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Seconda lettera del Patriarca in occasione dell’Anno della Fede

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Seconda lettera del Patriarca

in occasione dell’Anno della Fede

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Seconda lettera del Patriarca in occasione dell’Anno della Fede

Carissimi, vi scrivo ancora una volta in questo Anno

della Fede e, guardando ai molti che s’impe-gnano in una vita cristiana sempre più corrispon-dente al Vangelo, lo faccio con vera gioia egratitudine al Signore.

In questo mio secondo scritto intendo condi-videre alcune riflessioni su un tema importanteper la nostra Chiesa che è in Venezia, vale a direla fede professata con umile fierezza e con gioiain un contesto di secolarizzazione diffusa.

1. Gli occhi della fede

Nel 2001 il giornalista Peter Seewald ponevaall’allora prefetto della Congregazione per la Dot-trina della Fede, Joseph Ratzinger, una domandache riprendeva una precedente affermazione delcardinale il quale sosteneva che, se un uomo

Edizioni CID srlCentro di Informazione e Documentazione del Patriarcato di VeneziaVia Querini, 19/a - 30172 Mestre (Ve) - www.genteveneta.itIscritto al Registro Nazionale della Stampa al n. 3135 - Vol. 32 fg. 237 del 23.04.1991

Finito di stampare nel mese di gennaio 2013 - Arti Grafiche Ruberti - Mestre

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e fede, fede e libertà; dove la conoscenza non èintesa intellettualisticamente e razionalistica-mente, ma come capacità d’aprirsi all’altro, di an-dargli incontro e così ritrovare anche se stessi.Questo “altro”, in ultima istanza, è il Tu di Dio,per il quale l’intelletto umano è creato.

È significativo il seguente passo che troviamoalla fine dello scritto: “Abbiamo insistito a suffi-cienza sul ruolo degli indizi estrinseci… Ciò chemanca alle prove sono piuttosto le intelligenze,e si può riprendere qui ciò che sant’Agostino dicecommentando la pagina evangelica: Niente èprivo di significato, in ogni cosa c’è riferimento;basta, però, saperlo cogliere” (P. Rousselot, Gliocchi della fede, Milano 1977, pag. 106).

L’analisi puntuale, svolta nel testo, favorisceuna riflessione e un ripensamento sulla possibi-lità dell’atto di fede nel suo rapporto con la gra-zia; un tema che oggi risulta utile nel contesto diuna cultura marcatamente secolarista in cui, conrinnovato entusiasmo, siamo chiamati a fornire lemotivazioni della nostra fede (cfr. 1Pt 3, 15-16).

La fede è la capacità di vedere secondo unadimensione più vasta e profonda che introduce

vive basandosi solo su ciò che materialmentevede, cade allora in una profonda cecità.

In tale circostanza il cardinale coglieva l’occa-sione per precisare ulteriormente il suo pensierocon queste parole: “Allora (l’uomo) limita il pro-prio orizzonte al punto che gli sfugge l’essen-ziale. Non vede neppure il proprio raziocinio.Proprio le cose… portanti non possono essereviste solo con gli organi sensoriali, e da questopunto di vista non vede ancora adeguatamente,se non è in grado di guardare oltre ciò che è im-mediatamente percepibile” (Dio e il mondo. Jo-seph Ratzinger in colloquio con Peter Seewald,San Paolo, Alba 2001, pag. 18).

Gli occhi della fede è il titolo di un breve sag-gio di Pierre Rousselot edito, originariamente informa di articoli, nel 1910 ed oggi considerato unclassico della teologia. Questo libro può aiutarcia capire quanto sia importante avere chiara con-sapevolezza e fondate motivazioni circa il proprioatto di fede, soprattutto in un contesto di seco-larizzazione diffusa come l’attuale.

L’atto di fede è presentato in modo da accor-dare fra loro conoscenza ed essere, conoscenza

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Nella Sacra Scrittura la città, nel suo costi-tuirsi, segna un momento particolare non soloper la vita di un popolo ma per l’intera storiadella salvezza e, quindi, la città è portatrice diun messaggio che riguarda la salvezza di tutti gliuomini.

Facilmente, nella Bibbia, le città sorgonopresso fonti d’acqua che - soprattutto nelle zonedesertiche - offrono possibilità di vita; esse, inol-tre, costituiscono spazi protetti e, in caso di pe-ricolo, diventano luogo sicuro anche per gliabitanti dei villaggi vicini. Le città, anche perquesta funzione di protezione e aiuto, sono con-siderate alla stregua di vere madri; i villaggi cir-costanti, invece, vengono considerati come figli.

Sul piano religioso, la città riveste un signifi-cato polivalente in quanto possibilità di riparo difronte a possibili pericoli ed anche luogo di cultoche riunisce il popolo. Questo vale in particolareper Gerusalemme, meta privilegiata per l’incontrodelle tribù e segno d’unità per tutto il popolo.

Il libro dell’Apocalisse - che chiude la rivela-zione - termina proprio presentando la Gerusa-lemme celeste, la città santa che scende dal cielo,

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l’uomo nella realtà a partire da una verità piùgrande; ciò consente di partecipare alla sapienzache dà all’uomo il gusto delle cose di Dio.

Il vero, il buono e il bello ci vengono conse-gnati attraverso lo sguardo più ampio, più riccoe penetrante della fede che dona a chi crede unamaggiore libertà.

Da qui partiamo per incamminarci verso unariflessione sulla fede che oggi - nei nostri conte-sti culturali - deve confrontarsi con una situa-zione di forte secolarizzazione, con un mondosempre più globalizzato, all’interno di societàdette “liquide”; la società “liquida” si caratterizza- secondo il sociologo polacco Zygmunt Bauman- per il continuo mutamento; essa cambia cosìrepentinamente che le sue modalità d’azione nonriescono a consolidarsi in abitudini e procedure(cfr. Z. Bauman, Vita liquida, Bari 2008, pag. VII).

2. La città, spazio di “umanità”Il libro della Genesi attribuisce a Caino la co-

struzione della prima città a cui egli dà il nomedi suo figlio Enoch che significa “dedicazione”(cfr. Gen 4, 17).

