Scienza e anarchia - Eleuthera · 2009. 2. 10. · OPUSCOLI La legge e l’autorità (1896), La...

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Petr Kropotkin SCIENZA E ANARCHIA a cura di Giampietro N. Berti elèuthera

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Petr Kropotkin

SCIENZA E ANARCHIAa cura di Giampietro N. Berti

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Le traduzioni dei testi originali di Pëtr Kropotkin,ampiamente riviste redazionalmente,sono segnalate all’inizio di ogni brano

© 1998 Editrice A coop. sezione ElèutheraCopertina: Gruppo Artigiano Ricerche Visive

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INDICE

Introduzione 7Nota bio-bibliografica 27

I. La nascita dello Stato 33II. La Rivoluzione francese 49

III. Questioni di metodo 61IV. L’aiuto reciproco in natura 79V. La solidarietà umana 93

VI. L’etica 119VII. Piccolo è bello 147

VIII. L’integrazione del lavoro 181IX. Il comunismo anarchico 205

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NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Pëtr Kropotkin nasce a Mosca il 9 dicembre 1842 da famiglia prin-cipesca di antica tradizione, che nel periodo feudale aveva avuto unaposizione preminente nel principato di Smolénsk. Dopo aver frequenta-to la scuola militare più esclusiva della Russia zarista – il Corpo deiPaggi a San Pietroburgo – nel 1862 sceglie di recarsi in Siberia comeesploratore e geografo. In questi anni matura lentamente una posizionecritica verso il potere assolutista, avvicinandosi dapprima alle idee libe-rali, poi a quelle socialiste. Nella primavera del 1872 decide di andarein Svizzera dove stabilisce importanti relazioni con gli internazionalistidel Giura e si avvicina alle idee anarchiche. Ritornato nel proprio Pae-se, si dedica completamente all’attività rivoluzionaria che culmina nel1874 con il suo arresto e la prigionia nella fortezza di S. Pietro e Paolo.Riesce a fuggire due anni più tardi, raggiungendo l’Inghilterra e poiancora la Svizzera, dove collabora attivamente alla Fédération Juras-sienne, dando vita tra l’altro allo stesso giornale della Federazione, «LeRévolté». Espulso nel 1881 da questo Paese in seguito alle misure con-trorivoluzionarie prese dopo l’assassinio dello zar Alessandro II, emi-gra a Londra, poi a Thonon, nella Savoia. Qui finisce per essere arre-stato e condannato a cinque anni di prigione per attività sovversiva.Rilasciato nel 1886 a seguito di una vasta campagna di stampa, pro-mossa tra gli altri da Victor Hugo ed Ernest Renan, si reca nuovamentein Inghilterra, dove rimarrà fino al 1917.

Qui pubblica quasi tutte le sue opere principali, è tra i fondatori (nel1886) di «Freedom» e collabora prolificamente a varie pubblicazioni

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anarchiche, in particolare (ininterrottamente fino al 1917) a «Freedom»e alle parigine «La Révolte» (1887-1894) e «Les Temps Nouveaux»(1897-1914). In questo suo lungo periodo londinese, collabora anche avarie pubblicazioni scientifiche e a varie voci dell’Encyclopaedia Bri-tannica, per cui scrive tra l’altro la voce «Anarchismo».

Allo scoppio della prima guerra mondiale, Kropotkin, insieme ad ungruppo di altri anarchici molto conosciuti, prende posizione a favoredell’intervento militare contro gli Imperi centrali, da lui considerati ilpericolo maggiore del momento. Questo suo appoggio alle potenzedell’Intesa provoca la rottura con il movimento anarchico internaziona-le, schierato nella sua stragrande maggioranza contro la guerra.

Nell’estate del 1917 Kropotkin ritorna in Russia, ma dopo la presadel potere da parte dei bolscevichi è progressivamente emarginato dalnuovo potere comunista. Qui scrive L’Etica che uscirà postumo eincompiuto.

Muore nel 1921 e il suo funerale costituisce l’ultima grande manife-stazione anarchica in quel Paese.

PRINCIPALI OPERE DI KROPOTKIN

Kropotkin ha scritto numerosissimi articoli, in parte integrati involumi successivi o pubblicati anche come opuscoli. Qui ci limitiamoad elencare le sue opere più importanti, indicando, oltre all’anno dipubblicazione originale, anche l’edizione italiana più recente a noinota.

VOLUMI

Parole di un ribelle (1885), Casa Editrice Sociale, Milano 1921.La conquista del pane (1892), Anarchismo, Catania 1978.Campi, fabbriche, officine (1899), Antistato, Milano 19822.Memorie di un rivoluzionario (1899), Loescher, Torino 1980.La scienza moderna e l’anarchia (1901), Il Risveglio, Ginevra 1913. Ideali e realtà nella letteratura russa (1905), Ricciardi, Napoli 1921.Il mutuo appoggio (1902), Salerno, Roma 1982. La grande rivoluzione (1909), Anarchismo, Catania 1975. L’Etica (1922), La Fiaccola, Ragusa 1990.

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OPUSCOLI

La legge e l’autorità (1896), La Fiaccola, Ragusa 1961.La morale anarchica (1890), La Fiaccola, Ragusa 1984.L’anarchia: la sua filosofia e il suo ideale (1896), Altamurgia, Ivrea

1973. Lo Stato e il suo ruolo storico (1896), Anarchismo, Catania 1981.Vari opuscoli e altri scritti sono raccolti nell’antologia: R.N.

Baldwin (a cura di), Kropotkin’s Revolutionary Pamphlets (1922),Dover Publication, New York 1970.

PRINCIPALI OPERE SU KROPOTKIN

Per un’introduzione generale al pensiero e alla vita di Kropotkin:AA.VV., Pierre Kropotkine. L’Ami, L’Homme, L’Anarchiste, Paris1921; R. MONDOLFO, Kropotkin, Prince Pëtr Alexyevich, in Encyclo-paedia of the Social Sciences, London 1930, vol. VII, pp. 602-607; G.WOODCOCK-I. AVAKUMOVITCH, The Anarchist Prince, London 1950(ora Peter Kropotkin from Prince to Rebel, Montréal-New York 1990);N. WALTER, Introduction, in P. KROPOTKIN, Memoirs of a Revolutioni-st, New York 1971, pp. V-XXI; E. CAPOUYA-K. TOMPKINS, Introduc-tion, in The essential Kropotkin. A General Selection from the writingsof the great Russian anarchist thinker, New York 1975, pp. VII-XXIII;M.A. MILLER, Kropotkin, Chicago e London 1976; H. READ, Introdu-zione a P. KROPOTKIN, La società aperta (scritti scelti), Milano 19762;A.J. CAPPELLETTI, El pensamiento de Kropotkin. Ciencia, ética y anar-quía, Madrid 1978; M. LOLLI LARIZZA, Stato e potere nell’anarchismo,Milano 1986, pp. 66-93; P. MARHALL, Demanding the Impossible. AHistory of Anarchism, London 1992, pp. 309-338; J. SLATTER (a curadi), P.A. Kropotkin’s Sesquicentennial: A Reassessment and a Tribute,Durham 1992.

Sulla concezione kropotkiniana del mutuo appoggio si vedano levarie interpretazioni di P. AVRICH, Introduction in P. KROPOTKIN,Mutual Aid. A Factor of Evolution, New York 1972, pp. 1-10; W. RYD-ZEWSKI, La notion des liens sociaux et la vision de l’histoire dans ladoctrine sociale de Kropotkine, «Archiwum Hist. filozofii i MysliSpoecznej» XXIV (1978), pp. 89-123; A. MONTAGU, Foreword, in P.KROPOTKIN, Mutual Aid. A Factor of Evolution, Boston 1980; G.P.

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PRANDSTRALLER, Attualità di Kropotkin, in P. KROPOTKIN, Il mutuoappoggio. Un fattore dell’evoluzione, cit., pp. 7-48; D. MILLER, PeterKropotkin (1842-1921): Mutual Aid and Anarcho-Communism, inRediscoveries, a cura di J.A. HALL, Oxford 1986, pp. 85-104; J. HEWT-SON, Mutual Aid and the Social Significance of Darwinism, in P. KRO-POTKIN, Mutual Aid. A Factor of Evolution, London 1987, pp. VII-XII,1-11; M. CONFINO-D. RUBISTEIN, Vingt-cinq lettres inédites de PierreKropotkine à Marie Goldsmith, 27 juillet 1901-9 juillet 1915, «Cahiersdu monde russe et soviétique», XXXIII (1992), pp. 243-302; R. KINNA,Kropotkin’s Theory of Mutual Aid in Historical Context, «InternationalReview of Social History» vol. 40, part. 2 (agosto 1995), pp. 259-283.

Sulle idee kropotkiniane di decentramento industriale, di federali-smo e di integrazione città-campagna e lavoro manuale-lavoro intellet-tuale, cfr. le appendici di C. WARD ai capitoli dell’edizione italiana diCampi, fabbriche, officine da lui curata (London 1974, Milano 19822);C. Doglio, Federalismo comunitario (Kropotkin), «Volontà», n. 12,1950, ora in: C. MAZZOLENI (a cura di), Carlo Doglio. Selezione discritti, Venezia 1992; C. WARD, Kropotkin’s Federalism, «TheRaven», vol. 5, n. 4 (1992), pp. 327-341; C. BERNERI, P. Kropotkinfederalista (1925), in Il federalismo libertario, Ragusa 1994, pp. 70-91.

Sul concetto di legge in Kropotkin cfr. C. CAHM, Kropotkin andLaw, in Law and Anarchism, a cura di Thom Holterman e Hene VanMarseveen, Rotterdam 1980, pp. 151-163; C. BAX, Kropotkin and Law,in Law and Anarchism, cit., pp. 164-172.

Sull’etica kropotkiniana cfr. le varie interpretazioni di N. LEBEDEV,Introduction a P. KROPOTKIN, Ethics. Origin and Development, NewYork 1968, pp. IX-XVI; P. AVRICH, Anarchist Portraits, Princeton1988, pp. 53-78; G. WOODCOCK, Introduction, in P. KROPOTKIN, Ethics,Montréal 1992, pp. VII-XXI; A.J. CAPPELLETTI, El pensamiento deKropotkin, cit., pp. 44-144; P. MARSHALL, Demanding the Impossi-ble..., cit., pp. 309-338; M.A. MILLER, Kropotkin, cit., pp. 195-198;G.P. PRANDSTRALLER, Kropotkin: il problema dell’etica, «Volontà»,XXXV (1989), n. 2, pp. 24-33; L. BORGHI, Giustizia e mutuo appoggio,«A rivista anarchica», XXIII (1993), n. 198, pp. 27-30; M. LA TORRE,Dimenticare Kropotkin?, «A rivista anarchica», XXIII (1993), n. 199,pp. 29-38.

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Sulla teoria kropotkiniana della rivoluzione si veda l’ampia disami-na in C. CAHM, Kropotkin and the Rise of Revolutionary Anarchism,1872-1886, Cambridge 1989, pp. 71-209. Ma cfr. pure le considerazio-ni di J. FREIRE, Kropotkin tra riforma e utopia, «Volontà», XXXV(1981), n. 2, pp. 53-74; G. WOODCOCK, Kropotkin’s The Great FrenchRevolution, «The Anarchist Papers», n. 3, Montréal-New York 1990,pp. 1-17; L. SEKELJ, Bakunin’s and Kropotkin’s Theories of Revolutionin Comparative Perspective, «The Raven», vol. 5, n. 4 (1992) pp. 358-378.

Sul comunismo kropotkiniano cfr. G. WOODCOCK, L’anarchia,Milano 1966, pp. 176-182; P. AVRICH, Introduction a P. KROPOTKIN,The Conquest of Bread, New York 1972, pp. 1-24; M.A. MILLER, Kro-potkin, cit., pp. 191-195; I. SOCHA-TURONSKA, Individuum, société etnature dans l’anarcho-communisme de P.A. Kropotkine, «ArchiwumHist. filozofii i Mysli Spoecznej», XXIV (1978), pp. 125-165; A.J.CAPPELLETTI, El pensamiento de Kropotkin, cit., pp. 229-275.

La più completa bibliografia kropotkiniana è quella a cura di H.HUG, Peter Kropotkin. Bibliographie, Edition Anares im Trotzdem-Verlag, Berlin 1994. Ampie bibliografie si trovano anche in G. WOOD-COCK - I. AVAKUMOVITCH, The Anarchist Prince, cit., e in M.A.MILLER, Kropotkin, cit.

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I

Il problema dello Stato è centrale nel pensiero anarchi-co. Kropotkin, tuttavia, a differenza di altri autori non lopone come un tema a sé stante perché gli dedica un’atten-zione più storica che teoretica con un saggio pubblicatonel 1897 che porta il titolo Lo Stato e il suo ruolo storico.In questo volume è soprattutto storicizzata la genesi, cheviene collocata, «classicamente», all’inizio dell’età moder-na. Con tale interpretazione egli opera un distacco nettodalla precedente tradizione anarchica, secondo cuil’entità statale è una forma meta-storica che riassume,par excellence, il principio informatore del dominio. Sul-la scia della sinistra hegeliana, questa tradizione avevainfatti identificato nello Stato – come del resto nella reli-gione – l’alienazione suprema del genere umano. Ora,tale concetto non si ravvisa nell’anarchico russo che, alcontrario, vede nella formazione statale soltanto unmomento politico storicamente ben definito e particolaredel dominio dell’uomo sull’uomo. L’umanità, infatti, èvissuta per secoli senza conoscere questa forma politica.

