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“L’arte vive nel mercato ma non gliappartiene: per entrare al cinema o a teatrosi paga il biglietto, ma la spiritualità che sitrae dalla visione è sottratta al meccanismodi mercato”.

In questa frase, tratta dagli Scritti corsari,Pasolini rivendica una libertà peculiaredell’arte e della poesia. Stabilisce uncollegamento tra arte e vita con un esplicitoriferimento all’elemento del dono e dellagratuità dell’arte; non tutto deve esseresottoposto all’utilitarismo, alcuni momentivanno sottratti alla diretta utilità del mercato,come il bello, il buono, la gratuità, lasolidarietà, il sogno. Queste parole di Pasolinimi paiono particolarmente importanti –peraltro in un momento in cui si sente lamancanza di figure di questo livellointellettuale – perché ci permettono(permetterebbero?) di uscire da una logicache a me pare del tutto inappropriata arappresentare cosa voglia dire il ruolo dellacultura nella società. Una logica legittima, importante, mapuramente incentrata sul fattore economicoe inadeguata, insufficiente a esprimere lapluralità di significati e di sensi che sipossono dare agli avvenimenti culturali.Provo a spiegarmi: io per primo, quando men’è capitata l’occasione pubblica, mi sonoimpegnato per controvertere la percezioneche si è diffusa, secondo la quale “con lacultura non si mangia”, snocciolando datiche mi parrebbero smentire in modoirrefutabile questa opinione e tentando dispiegare che l’Italia è fanalino di coda per gli

investimenti pubblici in cultura e arte, ovveroproprio ciò che poi ci identifica nel mondo –chissà ancora per quanto, verrebbe daaggiungere. Così, si spiegherebbe lasostenibilità di certi finanziamenti sotto ilprofilo del “ritorno economico”, come peresempio quando si dice che per ogni euroinvestito in cultura, allo stato netornerebbero sette. Oppure cometestimoniava il dossier, se non sbaglio dellaCamera di Commercio di Milano, da cuiemergeva come, nel periodo diristrutturazione della Scala e deltrasferimento dell’attività al Teatro degliArcimboldi, praticamente in periferia, icommercianti del centro di Milano ebbero uncalo degli introiti pari al 40% circa rispettoalla norma. Tutto giusto, tutto bello,argomenti ineccepibili.

Forse, però, è giunto il momento di iniziare,o meglio ri-iniziare, a dire, assieme a tuttoquello di cui sopra, che c’è dell’altro da dire;che ci sono dei ragionamenti che devonoesulare da una pura logica economica dimercato: quanto vale Palazzo Pitti a metroquadro? O qual è il prezzo di mercato dellaCappella Sistina? E se in un’asta si vendesseil manoscritto della Recherche di Proust per,mettiamo, un milione di euro, si vuol dire cheil valore di quell’opera è di un milione dieuro? In sostanza si può sempre e soloidentificare il valore di un’opera con il suoprezzo? Con il suo valore economico?Peraltro, in modo un po’ sgradevole, perchélegato al concetto di arte “alta” e “bassa”che non amo particolarmente, questa

distinzione dovrebbe essere già inscritta nelladefinizione stessa di un certo tipo di attività:quando parliamo di musica commerciale,implicitamente facendo una distinzione conun altro tipo di musica, noi parliamo diqualcosa che ha a che fare unicamente conoperazioni di tipo commerciale. Produco,vendo, incasso, sperabilmente il più possibile.C’è poi un altro tipo di musica, legata allaformazione culturale, mi sento di dire ancheetica, dei cittadini, che ne sviluppa il gusto,la facoltà critica, il piacere del bello: tuttesensazioni che generalmente poniamo sottol’egida dell’espressione “arricchimentopersonale”. Ecco quindi che qualcosa ci dàricchezza senza darci denaro o beni materialied ecco quindi la necessità, a mio parere, diuscire da una logica di scambio puramentecommerciale. In cui si rivendichi la necessitàe il ruolo della cultura e dell’arte non controuna logica mercificante, ma di là da essa.Questo, ovviamente, non ha niente a che farecon il dovere di gestire al meglio,correttamente, onestamente, le risorse chevengono affidate al mondo della cultura. Maquesta è un'altra questione, che purtroppomolto spesso, impedisce di affrontareserenamente e seriamente il nocciolo dellaquestione per come a me pare che dovrebbeessere affrontato.