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libro della Genesi mostra come gli uomini vo-gliano costruire una convivenza imponendo laloro volontà anche a Dio: è la vicenda di Babele(cfr. Gen 11, 1-9), simbolo dell’orgoglio umano. E’il tentativo di costruire relazioni personali e so-ciali come espressioni di un uomo che ha elettose stesso, il proprio io, a criterio e misura dellarealtà e, quindi, secondo un’antropologia che,alla fine, vuole sostituire Dio con l’io: “Poi dis-sero: «Venite costruiamo una città e una torre, lacui cima tocchi il cielo, facciamoci un nome, pernon disperderci su tutta la terra»” (Gen 11, 4).

L’agglomerato cittadino esprime, in tal modo,un’antropologia che sceglie e propone comenorma e criteri ultimi l’uomo inteso come riferi-mento di se stesso. Siamo di fronte a un vero eproprio secolarismo ante litteram: l’uomo as-surge a norma e fondamento ultimo di ogni cri-terio morale, del bene e del male.

È il sogno impossibile che, da sempre, l’uomoculla: essere come Dio. È il dramma delle origini:una libertà che si pensa in chiave d’Assoluto,mentre, in quanto creata, non potrà mai essertale (cfr. Gen 3, 4-5). È il dramma ricorrente di

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da Dio: “E mi mostrò un fiume d’acqua viva, lim-pido come il cristallo che scaturiva dal trono diDio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città,e da una parte e dall’altra del fiume si trova unalbero di vita che dà frutti dodici volte all’anno…Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello…Non vi sarà più notte, e non avranno più bisognodi luce di lampada né di luci di sole, perché il Si-gnore Dio li illuminerà… ” (Ap. 22, 1-3. 5).

La città è luogo di crescita e di progresso ma,pure, di un possibile allontanamento da Dio: lacittà, insomma, è anche luogo di peccato e lon-tananza da Dio. Nell’Antico Testamento, Sodomae Gomorra sono le grandi città peccatrici (cfr. Gen18,1-19,29), città in cui si imbatte Abramo, l’uomodi Dio, il credente che - per tutta la vita - attendeil compiersi della divina promessa.

In tale contesto di peccato, Abramo è il fedeleamico di Dio che, ripetutamente, innalza la pre-ghiera al Signore per gli abitanti della città im-penitente; egli sempre trova in Lui misericordiae perdono ma, per l’ostinazione degli uomini nelmale, tutto sarà inutile.

Ma, ancora prima di Sodoma e Gomorra, il

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stamento - nel libro dell’Apocalisse - termini conla visione della Gerusalemme celeste, la città chescende dal cielo, da Dio, come sposa preparataper lo Sposo; è la visione dell’umanità finalmenteevangelizzata, pronta per l’incontro definitivo conDio, quando non ci sarà più necessità del tempio,della luce della lampada e della luce del sole per-ché ormai l’Agnello sarà la lampada che tutto ri-schiara e tutto illumina (cfr. Ap 21, 22-23).

3. Paolo, evangelizzatore a Corinto

Muoviamo dai fatti e partiamo da uno di essi:si tratta di un episodio che il Nuovo Testamentonarra sia nel libro degli Atti degli Apostoli sianelle due lettere inviate dall’apostolo Paolo aiCorinti.

Incominciamo con la testimonianza degli Atticon Paolo a Corinto: “Una notte, in visione, il Si-gnore disse a Paolo: «Non aver paura; continuaa parlare e non tacere, perché io sono con te enessuno cercherà di farti del male: in questa cittàio ho un popolo numeroso». Così Paolo si fermòun anno e mezzo, e insegnava fra loro la paroladi Dio” (At 18, 9-11).

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ogni tempo, di ogni generazione e di ogni uomo.

Sant’Agostino nel De civitate Dei esprime que-sto attraverso il binomio città dell’uomo - cittàdi Dio. In una delle due città s’esprime e agiscel’io che ama se stesso fino all’oblio di Dio; nel-l’altra, invece, è all’opera l’io che ama Dio finoall’oblio di se stesso: “Due amori fecero duecittà: la città terrena l’amore di sé fino al di-sprezzo di Dio, la città celeste l’amore di Dio finoal disprezzo di sé” (De civitate Dei, 14, 28).

La città, quindi, è lo spazio individuale e so-ciale in cui l’uomo organizza la sua umanità e di-spiega le relazioni fondamentali della suapersona. La domanda che si pone è: in che modoquesto avviene?

La città, nel Nuovo Testamento, diventa ancheluogo emblematico dell’annuncio evangelico, ov-vero luogo in cui deve risuonare la fede come ri-sposta dell’uomo a Dio che, in Gesù Cristo,chiama a salvezza attraverso il dono dello SpiritoSanto che è il vero protagonista della missioneevangelizzatrice della Chiesa.

È significativo che la narrazione del Nuovo Te-

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Paolo, ossia colui che evangelizza, non è maisolo; egli, infatti, viene rassicurato che tra quellecase, quelle strade, quelle piazze, sperimenterà,come neppure immagina, la presenza fedele el’aiuto premuroso del suo Signore.

In realtà la città di Corinto, dove l’apostoloPaolo si muove con trepidazione e timore, rap-presenta la realtà paradigmatica che si pone di-nanzi all’evangelizzatore di ogni tempo.

Corinto, infatti, potrebbe essere - per talunecaratteristiche socio-culturali e per il numero deisuoi abitanti - una città della nostra epoca e delnostro Occidente che, fino a poco tempo fa, eraricco e fortemente secolarizzato ed oggi - dopola crisi finanziaria - appare molto meno riccoanche se sempre più secolarizzato.

Corinto - una città che contava mezzo milioned’abitanti, crocevia di culture disparate, di mol-teplici commerci, di forti interessi economici egrandi flussi di denaro - era, tra l’altro, notoluogo di lussuria; la collina situata appena die-tro alla città e che la dominava da nord, ospitavanel Tempio, dedicato ad Afrodite, uno stuolo nu-meroso di prostitute.

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Il contesto in cui si muove Paolo potrebbesembrare profondamente diverso da quello dioggi: Corinto è città greca del primo secolo suc-cessivo a Cristo e non una metropoli del XXI se-colo come Parigi, New York o Rio de Janeiro;Paolo è un ebreo di duemila anni fa, convertitosia Gesù Cristo, e non è certo l’uomo post-mo-derno dell’inizio del terzo millennio.

Eppure i sentimenti che l’Apostolo avverte -sgomento, solitudine e paura - sono i nostristessi sentimenti: questi stati d’animo ci appar-tengono ogni qual volta siamo impegnati inun’impresa ardua, in un contesto difficile in cuipercepiamo di essere piccoli ed appartenere auna fragile minoranza.