Qual è dunque la natura politica, sociale ed economi-ca dello Stato? Per Kropotkin la risposta è una sola:nell’essere costitutivamente l’intreccio organico dellefunzioni coercitive operanti contro la società. Ciò è parti-colarmente evidente se si analizza il ruolo storico da

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questi assunto nel periodo che va dal XVI al XIX secolo.Si vedrà allora che la legislazione sulla proprietà, ilmeccanismo fiscale, la costituzione dei monopoli, ladifesa del territorio hanno rappresentato l’insieme con-creto dell’organizzazione trasversale di tutti i privilegicostituiti senza distinzione di sorta. Ad esempio, losfruttamento economico determinato dal modo di pro-duzione capitalistico non avrebbe potuto sussistere e svi-lupparsi senza l’aiuto dello Stato, specialmente perquanto riguarda l’originaria formazione dei grandiinteressi dell’industria, del commercio e dell’agricoltura.

Mentre le rivoluzioni susseguitesi dal XV al XIX secolosono state tutte dirette a liberare la persona dal giogodel lavoro obbligatorio, la reazione dello Stato è statasempre volta a rifondare la struttura gerarchica entro lestesse determinazioni storiche dell’economia, dellasocietà e della politica. Lo Stato, infatti, non è un’entitàseparata dalla vita degli individui, non costituisce laloro forma istituzionalmente alienata, la coscienza rove-sciata della loro autentica socialità. Al contrario, essoconsiste nell’essere parte integrante di ogni manifesta-zione individuale e collettiva. Precisamente, qualeespressione funzionante della somma dei poteri esistentisi manifesta come principio organizzatore di tutte leespressioni particolari del conflitto, della violenza e del-la sopraffazione.

Lo Stato – riassunzione suprema della loro sinergia –acquista forma, identità e stabilità solo quando inizial’irreversibile processo della delega di potere: allora ivincoli umani e comunitari si traducono in istituzionicon una vita propria, il costume lascia il posto alla leg-ge, il governo finisce per assorbire l’amministrazione.Dalla sovrapposizione sinergica di tutte queste funzioni,dalla loro autonomizzazione prende vita la forma stata-le: si passa, appunto, dal sociale al politico.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edi-zione italiana di Lo Stato e il suo ruolo storico del 1981,nella traduzione (rivista) di Alfredo M. Bonanno.

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LA NASCITA DELLO STATO

Per prima cosa bisogna intendersi su ciò che indi-chiamo con la parola Stato.

La scuola tedesca, la quale si compiace di confonderelo Stato con la Società, ha prodotto notevoli lavori, ela-borati dai migliori pensatori tedeschi ma anche da mol-ti francesi, in cui gli autori non riescono a concepire lasocietà senza la concentrazione statale. Da ciò deriva lasolita accusa rivolta agli anarchici di voler «distruggerela società», di predicare il ritorno a una «guerra perma-nente di tutti contro tutti».

Eppure, ragionare così significa ignorare completa-mente i progressi compiuti nel campo della storiadurante gli ultimi trent’anni; significa ignorare chel’uomo è vissuto in società per migliaia di anni prima diaver conosciuto lo Stato; significa dimenticare che per

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le nazioni europee lo Stato è di origine recente, datandoappena dal XVI secolo; significa infine disconoscere che iperiodi più gloriosi dell’umanità sono stati quelli in cuile libertà e la vita locale non erano ancora state distrut-te dallo Stato, e in cui grandi masse di uomini vivevanoin Comuni e in libere federazioni.

Lo Stato è solo una delle forme che la società haassunto nel corso della storia; e non si possono confon-dere tra loro queste due entità.

Altri ancora hanno confuso lo Stato con il governo.Non essendo possibile avere Stato senza governo, si èdetto, bisogna mirare all’assenza del governo e nonall’abolizione dello Stato.

A mio avviso, tuttavia, nello Stato e nel governo sidebbono identificare due nozioni di ordine diverso.L’idea di Stato indica una cosa ben diversa dall’idea digoverno. Essa comprende non solo l’esistenza di unpotere collocato al di sopra della società, ma anche unaconcentrazione territoriale e una concentrazione di mol-te funzioni della vita sociale nelle mani di pochi; e com-porta altresì l’instaurarsi di nuovi rapporti con i mem-bri della società. Si tratta, come si vede, di una distin-zione che a prima vista può sfuggire, ma che apparechiara quando si studiano le origini dello Stato.

Peraltro, se si vuole comprendere lo Stato, non c’èche un mezzo per farlo: studiarlo nel suo sviluppo stori-co, cosa che tenteremo di fare nel presente lavoro.

L’impero romano fu uno Stato nel vero senso dellaparola, tanto che fino ai giorni nostri resta un punto diriferimento per l’uomo di legge.

Le sue istituzioni ricoprivano con una rete fittissimaun vasto dominio. Tutto affluiva verso Roma: la vitaeconomica, la vita militare, i rapporti giudiziari, le ric-chezze, l’educazione e persino la religione. Da Romaprovenivano le leggi, i magistrati, le legioni per difende-re il territorio, i prefetti, gli dei. Tutta la vita dell’impe-ro risaliva al Senato, e più tardi a Cesare, l’onnipoten-te, l’onniscente, il dio dell’impero. Ogni provincia, ognidistretto, aveva il suo Campidoglio in miniatura, la sua

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piccola porzione di sovrano romano che ne dirigeva tut-ta la vita. Una sola legge, la legge imposta da Roma,regnava sull’impero; e questo non era una confederazio-ne di cittadini, ma solo un gregge di sudditi.

Ancor oggi il legislatore e l’autoritario ammiranol’unità di questo impero, lo spirito unitario delle sueleggi, la bellezza – a loro dire – e l’armonia di questaorganizzazione.

Ma lo sfacelo interno, assecondato dalle invasionibarbariche, la morte della vita locale, l’incapacità diresistere agli attacchi esterni e alla cancrena interna,spezzarono l’impero. Dalle sue rovine nacque una nuo-va civiltà, che oggi è la nostra.

Se mettiamo da parte lo studio delle civiltà anticheper esaminare piuttosto le origini e gli sviluppi dellagiovane civiltà barbarica, sino ai periodi in cui essa, asua volta, dette origine ai nostri Stati moderni, riusci-remo a comprendere meglio l’essenza dello Stato. Sitratta di porre in atto uno studio molto più efficace diquello che sarebbe possibile fare immergendoci nell’esa-me dell’impero romano o di quello di Alessandro, oppu-re nell’esame del dispotismo orientale.

Prenderemo quindi come punto di partenza quei pos-senti demolitori barbari dell’impero romano, tentandodi rintracciare l’evoluzione della nostra civiltà dalle sueorigini fino alla fase statale.

La maggior parte dei filosofi del XVIII secolo si erafatta un’idea molto elementare dell’origine dellesocietà. All’inizio, sostenevano, gli uomini vivevano inpiccole famiglie isolate in guerra perpetua fra di loro.Questa guerra rappresentava la condizione normale.Un bel giorno, però, si resero conto degli inconvenientidi queste lotte senza tregua, e quindi decisero di met-tersi in società. Un contratto sociale fu concluso tra lefamiglie sparse, che si sottomisero volentieri ad unaautorità la quale – ho bisogno di sottolinearlo? – diven-ne il punto di partenza e l’iniziatrice di ogni progresso.Non occorre nemmeno aggiungere, poiché l’abbiamoappreso a scuola, che i nostri governi attuali hanno

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mantenuto questa loro positiva immagine di sapientipacificatori e civilizzatori della specie umana.

Questa idea, concepita in un’epoca in cui non si sape-va ancora molto sulle origini dell’uomo, dominò per tut-to il secolo; e va riconosciuto che nelle mani degli enci-clopedisti e di Rousseau, l’idea del «contratto sociale»diventò un’arma potente per combattere la monarchiadi diritto divino. Però, malgrado i servizi resi in passa-to, questa tesi deve essere riconosciuta come falsa.

In effetti, salvo alcuni carnivori e alcuni rapaci, non-ché alcune specie che vanno scomparendo, tutti gli ani-mali vivono in società. Nella lotta per la vita sono lespecie sociali che vincono su quelle che non lo sono. Inogni classe di animali esse occupano il vertice della sca-la, e non può esserci alcun dubbio che i primi umanoidivivessero già in società.

Non è l’uomo quindi che ha creato la società, ma que-sta preesisteva all’uomo.

Al giorno d’oggi la cosa è nota, avendo l’antropologiachiarito perfettamente che il punto di partenza dell’u-manità non fu la famiglia ma il clan e la tribù. La fami-glia patriarcale, quale noi la conosciamo e quale ci vie-ne dipinta dalla tradizione ebraica, non fece la suaapparizione che molto più tardi: trascorsero decine dimigliaia di anni durante i quali l’uomo visse nella fasetribale o clanica; e in questa prima fase – chiamiamolapure, se così ci piace, di tribalismo primitivo o selvaggio– l’uomo sviluppò tutta una serie di istituzioni, di usi edi costumi molto anteriori alle istituzioni della famigliapatriarcale. [...]

Questa fase durò diverse migliaia di anni, e i barbariche invasero l’impero romano l’avevano attraversata,anzi ne uscivano appena allora.

Nei primi secoli della nostra era immense migrazioniinteressarono le tribù e le confederazioni tribali cheabitavano l’Asia centrale e boreale. Enormi fiumane dipopolazione, sospinte da popoli più o meno civili discesi

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dagli altipiani asiatici, probabilmente scacciati dallarapida essiccazione di questi altipiani, si riversaronosull’Europa urtandosi fra loro e mescolandosi nel tenta-tivo di spingersi verso occidente.

Nel corso di queste migrazioni, durante le quali tantetribù di origine diversa si trovarono riunite, le tribù pri-mitive che ancora esistevano nella maggior parte degliinsediamenti selvaggi d’Europa, dovettero necessaria-mente scomparire. La tribù era basata sulla comunan-za di origine, sul culto di comuni antenati, ma non pote-va più esistere alcuna comunanza di origini in quelleagglomerazioni che uscirono dal confuso miscuglio dellemigrazioni, delle scorribande, delle guerre inter-tribali,durante le quali, qua e là, incominciava a scorgersil’origine della famiglia patriarcale, il nucleo che andavaformandosi intorno al possesso, che alcuni erano riusci-ti ad accaparrarsi, delle donne conquistate o rapite alletribù vicine.

Gli antichi legami vennero così spezzati e sotto penadi dispersione (come avvenne, infatti, per molte tribùormai scomparse dalla storia) nuovi legami dovevanosorgere. Ed essi sorsero. Furono trovati nel possessocomune della terra, cioè del territorio sul quale una cer-ta agglomerazione aveva finito per insediarsi.

Il possesso comune di un certo territorio – di valli edi colline – divenne la base di un nuovo accordo. Gli deidegli antenati avevano ormai perduto il loro significato,gli dei locali, della vallata, del fiume, della foresta, die-dero la consacrazione religiosa alle nuove agglomera-zioni sostituendo le credenze della tribù primitiva. Piùtardi il cristianesimo, sempre pronto ad adattarsi allesopravvivenze pagane, ne fece dei santi locali.

La comunità di villaggio, composta in parte o intera-mente di famiglie distinte – unite tutte però dal posses-so comune della terra – divenne per i secoli che seguiro-no il necessario elemento di congiunzione. [...]

La comunità di villaggio si componeva, come si com-

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pone ancora, di famiglie distinte. Ma le famiglie di unostesso villaggio possedevano la terra in comune. Esse laconsideravano come loro patrimonio comune e la ripar-tivano in base all’estensione delle famiglie, ai loro biso-gni e alle loro forze. Centinaia di milioni di uomini,nell’Europa orientale, nelle Indie, a Giava ecc., vivonoancora oggi sotto questo regime, che è lo stesso stabilitoliberamente dai contadini russi quando, in epoca recen-te, lo Stato ha loro permesso di occupare l’immenso ter-ritorio della Siberia. [...]

In tutti i suoi affari la comunità di villaggio erasovrana. L’usanza locale faceva legge e l’assemblea ple-naria di tutti i capi di famiglia, uomini e donne, era ilgiudice – il solo giudice – in materia civile e penale.Quando un abitante ne «querelava» un altro, piantavail suo coltello nel luogo dove di regola la comunità siriuniva, e questa doveva «emettere la sentenza» secon-do il costume locale, dopo che il fatto contestato dalledue parti fosse stato chiarito dai giudici.

Sarebbe veramente lungo indicare tutto ciò che que-sta fase offre di interessante. Basterà ricordare che tut-te le istituzioni di cui gli Stati si impadronirono più tar-di a vantaggio delle minoranze, tutte le nozioni di dirit-to che troviamo (mutilate a vantaggio delle minoranze)nei nostri codici, nonché tutte le forme di proceduragiudiziaria che offrono garanzie per l’individuo, ebberola loro origine nella comunità di villaggio. Così, quandocrediamo di aver fatto un grande progresso introducen-do, ad esempio, la giuria, non abbiamo fatto altro cheriportare alla luce un’istituzione dei barbari, dopo aver-la modificata a vantaggio delle classi dominanti. Ildiritto romano non fece che sovrapporsi al diritto con-suetudinario.

Nello stesso tempo si andava sviluppando il senti-mento di unità nazionale per mezzo delle grandi federa-zioni di libere comunità di villaggio.

Fondata sul possesso e, spessissimo, sulla coltivazio-ne in comune della terra, sovrana come giudice e comelegislatore del diritto consuetudinario, la comunità di

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villaggio rispondeva a una buona parte dei bisognidell’essere sociale. Ma molti di questi bisogni restavanoancora da soddisfare. Ora, lo spirito dell’epoca non eraportato a fare appello al governo non appena un nuovobisogno si faceva sentire; al contrario, tendeva a pren-dere autonomamente l’iniziativa per unirsi, federarsi,creare un’intesa, grande o piccola, allargata o ristretta,che rispondesse a questo bisogno. La società di allora sitrovava letteralmente ricoperta da una rete di patti difratellanza, di cooperazioni per il mutuo appoggio, di«congiurazioni», sia nel villaggio che fuori, nella federa-zione. [...]