EDITORIALE

Guido GiannuzziDirettore Responsabile

“Filarmonica Magazine”[email protected]

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La scintilla è scoppiata ai primi di luglio,durante le recite del dittico martiniano(Don Chisciotte e il Maestro diCappella), prima al Teatro Comunale diBologna e poi in Giappone, a Yokohama,Kyoto e nel leggendario tempio Kiyomizu-Dera, patrimonio mondiale dell’umanitàdove mai prima d’allora si era fattaun’opera dal vivo. Quasi un amore a primavista che ha folgorato reciprocamente iprofessori della Filarmonica del TeatroComunale e il 45enne direttoregiapponese Hirofumi Yoshida. Un’intesa,una simpatia immediata, un rapportoumano, profondo, che ha portatoimmediatamente alla nomina di Yoshida adirettore artistico della Filarmonica,esaurito il quinquennio di Alberto Veronesi.Ed eccolo dunque debuttare il 19 febbraioal Teatro Manzoni, nel Concerto perviolino e orchestra op. 77 di JohannesBrahms con solista la strepitosa violinistalituana Baiba Skride (grande musicalità,suono potente e intonazione immacolata)e nella Sinfonia in do maggiore K 551“Jupiter” di Mozart, secondo Woody Allenuna delle poche ragioni per cui vale lapena vivere. Un debutto importante, cheha fatto subito conoscere ai bolognesi lasolida preparazione musicale, la serietà el’entusiasmo incontenibile di questomusicista che sarà di casa a Bologna per iprossimi cinque anni. Yoshida non ha persotempo, ha già trovato casa in città (zonaPiazza Maggiore) e ha già saputo crearsiun legame speciale con l’orchestra che vaoltre a quello artistico e musicale. «Misento già un “bolo-nipponico” – scherzadurante l’intervista – vivrò otto mesi aBologna e 4 mesi a Kyoto». L’Italia glipiace, gli piace la cucina, l’arte, la pittura,il teatro, e ha già fatto intendere a tutti chela sua presenza sarà più che stabile. Credemolto in questo ruolo, ed è già al lavoroper attivare quel ponte virtuoso fraBologna e il Giappone di cui ha parlato inuna conferenza davanti ad una platea digiornalisti italiani e giapponesi incantatidalle sue parole.

Ha visto quante telecamerenipponiche c’erano quel giorno?«Sì, qualcuno ha già detto che sembrano itempi di quando giocava Nakata nella

squadra di calcio del Bologna: i mediagiapponesi erano scatenati. È un buoninizio».

Veniamo ai suoi di inizi: come hacominciato?«Alla scuola elementare suonavo latromba: a quattro anni avevo cominciatoa studiare il pianoforte. Allora era di granmoda in Giappone far studiare unostrumento ai bambini, e i miei genitori nonsi sottrassero a questa bella abitudine. Miopadre è un chimico di professione, ma èanche una grande amante della musica dacinema, mia madre è appassionata dimusica classica. Ho studiato la trombadalle elementari al liceo, poi ho studiatodirezione e composizione».

Ha puntato subito alla bacchetta?«Direi di sì. Ma c’è un perché preciso: a 18anni assistetti ad un concerto fantastico diSeiji Ozawa che dirigeva la BostonSymphony all’Auditorium NHK. Rimasimolto colpito, soprattutto dalla primaSinfonia di Brahms. Durante quelconcerto decisi di diventare direttore.Avendo 18 anni non avevo paura di nulla:mi precipitai nel camerino di Ozawa, al

quale manifestai tutto il mio entusiasmo ela mia decisione. Gli chiesispudoratamente: voglio diventaredirettore come lei, come faccio? Lui non siscompose e molto gentilmente miconsigliò di andare a Tanglewood aseguire le sue lezioni. Uscito dal camerinoero un po’ confuso: Tanglewood? Ma dovesarà? Ovviamente non ci andai, ma miiscrissi a direzione d’orchestra al TokyoCollege of Music. Sono passati 27 anni daquell’incontro, e mi riprometto diincontrarlo di nuovo e di chiedergliconsigli»

Quando ha potuto dirigere per laprima volta un’orchestra?«Al Tokyo College of Music. Il mioinsegnante è uno dei migliori allievi diHerbert von Karajan a Berlino, YasuhikoShiozawa. È molto famoso come didatta,un’ottima scuola, soprattutto per le ideemusicali, l’interpretazione e il modo didirigere, che risente molto fortementedello stile di Karajan».

