ateniese contrappone al blocco unico ed immutabile dell'essere parmenideo un essere composto da una molteplicità di Forme o Idee. Ma condizione necessaria affinché una molteplicità sia effettiva e non illusoria è che le idee siano diverse una dall'altra, ossia che all'essere di ogni idea appartenga anche il non essere le altre idee. Nell'essere monolitico di Parmenide vengono introdotte le differenze ideali e con le differenze ideali viene introdotto il concetto di relazione. Il problema dell'essere e del suo senso viene a precisarsi come un problema di rapporti fra identità e differenza. Platone salva la molteplicità ma non il mondo sensibile, che rimane un mondo di ombre, un mondo che, se non è del tutto illusorio, non è nemmeno pienamente reale: è un qualcosa di intermedio fra essere e non essere.

Aristotele

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Aristotele, con la sua concezione della sostanza come sinolo di materia e forma ed il conseguente rifiuto della separatezza delle idee dal mondo sensibile, orienta l'ontologia in una direzione che possiamo definire "realistica", perché ispirata dall'intenzione di salvare la realtà del mondo fenomenico. L'essere, per lui, ha molti significati e cosí, correlativamente, il non essere. L'essere è la totalità delle cose pensabili ed esperibili, senza eccezioni. Posta così la questione, sembra che Aristotele cada nell'eccesso opposto a quello di Parmenide: se per quest'ultimo l'essere ha un solo senso (univocità), per Aristotele l'essere ha molteplici sensi, è un termine equivoco, perché di tutte le cose si dice che sono, ma per ognuna l'essere si dice in modo diverso.

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Se ricordiamo la definizione di omonimia, sembra che possiamo dire, senza ombra di dubbio, che l'essere si dice in modo omonimo di ogni cosa. Il concetto di omonimia ed il suo nesso con quello di analogia, tuttavia, deve essere precisato, anche perché, come è detto in Met. IV, per Aristotele l'essere non si dice per mera omonimia. A questo proposito è molto importante leggere un passo dell'Etica Nicomachea riguardo ai modi in cui si dice il Bene. Dopo aver negato che il Bene sia un'idea, cioè un universale, e che come tale si dica univocamente delle diverse cose buone (in termini aristotelici: il bene non è un genere), Aristotele si chiede se è allora un omonimo e scrive:

Ma in che senso, allora, si predica il Bene? Infatti non assomiglia ai termini che hanno casualmente lo stesso nome. Ma è dunque omonimo per il fatto che tutti quanti i beni procedono da un solo bene o ad un solo bene concorrono? O non è piuttosto per analogia? Infatti quello che la vista è nel corpo, l'intelletto è nell'anima, eppertanto un'altra cosa lo è nell'altra. (Et. Nic. I,4 1096b 26-29)

Qui vengono definiti tre tipi di omonimia: Gli omonimi in senso stretto, termini che denotano realtà che non hanno nulla in comune se non il nome;

Aristotele li chiama omonimi apò týches (per mera casualità). Gli omonimi aph'henós o pròs hen: termini che denotano, sì, realtà diverse, ma non totalmente diverse, bensì

che procedono da un unico principio o che convengono ad uno stesso fine. È questa la predicazione dell'essere che solo in un senso lato si può chiamare analogica (l'analogia ha a che fare con la somiglianza e la somiglianza è ciò che è intermedio fra la pura identità e l'assoluta diversità: in questo caso cose diverse hanno un identico riferimento), diversa dal terzo tipo di omonimia, che riguarda, invece, l'analogia in senso stretto.

L'omonimia per analogia, basata su un'identità di rapporti del tipo la vista sta al corpo come l'intelletto sta all'anima, per cui possiamo chiamare l'intelletto la vista o l'occhio dell'anima, oppure, la sera sta al giorno come la vecchiaia sta alla vita, per cui la vecchiaia viene detta la sera della vita.

Aristotele ci fornisce un esempio del modo in cui l'essere si predica (omonimia pròs hen). La parola "sano", scrive in Met. IV, si dice in modo diverso e precisamente in quattro modi, ma tutti hanno, come riferimento, un unico termine che articolano in modo ogni volta diverso (nel nostro caso è la salute dell'organismo). Vediamo questi quattro sensi:

Sano in quanto è in grado di ricevere la salute: es. il corpo è sano, lo possiamo dire in quanto ha accolto in sé ed è in grado di accogliere in sé lo stato di salute.

Sano in quanto produce salute: es. una medicina (o un'erba medicinale) è sana; non intendiamo dire che la pianta si trova in uno stato di non malattia, ma che quell'erba è sana perché in certi casi rende sani.

Sano in quanto è sintomo di salute: es. il colorito di un viso è sano; non è certo al colorito che riferiamo la salute, perché un colore non può essere né sano né malato. Ciò che intendiamo è che un determinato colorito del viso è sintomo, segno di salute.

Sano in quanto conserva la salute: es. una passeggiata è sana; non significa che una passeggiata sia un sintomo di buona salute, né che renda sani, né può essere intesa come qualcosa di non malato. Una passeggiata viene detta sana nella misura in cui contribuisce al mantenimento e all'incremento della salute.

Allora, "sano" si dice del corpo, dell'erba medicinale, del colorito del viso e della passeggiata; tutte e quattro queste cose sono sane ma non possono essere dette sane allo stesso modo. L'esser-sano, cioè la salute, si dice di molte cose fra loro diverse, si dice come un alcunché che tutte queste cose hanno in comune, ma non è una comunanza analoga a quella che il genere esprime nei confronti delle specie, non si tratta di sinonimia, perché il senso in cui le cose sono sane è di volta in volta diverso; non è neppure una comunanza meramente omonima, cioè una semplice identità di nome per cose fra loro assolutamente diverse. Si tratta, invece, di una comunanza di riferimento: i significati di salute, menzionati al secondo, al terzo e al quarto posto, sono riferiti in modo ogni volta diverso all'esser sano menzionato al primo posto. Questo primo significato è necessariamente sottinteso da ciascuno degli altri: l'erba medicinale perché produce la salute, il colorito del viso perché indica uno stato di salute, la passeggiata perché conserva la salute.

Analogia come riconduzione del diverso all'identità

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Qual è il carattere dell'unità nella quale sono contenuti i diversi significati di sano? Si tratta di determinare una molteplicità, di raccogliere i diversi sotto un'unità. Aristotele definisce nel V libro della Metafisica il concetto di differenza:

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Differenti (diáphora) si dicono quelle cose che, pur essendo diverse, sono per qualche aspetto identiche: identiche non solo per numero, ma anche per specie, per genere o per analogia. (Met. V, 1018a 12-13, ed. cit. p. 219)

Oltre all'unità numerica, a quella specifica e a quella generica, Aristotele fa riferimento anche all'unità dell'analogia. Ritornando al nostro esempio della parola "sano", possiamo dire che tale unità si ha quando una molteplicità di significati diversi si riferisce ad un significato primo (la salute dell'organismo), il quale svolge quindi una funzione di "sostegno" per tutti gli altri. I diversi significati corrispondono (analéghein) al primo e lo soddisfano ognuno secondo un determinato punto di vista. L'analéghein (il corrispondere) è un ricondurre il diverso all'identità, un riportare i molti all'uno. Questa identità, questa unità è anche un qualcosa di primo, un qualcosa rispetto al quale i significati diversi (che ora possiamo chiamare analogici) sono dei significati secondi o derivati. Il primo è il significato fondamentale, che sorregge e guida tutti gli altri, è il punto a partire dal quale il significato che ad esso si riporta diventa legittimo. È l'arché. L'essenza dell'analogia è il riportare una molteplicità ad un'origine unica. Tale universalità, lo abbiamo detto, non è l'universalità generica, ma un koinón ti, è un alcunché di comune che si caratterizza come un modo dell'identità per mantenere in un'unità i molti che gli corrispondono. Anche il modo in cui l'essere si dice degli enti nella loro molteplicità ha lo stesso carattere analogico: l'essere si dice in modi molteplici, ma tutti in riferimento ad un unico senso. Qual è il significato fondamentale dell' ón aristotelico, quello che sorregge e guida tutti gli altri? Aristotele lo individua nell'ousía (sostanza), la prima categoria, la categoria che esprime nel modo più proprio il che cos'è. Vediamo brevemente di chiarire il senso della sostanza come significato fondamentale dell'essere. La parola ente contiene in sé due significati, quello di essenza e quello di essere. Serviamoci, come esempio, della seguente frase "La pianta che si trova qui è verde". In senso assolutamente generale, possiamo individuare tre tipi di enti:

la pianta è ente il verde è ente l'esser-qui è ente (è una determinazione di luogo)

Pianta, verde e qui sono tre determinazioni esistenti, perciò sono tre enti. Ma solo nella frase la pianta è ente l'esser-ente è detto in senso proprio, mentre nelle altre due frasi l'esser-ente è detto in senso derivato o analogico (accidentale è il termine tecnico che Aristotele usa). Questo perché nell'esser-ente della pianta io intendo qualcosa che è in modo tale che per essere non ha bisogno di altro cui inerire; nell'esser-ente del verde, invece, o del qui vi è la necessità di inerire o di "cadere sopra" qualcosa. Il verde si dà sempre come qualcosa che è verde, il qui si dà sempre come qualcosa che è in questo determinato posto. Il verde ed il qui sono sempre in qualcosa d'altro da se stessi (ognuno di essi è ens in alio, non in sé sussistente). Ciò che è nel modo di non aver bisogno d'altro a cui inerire è la sostanza, ciò che, invece, è solo nel modo dell'essere in altro è l'accidente.

Conclusione

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Ora possiamo capire meglio il senso dell'analogia entis nel Medioevo: il Dio della fede cristiana, pur essendo creatore del mondo è assolutamente diverso e separato dal mondo stesso. Tuttavia è ente nel senso più alto del termine, è summum ens. Ma enti sono anche le creature che pur differiscono infinitamente da lui (la creatura è ens finitum). Come possono ens finitum ed ens infinitum essere detti entrambi entia, essere compresi entrambi sotto lo stesso concetto di essere? L'analogia entis, nel modo in cui l'abbiamo illustrata prima, è la risposta a tale domanda. L'essere fondamentale, l'essere in senso proprio è solo quello di Dio, mentre l'essere delle creature è essere solo in senso derivato, in quanto fa riferimento all'essere di Dio, è essere in senso, appunto, analogico. Possiamo capire, anche, qual è la ragione delle critiche che i filosofi della differenza rivolgeranno alla dottrina dell'analogia entis: tali critiche le vedremo in modo dettagliato nei seminari dedicati a Differenza e ripetizione.

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Per ora basti in generale notare che, entro tale prospettiva filosofica, la differenza non ha un proprio statuto autonomo, perché o è differenza specifica, differenza interna ad un'identità, quella generica, semplice determinazione dell'identità, in forza della quale ciò che attraverso la differenza si viene ad indicare è un mero esemplare dell'identità, oppure è differenza analogica, in forza della quale il molteplice ha una dignità ontologica derivata e dipendente da quella dell'identità a cui fa riferimento. Ricordiamo infine che il modo in cui l'univocità viene intesa, al di fuori dell'univocità intragenerica ed intraspecifica, è quella dell'assoluta uniformità che abbiamo visto attribuire all'ontologia parmenidea, un'univocità attraverso la quale la differenza viene non tanto depotenziata, come nella dottrina dell'analogia entis, ma semplicemente negata. Ma non è questo il senso in cui Heidegger parla di identità, appoggiandosi all'autorità della parola originaria di Parmenide, né quello al quale Deleuze fa riferimento quando si richiama a Duns Scoto, a Spinoza e a Nietzsche come filosofi dell'ens univocum. Il senso di tale univocità emergerà nei seminari su Heidegger e Deleuze: ricordiamo solo che Duns Scoto, uno dei punti di riferimento, è sì il filosofo dell'univocità dell'essere, ma è anche, e nello stesso senso, il filosofo dell'haecceitas, dell'individualità o dell'individuazione come prima istanza ontologica.

I.2

IL PRINCIPIO DI INDIVIDUAZIONETorna alla pagina iniziale

Sommario

Impostazione del problema La soluzione tradizionale: Aristotele, Tommaso La soluzione scotista

o La natura communis o L' haecceitas

Individuazione e differenza

Impostazione del problema

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Il problema dell'individuazione è il problema della costituzione dell'individualità a partire da una sostanza o natura comune: per esempio della costituzione di questo uomo o di questo animale a partire dalla sostanza "uomo" o dalla sostanza "animale". Da ciò si ricava che il problema dell'individuazione non deve essere confuso

né con il problema dell'entificazione, che riguarda l'unità o l'identità della cosa (che cos'è che fa di una cosa una cosa, che cos'è che fa di un ente un ente), cioè il suo essere qualcosa

né con il problema della specificazione, che riguarda la differenziazione di una cosa (che cos'è che fa sì che una cosa sia differente da altre cose dello stesso genere).

Prendiamo, ad esempio una sostanza come l'animale. Posso chiedermi che cos'è che fa sì che l'animale sia qualcosa, che cosa lo rende un ente (problema dell'entificazione), oppure posso chiedermi che cos'è che fa sì che l'animale sia un

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animale e non, ad esempio, una pianta (problema della specificazione) oppure che cos'è che fa sì che un animale sia proprio questo animale (problema dell'individuazione). Tutto ciò lascia pensare che l'individuo (quest'uomo, questa pietra, questo animale, ecc.) sia il risultato di un triplice processo produttivo:

innanzitutto dev'essere qualcosa, e precisamente un sostegno atto a ricevere le determinazioni, dev'essere un sostrato indeterminato, ma determinabile (hypokeìmenon, substantia), un che (quid) di sussistente (deve propriamente essere);

poi, fra le cose che sono dev'essere qualcosa di differente o di specifico (aliquid) rispetto ad altre cose che sono, dev'essere un determinato ente, un ente che si caratterizza non in sé, ma in opposizione ad altri enti (un determinato universale, un genere o una specie, sostanze seconde nel senso aristotelico);

infine fra le cose di una certa specie dev'essere questa determinata cosa (haec).

Nella proposizione "questo animale è un ente" il problema dell'individuazione non riguarda né l'esser-ente di questo animale (problema dell'entificazione), né l'essere animale di questo ente (problema della differenziazione), ma l'esser questo dell'ente animale.

La soluzione tradizionale: Aristotele, Tommaso

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La prima e più antica risposta metafisica al problema dell'individuazione è la seguente: l'individualità dipende dalla materia, cioè un determinato ente è questo ente perché la materia lo affetta. Il presupposto sul quale una simile risposta si regge è che l'individuo (átomon) debba essere in sé sussistente e, perciò, realmente distinto da ogni altro ente o, il che è lo stesso, debba essere numericamente uno e, quindi, necessariamente molteplice. Tale risposta risale ad Aristotele:

Tutte le cose che sono molteplici per numero hanno materia (hýle): infatti la forma di una molteplicità è una e identica, come, per esempio, la forma dell'uomo, invece Socrate e Callia non sono uno. (Met., XII,8, 1074 a 33).

Il concetto, cioè la specie "uomo", non ha materia, pertanto , pur essendo qualcosa di determinato (non è, infatti un delfino, né una zappa), ha un unità formale, è un predicato comune e, come tale, può attribuirsi a molti; Socrate, invece, per il fatto di avere materia è unico ed impredicabile. Un determinato uomo è Socrate perché ha la materia. Tuttavia anche Callia è materiale e questo può far sorgere qualche dubbio sulla capacità della materia di individuare, dal momento che essa è un qualcosa che Socrate e Callia hanno in comune. Per questa ragione S.Tommaso precisa che il principio di individuazione non è tanto la materia in quanto tale, cioè la cosiddetta materia comune, ma la materia signata quantitate:

Principio di individuazione non è la materia comunque intesa, ma solo la materia designata (materia signata); con questo termine intendo indicare la materia in quanto sottostante a certe dimensioni. Tale materia verrebbe posta nella definizione di Socrate, se Socrate fosse definibile. Nella definizione di uomo non viene posta la materia designata, giacché in tale definizione non entrano quest'osso e questa carne, ma osso e carne in generale, che sono la materia non designata dell'uomo. (De ente et essentia II, 6)

La materia signata è la materia che soggiace a dimensioni quantitative ed essa è ciò che non entra nella definizione di qualcosa, è quindi qualcosa di inessenziale. Dal punto di vista dell'essenza, fra "uomo" e Socrate non può esservi differenza o, il che è lo stesso, uomo e Socrate differiscono fra loro per il fatto che l'uno è un'essenza determinata o differenziata, ma non designata, mentre l'altro è la stessa determinata essenza, ma designata. La segnatura, ciò per cui l'individuo differisce dalla specie, è un'accidentalità. Ben diverso è, invece, il modo in cui specie e genere differiscono: l'individuazione, in quanto segnatura della specie, è un accadere estrinseco all'essenza, la specificazione, invece, in quanto divisione del genere o identità ed emergenza della specie o differenza, è un processo essenziale:

L'essenza del genere e l'essenza della specie differiscono per il fatto che l'una non è designata e l'altra lo è, benché la natura della designazione sia diversa nei due casi: infatti la designazione dell'individuo nei confronti della specie avviene mediante la materia designata dalle dimensioni, mentre la designazione della specie nei

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confronti del genere avviene mediante la differenza specifica, la quale viene desunta dalla forma di una realtà. (De ente et essentia III,1)

Che cosa sia, in particolare, la segnatura individuale, ciò che fa di un individuo di una determinata specie questo individuo (hic homo), S.Tommaso ce lo dice nella Summa teologica (III, q.77): è la sua situazione nello spazio e nel tempo, l'hic et nunc in cui la specie si dà. Questa soluzione varrà per la maggior parte dei filosofi, come ad esempio per Schopenhauer, il quale, considerando la volontà come la sostanza unica e comune di tutti gli esseri, vide il principio di individuazione nello spazio e nel tempo:

... chiamerò d'ora in poi lo spazio ed il tempo principium individuationis. Infatti soltanto in virtù dello spazio e del tempo ciò che è simile ed uno nell'essenza e nel concetto ci appare come diverso e come multiplo, sia nella coesistenza spaziale, sia nella successione temporale. ... (la volontà) è una: ma non alla maniera dell'oggetto, la cui unità non risulta che dal contrasto con una pluralità possibile; né a guisa di un concetto, che è unico solo perché astratto dalla pluralità; è invece una perché fuori del tempo, fuori dello spazio, fuori del principium individuationis, cioè fuori di ogni possibile molteplicità. (Die Welt als Wille und Vorstellung § 23)

Abbiamo qui due tipi di unità l'unità numerica, sempre data in rapporto ad una molteplicità, cioè l'unità ontica, quella dell'oggetto in

rapporto alla percezione e quella del concetto in rapporto all'intelletto l'unità non numerica, unità formale o virtuale, che non si dà in rapporto ad una pluralità, ma il cui essere

consiste, propriamente, nel darsi come pluralità di fenomeni (il mondo della rappresentazione)

È lo spazio ed il tempo che individuano la volontà, rendendola molteplice e differenziata.

La soluzione scotista

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Di gran lunga più interessante è la soluzione scotista a questo problema. Duns Scoto parte da una concezione ontologica del tutto diversa, quella dell'univocità dell'essere, ed elabora una radicale critica al modo tradizionale secondo il quale il problema dell'individuazione è stato impostato. Vedere l'individuazione nella materia, nella quantità, nella forma, nello spazio-tempo, nell'esistenza e così via è un errore perché sempre si guarda l'individuo e si cerca in esso ciò che lo rende tale, più precisamente si cerca che cosa faccia di un individuo un individuo. Ma il principio di individuazione non può consistere in una cosa, esso non è una res che si aggiunge ad una res communis. Non c'è un ente universale, una quidditas, che, grazie all'aggiunta di una qualche determinazione, diventi un ente particolare. L'individualità, invece, è l'ultima realtà dell'ente (actualitas ultissima formae), che determina e contrae la natura comune all'individualità, ad esse hanc rem. Quest'ultima realtà è la perfezione della cosa e riguarda l'ente individuale nella sua totalità e non in qualche aspetto particolare. Due sono i concetti che dobbiamo chiarire per comprendere la soluzione scotista a questo problema

che cos'è la natura communis e in che cosa si differenzia dall'universale aristotelico; qual è il senso del contrarsi della natura nell'haecceitas .

La natura communis

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La natura di Scoto è ciò che precede tanto l'universale, quanto l'individuale. Essa, pertanto, non va confusa né con un ente particolare, per quanto perfetto questo sia, né con la molteplicità degli enti (l'essere nella sua totalità) né con un universale nel senso del concetto. Un esempio può chiarire tale nozione: l'umanità, in quanto natura, non si confonde né con un determinato uomo, né con l'insieme degli uomini, perché un insieme non è una natura, ma una collezione di elementi, né con il concetto di uomo, tanto che essa non è predicabile come un universale si predica di un singolare (posso dire Giovanni è un uomo, non Giovanni è umanità).

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Una natura non è 'una' nel senso dell'unità numerica, né 'multipla' nel senso di una molteplicità contrapposta a questa unità; essa non è né universale in atto (nel senso in cui è universale una cosa in quanto oggetto dell'intelletto) né è di per sé particolare. (Op.Ox. II 3, "31")

Il fatto che la natura non sia né individuale, né molteplice, né universale, non sia quindi in nessuno dei modi in cui qualsivoglia ente è, la rende affatto diversa da ogni ente, cioè da alcunché di sussistente, senza che per questo essa sia un mero nulla. Una natura, pur essendo ni-ente, è reale. La sua realtà è sempre in rapporto ad un determinato individuo, o ad una molteplicità di individui o al concetto stesso di un ente, senza tuttavia confondersi con tali enti. Essa precede tutte queste determinazioni ma non esiste separatamente da esse. Se la differenza fra natura e individuo può sembrare chiara, più sfumata appare, invece, quella fra natura e concetto o universale. Possiamo schematicamente dire, a tale proposito, che per Scoto

l'individuale è ciò che è tale da non potersi trovare che nell'ente presso il quale si trova la natura è ciò che è tale da potersi trovare anche presso un altro ente oltre che l'ente presso cui si trova

(l'umanità si trova presso Giovanni e presso Maria) l'universale, invece, è ciò che può essere predicato tanto di un ente quanto di un altro (uomo lo posso dire tanto

di Giovanni quanto di Maria), ma che non può trovarsi presso nessun ente, dato che è presente solo nell'intelletto.

Mentre per Aristotele l'universale è in re et de re (ecco l'inscrizione della differenza in un'identità presupposta, cioè l'inscrizione della specie nel genere), per Scoto, invece, la natura è in re, l'universale è solo de re. Noi non seguiremo tutte le critiche, peraltro interessantissime, che Scoto rivolge alle soluzioni tradizionali del problema dell'individuazione, consistenti nel negare che l'individuazione sia la differenza in quanto determinazione negativa, o l'esistenza, o la qualità, o la quantità, o lo spazio, o la materia e così via. Nessuna determinazione quidditativa può contrarre una natura communis ad esse hanc rem: né la natura communis è una res (essa non è nulla al di fuori di un ente determinato, individuale o universale che sia) né tantomeno lo è il principio di individuazione di tale natura, perché l'individuazione non è affatto il risultato di un'azione effettuata da un agente esterno all'ente individuato né è un qualcosa di determinato che si aggiunge ad un ente per renderlo questo ente. Per Scoto nessuna res è in grado di individuare un'altra res. Siamo ad un punto decisivo per la comprensione del problema. L'essere univoco è lo stesso che si dà come umanità o come cavallinità (due naturae communes in cui l'essere univoco si differenzia, ma dalle quali non è diviso, perché ogni natura è coestensiva all'essere, un po' come gli attributi di Spinoza); ora ogni natura, in sé, è ciò che è senza esigere né la singolarità né l'universalità, cioè l'umanità è ciò che è, nella sua essenza, indipendentemente dal fatto che ci sia un solo uomo o molti uomini. Questo in termini scotisti si dice affermando che alla natura non ripugna né l'unità né la molteplicità o che la natura communis è indifferente all'uno e ai molti. Tuttavia una cosa o un ente, per essere, non può esimersi dall'essere un individuale o esistente, o un universale o pensabile, sicché la non ripugnanza della natura communis ad essere qualcosa di individuale o di universale non è indifferenza nel senso di estraneità ma apertura e virtualità, ha cioè il carattere proprio dell'indeterminato determinantesi. Se l'individuazione fosse la produzione di un composto formato dalla sostanza più gli accidenti, l'individuo non sarebbe un ente dotato di valore ontologico autonomo, perché ciò che lo caratterizza e lo distingue dagli altri individui sono gli accidenti, determinazioni il cui essere è derivato. Intendo dire che l'individualità non coinvolgerebbe l'ente in oggetto nella sua totalità ma toccherebbe solo la sua parte più transeunte, caduca, inessenziale, sarebbe una determinazione negativa e limitante, un impoverimento della natura. Per Scoto, invece, l'individuazione è una contrazione della natura communis, cioè l'attualizzazione di una virtualità.

L'haecceitas

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L'haecceitas esibisce la natura communis nella sua perfezione attuale: natura communis + haecceitas non formano una composizione reale, come sostanza + accidenti o materia + forma, perché l'haecceitas non si aggiunge alla natura communis come un quid , ma la perfeziona in ordine all'esse: questo significa che tutto, in un individuo, è individuato, nello stesso senso in cui in Spinoza il modo secondo il quale un attributo si dà attinge l'essenza dell'attributo nella sua totalità. Con linguaggio aristotelico Scoto mostra come la sua concezione sia distante da quella del filosofo greco sia in rapporto alla differenza individuale che in rapporto alla differenza specifica, fra le quali egli traccia un parallelismo. Nel suo applicarsi al genere, la differenza specifica può essere intesa in un duplice senso

la differenza specifica, o l'essenza dalla quale essa si trae, aggiunge al genere una res: ad esempio, la razionalità aggiunge all'animalità una essenza che non vi è contenuta, di modo che la specie uomo, pur avendo una sua unità, è composta di parti realmente distinte (che la razionalità, in quanto differenza specifica, sia qualcosa è un assunto fondamentale della metafisica aristotelica, per obbedire al quale il filosofo greco nega che l'essere sia un genere);

la differenza specifica non è un'altra cosa rispetto a ciò a cui essa si applica, ma solo un'altra formalità della stessa cosa, è ciò per cui il genere è nella sua totalità specificato. Ora la differenza individuale è una contrazione ultima della forma in questo secondo senso.

Possiamo vedere una versione moderna di tale concetto della differenza specifica nella concezione dell'uomo di Arnold Gehlen: il pensatore tedesco, fra i fondatori della teoria sistemica della società, partendo dalla classica definizione di uomo come animale razionale rifiuta di vedere la differenza fra l'animale uomo e l'animale di un'altra specie concentrata in quella determinazione specifica che è la razionalità. Se così fosse, infatti, l'uomo sarebbe un capitolo, forse l'ultimo, della zoologia per ciò che riguarda il suo essere organismo vivente, e godrebbe, all'interno del genere animale, di una sua specificità per il possesso di un qualcosa che manca agli altri animali, appunto la razionalità. Se si accoglie questo punto di vista, scrive Gehlen, sfuma una possibilità essenziale:

quella che la differenza dall'animale possa consistere, nel caso dell'uomo, in una legge strutturale che lo coinvolge interamente, e che perciò lo 'stile' o la forma in cui avvengono i movimenti, le azioni, le estrinsecazioni fonetiche, gli atti dell'intelligenza, le esperienze pulsionali possano essere per principio altri. ... (Si tratta di) dimostrare un'unità della legge strutturale che domina tutte le funzioni umane, da quelle corporee a quelle spirituali. (L'uomo, 49)

Ecco un modo radicale di concepire la differenza: non come una cosa che una specie possiede ed un'altra no, ma come una diversa organizzazione , un diverso progetto, della stessa cosa, per cui anche le funzioni animali, quelle che l'uomo dovrebbe avere in comune con l'animale, sono specificamente umane, cioè in sé differenti. Scoto, naturalmente, non parla di legge strutturale, ma che altro significa attribuire la differenziazione specifica non a qualcosa, ma ad una formalità che coinvolge il genere in tutti i suoi aspetti? Ora, come la specie contrae il genere, così l'individuo contrae la specie, però con una differenza importante: mentre la differenza specifica è una forma (il darsi dell'essere in una natura), è una differenza virtuale dell'essere univoco, la differenza individuale, invece, è l'attualità ultima di una forma, è cioè il modo in cui la specie esiste, si presenta. L'individuazione, pertanto, è l'attualizzarsi della natura communis, il modo intrinseco di un attributo, nel senso spinoziano, ed è opera, secondo Deleuze dell'intensità. Senza ridurre ed appiattire posizioni filosofiche per molti aspetti diversissime su un'unica prospettiva, appare tuttavia un'essenziale prossimità fra questi filosofi riguardo all'impostazione ontologica e, in particolare, riguardo all'individuazione, che dell'ontologia rappresenta il problema per eccellenza. Possiamo fornire uno schema indicativo e da prendere in modo puramente analogico:

Scoto Ens Natura Haecceitas

Spinoza Sostanza Attributo Modo

Deleuze (Essere) Differenza Ripetizione

L'haecceitas è l'ultima attualità della natura, cioè della differenza che l'essere propriamente è, nello stesso senso in cui il modo spinoziano è un'affezione della sostanza, cioè dell'essere

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stesso, differente nell'attributo, e la ripetizione di Deleuze è una variazione intensiva della differenza, in cui si esprime l'Essere come Eterno ritorno. Non c'è natura fuori dall'haecceitas, né attributo fuori dal modo, né differenza fuori dalla ripetizione, perché l'essere consiste nel venire alla presenza (= individuarsi o attualizzarsi) della differenza (virtualità).