L’arbitraggio delle dispute era diventata un’istituzio-ne profondamente radicata, una pratica giornaliera;malgrado e contro i vescovi e i reucci nascenti cheavrebbero voluto che ogni disputa venisse portatadavanti a loro o davanti ai loro emissari per approfitta-re della fred, un’ammenda pagata dal villaggio d’originedei violatori della pace pubblica.

Con il tempo, centinaia di villaggi si riunirono inpotenti federazioni – germi delle nazioni europee – chesottoscrissero un patto per mantenere la pace interna edifendere reciprocamente il loro territorio consideratocome un patrimonio comune. Ancor oggi è possibile stu-diare queste federazioni dal vivo in seno alle tribù mon-gole, ugro-finniche, malesi. [...]

Lungi dall’essere quella bestia sanguinaria che si èvoluto dipingere allo scopo di convalidare la necessitàdel potere, l’uomo ha sempre amato la tranquillità e lapace. Più battagliero che feroce, egli di norma preferi-sce il suo bestiame e la sua terra al mestiere delle armi.È per questo che non appena le grandi migrazioni bar-bariche hanno cominciato a stabilizzarsi, non appena leorde e le tribù hanno cominciato a insediarsi nei lororispettivi territori, si è assistito all’attribuzione deicompiti di difesa territoriale contro nuove possibiliinvasioni di altri immigranti a particolari individui, iquali iniziano ad arruolare piccole bande di avventurie-ri, di uomini agguerriti o di briganti, mentre la gran

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massa degli abitanti continua ad allevare il bestiame ea coltivare il suolo. Questi difensori cominciano benpresto ad accumulare ricchezze: prestano cavalli e ferro(allora costosissimi) al povero, asservendolo; si costitui-scono così i primi embrioni del potere militare.

D’altra parte, la tradizione – che fa legge – viene apoco a poco dimenticata dalla maggior parte degli indi-vidui. Resta appena qualche vecchio che ha conservatonella memoria le strofe e i canti che raccontano i «pre-cedenti» di cui si compone la legge consuetudinaria, e lirecita nei giorni delle grandi feste davanti alla comu-nità riunita. E così, a poco a poco, in alcune famiglie siforma una tradizione trasmessa da padre in figlio: quel-la di ritenere a memoria quei canti e quei versetti, diconservare insomma la «legge» nella sua purezza. Pres-so queste famiglie si recano gli abitanti del villaggio pergiudicare le loro questioni più difficili, soprattuttoquando due villaggi o due confederazioni si rifiutano diaccettare le decisioni degli arbitri scelti al loro interno.

L’autorità di principi e re è già in germe in questefamiglie, e più approfondisco lo studio delle istituzionidi quell’epoca, più mi accorgo che la conoscenza delleleggi consuetudinarie ha contribuito molto più allacostituzione di questa autorità che non la forza dellearmi. L’uomo si è lasciato sottomettere più dal deside-rio di punire secondo la «legge» che per diretta conqui-sta militare. Infatti la prima «concentrazione di pote-re», il primo accordo reciproco a fini di dominio, è statoquello tra il giudice e il capo militare, accordo che vienefatto contro la comunità di villaggio. Un solo uomo rive-ste queste due funzioni, circondandosi di uomini armatiper fare eseguire le decisioni giudiziarie, fortificandosinel suo ridotto, accumulando per sé e per la propriafamiglia le ricchezze dell’epoca – cereali, bestiame, ter-ra – ed estendendo a poco a poco il suo dominio sugliabitanti del circondario.

L’intellettuale di quel tempo, cioè lo stregone o il pre-te, non tarda a dargli il suo appoggio e a condividerne ildominio; oppure, unendo la forza della lancia al suo

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temuto potere di mago, se ne impadronisce per proprioconto.

Bisognerebbe dilungarsi moltissimo su questo argo-mento, trattandosi di un soggetto pieno di nuovi inse-gnamenti che ci fa comprendere come degli uomini libe-ri diventino gradatamente dei servi obbligati a lavorareper il padrone, laico o religioso, del castello; comel’autorità si costituisca man mano al di sopra dei villag-gi e delle borgate; come i contadini si ribellino lottandocontro questa dominazione crescente, ma come le lorolotte si infrangano contro le robuste mura del castello,contro gli uomini ricoperti di ferro che lo difendono.

Sarà sufficiente dire che, verso il X e l’XI secolo,l’Europa avanzava in pieno verso la costituzione di queiregimi barbarici, come oggi se ne scoprono nel cuoredell’Africa, o di quelle teocrazie, come si conoscono stu-diando la storia dell’Oriente. Tutto ciò non avvenneovviamente in un giorno, ma i germi dei piccoli reami edelle piccole teocrazie già esistevano e si andavanoaffermando sempre più.

Fortunatamente lo spirito barbaro – scandinavo, sas-sone, celtico, germanico, slavo – che aveva spinto gliuomini durante sette o otto secoli a cercare la soddisfa-zione dei loro bisogni nell’iniziativa individuale e nellalibera intesa delle fratellanze e delle gilde, fortunata-mente, dicevamo, questo spirito sopravviveva nei vil-laggi e nelle borgate. I barbari si lasciavano dominare,lavoravano per il padrone, ma il loro spirito di liberaintesa non si era ancora lasciato corrompere. Le lorofratellanze erano più che mai vive e le crociate non ave-vano fatto altro che risvegliarle e svilupparle in tuttol’Occidente.

Fu allora, tra l’XI e il XII secolo, che la rivoluzione deiComuni urbani sorti dall’unione tra la comunità di vil-laggio e le fratellanze – rivoluzione che lo spirito fede-rativo dell’epoca preparava da lungo tempo – scoppiòcon mirabile accordo.

Questa rivoluzione, che la maggior parte degli storiciaccademici preferisce ignorare, salvò l’Europa dalla

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minaccia che gravava su di essa: arrestò l’evoluzionedei regimi teocratici e dispotici, nei quali la nostraciviltà avrebbe probabilmente trovato la propria fine.Infatti, dopo alcuni secoli di pomposo sviluppo, essasarebbe stata affossata come affossate furono le civiltàmesopotamica, assira e babilonese. Questa rivoluzioneschiuse invece una nuova fase di vita: la fase dei liberiComuni.

Si capisce facilmente perché gli storici moderni, edu-cati allo spirito romano e preoccupati di far risalire leorigini di tutte le istituzioni a Roma, stentino tanto acapire lo spirito del movimento comunalista del XIIsecolo. Questo movimento fu una forte affermazionedell’individuo, che giunse a costituire la società permezzo della libera federazione di uomini, villaggi ecittà. Esso fu anche un’assoluta negazione dello spiritounitario e accentratore romano, con il quale si cercaancor oggi di spiegare la storia nel nostro insegnamentouniversitario. Questo movimento non si ricollega adalcun personaggio storico di particolare rilievo né adalcuna istituzione centralizzata. Fu uno sviluppo natu-rale, proprio, come la tribù e la comunità di villaggio, auna certa fase dell’evoluzione umana e non a questanazione o a quella regione. [...]

La vittoria dello Stato sui Comuni e sulle istituzionifederative medievali non fu tuttavia immediata. Vi fuanzi un momento in cui tale vittoria fu così minacciatada sembrare del tutto incerta.

Un immenso movimento popolare – religioso quantoa forma ed espressione, ma sostanzialmente egualitarioe comunista quanto ad aspirazioni – si produsse nellecittà e nelle campagne dell’Europa centrale. [...]

Nato nelle città, questo movimento si estese ben pre-sto nelle campagne. I contadini si rifiutavano di obbedi-re a chiunque e montando una vecchia scarpa su di unapicca, a guisa di bandiera, riprendevano le terre aisignori, spezzavano i legami di servitù, scacciavano pre-

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te e giudice e si costituivano in libero Comune. Soloricorrendo al rogo, alla ruota e alla forca, al massacro dicentinaia di migliaia di contadini compiuto in pochianni, il potere regale o imperiale, alleato della Chiesapapista o riformata – giacché Lutero incitava al massa-cro dei contadini ancor più violentemente dello stessopapa – mise fine a questo movimento che aveva per uncerto periodo minacciato la formazione degli Statinascenti.

Nato dall’anabattismo popolare, il riformismo lutera-no massacrò il popolo insieme allo Stato e schiacciò ilmovimento dal quale aveva avuto origine. I resti diquell’immensa ondata si rifugiarono nelle comunità dei«Fratelli Moravi», che a loro volta furono, circa un seco-lo dopo, distrutte dalla Chiesa e dallo Stato. [...]

Lo Stato ormai aveva messo al sicuro la propria esi-stenza. Il legislatore, il prete, e il signore-soldato, riuni-tisi in alleanza solidale intorno al trono, potevano, d’orain avanti, compiere la loro opera di distruzione.

Sono moltissime le menzogne su questo periodo accu-mulate dagli storici stipendiati dallo Stato.

Abbiamo tutti appreso a scuola, ad esempio, che loStato avrebbe reso il grande servizio di costruire, sullerovine della società feudale, le unioni nazionali, reseprecedentemente impossibili dalle rivalità cittadine.L’abbiamo imparato a scuola e quasi tutti l’abbiamocontinuato a credere anche in età adulta. Oggi invecearriviamo a capire che, malgrado tutte le loro rivalità,le città medievali avevano lavorato, durante quattrosecoli, a costruire queste unioni per mezzo della federa-zione volontaria liberamente accettata, e in pratica vierano riuscite.

La Lega lombarda, ad esempio, comprendeva le cittàdell’Alta Italia e aveva la sua cassa federale custodita aGenova e a Venezia. Altre federazioni si ritrovavanoper tutta l’Europa, come la Lega toscana, la Lega rena-na (che comprendeva sessanta città), le federazioni del-la Westfalia, della Boemia, della Serbia, della Polonia,delle città russe. Nello stesso tempo l’unione commer-

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ciale della Lega Anseatica comprendeva le città scandi-nave, tedesche, polacche, russe e di tutto il bacino delMar Baltico. Vi erano già in tali unioni tutti gli elemen-ti di larghe agglomerazioni umane liberamente organiz-zate.

La prova vivente di tali raggruppamenti la si puòvedere in Svizzera. L’unione, in questo Paese, siaffermò dapprima fra le comunità di villaggio (i vecchicantoni), non diversamente da come si costituì, nellostesso periodo, anche in Francia, nel lionese. E poichéin Svizzera la separazione tra la città e il villaggio nonfu mai così profonda come nelle lontane città commer-ciali, accadde che le città diedero man forte all’insurre-zione dei contadini (nel XVI secolo), facendo in modo chel’unione risultasse più forte e si mantenesse fino aigiorni nostri.

Ma lo Stato, per il suo stesso principio, non può tolle-rare la federazione libera, che rappresenta una cosaorrenda per l’uomo di legge: «uno Stato nello Stato». LoStato non può riconoscere un’unione liberamente accet-tata che funzioni nel suo seno, esso non riconosce chesudditi, per cui soltanto lo Stato, insieme alla Chiesa,può accampare il diritto di servire da unione tra gliuomini. Di conseguenza, lo Stato doveva per forzadistruggere le città basate sull’unione diretta tra i citta-dini: doveva abolire ogni unione nella città, abolire lacittà stessa, e sostituire infine al principio federativo ilprincipio di sottomissione e di disciplina. È questa lasostanza stessa dello Stato, che senza tale principio ces-serebbe di esistere.

Il XVI secolo – secolo di massacri e di guerre – si rias-sume interamente in questa lotta dello Stato nascentecontro le città libere e le loro federazioni. Le città ven-gono assediate, prese d’assalto, saccheggiate, e i loroabitanti decimati ed espulsi.

Lo Stato ha riportato la vittoria su tutta la linea, edeccone le conseguenze. Nel XV secolo l’Europa era pienadi città prospere, i cui artefici – muratori, tessitori,cesellatori – producevano meravigliose opere d’arte, le

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cui università ponevano le fondamenta della scienza, lecui carovane percorrevano i continenti, i cui navigli toc-cavano tutti i mari e i fiumi.

Due secoli dopo resta ben poco di tutto questo. Cittàche erano arrivate fino a cinquanta o centomila abitan-ti, che avevano posseduto – come Firenze – più scuole epiù letti d’ospedale per abitante di quelli oggi possedutida città meglio fornite, sono diventate borghi in rovina.Dopo averne massacrato ed espulso gli abitanti, lo Sta-to si è impadronito delle loro ricchezze. L’industria, sot-to la minuziosa tutela dei funzionari dello Stato, si spe-gne. Il commercio muore. Le strade stesse, che una vol-ta collegavano queste città tra loro, nel XVII secolodiventano assolutamente impraticabili.

Lo Stato è la guerra, e le guerre devastano l’Europa,finendo di distruggere le città che lo Stato non hadistrutto direttamente.

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II

Al nodo storico cruciale della Rivoluzione franceseKropotkin dedica anni intensi di studio che alla fineproducono un’opera di notevole rilievo: La Grande Rivo-luzione. In questo testo l’anarchico russo delinea con-temporaneamente la sua interpretazione storica del1789 e la sua concezione di rivoluzione. Nella ricostru-zione kropotkiniana della Rivoluzione francese possia-mo osservare la preminenza delle masse anonime –soprattutto contadine – nei confronti delle singole perso-nalità storiche, la subordinazione di ogni forma di sog-gettività politica all’emergenza oggettiva della coralesocialità dal basso e dunque la supremazia della dimen-sione collettiva rispetto a quella individuale; inoltre, laconcreta e strutturale tendenza del mutuo appoggiomanifestatasi attraverso la domanda prioritaria dell’u-guaglianza sociale, la quale risulta più profonda esignificativa della spinta ideale verso la libertà politica.In conclusione, la rivoluzione francese costituisce perKropotkin la riflessione storica fondamentale da cuipartire per studiare e costruire l’azione rivoluzionariafutura.

