Architettura - Pescara · cui arcangelo, archiatra, arcivescovo, archiginnasio, archètipo, usato...

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2 aprile 2013 Architettura L'architettura esiste? Domanda provocatoria. Me la pongo perché Kahn afferma che l'archi- tettura non è possibile afferrarla, non ha presenza. Solo un'opera di ar- chitettura ha presenza. 1 Se "non ha presenza" vuol dire che non è qual- cosa di fisico, che è un'astrazione. Par di sentire il filosofo Carlo Viano per il quale la filosofia non esiste 2 , o lo storico dell'arte Gombrich per il quale non esiste, in realtà, una cosa chiamata arte, esistono solo gli ar- tisti. 3 Kahn, Viano e Gombrich sono tre pazzi? No, giocano solo a equivocare sulla differenza fra le cose e le parole con cui le nominano. La battuta di Kahn, se proprio vogliamo salvarla, ci invita a parlare di cose concrete (le architetture), anziché di astrazioni (la architettura). Ma non ci rivela alcun segreto. Ci ricorda solo qualcosa di arcinoto: che le parole sono delle astrazioni di comodo per parlare di cose in qualche misura diverse, ma assimilabili ai fini del discorso che stiamo facendo. Se ad esempio discutiamo di ascensori e ospedali, non occorre dire a quale ospedale ci riferiamo fintantoché il discorso vale per qualsiasi o- spedale e per qualsiasi ascensore. Ma se vale per un solo ospedale, non esitiamo a passare al nome proprio: "Nell'ospedale X gli ascensori sono a sinistra entrando". La parola "ascensore" è a sua volta un'astrazione da un insieme di individui diversi, che verranno citati per nome e cognome non appena il discorso lo richiederà: "All'ospedale X è fuori servizio l'a- scensore marca Y, modello Z. Chiamate i manutentori della ditta". "Architettura" è una parola da definire 1 – Chiede il cliente: "Che differenza c'è fra il semplice costruire e quel che lei continua a chiamare archi- tettura?" Risponde l'architetto: "È la formula magica con cui la distraggo e che mi consente di chiederle una parcella più alta per via del suo entusiastico applauso…" (Maaik, 1/10/2011). 1 Christian Norberg–Schulz, Jan Georg Digerud, Louis I. Kahn, idea e immagine, Officina, Roma 1980, p. 119. 2 Carlo Augusto Viano, Va' pensiero, Einaudi, Torino 1985, pp. 23-24. 3 La storia dell'arte raccontata da E. H. Gombrich, Leonardo Arte, Milano 1990, p. 15.

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Architettura

L'architettura esiste? Domanda provocatoria. Me la pongo perché Kahn afferma che l'archi-

tettura non è possibile afferrarla, non ha presenza. Solo un'opera di ar-chitettura ha presenza.1 Se "non ha presenza" vuol dire che non è qual-cosa di fisico, che è un'astrazione. Par di sentire il filosofo Carlo Viano per il quale la filosofia non esiste2, o lo storico dell'arte Gombrich per il quale non esiste, in realtà, una cosa chiamata arte, esistono solo gli ar-tisti.3

Kahn, Viano e Gombrich sono tre pazzi? No, giocano solo a equivocare sulla differenza fra le cose e le parole con cui le nominano. La battuta di Kahn, se proprio vogliamo salvarla, ci invita a parlare di cose concrete (le architetture), anziché di astrazioni (la architettura). Ma non ci rivela alcun segreto. Ci ricorda solo qualcosa di arcinoto: che le parole sono delle astrazioni di comodo per parlare di cose in qualche misura diverse, ma assimilabili ai fini del discorso che stiamo facendo.