Individuazione e differenza

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L'essere, allora, non è tanto la virtualità contrapposta all'attualità, quanto il potere di ripetere la differenza, la capacità di attualizzarsi della natura, la forza di variare (differire) mantenendosi (ripetendosi) e di mantenersi (ripetersi) variando (differendo). C'è una bellissima pagina di Sartre che mostra come l'essere altro non sia che individuazione e come quest’ultima altro non sia che venire alla presenza della differenza. E, ancora, come tutto ciò altro non significhi che la negazione di ogni sostanzialità dell'essere, tutto risolto nella differenza che viene alla presenza.

La qualità non è altro che l'essere del questo considerato al di fuori di ogni relazione esterna con il mondo o con altri questi. ... Il giallo del limone non è un modo soggettivo di conoscere il limone: è il limone. E non è affatto vero che l'x-oggetto appaia come la forma vuota che tiene assieme delle qualità disparate. Infatti il limone si svolge per intero attraverso ciascuna delle sue qualità, e ciascuna delle sue qualità si dilata tutta attraverso ciascuna delle altre. È l'acidità del limone che è gialla, è il giallo del limone che è acido; si mangia il colore di un dolce, ed il suo sapore è lo strumento che ne svela la forma e il colore a ciò che possiamo chiamare l'intuizione alimentare; inversamente, se tuffo un dito in un vaso di marmellata, il freddo appiccicoso di quella marmellata è per le mie dita la manifestazione del suo sapore zuccherino. ... Ogni qualità dell'essere è tutto l'essere; è la presenza della sua assoluta contingenza, è la sua indifferenza irriducibile; la percezione della qualità non aggiunge niente all'essere, tranne il fatto che c'è dell'essere come questo. In questo senso la qualità non è affatto un aspetto esteriore dell'essere: perché l'essere non avendo dei 'di dentro' non può neanche avere dei 'di fuori'. Semplicemente, perché vi sia qualità, bisogna che vi sia dell'essere per un nulla che per sua natura non sia l'essere. L'essere invero non è in sé qualità, benché non sia niente di più né di meno. Ma la qualità è l'essere tutto intero che si manifesta nei limiti del vi è . (L'essere e il nulla, 243/4)

Non c'è che l'individuale (tutto ciò che esiste esiste come individuo, cioè come il differenziato della differenza) e l'individuazione è l'actualitas ultissima formae, l'effettuazione della forma, il farsi sensibile della struttura ideale. È l'individuazione che produce la specificazione o, il che è lo stesso, ogni differenza è preindividuale: l'individuazione è il processo che produce la differenza, che poi l'individuo esibisce. Ora, se è vero che l'essere che esiste è l'individuale e che esistere è essere nello spazio e nel tempo come qualcosa di determinato, sembra che siamo tornati al punto di partenza, sembra che l'individuazione, cioè, sia opera della situazione spazio-temporale. L'individuato, tuttavia, non è l'individuazione. Perché la forma o natura, l'attributo, l'Idea in quanto struttura differenziale devono attualizzarsi ed esistere nell'esteriorità spazio-temporale? E, soprattutto, qual è il fattore individuante, ciò che porta all'apparire, e quindi all'essere, la differenza (differenza che l'individuazione produce e che l'individuo incarna)? Se l'Essere è differenza, se l'essere, cioè, è sempre una forma d'essere, solo il differenziarsi della differenza, cioè il darsi della differenza in quanto tale, è individuante e differenziante. L'individuazione, in quanto portare la differenza all'apparire, in quanto produzione della differenza, è differenziazione della differenza: la differenza, per apparire tale, non può che differenziarsi, la differenza, che è variazione, appare solo nella varietà. Secondo Deleuze, l'essere proprio del sensibile è l'intensità, appunto differenza della differenza. Prendiamo, ad esempio, una qualità, il bianco. Il bianco in sé, differenza in sé, è virtualità e, come tale, è prodotta dal variare delle intensità o dai modi in cui il bianco si dà: il determinato bianco che appare è un'esplicazione, un'attualizzazione, un effetto del differenziale di intensità che produce la differenza, appunto il bianco. Come scrive Deleuze:

Che cosa determina i rapporti coesistenti nell'Idea a differenziarsi in qualità ed estesi? La risposta è data appunto dalle qualità intensive, poiché l'intensità è l'elemento determinante nel processo di attualizzazione, l'intensità ... determina un rapporto differenziale, 'indistinto' nell'Idea, a incarnarsi in una qualità separata e in un esteso distinto. ... Il processo essenziale delle quantità intensive è l'individuazione. L'intensità è individuante, le quantità intensive sono fattori individuanti. (DR, 317)

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Questa impostazione rovescia radicalmente la visione metafisica che vede nell'individuazione il particolarizzarsi di un qualcosa di generale e nell'individuo la species infima, nel senso del sommamente determinato. In questa concezione la specie precede necessariamente l'individuo, la differenza precede il farsi della differenza. Anche Aristotele riconosce una differenza fra individuazione e differenziazione o specificazione, ma è proprio la presupposizione che la differenza sia, che rende l'individuazione un evento secondario, un processo non differenziante ma particolarizzante: l'individuo è premesso nella specie, il suo apparire è indifferente, perché la vera differenza gli preesiste, una differenza che è sostanza (inscritta nell'identità del genere) e non evento, accadere. L'haecceitas scotista, invece, in quanto actualitas formae è ciò che fa la differenza, che in sé non è, che è ni-ente, sicché è proprio l'individuazione l'evento differente: è l'individuazione che provoca la differenza e la esibisce nell'esteriorità delle relazioni spazio-temporali fra termini, qualità e parti, che la consegna, cioè, all'individuo. Mentre in Aristotele l'individuo è un primum ontico (sostanza individuale in quanto species infima e sommamente determinata) in Scoto l'haecceitas è un primum ontologico, non sostanza, ma attualità, non il sommamente determinato, ma il sommamente determinante.

In quanto ci sono individui di specie differente e individui della stessa specie, si tende a credere che l'individuazione prolunghi la specificazione, anche se di altra natura e prodotta da altri mezzi. Ma in realtà ogni confusione tra i due processi, ogni riduzione dell'individuazione ad un limite o a una complicazione della differenziazione, compromette nel suo insieme la filosofia della differenza; in questo caso si commette nell'attuale un errore analogo a quello per cui si confondeva il virtuale con il possibile. L'individuazione non presuppone alcuna differenziazione ma la provoca. ... Tutte le differenze sono portate dall'individuo, ma non pertanto sono individuali. (DR, 319)

L'individuazione, quindi, precede di diritto la differenziazione perché essa consiste propriamente nel differenziare la differenza, essa è variazione che produce la varietà in un identico processo ontologico. Concludo con un'immagine che può, sotto un determinato aspetto, "illustrare" il problema ontologico del nesso individuazione-differenziazione, ricordando, comunque, che nessuna immagine, dato il suo carattere analitico e spaziale, è capace di rendere la natura propria di tale problema, accessibile solo all'intuizione, nel senso bergsoniano del termine, o a quell'esperienza di pensiero costituita dall'heideggeriano passo-indietro (Zurück-Schritt) rispetto al pensiero rappresentativo. Per quanto inadeguata, tuttavia, l'immagine è metafisicamente più pregnante di un concetto, perché il concetto tende a nascondere la differenza ontologica fra essere ed ente, mentre l'immagine, in un certo senso, la rivela. Come scrive Bergson nel suo aureo libretto Introduzione alla metafisica, nessuna immagine può esaurire la ricchezza dell'intuizione metafisica, tuttavia una molteplicità di immagini, per loro natura differenti dalla cosa stessa, non pretendono di ricostituire la cosa sommandosi come tanti elementi di essa, ma hanno il potere di far convergere l'attenzione verso la cosa.

...l'immagine ha almeno questo vantaggio, di tenerci nel concreto. Non v'è immagine che sostituisca l'intuizione della durata: ma molte immagini diverse, tratte da ordini di cose molto differenti, potranno, con il convergere della loro azione, dirigere la coscienza sul punto preciso ove c'è una certa intuizione da cogliere. Scegliendo immagini quanto più possibile disparate, si eviterà che una qualsiasi di esse usurpi il posto dell'intuizione che è incaricata di richiamare, perché subito essa ne sarebbe cacciata dalle sue rivali. ... Al contrario, l'inconveniente dei concetti troppo semplici, in questa materia, è d'essere veramente simboli che si sostituiscono all'oggetto simbolizzato, e non richiedono da noi alcuno sforzo. ... Noi ci persuadiamo facilmente che, ponendo concetti accanto a concetti, finiremo col ricomporre la totalità dell'oggetto con le sue parti. (IM, 51-2)

Prendiamo una delle immagini con le quali Bergson tenta di rappresentarsi la durata: avremmo a che fare con un'intuizione che si spazializza. Di essa ci interesserà sia lo stato complicato dell'intuizione, sia la linea differenziale del suo "sviluppo" (direzione di attualizzazione, mera virtualità) sia, infine, la linea differenziata che appare nello spazio e nel tempo (attualizzazione della virtualità differenziale). Bene, l'individuazione non è né il differenziarsi dell'intuizione (la direzione lungo la quale la durata si esprime) né l'intuizione differenziata (la linea, l'elemento spazio-temporale, che incarna la differenza, l'individuo che porta all'essere la differenza che gli preesiste), ma il differenziarsi della differenza, l'attualizzarsi della virtualità, l'atto con il quale la differenza (meramente virtuale) è pro-dotta, portata all'essere, resa sensibile e tale atto altro non può essere che il variare della differenza, cioè il suo farsi. Vediamo innanzitutto l'immagine di Bergson:

Immaginiamo un elastico infinitamente piccolo, contratto, supponendo che sia possibile, in un punto matematico. Tiriamolo progressivamente, in modo da far uscire, dal punto, una linea che vada via via allungandosi. Fissiamo quindi la nostra attenzione non sulla linea come tale, ma sull'atto che la traccia. Consideriamo che quest'atto, nonostante la sua durata, è indivisibile, ... non è mai l'azione movente stessa ciò che è divisibile, bensì la linea

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immobile che essa lascia sotto di sé come una traccia nello spazio. Liberiamoci, infine, dello spazio che sottende il movimento, per non tenere conto se non del movimento medesimo, dell'atto di tensione o di distensione, insomma della mobilità pura: avremo, questa volta, un'immagine più fedele del nostro svilupparsi nella durata. (IM, 49-50)

L'univocità dell'essere è "illustrata" dall'elastico contratto in un punto matematico (immagine stupenda della virtualità di ogni virtualità), un ni-ente in sé, il cui essere sta tutto nel distendersi e nell'estendersi.

La differenza è la linea di estrinsecazione o di estensione (immagine stupenda della virtualità di un'attualità), un

ni-ente il cui essere sta nell'attualità che realizza. L’individualità è la linea dell'elastico effettivamente tracciata (immagine stupenda dell'attualità di una

virtualità), un ente che incarna la differenza. L'individuazione è l'atto con il quale la differenza si pro-

duce nell'individuo, la variazione appare nella varietà, è il tracciare una linea lungo una direzione, è il

differenziarsi della differenza, cioè il suo ripetersi.

I.3

IL PROBLEMA dell' IDENTITÀ e della DIFFERENZA IN HEIDEGGER

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Sommario

Il problema di identità e differenza e le critiche di Deleuze a Heidegger Critica al principio di identità: il frammento 3DK di Parmenide

o La distorsione rappresentativa del frammento di Parmenide o Co-appartenenza di essere e pensiero

Identità, differenza, diversità nella Metafisica di Aristotele o La differenza specifica o Il "ripensamento" heideggeriano del problema della differenza

Differenza reale, differenza concettuale e differenza formale

Il problema di identità e differenza e le critiche di Deleuze a Heidegger

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Il pensiero filosofico, nella sua più intima essenza e fin dalle sue più remote origini, risulta definito dalla domanda circa il nesso fra identità e differenza o, il che è lo stesso, dalla domanda circa il nesso fra unità e molteplicità. Questo - scrive Beierwaltes nella Prefazione al suo voluminoso e fondamentale saggio dedicato appunto a Identità e differenza- vale tanto se entrambi i concetti vengono riconosciuti, quanto se si riconosce come vero solo uno di essi: identità e differenza, unità e molteplicità stanno a fondamento di ogni filosofare, a cominciare da quello di Parmenide, che riconosceva vera e legittima solo l'identità e negava ogni consistenza ontologica al differente, per continuare con quello di Platone, che proprio a partire dal rifiuto critico dell'eleatismo riconosce al non essere (in quanto differente) legittimità ontologica, fino a quello degli empiristi che fanno dell'identità un prodotto a partire da una molteplicità irrelata di elementi. Anche la filosofia di Heidegger, nel suo complesso, come ogni autentica filosofia, verte attorno a tale tema. Ogni suo testo può servire per riflettere su identità e differenza. Tuttavia, nel 1957 Heidegger raccoglie in un unico saggio, che intitola, appunto, Identità e differenza, due lavori di diversa origine, l'uno è il testo di una conferenza tenuta all'Università di Friburgo e dedicata a Il principio di identità, l'altro è il lavoro conclusivo di un seminario universitario dedicato alla Scienza della logica di Hegel ed il suo titolo è La costituzione onto-teologica della metafisica. Il saggio si colloca in un luogo centrale della filosofia di Heidegger, laddove il filosofo riafferma con forza l'Überwindung della metafisica , in quanto pensiero caratterizzato dall'oblio della differenza ontologica. È nota la lettura heideggeriana della storia della filosofia, il suo tornare al pensiero aurorale dei primi filosofi, in particolare di Anassimandro, Parmenide ed Eraclito - filosofi che rifiuta di chiamare presocratici perché, dice, sarebbe come considerare Kant un prehegeliano - il suo individuare in Platone l'artefice di quella "svolta metafisica" della filosofia, che avrà la massima espressione in Hegel per compiersi, infine, nel senso di perfezionarsi e finire, con Nietzsche, l'ultimo dei pensatori metafisici. Nelle pagine finali di Differenza e ripetizione Deleuze, affrontando il tema dell'Eterno ritorno in Nietzsche, rivolge, en passant, una critica al modo in cui Heidegger ha impostato il problema della filosofia della differenza, dal momento che egli non avrebbe saputo, malgrado le sue intenzioni "decostruttive" nei confronti della metafisica, sottrarsi al vizio capitale della filosofia occidentale: il privilegio accordato alla rappresentazione. (DR, 383-384) La filosofia della differenza di Heidegger sembra mal fondata a Deleuze perché il filosofo tedesco si limiterebbe a contrapporre, in senso meramente terminologico, la piattezza dell'Identico (das Gleiche), come uguale a sé, alla profondità dello Stesso (das Selbe ), capace di raccogliere in sé il Differente. Heidegger metterebbe in discussione non tanto l'identità, quanto un modo di intendere l'identità, quello, cioé, di ridurre il Medesimo all'Uguale. Ciò avrebbe portato alla non comprensione della costituzione differenziale intrinseca dell'identità. Ma, secondo Deleuze, tanto l'Identico, incapace di comprendere la differenza, quanto lo Stesso, che invece la accoglie in sé, restano pur sempre principi della rappresentazione. Alle pagine 89/91 dello stesso testo, Deleuze dedica a Heidegger una lunga ed importante nota nella quale riassume in cinque tesi la posizione del filosofo tedesco sul tema della differenza, in particolare riguardo all'irriducibilità del concetto di differenza a quello di negazione. Vediamo tali tesi:

1. La differenza ontologica - scrive Heidegger in L'essenza del fondamento - è il "non" tra ente ed essere. Tale "non" va, dunque, interpretato in senso differenziale, non in senso negativo: questo contro la lettura sartriana nell'Essere e il nulla ed in sintonia maggiore con le posizioni di Merleau-Ponty espresse nella Fenomenologia della percezione e, soprattutto, ne Il visibile e l'invisibile.

2. Tale differenza fra essere ed ente non è il "tra" nel senso comune del termine, ma la Piega, (Zwiefalt), costitutiva dell'essere e della maniera con cui l'essere costituisce l'essente, nel doppio movimento dell'apertura e del velamento.

3. La differenza ontologica corrisponde alla domanda, ed è l'essere della domanda che si sviluppa in problemi. 4. Così intesa, la differenza non è oggetto di rappresentazione, perché la rappresentazione subordina la differenza

all'identità e pertanto non è in grado di pensare né la differenza in sé, né l'importanza del differenziante (il "gesto", il movimento che separa essere ed ente). La differenza non tollera né sintesi né riconciliazione, ma si esplica come ostinazione nella differenziazione.

5. Se la differenza non si lascia subordinare all'Identico o all'Uguale, essa, tuttavia, deve essere pensata nello Stesso e come lo Stesso.

Da un lato, Heidegger non penserebbe la differenza in sé, ma, subordinandola all'identità, rimarrebbe entro l'ambito concettuale del pensiero metafisico, dall'altro, avrebbe, ciononostante, colto un punto essenziale di tale tematica nella

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sua distinzione fra differenza e negazione, nel suo rifiuto di considerare la contraddizione, in quanto differenza massima (secondo quanto scrive Aristotele nel decimo libro della Metafisica) come l'archetipo di ogni differenza.

Critica al principio di identità: il frammento 3DK di Parmenide

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Il saggio di Heidegger si apre con una critica al principio di identità, così come è inteso dalla logica, principio che di solito si enuncia come A = A. Ma l'uguaglianza tradisce l'essenza dell'identità, poiché l'uguaglianza richiede due termini, ponendo essa come uguali, sotto un determinato aspetto, due cose che, in quanto due, sono distinte, differenti. L'uguaglianza, pertanto, non dice che una cosa è, in quanto tale, se stessa e identica a sé, ma che essa è, sotto un certo riguardo, uguale ad un'altra. L'identità, invece, esige un solo termine, giacché afferma che A è A, senza intendere, tuttavia tale essere se stessa di una cosa alla stregua di una vuota tautologia, di un semplice ed uniforme esser-sé della cosa, di un esser-sé privo di relazioni intrinseche. L'identità, scrive Heidegger, ha un'essenza sintetica, essa è un rapporto, non relazione fra due enti sussistenti (tra i quali sussiste una differenza reale) ma un rapporto di sé a sé, di sé con sé. L'identità di un ente è tale in quanto e solo se alberga in sé una differenza dell'ente di sé con sé, una differenza che è un rapporto del tutto diverso da quello che si può stabilire fra enti sussistenti ma anche da quello che si può stabilire fra concetti. Per esprimerci con una terminologia propria della filosofia medievale, in particolare di Duns Scoto, l'identità è un rapporto di sé con sé, irriducibile tanto alla distinctio realis quanto alla distinctio rationis, tra i termini reciprocamente rapportantisi, un rapporto, chiamato da Heidegger Zusammengehörigkeit , che forse si avvicina, se addirittura non coincide, con il concetto di differenza formale di Duns Scoto. Per un'adeguata formulazione del principio di identità e del concetto di Zusammengehörigkeit, Heidegger ricorre al frammento 3DK di Parmenide "tò gàr autò noeîn estìn te kaì eînai", lo stesso è pensare ed essere.

La distorsione rappresentativa del frammento di Parmenide

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Ciò che è detto in questa sentenza determina tutta la riflessione dell'Occidente, perché la storia di questa riflessione è la storia di una traduzione/tradimento del significato essenziale della sentenza stessa. L'identità di pensiero ed essere è intesa come paradossale uguaglianza di pensiero ed essere e la sentenza viene riformulata modernamente dalla tesi di Berkeley "esse est percipi", cioè " essere è essere percepito", tesi che afferma in sostanza che l'essere è in forza della rappresentazione, ponendo, con questo l'uguaglianza di essere e pensiero, secondo l'impostazione fondamentale della filosofia moderna così come si è venuta imponendo a partire dall'ego cogito cartesiano. Che cosa si intende per pensiero rappresentativo e perché esso tradirebbe l'essenza dell'identità e, con questo, anche l'essenza della differenza, non più pensata in sé, ma in quanto differenza interna all'identità (o differenza specifica)? Sinteticamente, si può dire che è quella linea di pensiero che, da Platone a Hegel, subordina il molteplice all'uno, che nega tout court la realtà del molteplice, a meno che esso non si raccolga nell'identità del concetto.Per Deleuze la rappresentazione è il luogo della illusione trascendentale su cui si è edificata la storia del lungo errore del pensiero occidentale e della sua immagine dogmatica. Un pensiero caratterizzato dalla pretesa di porre il fondamento, cioè quell'operazione del lógos o della ragion sufficiente che consiste nel determinare, cioè nel porre il Medesimo o l'Identico quale criterio con cui misurare la pretesa alla verità e al valore di ogni realtà. Per usare ancora le parole di Deleuze, il fondamento è, a cominciare da Platone, essenza ideale ed il fondato è pretendente o pretesa di partecipare alla qualità del fondamento. Il fondamento ha così funzione selezionatrice, ha il compito di fare la differenza fra i pretendenti: ogni immagine o pretesa ben fondata si chiama rappresentazione o copia o icona; le immagini ribelli, invece, cioè le immagini senza somiglianza, i simulacri, sono eliminate. È un'intenzione etica a guidare il progetto metafisico, sostiene Deleuze; è un'operazione di

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valorizzazione, la riduzione dell'essere al valore, scrive Heidegger nell'Introduzione alla metafisica. Il pathos del fondamento domina le operazioni di una soggettività manipolatoria che vuole dominare il mondo (gli oggetti) negandone l'alterità per ridurlo a sé.

Co-appartenenza di essere e pensiero

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In Identità e differenza, dietro la co-appartenenza di essere e pensiero si legge la co-appartenenza di essere e uomo, l'identità /differenza di essere e uomo, che assume nella nostra epoca (l'epoca della tecnica, forma compiuta della metafisica) l'aspetto inquietante e nello stesso tempo salvifico del Ge-stell, dove balena l'Ereignis, una delle parole guida della filosofia di Heidegger, l'evento in quanto transpropriazione reciproca di essere e uomo. Ereignis dice lo stesso di Zusammengehörigkeit ed entrambe le parole dicono lo stesso del termine greco tò autó, che apre la sentenza di Parmenide. Essere e pensiero, i differenti, sono tali in quanto essi si predicano dello stesso. Ciò che si dice dell'identità, di tò autó, è la differenza fra essere e pensare, ciò che si dice dell'ente in quanto ente (dell'essere-identico dell'ente, dell'esser-sé dell'ente) è la differenza di essere ed ente. La differenza ontologica è ciò che propriamente si dice dell'ente in quanto tale. Il termine enigmatico, scrive Heidegger, il concetto da pensare, è proprio quello dell'identità, il suo essere co-appartenenza, rapporto fra "qualcosa" e "qualcosa" distinti non concettualmente (e pertanto effettivamente distinti) eppure non distinti realmente (e pertanto numericamente uno). È questo il nodo da sciogliere se vogliamo sapere cos'è l'identità, ma sarebbe meglio dire se vogliamo esperire l'identità, perché l'accesso a tale ambito è in primo luogo un'esperienza, un'esperienza di abbandono ( Gelassenheit) che equivale ad un passo indietro e ad un salto fuori, un ritrarsi dalla tradizione metafisica ed un uscire dall'atteggiamento del pensiero rappresentativo.

Identità, differenza, diversità nella Metafisica di Aristotele

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Vediamo innanzitutto la Metafisica di Aristotele e, precisamente, i libri V e X, due libri che sono dei veri e propri precursori dei dizionari filosofici, perché in essi Aristotele definisce numerosi concetti di metafisica. Tra questi, appunto, i concetti di identico, diverso differente, simile, opposto, contrario, uno, ecc..(p. 217 e seg. / p. 449 e seg.)

L'identità è "l' unità d'essere o di una molteplicità di cose, oppure di una sola cosa, considerata però come una molteplicità: per esempio quando si dice che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso viene considerata appunto come due cose".

L'identità riguarda l'unità del molteplice. Tale concetto non si applica all'uno in quanto tale e nemmeno al molteplice per sé preso, ma stabilisce una relazione fra unità e molteplicità e precisamente comprende il molteplice come unitario. Come scrive Heidegger, l'identità di cui parla Aristotele è molto diversa da quella di cui parla Parmenide. Identità è, in Aristotele, identificazione, cioè è l'atto con cui l'uno identifica il molteplice e lo riporta a sé.

Diverse o altre si dicono le cose nei sensi opposti a quelli per cui si dicono identiche.

La diversità o alterità, dunque, è ciò che propriamente si oppone all'identità, privazione di identità, assenza di identità, ciò che con l'identità non ha relazione alcuna, se non quella di negazione. L'altro, così inteso è il non dell'identità, il suo opposto speculare. Diverso, altro, è il molteplice nella sua dispersione, il molteplice preso per sé senza riguardo all'identità.

Differenti si dicono, invece, quelle cose che sono, sì, diverse, ma hanno fra loro qualche identità, identità per specie, per genere o per analogia.

La differenza, pertanto, non può presentarsi senza l'identità, sotto qualche aspetto. La differenza intrattiene con l'identità una relazione fondamentale: solo se due cose sono per qualche aspetto identiche possono tra loro differire. La differenza, allora, è una determinazione della diversità o dell'alterità e, nel contempo, una determinazione dell'identità.

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È in forza dell'identità che due cose possono differire, ma è anche, simmetricamente, in forza della differenza che due cose possono affermare la loro identità. In Aristotele identità e differenza sono connesse, entrambe riguardano la relazione dell'uno con il molteplice, solo che, mentre l'identità assume il punto di vista dell'uno, la differenza assume il punto di vista del molteplice. (Metafisica V,8, 1017b 24 - 9, 1017b,31). In Metafisica X,2,1054a 11 - 3,1055a2, Aristotele riprende tali concetti inserendoli all'interno della trattazione dedicata al rapporto tra l'uno ed il molteplice. Scrive Aristotele:

All'uno appartengono l'identico, il simile e l'uguale; al molteplice appartengono, invece, il diverso il dissimile e il disuguale.

Ciò che manca in questo elenco è proprio il differente, ma non perché Aristotele se ne sia dimenticato, ma perché ad esso riserva un rilievo del tutto particolare, definendolo come determinazione dell'identità e della diversità nello stesso tempo. Si legge, infatti, subito sotto:

La differenza e la diversità non sono la medesima cosa. Infatti, ciò che è diverso e ciò da cui esso è diverso non sono necessariamente diversi per qualcosa di determinato, perché basta che ciascuna cosa esista perché sia identica o diversa. Invece ciò che è differente è differente da qualcosa per qualcosa di determinato, di guisa che deve esserci qualcosa di identico per cui differiscono. E questo qualcosa di identico è - continua Aristotele - o il genere o la specie.

Alcune righe più avanti, poi, Aristotele determina il grado della differenza e stabilisce che la differenza massima e perfetta è la contrarietà:

Poiché le cose che differiscono fra loro possono differire in grado maggiore o minore, ci deve essere anche una differenza massima e questa io chiamo contrarietà. E che la contrarietà sia la differenza massima risulta evidente per induzione. Infatti le cose che sono diverse per genere non ammettono fra loro alcun passaggio, ma sono fra loro distantissime e incomparabili. Invece le cose che differiscono per specie si generano dai contrari, presi come estremi. Ora la distanza fra gli estremi, e quindi fra i contrari, è massima.