Come ha imparato la tecnica?«Attraverso il metodo Saito, che inGiappone va per la maggiore. È stato il

INTERVISTA A HIROFUMI YOSHIDA “CICLONE HIRO”di Alberto Spano

Hirofumi Yoshida, 45 anni, allievo di un allievo di Karajan, seguace di Ozawa, simpatico e dinamico,è il nuovo direttore artistico della Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna.

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padre della direzione d’orchestra inGiappone, e ha scritto un librofondamentale, “Tecnica della direzione”,che in Giappone tutti conosciamo amemoria e che è stato tradotto in moltelingue. Anche Ozawa è “figlio” di questometodo e di questo grande maestro, HideoSaito, tanto che ha fondato un festivalimportantissimo e lo ha dedicato al suonome: il Saito Kinen Festival Matsumoto.Nel 1984 addirittura ha creato un’orchestrala Saito Kinen Orchestra con cui ha incisola maggior parte del repertorio classico. Una volta laureato all’Accademia di Tokyo,sono andato a studiare due anni ai corsiestivi di Vienna con Hans Graf e JuliusKalmar. Al terzo anno sono andatoall’Accademia Chigiana di Siena e lì hostudiato con Yuri Termikanov e Myung-Whun Chung. A 29 anni il governogiapponese mi ha selezionato per andarein Europa a fare tirocinio nei teatri d’opera:prima a Monaco, poi a Mannheim e aMalmö in Svezia. Preparavo l’orchestra,facevo il maestro di sala e qualche volta micapitava di dirigere una recita. Una scuolafondamentale, anche se a dire la verità inGiappone io avevo già diretto una decinedi opere. Alla Bayerische Staatsoper diMonaco mi sono fatto le ossa nel grande

repertorio tedesco, in particolare Wagner eStrauss.

Poi un concorso importante, il Maazel-Vilar.«Sì, era il 2001, ero l’unico candidatoasiatico e fui selezionato. A Lorin Maazelpiacque il mio Mozart e me lo disseapertamente, incoraggiandomi molto. Cosache è quasi eccezionale, visto che non parlamai coi concorrenti».

Siete poi rimasti in contatto?«Sì, ma solo in una circostanza precisa:quando debuttò la sua opera “1984” (daOrwell) al Covent Garden, andai e seguiitutte le prove e le recite, dove mi vollecome assistente».

Le prime esperienze direttorialiin Europa?

«A Cluney, in Romania, dove avevo vinto il3° premio al Memorial Bartok nel 2005. Poidiressi Cavalleria e Pagliacci a Romacon elementi dell’Orchestra dell’Opera diRoma. Nel 2007 debuttai alla Terme diCaracalla, I Pagliacci davanti a tremilapersone. Una grande occasione».

Chi era il tenore?«Nicola Martinucci: in Giappone è un mitoe io ho lavorato molto con lui».

Poi il Cairo…«Sì, vi ho diretto Madama Butterfly eAida. A Parigi ho diretto Traviata in unatournée gestita dall’Orchestra ConcertsLamoureux, una delle migliori compaginiparigine».

Leggo una Turandot al TeatroMaruccino di Chieti, un Rigoletto aMantova.«A Mantova sono stato nominato direttoremusicale del Teatro Sociale. Tre anni in unacittà incantevole. Feci anche l’Orfeo diMonteverdi, anche se non andò mai inscena: a una settimana dalla prima ilcomune tagliò i fondi e l’opera saltò.Peccato, era stato fatto un grande lavoro.Ogni tanto qualcuno mi chiede diriprendere quello spettacolomonteverdiano. Chissà?».

Nel 2008 debutto a Torre del Lago alFestival pucciniano. Con cosa?«Turandot. La nipote del maestro,Simonetta Puccini che assistette alla prima,all’ambasciatore giapponese disse

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testualmente “Il Maestro Yoshida possiedeun talento incredibile!” Ne vado fiero,anche se mi è stato solo riferito».