Se ad esempio discutiamo di ascensori e ospedali, non occorre dire a quale ospedale ci riferiamo fintantoché il discorso vale per qualsiasi o-spedale e per qualsiasi ascensore. Ma se vale per un solo ospedale, non esitiamo a passare al nome proprio: "Nell'ospedale X gli ascensori sono a sinistra entrando". La parola "ascensore" è a sua volta un'astrazione da un insieme di individui diversi, che verranno citati per nome e cognome non appena il discorso lo richiederà: "All'ospedale X è fuori servizio l'a-scensore marca Y, modello Z. Chiamate i manutentori della ditta".

"Architettura" è una parola da definire

1 – Chiede il cliente: "Che differenza c'è fra il semplice costruire e quel che lei continua a chiamare archi-tettura?" Risponde l'architetto: "È la formula magica con cui la distraggo e che mi consente di chiederle una parcella più alta per via del suo entusiastico applauso…" (Maaik, 1/10/2011).

1 Christian Norberg–Schulz, Jan Georg Digerud, Louis I. Kahn, idea e immagine, Officina, Roma 1980, p.

119. 2 Carlo Augusto Viano, Va' pensiero, Einaudi, Torino 1985, pp. 23-24. 3 La storia dell'arte raccontata da E. H. Gombrich, Leonardo Arte, Milano 1990, p. 15.

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"Architettura" è dunque una parola, utile per certi discorsi (fig. 1), compresi quelli che facciamo qui, e occorre definirla, dato che come qualsiasi altra parola ha solo i significati che le attribuiamo e che prima o poi vengono registrati dai vocabolari.

Prima di tutto vediamone l'origine. La parola è composta da due parti: archi- e -tettura. Avrà a che fare con gli archi, quelle strutture curve che scaricano il peso soprastante ai due lati di finestre e porte? E con i tetti, dato che tutti gli edifici hanno un tetto che li chiude superiormente? Nossignore. Non c'entra né con gli archi né coi tetti. Il prefisso archi- viene dal verbo greco archèin (essere primi, essere capi, comandare), da cui arcangelo, archiatra, arcivescovo, archiginnasio, archètipo, usato an-che come suffisso (monarca, patriarca).

La seconda parte, -tettura, come dicevo non ha a che fare con i tetti, che vengono dal latino tegere, "coprire", da cui anche tegola, teca, toga, proteggere. Viene dal greco tektonikòs, "relativo alla costruzione". Tè-kton è "costruttore, artefice, fabbro, carpentiere". L'architèkton è dun-que il "capo dei costruttori" e l'architettura è "la costruzione dell'archi-tetto".

Caratteri essenziali dell'architettura Stabilita l'origine della parola, vediamo il significato che le attribuisco-

no i dizionari. Secondo uno dei migliori, il Dizionario Italiano Ragiona-to,4 l'architettura è l'arte e la tecnica della progettazione e realizzazione di costruzioni che rispondono a esigenze strutturali, funzionali ed este-tiche. Negli altri vocabolari troviamo definizioni analoghe, tutte basate sui tre caratteri - firmitas, utilitas e venustas - indicati come essenziali già duemila anni fa da Vitruvio, in uno dei passi più citati dei suoi Dieci Libri (I, 3), il più antico trattato di architettura pervenutoci.

Nella traduzione più antica che possiedo, del 1747 (fig. 2), la frase suona così: Tre sono le cose, che in ogni Fabbrica debbono ritrovarsi sempre unite insieme; e sono la Sodezza, la Comodità, e la Bellezza.5 Un secolo dopo (1854), il Marchese Galiani traduce invece: negli edifici si hanno ad aver presenti la Fortezza, il Comodo e la Bellezza. La fortezza dipende dal calare le fondamenta fino al sodo, e fare senza avarizia e-satta scelta de' materiali. Il comodo dall'esatta distribuzione de' membri dell'edificio, senza che ne resti impedito l'uso, anzi abbia ciascuno l'a-spetto suo proprio e necessario. La bellezza finalmente dall'aspetto dell'opera, se sarà piacevole e di buon gusto, e le misure de' membri a-vranno le giuste proporzioni.6

La "triade vitruviana" è stata riproposta, stucchevolmente, infinite vol-te. Un verboso autore ottocentesco, il Cestari, così la presenta: Fra tutte le arti figlie della necessità e del piacere che l'uomo inventò a proprio

4 AA. VV., DIR, Dizionario Italiano Ragionato, D'Anna–Sintesi, Firenze 1988. 5 L'Architettura Generale di Vitruvio Ridotta in Compendio dal Sig. Perrault, Albrizzi, Venezia 1747, pp.