La differenza specifica

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La contrarietà, dunque, è la differenza perfetta e tale differenza è la differenza specifica. Ciò che è specificamente differente da qualcos'altro deve essere differente da questo in qualcosa che è comune ad ambedue. Questo qualcosa che è comune ad ambedue e che si differenzia nell'uno e nell'altro è il genere. La differenza specifica, perciò, è una differenza nell'ambito dello stesso genere, una differenza che dunque differenzia il genere stesso. Questa differenza specifica, spiega Aristotele, deve essere una contrarietà. Ogni divisione, infatti, si fa per opposti e gli opposti che sono nello stesso genere sono contrari, perché la contrarietà è una differenza perfetta e la differenza specifica è sempre differenza di qualcosa rispetto a qualcosa che è identico fra le due e ambedue abbraccia, cioè allo stesso genere. Questa lettura della differenza come negazione, come negazione determinante, e la relativa riduzione della differenza all'unità e all'uguaglianza del genere come vera realtà sottostante alle differenze (un'uguaglianza che toglie non solo valore, ma ogni stessa legittimità ontologica ad ogni differenza in sé considerata) ha fatto scuola ed ha condizionato tutto il pensiero occidentale. Chi, come Heidegger, si propone di ripensare tale tradizione con il compito di pensare l'impensato di essa, deve riprendere tutti questi concetti, porli a tema della propria filosofia.

Il "ripensamento" heideggeriano del problema della differenza

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L'identità del genere, ma possiamo dire altrettanto bene l'identità del concetto, non rispetta le differenze che ad essa non si sottomettono, ma non rispetta nemmeno l'essenza stessa dell'identità. In ...Poeticamente abita l'uomo... (Saggi e Discorsi, 129) scrive Heidegger:

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Il medesimo non si identifica mai con l'uguale, e neppure con la vuota uniformità del puramente identico. L'Uguale si volge sempre verso il senza-differenze (verso differenze meramente rappresentate) affinché tutto si accordi in esso. Il medesimo, invece, è la reciproca appartenenza del differente a partire dalla riunione operata dalla differenza. Il medesimo si lascia dire solo quando è pensata la differenza. Nel determinarsi del differente viene in luce l'essenza riunente del medesimo. Il medesimo esclude ogni ansia di risolvere il differente sempre solo nell'uguale. Il medesimo unisce il differente in una unione originaria. L'uguale, per contro, disperde nell'insipida unità dell'uno unicamente uniforme.

Se l'essenza dell'identità non è quella uniformante del concetto o del genere, anche la differenza non potrà certo intendersi in termini di negazione. Su questo punto Heidegger ha più volte ribadito la reciproca irriducibilità dei due concetti per evitare anche fraintendimenti a cui la sua stessa filosofia è andata incontro. Nella Premessa alla terza edizione dell'Essenza del fondamento (1949) definisce la differenza ontologica come il "non" fra ente ed essere, definisce il ni-ente come il "non" dell'ente, cioè come l'essere esperito a partire dall'ente. Ma tale "non" non è né il nihil negativum sussistente e realmente distinto dall'ente che sussiste, né un ens rationis, il semplice prodotto di una distinzione dell'intelletto. Il "non" è l'altro dall'ente, è ciò in forza del quale l'ente è: è, appunto, la differenza ontologica fra ente ed essere.

Differenza reale, differenza concettuale e differenza formale

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Ci troviamo continuamente di fronte ad un senso della differenza che non è quello della differenza reale né quello della differenza concettuale, ma quello di una differenza che è co-appartenenza dei termini in gioco, una differenza che determina i differenti non come contrari, ma, appunto, come i differenti: dire, con Heidegger, che l'essere è il ni-ente dell'ente, lo abbiamo visto prima, non significa ridurre l'essere al nulla ontico (essere ed ente sarebbero contrari che trovano la loro uguaglianza nell'appartenere entrambi a ciò che sussiste). La prima opera filosofica di grande rilievo di Heidegger è dedicata ad un filosofo medievale che ha influenzato non solo il filosofo tedesco, ma tutti quei pensatori che hanno, ognuno con accenti diversi, ripensato in senso non metafisico il problema di identità e differenza. Mi riferisco a Duns Scoto (Il testo di Heidegger è La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto ed è, in realtà, il commento alla Grammatica speculativa, testo di uno scotista, Tommaso di Erfurt). Tale filosofo è noto, fra l'altro, per aver sostenuto un concetto di differenza diverso tanto da quella reale, proprio dell'ambiente tomista, quanto da quella concettuale, che troverà massima espressione in ambiente occamista. La differenza di cui parla Scoto è la differenza modale, meglio conosciuta come differenza formale. Nel capitolo secondo de I problemi fondamentali della fenomenologia Heidegger dedica alcune pagine proprio a questi diversi concetti di differenza, affrontando il tema della concezione scolastica della distinctio in generale (PFF 87/91). Tale problema viene alla luce in relazione alla distinzione ed ai rapporti fra essenza ed esistenza nell'ente creato, al modo in cui l'ente creato, che è un mixtum, è nello stesso tempo uno. Ma, al di là del problema specifico, ciò che interessa è cogliere in termini generali cosa siano i tre tipi di differenza. A dire il vero, la grande divisione è fra due tipi di differenza:

1. la distinctio realis, che si ha quando l'un termine distinto stando al suo contenuto essenziale, non si identifica con l'altro, vale a dire è in sé, a prescindere da qualsiasi atto del pensiero. L'unità fra due termini realmente distinti è una compositio di due realtà. Nello specifico problema medievale l'ens creatum è un mixtum fra un'essentia che non ha fra i suoi predicati l'existentia, e, appunto, l'existentia che si aggiunge alla res come un accidens. Pertanto ogni ens, in quanto ens creatum, è un compositum ex esse et quod est e tanto l'esse, quanto il quod est sono res, cioè sono qualcosa di determinato che stanno misteriosamente assieme a formare un'unità. Ma tale compositum non costituisce propriamente un'unità, non la costituisce essenzialmente, ma solo analogicamente. Perché ci sia unità, in base alla distinctio realis, è necessario che il contenuto essenziale sia uno ed indistinto in sé. Nella fattispecie Dio, in cui l'essenza coincide con l'esistenza, è uno in senso proprio e, in quanto tale, è la verità del molteplice, la verità del composto, suo fondamento come causa creatrice e come fine ultimo. In base alla differenza reale, la verità appartiene all'uno e non al molteplice.

2. la distinctio rationis, invece, è quella distinzione con cui l'intelletto si rappresenta non due res diverse, ma un'unica e medesima cosa secondo concetti diversi. Vi è, quindi, un solo termine e non due termini diversi, due res, come nella differenza reale. Pertanto le differenze interne ad una res sono mere rappresentazioni, sono opera dell'intelletto, come ben si può cogliere nella stessa definizione scolastica (Suarez) della differenza

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concettuale, intesa come quella differenza che "mens unam eandemque entitatem diversis conceptibus repraesentat". La distinzione fra essenza ed esistenza sarebbe una distinzione puramente concettuale, una differenza che non appartiene all'ens creatum, ma all'intelletto che lo riguarda, alla facoltà conoscitiva e non alla cosa. Tuttavia la scolastica distingue due aspetti della differenza concettuale:

o una distinctio rationis pura o ratiocinantis, in base alla quale si distingue qualcosa, ma ciò che viene distinto è una sola e medesima res e la differenza riguarda solo il modo in cui la concepisco, è, cioè, una differenza originata e motivata unicamente dal ratiocinari, cioè dall'atto intellettuale del distinguere. Ad esempio la distinzione fra homo e animal rationale: la res è unica, ma in quanto definita homo, è intesa implicitamente, in quanto definita animal rationale, invece, è intesa esplicitamente.

o una distinctio rationis ratiocinata è, invece, una distinctio rationis cum fundamento in re e si ha quando la distinzione non scaturisce unicamente da un atto intellettuale, non è propria, cioè, dell'intelletto raziocinante, ma è motivata dalla cosa stessa nel suo essere colta dall'intelletto, è ratiocinata. Tale distinctio occupa una posizione intermedia tra la distinctio puramente logica e la distinctio realis e, secondo Suarez, coinciderebbe con la distinctio formalis di Scoto. Applicata all' ens creatum, la distinzione formale permette di affermare che l'esistenza appartiene effettivamente all'essenza, non è, cioè, distinguibile da essa solo concettualmente, ma che purtuttavia, non è una res. Usando un'altra formula possiamo dire che vi è differenza formale fra "essenza ed esistenza" quando tra esse non c'è solo una distinzione di ragione, come sarebbe se fossero solo modi diversi di definire e concepire un unico ente, né c'è una distinzione reale, come ci sarebbe se fossero realtà numericamente distinte e separate.

I.4

IL PRINCIPIO DI IDENTITÀTorna alla pagina iniziale

Sommario

Definire un ente. L'identità del diverso L' analogia entis come sinossi del reale L'ontologia come affare della logica Identità di essere e pensare Identità e differenza Identità come uguaglianza e come medesimezza Il principio di identità come legge ontologica Chiarimento del significato di "essere e pensare" La verità come co-appartenza di pensiero ed essere La co-appartenenza di uomo ed essere come reciproca trans-propriazione La costellazione moderna di uomo ed essere La differenza come Austrag

Definire un ente. L'identità del diverso

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Che cos'è un ente? (una penna, ad esempio) Noi vediamo penne diverse l'una dall'altra o, se uguali nella forma, le riconosciamo composte da materiali diversi o, se consideriamo la stessa penna, la vediamo posta di volta in volta in

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luoghi diversi o posta nello stesso luogo ma in momenti diversi. Abbiamo sempre a che fare con una molteplicità di aspetti, eppure la domanda "che cos'è una penna?", cioè la domanda che chiede che cosa sia una penna in quanto tale, la sentiamo come una domanda pienamente legittima. La domanda "che cos'è?" chiede l'essenza di una cosa, la definizione di ciò che una cosa propriamente è. Definire un ente significa ricercare un'unità che si ripete nella molteplicità delle manifestazioni fenomeniche dell'ente in questione, ricercare ciò che permane ed è identico e che, tuttavia, si mostra ogni volta diverso. L'identità sottesa alla diversità è ciò che rende gli enti fra loro comparabili, è l'universale che è nel singolo ente (il genere al quale l'individuo appartiene: Aristotele) o l'universale che è oltre l'ente ma al quale l'ente si riferisce per legittimarsi (l'idea, della quale l'ente empirico è copia: Platone). Il "che cos'è" chiede l'identità del diverso. Non si interroga sulla differenza, ma sull'identità. Non si interroga sulle cose, ma sulla somiglianza delle cose fra di loro, sul fatto che gli enti empirici sono fra loro reciprocamente simili in quanto tutti riferentisi ad un'identità preliminare.

L'analogia entis come sinossi del reale

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L'analogia entis è un'enorme sinossi del reale, guidata dall'intento di ricondurre ad unità ciò che è disperso. Assegnando all'essere un luogo proprio, raccoglie il molteplice e lo dispone in rapporto all'identico, lo fonda, lo salva, lo assicura. Lo salva dal pericolo della mera e dispersa diversità, dal pericolo dell'anonimato (che altro è omonimia ed equivocità se non mancanza di un nome proprio: cose diverse hanno tutte un unico nome, un nome comune e questo equivale a non avere nome affatto), dà alle cose una famiglia. L'analogia dà ordine alla totalità del reale: da un lato, stabilisce il senso proprio dell'essere, quel senso al quale tutti gli enti, in quanto enti, devono poter essere ricondotti, dall'altro, ripartisce il reale entro una rete complessa di generi e specie e fa di tale organizzazione la condizione essenziale per la comprensione del reale stesso. L'analogia, tuttavia, non chiama le cose per nome, ma per cognome, dà alle cose una famiglia alla quale appartenere (un genere a cui appartenere, un concetto in cui comprendersi): che altro è sinonimia ed univocità se non identità generica: la famiglia animale comprende i mammiferi, i pesci, gli uccelli, ecc. Le cose, poi, hanno anche un nome, ma per essere identificate devono essere riportate al loro cognome, alla famiglia a cui appartengono, pena l'omonimia: Tizio, per non essere uno qualunque dei Tizi incontrabili, dev'essere Tizio Tal dei Tali. Equivoca dispersione del reale od univoca uniformità del reale: l'analogia è una mediazione di questi due estremi, né diversità né identità, ma somiglianza.

L'ontologia come affare della logica

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La molteplicità dell'essere è compresa nell'unità del concetto. È la noésis, il puro pensiero ( noûs), il pensare (noeîn) il luogo dove si raccoglie (lógos - léghein) propriamente l'essere (tò ón, tò eînai): l'ontologia è affare della logica. Il noeîn sottrae l'essere alla dóxa, al dokeîn, alla mera apparenza. Il pensiero e solo il pensiero coglie adeguatamente l'essere, perché lo raccoglie nella sua unità (lógos): Veritas est adaequatio intellectus et rei: il dire giustamente, cioè il dire la verità è far sì che essere e pensiero dicano lo stesso, è far sì che il pensiero dica proprio ciò che l'essere è. La filosofia del Settecento, cioè la filosofia moderna, ci ha consegnato una formula efficace di questa identità di essere e pensiero: Berkeley " esse est percipi". Essere ed essere percepito sono lo stesso.

Identità di essere e pensare

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È possibile che la tradizione metafisica che si è instaurata a partire dall'ontologia di Parmenide e contro Parmenide e la sua concezione univoca dell'essere si ritrovi a dire lo stesso del pensatore di Elea? Parmenide, infatti, aveva detto " tò gàr autò noeîn estìn te kaì eînai ", lo stesso è pensare ed essere. Oppure nella sentenza di Parmenide vi è un senso dell'essere che il pensiero filosofico tradizionale ha tradotto (tradito e tramandato)

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in modo improprio? Come va intesa l'identità di essere e pensiero? È necessario, per rispondere a questa domanda, interrogarci sul principio di identità, perché nel modo in cui l'identità è stata intesa (un principio della logica, un principio del pensiero) o fraintesa (ma il fraintendimento non è un errore del pensiero, ma un errare del pensiero, ciò che appartiene in modo essenziale al cammino del pensiero) è inscritto il destino della metafisica come onto-teo-logica.

Identità e differenza

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Il principio di identità e La costituzione ontoteologica della metafisica sono, appunto, i due saggi che compongono Identità e differenza di Heidegger. Der Satz der Identität: Satz = proposizione e principio, ma anche balzo, salto; è un qualcosa che ha a che fare con la logica, ma è un qualcosa che, prima ancora, ha a che fare con il cammino, con il muoversi del pensiero, con l'esperienza (Erfahrung) del pensare. E Heidegger, all'inizio del saggio sull'identità, ci invita a prestare attenzione più che al contenuto del pensiero al percorso che il pensiero compie. Der Satz der Identität è il salto dall'identità alla differenza, il distacco dal pensiero rappresentativo, l'inizio ed il compimento del cammino che ci deve portare dal tò autó di Parmenide all'Ereignis di Heidegger.

Identità come uguaglianza e come medesimezza

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Nel pensiero filosofico tradizionale, il principio di identità vige come legge suprema del pensiero. Con il principio di contraddizione, quello del terzo escluso e, per certi aspetti, quello di ragion sufficiente, è uno dei principi fondamentali della logica. Formula corrente del principio di identità: A = A. La formula corrente nomina l'uguaglianza (due termini) non l'identità (un solo termine). L'uguaglianza pone come uguali, sotto un determinato aspetto, due cose che, in quanto due, sono distinte, diverse. La relazione di uguaglianza parte da una diversità fra enti, cose, oggetti sussistenti e giunge ad un'uguaglianza, cioè ad una scomparsa della diversità. Due cose vengono considerate uguali a prescindere dalle loro peculiarità (fosse anche solo la loro diversa collocazione spaziale), considerando solo ciò che le accomuna. L'identità come uguaglianza è il togliere agli enti le loro differenze, è applicare al molteplice una reductio ad unum. L'uguaglianza, insomma, non dice che una cosa è, in quanto tale, se stessa e identica a sé, ma che essa è, sotto un certo riguardo, uguale ad un' altra. L'uguaglianza nasconde l'identità. Formula appropriata per il principio di identità: A è A. Nell'identità c'è la relazione di sé con sé (unione in direzione dell'unità). L'identità non è, infatti, uniformità, non è mera tautologia. Quando si afferma che una penna è una penna, si dice la relazione di sé con sé che l'ente intrattiene per essere ciò che è. La filosofia dell'idealismo speculativo, per prima, presenta l'identità come mediazione (identità concreta, non astratta).

Il medesimo non si identifica mai con l'uguale, e neppure con la vuota uniformità del puramente identico. L'Uguale si volge sempre verso il senza-differenze (verso differenze meramente rappresentate) affinché tutto si accordi in esso. Il medesimo, invece, è la reciproca appartenenza del differente a partire dalla riunione operata dalla differenza. Il medesimo si lascia dire solo quando è pensata la differenza. Nel determinarsi del differente viene in luce l'essenza riunente del medesimo. Il medesimo esclude ogni ansia di risolvere il differente sempre solo nell'uguale. Il medesimo unisce il differente in una unione originaria. L'uguale, per contro, disperde nell'insipida unità dell'uno unicamente uniforme. ( ...Poeticamente abita l'uomo ..., Saggi e Discorsi, 129)

Il principio di identità come legge ontologica

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Anche la formula A è A rimane astratta: presuppone già il senso dell'identità. Ciò che della formula dobbiamo ascoltare è la parola "è": il principio di identità parla dell'essere dell'essente, vale come legge del pensiero in quanto è legge dell'essere (a ciò che è appartiene l'identità di sé con sé). Parmenide: la parola originaria sull'identità: tò gàr autò noeîn estîn te kaì eînai. Identità di essere e pensiero. Cose differenti (pensare ed essere) sono predicate dello Stesso. La metafisica ci dice che l'identità appartiene all'essere (l'essere è identità). La molteplicità degli enti si ordina nell'unità di un genere, la molteplicità delle categorie o dei generi sommi si riporta ad un senso fondamentale, quello della sostanza. Ciò che permette tale operazione è il pensare correttamente ed il pensare correttamente è pensare oltre la percezione sensibile. Ma che cosa viene propriamente affermato di tò autò nella sentenza di Parmenide? Si afferma che identità è co-appartenenza di due differenti: pensare ed essere appartengono allo Stesso e, sulla base di tale appartenenza, si appartengono l'uno all'altro. Pensiero ed essere si corrispondono. Tò autò è Zusammengehörigkeit. Necessità di ripensare il concetto di Zusammengehörigkeit:

accezione corrente (il gehören determinato dallo zusammen = essere già predisposti all'interno di un'unità , in vista di una preliminare identità, avere una connessione con ogni altro elemento della classe soddisfacendo la proprietà che determina la classe stessa. Es. l'appartenenza degli individui alle specie o delle specie ai generi o l'appartenenza dei numeri dispari all'insieme dei numeri naturali); due cose si co-appartengono quando sono elementi di un insieme, quando hanno, cioè, il proprio essere commisurato a quello dell'insieme a cui appartengono: co-appartenere assume allora il senso di appartenere assieme ad altri e quello di essere in connessione con altri. Ad esempio, se dico Pietro è un uomo e Giovanni è un uomo, ciò che hanno in comune Pietro e Giovanni è il loro esser-uomo, pertanto essi si co-appartengono, appartenendo assieme all'insieme "uomo", si pongono, cioè, come uguali in rapporto a tale insieme.

accezione heideggeriana (è il gehören ad essere determinante: non è più la comunanza a determinare ciò che i differenti sono, ma gli appartenenti a determinare ciò che fra loro è comune). Le cose stanno, dunque, in tutt'altro modo. È necessario ripensare radicalmente non solo l'identità, ma anche i differenti (essere e pensare) che si co-appartengono.

Pensiero come tratto distintivo dell'uomo: l'identità è co-appartenenza di uomo ed essere. Che cos'è essere? Chi è l'uomo? Il rischio di assumere il punto di vista dell'essere o quello dell'uomo (come pre-disposti all'unità) per rispondere a queste domande. La metafisica ci impone di pensare come far sì che uomo ed essere si co-ordinino in vista di un'unità che li comprende entrambi, di un'unità che li predispone ad un accordo, ad un'adaequatio. E se la predisposizione fosse il richiamarsi l'un l'altro e, quindi, il mantenersi della differenza? tò autò non è un richiamo all'ordine, un imperativo affinché le differenze si compongano in unità, tò autò è il mantenimento della differenza nel rispondere dell'uno all'altro.

Chiarimento del significato di "essere e pensare"

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La metafisica legge l'essere (e il pensiero) come un tratto dell'identità. L'identità è ciò che si dice dell'essere (e del pensiero) e l'adeguarsi dell'uno all'altro è ciò che si dice dei loro rapporti. Parmenide, al contrario, nomina l'identità come un tratto dell'essere (e del pensiero). Nel saggio Moira (SD, 158-175) si trova un decisivo chiarimento dei due termini essere e pensare noeîn ed eînai): nella frase di Parmenide il termine enigmatico, è tò autò. Tale termine è il soggetto della frase, è ciò di cui si tratta, ciò che si determina come essere e pensare. Essere e pensare (i differenti) si predicano di tò autò (lo stesso). La metafisica legge questa frase rovesciandone l'ordine grammaticale: l'identità è ciò che si dice della differenza di essere e pensare. In tal modo, il senso originario della sentenza di Parmenide viene frainteso.È necessario chiarire il predicato di tò autò, cioè "essere e pensare". Quando Parmenide parla di eînai in realtà intende sempre eón, quando parla di noeîn, intende tale termine come fondato nel léghein . Heidegger definisce l'eón come la presenza di ciò che è presente. Questa penna è un ente, è un qualcosa che è, una determinazione che è. Nel suo essere tale qual è essa è un qualcosa (appunto una penna), ma non è semplicemente qualcosa, ma qualcosa che è qui presente. Ogni essente, pensato in quanto tale, pensato nel suo essere ente nel senso participiale del termine (il participio è tale in quanto partecipa di due modi d'essere, quello del nome e quello del verbo) si articola (si di-spiega, ent-falten) nella differenza (nel di-spiego, Zwie-falt) di essere ed essente, di ciò che è presente (la penna) e della presenza dell'essente (l'esser-

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presente della penna). Ogni essente (eón) si articola in essenza (l'esser-ciò di una cosa, il suo was ist, il quid est) ed esistenza (l'esser-presente, incontrabile, percepibile di ciò che è). L'eînai di Parmenide, allora, pensato come eón , non va inteso semplicemente come il puro essere, l'essere in quanto tale, ma come An-wesen, come essere presente di ciò che è presente (l'essere presente di qualcosa). Nella sentenza di Parmenide viene enunciata la co-appartenenza di pensiero (o uomo) ed essere dell'essente (o dell'ente nel suo essere presente). L'ente, in quanto di-spiego di essere ed essente, esige, proprio in quanto tale, proprio in quanto essere presente, in quanto presentarsi di ciò che è presente, il pensiero, il noeîn. Se noi traduciamo il termine noeîn con pensiero, noi, figli della filosofia cartesiana dell'ego cogito, non possiamo fare a meno di considerare il pensiero come un'attività del soggetto. Il pensiero è quell'attività del soggetto attraverso la quale l'io determina ciò che è. Così tutto diventa soggettivo e l'essere, l'ontologia, viene a dipendere dalla logica. Heidegger traduce noeîn con in-die Acht-nehmen, prestare attenzione, inteso come un lasciar pervenire qualcosa a sé, prendendo posizione nei confronti di ciò che si mostra. Il noeîn accoglie l'eînai: prestare attenzione è accogliere la presenza di ciò che è presente (in die-Acht-nehmen west die Zwiefalt an. v.SD,165-166).

La verità come co-appartenenza di pensiero ed essere

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Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero, perché senza l'essere nel quale il pensiero è espresso non troverai il pensiero. (Parmenide, fr. 8 DK)

In questa sentenza l'essere è chiamato, perifrasticamente, il pensiero che è. Qui Parmenide dice esplicitamente perché essere e pensare sono lo stesso: che cosa significa dire che il pensiero è espresso nell'essere? Il noeîn appartiene all'eón in quanto espresso, in quanto detto nell'essere: il noeîn si fonda e si dispiega a partire dal dire (léghein). Il termine légo è tradotto da Heidegger come portare la cosa presente, nella sua presenza, all'apparire ed allo stare. Intendere il noeîn come l'espresso nell'eón significa che pensare (noeîn) è prestare attenzione al dire (léghein) dell'essere (eón), cioè al dispiegarsi dell'ente come cosa presente e presenza della cosa. Il pensiero accoglie l'ente presente nella sua presenza.

Essere significa: mantenersi in luce (in Licht stehen), apparire, venire nella non-latenza. Laddove qualcosa di simile si verifica, ossia laddove l'essere si impone (waltet), ivi si impone e si produce in pari tempo, come a lui inerente, l'apprensione, l'arrestare accogliente in sé dello stabile che si mostra (aufnehmendes Zum-stehen-bringen des sich zeigenden in sich ständingen). (IM, 147)

L'apprensione è il noeîn, lo stabile in sé che si mostra è il legómenon (l'esser-detto). Nel di-spiego dell'essente, nell'articolazione di presenza e cosa presente, domina il dire (léghein), in quanto far-apparire, portare alla presenza. Il dire fa apparire l'esser-presente di ciò che è presente, il pensare accoglie l'essere dell'ente, l'ente nel suo essere. Il dire, come dispiegarsi dell'essente, è il di-svelarsi, lo s-velamento (Un-verborgenheit, alétheia ). Allora, assumendo tò autò come soggetto, la sentenza di Parmenide dice che il Medesimo "vige come il di-spiegarsi del di-spiego nel senso del dis-velamento" (SD, 170), come il venire alla presenza dell'essente nel senso della non-latenza, della verità. Lo stesso venire alla presenza dell'essente concede al prestare-attenzione di accogliere la presenza di ciò che è presente. È la verità il senso dell'appartenenza del pensiero all'essere. Verità è co-appartenenza di pensiero ed essere . Questa affermazione, a prima vista, assomiglia moltissimo alla tradizionale definizione di verità come adaequatio intellectus et rei ma, in realtà, è molto lontana da essa. L'adaequatio intellectus et rei è la concezione metafisica della verità, dominante nella logica e nel pensiero rappresentativo, in quella visione, cioè, secondo la quale l'uomo, come animal rationale, è il soggetto per i suoi oggetti.

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La co-appartenenza tra uomo ed essere come reciproca trans-propriazione

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L'uomo è un ente. Come tutti gli altri enti appartiene all'ordine dell'essente, ma, a differenza degli altri essenti, il suo modo d'essere non è quello di essere ente fra gli enti, ma di essere il solo ente che sta di fronte all'essere e ciò in quanto è pensiero. L'uomo è corrispondenza con l'essere e solo questo. L'appartenenza dell'uomo all'essere è ascolto dell'essere. Il proprio dell'uomo è il mantenersi nella differenza con l'essere. Se il proprio dell' uomo è apertura all' essere, cioè all'altro da sé, l'uomo è transpropriazione all'essere, trasferimento del proprio sé all'essere (ben diversa dall'appropriazione dell'essere, nel senso dell'impadronirsi e disporre di, ma diverso anche dall'espropriazione di sé). Senza la differenza con l'essere l'uomo non è nulla, o meglio, sarebbe mero ente (l'essere in sé di Sartre). L'essere è presenza. Senza l'a-chi del presentarsi l'essere non sarebbe. Il proprio dell'essere è il presentarsi all'uomo: non è l'uomo che pone e si rappresenta l'essere, ma l'essere che si presenta all'uomo. L'aprire-sé dell'uomo all'essere e il presentare-sé dell'essere all'uomo, il reciproco transpropriare-sé di essere e uomo è la co-appartenenza, la Lichtung (la radura, il diradare: identità è lasciar-spazio alle differenze, lasciar-essere le differenze). Il distacco dal pensiero rappresentativo, dal pensiero che definisce l'uomo come animal rationale, appartenente ad un genere, all'interno del quale si differenzia per il possesso di una determinazione specifica, la razionalità, è evidente. Il pensiero rappresentativo traduce la transpropriazione di uomo ed essere in rapporto fra soggetto e oggetto. Il distacco dall'uomo come animal rationale è, contemporaneamente, il distacco dall'essere come fondamento, inteso come ciò in cui ogni essente, in quanto tale si fonda.