Le è molto caro Puccini?«Sì».

Qual è l’autore che preferisce dirigere?«Nell’opera Puccini, Mozart e Verdi, inquesto ordine».

Rossini?«Ho diretto solo il Barbiere di Siviglia».

E Donizetti? «Finora solo un Elisir d’amore. Debbodire che è abbastanza curioso: di Donizettiho diretto solo Elisir. Di Puccini invece,tranne la Fanciulla del West, ho direttotutto. Non è strano per un giapponese?»

Come si è avvicinò all’opera?«In verità ai tempi dell’Accademia volevodirigere solo il repertorio sinfonico. Poiaccadde una cosa che mi cambiò la vita:all’Accademia allora insegnava unaleggenda vivente del mondo dell’opera, ilsoprano Atsuko Azuma, che trent’anniprima aveva trionfato alla Scala e alMetropolitan. I suoi allievi le chiesero dimettere in scena Aida. Lei disse subito: sì,ma ci vuole un direttore. I ragazzi fecero ilmio nome, e così mi trovai a concertareAida. Fu un grande successo. Lei erastraordinaria, insegnava con unaentusiasmo incredibile, aveva circa 60 annie ogni tanto cantava in orchestra. Per mefu la scoperta di un mondo assolutamentemeraviglioso. Ecco perché dirigo moltaopera: è colpa di Atzuko Azuma, la qualealla fine dell’opera disse testualmente:“Grazie al Maestro Hiro, è stato unbellissimo spettacolo!”. Non possonascondere che fu uno sprone enorme perproseguire, sebbene in Giappone i teatrid’opera affidino la bacchetta quasi solo anon giapponesi. Ricordo che quando avevo20 anni, praticamente non c’era nessundirettore giapponese che facesse l’opera.Anche Seiji Ozawa ha diretto poche operenella sua vita. Ecco perché il governo hapagato per mandarmi a specializzare nelteatro d’opera in Italia».

Lei è molto diplomatico; ci vuole moltadiplomazia nel fare un’opera?«Direi di sì, è molto diverso dal sinfonico.L’opera è organizzazione».

Le piace l’organizzazione?«Sì, molto. Ci sono naturalmente portato».

Altre tappe importanti della sua carriera?«Una Sonnambula al Teatro Lirico diCagliari, un Requiem di Mozart a Novarain memoria delle vittime del terremoto inGiappone».

Com’è la situazione in Giappone?«Stanno recuperando seriamente evelocemente».

Lei cosa pensa delle centrali atomiche?«È un problema più grande di me, io facciosolo il musicista. Dove mettere le scorieradioattive? Questo è il vero problema. Voiitaliani avete scelto di non avere ilnucleare. Tutto il mondo sarebbe megliosenza il nucleare».

Lei ottimista per il futuro?«Sì, perché in questo campo non si puòessere pessimisti».

Lei è in contatto con la famiglia imperiale?«Sì, sto lavorando al Kyoto Opera Festival.Potrebbe capitare che l’imperatore vengaad un concerto. Magari con la Filarmonicadel Teatro Comunale».

Com’è stato il rapporto con Padre Martini?«Sinceramente io lo conoscevo solo comenome, in quanto insegnante di Mozart. Poiè arrivato questo progetto delle dueoperine, il Don Chisciotte e il Maestro diCappella. Le ho adorate. Ho subito capitoche sarebbero state adatte per ilpalcoscenico del tempio Kiyomizu-Dera,patrimonio dell’umanità, dovenormalmente non si può neanche entrare.Ma noi ci siamo riusciti. C’erano solo 250posti a sedere: il governo ci ha chiesto dimettere a disposizione 100 posti per icittadini. Sono stati sorteggiati frasettemila richieste. Settemila richieste perdue Intermezzi di Padre Martini. Si rendeconto? I bolognesi devono saperlo».

Gli altri 150 posti a chi sono andati?«A super vip giapponesi, l’ambasciatore diInghilterra, di Francia, etc. Forse PadreMartini è più conosciuto in Giappone chea Bologna».