Paolo prova, entrando in Corinto, una sensa-zione di vera oppressione, si sente schiacciatoda una realtà più grande di lui. Allora il Signoregli si manifesta come presenza che lo sostiene erassicura e l’Apostolo si sente dire dal Signore:«Non aver paura; continua a parlare e non tacere,perché io sono con te e nessuno cercherà di fartidel male: in questa città io ho un popolo nume-roso» (At 18, 9b-10).

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d’animo dell’Apostolo colpito dalla sua impo-nenza e, soprattutto, dagli ideali di vita dei grecilontani anni luce dallo spirito del Vangelo. Que-sto eloquente testo autobiografico ci aiuta acomprendere: “Anch’io, fratelli, quando venni inmezzo a voi non mi presentai ad annunciarvi ilmistero di Dio con l’eccellenza della parola edella sapienza. Io ritenni infatti di non saperealtro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristocrocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza econ molto timore e trepidazione ” (1 Cor 2, 1-3).

Sia al tempo di Paolo come oggi, di fronte arealtà che ostacolano la nostra volontà di annun-ciare il Regno di Dio - ossia Gesù -, non dob-biamo lasciarci intimorire. Piuttosto anche noisiamo chiamati, come l’apostolo Paolo, a risco-prire la presenza di Gesù per dare energie nuovealla nostra azione evangelizzatrice e lasciandoche sia Lui a portarci.

I due pellegrini di Emmaus (cfr. Lc 24, 13-35)esprimono il comune sentire del discepolo diogni epoca quando si è dinanzi all’insuccesso ealla delusione; Luca, nel suo vangelo, descriveuno stato d’animo che va oltre quello di Cleopa

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Di fronte a tale realtà non è difficile immagi-nare quali fossero le linee culturali e i criteri acui i Corinti si riferivano e, di conseguenza, le lo-giche da cui erano mossi.

La stessa posizione della città, che sorgevasull’omonimo istmo, le dava accesso a Occidenteal mare Ionio e ad Oriente al mare Egeo; così,con i suoi porti, Corinto era ponte naturale - tran-sito obbligato - fra l’Occidente e l’Oriente, traRoma e l’Asia.

L’Apostolo Paolo - dopo il fallimento di Atene,all’Areopago, dove si era espresso in termini cul-turali elevati non tralasciando di citare autori notia chi lo ascoltava (cfr. At 17, 22-31) - decide dilasciare quella città, la ville lumière della Grecia.Non viene scacciato, come spesso gli accadeva,è lui che decide di andar via. Così parte per Co-rinto, vi entra intimorito e portando con sé ilsenso del suo recente fallimento e di tutta la suaimpotenza.

Corinto poteva essere considerata tanto cittàgreca quanto città romana ma, agli occhi diPaolo, era soprattutto una città pagana, profon-damente pagana. Comprendiamo bene lo stato

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vamente in un’esperienza di fede viva, portandoliprogressivamente verso un discepolato pieno eindicando loro una missione fondata sulla comu-nione intima con Lui, il Signore, e poi per essere“mandati”.

Il suo metodo consiste nella proposta che lostesso Gesù rivolge a quanti incontra. Giovannilo dice chiaramente all’inizio del suo vangeloquando invita a seguirlo e a lasciarsi coinvolgere.

“Maestro, dove dimori?” (Gv 1, 38). È questala domanda dei primi discepoli a cui Gesù, senzaesitare, risponde con un invito che presupponeuna condizione che precede ogni altra, la libertàdel cuore di chi si lascia coinvolgere: “Venite evedrete” (Gv 1, 39).

Il punto è proprio la libertà del cuore. Una li-bertà che è risposta alla grazia la quale, a suavolta, richiede di assumere il compito più arduoper una persona: la conversione dell’uomo vec-chio che la abita. Si tratta, allora, di proporre uncammino che tenga conto di quanti credono, diquanti non credono ancora e di quanti non cre-dono più.

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e del suo compagno di viaggio.

Il Signore è vivo, anzi è il Vivente. E per que-sto è realmente vicino a noi, è presente nella no-stra vita e, Risorto, sempre precede i suoi. Puòcapitare che Lui parli con noi e noi non capiamoche è Lui e, così, continuiamo a non riconoscerlopoiché, troppo presi e rinchiusi in noi stessi, ri-maniamo prigionieri dell’uomo vecchio che è innoi, prigionieri delle nostre paure.

Luca, con la sua narrazione, intende proporreun cammino di conversione per i discepoli diogni tempo: un percorso che, in questo Annodella Fede, dovrebbe accompagnarci in modoparticolare. Ma c’è ancora qualcosa da conside-rare nel nostro cammino di discepoli ed evange-lizzatori. Si tratta di rispondere alla domanda:quale è il metodo usato da Gesù evangelizzatore?

4. Il metodo di Gesù: una comunità di discepoli che vivono con Lui

Il metodo di Gesù evangelizzatore è costituireuna comunità e vivere in essa, educando perso-nalmente i discepoli e coinvolgendoli progressi-

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In tal modo la formazione - o, meglio, l’edu-cazione di quanti, grazie al battesimo, sono di-ventati testimoni dell’evento cristiano - deveessere sostenuta con rinnovate energie e conl’aiuto di una preghiera personale e comunitariapiù intensa.

L’Anno della Fede, a cinquant’anni dall’aper-tura del Concilio Ecumenico Vaticano II e a ven-t’anni dalla promulgazione del Catechismo dellaChiesa Cattolica, diventa stimolo a considerarenuovamente - a livello personale e comunitario -la nostra adesione e testimonianza di fede incontesti, ormai, ampiamente post-cristiani.

È già stato richiamato il contesto sociale e cul-turale in cui la Chiesa del Nuovo Testamento hamosso i primi passi. Così, con molte similitudini,noi oggi viviamo una situazione, per alcuni versi,analoga e i margini per elaborare un’antropologiaculturale - ossia una visione di uomo - capace dimuoversi all’interno dell’attuale situazione sonodi non facile individuazione.

Gesù raccoglie attorno a sé un piccolo gruppodi discepoli e li educa, vivendo con loro. Egli vaben oltre il piano della pedagogia, del diritto,

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Ogni annuncio evangelico deve comprenderequesto cammino in cui il momento “umano” e ilmomento “cristiano” sono realmente uniti fraloro. Non confusi e non separati ma uniti, siapure nella distinzione. Questa unità nella distin-zione, senza separazione, è essenziale nell’edu-cazione alla fede.