La costellazione moderna di uomo ed essere

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Dove ci porta il salto? Il distacco dall'animal rationale o dal fondamento ci porta verso il sentimentale? verso l'arbitrario? Ci porta, scrive Heidegger, dove già siamo: alla presenza dell'essere, all'essere, uomo ed essere, l'uno all'altro consegnati. Ma dove siamo? In quale costellazione di uomo ed essere? Se ci interroghiamo sulla nostra epoca, balza evidente il fatto che l'essere oggi si presenta come tecnica. La verità della nostra epoca è la co-appartenenza di uomo e tecnica. L' "era atomica", l'era della tecnica dispiegata ( = metafisica realizzata). Che c'entra la tecnica con l'essere? Nulla finché pensiamo metafisicamente e consideriamo l'essere come fondamento (entificandolo in ens summum) e la tecnica come una mera opera dell'uomo, come un piano di progettazione con il quale l'uomo si appropria di ciò che è per servirsene. Tutto è ricondotto all'uomo, al massimo si sente l'esigenza di un'etica della scienza e della tecnica: l'uomo può fare questo? e quello? Ci si chiede molto meno che cosa la tecnica possa fare dell'uomo: uno schiavo? un padrone? Ancora una volta, quando ci se lo chiede, si dà una risposta a partire dall'uomo. Ma l'essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico, un qualcosa di riconducibile all'uomo in quanto soggetto. Scienza e tecnica sono forme di pro-duzione, di conduzione dell'ente dal non-essere all'essere, sono modi di portare l'ente alla presenza, quindi sono forme di verità. Ricordiamo che per Heidegger la scienza che progetta l'ente e la tecnica che ne dispone in base al progetto sono perfettamente coerenti con la metafisica dell'Occidente. La produzione scientifica costituisce l'oggettività dell'ente , fa apparire l'ente come un oggetto per un soggetto, la produzione tecnica, invece, costituisce la disponibilità dell'ente, resa possibile dall'oggettività a cui questo si è ridotto. La pro-vocazione scientifica chiama l'ente nell'orizzonte dell'oggettività (Gegen-stand) affinché diventi un disponibile (Be-stand) ad ogni richiesta di impiego da parte dell'uomo, (pro-vocazione tecnica). L'essere è pro-vocato (rappresentato) come ente meramente calcolabile (l'essere è il

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misurabile), l'uomo si rapporta all'essere come ad un fondo a disposizione (Bestand) del suo pianificare e calcolare. Il pro-durre tecnico è un condurre l'essere, la natura, a di-(s)por-si in vista di un impiego, la natura viene tra-dotta a fondo energetico disponibile, ridotta a fondo a disposizione dell'uomo (Be-stand). Pro-vocare significa chiamare la natura a manifestarsi dove, come e quando chi fa la richiesta lo vuole. Ora, la tecnica dissolve la stessa oggettività scientifica: l'essere che si svela come Bestand non è più di fronte all'uomo come un oggetto (Gegenstand): il non più fronteggiarsi (ed affrontarsi) di uomo ed essere come soggetto ed oggetto, ma l'essere l'uno e l'altro condizionati dal loro reciproco disporsi, fa sì che la disposizione acquisti il sopravvento sui termini disposti. La riduzione dell'essere a Bestand comporta la stessa riduzione dell'uomo a Bestand. Il reciproco disporsi di uomo ed essere come il misuratore ed il misurabile, il calcolatore ed il calcolabile, il padrone ed il fondo, la Zusammengehörigkeit di uomo ed essere nell'età della tecnica ha un nome ed è il Ge-stell (l'im-posizione, l'impianto, la com-posizione), il vicendevole por-si di uomo ed essere. Ebbene, proprio nel Gestell, cioè nel modo della massima alienazione, può mostrarsi, secondo Heidegger, il senso autentico del tò autò parmenideo. Questo perché il Ge-stell, in quanto tale, non si dà più per il pensiero rappresentativo, non è un qualcosa di rappresentabile. La tecnica, che produce l'essere (e l'uomo stesso) come fondo a disposizione, ha la sua verità nel Ge-stell (impianto, insieme di pro-vocazioni, di modi del porre, di modi di chiamare l'ente alla presenza). Oggi, l'identità di uomo ed essere parla nel Ge-stell, parla nel modo della tecnica. Con la tecnica l'uomo può appropriarsi dell'essere, in quanto l'essere è appropriato alla sua essenza, può disporre dell'essere in quanto l'essere gli è fin dall'inizio disponibile. Il Ge-stell è il disporsi assieme di uomo ed essere come reciprocamente appropriati e, in tale disporsi, viene alla luce l'originario co-appartenersi di entrambi. Ecco la ragione per cui la tecnica può diventare straordinaria occasione di verità. Nel Ge-stell si impone un singolare modo del transpropriare. Nel Ge-stell balena un preludio dell'Ereignis. Il co-appartenersi di uomo ed essere nel Gestell espone (mostra, fa apparire) la trans-propriazione dell'uomo all'essere (Ver-eignung) - l'uomo è sé solo nell'ascolto dell'essere - e l'appropriazione dell'essere all'uomo (Zu-eignung) - l'essere c'è solo come presenza all'uomo, solo nel suo offrirsi, donarsi all'uomo. Nel gioco del ver-eignen e dello zu-eignen uomo ed essere si appropriano (eignen), sono fatti propri l'uno dell'altro (il proprio, eignen, è il greco autò). È questo appropriarsi che Heidegger chiama Ereignis. L'Ereignis è il Medesimo, tò autò. L'Ereignis di uomo ed essere non può essere colto dal pensiero rappresentativo, da quel pensiero che coglie l'essere come oggetto, come Gegenstand: il Vor-stellen, il porre davanti l'essere come oggetto, è abbandonato nel Ge-stellen, nel com-porre l'essere e l'uomo come Bestand, come fondo a disposizione. Il significato che Heidegger attribuisce alla pro-vocazione tecnica è chiaro: la pro-vocazione è reciproco appello che uomo ed essere si rivolgono a partire dalla distanza creata dall'oblio della co-appartenenza (Er-eignis). Se si permane nel pensiero puramente rappresentativo - in cui uomo ed essere si affrontano - la pro-vocazione, anziché appello, si fa sfida, uomo ed essere sono entrambi sottoposti alla legge del calcolo e del dominio. Tutta l'ambiguità della provocazione tecnica viene con questo alla luce: il Ge-stell alberga in sé la massima salvezza, in quanto possibilità di rimandare (di restituire) a quell'originaria co-appartenenza di pensiero ed essere in cui riposa il senso dell'Ereignis , ma può nascondere il massimo rischio, quello di trattenersi nella mera calcolabilità e progettualità dell'ente, in cui l'Ereignis, anziché trans-propriazione di uomo ed essere, appare come mera appropriazione dell'ente. Ecco perché il Ge-stell è preludio dell'Ereignis: è il non-ancora dell'Ereignis e, contemporaneamente, l'avviarsi dell' Ereignis. L'identità di uomo ed essere, dunque, va pensata come Ereignis di uomo ed essere: questa è, credo, la conclusione a cui ci conduce il primo saggio di Identità e differenza.

La differenza come Austrag

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Nel secondo saggio emergerà un senso tutto speciale del "salto", inteso come zurück-Schritt (passo indietro), modo di disporsi davanti alla tradizione per poter pensare l'essere non a partire dall'essente per poi superarlo in direzione del suo fondamento (come fa la metafisica), ma per pensare l'essere a partire dalla differenza fra essere ed ente. È nell'Ereignis di uomo ed essere (identità di essere e pensiero) che appare il senso proprio della differenza ontologica, la differenza come Austrag (ID, 31 : austragen significa recapitare e sich austragen significa cancellarsi). Dire che l'essere è l'essente equivale a dire che l'essere passa nell'ente, non nel senso metafisico del termine, in cui essere ed ente, in quanto sussistenti, trapassano misteriosamente l'uno nell'altro, ma nel senso ontologico di identità di essere ed ente, essendo l'uno - l'essere - lo s-velante passaggio che tramanda e l'altro - l'essente - l'arrivo che trova rifugio nel non-velamento.

L'essere nel senso dello s-velante-passaggio-che-tramanda e l'essente in quanto tale nel senso dell'arrivo-che-si-cela-nel-rifugio sussistono ( wesen) differenziati in questo modo a partire dallo stesso, a partire dalla differenza (Unter-Schied). (ID, 31)

La differenza come Austrag è la differenza come recapito-cancellazione: lo stesso è ente ed essere significa lo stesso è Übereinkomnis (l'andare a ...) e Ankunft (arrivare a ...), lo stesso è la differenza fra l'andare a ... e l'arrivare a ... Il salto dall'identità all'Ereignis di uomo ed essere è quel passo indietro che ci porta dalla metafisica (oblio della differenza di essere ed ente) all'essenza della metafisica (storia, Geschichte, destino-Geschick dell'essere).

I.5

ROVESCIARE IL PLATONISMO.IL SIMULACRO

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Sommario

Nietzsche. Morte di Dio: il mondo vero diventa favola Heidegger e Deleuze: fenomeno (autenticità) versus simulacro (simulazione) La ripetizione indifferente La critica platonica al simulacro: condanna morale della ripetizione senza identità

Nietzsche. Morte di Dio: il mondo vero diventa favola.

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Il tema del pensiero di Gilles Deleuze è il molteplice. Detto così può sembrare che non ci sia nulla di nuovo: da sempre la filosofia si pone il problema di comprendere la molteplicità del reale, di comprendere il mondo nella varietà dei suoi aspetti e dare ad essi una ragione ed un fondamento. Ma qual è la tradizionale immagine del pensiero? Qual è l'operazione che il pensiero compie quando si dispone a comprendere il mondo? Il termine comprendere è molto significativo: la molteplicità dev'essere, appunto, compresa, deve trovare una sua unità nel concetto, le differenze devono ricomporsi nell'identità del fondamento. Abbiamo già visto come questo stia alla base del divorzio fra realtà ed apparenza, fra mondo vero e mondo delle ombre, fra una realtà sostanziale ed una realtà accidentale, fra noumeno e fenomeno, e così via. Potremmo enumerare tutti i dualismi che percorrono la storia della filosofia.

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È Nietzsche che sottopone ad una critica genealogica i concetti opposti e complementari di mondo vero e di mondo apparente, mettendo in evidenza l'istanza morale che sta alla base di tale dualismo metafisico: da un lato, vi è la negazione sistematica del divenire, del molteplice, del mondo e della sua ricchezza fenomenica, negazione accompagnata dalla condanna morale di ciò che muta, dall'altro vi è un'arbitraria e surrettizia attribuzione di realtà a ciò che è identico, eterno, uno, ideale, l'apologia e la valorizzazione di tutto ciò che è posto al di sopra della dimensione mondana. Con l'annuncio della morte di Dio e del conseguente estinguersi di tutti i valori Nietzsche pone drasticamente fine a questo dualismo. Il mondo vero diventa favola e, con esso, viene meno anche il mondo delle apparenze. L'annuncio della morte di Dio è la destituzione del modello, del fondamento, dell'originale a cui il mondo si riferiva per legittimarsi. Senza il modello il mondo diventa un'immagine priva di identità, diventa simulacro. L'istanza morale, l'intenzione di mera valorizzazione che guida tutta l'impresa metafisica viene svelata, smascherata. La riduzione dell'essere al valore, il nichilismo di cui è preda il pensiero occidentale, rappresenta, secondo Heidegger, il punto culminante della metafisica, il suo stesso compimento e Nietzsche sarebbe l'ultimo pensatore metafisico. Nietzsche è per Heidegger, essenzialmente, il filosofo della volontà di potenza e la volontà di potenza risolve tutto l'essere in volere, lo riporta, cioè al nulla. Ma questo rivela pienamente l'errore originario su cui si costituisce la metafisica, l'oblio dell'essere a favore degli enti, il divorzio del pensiero dall'essere, e perciò il divorzio del pensiero da se stesso, per rivolgersi alla manipolazione degli enti, per esercitare sul mondo il dominio strumentale della volontà. La volontà di potenza, come riduzione della verità al valore e, quindi, al volere, smaschera i caratteri stessi del volere, togliendo ad esso i vincoli restrittivi entro cui l'aveva mantenuto la tradizione umanistica, di un volere, cioè, sottomesso alla guida di un soggetto autocosciente e ben intenzionato. La sentenza di Nietzsche "Dio è morto", compimento del nichilismo, rappresenta l'ultima parola della metafisica ed è una sentenza apocalittica, nel senso etimologico del termine, che significa rivelazione: rivelando l'oblio dell'essere, rende nuovamente pensabile la differenza fra essere ed ente e con ciò afferma la praticabilità di un pensiero capace di superare nichilismo e soggettivismo.

Heidegger e Deleuze: fenomeno ( autenticità) versus simulacro (simulazione)

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Il compimento della metafisica ci impone di ripensare la tradizione, di riascoltare le parole originarie per riprenderne il senso. Ma che cosa significa veramente pensare? Qual è il rapporto del pensiero con l'essere? Identità e differenza afferma la co-appartenenza di pensiero ed essere, l'irriducibilità del pensiero all'essere o dell'essere al pensiero, l'inessenzialità di quell'operazione consistente nel cercare con il pensiero un fondamento di quell'essere che la percezione ci presenta molteplice e transeunte, nel riportare l'essere alla ragione, insomma, nel ricercare in esso una ratio, una misura, un qualcosa di costante e di immutabile, di sempre uguale, al di là della selva infinita delle differenze e della molteplicità. Pensare è, invece, rapportarsi all'essere, mantenersi nell' ascolto dell'essere e, perciò, mantenersi nella differenza con l' essere. Il pensiero non è una determinazione che si aggiunge all' animale, costituendolo così come specie "uomo": il pensiero è il proprio dell'uomo e l'uomo è solo rapporto con l'essere. Che ne è, a partire da questo pensiero rammemorante (pensiero che ripensa la metafisica come oblio dell'essere), della differenza fra mondo vero e mondo apparente? Che ne è delle cose e del loro senso? Non si ripresenta forse il dualismo metafisico sotto l'inedita maschera della differenza ontologica fra essere ed ente? Ma l'essere di cui parla Heidegger non è il Superente, verità degli enti mondani: l'essere è identico e differente dagli enti. È identico perché non c'è essere al di fuori degli enti, perché l'essere è sempre l'essere degli enti, è differente perché l'essere non è l'ente ma il darsi degli enti, il venire alla presenza dell'ente. Nell'ontologia di Heidegger non ci sono due mondi, il mondo dell'essere e quello dell'ente, un mondo vero e un mondo apparente.

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La filosofia della differenza è il pensiero della molteplicità e, in quanto tale, è un pensiero affermativo, perché non nega il molteplice ricomprendendolo in una superiore unità, ma lo afferma nel suo essere proprio, afferma la differenza in sé - dirà Deleuze - non la differenza concettuale. È un pensiero che accoglie l'ente nel suo darsi, nel suo essere, nel suo venire alla presenza, senza imporre al mondo gabbie concettuali. Per tale pensiero il fenomeno non è apparenza, mera manifestazione di un reale che si nasconde dietro di esso, né tantomeno è inganno, parvenza. Il fenomeno non manifesta nient'altro che sé, non manifesta altro da sé. A partire da questa acquisizione della filosofia della differenza (l'essere è il manifestarsi dell'ente) veniamo a trovarci in un punto in cui la filosofia della differenza di Heidegger e quella di Deleuze divergono, differiscono l'una dall'altra. E la differenza riguarda proprio l'essere dell'ente, il suo manifestarsi. Il mondo è fenomeno - scrive Heidegger - ripensando profondamente il termine fenomeno secondo quanto scrive nello straordinario § 7 di Essere e tempo. Il mondo è simulacro, affermerà, invece, Deleuze, come vedremo. Il § 7 di Essere e tempo è dedicato all'esplicitazione del metodo fenomenologico della ricerca e qui ritroviamo, nel primo grande testo filosofico di Heidegger (1927), l'affermazione dell'identità di essere e pensiero nello stesso senso in cui viene affermata in Identità e differenza (1955). Ciò che la fenomenologia (parola composta da due termini: phainómenon e lógos) afferma è l'autò, la co-appartenenza di essere e pensiero. Phainómenon (da phaínesthai = manifestarsi) è l'ente nel suo manifestarsi, è l'automanifestantesi, ciò-che-si-manifesta-in-se-stesso-e-da-se-stesso. Il lógos (da léghein = dire, raccogliere) è un lasciar vedere, un lasciar essere ciò che si manifesta. Allora fenomenologia significa, come si legge a pag. 55:

lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso dell'indagine che si autodefinisce fenomenologia. Ma in tal modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: "Verso le cose stesse!"

Il moto "Alle cose stesse!" Heidegger lo deriva dalla fenomenologia di Husserl. Ciò che conta, tuttavia, in questo contesto è che l'identificazione dell'essere con l'apparire, con il venire alla presenza comporta il netto rifiuto della prospettiva metafisica inaugurata da Platone, basata sulla svalutazione dell'apparenza: il venire alla presenza è l'essere dell'ente eppertanto all'apparire, al fenomeno compete la verità nel senso etimologico del termine (alétheia = s-velamento). Ma che cosa sono, poi, le cose stesse? Quale identità, quale fondamento hanno? Nello stesso moto "Alle cose stesse!" risuona, non spento, un richiamo all'identità, all'autenticità. Le cose stesse, reclamando per sé e per nient'altro l'autenticità (non c'è nient'altro dietro di loro, infatti), sono, a modo loro, essenze (eíde), sono l'originale, il modello senza la copia. Il moto "Alle cose stesse!" dice: non ci sono copie, ma solo modelli, archetipi. Se è vero che non è lo statuto ontologico in quanto tale del fenomeno ciò che primariamente importa, quanto il fatto che esso mette in crisi il concetto stesso di copia, di realtà apparente dietro la quale ci sarebbe la vera realtà e con ciò mette in crisi anche il pensiero come rappresentazione, resta però innegabile un pathos di autenticità che accompagna l'espressione fenomenologica, quel pathos verso l'originario, l'aurorale che non è mai assente nel filosofare heideggeriano. Ma la morte di Dio, il modello per eccellenza, il fondamento di ogni essere, l'origine per eccellenza, viene a toccare profondamente proprio l'archetipo, il modello in quanto tale, il concetto stesso di origine e di autenticità. La morte di Dio lascia le cose nel loro status di copie, di copie di un modello che non c'è più e che forse non è mai esistito: le cose stesse sono, in realtà, simulacri. Non è l'apparire, il fenomeno che può reclamare i tratti dell' essere, ma è l'essere stesso che si consegna all'apparire ed al divenire. Fenomeno e simulacro, allora, si contrappongono e si oppongono come autenticità e simulazione, ma forse, in assenza di copia o in assenza di modello, autenticità e simulazione sono lo stesso. Chi simula e chi dice il vero se il mondo vero ed il mondo apparente non sono che un unico mondo? Pensiamo ai titoli delle opere che stiamo esaminando: Identità e differenza, da un lato, Differenza e ripetizione, dall'altro. I due titoli hanno in comune la parola "differenza" ed in entrambi i testi differenza è rapporto di pensiero ed essere, un pensiero che, anche per Deleuze, è tutt'altro dalla rappresentazione di un oggetto da parte di un soggetto, come l'essere non è l'ente. In Identità e differenza, però, il luogo originario della differenza è l'autó, il luogo dell' autenticità

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(autó in greco significa "proprio" ed è l'eigen tedesco, a cui va riportato il termine Ereignis), il luogo dell'alétheia, della Lichtung, dell'evento della reciproca transpropriazione di uomo ed essere, sì che possiamo legittimamente affermare che per Heidegger identità è differenza contro la metafisica attribuzione dell'identità alla differenza. In Differenza e ripetizione, invece, il luogo della differenza è la ripetizione, sì che possiamo dire, contro la concezione di una ripetizione come indifferenza, che ripetizione è differenza. Si tratta di due prospettive opposte? Forse, ma l'opposto e lo stesso hanno fra loro una segreta complicità, quella complicità che si chiama complementarità. L'identità di Heidegger è il darsi della differenza, il suo mantenersi, la ripetizione di Deleuzeè il ritornare del differente: ciò che si ripete non è lo Stesso, ma il differente.

La ripetizione indifferente

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È chiaro che identità non è uguaglianza ( = scomparsa della differenza = riduzione dell'essere al pensare o del pensare all'essere), ma è chiaro che anche la ripetizione non va confusa con la generalità, con il ripetersi della stessa cosa, o di tante cose che sono le stesse e che tra loro si differenziano solo numericamente. Se l'uguaglianza, in quanto ansia di togliere le differenze, frutto di un'istanza morale che vuol mettere ordine, è un tradimento del senso proprio dell'identità, anche la ripetizione, intesa come ripetizione dello Stesso (genitivo oggettivo non soggettivo), non è vera ripetizione ma ossessione dell'uguale. Due esempi illustrano bene questo aspetto:

È proprio noioso infilarsi sempre prima la camicia e poi i calzoni e di sera trascinarsi a letto e di mattina strisciarne fuori di nuovo e mettere sempre un piede davanti all'altro; e non c'è assolutamente nessuna prospettiva che tutto ciò possa cambiare. Molto, molto triste, e che milioni l'hanno già fatto e che milioni lo faranno e che noi oltretutto consistiamo di due metà, che fanno tutte e due la stessa cosa, così che tutto accade due volte ... (Il Danton di Büchner, in DR, p. 10-11)

La poesia di Baudelaire "Les sept vieillards": il poeta, durante il suo vagare per le vie di Parigi, vede farsi incontro un vecchio cencioso, lo descrive minuziosamente, ma il vecchio non è solo:

... . Lo seguiva uno simile a lui, diverso in nulla: occhio, barba, schiena, bastone, cenci, uscito fuor da uno stesso inferno, centenario gemello, e questi strani spettri andavano con egual passo ad una meta ignota. In che infame complotto ero incappato, che maligna avventura m'umiliava? Perché contai, minuto per minuto, per sette volte quel sinistro vecchio che si moltiplicava! ... .......................................................... ... al corteo infernale volsi le spalle. Esasperato come un ebbro che vede doppio, tornai a casa, chiusi la porta, spaventato. Intirizzito e affranto, con lo spirito percorso da una febbre e agitato, dal mistero e dall'assurdità ferito! Invano del timone voleva impossessarsi la ragione; sviava ogni suo sforzo la tempesta coi suoi raggiri, e l'anima mia, vecchia barca, ballava ballava senza antenna né albero su un mare mostruoso e privo di confini!

È la ripetizione senza differenza (tranne la differenza numerica), è la ripetizione indifferente. In Deleuze, invece, il simulacro, quell'immagine diabolica e perversa che Platone vuol bandire, è la ripetizione senza

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identità, è la ripetizione del differente. Su tale problema è necessario tornare e riflettere a lungo. Prima, tuttavia, va chiarito il tema del simulacro, del suo status ontologico e della motivazione etica della sua esclusione.

La critica platonica al simulacro: condanna morale della ripetizione senza identità

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Fin dalla Prefazione di Differenza e ripetizione Deleuze colloca il suo pensiero entro una prospettiva filosofica di antihegelismo generalizzato, perché la differenza e la ripetizione hanno preso il posto dell'identità e della negazione. Se identità è uguaglianza, il differente sarà semplicemente ciò che non è uguale. Ma il negativo ha relazione con l'identità (ne è il semplice rovesciamento) non con la differenza. (DR,1) Il pensiero moderno nasce dal fallimento della rappresentazione e del suo mondo, il mondo del modello e delle copie; il mondo moderno è, in realtà, il mondo dei simulacri. Le identità sono simulate, sono un effetto ottico del gioco profondo di differenza e ripetizione (in DR Deleuze contrappone ancora uno strato profondo ad un piano superficiale, ciò non avverrà più in Logica del senso, dove il senso è un evento di superficie). (DR,1)

Noi vogliamo pensare la differenza in sé, e il rapporto del differente col differente, indipendentemente dalle forme della rappresentazione che li riconducono allo Stesso e li fanno passare per il negativo. (DR,2)

Ciò che importa del simulacro, ciò che lo rende irriscattabile, irredimibile, ciò che fa di un simulacro un simulacro non è il fatto di essere una copia. Platone, lo sappiamo, filosofa anche per salvare le copie dal nulla ontologico a cui l'eleatismo le aveva ridotte. Non è una determinazione ontologica che caratterizza il simulacro, ma una determinazione etico-eversiva. Il simulacro è ciò che rovescia i modelli, è ciò che mette in discussione l'idea stessa di origine e di modello. Già nel 1961 nella rivista Etudes philosophiques Deleuze aveva affrontato il tema del simulacro in un articolo dal titolo Lucrezio e il simulacro, ripreso in appendice a Logica del senso (1969) con il titolo Simulacro e filosofia antica (p.223-246). La prima parte del saggio è dedicata a Platone. Anche in Differenza e ripetizione il tema viene trattato, a testimonianza della sua centralità nel pensiero del filosofo francese (p.82-94). Si è soliti pensare al platonismo come a quel sistema di pensiero che ruota attorno ad una fondamentale distinzione, quella fra l'idea e la cosa sensibile, fra l'originale e l'immagine, il modello e la copia. Il modello gode di un'identità originaria superiore (solo l'idea non è altro che ciò che è), mentre la copia viene giudicata in base ad una sua somiglianza con il modello. La differenza viene dopo, è un qualcosa di derivato, può essere pensata solo dopo l'identità e la somiglianza e solo attraverso di esse. Vi è, tuttavia, un senso più profondo nel platonismo: la distinzione fra mondo delle idee e mondo sensibile copre una distinzione molto più importante, la vera distinzione platonica, quella che non sta fra l'originale e l'immagine, ma fra due specie di immagini (eídola) delle quali una, eikón, è la copia vera e propria, l'altra, phántasma, è una copia bastarda, un simulacro. La distinzione modello-copia, secondo Deleuze, è posta proprio per fondare la distinzione copia-simulacro. La copia è giustificata, selezionata, in nome dell'identità del modello e attraverso la sua somiglianza col modello ideale. La nozione di modello non ha tanto lo scopo di opporsi a quella di immagine (l'idea è fondamento della cosa, non sua antagonista), quanto quello di selezionare le immagini buone (le icone) e smascherare le immagini cattive (i simulacri). Tutto il platonismo è basato sulla volontà di scacciare i fantasmi o simulacri, che hanno un potente riferimento simbolico, il sofista, colui che simula e inganna, colui che finge di sapere, mentre in realtà nulla sa. Platone non cerca l'essenza delle cose, non si chiede cos'è una cosa. Egli cerca la cosa autentica per separarla e distinguerla dalla cosa falsa. La metafisica prima che ad un'istanza ontologica obbedisce ad un'istanza etica: ecco perché rovesciare il platonismo non significa semplicemente proporre una diversa immagine del pensiero, ma mettere in discussione il pensiero stesso nel suo essere immagine del mondo. Aristotele parte dall'identità generica ed in essa cerca la differenza specifica, Platone, invece, vuole l' identità in sé, per poter isolare ed eliminare la differenza in sé. Aristotele fonda il mondo della rappresentazione e si serve, per questo, di concetti già, per così dire,

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"addomesticati", il suo problema è fare ordine, offrire un'immagine coerente e fondata del mondo, opera in un territorio in cui il pensiero ha già sconfitto l'altro da sé (il terreno del pensiero categoriale), Platone, invece, sfida direttamente l'altro dal pensiero, deve istituire l'identità e fare la differenza, differenza assoluta, con l'altro. (DR,84-85) DR,91: Il rovesciamento del platonismo significa la negazione del primato dell'originale sulla copia, la negazione che l'origine sia il senso delle cose, sia il fondamento a cui le cose devono riferirsi per essere ciò che sono.

Chi è? Non che cos'è? Occorre cercare l'autentico, l'oro puro. Anziché suddividere, selezionare e seguire il filone buono, occorre cercare fra i pretendenti senza distribuirli secondo le loro proprietà catastali; sottoporli alla prova dell'arco che li eliminerà tutti, salvo uno (e precisamente il senza nome, il nomade). Ora, come distinguere fra tutti questi falsi (simulatori, sedicenti) e il vero (il non mescolato, il puro)? Non scoprendo una legge del vero o del falso (qui la verità non si oppone all'errore, ma alla falsa apparenza), ma guardando al di sopra di tutti questi il modello: talmente puro che la purezza del puro gli somiglia, l'avvicina e può misurarsi con esso; e esistendo a tal punto che la vanità simulatrice del falso si troverà, di colpo, decaduta come non essere. All'apparire di Ulisse, eterno marito, i pretendenti si dileguano. Exeunt i simulacri. (M.Foucault Theatrum Philosophicum, in DR,VIII, ed. Il Mulino)

Con Platone si decide filosoficamente di sottomettere la differenza alle potenze dello Stesso e del Simile, poste come iniziali, di dichiarare la differenza impensabile in sé, mero simulacro senza modello. La vera logica della rappresentazione si stabilirà con Aristotele, il quale, negli Analitici e nei Topici, critica la teoria delle idee platonica, mostrando, acutamente, come l'idea sia inadeguata a proporsi nelle vesti di universale (l'universale è ciò che è comune ai molti, l'idea platonica, invece, è individuale in senso eminente). Ma lo scopo di Platone, prima che ontologico, è morale. Il simulacro va esorcizzato per ragioni morali e con esso la differenza che si pretende tale.