Cosa ha provato nel leggendariotempio Kiyomizu-Dera con laFilarmonica?«Un’esperienza molto speciale. Finora holavorato con molte orchestre ma

raramente mi son sentito così bene comecol la Filarmonica del Teatro Comunale. Miha colpito il colore del suono, la cantabilità,mi sono innamorato del timbro. Èbellissimo, “serenissimo”».

Il suo repertorio d’elezione nelsinfonico?«Direi tutti i classici, in particolare Mozart,Beethoven e Haydn. Col cuore ho unapredilezione: Mahler. La sua è musica a tredimensioni».

Tutti abbiamo un faro nella vita. Unopersonaggio, non necessariamenteparente o affine, al quale si guardasempre. Chi è il suo faro?«Mio padre. Pensi cosa ha fatto: da più dicinquant’anni ogni giorno traduce comevolontario testi di ogni genere inlinguaggio Braille per i ciechi. Haaddirittura inventato un macchina che sichiama Type Writer. È veramente unico almondo: a 30 anni ha imparato il linguaggioBraille e da 50 anni traduce ogni giorno: èentrato nel Guinness dei primati. Pensicosa fa: la mattina si alza presto e dalle 5alle 7 traduce in Braille. Al ritorno da casadalle 18 alle 22 traduce ancora. E così tuttigiorni da 50 anni».

E nella musica? Ha dei fari?«Ozawa, ovviamente, ma anche RiccardoMuti. Ma il mio vero faro musicale èl’Autore: quando dirigo Puccini, io pensosolo a lui».

I suoi dischi preferiti?«Le registrazioni d’oro degli anni 50 e 60con Tullio Serafin. Lo adoro. Nel sinfoniconon ho dubbi: la Nona di Beethovendiretta da Furtwängler».

Pensa di portare artisti giapponesinelle stagioni della Filarmonica?«Sì, ma solo se hanno un super talento».

Ha qualche hobby?«Ora gioco a tennis, dovrò iscrivermi a uncircolo del tennis qui a Bologna».

Va al cinema? Segue la televisione?«Sì, faccio un po’ di tutto, anche un po’ difacebook, come tutti».

Ama i fumetti?«Certo! Noi siamo cresciuti coi fumettiManga».

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assoluta del cageano 4’33’’), una serie dibrani incentrati sull’atto fisico dellaproduzione sonora, esercizi per la lingua eper la gola che deformano la parolainsistendo sulle sole inflessioni tonalidell’atto fonatorio, alla riscoperta di unamusica “incarnata”, quasi sul filo diun’indagine esistenzialista-fenomenologicache, del resto, proprio in quegli anni avevaormai trovato ampiadiffusione in ambitofilosofico. In questo puòaver giocato un ruoloimportante anchel’influenza di MartinHeidegger, di cui Schnebelaveva, di fatto, seguito lelezioni universitarie aFriburgo tra il 1949 e il1952. Pur nell’impegno arivalutare il primato della corporalità, laricerca musicale di Schnebel non ha inoltretralasciato la possibilità di ricerche distampo concettuale, affiancate oltretuttoda saggi sulla teoria e sulle diversetipologie di musica visuale, trovando unasintesi emblematica nel suo MO-NO:Musik zum Lesen (1969), una raccolta dipartiture vergate a segni lievi e filiformi,spartiti ipo-codificati per una vera epropria “musica da leggere” e da ascoltare

nella propria mente.Nonostante la valenza religiosa di moltasua produzione – Schnebel ha unaformazione teologica ed è pastoreprotestante – va rilevato come laliberazione della voce in tutta la suaenergia primordiale, al grado zerodell’espressione umana, sembri favorire losgorgo di tutte quelle pulsioni che

scalpitano nell’Es, per dirla in terminifreudiani, emergendo prorompentementesenza condizionamenti né costrizioni.Quella di Schnebel è una ricerca che sicolloca perfettamente agli albori dellanuova vocalità contemporanea, destinataa protrarsi a tutt’oggi: sono, infatti, questigli anni dei primi esperimenti vocalicompiuti sul piano internazionale daMichiko Hirayama, Meredith Monk o JoanLa Barbara, seguite di lì a breve da Fátima