31-32. 6 Dell'Architettura Libri Dieci di M. Vitruvio Pollione, tradotti e commentati dal Marchese Berardo Galiani

napolitano, G. Antonelli, Venezia 1854, p. 124.

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aiuto, a raddolcire le pene della vita, a tramandare la sua memoria alle future generazioni, l'architettura tiene uno dei seggi più distinti. Per ciò concorre all'utilità; essa vince tutte le altre, mentre partecipa di ognuna, ed è l'aureo anello che lega in dolce accordo quelle appunto dell'utile con le altre destinate al puro diletto. Ella mantiene la sanità degli uomini offrendo loro comodo albergo e lavoro ad un tempo e sicurezza. Depo-sitaria della gloria, del gusto e del genio de' popoli, attesta ai secoli fu-turi il grado di potenza o di debolezza degli Stati; imprime ai principi che l'hanno impiegata il suggello dell'onore o del disprezzo, e serve alle future generazioni di regola per valutar quelle che più non esistono.7

2 – Il Vitruvio ridotto da Perrault, Albrizzi, Venezia 1747. La stampina in antiporta riprende quella dell'e-dizione originale francese (1693), in cui Perrault aveva rappresentato immodestamente le sue principali opere: il ponte St-Antoine, l'osservatorio di Faubourg St-Jacques e la facciata del Louvre. Nella stampina ridisegnata per l'edizione italiana rimane solo il ponte. Avrete notato che Cestari cambia l'ordine di Vitruvio: mette al primo

posto la bellezza (che raddolcisce le pene della vita), lascia al secondo l'utilità (che mantiene sani gli uomini offrendo loro comodo albergo e sicurezza) e relega al terzo la solidità (che pur depone eternamente in favore o contro chi l'ha costruita).

Vitruvio ha elencato tre caratteri per il pregiudizio che faceva di quel >numero, senz'alcun motivo, un bel numero. Noi quel pregiudizio non ce l'abbiamo e possiamo divertirci a metterne più di tre o meno di tre.

7 Tom. Emanuele Cestari, Le professioni che possono scegliere e cui avviarsi i giovani studenti, Narato-

vich, Venezia 1871 2a, pp. 280–281.

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Eliminare la firmitas? Limitarsi a due eliminando la firmitas? Impossibile, perché tutti gli

edifici devono stare in piedi, anche se progettati proprio per crollare, spettacolarmente, ma solo a un certo punto (del film: vedi il grattacielo de L'inferno di cristallo). Possono peraltro simulare instabilità, come i tanti edifici che sembrano sul punto di andare in >rovina, a partire dalle false ruine settecentesche fino ai tanti edifici odierni squinternati, deco-struiti, sgarrupati8.

Eliminare l'utilitas? Più facile togliere l'utilitas, perché la >funzione è qualcosa di aleato-

rio, di temporaneo. Mies – che pure passa per essere un "funzionalista" – afferma che lo scopo cui l'edificio serve muta continuamente, ma non possiamo permetterci di abbatterlo. Perciò, capovolgendo lo slogan di Sullivan "la forma segue la funzione", costruiremo uno spazio pratico ed economico entro cui adattare le funzioni.9 Coerentemente Mies ha co-struito proprio degli "stanzoni", nei quali le funzioni, beninteso tempo-ranee, devono adattarsi in qualche modo: vedi l'enorme Crown Hall en-tro cui, con l'aiuto di pannelli e divisori precari, sopravvive (o sopravvi-veva, quando ci sono andato nel 1987), la facoltà di architettura dell'IIT.