Il cristiano è chiamato a distinguere per unire.Dal punto di vista teologico, comunque, è megliodire: distinguere nell’unito originario ossia distin-guere quanto è già dato nell’originario iniziale eche, da esso, proviene.

Così, Gesù semplicemente invita i discepoli:“Venite e vedrete” (Gv 1,39) e propone un cam-mino progressivo, li coinvolge personalmentementre, essi, giorno dopo giorno, abitano con Lui.

Tale cammino e tale pedagogia devono esserepercorsi anche oggi, soprattutto da chi vive incontesti di lontananza dal Vangelo e dai suoi va-lori; tanto ieri quanto oggi è difficile essere te-stimoni ed evangelizzatori in una società nonsolo secolare ma secolarista, espressione di unacultura in cui si vive - talvolta anche da parte dichi si dice credente - come se Dio non esistesse.

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Lui solo, infatti, è la vera umanità che da sem-pre è nella mente di Dio; la sua storia - nascita,vita, morte, risurrezione - deve diventare la no-stra storia attraverso la professione di fede, lavita sacramentale, la testimonianza della carità.

I misteri della vita di Cristo - il Vangelo e i suoicontenuti - devono, così, potersi inserire nella li-bertà del discepolo e, insieme, plasmare la strut-tura della comunità. Inscrivere l’oggettività diGesù Cristo nella soggettività personale e comu-nitaria esprime un cammino in cui la fede, nellasua realtà e concretezza, plasma - rispettandonela specificità - l’umano tanto a livello personalequanto comunitario.

I vangeli testimoniano come il Signore istruiscai suoi discepoli e si tratta di una scuola impegna-tiva in cui l’umano e il cristiano appaiono en-trambi essenziali nella formazione del discepolo.

Se all’umano togliamo il cristiano si costitui-sce un’antropologia interrotta; avremmo, di fatto,un uomo alla perenne ricerca di qualcosa ingrado di renderlo pienamente tale e in attesa diun compimento che, però, non riesce a darsi.

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dell’etica, della filosofia per approdare a quellodella fede che, quando è realmente tale, siesprime anche in ambito culturale e con scelteetiche. La fede, sul piano umano, comporta lascelta del bene, del vero e del bello.

5. L’uomo in Cristo: formazione integrale della persona

In un contesto di secolarizzazione diffusa,come è l’attuale, la testimonianza del discepoloe della comunità cristiana è fondamentale ed èsolo attraverso un cammino anche umanamenteben radicato in Gesù Cristo che il discepolo e lacomunità giungono alla maturazione del loro di-scepolato.

Vi è, in tal modo, un cammino che il discepoloe la comunità sono invitati a percorrere così dainserirsi sempre più nell’evento cristiano, vale adire scolpire in loro i lineamenti di Cristo. L’“io”del discepolo e il “noi” della comunità devonoprendere forma cristica e ciò avviene inscrivendola loro soggettività nella soggettività di Cristo,ovvero nell’oggettività dei misteri della Sua vita.

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e, per farlo, si serve di un numero consistente dimiracoli; a questi miracoli unirà parole di accom-pagnamento, di correzione, di profezia.

Gesù educa “l’essere umano” - l’umanità deifuturi discepoli - e si concentra sulla loro capacitàdi farsi carico delle sofferenze altrui. Ogni ferita,ogni dolore, ogni disagio devono essere consi-derati dal discepolo con partecipazione, amiciziae cordialità.

In tal modo, essere discepolo del Signore vuoldire aprirsi con piena fraternità alle necessità dichi soffre: questo è quanto la comunità cristianae i suoi membri non possono tralasciare e de-vono riprendere, ogni giorno, da capo.

Gesù, in pari tempo, ha a cuore la “formazionecristiana” dei futuri discepoli considerati cometestimoni ed evangelizzatori. Durante questocammino formativo si fanno più frequenti le pa-role di Gesù specificamente rivolte ai Dodici, pa-role che hanno come sfondo la croce erichiedono l’abbandono di sé al Padre e, conse-guentemente, il distacco dal proprio io. I miracoliquindi, in questa sezione del vangelo di Luca, sifanno più rari e se ne contano pochi.

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Ma se il cristiano prescinde dall’umano si ri-duce a una presenza virtuale, cade in un atteg-giamento fideistico e incapace di realizzare unaconvivenza che sia, ad un tempo, reale e signifi-cativa nella città.

È solo l’uomo in Cristo, considerato nel suoinsieme di natura e grazia, a rappresentare lacompiutezza del disegno antropologico cristiano;in tal modo l’uomo in Cristo, nel rispetto dell’“umano” - è qui in gioco la vera laicità -, è chia-mato a portare a compimento la totalità del pro-getto che lo riguarda.

Nel Vangelo di Luca si delinea un cammino at-traverso cui Gesù plasma il futuro discepolo/evan-gelizzatore.

Il discepolo/evangelizzatore è colui che, pro-gressivamente, si apre a Gesù, il Messia salvatorein modo tale che in Lui si scorga una vera e realepartecipazione e vicinanza alle sofferenze degliuomini e, insieme, la guida sapiente, forte e af-fidabile.

Gesù, quindi, inizia dalla formazione del-l’uomo (cfr. Lc capitoli 5-9); Egli lo vuol educare

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Non è in questione il servizio; piuttosto sivuole affermare la precedenza della preghiera esi contesta quell’agitazione e quell’ansia di Martae che, non di rado, è solita accompagnarel’azione del discepolo.

Il discepolo si caratterizza per il legame per-sonale con il Signore: un rapporto vero, sincero,fatto d’intimità. È quanto esprime l’evangelistaMarco al capitolo terzo del suo vangelo, quandonarra la vocazione degli Apostoli (cfr. Mc. 3, 13-19).

L’essere mandati è qualcosa che viene dopoil dimorare presso il Signore. Il “rimanere” pressodi lui e l’“andare”, perché mandati da Lui, appar-tengono, intimamente, ai discepoli e li costitui-scono nelle loro persone. È solo restando conGesù - l’unico in grado di plasmare l’io del disce-polo - che possiamo consegnare il nostro pen-siero, la nostra parola e il nostro modo d’essereal Suo pensiero, alla Sua parola e al Suo modod’essere.

In particolar modo, quando i discepoli ven-gono mandati - come Paolo - ad annunciare GesùCristo in ambienti ancora lontani dal Vangelo -

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E questo cammino educativo non avviene inmaniera teorica o astratta ma nel concreto, vi-vendo con Gesù, rimanendo con lui, dimorandopresso di Lui.