Miranda, Diamanda Galás e DemetrioStratos, tutti diversamente interessati arecuperare le istanze canore e rituali diantiche culture orali filtrandole attraversoopportuni coefficienti di attualizzazione,tecnologici e non. Nel corso dei suoi lunghicicli come Re-Visionen (1972-92),Tradition (1975-95), Psycho-Logia(1977-93) o Majakowskis Tod -

Totentanz (1989-98),così come in singolibrani quali Mahler-Moment (1985),Verdi-Moment (1989)o Schumann-Moment(1989), l’esperienzacompositiva di Schnebelsi colora di citazionismocolto, con riferimenti allamusica classica, alla

mitologia greca o alla poesia di primoNovecento, ma l’interesse perl’esplorazione voco-corporale persiste,proseguendo anche in cicli quali Laut-Gesten-Laute (1984-85), Zeichen-Sprache (1987-89), Museumsstücke(1992-95) o Schaustücke (1995-99), tuttivariamente orientati verso un riscatto delcorpo come strumento musicale originario.

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NIETZSCHE, CARMEN E IL MEDITERRANEO di Bruno Dal Bon

La scoperta di Bizet è per Nietzsche solol'ultimo incontro musicale di un lungo esalutare rapporto con la cultura francese. LaFrancia è il paese al quale naturalmente sirivolge fin da Umano troppo umano, librodel 1878 dedicato a Voltaire che si distaccadal wagnerismo e che imprime una spintadecisiva verso il mondo latino emediterraneo. L'esprit latin lo invita ariequilibrare le proprie passioni lontano dagliinflussi della filosofia romantica tedesca. Laricerca della chiarezza, della semplicità, dellamisura sembrano le condizioni preliminaridel nuovo uomo della conoscenza e ciò, apartire dalla musica.

Cominciai con il proibirmi scru-polosamente e per principio ognimusica romantica, quest'arte am-bigua, tronfia e so ffocante, chetoglie allo spirito rigore e vivacitàe fa proliferare ogni sorta di tor-bida nostalgia, di tumida brama.

Parole scritte nel settembre 1886 comeprefazione alla seconda edizione di Umanotroppo umano che ci mostrano comeNietzsche in quegli anni si fosse imposto, perprima cosa, una sorta di “dieta” musicaleper rinfrancare e purificare il corpo e lospirito dalle scorie soffocanti della musicaromantica. Un processo che proseguirà sulpiano anche letterario e filosofico e checostituirà nel tempo una fitta trama direferenze anzitutto francesi.

Certamente Cartesio, Voltaire, Montaigne,Pascal, La Rochefoucauld, Chamfort anchese gli strumenti più efficaci ed ultimi inordine di tempo, Nietzsche li trova tra lepagine dei cosiddetti “psicologi” francesi:Stendhal, Taine e Bourget. Di Stendhal ama la vitalità affermatrice,l'ateo che rifugge dalle ombre di Dio. “Pouretre bon philosophe il faut etre sec,clair, sans illusion". L'appassionata letturadi Stendhal come psicologo è fortementelegata poi alla scoperta di Hyppolite Taine ealla valorizzazione del Beylisme da parte diPaul Bourget di cui apprezza la tensioneverso quella “volontà di chiarezza” chesarà un tratto essenziale della ricercafilosofica che lo muove verso mezzogiorno,verso gli albori della filosofia del mattino.

Quando ne Il caso Wagner scrive lacelebre frase “il faut méditerraniser lamusique”, sceglie, non a caso, di scriverla

in francese aggiungendovi la precisazione“ho della ragioni ad enunciare questaformula”, quasi volesse invitarci a nonsottovalutarla, ed una nota che rimanda adun aforisma di Al di là del bene e delmale.