Il simulacro o fantasma non è semplicemente la copia di una copia, una somiglianza infinitamente vaga, un'icona degradata. Il catechismo, così ispirato dei Padri Platonici, ci ha reso familiare l'idea di un'immagine senza somiglianza: l'uomo è a immagine e a somiglianza di Dio, ma a causa del peccato abbiamo perduto la somiglianza pur conservando l'immagine ... Il simulacro è per l'appunto un'immagine demoniaca, privo di somiglianza; o piuttosto, diversamente dall'icona, ha posto la somiglianza all'esterno, e vive di differenza. (DR,165-166)

Il simulacro, prima che falso, è pericoloso. La sua caratteristica è quella dell'ingiustificata vigenza (valere in assenza del modello), dell'illegittima pretesa. Forse il suo modo d'essere non è neppure la pura negazione del modello, la semplice destituzione dell'identità. Il ruolo del simulacro è ancora più pericoloso: destituisce il modello dello Stesso ed instaura il modello dell'Altro, facendo sprofondare il modello stesso nella differenza. Prima dell'identità, che ripartisce al proprio interno le differenze e distribuisce le ripetizioni, era un universo di differenze senza identità e di ripetizioni senza origine. L'idea nasce da un'esigenza d'ordine (escludere i simulacri) ed ha un fondamento assegnato (l'idea del Bene a cui tutte le idee possono essere ricondotte), le differenziazioni che le idee offrono, una volta istituite, sono rappresentative, cioè sono differenze interne all'identità e governate da essa. Non ricorrendo ad un sistema di categorie, Platone fonda l'identità su una base costitutivamente morale, il Bene. Le differenze che non obbediscono alla gerarchia dell'identità che dal Bene va all'apparente differenziazione dell'idea, vengono respinte come cattive, false, eversive. I simulacri possono dare origine ad una serie autonoma, indipendente dal loro rapporto col vero essere (l'idea): questa è l'origine del sospetto platonico nei confronti dell'arte e della scrittura stessa. Ricordiamo la polemica contro la scrittura nel Fedro (mito di Theuth): l'arte che il dio Theuth offre a Thamus viene da quest'ultimo rifiutata perché lo scritto, oltre a non essere un mezzo per ricordare, offre solo una conoscenza apparente, affidata com'è all' esteriorità del segno e non all'interiorità dell'anima ed alla sua memoria. Il testo scritto è come la figura dipinta, è muto, non è in grado di rispondere alle domande che gli si rivolgono, per questo, cadendo nelle mani di tutti, anche degli incompetenti, si presta ad ogni manipolazione. La scrittura è un gioco fatuo, come il giardino di Adone (serra), consistente nel seminare in recipienti artificiali semi che in pochi giorni nascono, senza dare, però, alcun frutto. La fine del Sofista rappresenta la possibilità del trionfo dei simulacri, poiché Socrate si distingue dal sofista, ma il sofista non si distingue da Socrate e mette in dubbio la legittimità di tale distinzione. Il simulacro si impadronisce dell'originale e lo rende indistinguibile dalla copia.(v. DR, 167) Platone, allora, non ha raddoppiato il reale, ma l'ha ridotto. Il suo scopo è quello di bloccare i simulacri, pretendenti abusivi del reale, ripetizioni senza origine, cioè differenze

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irriducibili all'identità. La differenza fra origine e originato, istituita da un'istanza morale, non è logicamente fondata, ma è solo fattuale. Per questo mette in campo significativamente il "mito". E il mito fondatore assume le caratteristiche della prova, di un compito da assolvere, di un enigma da risolvere, una prova che guida e legittima la divisione (la diaíresis come metodo dialettico). Solo il mito autorizza la divisione a fare la differenza, a non essere mera distribuzione ma vera fondazione.

I.5

ROVESCIARE IL PLATONISMO.IL SIMULACRO

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Sommario

Nietzsche. Morte di Dio: il mondo vero diventa favola Heidegger e Deleuze: fenomeno (autenticità) versus simulacro (simulazione) La ripetizione indifferente La critica platonica al simulacro: condanna morale della ripetizione senza identità

Nietzsche. Morte di Dio: il mondo vero diventa favola.

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Il tema del pensiero di Gilles Deleuze è il molteplice. Detto così può sembrare che non ci sia nulla di nuovo: da sempre la filosofia si pone il problema di comprendere la molteplicità del reale, di comprendere il mondo nella varietà dei suoi aspetti e dare ad essi una ragione ed un fondamento. Ma qual è la tradizionale immagine del pensiero? Qual è l'operazione che il pensiero compie quando si dispone a comprendere il mondo? Il termine comprendere è molto significativo: la molteplicità dev'essere, appunto, compresa, deve trovare una sua unità nel concetto, le differenze devono ricomporsi nell'identità del fondamento. Abbiamo già visto come questo stia alla base del divorzio fra realtà ed apparenza, fra mondo vero e mondo delle ombre, fra una realtà sostanziale ed una realtà accidentale, fra noumeno e fenomeno, e così via. Potremmo enumerare tutti i dualismi che percorrono la storia della filosofia. È Nietzsche che sottopone ad una critica genealogica i concetti opposti e complementari di mondo vero e di mondo apparente, mettendo in evidenza l'istanza morale che sta alla base di tale dualismo metafisico: da un lato, vi è la negazione sistematica del divenire, del molteplice, del mondo e della sua ricchezza fenomenica, negazione accompagnata dalla condanna morale di ciò che muta, dall'altro vi è un'arbitraria e surrettizia attribuzione di realtà a ciò che è identico, eterno, uno, ideale, l'apologia e la valorizzazione di tutto ciò che è posto al di sopra della dimensione mondana. Con l'annuncio della morte di Dio e del conseguente estinguersi di tutti i valori Nietzsche pone drasticamente fine a questo dualismo. Il mondo vero diventa favola e, con esso, viene meno anche il mondo delle apparenze. L'annuncio della morte di Dio è la destituzione del modello, del fondamento, dell'originale a cui il mondo si riferiva per legittimarsi. Senza il modello il mondo diventa un'immagine priva di identità, diventa simulacro. L'istanza morale, l'intenzione di mera valorizzazione che guida tutta l'impresa metafisica viene svelata, smascherata. La riduzione dell'essere al valore, il nichilismo di cui è preda il pensiero occidentale,

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rappresenta, secondo Heidegger, il punto culminante della metafisica, il suo stesso compimento e Nietzsche sarebbe l'ultimo pensatore metafisico. Nietzsche è per Heidegger, essenzialmente, il filosofo della volontà di potenza e la volontà di potenza risolve tutto l'essere in volere, lo riporta, cioè al nulla. Ma questo rivela pienamente l'errore originario su cui si costituisce la metafisica, l'oblio dell'essere a favore degli enti, il divorzio del pensiero dall'essere, e perciò il divorzio del pensiero da se stesso, per rivolgersi alla manipolazione degli enti, per esercitare sul mondo il dominio strumentale della volontà. La volontà di potenza, come riduzione della verità al valore e, quindi, al volere, smaschera i caratteri stessi del volere, togliendo ad esso i vincoli restrittivi entro cui l'aveva mantenuto la tradizione umanistica, di un volere, cioè, sottomesso alla guida di un soggetto autocosciente e ben intenzionato. La sentenza di Nietzsche "Dio è morto", compimento del nichilismo, rappresenta l'ultima parola della metafisica ed è una sentenza apocalittica, nel senso etimologico del termine, che significa rivelazione: rivelando l'oblio dell'essere, rende nuovamente pensabile la differenza fra essere ed ente e con ciò afferma la praticabilità di un pensiero capace di superare nichilismo e soggettivismo.

Heidegger e Deleuze: fenomeno ( autenticità) versus simulacro (simulazione)

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Il compimento della metafisica ci impone di ripensare la tradizione, di riascoltare le parole originarie per riprenderne il senso. Ma che cosa significa veramente pensare? Qual è il rapporto del pensiero con l'essere? Identità e differenza afferma la co-appartenenza di pensiero ed essere, l'irriducibilità del pensiero all'essere o dell'essere al pensiero, l'inessenzialità di quell'operazione consistente nel cercare con il pensiero un fondamento di quell'essere che la percezione ci presenta molteplice e transeunte, nel riportare l'essere alla ragione, insomma, nel ricercare in esso una ratio, una misura, un qualcosa di costante e di immutabile, di sempre uguale, al di là della selva infinita delle differenze e della molteplicità. Pensare è, invece, rapportarsi all'essere, mantenersi nell' ascolto dell'essere e, perciò, mantenersi nella differenza con l' essere. Il pensiero non è una determinazione che si aggiunge all' animale, costituendolo così come specie "uomo": il pensiero è il proprio dell'uomo e l'uomo è solo rapporto con l'essere. Che ne è, a partire da questo pensiero rammemorante (pensiero che ripensa la metafisica come oblio dell'essere), della differenza fra mondo vero e mondo apparente? Che ne è delle cose e del loro senso? Non si ripresenta forse il dualismo metafisico sotto l'inedita maschera della differenza ontologica fra essere ed ente? Ma l'essere di cui parla Heidegger non è il Superente, verità degli enti mondani: l'essere è identico e differente dagli enti. È identico perché non c'è essere al di fuori degli enti, perché l'essere è sempre l'essere degli enti, è differente perché l'essere non è l'ente ma il darsi degli enti, il venire alla presenza dell'ente. Nell'ontologia di Heidegger non ci sono due mondi, il mondo dell'essere e quello dell'ente, un mondo vero e un mondo apparente. La filosofia della differenza è il pensiero della molteplicità e, in quanto tale, è un pensiero affermativo, perché non nega il molteplice ricomprendendolo in una superiore unità, ma lo afferma nel suo essere proprio, afferma la differenza in sé - dirà Deleuze - non la differenza concettuale. È un pensiero che accoglie l'ente nel suo darsi, nel suo essere, nel suo venire alla presenza, senza imporre al mondo gabbie concettuali. Per tale pensiero il fenomeno non è apparenza, mera manifestazione di un reale che si nasconde dietro di esso, né tantomeno è inganno, parvenza. Il fenomeno non manifesta nient'altro che sé, non manifesta altro da sé. A partire da questa acquisizione della filosofia della differenza (l'essere è il manifestarsi dell'ente) veniamo a trovarci in un punto in cui la filosofia della differenza di Heidegger e quella di Deleuze divergono, differiscono l'una dall'altra. E la differenza riguarda proprio l'essere dell'ente, il suo manifestarsi. Il mondo è fenomeno - scrive Heidegger - ripensando profondamente il termine fenomeno secondo quanto scrive nello straordinario § 7 di Essere e tempo. Il mondo è simulacro, affermerà, invece, Deleuze, come vedremo. Il § 7 di Essere e tempo è dedicato all'esplicitazione del metodo fenomenologico della ricerca e

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qui ritroviamo, nel primo grande testo filosofico di Heidegger (1927), l'affermazione dell'identità di essere e pensiero nello stesso senso in cui viene affermata in Identità e differenza (1955). Ciò che la fenomenologia (parola composta da due termini: phainómenon e lógos) afferma è l'autò, la co-appartenenza di essere e pensiero. Phainómenon (da phaínesthai = manifestarsi) è l'ente nel suo manifestarsi, è l'automanifestantesi, ciò-che-si-manifesta-in-se-stesso-e-da-se-stesso. Il lógos (da léghein = dire, raccogliere) è un lasciar vedere, un lasciar essere ciò che si manifesta. Allora fenomenologia significa, come si legge a pag. 55:

lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso dell'indagine che si autodefinisce fenomenologia. Ma in tal modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: "Verso le cose stesse!"

Il moto "Alle cose stesse!" Heidegger lo deriva dalla fenomenologia di Husserl. Ciò che conta, tuttavia, in questo contesto è che l'identificazione dell'essere con l'apparire, con il venire alla presenza comporta il netto rifiuto della prospettiva metafisica inaugurata da Platone, basata sulla svalutazione dell'apparenza: il venire alla presenza è l'essere dell'ente eppertanto all'apparire, al fenomeno compete la verità nel senso etimologico del termine (alétheia = s-velamento). Ma che cosa sono, poi, le cose stesse? Quale identità, quale fondamento hanno? Nello stesso moto "Alle cose stesse!" risuona, non spento, un richiamo all'identità, all'autenticità. Le cose stesse, reclamando per sé e per nient'altro l'autenticità (non c'è nient'altro dietro di loro, infatti), sono, a modo loro, essenze (eíde), sono l'originale, il modello senza la copia. Il moto "Alle cose stesse!" dice: non ci sono copie, ma solo modelli, archetipi. Se è vero che non è lo statuto ontologico in quanto tale del fenomeno ciò che primariamente importa, quanto il fatto che esso mette in crisi il concetto stesso di copia, di realtà apparente dietro la quale ci sarebbe la vera realtà e con ciò mette in crisi anche il pensiero come rappresentazione, resta però innegabile un pathos di autenticità che accompagna l'espressione fenomenologica, quel pathos verso l'originario, l'aurorale che non è mai assente nel filosofare heideggeriano. Ma la morte di Dio, il modello per eccellenza, il fondamento di ogni essere, l'origine per eccellenza, viene a toccare profondamente proprio l'archetipo, il modello in quanto tale, il concetto stesso di origine e di autenticità. La morte di Dio lascia le cose nel loro status di copie, di copie di un modello che non c'è più e che forse non è mai esistito: le cose stesse sono, in realtà, simulacri. Non è l'apparire, il fenomeno che può reclamare i tratti dell' essere, ma è l'essere stesso che si consegna all'apparire ed al divenire. Fenomeno e simulacro, allora, si contrappongono e si oppongono come autenticità e simulazione, ma forse, in assenza di copia o in assenza di modello, autenticità e simulazione sono lo stesso. Chi simula e chi dice il vero se il mondo vero ed il mondo apparente non sono che un unico mondo? Pensiamo ai titoli delle opere che stiamo esaminando: Identità e differenza, da un lato, Differenza e ripetizione, dall'altro. I due titoli hanno in comune la parola "differenza" ed in entrambi i testi differenza è rapporto di pensiero ed essere, un pensiero che, anche per Deleuze, è tutt'altro dalla rappresentazione di un oggetto da parte di un soggetto, come l'essere non è l'ente. In Identità e differenza, però, il luogo originario della differenza è l'autó, il luogo dell' autenticità (autó in greco significa "proprio" ed è l'eigen tedesco, a cui va riportato il termine Ereignis), il luogo dell'alétheia, della Lichtung, dell'evento della reciproca transpropriazione di uomo ed essere, sì che possiamo legittimamente affermare che per Heidegger identità è differenza contro la metafisica attribuzione dell'identità alla differenza. In Differenza e ripetizione, invece, il luogo della differenza è la ripetizione, sì che possiamo dire, contro la concezione di una ripetizione come indifferenza, che ripetizione è differenza. Si tratta di due prospettive opposte? Forse, ma l'opposto e lo stesso hanno fra loro una segreta complicità, quella complicità che si chiama complementarità. L'identità di Heidegger è il darsi della differenza, il suo mantenersi, la ripetizione di Deleuzeè il ritornare del differente: ciò che si ripete non è lo Stesso, ma il differente.

La ripetizione indifferente

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È chiaro che identità non è uguaglianza ( = scomparsa della differenza = riduzione dell'essere al pensare o del pensare all'essere), ma è chiaro che anche la ripetizione non va confusa con la generalità, con il ripetersi della stessa cosa, o di tante cose che sono le stesse e che tra loro si differenziano solo numericamente. Se l'uguaglianza, in quanto ansia di togliere le differenze, frutto di un'istanza morale che vuol mettere ordine, è un tradimento del senso proprio dell'identità, anche la ripetizione, intesa come ripetizione dello Stesso (genitivo oggettivo non soggettivo), non è vera ripetizione ma ossessione dell'uguale. Due esempi illustrano bene questo aspetto:

È proprio noioso infilarsi sempre prima la camicia e poi i calzoni e di sera trascinarsi a letto e di mattina strisciarne fuori di nuovo e mettere sempre un piede davanti all'altro; e non c'è assolutamente nessuna prospettiva che tutto ciò possa cambiare. Molto, molto triste, e che milioni l'hanno già fatto e che milioni lo faranno e che noi oltretutto consistiamo di due metà, che fanno tutte e due la stessa cosa, così che tutto accade due volte ... (Il Danton di Büchner, in DR, p. 10-11)

La poesia di Baudelaire "Les sept vieillards": il poeta, durante il suo vagare per le vie di Parigi, vede farsi incontro un vecchio cencioso, lo descrive minuziosamente, ma il vecchio non è solo:

... . Lo seguiva uno simile a lui, diverso in nulla: occhio, barba, schiena, bastone, cenci, uscito fuor da uno stesso inferno, centenario gemello, e questi strani spettri andavano con egual passo ad una meta ignota. In che infame complotto ero incappato, che maligna avventura m'umiliava? Perché contai, minuto per minuto, per sette volte quel sinistro vecchio che si moltiplicava! ... .......................................................... ... al corteo infernale volsi le spalle. Esasperato come un ebbro che vede doppio, tornai a casa, chiusi la porta, spaventato. Intirizzito e affranto, con lo spirito percorso da una febbre e agitato, dal mistero e dall'assurdità ferito! Invano del timone voleva impossessarsi la ragione; sviava ogni suo sforzo la tempesta coi suoi raggiri, e l'anima mia, vecchia barca, ballava ballava senza antenna né albero su un mare mostruoso e privo di confini!

È la ripetizione senza differenza (tranne la differenza numerica), è la ripetizione indifferente. In Deleuze, invece, il simulacro, quell'immagine diabolica e perversa che Platone vuol bandire, è la ripetizione senza identità, è la ripetizione del differente. Su tale problema è necessario tornare e riflettere a lungo. Prima, tuttavia, va chiarito il tema del simulacro, del suo status ontologico e della motivazione etica della sua esclusione.

La critica platonica al simulacro: condanna morale della ripetizione senza identità

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Fin dalla Prefazione di Differenza e ripetizione Deleuze colloca il suo pensiero entro una prospettiva filosofica di antihegelismo generalizzato, perché la differenza e la ripetizione hanno preso il posto dell'identità e della negazione. Se identità è uguaglianza, il differente sarà semplicemente ciò che non è uguale. Ma il negativo ha relazione con l'identità (ne è il semplice rovesciamento) non con la differenza. (DR,1) Il pensiero moderno nasce dal fallimento della rappresentazione e del suo mondo, il mondo del modello e delle copie; il mondo moderno è, in realtà, il mondo dei simulacri. Le identità sono simulate, sono un effetto ottico del gioco

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profondo di differenza e ripetizione (in DR Deleuze contrappone ancora uno strato profondo ad un piano superficiale, ciò non avverrà più in Logica del senso, dove il senso è un evento di superficie). (DR,1)

Noi vogliamo pensare la differenza in sé, e il rapporto del differente col differente, indipendentemente dalle forme della rappresentazione che li riconducono allo Stesso e li fanno passare per il negativo. (DR,2)

Ciò che importa del simulacro, ciò che lo rende irriscattabile, irredimibile, ciò che fa di un simulacro un simulacro non è il fatto di essere una copia. Platone, lo sappiamo, filosofa anche per salvare le copie dal nulla ontologico a cui l'eleatismo le aveva ridotte. Non è una determinazione ontologica che caratterizza il simulacro, ma una determinazione etico-eversiva. Il simulacro è ciò che rovescia i modelli, è ciò che mette in discussione l'idea stessa di origine e di modello. Già nel 1961 nella rivista Etudes philosophiques Deleuze aveva affrontato il tema del simulacro in un articolo dal titolo Lucrezio e il simulacro, ripreso in appendice a Logica del senso (1969) con il titolo Simulacro e filosofia antica (p.223-246). La prima parte del saggio è dedicata a Platone. Anche in Differenza e ripetizione il tema viene trattato, a testimonianza della sua centralità nel pensiero del filosofo francese (p.82-94). Si è soliti pensare al platonismo come a quel sistema di pensiero che ruota attorno ad una fondamentale distinzione, quella fra l'idea e la cosa sensibile, fra l'originale e l'immagine, il modello e la copia. Il modello gode di un'identità originaria superiore (solo l'idea non è altro che ciò che è), mentre la copia viene giudicata in base ad una sua somiglianza con il modello. La differenza viene dopo, è un qualcosa di derivato, può essere pensata solo dopo l'identità e la somiglianza e solo attraverso di esse. Vi è, tuttavia, un senso più profondo nel platonismo: la distinzione fra mondo delle idee e mondo sensibile copre una distinzione molto più importante, la vera distinzione platonica, quella che non sta fra l'originale e l'immagine, ma fra due specie di immagini (eídola) delle quali una, eikón, è la copia vera e propria, l'altra, phántasma, è una copia bastarda, un simulacro. La distinzione modello-copia, secondo Deleuze, è posta proprio per fondare la distinzione copia-simulacro. La copia è giustificata, selezionata, in nome dell'identità del modello e attraverso la sua somiglianza col modello ideale. La nozione di modello non ha tanto lo scopo di opporsi a quella di immagine (l'idea è fondamento della cosa, non sua antagonista), quanto quello di selezionare le immagini buone (le icone) e smascherare le immagini cattive (i simulacri). Tutto il platonismo è basato sulla volontà di scacciare i fantasmi o simulacri, che hanno un potente riferimento simbolico, il sofista, colui che simula e inganna, colui che finge di sapere, mentre in realtà nulla sa. Platone non cerca l'essenza delle cose, non si chiede cos'è una cosa. Egli cerca la cosa autentica per separarla e distinguerla dalla cosa falsa. La metafisica prima che ad un'istanza ontologica obbedisce ad un'istanza etica: ecco perché rovesciare il platonismo non significa semplicemente proporre una diversa immagine del pensiero, ma mettere in discussione il pensiero stesso nel suo essere immagine del mondo. Aristotele parte dall'identità generica ed in essa cerca la differenza specifica, Platone, invece, vuole l' identità in sé, per poter isolare ed eliminare la differenza in sé. Aristotele fonda il mondo della rappresentazione e si serve, per questo, di concetti già, per così dire, "addomesticati", il suo problema è fare ordine, offrire un'immagine coerente e fondata del mondo, opera in un territorio in cui il pensiero ha già sconfitto l'altro da sé (il terreno del pensiero categoriale), Platone, invece, sfida direttamente l'altro dal pensiero, deve istituire l'identità e fare la differenza, differenza assoluta, con l'altro. (DR,84-85) DR,91: Il rovesciamento del platonismo significa la negazione del primato dell'originale sulla copia, la negazione che l'origine sia il senso delle cose, sia il fondamento a cui le cose devono riferirsi per essere ciò che sono.

Chi è? Non che cos'è? Occorre cercare l'autentico, l'oro puro. Anziché suddividere, selezionare e seguire il filone buono, occorre cercare fra i pretendenti senza distribuirli secondo le loro proprietà catastali; sottoporli alla prova dell'arco che li eliminerà tutti, salvo uno (e precisamente il senza nome, il nomade). Ora, come distinguere fra tutti questi falsi (simulatori, sedicenti) e il vero (il non mescolato, il puro)? Non scoprendo una legge del vero o del falso (qui la verità non si oppone all'errore, ma alla falsa apparenza), ma guardando al di sopra di tutti questi il modello: talmente puro che la purezza del puro gli somiglia, l'avvicina e può misurarsi con esso; e esistendo a tal punto che la vanità simulatrice del falso si troverà, di colpo, decaduta come non essere. All'apparire di Ulisse, eterno marito, i pretendenti si dileguano. Exeunt i simulacri. (M.Foucault Theatrum Philosophicum, in DR,VIII, ed. Il Mulino)

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Con Platone si decide filosoficamente di sottomettere la differenza alle potenze dello Stesso e del Simile, poste come iniziali, di dichiarare la differenza impensabile in sé, mero simulacro senza modello. La vera logica della rappresentazione si stabilirà con Aristotele, il quale, negli Analitici e nei Topici, critica la teoria delle idee platonica, mostrando, acutamente, come l'idea sia inadeguata a proporsi nelle vesti di universale (l'universale è ciò che è comune ai molti, l'idea platonica, invece, è individuale in senso eminente). Ma lo scopo di Platone, prima che ontologico, è morale. Il simulacro va esorcizzato per ragioni morali e con esso la differenza che si pretende tale.

Il simulacro o fantasma non è semplicemente la copia di una copia, una somiglianza infinitamente vaga, un'icona degradata. Il catechismo, così ispirato dei Padri Platonici, ci ha reso familiare l'idea di un'immagine senza somiglianza: l'uomo è a immagine e a somiglianza di Dio, ma a causa del peccato abbiamo perduto la somiglianza pur conservando l'immagine ... Il simulacro è per l'appunto un'immagine demoniaca, privo di somiglianza; o piuttosto, diversamente dall'icona, ha posto la somiglianza all'esterno, e vive di differenza. (DR,165-166)

Il simulacro, prima che falso, è pericoloso. La sua caratteristica è quella dell'ingiustificata vigenza (valere in assenza del modello), dell'illegittima pretesa. Forse il suo modo d'essere non è neppure la pura negazione del modello, la semplice destituzione dell'identità. Il ruolo del simulacro è ancora più pericoloso: destituisce il modello dello Stesso ed instaura il modello dell'Altro, facendo sprofondare il modello stesso nella differenza. Prima dell'identità, che ripartisce al proprio interno le differenze e distribuisce le ripetizioni, era un universo di differenze senza identità e di ripetizioni senza origine. L'idea nasce da un'esigenza d'ordine (escludere i simulacri) ed ha un fondamento assegnato (l'idea del Bene a cui tutte le idee possono essere ricondotte), le differenziazioni che le idee offrono, una volta istituite, sono rappresentative, cioè sono differenze interne all'identità e governate da essa. Non ricorrendo ad un sistema di categorie, Platone fonda l'identità su una base costitutivamente morale, il Bene. Le differenze che non obbediscono alla gerarchia dell'identità che dal Bene va all'apparente differenziazione dell'idea, vengono respinte come cattive, false, eversive. I simulacri possono dare origine ad una serie autonoma, indipendente dal loro rapporto col vero essere (l'idea): questa è l'origine del sospetto platonico nei confronti dell'arte e della scrittura stessa. Ricordiamo la polemica contro la scrittura nel Fedro (mito di Theuth): l'arte che il dio Theuth offre a Thamus viene da quest'ultimo rifiutata perché lo scritto, oltre a non essere un mezzo per ricordare, offre solo una conoscenza apparente, affidata com'è all' esteriorità del segno e non all'interiorità dell'anima ed alla sua memoria. Il testo scritto è come la figura dipinta, è muto, non è in grado di rispondere alle domande che gli si rivolgono, per questo, cadendo nelle mani di tutti, anche degli incompetenti, si presta ad ogni manipolazione. La scrittura è un gioco fatuo, come il giardino di Adone (serra), consistente nel seminare in recipienti artificiali semi che in pochi giorni nascono, senza dare, però, alcun frutto. La fine del Sofista rappresenta la possibilità del trionfo dei simulacri, poiché Socrate si distingue dal sofista, ma il sofista non si distingue da Socrate e mette in dubbio la legittimità di tale distinzione. Il simulacro si impadronisce dell'originale e lo rende indistinguibile dalla copia.(v. DR, 167) Platone, allora, non ha raddoppiato il reale, ma l'ha ridotto. Il suo scopo è quello di bloccare i simulacri, pretendenti abusivi del reale, ripetizioni senza origine, cioè differenze irriducibili all'identità. La differenza fra origine e originato, istituita da un'istanza morale, non è logicamente fondata, ma è solo fattuale. Per questo mette in campo significativamente il "mito". E il mito fondatore assume le caratteristiche della prova, di un compito da assolvere, di un enigma da risolvere, una prova che guida e legittima la divisione (la diaíresis come metodo dialettico). Solo il mito autorizza la divisione a fare la differenza, a non essere mera distribuzione ma vera fondazione.

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ROVESCIARE IL PLATONISMO.IL SIMULACRO

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Sommario

Nietzsche. Morte di Dio: il mondo vero diventa favola Heidegger e Deleuze: fenomeno (autenticità) versus simulacro (simulazione) La ripetizione indifferente La critica platonica al simulacro: condanna morale della ripetizione senza identità

Nietzsche. Morte di Dio: il mondo vero diventa favola.