6. Marta e Maria, stili a confronto

È necessario tenere conto del percorso deli-neato finora: Gesù chiama a sé i discepoli perpoterli inviare in missione ma, prima, chiede cherimangano presso di Lui, ossia dimorino in Lui.Quando l’evangelista Marco narra la scelta deiDodici sottolinea esplicitamente il motivo per cuivengono scelti da Gesù: perché, innanzitutto,stiano con Lui e, poi, per essere inviati in mis-sione (cfr. Mc 3,14).

In un contesto differente, Luca narra l’episodioin cui Marta si lamenta con Gesù perché è la-sciata sola a servire mentre la sorella Maria, ri-masta ai piedi del Maestro, lo ascolta. Qui ci èofferta una regola che avrà riscontro costantenella vita della Chiesa: per il discepolo, infatti, sidà una “parte migliore” e Maria, secondo tale lo-gica, ha scelto quella parte che “non le saràtolta” (Lc 10,42).

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gente quando un tale ambiente non è stato an-cora segnato dalla persona del Signore Gesù,ossia dal Vangelo, il buon annuncio cristiano.

Ognuno di noi - come l’apostolo Paolo - ha lasua Corinto ed è proprio lì che siamo chiamati adare - come l’Apostolo - la nostra testimonianzadi fede fondandoci su un reale e intimo rapportocon Gesù Cristo.

Tale rapporto non si esprime unicamente at-traverso la devozione personale ma, in partico-lare, tramite la realtà sacramentale in genere e,in specie, quella eucaristica: il pane spezzato eil vino effuso per la salvezza del mondo.

La vera comunione con Cristo si misura, così,sulla frequenza ed intensità del rapporto con lasantissima Eucaristica celebrata e adorata, co-gliendo il legame intrinseco esistente tra celebra-zione e adorazione come ricorda il Santo PadreBenedetto XVI: “…esiste un legame intrinseco tracelebrazione e l’adorazione. La Santa Messa in-fatti è in se stessa il più grande atto di adora-zione della Chiesa… L’adorazione al di fuori dellasanta messa prolunga e intensifica quanto è av-venuto nella celebrazione liturgica, e rende pos-

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come la città di Corinto - ciò che più conta, peril discepolo, è la vicinanza e la confidenza conGesù, ossia il rapporto personale che lo lega aLui.

È quanto, con insistenza, ha raccomandatoBenedetto XVI rivolgendosi ai vescovi, primi re-sponsabili dell’evangelizzazione. Una tale esor-tazione, però, va riferita, secondo il lorospecifico, a tutti i membri della Chiesa: “…ponetegiustamente alla base di tutto la contemplazionedi Dio Padre, il rapporto vivo e quotidiano conlui. Qui sta infatti l’anima e l’energia segreta dellaChiesa, la fonte dell’efficacia del nostro aposto-lato. Soprattutto nel mistero dell’Eucaristia noistessi, i nostri sacerdoti e tutti i nostri fedeli pos-siamo vivere in pienezza questo rapporto con Cri-sto: qui egli si fa tangibile in mezzo a noi, sidona sempre di nuovo, diventa nostro, affinchénoi diventiamo suoi e impariamo il suo amore”(Benedetto XVI, Discorso del 30 maggio 2005).

La famiglia, gli amici, la scuola, l’università el’ambiente di lavoro sono gli ambiti dove i disce-poli sono chiamati a portare la testimonianza ea evangelizzare. Questo impegno è tanto più ur-

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È lo stesso vangelo a porre una netta distin-zione fra politica e fede, fra Dio e Cesare e alladomanda se è lecito pagare il tributo a CesareGesù risponde che bisogna dare a Cesare quelloche è di Cesare e a Dio quello che è di Dio (cfr.Mt 22, 21).

Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Gau-dium et spes, riprende con altre parole questopasso del vangelo di Matteo: “Se per autonomiadelle realtà terrene si vuol dire che le cose createe le stesse società hanno leggi e valori propri,che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare eordinare, allora si tratta di una esigenza d’auto-nomia legittima: non solamente essa è rivendi-cata dagli uomini del nostro tempo, ma è ancheconforme al volere del Creatore… Se invece… siintende dire che le cose create non dipendonoda Dio e che l’uomo può adoperarle senza rife-rirle al Creatore, allora a nessuno che creda inDio sfugge quanto false siano tali opinioni. Lacreatura, infatti, senza il Creatore svanisce” (Gau-dium et spes, n. 36).

Uno Stato che, dichiarandosi neutrale, non ri-conoscesse le differenti, molteplici e legittime

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sibile un’accoglienza vera e profonda di Cristo”(Benedetto XVI, Angelus del 10 giugno 2007).

7. Secolarità e secolarizzazione

La secolarità è cosa diversa dalla secolariz-zazione: essa consiste nel riconoscere l’obiettivaautonomia delle realtà terrene, liberandole dauna dipendenza impropria o, addirittura, erratanei confronti di Dio e, quindi, dalla sfera sacrale.L’accento deve cadere non sul termine “dipen-denza”, poiché ogni realtà è dipendente da Dioe altrimenti Dio non sarebbe Dio, ma sui termini“impropria” ed “errata”.

Il processo di secolarizzazione conduce versoun mondo e un’umanità senza riferimento allaTrascendenza (cfr. Benedetto XVI, discorso dell’8marzo 2008). E così - quando si parla dell’uomo,della convivenza sociale e dei valori, in terminiappunto di secolarizzazione - Dio viene percepitocome problema: in tale prospettiva, infatti, Dioviene considerato alternativo a queste realtà e aquesti valori, se vissuti in modo degno del-l’uomo. Questo, però - va ribadito - è contrarioad una corretta laicità.

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muni dalla coercizione da parte dei singoli indi-vidui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potereumano, così che in materia religiosa nessuno siaforzato ad agire contro la sua coscienza né siaimpedito, entro debiti limiti, di agire in confor-mità ad essa: privatamente o pubblicamente, informa individuale o associata… Il diritto alla li-bertà religiosa si fonda realmente sulla stessa di-gnità della persona umana... Questo diritto dellapersona umana alla libertà religiosa deve esserericonosciuto e sancito come diritto civile nell’or-dinamento giuridico della società” (Dignitatis hu-manae, n. 2).