Supposto che uno ami il sud comeio l'amo, quale una grande scuoladi risanamento, tanto spiritualequanto sensuale, quale un'im-mensa orgia di luce nella qualepuò espandersi un essere pienodella sua indipendenza e dellafede in sé stesso) ebbene, costuidovrà guardarsi dalla musica te-desca, perché riguastandogli ilgusto, essa gli riguasterà in paritempo la salute. Il meridionale,non per la nascita, ma per la fede,quando sogna un avvenire dellamusica, deve in pari tempo so-gnare la sua redenzione dalla mu-sica del nord e sentir nell'orecchioi preludi d'una musica più pro-fonda, più potente forse, più mali-gna e misteriosa […] Il mio idealesarebbe una musica, il cui mag-gior fascino consistesse nell'igno-ranza del bene e del male, una

musica, resa tremola tutt'al più daqualche nostalgia di marinaio, daqualche ombra dorata, da qualchetenera rimembranza) un'arte cheassorbisse in se stessa, da unagrande distanza, tutti i colori d'unmondo morale che tramonta, diun mondo divenuto quasi incom-prensibile, e che fosse abbastanzaospitale e profonda per accoglierequesti tardi fuggiaschi.

Parole che ci permettono di comprendereimmediatamente che l'invito di Nietzsche a“méditerraniser la musique” non si limita adindicare una banale predilezione, un gusto, un'estetica, una sterile contrapposizionegeografica o di stile, ma una via filosoficaben precisa. Nietzsche sente che la musica,quella del sud, è la via privilegiata per diredi sì alla vita, non altro. La via tangibile,percepibile da un corpo ormai capace diresistere alla sensibilità meridionale. La viadi uno spirito libero nel pieno della suaindipendenza, come certamente Nietzsche sisentiva in quella fase cruciale della sua vita.Una via dimentica del “bene e del male”accogliente al punto da “assorbire in sestessa tutti i colori di un mondo morale” chesta tramontando. Quella musica, seppur

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definita “un ideale”, forse Nietzsche l'avevavissuta come una necessità interiore primaancora di poterla intuire nell'ascoltocompiuto di una melodia. Forse aveva coltola sonorità del sud nei sui primi viaggiitaliani, vicino al mare, “nello spettacolovivacissimo della vita meridionale”.

Ed è sul mare, a Genova, che il 27 novembre1881 avviene l'incontro fatale con laCarmen di Bizet, l'opera che deciderà diporre simbolicamente come assolato argineall'impetuoso avanzare di quell'umido nord.

“Evviva! Amico! Di nuovo ho conosciuto qualcosa di bello,un'opera François Bizet (chi è costui).. Carmen.

Incontro casuale, non previsto, con uncompositore sconosciuto citato a memorianella lettera a Peter Gast come François enon Georges Bizet. Un'opera francese nella

musica, nel libretto e nella fonte letterariadell'amato Merimée.

Da quel momento Nietzsche cercherà in tuttii modi di ascoltare e di conoscere più a fondola musica di quell'autore incontrato per caso.Assiste a venti e più recite di Carmen (sipensi che il Tristano e Isotta lo ascolta solodue volte) e non perde occasione per sentirealtre sue composizioni. Nell'ottobre del 1884a Zurigo ascolta l'Arlesianne, della qualeapprezza sopratutto il “suono sublime”dell'Adagietto; nel gennaio 1886 ascolta aMonte-Carlo la Sinfonia n.8 in do magg.definendola “un opera della giovinezzadelicata e raffinata"; nel 1887 a Nizzaassiste ad una rappresentazione de LesPêcheurs de perles che non giudicafavorevolmente, mentre si rammarica di nonriuscire ad ascoltare, nel marzo 1888 Jeuxd’enfants dovendo lasciare Nizza qualchegiorno prima; apprezza invece moltissimo aTorino il 2 dicembre 1888 l’ouverture

drammatica Patrie: “Aveva 35 anniquando scrisse quest'opera lunga edrammatica, dovrebbe sentire come ilpiccolo uomo qui diventa eroico...".

Un vero interesse che ritroviamo nel notocapitolo introduttivo dedicato alla Carmenne Il caso Wagner così come nell'aforismain Al di là del bene e del male dove Bizetviene addirittura descritto come “l'ultimogenio che ha visto una nuova bellella euna nuova seduzione, - che hascoperto un brandello di sud dellamusica."

Innumerevoli sono poi gli apprezzamentinelle lettere, ne citiamo solo alcune: “Poiebbe inizio la musica della Carmen, eper mezz'ora mi sciolsi in lacrime epalpitazione di cuore" (1882),“Carmen. Finalmente anche inGermania si arriva a comprendere chequest'opera - la migliore che vi sia”

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(1882), “del resto [Levi] riguardo aBizet era quasi più entusiasta di me"(1886), “Carmen […] un autenticoevento per me: in queste 4 ore hovissuto e compreso più cose di quantonon faccia di solito in 4 settimane"(1887).