Secondo Kropotkin dal 1789 non sono scaturite mol-teplici rivoluzioni (aristocratica, costituzionale, girondi-na, giacobina), come è stato affermato dalle varie storio-

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grafie liberali, socialiste e democratiche, ma una solarivoluzione, precisamente la Grande Rivoluzione, chenel suo moto progressivo ha cercato la propria verità nelfondo spontaneo, popolare, comunista e anarchico cheha attraversato fin dall’inizio lo stesso evento rivoluzio-nario.

Questo giudizio costituisce la chiave di volta del-l’interpretazione kropotkiniana della Rivoluzione fran-cese: il «fondo» e l’«essenza» di questa rivoluzione nonappartengono veramente alla borghesia, che è statarivoluzionaria suo malgrado. La classe borghese è statatrascinata dall’ondata popolare, alla quale ha cercato diopporre la moderazione del costituzionalismo monarchi-co.

La svalutazione della volontà rivoluzionaria dellaborghesia attraversa tutta la ricostruzione storicadell’anarchico russo, che tende pertanto a vedere anchenelle conquiste del liberalismo politico l’effetto di unaspinta più grande e possente: la lotta popolare per ilcomunismo, nella forma ancora rozza della semplice,diretta distribuzione egualitaria dei beni.

L’opera kropotkiniana ha influenzato largamente ilpensiero rivoluzionario contemporaneo. Lenin, ad esem-pio, l’apprezzava molto. Ancora nel 1970 ne è stata tira-ta in Unione Sovietica un’edizione di 43.700 copie. Nellastoriografia di sinistra del secondo dopoguerra LaGrande Rivoluzione ha avuto ulteriori echi. Nelle operedi Daniel Guérin (La lutte de classe sous la PremièreRépublique 1793-1797 e Bourgeois et bras nus 1793-1795) si può ad esempio ravvisare la ripresa di molteintuizioni dell’anarchico russo.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’anto-logia La società aperta, a cura di Herbert Read, nellatraduzione (rivista) di Annamaria Savegnago.

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LA RIVOLUZIONE FRANCESE

Due grandi correnti prepararono e fecero la Rivolu-zione francese. Una, la corrente delle idee, il prorompe-re di nuove idee sulla riorganizzazione politica delloStato, proveniva dalla borghesia. L’altra, la correntedell’azione, proveniva dalle masse popolari, dai contadi-ni e dai proletari delle città, che volevano otteneremiglioramenti immediati e tangibili della loro condizio-ne economica. E quando queste due correnti si incon-trarono in un obiettivo inizialmente comune, quandopraticarono per un certo periodo un appoggio mutuo, ilrisultato fu la rivoluzione.

I filosofi del XVIII secolo avevano già da tempo comin-ciato a scalzare le fondamenta delle società civilidell’epoca, dove il potere politico e una parte immensadelle ricchezze apparteneva all’aristocrazia e al clero,

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mentre la gran massa del popolo altro non era se non labestia da soma delle classi al potere. Proclamando lasovranità della ragione, predicando la fiducia nellanatura umana e dichiarando che quest’ultima, pur cor-rotta dalle istituzioni che nel corso della storia avevanoridotto l’uomo in servitù, avrebbe ciononostante riac-quisito tutte le sue qualità una volta riconquistata lalibertà, questi filosofi avevano aperto nuovi orizzontiall’umanità. Decretando l’uguaglianza di tutti gli uomi-ni, senza distinzione di nascita, chiedendo a ogni citta-dino, fosse egli re o contadino, obbedienza alla legge,che si suppone esprima la volontà della nazione quandoè stata emanata dai rappresentanti del popolo, e infinechiedendo la libertà di contratto tra uomini liberi, non-ché l’abolizione delle servitù feudali, e formulando tuttequeste richieste, collegate tra loro dal metodo e dallospirito sistematico caratteristici del pensiero francese, ifilosofi avevano senza dubbio preparato, almeno nellementi degli uomini, la caduta del vecchio regime.

Questo da solo, tuttavia, non sarebbe stato sufficien-te a provocare la rivoluzione. Bisognava ancora passaredalla teoria all’azione, dal concepire un ideale nella pro-pria immaginazione al metterlo in pratica nei fatti. Eciò che interessa oggi da un punto di vista storico sonole circostanze che, in un dato momento, resero possibilealla nazione francese di fare questo sforzo: dare inizioalla realizzazione dell’ideale. [...]

La rivoluzione è un cambiamento rapido, nello spaziodi pochi anni, di istituzioni che ci avevano messo deisecoli a mettere radici nel suolo e che sembravano tantosolide e immutabili che persino i più accesi riformatoria malapena osavano attaccarle nei loro scritti. È lacaduta, lo sgretolarsi in un breve lasso di tempo di tuttociò che fino a quel momento costituiva l’essenza stessadella vita sociale, religiosa, politica ed economica di unanazione. È il sovvertimento delle idee acquisite e dellenozioni condivise sulle complesse relazioni tra le variecomponenti dell’insieme umano.

È infine il fiorire di concezioni nuove, egualitarie, nei

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rapporti tra cittadini, concezioni che ben presto diven-tano realtà e cominciano così ad espandersi tra lenazioni vicine, sconvolgendo il mondo e consegnandoall’epoca successiva le sue parole d’ordine, i suoi proble-mi, la sua scienza, le sue linee di sviluppo economico,politico e morale.

Per arrivare a un risultato di tale importanza, per-ché un movimento assuma le proporzioni di una rivolu-zione (come successe in Inghilterra nel 1648 e nel 1688e in Francia nel 1789 e nel 1793), non è sufficiente cheun movimento di idee, non importa quanto radicate, simanifesti tra le classi colte; e non è sufficiente che lerivolte, non importa quanto frequenti o estese, si produ-cano in seno al popolo. È necessario che l’azione rivolu-zionaria proveniente dal popolo coincida con il movi-mento di pensiero rivoluzionario proveniente dalle clas-si colte. Deve, cioè, esserci un’unione dei due. [...]

Eppure la storia di questo doppio movimento è anco-ra da scrivere. La storia della Grande Rivoluzione fran-cese è stata scritta e riscritta innumerevoli volte e damolti punti di vista differenti; ma sino a questo momen-to gli storici si sono dedicati a raccontare soprattutto lastoria politica, la storia delle conquiste della borghesiaa scapito del partito della Corte e di quanti difendevanole istituzioni della vecchia monarchia. Così, conosciamomolto bene il risveglio del pensiero che precede la rivo-luzione. Conosciamo i princìpi che dominarono durantela rivoluzione e che si tradussero nella sua opera legi-slativa. Siamo estasiati davanti alle grandi idee chelanciò in tutto il mondo e che il XIX secolo ha poi cercatodi realizzare nei Paesi civili. In breve, la storia parla-mentare della rivoluzione, le sue guerre, la sua politicae la sua diplomazia, sono state studiate e raccontate intutti i particolari. Ma la storia popolare della rivoluzio-ne rimane ancora da fare. La parte avuta nella rivolu-zione dal popolo delle campagne e delle città non è maistata studiata e narrata nella sua interezza. Delle duecorrenti che fecero la rivoluzione, la corrente del pensie-ro è conosciuta, ma l’altra, quella dell’azione popolare,

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non è stata ancora nemmeno abbozzata. Sta a noi, i discendenti di quelli che i contemporanei

chiamavano gli «anarchici», studiare questa correntepopolare evidenziandone quantomeno i tratti essenzia-li. [...]

Nei villaggi, fu la Comune dei contadini a reclamarel’abolizione dei tributi feudali e a ratificare il rifiuto dicontinuare a pagarli; fu la Comune a riprendere ai pro-prietari terrieri quelle terre che precedentemente eranocomuni, a resistere ai nobili, a lottare contro i preti, aproteggere i patrioti e più tardi i sans-culottes, ad arre-stare i nobili emigrati che tornavano o il re che scappa-va.

Nelle città, fu la Comune municipale a ricostruireogni aspetto della vita, ad arrogarsi il diritto di sceglie-re i giudici, a modificare di propria iniziativa la riparti-zione delle tasse e, più tardi, seguendo gli sviluppi dellarivoluzione, a divenire l’arma dei sans-culottes nellaloro lotta contro la monarchia e i cospiratori monarchicie contro gli invasori tedeschi. In tempi ancora successi-vi, nell’Anno II della Repubblica, furono sempre leComuni che si assunsero il compito di redistribuire lericchezze.

E, come ben sappiamo, fu la Comune di Parigi adetronizzare il re e a divenire, dopo il 10 agosto, ilnucleo reale, la vera forza della rivoluzione, che man-terrà il proprio vigore soltanto fino a quando la Comunesopravviverà.

L’anima della Grande Rivoluzione fu dunque nelleComuni, e senza questi focolai sparsi su tutto il territo-rio, la rivoluzione non avrebbe mai avuto la forza diabbattere il vecchio regime, di respingere l’invasionetedesca e di rigenerare la Francia.

Sarebbe però sbagliato rappresentarsi le Comuni diquel tempo come i moderni corpi municipali ai quali icittadini, dopo pochi giorni di eccitamento dovuto alleelezioni, ingenuamente affidano l’amministrazione di

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tutti i propri affari, senza occuparsi più di niente. Lafolle fiducia nel governo rappresentativo che caratteriz-za la nostra epoca non esisteva durante la GrandeRivoluzione. La Comune nata dai movimenti popolarinon si separerà mai dal popolo. Attraverso i suoi«distretti», «sezioni» o «tribù», costituiti come altrettan-ti organi di amministrazione popolare, rimarrà delpopolo; ed è appunto questo che darà la forza rivoluzio-naria a tali organismi.

Dal momento che è l’organizzazione e la vita dei«distretti» e delle «sezioni» di Parigi che sono meglioconosciute, sarà appunto degli organismi di questa cittàche parleremo, tanto più che studiando la vita delle«sezioni» parigine impariamo a conoscere con buonaapprossimazione anche la vita delle migliaia di Comunidella provincia.

Fin dall’inizio della rivoluzione, ma già da quando glieventi avevano spinto Parigi a prendere l’iniziativa allavigilia del 14 luglio, il popolo, con la sua meravigliosaattitudine per l’organizzazione rivoluzionaria, si stavagià organizzando in vista della lotta che avrebbe dovutosostenere, e della quale sentì immediatamente l’impor-tanza. [...]

Dopo la presa della Bastiglia, vediamo subito idistretti agire come organi riconosciuti dell’ammini-strazione municipale. [...]

Fu per mezzo dei distretti che, d’allora in poi, Dan-ton, Marat e tanti altri furono messi nella possibilità diispirare le masse popolari parigine con il soffio dellarivolta; e fu così che le masse si abituarono a fare ameno dei corpi rappresentativi e cominciarono a mette-re in pratica l’autogoverno.

Immediatamente dopo la presa della Bastiglia, idistretti avevano ordinato ai loro delegati di preparare,d’accordo con il sindaco di Parigi, Bailly, un piano diorganizzazione municipale che doveva poi essere nuo-vamente sottoposto ai distretti. Ma in attesa di questoschema, i distretti andarono avanti allargando la sferadelle proprie funzioni a seconda delle necessità.

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Quando l’Assemblea nazionale cominciò a discuterel’ordinamento municipale, lo fece, com’era logico aspet-tarsi da un corpo così eterogeneo, con un’esasperantelentezza. «Dopo due mesi», dice Lacroix, «il primo arti-colo del nuovo piano municipale doveva ancora esserescritto» [Actes, t.II, p.XIV]. Si comprende bene come«questi ritardi sembrassero sospetti ai distretti», e daquesto momento cominciò a manifestarsi verso l’Assem-blea dei rappresentanti della Comune un’ostilità sem-pre più marcata di una parte dei suoi rappresentati.Ma quello che è importante notare è che, mentre cerca-vano di dare una forma legale al governo municipale, idistretti cercavano al contempo di mantenere la propriaindipendenza. Essi cercavano l’unità d’azione, ma nonsottomettendosi a un comitato centrale, bensì all’inter-no di una confederazione.

«Lo spirito espresso dai distretti [...]», scrive ancoraLacroix [Actes, t.II, pp.XIV-XV], «è caratterizzato al con-tempo da un forte sentimento di unità comunalista e dauna tendenza non meno forte verso l’autogoverno. […]Parigi non vuol essere una federazione di sessantarepubbliche, ognuna delle quali ritagliata a caso in unproprio territorio: la Comune è una, è compostadall’insieme di tutti i suoi distretti [...]. Non si trova unsolo esempio di un distretto che pretenda di vivereappartato dagli altri [...]. Ma accanto a questo principioassodato, se n’è manifestato un altro [...], e cioè che laComune deve legiferare e amministrare se stessa quan-to più direttamente possibile; il governo rappresentati-vo deve essere ridotto al minimo; tutto ciò che nellaComune può essere fatto direttamente deve essere fattosenza alcun intermediario, senza alcuna delega, o dadelegati ridotti al ruolo di mandatari con delega univo-ca, che agiscono sotto il continuo controllo dei mandanti[…]. È ai distretti, ai cittadini riuniti in assembleegenerali di distretto, che appartiene il diritto ultimo dilegiferare e di amministrare nella Comune».