Eliminare la venustas? Togliere la venustas sarebbe ancora più facile, ma probabilmente non

ci conviene, visto che in genere le persone ci riconoscono - bontà loro - un gusto per la >bellezza superiore al proprio. È comunque l'anello più debole della triade, tant'è che i funzionalisti han potuto dichiararla un mero corollario delle altre due: per loro un edificio solido e utile risulta-va automaticamente bello.

Quali caratteri aggiungere? Visto che non possiamo, o non ci conviene, toglier nulla dalla triade

vitruviana10, chiediamoci ora: è il caso di aggiungervi qualcosa? Non ab-biamo che l'imbarazzo della scelta.

Zevi richiede all'architettura di avere uno spazio interno, escludendo così la Tour Eiffel e i ponti, tranne quelli abitati come Ponte Vecchio e Rialto.

8 Termine napoletano - che significa scassato, squinternato, scombiccherato, trasandato, malmesso - re-

so famoso dal maestro Marcello D'Orta col suo libro Io speriamo che me la cavo: sessanta temi di bambini napoletani (Mondadori 1990). Nel tema «Descrivi la tua casa» un bambino aveva scritto: La mia casa è tutta sgarrupata, i soffitti sono sgarrupati, i mobili sgarrupati, le sedie sgarrupate, il pavimento sgarrupato, i muri sgarrupati, il bagno sgarrupato. Però ci viviamo lo stesso, perché è casa mia, e soldi non ce ne stanno. Mia madre dice che il Terzo Mondo non tiene neanche la casa sgarrupata, e perciò non ci dobbiamo lagnare: il Terzo Mondo è molto più terzo di noi!

9 Cit. da Norberg-Schulz, Intenzioni in architettura, p. 250. Il famoso slogan "la forma segue la funzione" è invece attribuito da Rykwert (Necessità dell'artificio, p. 196) al protofunzionalista americano Horatio Gree-nough (1805-52) e da Pevsner (Dizionario di architettura, p. 239) a Dankmar Adler (1844-1900), il socio di Sullivan (1856-1924).

10 Qualcuno però ci ha provato: Bernard Tschumi ha proposto di sostituirla completamente con una nuo-va, peraltro assai improbabile: spazio, evento e movimento (Architecture and Disjunction, MIT Press, Cam-bridge MA 1994).

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Altri considerano essenziali, o auspicabili, la simbolicità, l'espressività, la geometria, le contraddizioni, l'economicità, la vendibilità, la rapidità di >costruzione, l'ambientamento, il rispetto della >natura, la sostenibi-lità, l'antisismicità, la verità (escludendo i set cinematografici e la finta Venezia11 costruita a Las Vegas, fig. 3).

3 – The Venetian a Las Vegas, un hotel con 3.036 suite da 70 mq ciascuna, sale da gioco, centro congres-si ecc. Architettura e culinaria Qualcun altro - evidentemente goloso – vorrebbe richiedere all'archi-

tettura delle caratteristiche esplicitamente culinarie, per i rapporti stret-tissimi che unirebbero il cibo e gli edifici.12 Forse che con il gusto non riconosciamo sia il buono da mangiare che il bello da vedere? Forse che i cuochi non partono come noi da materiali naturali? Forse che come noi non li trasformano al punto da renderli irriconoscibili?13 Antonin Carê-

11 Guido Moltedo (Welcome to Venice. Cento volte imitata, copiata, sognata, Consorzio Venezia Nuova,

2007) elenca oltre un centinaio di città chiamate Venezia, Venice, Venecia, Veneza, Venetia…, spesso con il loro Palazzo Ducale, il Campanile, il ponte di Rialto, le gondole; nonché un intero stato, il (anzi la) Venezuela (Piccola Venezia), così battezzata dal vicentino Amerigo Vespucci nel 1499, per via degli indios che abitavano su palafitte nella laguna di Maracaibo.