I Paesi di antica tradizione cristiana - è undato obiettivo - sono segnati da una forte tassodi scristianizzazione e così, seppure con situa-zioni profondamente diverse fra loro, la nostracondizione di uomini del terzo millennio ripro-pone quella degli esordi della Chiesa.

Ovviamente le cause che allora avevano de-terminato quella situazione socio-culturale nonsono le stesse di oggi; la storia, infatti, non si ri-pete meccanicamente, riproponendo gli stessischemi. Ora, però, una tale somiglianza ci ricorda

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identità che gli stanno di fronte - tra cui, perprime, quelle religiose - ed anzi pretendesse li-mitarle o rinchiuderle nella sfera del privato, innome di una presunta neutralità, genererebbegravi ripercussioni ed anche forti tensioni sia sulpiano religioso che su quello culturale e, di con-seguenza, in tutto l’ambito sociale.

Ci si può trovare, in tal modo, dinanzi a unprogetto politico che si propone come “neutrale”ma, in realtà, è pregiudizialmente contrario alledifferenti identità, specialmente a quelle religiose,e le rifiuta non riconoscendo loro uno spazio pub-blico e le costringe all’interno delle coscienze. Maquesta, lo ripetiamo, non è laicità; è laicismo.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella dichia-razione Dignitatis humanae, intende la libertà re-ligiosa a partire dalla persona umana e laconsidera come suo diritto inalienabile. Il testoconciliare afferma che tale diritto è più esteso delprincipio della libertà di coscienza in quantodeve essere riconosciuto dall’ordinamento giuri-dico ed entrare a far parte del diritto civile. Mariprendiamo le inequivocabili parole della dichia-razione: “…gli esseri umani devono essere im-

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stente, pronto in ogni momento ad avvalorare lescelte di una modernità più incline a seguire lalinea della secolarizzazione o, meglio, del seco-larismo laicista piuttosto che quella di una realee obiettiva secolarità. Il discepolo è chiamato adun discernimento critico personale e comunita-rio-ecclesiale circa i valori sui quali si gioca l’es-senziale dell’uomo e della retta convivenza, ivalori irrinunciabili di una retta antropologia a li-vello filosofico e culturale.

Su questa linea troviamo il costante magisteroecclesiastico e, tra l’altro, quanto Benedetto XVIha sottolineato più volte, partendo dalla centra-lità della persona e dai principi che non sonoastratta ipotesi ma realtà concreta.

I valori “non negoziabili”, in quanto inscrittinella natura stessa della persona sono irrinun-ciabili, pena il vanificare la centralità della per-sona, svuotandola dall’interno. Qui s’intende latutela e la promozione della vita in tutte le suefasi - dal concepimento alla morte naturale -, lapromozione della struttura naturale della fami-glia, quale unione fra uomo e donna aperta allavita e fondata sul matrimonio, difendendola da

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che quanti sono chiamati al discepolato e al-l’evangelizzazione operano - oggi, come ieri - inun contesto non cristiano: questo è il punto sucui siamo invitati a riflettere.

Sarebbe irrealistico immaginare un quadrosocio-culturale differente da quello esistente,come sarebbe un esercizio sterile lagnarsi di ciòche ci sta dinanzi; si tratta, piuttosto, di prenderecontatto con la realtà.

La somiglianza fra i nostri anni e quelli delNuovo Testamento ci rimanda allora alla parolarivolta dal Signore a Paolo nella città di Corinto;quando l’Apostolo, per la piccolezza e la povertàdei suoi mezzi, viene esortato a non aver paura,dinanzi all’imponenza della città di Corinto (cfr.At 18, 9).

Si tratta, per un verso, di non guardare allaChiesa come a una realtà chiusa in se stessa etimorosa del mondo, al punto da rimanervi estra-nea; allo stesso tempo, non bisogna avere un at-teggiamento ingenuo e acritico, succube di fronteal mondo.

Il cristiano, infatti, non è il notaio dell’esi-

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contro la verità della persona umana, una feritàgrave inflitta alla giustizia stessa” (BenedettoXVI, Discorso del 30 marzo 2006).

Il XX secolo - detto “breve” - è conosciutocome il secolo delle ideologie. Tali ideologie chehanno prodotto i campi di sterminio nazisti, igulag sovietico e non solo… A queste ideologie“maggiori” se ne possono, infatti, aggiungere altree una è il capitalismo consumista che taluni sisono illusi potesse, da solo, governare il mercato.

Queste ideologie avevano per comune deno-minatore l’elaborazione di progetti umani diversitra loro ma che si ponevano in contrasto con ciòche la Rivelazione cristiana dice su Dio, sul-l’uomo e sul bene comune. A ben considerarequindi, in particolare per le ideologie maggiori,non si trattò solamente di inganni politici ma divere tragedie che, lungo il Novecento, costaronola vita a milioni di persone.

8. La trasmissione della fede in un contesto secolarizzato

Coloro che sono chiamati a testimoniare la

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quei tentativi di renderla giuridicamente equiva-lente a forme diverse d’unione, e il riconosci-mento del diritto dei genitori ad educareliberamente i propri figli (cfr. Benedetto XVI, Di-scorso del 30 marzo 2006).

Il Santo Padre spiega, in tale contesto, le ca-ratteristiche di principi e valori che - per il catto-lico impegnato nella vita della polis a serviziodella persona e del bene comune - non possonomai essere considerati principi e valori di pococonto o comunque superabili a livello di prassi.

Tali principi, in particolare, non sono afferma-zioni confessionali; appartengono, piuttosto, allaverità della persona. Ecco le parole di BenedettoXVI: “Questi principi non sono verità di fedeanche se ricevono ulteriore luce e conferma dallafede. Essi sono iscritti nella natura umana stessae quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azionedella Chiesa nel promuoverli non ha dunque ca-rattere confessionale, ma è rivolta a tutte le per-sone, prescindendo dalla loro affiliazionereligiosa. Al contrario, tale azione è più necessa-ria quanto più questi principi vengono negati omal compresi perché ciò costituisce un’offesa

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fatti alla logica del Vangelo, secondo la qualeogni uomo è chiamato a conversione. Le primeparole di Gesù nel Vangelo di Marco sono, in ef-fetti, un appello alla conversione: “Convertitevie credete nel Vangelo” (Mc 1, 15).