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Il tema del pensiero di Gilles Deleuze è il molteplice. Detto così può sembrare che non ci sia nulla di nuovo: da sempre la filosofia si pone il problema di comprendere la molteplicità del reale, di comprendere il mondo nella varietà dei suoi aspetti e dare ad essi una ragione ed un fondamento. Ma qual è la tradizionale immagine del pensiero? Qual è l'operazione che il pensiero compie quando si dispone a comprendere il mondo? Il termine comprendere è molto significativo: la molteplicità dev'essere, appunto, compresa, deve trovare una sua unità nel concetto, le differenze devono ricomporsi nell'identità del fondamento. Abbiamo già visto come questo stia alla base del divorzio fra realtà ed apparenza, fra mondo vero e mondo delle ombre, fra una realtà sostanziale ed una realtà accidentale, fra noumeno e fenomeno, e così via. Potremmo enumerare tutti i dualismi che percorrono la storia della filosofia. È Nietzsche che sottopone ad una critica genealogica i concetti opposti e complementari di mondo vero e di mondo apparente, mettendo in evidenza l'istanza morale che sta alla base di tale dualismo metafisico: da un lato, vi è la negazione sistematica del divenire, del molteplice, del mondo e della sua ricchezza fenomenica, negazione accompagnata dalla condanna morale di ciò che muta, dall'altro vi è un'arbitraria e surrettizia attribuzione di realtà a ciò che è identico, eterno, uno, ideale, l'apologia e la valorizzazione di tutto ciò che è posto al di sopra della dimensione mondana. Con l'annuncio della morte di Dio e del conseguente estinguersi di tutti i valori Nietzsche pone drasticamente fine a questo dualismo. Il mondo vero diventa favola e, con esso, viene meno anche il mondo delle apparenze. L'annuncio della morte di Dio è la destituzione del modello, del fondamento, dell'originale a cui il mondo si riferiva per legittimarsi. Senza il modello il mondo diventa un'immagine priva di identità, diventa simulacro. L'istanza morale, l'intenzione di mera valorizzazione che guida tutta l'impresa metafisica viene svelata, smascherata. La riduzione dell'essere al valore, il nichilismo di cui è preda il pensiero occidentale, rappresenta, secondo Heidegger, il punto culminante della metafisica, il suo stesso compimento e Nietzsche sarebbe l'ultimo pensatore metafisico. Nietzsche è per Heidegger, essenzialmente, il filosofo della volontà di potenza e la volontà di potenza risolve tutto l'essere in volere, lo riporta, cioè al nulla. Ma questo rivela pienamente l'errore originario su cui si costituisce la metafisica, l'oblio dell'essere a favore degli enti, il divorzio del pensiero dall'essere, e perciò il divorzio del pensiero da se stesso, per rivolgersi alla manipolazione degli enti, per esercitare sul mondo il dominio strumentale della volontà. La volontà di potenza, come riduzione della verità al valore e, quindi, al volere, smaschera i caratteri stessi del volere, togliendo ad esso i vincoli restrittivi entro cui l'aveva mantenuto la tradizione umanistica, di un volere, cioè, sottomesso alla guida di un soggetto autocosciente e ben intenzionato. La sentenza di Nietzsche "Dio è morto", compimento del nichilismo, rappresenta l'ultima parola della metafisica ed è una sentenza apocalittica, nel senso etimologico del termine, che significa rivelazione: rivelando l'oblio dell'essere, rende nuovamente pensabile la differenza fra essere ed ente e con ciò afferma la praticabilità di un pensiero capace di superare nichilismo e soggettivismo.

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Heidegger e Deleuze: fenomeno ( autenticità) versus simulacro (simulazione)

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Il compimento della metafisica ci impone di ripensare la tradizione, di riascoltare le parole originarie per riprenderne il senso. Ma che cosa significa veramente pensare? Qual è il rapporto del pensiero con l'essere? Identità e differenza afferma la co-appartenenza di pensiero ed essere, l'irriducibilità del pensiero all'essere o dell'essere al pensiero, l'inessenzialità di quell'operazione consistente nel cercare con il pensiero un fondamento di quell'essere che la percezione ci presenta molteplice e transeunte, nel riportare l'essere alla ragione, insomma, nel ricercare in esso una ratio, una misura, un qualcosa di costante e di immutabile, di sempre uguale, al di là della selva infinita delle differenze e della molteplicità. Pensare è, invece, rapportarsi all'essere, mantenersi nell' ascolto dell'essere e, perciò, mantenersi nella differenza con l' essere. Il pensiero non è una determinazione che si aggiunge all' animale, costituendolo così come specie "uomo": il pensiero è il proprio dell'uomo e l'uomo è solo rapporto con l'essere. Che ne è, a partire da questo pensiero rammemorante (pensiero che ripensa la metafisica come oblio dell'essere), della differenza fra mondo vero e mondo apparente? Che ne è delle cose e del loro senso? Non si ripresenta forse il dualismo metafisico sotto l'inedita maschera della differenza ontologica fra essere ed ente? Ma l'essere di cui parla Heidegger non è il Superente, verità degli enti mondani: l'essere è identico e differente dagli enti. È identico perché non c'è essere al di fuori degli enti, perché l'essere è sempre l'essere degli enti, è differente perché l'essere non è l'ente ma il darsi degli enti, il venire alla presenza dell'ente. Nell'ontologia di Heidegger non ci sono due mondi, il mondo dell'essere e quello dell'ente, un mondo vero e un mondo apparente. La filosofia della differenza è il pensiero della molteplicità e, in quanto tale, è un pensiero affermativo, perché non nega il molteplice ricomprendendolo in una superiore unità, ma lo afferma nel suo essere proprio, afferma la differenza in sé - dirà Deleuze - non la differenza concettuale. È un pensiero che accoglie l'ente nel suo darsi, nel suo essere, nel suo venire alla presenza, senza imporre al mondo gabbie concettuali. Per tale pensiero il fenomeno non è apparenza, mera manifestazione di un reale che si nasconde dietro di esso, né tantomeno è inganno, parvenza. Il fenomeno non manifesta nient'altro che sé, non manifesta altro da sé. A partire da questa acquisizione della filosofia della differenza (l'essere è il manifestarsi dell'ente) veniamo a trovarci in un punto in cui la filosofia della differenza di Heidegger e quella di Deleuze divergono, differiscono l'una dall'altra. E la differenza riguarda proprio l'essere dell'ente, il suo manifestarsi. Il mondo è fenomeno - scrive Heidegger - ripensando profondamente il termine fenomeno secondo quanto scrive nello straordinario § 7 di Essere e tempo. Il mondo è simulacro, affermerà, invece, Deleuze, come vedremo. Il § 7 di Essere e tempo è dedicato all'esplicitazione del metodo fenomenologico della ricerca e qui ritroviamo, nel primo grande testo filosofico di Heidegger (1927), l'affermazione dell'identità di essere e pensiero nello stesso senso in cui viene affermata in Identità e differenza (1955). Ciò che la fenomenologia (parola composta da due termini: phainómenon e lógos) afferma è l'autò, la co-appartenenza di essere e pensiero. Phainómenon (da phaínesthai = manifestarsi) è l'ente nel suo manifestarsi, è l'automanifestantesi, ciò-che-si-manifesta-in-se-stesso-e-da-se-stesso. Il lógos (da léghein = dire, raccogliere) è un lasciar vedere, un lasciar essere ciò che si manifesta. Allora fenomenologia significa, come si legge a pag. 55:

lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso dell'indagine che si autodefinisce fenomenologia. Ma in tal modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: "Verso le cose stesse!"

Il moto "Alle cose stesse!" Heidegger lo deriva dalla fenomenologia di Husserl. Ciò che conta, tuttavia, in questo contesto è che l'identificazione dell'essere con l'apparire, con il venire alla presenza comporta il netto rifiuto della prospettiva metafisica inaugurata da Platone, basata sulla svalutazione dell'apparenza: il venire alla presenza è l'essere dell'ente eppertanto all'apparire, al fenomeno compete la verità nel senso etimologico del termine (alétheia = s-velamento).

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Ma che cosa sono, poi, le cose stesse? Quale identità, quale fondamento hanno? Nello stesso moto "Alle cose stesse!" risuona, non spento, un richiamo all'identità, all'autenticità. Le cose stesse, reclamando per sé e per nient'altro l'autenticità (non c'è nient'altro dietro di loro, infatti), sono, a modo loro, essenze (eíde), sono l'originale, il modello senza la copia. Il moto "Alle cose stesse!" dice: non ci sono copie, ma solo modelli, archetipi. Se è vero che non è lo statuto ontologico in quanto tale del fenomeno ciò che primariamente importa, quanto il fatto che esso mette in crisi il concetto stesso di copia, di realtà apparente dietro la quale ci sarebbe la vera realtà e con ciò mette in crisi anche il pensiero come rappresentazione, resta però innegabile un pathos di autenticità che accompagna l'espressione fenomenologica, quel pathos verso l'originario, l'aurorale che non è mai assente nel filosofare heideggeriano. Ma la morte di Dio, il modello per eccellenza, il fondamento di ogni essere, l'origine per eccellenza, viene a toccare profondamente proprio l'archetipo, il modello in quanto tale, il concetto stesso di origine e di autenticità. La morte di Dio lascia le cose nel loro status di copie, di copie di un modello che non c'è più e che forse non è mai esistito: le cose stesse sono, in realtà, simulacri. Non è l'apparire, il fenomeno che può reclamare i tratti dell' essere, ma è l'essere stesso che si consegna all'apparire ed al divenire. Fenomeno e simulacro, allora, si contrappongono e si oppongono come autenticità e simulazione, ma forse, in assenza di copia o in assenza di modello, autenticità e simulazione sono lo stesso. Chi simula e chi dice il vero se il mondo vero ed il mondo apparente non sono che un unico mondo? Pensiamo ai titoli delle opere che stiamo esaminando: Identità e differenza, da un lato, Differenza e ripetizione, dall'altro. I due titoli hanno in comune la parola "differenza" ed in entrambi i testi differenza è rapporto di pensiero ed essere, un pensiero che, anche per Deleuze, è tutt'altro dalla rappresentazione di un oggetto da parte di un soggetto, come l'essere non è l'ente. In Identità e differenza, però, il luogo originario della differenza è l'autó, il luogo dell' autenticità (autó in greco significa "proprio" ed è l'eigen tedesco, a cui va riportato il termine Ereignis), il luogo dell'alétheia, della Lichtung, dell'evento della reciproca transpropriazione di uomo ed essere, sì che possiamo legittimamente affermare che per Heidegger identità è differenza contro la metafisica attribuzione dell'identità alla differenza. In Differenza e ripetizione, invece, il luogo della differenza è la ripetizione, sì che possiamo dire, contro la concezione di una ripetizione come indifferenza, che ripetizione è differenza. Si tratta di due prospettive opposte? Forse, ma l'opposto e lo stesso hanno fra loro una segreta complicità, quella complicità che si chiama complementarità. L'identità di Heidegger è il darsi della differenza, il suo mantenersi, la ripetizione di Deleuzeè il ritornare del differente: ciò che si ripete non è lo Stesso, ma il differente.

La ripetizione indifferente

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È chiaro che identità non è uguaglianza ( = scomparsa della differenza = riduzione dell'essere al pensare o del pensare all'essere), ma è chiaro che anche la ripetizione non va confusa con la generalità, con il ripetersi della stessa cosa, o di tante cose che sono le stesse e che tra loro si differenziano solo numericamente. Se l'uguaglianza, in quanto ansia di togliere le differenze, frutto di un'istanza morale che vuol mettere ordine, è un tradimento del senso proprio dell'identità, anche la ripetizione, intesa come ripetizione dello Stesso (genitivo oggettivo non soggettivo), non è vera ripetizione ma ossessione dell'uguale. Due esempi illustrano bene questo aspetto:

È proprio noioso infilarsi sempre prima la camicia e poi i calzoni e di sera trascinarsi a letto e di mattina strisciarne fuori di nuovo e mettere sempre un piede davanti all'altro; e non c'è assolutamente nessuna prospettiva che tutto ciò possa cambiare. Molto, molto triste, e che milioni l'hanno già fatto e che milioni lo faranno e che noi oltretutto consistiamo di due metà, che fanno tutte e due la stessa cosa, così che tutto accade due volte ... (Il Danton di Büchner, in DR, p. 10-11)

La poesia di Baudelaire "Les sept vieillards": il poeta, durante il suo vagare per le vie di Parigi, vede farsi incontro un vecchio cencioso, lo descrive minuziosamente, ma il vecchio non è solo:

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... . Lo seguiva uno simile a lui, diverso in nulla: occhio, barba, schiena, bastone, cenci, uscito fuor da uno stesso inferno, centenario gemello, e questi strani spettri andavano con egual passo ad una meta ignota. In che infame complotto ero incappato, che maligna avventura m'umiliava? Perché contai, minuto per minuto, per sette volte quel sinistro vecchio che si moltiplicava! ... .......................................................... ... al corteo infernale volsi le spalle. Esasperato come un ebbro che vede doppio, tornai a casa, chiusi la porta, spaventato. Intirizzito e affranto, con lo spirito percorso da una febbre e agitato, dal mistero e dall'assurdità ferito! Invano del timone voleva impossessarsi la ragione; sviava ogni suo sforzo la tempesta coi suoi raggiri, e l'anima mia, vecchia barca, ballava ballava senza antenna né albero su un mare mostruoso e privo di confini!

È la ripetizione senza differenza (tranne la differenza numerica), è la ripetizione indifferente. In Deleuze, invece, il simulacro, quell'immagine diabolica e perversa che Platone vuol bandire, è la ripetizione senza identità, è la ripetizione del differente. Su tale problema è necessario tornare e riflettere a lungo. Prima, tuttavia, va chiarito il tema del simulacro, del suo status ontologico e della motivazione etica della sua esclusione.

La critica platonica al simulacro: condanna morale della ripetizione senza identità

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Fin dalla Prefazione di Differenza e ripetizione Deleuze colloca il suo pensiero entro una prospettiva filosofica di antihegelismo generalizzato, perché la differenza e la ripetizione hanno preso il posto dell'identità e della negazione. Se identità è uguaglianza, il differente sarà semplicemente ciò che non è uguale. Ma il negativo ha relazione con l'identità (ne è il semplice rovesciamento) non con la differenza. (DR,1) Il pensiero moderno nasce dal fallimento della rappresentazione e del suo mondo, il mondo del modello e delle copie; il mondo moderno è, in realtà, il mondo dei simulacri. Le identità sono simulate, sono un effetto ottico del gioco profondo di differenza e ripetizione (in DR Deleuze contrappone ancora uno strato profondo ad un piano superficiale, ciò non avverrà più in Logica del senso, dove il senso è un evento di superficie). (DR,1)

Noi vogliamo pensare la differenza in sé, e il rapporto del differente col differente, indipendentemente dalle forme della rappresentazione che li riconducono allo Stesso e li fanno passare per il negativo. (DR,2)

Ciò che importa del simulacro, ciò che lo rende irriscattabile, irredimibile, ciò che fa di un simulacro un simulacro non è il fatto di essere una copia. Platone, lo sappiamo, filosofa anche per salvare le copie dal nulla ontologico a cui l'eleatismo le aveva ridotte. Non è una determinazione ontologica che caratterizza il simulacro, ma una determinazione etico-eversiva. Il simulacro è ciò che rovescia i modelli, è ciò che mette in discussione l'idea stessa di origine e di modello. Già nel 1961 nella rivista Etudes philosophiques Deleuze aveva affrontato il tema del simulacro in un articolo dal titolo Lucrezio e il simulacro, ripreso in appendice a Logica del senso (1969) con il titolo Simulacro e filosofia antica (p.223-246). La prima parte del saggio è dedicata a Platone. Anche in Differenza e ripetizione il tema viene trattato, a testimonianza della sua centralità nel pensiero del filosofo francese (p.82-94). Si è soliti pensare al platonismo come a quel sistema di pensiero che ruota attorno ad una

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fondamentale distinzione, quella fra l'idea e la cosa sensibile, fra l'originale e l'immagine, il modello e la copia. Il modello gode di un'identità originaria superiore (solo l'idea non è altro che ciò che è), mentre la copia viene giudicata in base ad una sua somiglianza con il modello. La differenza viene dopo, è un qualcosa di derivato, può essere pensata solo dopo l'identità e la somiglianza e solo attraverso di esse. Vi è, tuttavia, un senso più profondo nel platonismo: la distinzione fra mondo delle idee e mondo sensibile copre una distinzione molto più importante, la vera distinzione platonica, quella che non sta fra l'originale e l'immagine, ma fra due specie di immagini (eídola) delle quali una, eikón, è la copia vera e propria, l'altra, phántasma, è una copia bastarda, un simulacro. La distinzione modello-copia, secondo Deleuze, è posta proprio per fondare la distinzione copia-simulacro. La copia è giustificata, selezionata, in nome dell'identità del modello e attraverso la sua somiglianza col modello ideale. La nozione di modello non ha tanto lo scopo di opporsi a quella di immagine (l'idea è fondamento della cosa, non sua antagonista), quanto quello di selezionare le immagini buone (le icone) e smascherare le immagini cattive (i simulacri). Tutto il platonismo è basato sulla volontà di scacciare i fantasmi o simulacri, che hanno un potente riferimento simbolico, il sofista, colui che simula e inganna, colui che finge di sapere, mentre in realtà nulla sa. Platone non cerca l'essenza delle cose, non si chiede cos'è una cosa. Egli cerca la cosa autentica per separarla e distinguerla dalla cosa falsa. La metafisica prima che ad un'istanza ontologica obbedisce ad un'istanza etica: ecco perché rovesciare il platonismo non significa semplicemente proporre una diversa immagine del pensiero, ma mettere in discussione il pensiero stesso nel suo essere immagine del mondo. Aristotele parte dall'identità generica ed in essa cerca la differenza specifica, Platone, invece, vuole l' identità in sé, per poter isolare ed eliminare la differenza in sé. Aristotele fonda il mondo della rappresentazione e si serve, per questo, di concetti già, per così dire, "addomesticati", il suo problema è fare ordine, offrire un'immagine coerente e fondata del mondo, opera in un territorio in cui il pensiero ha già sconfitto l'altro da sé (il terreno del pensiero categoriale), Platone, invece, sfida direttamente l'altro dal pensiero, deve istituire l'identità e fare la differenza, differenza assoluta, con l'altro. (DR,84-85) DR,91: Il rovesciamento del platonismo significa la negazione del primato dell'originale sulla copia, la negazione che l'origine sia il senso delle cose, sia il fondamento a cui le cose devono riferirsi per essere ciò che sono.

Chi è? Non che cos'è? Occorre cercare l'autentico, l'oro puro. Anziché suddividere, selezionare e seguire il filone buono, occorre cercare fra i pretendenti senza distribuirli secondo le loro proprietà catastali; sottoporli alla prova dell'arco che li eliminerà tutti, salvo uno (e precisamente il senza nome, il nomade). Ora, come distinguere fra tutti questi falsi (simulatori, sedicenti) e il vero (il non mescolato, il puro)? Non scoprendo una legge del vero o del falso (qui la verità non si oppone all'errore, ma alla falsa apparenza), ma guardando al di sopra di tutti questi il modello: talmente puro che la purezza del puro gli somiglia, l'avvicina e può misurarsi con esso; e esistendo a tal punto che la vanità simulatrice del falso si troverà, di colpo, decaduta come non essere. All'apparire di Ulisse, eterno marito, i pretendenti si dileguano. Exeunt i simulacri. (M.Foucault Theatrum Philosophicum, in DR,VIII, ed. Il Mulino)

Con Platone si decide filosoficamente di sottomettere la differenza alle potenze dello Stesso e del Simile, poste come iniziali, di dichiarare la differenza impensabile in sé, mero simulacro senza modello. La vera logica della rappresentazione si stabilirà con Aristotele, il quale, negli Analitici e nei Topici, critica la teoria delle idee platonica, mostrando, acutamente, come l'idea sia inadeguata a proporsi nelle vesti di universale (l'universale è ciò che è comune ai molti, l'idea platonica, invece, è individuale in senso eminente). Ma lo scopo di Platone, prima che ontologico, è morale. Il simulacro va esorcizzato per ragioni morali e con esso la differenza che si pretende tale.

Il simulacro o fantasma non è semplicemente la copia di una copia, una somiglianza infinitamente vaga, un'icona degradata. Il catechismo, così ispirato dei Padri Platonici, ci ha reso familiare l'idea di un'immagine senza somiglianza: l'uomo è a immagine e a somiglianza di Dio, ma a causa del peccato abbiamo perduto la somiglianza pur conservando l'immagine ... Il simulacro è per l'appunto un'immagine demoniaca, privo di somiglianza; o piuttosto, diversamente dall'icona, ha posto la somiglianza all'esterno, e vive di differenza. (DR,165-166)

Il simulacro, prima che falso, è pericoloso. La sua caratteristica è quella dell'ingiustificata vigenza (valere in assenza del modello), dell'illegittima pretesa. Forse il suo modo d'essere non è neppure la pura negazione del modello, la

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semplice destituzione dell'identità. Il ruolo del simulacro è ancora più pericoloso: destituisce il modello dello Stesso ed instaura il modello dell'Altro, facendo sprofondare il modello stesso nella differenza. Prima dell'identità, che ripartisce al proprio interno le differenze e distribuisce le ripetizioni, era un universo di differenze senza identità e di ripetizioni senza origine. L'idea nasce da un'esigenza d'ordine (escludere i simulacri) ed ha un fondamento assegnato (l'idea del Bene a cui tutte le idee possono essere ricondotte), le differenziazioni che le idee offrono, una volta istituite, sono rappresentative, cioè sono differenze interne all'identità e governate da essa. Non ricorrendo ad un sistema di categorie, Platone fonda l'identità su una base costitutivamente morale, il Bene. Le differenze che non obbediscono alla gerarchia dell'identità che dal Bene va all'apparente differenziazione dell'idea, vengono respinte come cattive, false, eversive. I simulacri possono dare origine ad una serie autonoma, indipendente dal loro rapporto col vero essere (l'idea): questa è l'origine del sospetto platonico nei confronti dell'arte e della scrittura stessa. Ricordiamo la polemica contro la scrittura nel Fedro (mito di Theuth): l'arte che il dio Theuth offre a Thamus viene da quest'ultimo rifiutata perché lo scritto, oltre a non essere un mezzo per ricordare, offre solo una conoscenza apparente, affidata com'è all' esteriorità del segno e non all'interiorità dell'anima ed alla sua memoria. Il testo scritto è come la figura dipinta, è muto, non è in grado di rispondere alle domande che gli si rivolgono, per questo, cadendo nelle mani di tutti, anche degli incompetenti, si presta ad ogni manipolazione. La scrittura è un gioco fatuo, come il giardino di Adone (serra), consistente nel seminare in recipienti artificiali semi che in pochi giorni nascono, senza dare, però, alcun frutto. La fine del Sofista rappresenta la possibilità del trionfo dei simulacri, poiché Socrate si distingue dal sofista, ma il sofista non si distingue da Socrate e mette in dubbio la legittimità di tale distinzione. Il simulacro si impadronisce dell'originale e lo rende indistinguibile dalla copia.(v. DR, 167) Platone, allora, non ha raddoppiato il reale, ma l'ha ridotto. Il suo scopo è quello di bloccare i simulacri, pretendenti abusivi del reale, ripetizioni senza origine, cioè differenze irriducibili all'identità. La differenza fra origine e originato, istituita da un'istanza morale, non è logicamente fondata, ma è solo fattuale. Per questo mette in campo significativamente il "mito". E il mito fondatore assume le caratteristiche della prova, di un compito da assolvere, di un enigma da risolvere, una prova che guida e legittima la divisione (la diaíresis come metodo dialettico). Solo il mito autorizza la divisione a fare la differenza, a non essere mera distribuzione ma vera fondazione.

I.8

GIGANTOMACHIA ONTOLOGICA.

ANALOGIA VERSUS UNIVOCITÀTorna alla pagina iniziale

Sommario

L'essenziale dell'analogia e dell'univocità I quattro tipi di unità secondo Aristotele Critica del concetto di differenza in Aristotele

o La differenza specifica come differenza perfetta o Il problema teorico dell' analogia entis : l'essere non può essere un genere o L'essere come quasi-identità

Le due tesi fondamentali dell'univocità dell'essere o Duns Scoto e la neutralizzazione dell'essere univoco o Spinoza: sostanza, attributi, modi. Una filosofia dell'espressione o Nietzsche: l'Eterno Ritorno e l'autentico significato della ripetizione

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Page 44: Seminario Su Differenza e Ripetizione

 

L'essenziale dell'analogia e dell'identità

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Nella precedente relazione abbiamo analizzato le pagine 43/45 di Differenza e ripetizione, dove Deleuze contrappone due concetti della differenza, quello secondo il quale la differenza è intermedia fra due stati dell'indifferenziato (l'indeterminato ed il caotico), concetto proprio dell'impostazione analogica, e quello secondo il quale la differenza è il solo estremo, è, cioè, una differenza senza identità. Ora dobbiamo entrare nello specifico della posizione teorica di Deleuze, per comprendere secondo concetti filosofici per quanto possibile rigorosi non solo in che modo il suo concetto di differenza si distingua da quello metafisico, ma anche come riesca a sfuggire, pur affermando l'univocità dell'essere, all'esito paradossale della posizione parmenidea. In sostanza cercheremo di comprendere il senso di due affermazioni che Deleuze fa circa l'analogia e l'univocità dell'essere. In esse il filosofo francese cerca di determinare l'essenziale di queste due posizioni ontologiche.  

L'essenziale dell'analogia si fonda su una certa complicità (nonostante la differenza di natura) tra le differenze generiche e specifiche: l'essere non può essere posto come un genere comune senza distruggere la ragione per la quale lo si pone così, vale a dire la possibilità di essere per le differenze specifiche. ... Pertanto è inevitabile che l'analogia entri in una difficoltà senza uscita: nello stesso tempo, essa deve essenzialmente riferire l'essere a esistenti particolari, ma non può dire cosa costituisca la loro individualità. Infatti non considerando nel particolare se non ciò che è conforme al generale (forma e materia), essa cerca il principio di individuazione in questo o quell'elemento degli individui già costituiti. Al contrario, quando diciamo che l'essere univoco si riferisce essenzialmente ed immediatamente a fattori individuanti, non intendiamo individui costituiti nell'esperienza, ma ciò che opera in loro come principio trascendentale, principio plastico, anarchico e nomade. (DR, 56)

L'essenziale dell'univocità non è che l'Essere si dica in un solo e stesso senso, ma che si dica, in un solo e stesso senso, di tutte le sue differenze individuanti o modalità intrinseche. L'Essere è lo stesso per tutte queste modalità, ma queste modalità non sono le stesse, è "uguale" per tutte, ma esse non sono uguali, si dice in un solo senso di tutte, ma esse non hanno lo stesso senso. È proprio dell'essenza dell'essere univoco riferirsi a differenze individuanti, ma queste differenze non hanno la stessa essenza, e non variano l'essenza dell'essere - come il bianco si riferisce a intensità diverse, ma resta essenzialmente lo stesso bianco. Non ci sono due "vie", come si era creduto nel poema di Parmenide, ma una sola "voce" dell'essere che si riferisce a tutti i suoi modi, i più diversi, i più vari, i più differenziati. L'essere si dice in un solo e stesso senso di tutto ciò di cui si dice, ma ciò di cui si dice differisce: si dice della differenza stessa. (DR, 53)

Mentre l'analogia entis è guidata dalla differenza specifica, a partire dalla quale costruisce tutto il suo impianto teorico, che si risolve nell'affermazione della realtà dell'essere, della sua trascendenza rispetto ai generi, della realtà delle differenze (generiche, specifiche ed individuali) in quanto inscritte in un'identità presupposta e nell'affermazione della singolarità in quanto cosa determinata, l'univocità deleuziana basa il suo edificio teorico sulla differenza individuante, a partire dalla quale il filosofo nega il carattere ontico dell'essere (l'essere non è qualcosa di reale), ne afferma l'immanenza nelle differenze, nega anche che le differenze siano ed afferma la singolarità in quanto differenziante della differenza, cioè come singolarità qualunque, come singolarità senza identità.

I quattro tipi di unità secondo Aristotele

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Prima di procedere all'analisi di questo problema ricordiamo i quattro tipi di unità (ma anche di identità) che incontriamo nella Metafisica di Aristotele:  

1. Unità generica: è di tipo collettivo; le specie vi sono incluse. È divisibile, cioè dà luogo ad una molteplicità le cui determinazioni ricadono sotto lo stesso genere. Le parti in cui l'unità generica si divide sono le specie.

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Universale astratto. Es. il genere animale si divide in determinazioni (le specie, es. mammiferi, pesci, uccelli, ecc.) che sono ancora animali. La sua unità non è numerica perché le sue parti appartengono ancora al genere.

2. Unità specifica: è di tipo collettivo; gli individui vi appartengono. È divisibile, perché le parti alle quali dà luogo ricadono sotto la stessa specie, ma tali parti, a loro volta, non sono più divisibili. Come il genere, dunque, la specie è un predicato comune, un universale, ma, a differenza del genere, essa dà luogo a determinazioni non ulteriormente divisibili, gli individui, appunto.