12 Come d'altronde il cibo e i quadri. Baj usava al posto della tavolozza dei piatti, forse perché ricordano la cucina. E la pittura, dicono i francesi, è una cuisine, cioè un misto di sapori, di spezie e odori, di carni e di verdure e frutta colorate. Inoltre dipingere è come partecipare a un banchetto ove il commensale quelle lec-cornie colorate che spreme dai tubetti sul piatto, anziché mangiarsele, le fa digerire dalla tela. Tutti i piatti van bene, specialmente se sbeccati, meglio quelli piani che non le fondine adatte a zuppe e brodaglie dilui-te… (Enrico Baj, Impariamo la pittura, BUR, Milano 1987, p. 91).

13 Su questo genere di argomenti consiglio due raccolte di saggi: Eating Architecture, edited by Jamie Horwitz & Paulette Singley, The MIT Press, Cambridge MA 2006; The Architect, the Cook and Good Taste, edited by Petra Hagen Hodgson & Rolf Toyka, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin 2007.

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me, detto il Palladio dei cuochi, considerava l'architettura nient'altro che una branca misconosciuta della pasticceria.14

Qualche lustro dopo di lui l'architetto scozzese James Fergusson (1808-86), in una conversazione sui «Principi della progettazione archi-tettonica» tenuta il 9 dicembre 1862, disse ai suoi attoniti ascoltatori che il processo attraverso cui una capanna viene elevata a tempio o un luogo di riunione a cattedrale, è lo stesso attraverso cui un collo di montone diventa una Côtelette à l'Impériale e un pollo alla griglia un Poulet à la Marengo. In parole povere, egli continuò, se volete conoscere i princìpi della progettazione architettonica vi converrà di più studiare le opere dei cuochi famosi che non uno o tutti gli scrittori di architettura da Vitruvio in poi.15

Indubbiamente il nostro immaginario è ricco di edifici commestibili. Fin da piccoli ci han raccontato la storia della casetta di cioccolato, ca-ramelle, marzapane, torrone e zucchero in cui la perfida strega attira Hänsel e Gretel, cioè Giovannino e Gretina (fig. 4).

4 – La casetta commestibile della strega, nella fiaba «Hänsel e Gretel» dei fratelli Grimm. Poi, crescendo, abbiamo appreso che i romani facevano edifici com-

mestibili, che Bernini costruiva allestimenti di zucchero per la Curia ro-mana, che Salvador Dalì parlava di bellezza terrificante e commestibile

14 Jean–Claude Ribaut, «Architecture patissière», in: L'Architecture d'Aujourd'hui, 267, 1990, p. 24. Il po-

vero Marie-Antoine Carême (1783–1833), detto Antonin, appena nato venne abbandonato dal padre murato-re in una baracca di cantiere. Malgrado questa terribile esperienza, cui sopravvisse per miracolo, coltivò per tutta la vita un intenso amore per l'architettura, studiandola alla Biblioteca Nazionale sulle stampe di Terzio, Vignola, Palladio e Scamozzi. E applicandola poi ai suoi piatti, come possiamo vedere nelle 124 tavole di suo pugno che illustrano il Pâtissier pittoresque (1815; 1822, 2e édition revue et augmentée): dolci a forma di padiglioni, rotonde, templi, rovine, belvederi, forti e case di piacere. Carême morì nel 1833 sussurrando il faut doucement secouer la casserole, la casseruola va agitata dolcemente.

15 Peter Collins, I mutevoli ideali dell'architettura moderna, Il Saggiatore, Milano 1973, p. 216.

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dell'architettura Art Nouveau e che nell'estate del 1989 l'urbanista napo-letano Fabrizio Mangoni - secondo il quale la colonna greca e il babà raggiungono il medesimo grado di perfezione - ha realizzato a Procida, complici Nicola Pagliara, Benedetto Gravagnuolo e il cuoco Salvatore di Meo, una Casa sulla cascata fatta di ripiani di pane; nonché, in perfetto stile >hi–tech, una struttura di ferro infilzata a mo' di spiedo in un bra-sato di due metri e mezzo, nel quale aveva martellato dei chiodi di ga-rofano.