Il discepolo non può, quindi, limitarsi a pren-dere le distanze da quanto non è in consonanzacol Vangelo o a formulare un annuncio che nonsia, allo stesso tempo, anche un invito a condi-videre un cammino comune; certo, così facendo,si eviterebbe la fatica di capire e di amare mal’evangelizzatore è colui che sempre invita - nellospirito di una reale conversione - a un camminodi comunione nella Chiesa.

Solo ricordando la risposta di Gesù ai primidiscepoli - l’invito a stare con Lui (cfr. Gv 1, 39 ess.) - e nella fedeltà a tale spirito, percorrendoun cammino di vita condivisa, è possibile essere- in una società secolarizzata come la nostra - te-stimoni del Vangelo. Qualcosa di simile è acca-duto ai due discepoli sulla strada di Emmaus,ascoltando Gesù Risorto (cfr. Lc 24, 13-35).

Il discepolo evangelizzatore, però, non puòavallare acriticamente l’esistente che, spesso, è

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propria fede evangelizzando devono, innanzi-tutto, amare il Signore Gesù.

Il dialogo che avviene tra Gesù e Pietro sullerive del lago di Tiberiade - dopo la risurrezione(cfr. Gv 21,15-19) - non riguarda solo la personadi quell’apostolo ma riveste un valore costanteper i discepoli di ogni tempo.

Gesù, per ben tre volte, domanda a Pietro - ilprimo fra gli apostoli - di confessare il suo amore,soltanto dopo gli affiderà la cura del gregge. Ciòesprime qualcosa che appartiene in modo stabileal ministero della Chiesa: l’amore personale deldiscepolo per Gesù precede ogni possibile condi-scendenza e amore verso coloro ai quali il disce-polo viene mandato a portare il Vangelo.

L’evangelizzatore non può limitarsi a stigma-tizzare o prendere le distanze da persone o si-tuazioni, come non può avallare, in modoacritico, ciò che, di volta in volta, incontra sullasua strada.

Questi due atteggiamenti sono in contrasto fraloro ma - cosa ben più rilevante - sono in con-trasto con lo stile di Gesù; non appartengono in-

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A tal proposito è essenziale ricordare quantol’enciclica Redemptoris missio, afferma sul rap-porto tra dialogo e annuncio: “…la chiesa nonvede un contrasto fra l’annuncio del Cristo e ildialogo…. Occorre… che questi due elementimantengano il loro legame intimo e, al tempostesso, la loro distinzione, per cui non vanno néconfusi, né strumentalizzati, né giudicati equiva-lenti come se fossero intercambiabili...” (Redem-ptoris missio, n. 55).

Tralasciare l’annuncio, pensando che il dialogosia sufficiente, vuol dire trattenere per sé Gesù,il dono di Dio a ogni uomo. Ma senza Gesù - viae verità - l’uomo non raggiungerà mai la vera vitae smarrirà se stesso.

L’uomo è invitato ad incamminarsi non per isentieri interrotti di un fluttuante consensoumano ma per la via della verità, la sola che con-duce alla vita.

E la vita è il dono di Dio che, sempre, do-manda d’esser accolto. Questo è il punto: acco-gliere la vita, sempre. Riconciliarsi con la vita,sempre, senza se e senza ma, non appena la vitasi dà, non appena la vita appare, non appena la

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esito di una mentalità individualista ed edonista;taluni - per fortuna non molti - auspicano unaChiesa silenziosa e vedono in ogni suo annuncioun’indebita ingerenza o - come dicono - “arro-ganza dottrinale” ma, alla luce dei fatti, è neces-sario che il discepolo evangelizzatore evitiingenuità, falsi timori e complessi di inferiorità,tutte espressioni di una fede che, nel contestoattuale, sembra aver smarrito se stessa.

Il dialogo/annuncio deve partire dalle storieconcrete delle persone, traendo spunto dal vis-suto quotidiano e dall’ascolto, frutto di empatiae disponibilità.

Avere tempo per il prossimo, in una società incui tutti hanno fretta e non hanno mai tempo, ègià, di per sé, una “buona notizia” e, quindi, unvero “vangelo” e, alla fine, la modalità prima perincontrare le persone.

Come ogni dialogo, anche quello concernentela fede può essere genuino o no: il dialogo èevangelicamente genuino - e non “sofisticato” -quando non priva l’interlocutore del dono diGesù Cristo, il sommo bene che un giorno, a suavolta, il discepolo-evangelizzatore ha ricevuto.

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culture del nostro tempo ma ne sono, personal-mente, espressioni vive.

Gli uomini e le donne del nostro tempo por-tano in sé, oltre a forti contraddizioni, anche nonpochi valori e richiami alla Trascendenza; ciò simanifesta, per esempio, attraverso le ricorrentied ineludibili domande sul senso della vita e, piùin generale, dell’essere.

A ben vedere, le realtà create e l’uomo in pri-mis rimandano a Qualcuno - qualcosa non basta- che va oltre loro, così da poter render ragionedella precarietà strutturale che le caratterizza. Lecreature, in quanto tali, sono realtà fragili che de-nunciano la loro insufficienza interrogandosi sullaloro origine e fine, la morte.

Tale fragilità strutturale appartiene all’uomo inquanto tale e si può mostrare in ogni momento,in tutta la sua forza dirompente.

Nel suo richiamarsi ad un Altro l’uomo, a par-tire proprio dalla sua insufficienza strutturale,scopre una possibilità d’approccio e d’acco-glienza di una non impossibile “Parola” che Diogli potrebbe rivolgere.

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vita principia.

Non ci possiamo accontentare d’accoglienzeframmentarie o parziali della vita. L’impegno,quindi, è quello di superare ogni forma d’obliodella vita, soprattutto dove essa si manifesta piùdebole e vulnerabile, vale a dire la vita nascentee la vita che si sta spegnendo.

9. La fede e le grandi domande dell’uomo

Per chi vuole testimoniare la propria fede nonè sufficiente, allora, limitarsi a prendere le di-stanze da scelte culturali fondate su antropologienon aperte al Trascendente o da progetti culturaliche non salvaguardano la centralità della per-sona, soprattutto in rapporto alla vita nei mo-menti di massima fragilità.

È necessario, invece, individuare modalità ca-paci di trasmettere in maniera “sensata” la fedein un contesto storicamente e culturalmente de-terminato.

Bisogna, dunque, trovare un approccio chepermetta d’entrare in dialogo proficuo con gli uo-mini e le donne che non solo sono immersi nelle

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dernità o post-modernità che non vedano riemer-gere, nel cuore dell’uomo, queste perenni edrammatiche domande che esprimono, nella loropeculiarità, la grandezza di chi se le pone.