3. Unità individuale: è di tipo numerico, cioè non divisibile perché le determinazioni alle quali dà luogo non ricadono sotto lo stesso individuo. La testa, le braccia, i piedi, ecc. (parti di un individuo) non sono a loro volta individui.

4. Unità ontologica: è di tipo distributivo, non collettivo come il genere e la specie. Non è un predicato comune dei generi. Pertanto non è divisibile, anzi non è nemmeno una vera unità, ma una quasi-unità: i generi sono fra loro equivoci e solo analogicamente costituiscono un'unità. È a causa di ciò che ogni cosa è una compositio, un'unione, un sinolo inseparabile e tuttavia composto di parti diverse, la sostanza (o essere in senso proprio) e gli accidenti (essere in senso solo analogico).

Una determinazione è generica se si predica di una specie, cioè di un universale a sua volta divisibile (es. uomo di italiano nella frase l'italiano è uomo), è specifica se si predica di un individuo (es. uomo di Giovanni nella frase Giovanni è un uomo). Osserviamo ora il seguente schema da cui risultano le differenze fra le diverse concezioni ontologiche:  

  Essere Mondo Rapporti

Parmenide L'essere è Le differenze non sono Mera univocità

Gorgia L'essere non è Le differenze sono Mera equivocità

Aristotele L'essere è Le differenze non sono Analogia

Deleuze L'essere non è Le differenze non sono Identità/differenza

Che cos'è la determinazione per Deleuze? Punto preciso in cui il determinato mantiene il suo rapporto essenziale con l'indeterminato, linea rigorosa astratta che trova alimento nel chiaroscuro. (44) Da pag. 45 a pag.61 Deleuze mette a confronto la concezione analogica e quella dell'univocità, cercando di cogliere l'essenziale di entrambe le ontologie. Aristotele, Duns Scoto, Spinoza e Nietzsche sono i filosofi con i quali si intrattiene. Il bersaglio di Deleuze è la differenza specifica, centro focale di tutta la concezione analogica ed in particolare il carattere ontico di questa differenza. Già abbiamo visto come l'analogia rappresenti la soluzione ai problemi posti tanto dall'univocità parmenidea quanto dall'equivocità. Parmenide, in particolare, aveva negato l'essere alle differenze, affermando, nel contempo, che l'essere è identità. La metafisica reagirà a questo esito paralizzante affermando che non solo l'essere ma anche le differenze sono. Tuttavia, il tratto comune di tutte le posizioni finora viste (univocità, equivocità, analogia) è la considerazione dell'essere come predicato. Per Deleuze, invece l'essere non è un predicato: le differenze non sono, l'Essere è differenza.

Critica del concetto di differenza in Aristotele

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Deleuze entra subito in tema sottoponendo ad una serrata critica il concetto di differenza che leggiamo nella Metafisica di Aristotele. La differenza si distingue dalla diversità perché si dà sempre in rapporto a qualcosa di comune: le differenze individuali si danno sulla base di un'identità specifica, le differenze specifiche sulla base di un'identità generica, le differenze generiche sulla base di una quasi-identità ontologica. Ma questi tre tipi di differenze (tutte differenze ontiche, cioè differenze che sono enti) non sono differenze allo stesso modo. Aristotele si chiede quali fra queste rappresenti la differenza più grande e la più perfetta. Porsi questa domanda equivale, per il filosofo greco, a chiedersi quale di queste tre differenze costituisca un'opposizione, dato che l'opposizione è, in effetti, la differenza più grande.

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Tuttavia la domanda dev'essere meglio specificata, perché l'opposizione è un genere che comprende quattro specie: la correlazione, la contrarietà, la privazione e la contraddizione. Senza entrare nei dettagli della teoria aristotelica dell'opposizione, diciamo che solo la contrarietà permette ad un soggetto di ricevere degli opposti rimanendo sostanzialmente lo stesso. La contrarietà, perciò, è la differenza perfetta. Se la differenza perfetta è la contrarietà, dobbiamo ancora distinguere fra due tipi di contrarietà, la contrarietà extra quidditatem, che è di natura accidentale ed estrinseca, separabile (differentia communis) o inseparabile (differentia propria) e la differentia essentialis, di tipo formale, perché tocca l'essenza, il che cos'è del concetto al quale si riferisce. Solo quest'ultima può reclamare lo stato di differenza massima: allora essa è la contrarietà nel genere e tale contrarietà è la differenza specifica.

La differenza specifica come differenza perfetta

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È la specificazione (processo di differenziazione dell'identità), quindi, che gode di uno statuto speciale: né la generazione (produzione di generi), perché i generi non hanno fra loro nulla in comune e sono, pertanto, equivoci, ricavando la reciproca comunanza da un loro riferimento ad un'unità di tipo particolare, né l'individuazione (produzione di individui), perché le differenze individuali sono particolarità accidentali, rappresentano differenziazioni adeguate. Se le differenze generiche sono troppo grandi, le differenze individuali sono troppo piccole. Gli individui sono affetti dalla doppia sinonimia del genere e della specie, in loro, quindi, prevale ciò che è comune, in rapporto al quale differiscono per mere peculiarità. Mentre il genere si definisce in modo molto spesso tautologico e l'individuo è addirittura indefinibile, come scrive Aristotele nel VII libro della Metafisica, solo la specie può essere propriamente definita, grazie alla combinazione ben dosata di identità e differenza (definitio fit per genus proximum et differentia specifica). Dopo aver elencato tutti i caratteri che fanno della differenza specifica la differenza per eccellenza (riguarda l'essenza, quindi è formale ed essenziale e non materiale ed estrinseca, è qualitativa, sintetica, perché si aggiunge in atto al genere che la contiene solo in potenza, è causa formale, ecc.), Deleuze osserva che la differenza specifica è un genere di predicato veramente speciale, dal momento che opera in modo divisivo nei confronti del genere e costitutivo nei confronti della specie. Infine, diversamente dalle altre differenze (affezioni accidentali), che applicandosi ad un genere non ne alterano l'essenza (un animale resta lo stesso animale sia che si muova sia che resti fermo) la differenza specifica aggiungendosi ad un genere lo altera pur mantenendolo uguale, lo fa altro, senza tuttavia sottrarlo, perché la specie, costituita dalla differenza specifica, porta in sé e con sé il genere (la differenza ragionevole, aggiungendosi ad animale, lo fa altro). Tutte queste considerazioni, che pur sono vere, bastano a fare della differenza specifica la più grande delle differenze? Oppure la scelta di Aristotele è guidata da ragioni diverse da quelle di un'oggettiva valutazione? Poniamo diversamente la domanda. Che cos'è che rende la differenza specifica la differenza più grande agli occhi di Aristotele? Il fatto che essa si riferisce ad un'identità presupposta: la differenza specifica è la differenza nel genere, la differenza nel concetto. Se togliamo questo presupposto, questa ipoteca che impone la camicia di forza dell'identità alla differenza, affinché questa possa essere, vediamo che la differenza generica, in realtà, è più grande di quella specifica. Anche la biologia mostra come i generi esibiscano fra loro differenze molto più grandi di quanto facciano le specie. Ma Aristotele non cerca la differenza massima, ma la differenza perfetta. È tanto grande la differenza generica che egli vi vede il pericolo dell'equivocità, dell'assoluta eterogeneità dei generi fra di loro, pericolo al quale non può lasciarli esposti. Non può, tuttavia, nemmeno risolvere le differenze fra i generi allo stesso modo in cui aveva risolto la differenza fra le specie, ricorrendo, cioè, ad un'identità pre-supposta, non può, in altri termini, affermare la genericità dell'essere senza distruggere tutto il complesso ed armonioso edificio della differenziazione finora costruito.

Il problema teorico dell'analogia entis: l'essere non può essere un genere

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L'essere, quindi, non è un genere, non è un concetto comune che raccoglie sotto di sé i vari generi, non è un predicato comune. Ma perché l'essere non può essere un genere, che cosa lo vieta, quali conseguenze avrebbe questo sulla natura delle differenze? Se le differenze fra i generi sono, cioè se le differenze hanno un essere e non sono mera illusione e semplice inganno, come sosteneva Parmenide, allora l'essere non può predicarsi di esse come il genere si predica delle specie; ma le differenze sono, i generi, infatti, sono fra loro differenti, non semplicemente diversi, l'essere, quindi, deve predicarsi di esse in un modo che non può non essere comune. Questo è, in sostanza, il problema teorico dell'analogia entis: evitare l'univocità dell'essere come genere comune e l'equivocità dei generi come alterità assolute. Vediamo separatamente i due problemi. Dal momento che il genere non si attribuisce alle differenze specifiche, se vogliamo salvare le differenze l'essere non può essere un genere. Facciamo l'esempio della specie "uomo", la cui definizione è quella di animale ragionevole: il genus proximum è quello di animale, la differentia specifica è quella di ragionevole. Ora è la ragionevolezza che costituisce la specie uomo all'interno del genere animale e la divide da ogni altra specie dello stesso genere. Ebbene il genere (l'animale) si dice della specie (l'uomo), ma non si dice della differenza specifica (la ragionevolezza). L'uomo è un animale lo possiamo dire, ma la ragionevolezza è un animale non lo possiamo dire. Il fatto che il genere si dica della specie ma non della differenza specifica è ciò che permette alla specie, da un lato, di mantenere il suo riferimento identico al genere, assicura, cioè, alla specie la sua identità, dall'altro, ne garantisce la specificità, il suo essere altra, non solo rispetto al genere, che essa, tuttavia, porta in sé, ma soprattutto rispetto alle specie dello stesso genere. Vediamo ora che cosa succederebbe se l'essere fosse un genere. Se l'essere fosse un genere, le sue specie sarebbero i generi sommi o categorie. Ora, come abbiamo visto prima, il genere si attribuisce alle specie, quindi possiamo dire che le categorie sono, ma non si attribuisce alle differenze specifiche, a ciò che assicura, cioè, la differenza entro il genere. In altri termini, non possiamo dire che le differenze sono, allo stesso modo in cui non potevamo dire che la ragionevolezza è un animale. La genericità dell'essere, quindi, comporta l'insussistenza ontologica delle differenze. Per "salvare i fenomeni", quindi, per affermare la grande ovvietà che le differenze, cioè le cose nella loro molteplicità e particolarità, sono, per non lasciare il mondo in preda alla sinonimia, l'essere non può essere un genere. Questo, tuttavia, non toglie che se l'essere non si può predicare univocamente alle differenze, esso debba per forza essere un predicato omonimo od equivoco, se non può essere identità debba essere alterità. La soluzione è quella dell'analogia entis. Osserviamo, prima, che tutto questo ragionamento, indubbiamente rigoroso, ha un presupposto che è una mera assunzione di principio. Tale presupposto è che le differenze siano e, in particolare, che il modo d'essere della differenza in senso proprio sia quello della differenza specifica, il cui ruolo consiste non tanto nell'affermare la differenza in sé, quanto nell'inscrivere la differenza nell'identità del concetto indeterminato in generale. Che l'identità sia il presupposto della differenza non è solo un modo curioso di considerare la differenza in sé, ma è anche un modo illecito, dal momento che, come abbiamo visto, la differenza specifica non è in grado di rendere conto di tutte le singolarità (le differenze infinitamente grandi o quelle infinitamente piccole le sfuggono), ma solo di quelle singolarità giuste, proporzionate, misurate, sottomesse al lógos delle Specie. È un concetto di differenza molto greco, apollineo, misurato. Se questo è vero, allora il problema dell'essere come predicato (condizione essenziale affinché le differenze siano) non può trovare risoluzione se non obbedendo alla stessa esigenza, concependo, cioè, una qualche forma di identità presupposta anche per i generi. La differenza specifica (iscrizione della differenza nell'identità) guida, per molti aspetti, anche il concetto di differenza generica, assicura anche ai generi un lógos.

L'essere come quasi-identità

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Anche l'essere dev'essere un predicato comune, dev'essere un'identità.

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Del senso analogico dell'essere e del suo essere un riferimento comune di ciò che altrimenti sarebbe meramente disperso ed equivoco abbiamo già parlato. Vediamo ora di precisare meglio il senso di questo speciale predicato comune esibendone le caratteristiche che lo differenziano dal genere. Mentre il genere in rapporto alle proprie specie è collettivo ed astrattivo, l'essere è, in rapporto alle categorie, distributivo e gerarchico. Il modello del genere è quello del concetto, il modello dell'essere è quello del giudizio. Come si forma un genere? Si prendono tutti gli enti che si assomigliano, che hanno, cioè, delle caratteristiche comuni e si raccolgono sotto un unico concetto (carattere collettivo del genere) dopo aver messo tra parentesi ciò che ognuno degli enti ha di peculiare (carattere astrattivo). Il modello dell'analogia, invece, è quello del giudizio. Nella Logica Kant definisce il giudizio:

Un giudizio è la rappresentazione dell'unità della coscienza di rappresentazioni diverse, ossia la rappresentazione del loro rapporto in quanto esse costituiscono un concetto. (l, 93)

Ma, al di là di una definizione filosofica rigorosa, anche il concetto comune di giudizio ci può aiutare. Giudicare significa distinguere e valutare, due funzioni che Deleuze identifica come distribuzione (l'essere viene diviso fra i vari generi), alla quale presiede il senso comune, e come gerarchizzazione (ogni genere viene misurato in base al suo rapporto con l'essere), alla quale presiede il buon senso. L'essere ha un senso comune distributivo, non collettivo. Distribuire significa dividere una risorsa comune: pensiamo alla distribuzione del reddito in economia. Il reddito prodotto viene idealmente raccolto in un unico ammontare per essere poi ridistribuito a tutti i partecipanti della comunità (senso comune) secondo criteri di volta in volta diversi dettati da quello che è il buon senso politico del momento. Questo concetto di predicato comune, se riesce a sfuggire all'univocità generica, ne riproduce, tuttavia, i tratti, perché come scrive Deleuze:

Col proprio senso comune e il proprio senso primo, l'analogia del giudizio lascia sussistere l'identità di un concetto, sia sotto una forma implicita e confusa, sia sotto una forma virtuale. L'analogia è di per sé l'analogo dell'identità nel giudizio. ... Ecco perché non ci si può aspettare dalla differenza generica o categoriale, e tanto meno dalla differenza specifica, che essa ci dia un concetto proprio della differenza. Mentre la differenza specifica si limita a inscrivere la differenza nell'identità del concetto indeterminato in generale, la differenza generica (distributiva e gerarchica) si limita a sua volta a inscrivere la differenza nella quasi-identità dei concetti determinabili più generali, vale a dire nell'analogia del giudizio stesso. (DR, 50-51)

Le due tesi fondamentali dell'univocità dell'essere

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Per cogliere, almeno approssimativamente, il senso dell'univocità dell'essere affermata da Deleuze, dobbiamo prima dotarci di alcuni concetti essenziali ed alquanto complessi, concetti che il filosofo francese ricava da quella tradizione filosofica che possiamo chiamare antimetafisica e che va da Parmenide sino a Heidegger. Nella metafisica non ci sono proposizioni ontologiche, perché in essa si parla dell'essere come qualcosa che è, cioè come un ente; le sue proposizioni, dunque, sono di tipo ontico, soprattutto là dove si pone come tema l'essere in quanto essere, cioè un tema ontologico in senso stretto. Questo perché la metafisica nasce contro l'univocità dell'essere, contro il detto iniziale dell'ontologia che afferma un senso unico dell'essere. In quanto pensatore originario, Parmenide apre il pensiero a tutte le sue possibilità: esti gàr eînai, nella sua solenne tautologia, è la prima affermazione ontologica, in cui è racchiuso sia il destino dell'onticizzazione dell'essere (la metafisica) sia l'appello dell'essere alla sua differenza con l'ente.

C'è sempre stata una sola proposizione ontologica: l'Essere è univoco. E c'è sempre stata una sola ontologia, quella di Duns Scoto, che assegna all'essere una voce unica. Si è fatto il nome di Duns Scoto, poiché egli seppe portare l'essere univoco al più alto grado di sottigliezza, a rischio di cadere nell'astrazione. Ma da Parmenide a Heidegger, è sempre la stessa voce a riproporsi, in un'eco che forma da sola tutto il dispiegarsi dell'univoco. Una sola voce suscita il clamore dell'essere. (DR, 52)

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L'uso del termine "voce" per indicare l'essere è una metafora della quale Deleuze si serve in più punti della sua opera. Pur essendo chiaro il suo derivare dal termine univocitas, essa mantiene, tuttavia, una propria forza semantica che non dobbiamo ignorare. Credo sia giusto, quindi, tenerne conto nel nostro tentativo di comprendere il senso dell'essere secondo Deleuze, senza dimenticare, comunque, che di metafora si tratta. Ma non di una metafora qualunque. Infatti Differenza e ripetizione stessa si chiude proprio riprendendo la metafora della voce per indicare l'essere.

(Solo se si è raggiunto il punto estremo della differenza) è possibile una sola e stessa voce per tutto il multiplo dalle infinite vie, un solo e medesimo Oceano per tutte le gocce,  un solo clamore dell'essere per tutti gli essenti. Ma occorre che per ogni essente, per ogni goccia e in ogni via, si sia toccato lo stato di eccesso, cioè la differenza che li sposta e traveste, e li fa tornare, ruotando sulla sua mobile estremità. (DR, 388)

L'univocità dell'essere si impernia su due tesi fondamentali:  

L'essere, pur univoco, non è indifferenziato, non è né indeterminato (informe) né caotico. Ci sono delle forme dell'essere, ma l'essere di tali forme non è quello ontico, le forme, le differenze non sono qualcosa, perché il qualcosa è già opera della differenza, è il differenziato, mentre la differenza può essere colta propriamente solo come il differenziante. Mentre l'analogia entis, pur negando che l'essere fosse un genere, ne sosteneva la realtà e lo affermava come identità, sostenendo nel contempo la realtà delle categorie in quanto generi, l'univocità afferma, invece, l'esserci delle forme dell'essere, ma queste, a differenza delle categorie o generi, non sono enti differenziati, non comportano, cioè, la divisione dell'essere in regioni, ma sono differenzianti. Tali forme dell'essere sono differenze reali ma non numeriche, cioè il loro senso è diverso (ognuna ha un senso proprio ed irriducibile a quello delle altre) ma non dividono l'essere in una pluralità di sensi. Sono, appunto, forme dell'essere e non enti (sono dunque un ni-ente ontico) perché sono distinte formalmente e non numericamente. Questa prima tesi, dunque, si basa sull'assunto che la differenza reale non è mai una differenza numerica, ma sempre una differenza formale.

L'essere univoco distinto formalmente si dice di una molteplicità di singolarità o differenze individuanti che si ripartiscono nelle forme in modo diverso da come le specie si rapportano ai generi, perché, a differenza di queste ultime, il cui status ontologico (o rapporto con l'essere) è mediato appunto dal genere, cioè dal concetto al quale appartengono, queste singolarità, che sono molteplici, cioè numericamente distinte, si rapportano direttamente all'essere univoco. Come la prima tesi affermava il paradosso metafisico che la differenza reale non è una differenza numerica, così questa tesi si regge su un altro paradosso, speculare al primo, quello che la differenza numerica non è una differenza reale, ma una differenza modale.

Riconosciamo, senza difficoltà, in questa paradossale ontologia la grande concezione di Spinoza di un'unica sostanza formalmente divisa negli attributi (le forme dell'essere) ed individuata nei modi (le singolarità o particolarità della sostanza), alla quale lo stesso Deleuze si richiama esplicitamente.

...gli attributi sono irriducibili a generi o a categorie, perché sono formalmente  distinti, ma tutti uguali e ontologicamente uno, e non introducono alcuna divisione nella sostanza che si esprime o si dice attraverso di loro in un solo e stesso senso (in altri termini la distinzione reale fra attributi è una distinzione formale e non numerica); ... d'altronde i modi sono irriducibili a specie, in quanto si ripartiscono negli attributi secondo differenze individuanti che si esercitano in intensità come gradi di potenza, che li relazionano immediatamente all'essere univoco (in altri termini, la distinzione numerica tra "essenti" è una distinzione modale e non reale). (DR, 387)

Naturalmente Deleuze non è Spinoza, perché l'essere come sostanza, (sia pur divisa in attributi e modi, anziché in generi e specie) rappresenta ancora una pesante ipoteca metafisica. Decisivo sarà, come vedremo, l'apporto di Nietzsche e un certo modo di intendere l'idea. Tuttavia, il filosofo olandese costituisce un punto di riferimento obbligato per entrare nello specifico del pensiero di Deleuze.

Duns Scoto e la neutralizzazione dell'essere univoco

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Prima ancora, tuttavia, è necessario fare riferimento a Duns Scoto, che per primo ha sostenuto, contro il tomismo, l'univocità dell'essere ed ha elaborato i concetti di differenza formale e modale. Tali concetti si trovano nell' Opus Oxoniense, che Deleuze definisce il libro più straordinario dell'ontologia pura.

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Già sappiamo che, per Scoto, l'univocità dell'essere è un'esigenza fondamentale per la conoscenza di Dio: solo se l'essere si dice in un solo senso noi possiamo conoscere anche l'essere di Dio, altrimenti questo rimarrà sempre estraneo e Dio sarà ineffabile ed impensabile, di lui potremo parlare solo per negazioni (teologia apofatica). Ma l'essere univoco non apre solo alla possibilità di conoscere Dio, esso rappresenta anche un pericolo per la visione cristiana, perché implicito vi è il panteismo (se Dio è l'essere in quanto tale e l'essere si dice in un solo e stesso senso, allora tutto è Dio, la stessa molteplicità del mondo è apparente, perché le cose sarebbero aspetti di Dio), si ripropone, cioè, a livello teologico lo stesso paradosso che si era posto a livello ontologico con l'eleatismo: dove tutto era essere, ora tutto è Dio. Per fronteggiare questo pericolo Scoto neutralizza l'essere univoco, lo rende cioè indifferente tanto all'universale quanto al singolare (tanto all'identità quanto alla differenza). Neutralità, tuttavia, non significa indifferenza nel senso in cui abbiamo già considerato questo concetto, cioè indeterminatezza e caos, ma significa non ripugnanza, cioè capacità di assumere, interamente, l'universalità della quidditas o la singolarità dell'haecceitas. L'essere non è fondamento ma, in certa misura, apertura. Ciò che, tuttavia, è importante ai fini del nostro discorso, sono i due tipi di differenza che Scoto elabora, proprio allo scopo di riferire la differenza all'essere neutro. Leggiamo Deleuze:

La distinzione formale è sì una distinzione reale, poiché è fondata nell'essere o nella cosa, ma non è necessariamente una distinzione numerica, poiché si stabilisce tra essenze o sensi, tra "ragioni formali" che possono lasciar sussistere l'unità del soggetto a cui li si attribuisce. Così ... Dio può possedere attributi univoci formalmente distinti senza perdere nulla della sua unità. ...La distinzione  modale si stabilisce tra l'essere o gli attributi da una parte e, dall'altra, le variazioni intensive di cui sono capaci. Tali variazioni, non diversamente dalle gradazioni del bianco, sono modalità individuanti. (DR, 57-58)

Spinoza: sostanza, attributi, modi. Una filosofia dell'espressione

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È con Spinoza che il problema della differenza formale mostra tutta la sua importanza, perché vi è il vero rovesciamento della posizione metafisica:

Gli attributi si comportano realmente come sensi qualitativamente differenti, che si riferiscono alla sostanza come ad un solo e medesimo designato; questa sostanza a sua volta si comporta come un senso ontologicamente uno in rapporto ai modi che la esprimono, e che sono in essa come fattori individuanti o gradi intrinseci intensi. (DR, 58)

Gli attributi e i modi trovano all'inizio dell' Etica la loro definizione: iv. Per attributo intendo ciò che l'intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza. v. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro per mezzo del quale è anche concepito.

(Ethica more geometrico demonstrata)

Secondo Spinoza, gli attributi della sostanza divina sono infiniti e sono espressioni di tale sostanza. Noi, però, ne conosciamo solo due: il pensiero e l'estensione (e qui il filosofo ebreo è figlio dell'epoca cartesiana). Ciascuno di essi è infinito come la sostanza di cui è attributo. I modi, invece, sono gli esseri particolari cioè le determinazioni (e quindi limitazioni) degli attributi. Ad esempio, un corpo è un modo della sostanza in quanto estesa, mentre un pensiero è un modo (una particolarizzazione) della sostanza in quanto pensante. Fra attributi e modi vi è questa differenza: i primi sono la sostanza, i secondi, invece, sono nella sostanza. Ogni attributo è, in quanto tale, coestensivo alla sostanza e perciò deve stare con essa in un rapporto di identità; i modi invece emanerebbero direttamente dalla sostanza entro l'ambito di un attributo, in quanto variazioni intensive di tale attributo. In base a ciò possiamo cominciare ad intendere in che modo la differenza formale è una differenza reale non numerica. Vediamo il problema: La sostanza è una ed è dotata di infiniti attributi. Ora, ognuno di questi attributi ha una definizione propria, irriducibile a quella di ogni altro. Se tali definizioni ritagliassero tante regioni nella sostanza quanti sono gli attributi, allora la sostanza non sarebbe più una ma

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molteplice, se invece fossero mere distinzioni che noi operiamo con la ragione senza alcun fondamento nella cosa allora gli attributi non sarebbero reali. Dall'impasse si può uscire solo intendendo l'attributo non come una forma nella sostanza, ma come una forma della sostanza: la sostanza non è divisa in attributi, ma si esprime negli attributi ed in ogni attributo si esprime interamente. Dio è interamente Dio in quanto onnipotente ed interamente Dio in quanto onnisciente, Dio si esprime come l'onnipotente, come l'onnisciente, come l'infinitamente buono, e così via, ed è sempre lo stesso Dio nelle sue infinite espressioni. La potenza e la bontà, pur essendo realmente diverse, dato che diverse sono le loro definizioni, non dividono la sostanza alla quale si attribuiscono in una regione buona, in un'altra potente e così via. Non solo la differenza fra attributi non divide la sostanza in regioni ontologiche, ma nemmeno la differenza fra sostanza ed attributo divide l'essere in un senso proprio e fondamentale e in un senso improprio e derivato. La sostanza si esprime nell'attributo, l'attributo non manifesta la sostanza come una copia, cioè secondo rappresentazione, ma è la sostanza stessa, la sua stessa espressione. La differenza reale non può che essere formale se non si vuole rompere l'unità della sostanza, unità che non è quella numerica. Ora, se l'unità numerica è l'unità propria del sussistente, dell'essente, è chiaro che l'essere, dotato di unità non numerica non può essere inteso come un sussistente. Se gli attributi sono la sostanza stessa, i modi invece sono le gradazioni intensive degli attributi, cioè della sostanza stessa. Qui il problema è inverso a quello precedente. I modi sono differenze numeriche, cioè individuanti, non formali (riguardano una gradazione dell'essenza, non una sua trasformazione, non riguardano l'essenza in quanto tale), tuttavia non sono reali ma modali. I fattori individuanti sono modalità della sostanza nell'ambito di un attributo. Non possono essere differenze reali perché altrimenti la sostanza verrebbe infinitamente divisa da questi fattori individuanti, ognuno dei quali costituirebbe un atomo sostanziale, ricadendo così nella considerazione del differenziato e non del differenziante. Se è vero che la differenza numerica, nell'ambito del differenziato mette capo sempre ad una differenza reale, cioè ad un sussistente, è chiaro che anche per i modi non si può parlare di enti sussistenti. Spinoza, insomma, e prima di lui Scoto, rompono il nesso fra unità numerica e sussistenza, su cui si basa la differenza reale in senso metafisico, che è la differenza ontica o empirica o differenza fra enti. Sostanza, attributi e modi non sono enti: la sostanza non è l'essere sostanziale di Aristotele, gli attributi non sono i generi onticamente determinati (quindi numericamente e realmente distinti, cioè equivoci), i modi non sono le specie, cioè differenze interne all'identità, il cui rapporto con l'essere, è sempre mediato dal genere, dall'identità a cui devono preliminarmente appartenere. I modi invece sono immediatamente rapportati all'essere univoco. Per questo la posizione dell'univocità apre la considerazione dell'essere alla vera domanda ontologica, cioè all'essere come non-ente (non-determinato), all'essere come differente (il determinante o differenziante).

Nietzsche: l'Eterno Ritorno e l'autentico significato della ripetizione

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È con Nietzsche che l'univocità aperta da Parmenide, pensata da Scoto, affermata da Spinoza, si realizza e questo grazie alla teoria dell'Eterno Ritorno, almeno nel modo in cui la interpreta Deleuze.