Appare così evidente che i princìpi dell’anarchismo,espressi qualche anno dopo in Inghilterra da William

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Godwin, datano già dal 1789, e che essi hanno avutoorigine non in speculazioni teoriche ma nei fatti dellaGrande Rivoluzione. [...]

Una nuova Francia è nata da questi quattro anni dirivoluzione. Per la prima volta dopo secoli il contadinomangia a sazietà. Raddrizza la schiena! Osa parlare!Bisogna leggere i rapporti particolareggiati sul ritornodi Luigi XVI a Parigi, quando viene riportato prigionieroda Varennes, nel giugno del 1791, dai contadini, e chie-dersi: «Una cosa simile, un tale interesse per la cosapubblica, una tale devozione, e una totale indipendenzadi giudizio e di azione, potevano essere possibili primadel 1789?». Stava nascendo una nuova nazione, propriocome oggi vediamo nascere una nuova nazione in Rus-sia e in Turchia.

Ed è grazie a questa rinascita che la Francia sarà ingrado di reggere tutte le guerre della Repubblica e diNapoleone, e di portare i princìpi della Grande Rivolu-zione in Svizzera, Italia, Spagna, Belgio, Olanda e Ger-mania sino ai confini della Russia. E quando, dopo tuttequelle guerre, dopo aver visto le armate francesi arriva-re sino in Egitto e a Mosca, ci aspetteremmo di trovarela Francia del 1815 impoverita, devastata, ridotta allamiseria, troviamo invece che le campagne – persinoquelle dell’Est e del Giura – sono molto più prospere diquello che erano ai tempi in cui Pétion, mostrando aLuigi XVI le rive lussureggianti della Marna, gli chiesese ci fosse in nessun’altra parte del mondo un regno piùbello di quello.

L’energia interiore accumulatasi nei villaggi è taleche in pochi anni la Francia diventerà un Paese di con-tadini benestanti, e ben presto si scoprirà che nono-stante tutto il sangue versato e le perdite subite, laFrancia, in termini di produttività, è il Paese più riccod’Europa. E la sua ricchezza non la ricava dalle Indie odal suo commercio con Paesi lontani, ma viene dal suosuolo, dal suo amore per la terra, dalla sua abilità e

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industriosità. È il Paese più ricco grazie alla redistribu-zione della sua ricchezza, ed è ancora più ricco graziealle possibilità che offre per il futuro.

È stato questo l’effetto della rivoluzione. E se unosguardo distratto non vede nella Francia di Napoleoneche l’amore per la gloria, lo storico si rende conto chepersino le guerre condotte dalla Francia in quel periodosono state intraprese per assicurare i frutti della rivolu-zione, ovvero le terre riprese ai signori, ai preti e ai pos-sidenti, e le libertà sottratte al dispotismo e alla monar-chia. Se la Francia è disposta in quegli anni a dissan-guarsi a morte soltanto per impedire a tedeschi, inglesie russi di imporre un Luigi XVIII, ciò è avvenuto perchénon vuole che il ritorno dei nobili emigrati possa signifi-care che i ci-devants, «quelli di prima», si riprendano leterre bagnate dal sudore dei contadini e le libertàbagnate dal sangue dei patrioti. E la Francia combattecosì bene per ventitré anni che, quando alla fine ècostretta a riammettere i Borboni, riesce a imporgli leproprie condizioni: che i Borboni regnino pure, ma leterre dovranno rimanere a coloro che se le sono ripresedai signori feudali. E lo stesso Terrore bianco dei Bor-boni non oserà toccarle. Il vecchio regime non sarà piùrestaurato.

Questo è ciò che si conquista facendo una rivoluzio-ne.

Ma ci sono altre cose che vanno evidenziate. Nellastoria dei popoli arriva un momento in cui s’impone unmutamento profondo di tutta la vita nazionale. Nel1789 il dispotismo monarchico e il feudalesimo stannomorendo: non è più possibile mantenerli, bisognarinunciarvi.

A questo punto si aprono due vie: riforma o rivoluzio-ne.

C’è sempre un momento in cui la riforma è ancorapossibile. Ma se non si è approfittato di quel momento,se si è opposta un’ostinata resistenza alle esigenze delnuovo modo di vivere, sino al punto di far scorrere ilsangue nelle strade, come il 14 luglio 1789, allora non

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può esserci che la rivoluzione. E una volta che la rivolu-zione ha inizio, deve necessariamente svilupparsi sinoalle sue estreme conseguenze, cioè sino al punto piùalto che, in sintonia con lo spirito dei tempi, sarà capa-ce di raggiungere, pur se solo temporaneamente.

Se si rappresenta il lento progredire di un periodo dievoluzione con una linea tracciata su un grafico, si con-staterà che questa linea gradualmente, anche se lenta-mente, si innalza. Ma ecco che sopraggiunge una rivo-luzione e la linea s’impenna facendo un improvviso bal-zo verso l’alto. In Inghilterra la linea mostrerebbeun’impennata al tempo della Repubblica puritana diCromwell; in Francia s’impennerebbe al tempo dellaRepubblica sans-culotte del 1793. Tuttavia, l’andamen-to non può mantenersi a questo livello; tutte le forzeostili si coalizzano contro e, dopo aver raggiunto questipicchi, le repubbliche crollano e le linee scendono.Segue la reazione e, quantomeno in politica, la linea delprogresso precipita. Ma a poco a poco si alza di nuovo equando torna la pace – nel 1815 in Francia e nel 1688in Inghilterra – entrambi i Paesi si trovano a un livellomolto più alto di quello che avevano prima delle lororivoluzioni.

Si torna all’evoluzione, e la nostra linea ricomincia asalire lentamente. Ma questa ascesa parte da un livellomolto più elevato di quello rilevato prima della turbo-lenza, e quasi sempre la sua crescita sarà più rapida.

Questa è una legge del progresso umano, ed anchedel progresso individuale. E la storia della Franciamoderna, che passa attraverso la Comune per arrivarealla Terza Repubblica, conferma proprio questa legge.

L’opera della Rivoluzione francese non si limita soloa ciò che ha ottenuto e che ha realizzato in Francia, mala si ritrova anche nei princìpi che ha tramandato alsecolo successivo, nell’orientamento con cui ha contras-segnato il futuro.

Una riforma è sempre un compromesso con il passa-to, mentre il progresso ottenuto tramite una rivoluzioneè sempre una promessa di progresso futuro. Se la Gran-

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de Rivoluzione francese riassume in sé un secolo di evo-luzione, sarà poi lei a impostare il programma d’evolu-zione che segnerà il corso del XIX secolo. […]

I popoli si sforzano di realizzare nelle proprie istitu-zioni l’eredità ricevuta dalla precedente rivoluzione.Tutto ciò che essa non ha potuto mettere in pratica, tut-te le grandi idee messe in circolo durante quel periodoturbolento ma che la rivoluzione non ha potuto o saputoapplicare, tutti i tentativi di ricostruzione sociologicanati durante la rivoluzione, tutto questo costituirà ilcontenuto dell’evoluzione che seguirà a tale rivoluzione.A ciò si aggiungeranno le nuove idee cui questa evolu-zione darà vita quando cercherà di mettere in pratica ilprogramma ereditato dall’ultimo sommovimento. Poi,una nuova grande rivoluzione avrà luogo in qualchealtra nazione, ed essa fisserà, a sua volta, i punti diriferimento dell’epoca successiva.

È stato appunto questo il cammino della storia.Due grandi conquiste, in effetti, hanno caratterizzato

il secolo seguito agli eventi del 1789-1793. Entrambehanno avuto la propria origine nella Rivoluzione fran-cese, che a sua volta portava avanti l’opera della Rivo-luzione inglese, ampliandola e rinvigorendola con tuttoil progresso fatto dopo che la borghesia inglese avevatagliato la testa al suo re trasferendone il potere al par-lamento. Queste due grandi conquiste sono l’abolizionedella servitù e l’abolizione dell’assolutismo, conquisteche hanno conferito all’individuo libertà personali inim-maginabili per il servo della gleba e per il suddito delsovrano assoluto, ma che allo stesso tempo hanno por-tato anche allo sviluppo della borghesia e del regimecapitalistico.

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III

Il testo kropotkiniano più importante relativo allequestioni metodologiche è La scienza moderna e l’anar-chia, uscito per la prima volta a Parigi nel 1913. L’ope-ra riassume i temi attinenti al rapporto fra anarchismoe scienza e stabilisce il primato assoluto della conoscen-za e della ragione nel processo di emancipazione uma-na. Kropotkin inserisce la tradizione anarchica nell’al-veo dell’Illuminismo, con l’intento di operare una rottu-ra radicale con la cultura storicistica e, in modo partico-lare, con l’hegelismo. Egli vuole portare l’anarchismofuori dall’ambito della filosofia idealistica e, in genera-le, fuori da ogni ascendenza vitalistica, mistica, irrazio-nale. La critica alla dialettica hegeliana e marxista è, aquesto proposito, emblematica.

L’anarchismo, per non imboccare la strada inconclu-dente della mistificazione del reale, deve rimanere sal-damente agganciato alla grande cultura razionalisticanata con l’Illuminismo. Specificamente, l’identificazioneè fra il metodo anarchico e quello induttivo delle scienzenaturali. Lo scopo è quello di evidenziare, nell’accosta-mento metodologico, la sostanziale analogia fra naturae anarchia. In questo modo lo sperimentalismo scientifi-co per il suo carattere di «apertura», di «modificabilità»,per il suo costituzionale antidogmatismo svolge, in un

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certo senso, una funzione analoga a quella svolta dalpluralismo all’interno del procedimento proprio del-l’anarchismo. L’analogia fra sperimentalismo e plurali-smo è data dalla comune natura di essere entrambi unmetodo regolativo più che costitutivo rispetto al proble-ma di una costruzione sociale e di un pari svilupposcientifico.

Kropotkin però non si limita ad una identificazioneattinente all’ambito metodologico, ma amplia tale iden-tificazione al campo più vasto dell’idea anarchica e delconcetto di natura, fondendo così scienza e anarchia inuna Weltanschauung di forte significato generalizzante.A questo proposito Kropotkin fa coincidere il metodoscientifico con la metodologia anarchica fondata sullacoerenza logica ed etica fra mezzi e fini. L’adeguamentodei mezzi ai fini vuol significare che la scienza deveessere completamente al servizio di una volontà, diun’idea. Se si considera come in questa metodologia sievidenzia la dimensione più rivoluzionaria dell’anarchi-smo, è possibile a questo punto vedere il senso di taleconiugazione e dunque il tentativo di superare la stessaconcezione meramente deterministica dell’identificazio-ne fra scienza e anarchia. Il rapporto della necessariacoerenza tra metodo e scopo ci dice infatti che i fini nonpossono essere raggiunti che attraverso l’adeguamentodei mezzi alla natura dei fini stessi. Ciò comporta unintervento volontario e cosciente della mano rivoluziona-ria nella modificazione continua della prassi, un inter-vento che non fa altro che rimandare ad una considera-zione fondamentale: e cioè che gli scopi – anche se estra-polati da tendenze latenti del presente – devono esserecollocati volontariamente a dispetto di ogni contingenza.Sono, in altri termini, immessi coscientemente nel pro-cesso storico come obiettivi determinati.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edi-zione di Ginevra del 1913 de La scienza moderna el’anarchia.

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QUESTIONI DI METODO

Benché l’anarchia, in ciò simile a tutte le correntirivoluzionarie, sia nata in seno al popolo, nel tumultodella lotta e non nello studio di un pensatore, è peròutile capire dove si colloca fra le diverse correnti delpensiero scientifico e filosofico contemporaneo. Come sipone di fronte a queste diverse correnti? A quale fa rife-rimento di preferenza? Quale metodo di ricerca adoperaper avallare le sue conclusioni? In altre parole, a qualescuola di filosofia del diritto appartiene l’anarchia? Conquale corrente della scienza moderna presenta le mag-giori affinità?

Di fronte all’entusiasmo per la metafisica economicache abbiamo visto recentemente nei circoli socialisti,questa questione è di qualche interesse. Cercherò, quin-di, di rispondervi brevemente e nel modo più semplice

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possibile, evitando i termini difficili ogni volta che sipossono evitare.

Il movimento intellettuale del XIX secolo ha le sueorigini nell’opera dei filosofi inglesi e francesi elaboratatra la metà e la fine del secolo precedente. Il risvegliodel pensiero determinatosi in quell’epoca ispirò a questipensatori il desiderio di raccogliere tutte le umane cono-scenze in un sistema generale: il sistema della natura.Rifiutando interamente la scolastica e la metafisicamedievale, ebbero il coraggio di posare il loro sguardosu tutta la natura – il mondo delle stelle, il nostro siste-ma solare, la Terra e lo sviluppo delle piante, degli ani-mali e delle società umane sulla sua superficie – comesu una serie di fatti che possono essere studiati allostesso modo in cui si studiano tutte le scienze naturali.

Avvalendosi ampiamente del vero metodo scientifico– il metodo induttivo-deduttivo – quei pensatori intra-presero l’esame di tutto ciò che la natura ci offre, tantodel mondo stellare o animale quanto di quello delle cre-denze e delle istituzioni umane, in modo del tutto egua-le a quello che avrebbe adoperato un naturalista perstudiare problemi di fisica.