Oggi abbiamo l'Incredibile Casa Commestibile, ricoperta di pomodori, fagioli, tè verde ecc., innaffiati con acqua piovana opportunamente rac-colta e riciclata (fig. 5).

5 – L'Incredible-Edible House dello studio Rios+Clementi+Hale, idea di casa del futuro per il Wall Street Journal, 2009. Architettura e sartoria Non meno agguerriti i sostenitori di una stretta affinità fra architettura

e sartoria. Per Philip Johnson l'architettura è questo: sartoria. È la deco-razione di una struttura.16 D'altronde le analogie sono evidenti, come dimostra James Laver mettendo a confronto gli edifici con gli abbiglia-menti coevi17 (fig. 6).

16 Philip Johnson, «La storia è un modo più rapido per ottenere un risultato», in: Domus, 726, 1991, p.

25. 17 I ragionamenti di James Laver in Style in Costume (Geoffrey Cumberlege – The Oxford Univ. Press,

1949) hanno, come afferma Mario Praz in Mnemosine (Mondadori, Milano 1971, p. 35), un antecedente in An Anathomy of Clothes di Gerald Heard (Kegan Paul, Trench, Trubner & Co., London 1924) e sono stati a loro volta ripresi da Rosita Levi Pisetzky nella sua Storia del costume in Italia, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1964, vol. III, pp. 16, 18.

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6 – Analogie tra architettura e moda in epoca gotica, Tudor (fine '400, il ritratto è di Holbein) e nell'otto-cento (da J. Laver, cit., in Domus, 245, 1950, p. 37).

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Architettura e sesso Infine a parere di molti non guasterebbe, nella definizione di "architet-

tura", un qualche riferimento al >sesso, con il quale ogni cosa umana ha inevitabilmente a che fare. Quattro secoli prima di Freud, Filarete già ve-deva nell'architettura delle chiare valenze erotico–sessuali. Non è altro lo edificare – afferma - se none un piacere voluptuario, come quando l'uomo è innamorato, e chi l'ha provato il sa, ché nello edificare c'è tanto piacere e desiderio che quanto più l'uomo fa più vorrebbe fare … Così come quando uno è innamorato volentieri va a vedere la sua amorosa, e quando essa è in luogo che egli la vegga non gli rincresce e non gli vie-ne a noia il tempo, così colui che fa edificare va volentieri a vedere il suo edificio, e quanto più lo vede più lo vorrebbe vedere, e più gli cresce l'a-nimo, e quel tempo passa e non gli rincresce mai o di ragionare o di guardarlo, come lo innamorato proprio di ragionare dell'amorosa.18

Freud si spinge ancora più avanti: per lui lo spazio interno della casa rappresenta nei sogni (maschili) la donna, con porte e finestre a far da orifizi. Cosa invece rappresenti l'architettura nell'immaginario erotico femminile non lo sappiamo, e sarebbe interessante indagarlo. Con que-ste premesse, non stupisce che l'architettura venga rappresentata come una giovane donna, spesso ignuda o in vesti succinte (fig. 7): gli artisti, storicamente, sono nella stragrande maggioranza maschi.

7 – L'Architettura armata di compasso nella piazza antistante l'Hôtel de Ville parigino, già luogo di esecu-zioni capitali dal 1310 al 1830. Non esiste alcuna "essenza" dell'architettura Altre caratteristiche si possono ovviamente aggiungere, a discrezione

di chi definisce la parola "architettura". Qualcuno rimarrà comunque in-

18 Filarete, Trattato di architettura, (1464 ca.), Il Polifilo, Milano 1972, pp. 41–42.

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soddisfatto di tutte queste definizioni relativiste, soggettive, perché vor-rebbe sapere qual è l'essenza dell'architettura, o la sua struttura (in sen-so, è ovvio, strutturalista), insomma quel qualcosa di non direttamente percettibile e interno, fondamentale alla sussistenza, … che non sta di-rettamente in vista ma sostiene e informa tutta l'opera, … qualcosa di più dello scheletro e di meno facilmente reperibile dello scheletro.19