Ritornare è dunque la sola identità, ... , l'identità della differenza, l'identico che si dice del differente che gravita attorno al differente. Una siffatta identità, prodotta dalla differenza, si determina come "ripetizione". ... Ritorna solo ciò che è estremo, eccessivo, ciò che passa nell'altro e diviene identico. ... È l'essere-uguale di tutto ciò che è ineguale e che ha saputo realizzare pienamente la propria diseguaglianza. (DR, 59-60)

Ritorna il concetto di ripetizione nel senso in cui ne abbiamo già parlato: ripetere significa porre la differenza,

perché si ripete solo ciò che ha la forza di affermare la propria 51

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differenza e differisce solo ciò che nella differenza ha la forza di ripetersi.

   I.9

L'IDEA COME MOLTEPLICITÀ E VIRTUALITÀTorna alla pagina iniziale

Sommario

Premessa Sull'univocità in Spinoza

o Teoria espressiva dell'essere o Gli attributi o I modi

Lo "strutturalismo" di Deleuze o Il problema del senso nello strutturalismo

Teoria dell'Idea o Il primato ontologico dell'accidentale o Virtualità e attualità: l'influenza di Bergson

Il processo di determinazione

Premessa

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Abbiamo visto i punti essenziali che caratterizzano la concezione aristotelica e, in generale, la concezione analogica dell'essere. L'identità è presupposta ad ogni differenza, l'identità del genere per le differenze specifiche, l'identità della specie per le differenze individuali, la quasi-identità dell'essere per le differenze generiche. A questo si deve aggiungere la divisione dell'essere in due grandi regioni, la regione dell'essere in senso proprio, la sostanza, e la regione dell'essere in senso analogico, gli accidenti. Solo della sostanza, infatti, si può dire che propriamente è. La categoria della sostanza, poi, è la categoria dell'essenza per eccellenza, la categoria per la quale ha principalmente senso chiedere "che cos'è?" Pensiamo invece alla natura dell'accidentale: l'accidente è ciò che determina la sostanza, è il determinante in senso proprio. La sostanza, invece, è l'indeterminato infinitamente determinabile. Se si pone la sostanza come l'essere in senso proprio, cioè come l'essere in sé, i cui caratteri sono l'essenzialità e la sussistenza e si fa dell'accidente l'essere che può solo inerire, l'ens in alio, i cui caratteri sono l'inessenzialità e l'insussistenza, il problema ontologico (la domanda sull'essere e sulla sua prevalenza sul nulla, cioè la domanda sulla determinazione, la domanda sul perché dell'ente) si trasforma dalla domanda sulla determinazione nel senso del determinante, nella domanda sulla determinazione nel senso del determinato. Vien meno, cioè, il senso verbale dell'essere, il determinare, ed emerge il suo senso sostantivo, l'ente in quanto determinato. Il problema ontologico si trasforma nel problema ontico. L'ente, in quanto cosa determinata, è ciò che viene assunto come il primum objectum; ed il suo essere, cioè la sua causa, il suo perché nel senso del fondamento, sarà ancora un ente sussistente, la cui differenza, rispetto alla cosa creata, consisterà nell'avere in sé necessariamente l'esistenza. Accanto a ciò potremo enumerare tutti gli altri problemi che l'ontologia analogica pone, quali il depotenziamento della realtà (copia, immagine e somiglianza dell'ente sommo), il pensiero rappresentativo, e così via. La posizione opposta, quella dell'univocità dell'essere, l'abbiamo vista nella prospettiva di Duns Scoto e Spinoza: l'essere non è più attraversato dalla frattura fra il sostanziale e l'accidentale, né è diviso in generi e specie. Abbiamo, invece, un'unica sostanza che si esprime secondo modalità intrinseche negli

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attributi. L'importanza della concezione univoca, il suo sovvertimento dei concetti metafisici tradizionali riguardanti l'essere dell'ente sono continuamente affermati da Deleuze.

Sull'univocità di Spinoza

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Si tratta ora di vedere il modo in cui l'essere univoco e le sue infinite espressioni trovano esplicita trattazione nel filosofo francese. L'unica sostanza diviene l'Idea, struttura virtuale ed in quanto tale sommamente reale, molteplicità implicata e complicata i cui elementi sono determinati non in sé ma dalle relazioni che reciprocamente intrattengono, ed il cui modo di attualizzarsi consiste nel differenziarsi, cioè nell'esplicazione di relazioni spazio-temporali fra i termini. Prima di affrontare direttamente questo lato del pensiero di Deleuze, per la cui comprensione sarà necessario anche il riferimento ad un altro grande filosofo, Bergson, in particolare per ciò che riguarda la sua teoria della differenza fra il possibile ed il virtuale, è tuttavia necessario che ci soffermiamo ancora sull'univocità spinoziana dell'essere, per mostrare come la sostanza sia un Tutto virtuale, che non esiste se non nei suoi attributi e secondo gradazioni modali.

Teoria espressiva dell'essere

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La filosofia di Spinoza è, agli occhi di Deleuze, la più compiuta formulazione della teoria espressiva dell'essere, teoria che libera il nesso fra le cose e l'essere da ogni esigenza gerarchica e di subordinazione e, in particolare, dalla necessità della somiglianza. L'espressione, a differenza della rappresentazione, cessa di somigliare, le essenze espresse non sono copie della sostanza che si esprime, come, invece, sono le cose rispetto alle idee che esse imitano. Questo significa fare dello spinozismo la prima metafisica realmente capace di uscire in modo radicale dal platoni-smo, grazie ad una dottrina dell'immanenza che costituisce il rovesciamento della trascendenza platonica. In un passo del suo libro Spinoza e la filosofia dell'espressione scrive Deleuze:

In Spinoza tutta la teoria dell'espressione è al servizio dell'univocità; e tutto il suo senso è di sottrarre l'Essere univoco al suo stato di indifferenza e di neutralità, per farne l'oggetto di affermazione pura, effettivamente realizzata nel panteismo o immanenza espressiva. L'affermazione è il principio speculativo da cui tutta l'Ethica dipende. (SPE, 308)

L'espressione nel suo insieme è costituita dalla correlazione fra l'unità della sostanza e la distinzione degli attributi, nel senso che la pluralità degli attributi rappresenta la composizione qualitativa dell'unità della sostanza, le forme attuali dell'unica sostanza. Ma non è questa l'unica distinzione, essendoci anche la differenziazione modale, puramente quantitativa, cioè essenzialmente numerica. Con questo bagaglio concettuale lo spinozismo cerca di affrontare il problema dell'uno e dei molti in cui si concentra metafisicamente il rapporto di espressione.

Gli attributi

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Gli attributi sono la prima espressione della sostanza e sono distinti formalmente (differenza reale non numerica) dato che sono realmente diversi nel senso, ma relazionati allo stesso oggetto designato, la sostanza unica o essere univoco. Gli attributi, allora, hanno un senso diverso, ma un unico significato. E questo è il primo punto decisivo. Il secondo è il fatto che la sostanza non esiste fuori dell'attributo che l'esprime, cioè non ha attualità, ha una realtà solo virtuale. L'infinità della sostanza si esprime in infiniti attributi, in ognuno dei quali l'essenza della sostanza è infinitamente espressa. Se la sostanza fosse divisa secondo la pluralità degli attributi, il rapporto identità/differenza, che l'espressione assicura salvando il senso proprio dell'uno e dell'altro dei due correlativi (l'identità in quanto sostanza univoca ed indivisibile, la differenza in quanto attributi molteplici ed irriducibili) verrebbe, invece inteso come un rapporto di genere e differenze specifiche, in cui fra attributi e sostanza da un lato e fra gli attributi in quanto tali dall'altro si instaurerebbe una distinzione ontica (differenza reale numerica). La concezione dello statuto degli attributi come identità ontologica e differenza formale rende l'univocismo spinoziano fondamento di una filosofia della pura affermazione, dal momento che ogni attributo è definito in se stesso, attraverso la sua essenza positiva, indipendente e senza opposizione agli altri. Gli attributi, ontologicamente identici, ignorano la negazione.

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È proprio della differenza reale - infatti - conservare ai termini distinti tutta la loro positività rispettiva, impedendo di definirli l'uno in opposizione all'altro e relazionandoli tutti ad una stessa sostanza indivisibile. (SPE, 69)

I modi

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La dottrina dei modi dà piena esplicazione all'univocismo spinoziano. Il modo è un'affezione della sostanza ed esso, a differenza dell'attributo, non esiste in forza della sua essenza, non è, cioè, in sé, ma in altro. I modi sono intensità degli attributi, cioè della sostanza in quanto si esprime: l'attributo resta uguale nel suo variare intensivo, allo stesso modo in cui la qualità non varia al variare dei gradi della sua intensità (il bianco, nell'infinita varietà delle sue gradazioni rimane lo stesso bianco). In quanto gradi di intensità degli attributi sostanziali, le essenze modali sono sommamente reali nella sostanza, il Tutto, ove non vi è distinzione fra essenza ed esistenza. Nella metafisica spinoziana non vi è mai passaggio dal possibile al reale e lo stesso passaggio all'esistenza della cosa non è la realizzazione di un possibile ma l'esplicazione o l'estrinsecazione dell'esistenza virtuale. Per comprendere appieno queste affermazioni è necessario che ci rivolgiamo alla teoria deleuziana dell'idea come molteplicità e virtualità.

Lo "strutturalismo" di Deleuze

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La teoria dell'Idea rappresenta il momento più strutturalista del pensiero di Deleuze. Il filosofo identifica nell'Idea o struttura in quanto molteplicità relazionale il piano della intelligibilità propria della differenza. Usiamo le parole di Deleuze (Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, in Storia della filosofia, a cura di F: Chatelet, vol. VIII: La filosofia del XX secolo, Rizzoli) per definire la struttura. La struttura è un sistema differenziale, cioè una molteplicità costituita da elementi che hanno senso in uno spazio puro e che si definiscono non in se stessi ma in base a rapporti differenziali costituenti una singolarità. In quanto tale essa è una virtualità, nel senso bergsoniano del termine, cioè differenziale in se stessa e differenziatrice nel suo effetto, ed è riconducibile nel suo funzionamento ai processi di complicazione, implicazione ed esplicazione che caratterizzano la sostanza spinoziana ed i suoi rapporti con gli attributi ed i modi. In un articolo del 1969 apparso sulla "Revue de métaphysique et de morale" (n. LXXIV) intitolato Spinoza et la méthode générale de M. Gueroult Deleuze sottolinea la prossimità tra il metodo spinoziano e quello strutturalista.

Il problema del senso nello strutturalismo

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Fra le varie implicazioni che lo strutturalismo comporta fondamentale è quella riguardante una particolare concezione del problema del senso, che risulta sempre dalla combinazione di elementi che non sono di per sé significanti, vale a dire che tali elementi non hanno in sé alcun valore determinato, dato che si determinano reciprocamente. Si tratta del noto principio di autonomia intrastrutturale del segno, per cui questo è dissociato da ogni forma di intenzionalità o nesso extrastrutturale, tanto in rapporto alla cosa, quanto alla sua rappresentazione. Il significato di ogni termine o elemento strutturale è legato alla "posizione" (non spaziale ma relazionale) che esso occupa all'interno del sistema, posizione considerata in relazione a quella secondo la quale si dispongono gli altri termini dello stesso sistema. La configurazione delle posizioni e delle relazioni viene allora ad assumere un valore tanto preponderante rispetto agli elementi da proporsi come l'orizzonte semantico entro il quale opera il meccanismo logico delle combinazioni strutturali. Dall'insignificanza di ogni elemento preso a sé stante, al di fuori delle relazioni in cui è posto, discende la morte di ogni soggetto che non sia la struttura, quindi sia la morte di Dio che la morte dell'uomo (carattere antiumanistico dello strutturalismo). La relazione strutturale, in sé, è irrapresentabile e costituita di elementi non dotati di senso, vi è, cioè,  divaricazione fra struttura delle relazioni e senso. Il non senso strutturale non è, tuttavia, l'assurdo, ma ciò che precede e produce il senso stesso. In Logica del senso Deleuze definisce la struttura come una macchina per produrre il senso incorporeo. Il non senso strutturale è ciò che non ha senso ma che, in quanto tale, si oppone all'assenza di senso operando la donazione di senso. (v. LS, 69)

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Dal momento che lo strutturalismo si afferma in primo luogo nella linguistica con De Saussure, vediamo un esempio di relazione strutturale tratto da questo ambito disciplinare. Saussure intraprende una critica serrata alla nozione stessa di elemento ribadendo come gli elementi linguistici non siano dei dati. Essi, infatti, possono essere individuati solo attraverso le loro relazioni reciproche oltreché attraverso il riconoscimento dell'intera organizzazione linguistica. L'elemento viene così a perdere ogni identità specifica di tipo materiale, per acquisire un valore inscindibile dalla sua collocazione strutturale e differenziale. La linguistica definisce le unità della lingua (fonemi, morfemi, ecc.) attraverso le diverse relazioni che esse stringono fra loro, allo stesso livello e a quelli superiori. Segmentiamo ad esempio il morfema ragione: otterremo i fonemi r,a,g,i,o,n,e. Ora possiamo sostituire r con c, m; a con e, g con z, ecc. Otterremo morfemi diversi dotati di significato diverso (cagione, magione, regione, razione, ecc.). Il processo di sostituzione è sempre strettamente legato al processo di integrazione: la sostituzione di un suono all'altro si effettua sempre all'interno di un'unità di livello superiore dove il nuovo suono ha una funzione integrante nella formazione di queste unità di livello immediatamente superiore. La sostituzione non ha senso se non provoca anche l'emersione di un'unità superiore esistente nella lingua o nella catena parlata. Un fonema può essere identificato come unità linguistica solo perché può svolgere una funzione integrante in un'unità superiore. Così r può essere sostituita con c o con m e le tre consonanti possono essere chiamate fonemi perché sono in grado di formare unità di livello superiori. Ogni fonema, quindi, è definito per mezzo di ciò che lo circonda: le sue relazioni con gli altri elementi simultaneamente presenti (relazioni sintagmatiche) e le sue relazioni con gli altri elementi sostituibili dello stesso livello (relazioni paradigmatiche).

Teoria dell'Idea

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L'Idea è definita da Deleuze come una molteplicità differenziale interamente positiva, molteplicità, tuttavia, che non deriva dalla combinazione di molteplice e uno ma che nasce da una organizzazione propria del molteplice in sé, tale cioè da non aver bisogno di alcuna unità per formare un sistema. Ciò significa che la sostanza stessa, cioè il sostantivo, è il molteplice, non l'uno. Le idee sono molteplicità, e ogni idea è una molteplicità, una varietà.

Nell'uso riemanniano del termine "molteplicità" (ripreso da Husserl e anche da Bergson), va attribuita la massima importanza alla forma sostantiva: la molteplicità non deve designare una combinazione di multiplo e di uno, ma viceversa un'organizzazione propria del multiplo in quanto tale, che non ha affatto bisogno dell'unità per formare un sistema. ... Il vero sostantivo, la sostanza stessa è "molteplicità", che rende inutile l'uno non meno del molteplice. La molteplicità variabile è il quanto, il come, il singolo caso. Ogni cosa è una molteplicità in quanto incarna l'Idea. (DR, 236-237)

Non si tratta di contrapporre il molteplice all'uno, quanto di intendere il concetto di molteplicità al di fuori di ogni riferimento all'uno, al qualcosa, all'ente. Se l'uno viene inteso come primum, il molteplice non può che apparire come una somma di uno, una collezione di enti e, in quanto tale, sarà sempre derivato rispetto all'unità. Il riferimento a Riemann, matematico noto, fra l'altro, per essere l'inventore della geometria ellittica, è importante e va chiarito. Riemann definiva le cose come molteplicità determinabili in funzione delle loro dimensioni o delle loro variabili indipendenti e distingueva due specie di molteplicità, le molteplicità discrete, che contengono in sé il principio della loro misura (la misura di una delle loro parti era data dal numero degli elementi che esse contenevano) e le molteplicità continue che trovavano un tipo di misura nei fenomeni che in esse si sviluppavano o nelle forze che in esse agivano. La cosa è incarnazione della molteplicità: ciò va inteso nel senso che la cosa è l'attualizzazione della realtà virtuale o strutturale che è l'idea, l'ente in cui l'essere si sostanzia. Per comprendere questo fatto dobbiamo addentrarci maggiormente nell'esame dell'Idea, struttura per la cui emergenza Deleuze definisce tre condizioni:

1. Occorre che gli elementi della molteplicità non abbiano né forma sensibile né significato concettuale, né, quindi, funzione assegnabile. In quanto non hanno neppure esistenza attuale, e sono inseparabili da un potenziale o da una virtualità, in tal senso essi non implicano alcuna identità precedente, alcuna posizione di un qualcosa che potrebbe dirsi uno o lo stesso; e

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viceversa la loro indeterminazione rende possibile la manifestazione della differenza in quanto liberata da ogni subordinazione. (È la determinabilità, o principio di quantitatività, riguardante gli elementi differenziali)

2. Occorre che questi elementi siano determinati, nella fattispecie reciprocamente, da rapporti reciproci che non lasciano sussistere alcuna indipendenza. Rapporti di tal sorta sono per l'appunto connessioni ideali, non localizzabili, sia che caratterizzino la molteplicità globalmente, sia che procedano per giustapposizione di contiguità. (È la determinazione reciproca o principio di qualitatività riguardante i rapporti differenziali)

3. Un nesso molteplice ideale, un rapporto differenziale deve infine attualizzarsi in relazioni spazio-temporali diverse, mentre i suoi elementi s'incarnano in atto in termini e forme variate. (È la determinazione completa o principio di potenzialità riguardanti le singolarità corrispondenti ai rapporti differenziali fra gli elementi). L'idea si definisce così come una struttura. (DR, 238)

Gli elementi della molteplicità non sono né percepibili né pensabili, non sono, cioè, oggetti o enti determinati. La loro indeterminatezza, tuttavia, non è quella dell'ente indeterminato, cioè del sommamente determinabile, dell'uno che precede il molteplice, della grande ed indifferenziata identità. Gli elementi non sono degli indeterminati determinabili, ma degli indeterminati determinanti. L'ente è ciò che sussiste indipendentemente da altro, come causa sui o come ciò il cui modo d'essere è quello di sistere extra causas. Il suo status ontologico è dunque l'indipendenza, la sussistenza. In quanto tale esso è uno e, rispetto ad un altro ente, stabilisce una differenza reale e numerica. Gli elementi di una molteplicità virtuale, invece, non sono fra loro indipendenti, essi sono solo in quanto reciprocamente rapportati, per cui non sono neppure localizzabili, dal momento che lo spazio stesso non è. La molteplicità, cioè, non ha un dove. Essa non può essere determinata estrinsecamente.

Il primato ontologico dell'accidentale

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È chiaro che tutto ciò comporta una profonda rivoluzione ontologica, dal momento che il primum ontologico non è più la sostanza, ma la relazione, come concreto piano di coesistenza della differenza. Il sistema aristotelico è rovesciato, perché l'ontologico non è più l'essenziale o il sostanziale, ma l'accidentale o il relativo, quello che Deleuze chiama l'evento. Ricordiamo che nel VII libro delle Categorie Aristotele scrive:

Sono dette relative (prós tí) le cose di questo genere: tutte quelle che, ciò che sono, sono dette esserlo di altre cose o, qualunque altro ne sia il modo, in relazione ad un'altra cosa. (Cat. VII 6b, 36-37)

Non possiamo fare a meno di pensare alla posizione ontologica heideggeriana, alla reciproca transpropriazione di essere e pensare, alla coappartenenza di uomo ed essere, ma anche alla reciprocità del nesso fra intentio ed intentum della fenomenologia. L'impostazione antimetafisica pare caratterizzata nella sua essenza da una profonda scelta antiessenzialistica. Non è solo la relazione, infatti, che caratterizza l'ontologico, ma anche l'accidentale, l'accadere, l'insussistente. È fondamentale ciò che Deleuze scrive a questo proposito:

L'Idea non è affatto l'essenza. Il problema, in quanto oggetto dell'Idea, si trova dalla parte degli eventi, delle affezioni, degli accidenti, piuttosto che dalla parte dell'essenza teorematica. ... il campo dell'Idea è l'inessenziale. ... Non appena si tratta di determinare il problema e l'Idea come tale, non appena si tratta di mettere la dialettica in movimento, la domanda che cos'è? fa posto ad altre domande, ben altrimenti efficaci e potenti, ben altrimenti imperative: quanto, come, in quale caso? ... Queste sono le domande dell'accidente, dell'evento, della molteplicità - della differenza - contro quella dell'essenza, quella dell'Uno, del contrario e del contraddittorio. (DR, 243-244)

Virtualità e attualità: l'influenza di Bergson

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La relazione strutturale, nel suo divenire, richiede che la struttura sia pensata secondo una duplice modalità. Il primo modo è la virtualità, in cui coesistono tutti gli elementi, i rapporti e le singolarità, virtualità che, come l'essenza modale spinoziana, non è sinonimo di possibilità; il secondo modo è l'attualità, cioè l'incarnazione della struttura virtuale in specie ed in parti, in qualità ed estensioni. Per l'importanza decisiva delle nozioni di virtuale ed attuale è necessario entrare nello specifico di questi concetti, che Deleuze usa secondo l'accezione che ad essi venne data da Bergson. Vediamo innanzitutto ciò che scrive Deleuze:

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La virtualità dell'Idea non ha nulla a che vedere con una possibilità. La molteplicità non tollera alcuna dipendenza dall'identico nel soggetto o nell'oggetto. Gli eventi e le singolarità dell'Idea non lasciano sussistere alcuna posizione dell'essenza intesa come "ciò che la cosa è". E indubbiamente è possibile conservare il termine essenza, se si vuole, a condizione però di dire che l'essenza è appunto l'accidente, l'evento, il senso. (DR, 248)

Il virtuale non si oppone al reale, ma soltanto all'attuale. Il virtuale possiede una realtà piena in quanto virtuale. ... La realtà del virtuale consiste negli elementi e nei rapporti differenziali, e nei punti singolari loro corrispondenti. La struttura è la realtà del virtuale. (DR, 270)

Il virtuale si distingue dal possibile da due punti di vista. 1. Innanzitutto il possibile è il contrario del reale e gli si oppone, il virtuale, invece, si oppone all'attuale. Il

possibile, cioè, non ha realtà, pur potendo avere un'attualità, il virtuale non ha attualità, pur essendo reale. Questo significa che il possibile, pur potendo avere forma compiuta, pur potendo compiutamente essere qualcosa di determinato (pensiamo ad un concetto), in realtà non c'è; il virtuale, invece, non ha attualità, non è qualcosa di determinato e di compiuto, non è un ente, ma tuttavia ha una realtà, in realtà c'è ed il suo esserci è correlato all'esserci dell'attuale, dell'ente. Reale e possibile sono identici nell'essenza e distinti di fatto, virtuale ed attuale, invece, si coappartengono.

2. Dall'altro punto di vista il possibile è ciò che si realizza (oppure no), è ciò che può passare da un'attualità ad un'altra, da una forma ad un'altra forma, senza differenza alcuna (fra cento talleri possibili o pensati e cento talleri reali non c'è differenza, l'essere non è un predicato reale). Tuttavia il possibile non è il reale. Il processo della realizzazione è sottoposto ad una regola fondamentale, quella della somiglianza. Il reale si realizza ad immagine e somiglianza del possibile, possedendo in più, rispetto ad esso, solo l'esistenza o, come dice Kant, la posizione. Il virtuale, invece, non deve passare da uno stato ontico ad un altro, dall'essere un ente in un certo modo ad essere lo stesso ente in un altro modo, non deve realizzarsi, perché esso non è, ma deve attualizzarsi, cioè, diventare, venire all'essere, all'apparenza, uscire dal nascondimento. Il nesso fra il possibile ed il reale è ontico e limitante (il reale è uno dei possibili che si è realizzato), il nesso fra il virtuale e l'attuale è ontologico e "creativo" (l'attuale è il presentarsi o, come vedremo fra poco, il differenziarsi del virtuale). Il fatto fondamentale è che la regola che guida il processo non è più la somiglianza, ma la differenza.

L'attuale non assomiglia alla virtualità che esso incarna. La differenza è l'elemento principale del processo di attualizzazione, differenza fra il virtuale da cui si parte e l'attuale a cui si arriva, differenza che non fa sì che l'attuale sia un'altra cosa dal virtuale, ma sia, invece, lo stesso che si differenzia, che si esprime. C'è identità e differenza fra virtuale e attuale e l'identità non riguarda due cose (quella è l'uguaglianza e riguarda il nesso fra possibile e reale) ma la cosa stessa, l'essere della cosa e la cosa che è. Lo specifico del virtuale, allora, è di esistere in modo tale da attualizzarsi differenziandosi e di essere obbligato a differenziarsi, a creare le sue linee di attualizzazione, per attualizzarsi. Se ben guardiamo la realizzazione del possibile non è un processo di determinazione, perché la cosa possibile e la cosa reale sono già determinate in quanto tali, in questo processo l'evento ontologico, l'apertura all'essere dell'ente, è già avvenuto. La determinazione, invece, è proprio ciò che caratterizza il nesso fra virtuale ed attuale.

Il processo di determinazione

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Ma come avviene tale processo? La virtualità è un'identità non numerica, non è l'uno che si differenzia, ma molteplicità implicata:

Le Idee contengono tutte le varietà di rapporti differenziali e tutte le distribuzioni di punti singolari, coesistenti in ordini diversi e "perplicate" le une alle altre. Quando il contenuto virtuale di un'idea si attualizza, le varietà di rapporti s'incarnano in specie distinte,  e correlativamente i punti singolari corrispondenti ai valori di una varietà s'incarnano in parti distinte, caratteristiche di questa o quella specie. Per esempio, l'Idea di colore è come la luce "bianca" che "perplica" in sé gli elementi e i rapporti genetici di tutti i colori, ma che si attualizza nei diversi colori e negli spazi rispettivi. ... Con l'attualizzazione, un nuovo tipo di distinzione, specifica e partitiva, prende dunque il posto delle distinzioni Ideali fluenti. Denominiamo differentiazione la determinazione del contenuto virtuale dell'Idea, e differenziazione l'attualizzazione di questa virtualità in specie e parti distinte. (DR, 267)

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La virtualità si attualizza, cioè si differenzia o esplica in parti, in base a linee divergenti, ognuna delle quali corrisponde ad un grado determinato della totalità virtuale. Il Tutto, altro modo per dire la sostanza spinoziana, è solo virtuale, cioè non è mai dato, esso ha attualità solo come il differenziato. Ecco perché l'ontologico, l'essere, non è ciò che è dato, ma ciò che dà, ed ecco perché il Tutto non è estrinseco, indifferente alle parti nelle quali si dà (l'essere non si dà mai al di fuori dell'ente). Il virtuale (l'essere) sta all'attuale (l'ente) come un problema, un compito da adempiere, sta alla sua soluzione:

Il virtuale ha la realtà di un compito da adempiere, come di un problema da risolvere, ed è il problema che orienta, condiziona e genera le soluzioni, ma queste non somigliano alle condizioni del problema. (DR, 274)

La struttura ontologica della cosa, allora, non è quella puramente ontica dell'ens creatum, in quanto ente sottratto alla pura possibilità e portato all'esistenza o, meglio, alla sussistenza; la cosa non è composta di due metà pari, simmetriche e somiglianti ( il possibile ed il reale), ma di due metà dispari, dissimmetriche e dissimili, il virtuale e l'attuale, l'essere dell'ente e l'ente che è, due metà che si dividono, a sua volta in due:

una metà Ideale che affonda nel virtuale, costituita, da una parte, dai rapporti differenziali, e dall'altra, dalle singolarità corrispondenti; una metà attuale, costituita, da una parte, dalle qualità che attualizzano questi rapporti, e dall'altra, dalle parti che attualizzano queste singolarità. ((DR, 358)

Sommario

1. Univocità e analogia 2. Il principio di individuazione 3. Identità e differenza in Heidegger 4. Il principio di identità 5. Rovesciare il platonismo: il simulacro 6. Ripetizione senza differenza e ripetizione senza identità 7. Univocità-equivocità: il corto circuito ontologico 8. Gigantomachia ontologica. Analogia versus univocità 9. L'idea come molteplicità e virtualità

Seminari anno accademico1994-1995

Ontologia e metafisica in Differenza e ripetizione di Gilles Deleuze

Le citazioni di Deleuze sono aggiornate alla nuova edizione di Differenza e ripetizione:  Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione trad. di Giuseppe Guglielmi, revisione di Giuliano Antonello e Anna Maria Morazzoni Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997

Per informazioni e chiarimenti, scrivere a Giuliano Antonello Visita i siti:

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