Essi annotavano dapprima con pazienza i fatti equando, in seguito, si mettevano a trarne delle genera-lizzazioni, lo facevano per via induttiva. Avanzavano,naturalmente, talune ipotesi, ma a queste ipotesi nonattribuivano maggiore importanza di quella che Dar-win aveva attribuito alla sua ipotesi sull’origine dellenuove specie nella lotta per l’esistenza, o che Mende-leeff aveva attribuito alla sua ipotesi sulla tavola perio-dica degli elementi. Essi non vi vedevano che delle sup-posizioni, le quali offrivano una spiegazione provvisoriafacilitando l’aggregazione dei fatti e il loro esame, manon dimenticavano affatto che tali supposizioni doveva-no essere confermate dalla compatibilità con una molti-tudine di altri fatti e che andavano spiegate anche pervia deduttiva. Queste non potevano diventare «leggi»(cioè generalizzazioni provate) se non dopo essere statasottoposte a tale verifica e solo dopo che le cause dei

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rapporti costanti da loro espressi fossero state spiegate.Quando il centro del movimento filosofico del XVIII

secolo passò dalla Scozia e dall’Inghilterra alla Francia,i filosofi francesi, con la propensione per la sistemati-cità che è loro propria, si misero a ricostruire su un pia-no generale e secondo gli stessi princìpi, tutte le cono-scenze umane, naturali e storiche. Quello che tentaronofu di fondare il sapere generale – la filosofia dell’univer-so e della sua vita – con un metodo strettamente scien-tifico, respingendo quindi tutte le costruzioni metafisi-che dei filosofi precedenti e spiegando tutti i fenomenicon l’azione di quelle forze fisiche (vale a dire meccani-che) che avevano ritenuto sufficienti a spiegare l’originee l’evoluzione del globo terrestre. […]

Risulta così evidente che i pensatori del XVIII secolonon cambiavano di metodo quando nei loro studi passa-vano dal mondo delle stelle a quello delle reazioni chi-miche, o dal mondo fisico e chimico a quello della vitadelle piante e degli animali, o a quello delle dinamicheeconomiche e politiche della società, o delle forme evo-lutive delle religioni, e così via. Il metodo era sempre lostesso. A tutte le branche della scienza essi applicavanosempre il metodo induttivo. E poiché non trovaronomai, tanto nello studio delle religioni quanto nell’anali-si del senso morale e del pensiero in generale, anche unsolo punto in cui tale metodo si rivelasse insufficiente eun altro se ne imponesse; poiché non si videro maicostretti a ricorrere né a concezioni metafisiche (dio,anima immortale, forza vitale, imperativo categoricoispirato da un essere superiore, ecc.), né a qualsivogliametodo dialettico, essi cercarono di spiegare tutto l’uni-verso e i suoi fenomeni con il sistema NATURALISTA. [...]

Quale posto occupa dunque l’anarchia nel grandemovimento intellettuale del XIX secolo? La risposta aquesta domanda è venuta delineandosi in base a quan-

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to abbiamo già detto precedentemente. L’anarchia èuna concezione dell’universo basata su un’interpreta-zione meccanica dei fenomeni (meglio sarebbe dire cine-tica, ma è parola meno conosciuta) che abbraccia tuttala natura, ivi compresa la vita delle società. Il suometodo è quello delle scienze naturali, e in base a que-sto metodo ogni conclusione scientifica dev’essere verifi-cata. La sua tendenza è di fondare una filosofia di sin-tesi, che includa tutti i fatti della natura, compresa lavita delle società umane e i loro problemi economici,politici e morali; senza però cadere negli errori nei qualiincorsero, per le ragioni già indicate, Comte e Spencer.

È dunque evidente che per ciò stesso l’anarchia, difronte a tutte le questioni poste dalla vita moderna,deve necessariamente dare risposte diverse e assumereatteggiamenti diversi da quelli di tutti gli altri partitipolitici, non eccettuato in buona misura il Partito socia-lista, che non si è ancora sbarazzato delle vecchie fin-zioni metafisiche.

Indubbiamente, l’elaborazione di una concezionemeccanica complessiva della natura e delle societàumane non è che ai suoi esordi per quanto riguarda gliaspetti sociologici, che trattano appunto della vita edell’evoluzione delle società. Tuttavia, il poco che si èfatto finora presenta già – talvolta addirittura in modoinconscio – il carattere che abbiamo indicato. Nella filo-sofia del diritto, nella teoria della morale, nell’economiapolitica e nello studio della storia dei popoli e delle isti-tuzioni, gli anarchici hanno già dimostrato di nonaccontentarsi di soluzioni metafisiche, ma di voler darealle loro conclusioni un fondamento naturalista. Essinon si lasciano suggestionare dalla metafisica di Hegel,di Schelling e di Kant, dai commentatori del dirittoromano e del diritto canonico, dai dotti professori didiritto dello Stato o dall’economia politica dei metafisi-ci; piuttosto, cercano di rendersi esattamente conto deivari problemi emersi in questi campi, rifacendosi aglistudi con la prospettiva naturalista compiuti negli ulti-mi quaranta-cinquanta anni.

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Proprio come la filosofia materialista (meccanica, omeglio cinetica) ha abbandonato le concezioni metafisi-che del tipo «Spirito universale», «Forza creatrice dellanatura», «Attrazione simpatica della materia», «Incar-nazione dell’Idea», «Finalità della Natura e sua Ragiond’essere», «Inconoscibile», «Umanità» intesa nel senso dientità animata dal «Soffio dello Spirito», ecc., mentregli embrioni delle generalizzazioni occultate dietro que-ste parole sono stati tradotti nel linguaggio concreto deifatti, così noi ci sforziamo di fare altrettanto quando cimettiamo ad esaminare i fatti della vita in società.

Quando i metafisici vogliono persuadere il naturali-sta che la vita intellettuale e passionale dell’uomo sisvolge secondo «le leggi immanenti dello Spirito», ilnaturalista scrolla le spalle e continua la sua indaginepaziente dei fenomeni della vita, dell’intelligenza, dellepassioni, al fine di dimostrare che tutti questi possonoessere ridotti a fenomeni fisici e chimici. Egli cerca discoprire le loro leggi naturali.

Parimenti, quando si viene a dire ad un anarchicoche secondo Hegel «ogni evoluzione rappresenta unatesi, un’antitesi e una sintesi», oppure che «il diritto haper fine l’instaurazione della giustizia, che rappresentala sustanziazione materiale dell’Idea suprema», o anco-ra quando gli si chiede qual è secondo lui «lo scopo dellavita», anche l’anarchico scrolla le spalle e si domanda:«Come mai, nonostante lo sviluppo attuale delle scienzenaturali, si possono trovare ancora uomini tanto arre-trati da credere a simili baggianate? Uomini tantoretrogradi che parlano ancora la lingua del selvaggioprimitivo, il quale ‘antropomorfizzava’ la natura, cre-dendola governata da esseri fatti a somiglianzadell’uomo?».

Gli anarchici non subiscono il fascino delle «parolealtisonanti» poiché sanno che queste parole servonosempre a coprire l’ignoranza – cioè l’investigazioneincompiuta – o, il che è peggio, la superstizione. Eccoperché, quando si parla loro questo linguaggio, passanooltre, senza fermarsi, portando avanti il loro studio del-

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le concezioni sociali e delle istituzioni del passato e delpresente in base al metodo naturalista. E così scopronoche lo sviluppo della vita sociale è infinitamente piùcomplesso (e ben più interessante dal punto di vistapratico) di quanto si potrebbe supporlo attenendosi alleformulazioni precedenti.

Recentemente, si è molto sentito parlare del metododialettico, che i socialdemocratici raccomandano perelaborare l’ideale socialista. Noi non accettiamo affattoquesto metodo, che del resto non è riconosciuto da nes-suna scienza naturale. Al naturalista moderno questo«metodo dialettico» ricorda qualcosa di molto vecchio, digià vissuto e che fortunatamente la scienza ha dimenti-cato da un pezzo. Non una delle grandi scoperte del XIXsecolo – in meccanica, astronomia, fisica, chimica, biolo-gia, psicologia o antropologia – si deve al metodo dialet-tico. Tutte invece sono frutto del metodo induttivo-deduttivo, il solo veramente scientifico. E poiché l’uomoè parte della natura, poiché la sua vita personale esociale è anch’essa un fenomeno della natura – allastessa stregua della crescita di un fiore o dell’evoluzio-ne della vita sociale di formiche e api – non vi è alcunaragione perché, passando dal fiore all’uomo, da ungruppo di castori a una città umana, noi si debbaabbandonare il metodo che ci ha servito così bene fino aquesto momento per cercarne un altro nell’arsenale del-la metafisica.

Il metodo induttivo-deduttivo che adoperiamo nellescienze naturali si è rivelato talmente efficace che, nelcorso del XIX secolo, la scienza ha fatto in cento annipiù progressi che nei due millenni precedenti. E daquando si è cominciato (nella seconda metà di quelsecolo) ad applicare questo metodo anche allo studiodelle società umana, non ci si è mai minimamente tro-vati nella necessità di doverlo rigettare per far ritornoalla scolastica medievale resuscitata da Hegel. [...]

Aggiungiamo ancora una parola. L’indagine scientifi-ca non è fruttuosa se non a condizione di avere unobiettivo determinato, d’essere, cioè, intrapresa con

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l’intenzione di trovare una risposta a una questionechiara e ben definita. Qualsiasi ricerca sarà tanto piùfruttuosa quanto meglio verranno identificate le rela-zioni esistenti fra la questione posta e le linee fonda-mentali della nostra concezione generale dell’universo.Quanto più una data questione rientra in questa conce-zione generale, tanto più facile ne sarà la soluzione.

Orbene, la questione che l’anarchia si propone dirisolvere potrebbe esprimersi come segue: «Quali sonole forme sociali che in una data società, e per estensionea tutta l’umanità, possono meglio garantire il massimodi benessere e, di conseguenza, il massimo di vitalità?Quali forme sociali favoriscono meglio l’accrescimentodi questo benessere, il suo sviluppo quantitativo e qua-litativo consentendogli così di divenire quanto più com-pleto e generale possibile (cosa che, sia detto fra paren-tesi, ci dà anche la formula del progresso)?». Il desideriodi aiutare in questo senso l’evoluzione determina lecaratteristiche proprie all’anarchico nella sua attivitàsociale, scientifica, artistica, ecc. […]

Gli anarchici, guidati da diverse considerazionid’ordine storico, politico ed economico, come pure dagliinsegnamenti della vita moderna, giungono, come si èdetto, a una concezione della società ben differente daquella cui si rifanno i vari partiti politici, che miranotutti ad arrivare al potere.

Noi ci rappresentiamo una società in cui le relazionitra i suoi membri non sono più regolate dalle leggi, ere-dità d’un passato d’oppressione e barbarie, o da qualsi-voglia autorità, eletta o al potere per diritto ereditario,ma da impegni reciproci liberamente presi e semprerevocabili, come pure da usi e costumi liberamente con-cordati. Questi costumi, però, non devono essere pietri-ficati e cristallizzati dalla legge o dalla superstizione,ma è bene che abbiano uno sviluppo continuo, adattan-dosi ai nuovi bisogni, ai progressi del sapere e delleinvenzioni, e al crescere d’un ideale sociale sempre più

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razionale ed elevato. Quindi, nessuna autorità che imponga agli altri la

propria volontà. Nessun governo dell’uomo sull’uomo.Nessuna immobilità nella vita, ma un’evoluzione conti-nua, alcune volte più rapida, altre volte più lenta, pro-prio come nella vita della natura. Piena libertà d’azioneall’individuo per lo sviluppo di tutte le sue capacitànaturali, della sua individualità, di ciò che può avered’originale, di personale. In altre parole, nessuna azio-ne imposta all’individuo sotto minaccia d’una punizionesociale, qualunque essa sia, o d’una pena soprannatura-le, mistica: la società non chiede nulla all’individuo chequesti non abbia liberamente consentito di fare nelmomento stesso in cui lo fa. E inoltre, uguaglianza com-pleta di diritti per tutti.

Noi siamo dunque a favore di una società di uguali,senza alcuna coercizione di sorta, e malgrado quest’as-senza di coercizione non temiamo affatto che gli attiantisociali di alcuni individui possano assumere in unasocietà di uguali proporzioni pericolose. Una società diuomini liberi saprà salvaguardarsi meglio delle nostresocietà attuali, che demandano la difesa della moralitàsociale alla polizia, alle spie, alle prigioni (universitàdel crimine), agli aguzzini, ai carnefici e ai loro compli-ci. Soprattutto, essa saprà prevenire tali atti.

È evidente che, sino ad oggi, non è mai esistita unasocietà che abbia praticato questi princìpi. Ma in ognitempo l’umanità ha manifestato una tendenza ad unaloro realizzazione. Ogni volta che certi settori dellasocietà riuscivano, per un certo periodo, a rovesciare leautorità che li opprimevano, o a cancellare le inegua-glianze esistenti (schiavitù, servaggio, autocrazia,governo di certe caste o classi); ogni volta che una nuo-va luce di libertà e d’uguaglianza si sprigionava nellasocietà, il popolo, gli oppressi, cercavano di mettere inpratica, anche solo parzialmente, i princìpi appenaenunciati.

Possiamo dire, quindi, che l’anarchia è uno specificoideale di società che differisce in modo essenziale da

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quanto è stato preconizzato sino ad oggi dalla maggiorparte dei filosofi, degli intellettuali e degli uomini poli-tici, che hanno tutti avuto la pretesa di governare gliuomini e di dar loro delle leggi. Non è mai stata l’idealedei privilegiati, ma è spesso stata l’ideale più o menocosciente delle masse.

Nondimeno, sarebbe falso affermare che questa con-cezione della società sia un’utopia dato che nel linguag-gio ordinario si attribuisce a questa parola l’idea diqualche cosa che non si può realizzare. [...]