Testimonianze inequivocabili messe indubbio solo da una lettera, l'ultima che parladi Bizet, quella che Nietzsche indirizza a CarlFuchs il 27 dicembre 1888. Una stranalettera che la critica filosofica e musicale distampo wagneriano molte volte utilizza pertentare di riscattare almeno in parte la figuradel compositore tedesco.

Quello che dico di Bizet non deveprenderlo sul serio; per come sonoio, Bizet non può avere neppureun millesimo della mia considera-zione. Ma risulta molto più efficacecome antitesi ironica di Wagner.

Poche parole che ad una prima letturasembrano cancellare in un colpo otto anni discritti, lettere e testimonianze di segnoradicalmente opposto. Parole che siallontanano inspiegabilmente da quellamusica che fino a quel momento sembravarappresentare la più autorevoletestimonianza di quel volere che rifuggedall'oscurantismo romantico verso lachiarezza e la luce calda e vitale del sud.

Forse, per tentare di comprenderle dobbiamofare un passo indietro e ricordare che Il CasoWagner è un testo definito più volte daNietzsche come un semplice pamphlet, unlibello, poche pagine dal forte intentosatirico. Così scrive in una lettera a PeterGast:

Si ricorda che a Torino avevoscritto un piccolo pamphlet? [...] Èqualcosa di allegro, con un fondosin troppo serio?

In un'altra lettera parla di questo testo comedi “musica da operetta...” e qualche giornoprima della citata lettera a Fuchs, tenta dispiegare ad Avenarius le ragioni piùprofonde che lo portarono ad affrontarequesto tema con irriverente ironia.

Devo letteralmente portare sullespalle il destino degli uomini, euna delle mie dimostrazioni diforza è essere buffone, satiro o, seLei preferisce, “elzevirista” - riu-scire a esserlo, così come lo sonostato nel Caso Wagner.

Da queste considerazioni il significato di quel“non prendere sul serio” riferito a Bizetin quella lettera, forse appare sotto una lucediversa. L'ironia, il gioco, lo sberleffo, sembrache vengano assunti come atti di forza daparte di un uomo che, alle soglie del silenzioche gli verrà imposto da lì a pochi giorni - lafollia esploderà a Torino i primi di gennaio1889, trova in questa euforia l'unicapossibile fonte di salvezza, l'unica strada pernon soccombere. Sente sulle sue spalle ildestino degli uomini, un peso da potersopportare solo come satiro. Considerazioniche fanno apparire anche quel “per comesono io”, solo come lo stato d'animo, laparticolare configurazione di ciò che in quelmomento era chiamato a vivere.

Il giovanile wagnerismo di Nietzsche non siè mai trasformato in bizetismo e mai sarebbepotuto accadere. Siamo convinti che la “nonconsiderazione” di cui parla Nietzsche, nonsia da riferire alla musica di Bizet, ma allasua eventuale trasformazione in una forma

di “nuovo catechismo” musicale allafrancese da costituire intorno alla figura delcompositore.

La verità che Nietzsche riesce a carpire dalpentagramma di Bizet e da quello diCarmen in particolare, è un'altra. Èsemplicemente quella della vita immediata,quella che muove nell'intuizione, nellapulsazione vitale dell'attimo. Quella capacedi abbracciare il nostro intero destino con unsolo gesto, fosse anche un gesto “daoperetta”. Quella che non può e non vuoleessere fondativa di alcunché, ma che ha laforza e l'ardire di porsi come “ironicaantitesi” all'intera produzione wagneriana.

Forse, solo partendo dall'ebrezza edall'esaltazione di quel corpo che stasmarrendo ogni logica ed ogni appigliomorale, possiamo provare ad interpretare leultime enigmatiche parole che Nietzschededica alla sua amata “sigaraia”.

Page 16: Scritti corsari€¦ · violino e orchestra op. 77di Johannes Brahms con solista la strepitosa violinista lituana Baiba Skride (grande musicalità, suono potente e intonazione immacolata)
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