Qui abbiamo una pista che ci permette d’en-trare, in modo concreto, in dialogo con gli uominie le donne che ogni giorno incrociamo lungo lestrade delle nostre città e nei luoghi ove viviamo.

Ogni giorno incontriamo molti volti che, nellaloro inviolabilità personale, e nel rispetto che esi-gono con il loro solo apparire, ci annunciano il“Tu” per antonomasia: il “Tu” di Dio.

Questi “tu” molteplici - uomini e donne che in-contriamo ogni giorno - ci richiamano la pienezzapersonale di quel “Tu” che solo può darci ragionedella nostra fragilità e precarietà personale.

Coscienza, autocoscienza e libertà sono le ca-ratteristiche specifiche dell’uomo; esse non per-mettono che lo si possa liquidare come meroprodotto della natura o cieco sviluppo della ma-teria. Infatti, solo a partire da una vita superiorepossiamo rispondere alle domande che la libertà,la coscienza e l’autocoscienza ci pongono.

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E, a cominciare da tali domande, si fa strada,anche nell’uomo più secolarizzato, la dimensionereligiosa.

Le domande che interpellano l’uomo sono, adun tempo, le più profonde e universali - sono,infatti, di tutti gli uomini - ma, anche, le più sem-plici e più vere: “Io, chi sono?”, “Da dovevengo?”, “Dove sono diretto?”, “Cosa mi aspettadopo questa vita?”, “Ha senso una felicità desti-nata a finire?”, “Chi garantisce la mia domandaultima di felicità?”…

Domande che non appartengono a determi-nate culture o scuole di pensiero ma, come co-stanti, ritornano continuamente, pesanti comemacigni e destinate - come sono - a riemergereperché esprimono i problemi eterni dell’uomo edell’intera umanità.

Sono le grandi domande che l’uomo si porràsempre in ogni tempo e luogo; sono le do-mande che riecheggeranno fino a quando, sullaterra, vi sarà un uomo.

Non c’è antichità classica o cristiana, basso oalto medioevo, rinascimento o umanesimo, mo-

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astratta all’icona ” (O. Clément, Ana Cronache.Morte e risurrezione, pag. 37, Milano 1992).

La possibilità di interrogarsi in modo radicale- cioè andando alla radice - sulla questione dellalibertà costituisce un percorso da esplorare. Bi-sogna andare fino in fondo alla domanda “Machi sono io?” che, nel suo nucleo più profondo,è sempre “antropologica-teologica”.

Così anche l’uomo immerso in una culturaprofondamente secolarizzata, e nonostante ciò,risulta personalmente interpellato e coinvoltodalle domande riguardanti il senso e l’essere.

In tal modo, percepisce la domanda sul de-stino, sulla felicità e sulla garanzia ultima che ri-guarda il suo io personale come qualcosa che vaoltre le vicende materiali e verificabili, ossia lerealtà “penultime”. Egli coglie la domanda su disé come la domanda che mette in questione, enel modo più radicale, tutta l’esistenza.

10. La gioia e la fierezza di “dire” Gesù Cristo a tutti

Alla Vergine Maria, beata perché ha creduto

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A proposito della libertà, certamente ci puòaiutare quanto ha scritto il teologo ortodosso Oli-vier Clément. Per cogliere meglio il suo pensiero,non dobbiamo dimenticare che Clément, origina-riamente ateo, giunse a Dio dopo un laboriosocammino, convertendosi a Cristo all’età di venti-sette anni ed entrando a far parte del Patriarcatodi Mosca.

Attraverso un’esperienza diretta, e non tramitemediazioni culturali talvolta faticose e discutibili,Clément parla con cognizione di causa di quelloche è stato il socialismo reale in Unione Sovieticae di quanto accadde dopo la caduta del muro diBerlino nel 1989.

Ecco le sue parole: “La libertà. Non bisognaaver paura di questa esigenza di libertà indivi-duale che caratterizza le nostre società. Bisognaspingerla fino in fondo, fino alla contestazionedella morte che apre alla risurrezione, fino all’im-pazienza di ogni limite che apre alla rivelazione.In Russia la più moderna cultura ha dato agli in-tellettuali uno spazio di libertà. Anche se atea,la libera riflessione filosofica ha spesso portatoall’interrogazione mistica, così come l’arte

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la difficoltà a testimoniare il Vangelo a quelle per-sone e a quelle culture che, dopo aver teorizzatoin modi diversi la “morte” di Dio, non sanno piùcome rispondere alle domande che costante-mente nascono e rinascono dalla nostra creatu-ralità - il perché del venire al mondo, del viveree del morire -, unite alla tensione costante a unavita vissuta in pienezza e nella felicità.

La Vergine Maria, madre della gioia e dellasperanza, ci aiuti infine a discernere il valoreumano e cristiano della vera secolarità in un con-testo di forte e, talora, ideologica secolarizza-zione.

A tutti auguro l’umile fierezza di chi avverte insé la gioia di dire Gesù Cristo e di dirLo a tuttisenza reticenze o timori riverenziali e, particolar-mente, di continuare o ricominciare a dirLo pro-prio in quei contesti nei quali sembravaimpossibile poterLo dire.

Venezia, 2 febbraio 2013

✠ Francesco Moragliapatriarca

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(cfr. Lc 1, 45), affidiamo il secondo tratto del cam-mino della nostra Chiesa diocesana in questoAnno della Fede. Ella che, come prima discepola,si è incamminata con passo frettoloso e gioiosoa far visita alla cugina Elisabetta - portando, insé, Gesù - aiuti anche noi a recare con gioia ilbuon annuncio del Vangelo.

La gioia, infatti, è la cifra che deve accompa-gnare costantemente l’annuncio di Gesù Cristo, ilRisorto. È proprio la gioia, secondo i vangeli, ilsegno primo della Pasqua che riassume e fa pro-pria l’intera storia dell’uomo. Realmente, a Pa-squa, si compie e propone la pienezza delVangelo cristiano: “La sera di quel giorno - ricordaGiovanni -, il primo della settimana, mentre eranochiuse le porte del luogo dove si trovavano i di-scepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stettein mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto que-sto, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoligioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro dinuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandatome, anche io mando voi»” (Gv 20, 19-21).

La Vergine Maria, prima evangelizzatrice, ci so-stenga soprattutto nei momenti in cui avvertiamo

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