Nel nostro caso è ancora più errato parlare d’utopiain quanto le tendenze da noi identificate hanno già avu-to una parte assai importante nella storia della civiltà,poiché sono esse che hanno dato origine al diritto con-suetudinario, diritto che ha dominato in Europa dal Val XVI secolo. Ora queste tendenze si vanno nuovamen-te affermando in quelle società che per più di tre secolihanno sperimentato lo Stato. È su questa osservazione,la cui importanza non sfuggirà allo storico della civiltà,che ci basiamo per considerare l’anarchia come un idea-le possibile, realizzabile. [...]

«Utopisti» sono stati coloro che, guidati solamentedai loro desideri, non hanno voluto tener conto delletendenze nuove che si facevano strada; sono stati coloroche hanno attribuito troppa stabilità alle cose del pas-sato, senza chiedersi se non fossero semplicemente ilrisultato di certe condizioni storiche temporanee. [...]

Se i monopoli costituiti e consolidati dallo Stato ces-sassero d’esistere, lo Stato stesso non avrebbe piùragion d’essere. E una volta che i rapporti tra gli uomi-ni non fossero più quelli tra sfruttati e sfruttatori, nuo-ve forme di aggregazione sorgerebbero. La vita si sem-plificherebbe se il meccanismo che permette ai ricchi disfruttare il lavoro dei poveri venisse disattivato.

L’idea di comunità indipendenti per aggregazioni inbase al territorio e di ampie federazioni di mestiere peraggregazioni in base alla funzione sociale – dove le due

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s’intersecano e cooperano al fine di soddisfare i bisognidella società – permette agli anarchici di concepire inmodo concreto, reale, la possibile organizzazione di unasocietà emancipata. Non ci resta che aggiungere leaggregazioni in base alle affinità personali – aggrega-zioni innumerevoli, che possono variare all’infinito,essere di lunga durata o effimere, costituirsi in basealle necessità del momento e per gli scopi più disparati– che già abbiamo visto sorgere nella società attuale aldi fuori dei raggruppamenti politici e professionali.

Questi tre tipi di aggregazione, che s’intrecciano traloro in una grande rete, consentirebbero di soddisfaretutti i bisogni sociali: il consumo, la salute, l’istruzione,la protezione reciproca dalle aggressioni, il mutuoappoggio, la difesa del territorio, e anche la soddisfazio-ne dei bisogni di tipo scientifico, artistico, letterario,ludico. Un insieme pieno di vita e sempre pronto arispondere con nuovi adattamenti ai nuovi bisogni ealle nuove influenze dell’ambiente sociale e intellettua-le.

Se una società di questo tipo si sviluppasse su un ter-ritorio abbastanza vasto e popolato da permettere unagran varietà di inclinazioni e bisogni, sarebbe subitoevidente che la coercizione di un’autorità, qualunqueessa sia, sarebbe del tutto inutile. Inutile tanto permantenere la vita economica della società che per impe-dire la maggior parte degli atti antisociali.

In effetti, il più grave impedimento a sviluppare emantenere nello stato attuale il senso morale, necessa-rio alla vita in società, risiede innanzi tutto nell’assen-za dell’uguaglianza. Senza uguaglianza – «senza ugua-glianza di fatto», come si diceva nel 1793 – è assoluta-mente impossibile che il sentimento di giustizia si gene-ralizzi. La giustizia non può che essere egualitaria,mentre i sentimenti egualitari in questa nostra societàstratificata in classi sono smentiti in ogni istante e inogni situazione. È necessario praticare l’uguaglianzaperché i sentimenti di giustizia verso tutti entrino neicostumi, nelle consuetudini. Ed è appunto quello che

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accadrà in una società di uguali.Allora, il bisogno di un’autorità coercitiva, o piuttosto

il desiderio di ricorrere alla coercizione, non si farebbepiù sentire. Si maturerebbe la convinzione che lalibertà dell’individuo non ha bisogno di essere limitata,come lo è oggi, dal timore di una punizione, legale omistica, oppure dall’ubbidienza ad individui ritenutisuperiori o ad entità metafisiche create dalla paura odall’ignoranza; cosa che porta nella società attuale allaservitù intellettuale, alla riduzione dell’iniziativa perso-nale, al decadimento del senso morale, all’arresto delprogresso.

In un contesto egualitario, l’uomo potrebbe lasciarsiguidare con fiducia dalla propria ragione, che essendosisviluppata in questo stesso ambiente avrebbe necessa-riamente l’impronta delle abitudini sociali che gli sonoproprie. E potrebbe dunque proporsi di conseguire ilpieno sviluppo di tutte le sue facoltà, il pieno sviluppo,cioè, della sua individualità. All’opposto di quell’indivi-dualismo preconizzato ai nostri giorni dalla borghesiacome un mezzo «adatto alle nature superiori» per arri-vare al pieno sviluppo dell’essere umano, che altro nonè se non un inganno. Questo individualismo è anzil’ostacolo più sicuro allo sviluppo di individualità forti.[…]

Quando un economista ci viene a dire: «In un merca-to assolutamente aperto, il valore delle merci si misurain base alla quantità di lavoro socialmente necessariaper produrre queste merci» (si veda Ricardo, Proudhon,Marx e tanti altri), non accettiamo quest’asserzionecome un articolo di fede solo perché è stata enunciatada tali autorità, oppure perché appare «massimamentesocialista» affermare che il lavoro è la vera misura deivalori mercantili. È possibile che sia vero, diciamo. Manon vi accorgete che, facendo questa affermazione,ammettete implicitamente che il valore e la quantitàdel lavoro necessario sono proporzionali, proprio come

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la velocità di un corpo che cade è proporzionale aisecondi di durata della caduta? Viene così affermatauna certa relazione quantitativa fra queste due gran-dezze. E allora, avete forse fatto delle misurazioni, delleosservazioni quantitativamente misurate, che solepotrebbero confermare una tale asserzione a propositodelle quantità?

Dire che in generale il valore di scambio aumenta sela quantità di lavoro necessario è maggiore, è ammissi-bile. Ed è da parecchio tempo che Adam Smith si èespresso in questo senso. Ma concludere che, per conse-guenza, le due quantità sono proporzionali, e che una èla misura dell’altra, significa commettere un erroregrossolano. Grossolano come affermare, ad esempio,che la quantità di pioggia che cadrà domani sarà pro-porzionale alla quantità di millimetri che il barometrosegnerà al di sotto della media stabilita per il tal luogoe per la tal stagione. Chi per primo ha notato che esisteuna certa correlazione tra il basso livello del barometroe la quantità di pioggia che cade, o chi per primo haconstatato che una pietra caduta da una grande altezzaacquista una velocità superiore a una pietra caduta daappena un metro, ha fatto delle scoperte scientifiche(come appunto ha fatto Adam Smith per il valore). Mal’uomo che venisse dopo di essi ad affermare che laquantità di pioggia caduta si misura da quanto il baro-metro è sceso al di sotto della media, oppure che lo spa-zio percorso da una pietra che cade è proporzionale alladurata della caduta e si misura secondo questa, cidirebbe delle bestialità. E proverebbe inoltre che ilmetodo di ricerca scientifica gli è assolutamente estra-neo e che il suo lavoro non è scientifico, per quanto zep-po sia di parole riprese dal gergo della scienza.

Notiamo inoltre che se a mo’ di scusa ci si nascondes-se dietro la mancanza di dati precisi per stabilire, gra-zie a misurazioni esatte, il valore d’una data merce e laquantità di lavoro necessaria per produrla, questa scu-sa non sarebbe affatto unica. Conosciamo nelle scienzeesatte migliaia di casi simili, di correlazioni nelle quali

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vediamo nettamente che una data quantità dipende daun’altra, che una s’accresce quando l’altra pure s’accre-sce. Come nel caso, ad esempio, della rapidità di svilup-po d’una pianta che dipende, fra l’altro, dalla quantitàdi calore e di luce che la pianta riceve, o come in quellodel rinculo d’un cannone che aumenta quando aumentala quantità di polvere bruciata nella carica.

Tuttavia, quale scienziato degno di questo nome avràla ridicola pretesa di affermare – prima d’aver misuratoin quantità i loro rapporti – che, di conseguenza, larapidità di crescita d’una pianta e la quantità di lucericevuta, oppure il rinculo del cannone e la carica dipolvere bruciata, sono quantità proporzionali; che l’unaaumenta due, tre, dieci volte se l’altra aumenta nellastessa proporzione, cioè se, in altre parole, si commisu-rano, come viene affermato per il valore e il lavoro daRicardo in poi?

E ancora, chi mai, dopo aver fatto l’ipotesi, la suppo-sizione, che un rapporto di tal genere esista fra le duedette quantità, oserebbe presentare questa ipotesi comeuna legge? Non ci sono che economisti o giuristi – uomi-ni che non hanno alcuna idea di ciò che viene concepitocome «legge» nelle scienze naturali – a fare simili affer-mazioni.

Generalmente, il rapporto fra due quantità è estre-mamente complesso, come è appunto nel caso del valoree del lavoro; nello specifico, il valore di scambio e laquantità di lavoro non sono mai proporzionali l’unoall’altra, l’uno non misura mai l’altra. È ciò che avevagià fatto notare Adam Smith. Dopo aver detto che ilvalore di scambio di ogni oggetto si misura con la quan-tità di lavoro necessaria per produrre questo oggetto, siè visto costretto ad aggiungere (in seguito ad uno studiodei valori mercantili) che se ciò avveniva nel regime discambio primitivo, non era più così nel regime capitali-sta. Cosa perfettamente vera. Il regime capitalista dellavoro obbligato e dello scambio finalizzato al profittodistrugge questi semplici rapporti e introduce parecchinuovi fattori che alterano i rapporti tra lavoro e valore

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di scambio. Ignorarli vuol dire smettere di fare econo-mia politica. Vuol dire imbrogliare le idee e impedire losviluppo della scienza economica.

L’osservazione appena fatta per il valore s’applica aquasi tutte le affermazioni economiche che oggi circola-no come verità stabilite (specialmente tra i socialistiche amano definirsi scientifici) e che vengono presenta-te, con impagabile ingenuità, come leggi naturali. Nonsolamente la maggior parte di queste pretese leggi sonodel tutto erronee, ma siamo pure convinti che coloro checi credono se ne accorgerebbero subito da sé se soloarrivassero a comprendere la necessità di verificare leloro affermazioni quantitative con delle ricerche altret-tanto quantitative.

Del resto, tutta l’economia politica si presenta a noianarchici sotto un aspetto differente da quello attribui-tole dagli economisti, siano essi borghesi o socialdemo-cratici. Essendo il metodo scientifico induttivo assoluta-mente estraneo a entrambi, non si rendono affatto con-to di cosa sia una «legge naturale», malgrado la predile-zione che hanno per questa espressione. Essi nons’accorgono che ogni legge di natura ha un caratterecondizionale, che si esprime sempre così: «Se nellanatura si presentano queste condizioni, il risultato saràquesto o quest’altro… Se una linea retta intersecaun’altra linea retta, in modo da formare degli angoliuguali dalle due parti del punto d’intersezione, le conse-guenze saranno le seguenti… Se i movimenti che esi-stono nello spazio interplanetario agiscono in modoesclusivo sopra due corpi, e se dunque non si incontra-no altri corpi agenti su questi due a una distanza chenon sia infinita, allora i centri di gravità dei due corpisi avvicinano a quella data velocità (legge della gravita-zione universale)». E così di seguito, ma sempre con ilsuo se, sempre con una condizione.

Di conseguenza, tutte le pretese leggi e teoriedell’economia politica non sono in realtà che afferma-zioni che rispondono a quanto segue: «Ammettendo chesi trovi sempre in un dato Paese una quantità conside-

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revole di persone che non possono vivere né un mese eneppure quindici giorni senza accettare le condizioni dilavoro che vorrà loro imporre lo Stato (sotto forma diimposte), o che saranno loro offerte da quelli che lo Sta-to riconosce come proprietari del suolo, delle officine,delle ferrovie, ecc., ecco le conseguenze che ne risulte-ranno…».

Fino ad oggi, l’economia politica non è stata altro cheuna enumerazione di ciò che succede in simili condizio-ni: senza però enumerare e analizzare le condizionistesse, senza esaminare come queste condizioni agisca-no in ogni caso particolare, né ciò che le mantiene. E seanche capita che queste condizioni vengano ricordate inun certo frangente, un momento dopo sono già dimenti-cate. Ma gli economisti non si limitano solo a similidimenticanze, bensì rappresentano i fatti che si produ-cono in seguito a queste condizioni come leggi fatali eimmutabili.

Quanto all’economia politica socialista, è vero cheessa critica alcune di queste conclusioni, oppure nespiega altre in modo diverso, ma ugualmente commettela stessa dimenticanza e, ad ogni modo, non si è ancoratracciata un proprio cammino, rimanendo su quello vec-chio. Il massimo che ha fatto (con Marx) è stato diriprendere le definizioni dell’economia politica metafisi-ca e borghese per dire: «Vedete bene che, anche accet-tando le vostre definizioni, si arriva a provare che ilcapitalista sfrutta l’operaio», cosa che suonerà forsebene in una polemica, ma che non ha nulla a che vederecon la scienza.

In generale, riteniamo che la scienza dell’economiapolitica vada costituita in modo diverso: deve esseretrattata come una scienza naturale e proporsi una nuo-va meta; deve occupare in rapporto alle società umaneun posto simile a quello che la fisiologia occupa in rap-porto alle piante e agli animali: deve diventare insom-ma una fisiologia della società. Il suo scopo deve esserelo studio dei bisogni sempre crescenti della società e deidiversi mezzi impiegati per soddisfarli; deve analizzare

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questi mezzi per vedere fino a che punto sono stati unavolta e sono oggi appropriati allo scopo; e in ultimo –poiché lo scopo finale di ogni scienza è la previsione el’applicazione alla vita pratica (ed è un bel pezzo cheBacone l’ha affermato) – essa dovrà studiare i mezziper meglio soddisfare la somma dei bisogni moderni eottenere con la minore spesa d’energia (con economia) imigliori risultati per l’umanità in generale.