Lo vorrebbe sapere perché sospetta che l'architettura sia un tutto for-mato da fenomeni solidali, tali che ciascuno dipende dagli altri e può essere quello che è solo nella e per la relazione con essi.20 Sospetta che vi si possa individuare un sistema ben specificato di rapporti o di leggi, descriventi il funzionamento del fenomeno21: non dice forse Brandi che se l'essenza del linguaggio sta nella comunicazione, l'essenza dell'archi-tettura non si rivela nella comunicazione22? E dunque, pure se Brandi non dice qual è, l'essenza dell'architettura deve esistere, eccome: basta cercarla!

8 - L'architetto al collaboratore: "Hai finito con quel rendering?". Lui risponde: "Eccolo qui… Un'altra bella immagine di un'illusione…" E aggiunge: "Tutto quel che faccio mi sembra così superficiale…" E ancora: "Qual è il significato più profondo dell'architettura?". "Lo scantinato…", taglia corto l'architetto (Maaik, 19/1/2010). No, mi spiace, non ha senso porsi domande circa l'essenza, la natura,

il significato profondo (fig. 8) delle cose. Supponiamo – dice Richards – che qualcuno domandi: "Cos'è una mela?" La nostra risposta potrebbe essere: "È un frutto che cresce su un albero". E lui: "Non ho domandato dove cresce ma cos'è". Proveremo ancora: "È un frutto nutriente". E lui: "Non ho chiesto a cosa somiglia o che effetto fa, ho chiesto cos'è". Sup-poniamo allora di dire: "È un raggruppamento di cellule, un sistema di molecole, di atomi…". Lui può sempre rispondere: "Non ho chiesto cos'avrei visto guardandola al microscopio o quali ipotesi chimiche pos-sono spiegare ciò che accadrebbe se le facessimo certe cose ecc. Chie-devo, molto semplicemente, cos'è". In tal modo ci ha battuto in parten-za. Possiamo solo sbarazzarci di lui dicendo che la sua è una domanda

19 Cesare Brandi, Struttura e architettura, Einaudi, Torino 1967, pp. 14, 15. 20 Vocab. filosofico Lalande, 1926, cit. in Roger Bastide (a cura di), Usi e significati del termine struttura,

Milano 1965, p. 10. 21 Edmond Malinvaud, economista francese cit. in R. Bastide, cit., p. 10. 22 C. Brandi, cit., p. 37.

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da non farsi e che se definiamo una domanda come qualcosa che teori-camente può avere una risposta, la sua non è una domanda. Sembra una domanda solo perché ha la stessa forma verbale di una domanda.23

Se m'interroghi sull'essenza dell'architettura potrei rispondere, ponia-mo, "funzionare". Ma tu obietteresti: "Non chiedo a cosa serve, ma cos'è". Se ti rispondo "comunicare", tu dirai: "Non ho chiesto se comuni-ca le funzioni che svolge, i valori della società o altro, ma cos'è". E così all'infinito. La tua sembra una domanda, ma non lo è, se una domanda è qualcosa cui si può rispondere. Se cerchi comode semplificazioni rimar-rai deluso, non so che farci. L'architettura non ha un vero centro, una essenza più o meno platonica, ma solo i centri e le essenze che di volta in volta le attribuiamo. E ogni studente, ogni architetto, ogni critico, o-gni docente, darà legittimamente un peso maggiore o minore all'una o all'altra caratteristica, ma senza che le sue scelte abbiano un valore og-gettivo e universale.

23 Ivor Armstrong Richards (1893-1979), Interpretation in Teaching, Harcourt Brace, New York 1938, p.

354, cit. in Bernard C. Heyl, Nuovi orientamenti di estetica e di critica d'arte, Longanesi, Milano 1948, pp. 27–28.