Si capisce, così, perché noi si arrivi a conclusioni tan-to differenti, sotto molti aspetti, da quelle cui giunge lamaggior parte degli economisti borghesi o socialdemo-cratici; perché non riconosciamo il titolo di «leggi» a cer-te correlazioni da loro indicate; perché la nostra «espo-sizione» del socialismo differisce dalla loro; perchédeduciamo, dallo studio delle tendenze e delle direzionidi sviluppo attualmente osservabili nella vita economi-ca, conclusioni del tutto differenti dalle loro per quantoconcerne il desiderabile e il possibile; o in altri termini,perché noi arriviamo al comunismo libertario, mentreessi giungono al capitalismo di Stato e al salariato col-lettivista.

Siamo forse noi nel torto ed essi nel vero? Può darsi.Ma per verificare chi di noi ha torto o ragione non servefare dei commentari bizantini su ciò che questo o quelloscrittore ha detto o voluto dire, né parlarci della trilogiadi Hegel, né soprattutto continuare a far uso del meto-do dialettico.

Per verificarlo non si può che mettersi a studiare irapporti economici allo stesso modo in cui si studiano ifatti delle scienze naturali.

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IV

L’opera più importante di Kropotkin, Il mutuo appog-gio, è stata pubblicata per la prima volta a Londra nel1902 e costituisce l’approdo di una lunga ricerca iniziatauna quindicina d’anni prima. La ricerca kropotkinianavuole dimostrare l’inconsistenza scientifica di quellalinea culturale del bellum omnium contra omnes che vada Hobbes a Huxley, secondo cui la legge della vita sicompendia nella lotta tra le specie e tra gli individuiall’interno della stessa specie; linea che porta a ricono-scere l’ineluttabilità dell’affermarsi dei più forti. Lavalenza politica di questa credenza «universale», che allafine del XIX secolo è riformulata sotto il nome di «darwi-nismo sociale», si rintraccia nella giustificazione ideolo-gica al capitalismo più sfrenato e dunque la sua impor-tanza supera di gran lunga la cifra specificamente scien-tifica della stessa teoria. È evidente che Kropotkin consi-dera centrale demistificare questa concezione conflittua-listica del mondo: qualora infatti risultasse che essarisponde a verità, sarebbe allora impossibile pensare aduna società anarchica che, al contrario, pone l’armonia,l’uguaglianza e l’amore tra gli esseri umani quali pre-messe indispensabili per il suo stesso costituirsi.

Situandosi all’opposto dell’assunto darwiniano, omeglio della sua vulgata, Kropotkin nega che il conflitto

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tra gli individui all’interno della stessa specie costitui-sca la condizione generale dell’evoluzione, anche seammette l’esistenza del conflitto tra le specie. Kropotkinvede una correlazione strettissima tra la pratica delmutuo appoggio e la tendenza associativa, nel senso chequeste forme sono aspetti di un’unica realtà: quella del-la vita in generale. La vita animale è di per se stessaeminentemente sociale. L’associazione è la regola, la leg-ge della natura, perché si riscontra in tutti i gradidell’evoluzione.

Il «mutuo appoggio», come potente forza evolutiva,opera oltretutto anche a livello interspecifico come «sim-biosi» (e, come simbiosi, è stata recentemente ipotizzataaddirittura la formazione di organuli intracellulari,come i mitocondri!).

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edi-zione italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella tra-duzione (rivista) di Camillo Berneri.

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L’AIUTO RECIPROCO IN NATURA

Il concetto di lotta per l’esistenza come fattoredell’evoluzione, introdotto nella scienza da Darwin e daWallace, ci ha messi in grado di includere un vastoinsieme di fenomeni in un’unica generalizzazione, che èben presto divenuta la base stessa delle nostre specula-zioni filosofiche, biologiche e sociologiche. Un’immensavarietà di fatti – adattamento della funzione e dellastruttura degli organismi viventi al proprio ambiente;evoluzione fisiologica e anatomica; progresso intelletti-vo e sviluppo morale – che venivano spiegati un tempocon tante cause diverse, sono stati riuniti da Darwin inun’unica concezione generale. Egli vi ha identificatouno sforzo continuo, una lotta contro le circostanzeavverse, per lo sviluppo degli individui, delle razze, del-le specie e delle società, teso al massimo della pienezza,

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della varietà e dell’intensità di vita. Può anche darsiche, da principio, lo stesso Darwin non si sia reso per-fettamente conto dell’importanza ben più generale delfattore da lui primariamente individuato solo per spie-gare una serie di fatti relativi all’accumularsi di varia-zioni individuali nelle specie nascenti. Ma egli stessoaveva previsto che il termine che stava introducendonella scienza avrebbe perso il suo significato filosofico, epiù vero, se fosse stato impiegato esclusivamente nelsenso più ristretto: quello di una lotta fra singoli indivi-dui per i puri mezzi di sopravvivenza. Già nei primicapitoli della sua memorabile opera insisteva perché iltermine fosse preso nel suo «senso largo e metaforico,che comprende l’interdipendenza degli esseri viventi eche comprende inoltre (cosa ancor più importante) nonsoltanto la vita dell’individuo ma anche il successo dellasua discendenza» (L’origine delle specie, cap. III). [...]

La teoria di Darwin ha avuto la sorte di tutte le teo-rie che trattano dei rapporti umani. Invece di svilup-parla secondo gli indirizzi che le erano propri, i suoicontinuatori l’hanno sempre più ridotta. E mentre Her-bert Spencer, partendo da osservazioni indipendentima analoghe, ha tentato di allargare la discussioneponendo il grande quesito su chi sono i più adatti (inmodo particolare nell’appendice alla terza edizione diPrincìpi di etica), gli innumerevoli seguaci di Darwinhanno ridotto la nozione di lotta per l’esistenza al suopiù angusto significato. Essi sono arrivati a concepire ilmondo animale come un mondo di lotta perpetua fraindividui affamati, assetati di sangue, facendo risuona-re la letteratura contemporanea del grido di guerra«Guai ai vinti», come se fosse questa l’ultima parola del-la moderna biologia. E per interessi personali hannoelevato questa lotta «spietata» all’altezza di principiobiologico, al quale anche l’uomo deve sottomettersi, sot-to pena di soccombere in un mondo fondato sul recipro-co sterminio. Lasciando da parte gli economisti, che discienze naturali non sanno che qualche parola presa aprestito dai divulgatori di seconda mano, bisogna rico-

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noscere che anche i più autorevoli interpreti di Darwinhanno fatto del loro meglio per consolidare queste falseidee. [...]

[Viceversa] quando studiamo gli animali, non soltan-to nei laboratori e nei musei ma anche nelle foreste enelle praterie, nelle steppe e sulle montagne, ci accor-giamo subito che, benché in natura siano fortementepresenti la guerra e lo sterminio fra specie diverse, esoprattutto fra differenti classi di animali, vi si ritrovaal contempo altrettanto se non più mutuo appoggio,mutua assistenza e mutua difesa tra gli animali appar-tenenti alla stessa specie, o almeno allo stesso grupposociale. La socialità è una legge della natura tantoquanto la lotta reciproca. È senza dubbio molto difficilevalutare, anche approssimativamente, l’importanzapercentuale di queste due serie di fatti. Ma se ricorria-mo a una testimonianza indiretta e domandiamo allanatura: «Quali sono i più adatti: coloro che sono conti-nuamente in lotta tra loro, o coloro che si aiutano l’unl’altro?», vediamo che i più adatti sono, senza dubbio,gli animali che hanno acquisito abitudini di solidarietà.Essi hanno maggiori probabilità di sopravvivere e rag-giungono, nelle loro rispettive classi, il più alto sviluppodelle capacità intellettive e fisiche. Se gli innumerevolifatti che possono esser citati a sostegno di questa tesivengono presi in considerazione, possiamo affermarecon certezza che il mutuo appoggio è una legge dellavita animale tanto quanto la lotta reciproca, ma che,come fattore dell’evoluzione, il primo ha probabilmenteun’importanza decisamente maggiore in quanto favori-sce lo sviluppo delle abitudini e dei caratteri più adattiad assicurare la preservazione e lo sviluppo della spe-cie, oltre a procurare con una minor perdita di energiauna maggior quantità di benessere e di felicità per cia-scun individuo. […]

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Quando si comincia a studiare la lotta per l’esistenzasotto i suoi due aspetti, quello proprio e quello metafori-co, ciò che colpisce subito è l’abbondanza di dati sulmutuo appoggio, e non soltanto per quanto riguardal’allevamento della prole, come riconosce la maggiorparte degli evoluzionisti, ma anche la sicurezzadell’individuo e il procacciamento del cibo necessario. Inmolte categorie del regno animale l’aiuto reciproco è laregola. Si va scoprendo il mutuo appoggio anche fra glianimali più in basso nella scala evolutiva, ed è lecitoaspettarsi che, prima o poi, i ricercatori che studiano almicroscopio la vita elementare individuino forme dimutuo appoggio incosciente anche fra i microrganismi.Vero è che la nostra conoscenza degli invertebrati, aeccezione delle termiti, delle formiche e delle api, èestremamente limitata; e tuttavia, anche in ciò che con-cerne gli animali inferiori possiamo raccogliere alcunidati, opportunamente verificati, di cooperazione. Leinnumerevoli società di cavallette, farfalle, cicindelidi,cicale, ecc., sono in realtà pochissimo conosciute, ma ilfatto stesso della loro esistenza indica che esse devonoessere organizzate più o meno secondo gli stessi princì-pi delle società temporanee di formiche e api finalizzatealle migrazioni. Quanto ai coleotteri, abbiamo fenomenidi mutuo appoggio perfettamente osservabili fra inecrofori. Questi hanno bisogno di materia organica indecomposizione per deporvi le uova e per assicurare ilnutrimento delle larve. Ma questa materia organicanon deve decomporsi troppo rapidamente, così hannol’abitudine di sotterrare nel suolo i cadaveri di piccolianimali di ogni specie che incontrano sul proprio cam-mino. Di norma vivono isolati, ma quando uno di loroscopre il cadavere di un topo o di un uccello che gli riu-scirebbe difficile seppellire da solo, chiama quattro, seio persino dieci altri necrofori per portare a terminel’operazione riunendo gli sforzi; se necessario, traspor-tano il cadavere in un terreno morbido e ve lo seppelli-scono, dando prova di molto buon senso e senza poientrare in conflitto per scegliere colui che avrà il privi-

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legio di deporre le uova nel corpo sepolto. [...]

Anche da questa breve rassegna possiamo vederecome la vita in società non costituisca l’eccezione nelmondo animale: essa è piuttosto la regola, la legge dellanatura che raggiunge il suo completo sviluppo nei ver-tebrati superiori. Le specie che vivono isolate o in picco-le famiglie sono relativamente poche e il numero deiloro membri limitato. Sembra anzi molto probabile che,tranne qualche eccezione, gli uccelli ed i mammiferi cheattualmente non sono gregari, vivessero in società pri-ma che l’uomo invadesse il globo, intraprendendo unaguerra permanente contro di essi o semplicementedistruggendo le loro fonti primarie di nutrimento. «Nonci si associa per morire», è stata l’acuta osservazione diEspinas; e Houzeau, che ha studiato la fauna di certeregioni dell’America quando questo Paese non era anco-ra stato modificato dall’uomo, ha scritto nel medesimosenso.

La socialità si riscontra nel mondo animale in tutti igradi dell’evoluzione, e secondo la grande idea di Her-bert Spencer, brillantemente sviluppata in Colonie ani-mali di Périer, nel regno animale essa è all’origine stes-sa dell’evoluzione. Ma via via che si sale nella scala evo-lutiva, possiamo notare come la socialità divenga sem-pre più cosciente: essa perde il suo carattere puramentefisico, cessa di essere semplicemente istintiva, e diventarazionale. Nei vertebrati superiori è periodica, ovverogli animali vi ricorrono per la soddisfazione di un biso-gno particolare: la continuazione della specie, le migra-zioni, la caccia o la reciproca difesa. Si produce ancheaccidentalmente, ad esempio quando alcuni uccellis’associano contro un predatore o quando alcuni mam-miferi, sotto la pressione di circostanze eccezionali, siaggregano per migrare. In quest’ultimo caso è una verae propria deroga volontaria ai costumi abituali.L’aggregazione appare qualche volta a due o più gradi:la famiglia dapprima, poi il gruppo, ed infine l’associa-

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zione di gruppi abitualmente sparpagliati, ma che siriuniscono in caso di necessità, come abbiamo vistopresso i bisonti e presso altri ruminanti. Questa asso-ciazione può prendere anche forme più sofisticate, assi-curando maggiore indipendenza all’individuo senza pri-varlo dei vantaggi della vita sociale. Presso quasi tutti iroditori, l’individuo ha una sua tana particolare nellaquale può ritirarsi quando preferisce restare solo, maqueste tane sono disposte in villaggi e in città così daassicurare a tutti gli animali che vi abitano i vantaggi ele gioie della vita sociale. Infine, presso varie speciecome i topi, le marmotte, le lepri, ecc., la vita sociale èmantenuta nonostante il carattere litigioso e alcunetendenze egoistiche del singolo individuo. Tuttavia,questa associazione non è imposta, come nel caso delleformiche e delle api, dalla struttura fisiologica degliindividui, ma è coltivata per i benefici che derivano dalmutuo appoggio o per i piaceri che essa procura. Que-sto, naturalmente, si realizza in tutti i gradi possibili econ la maggiore varietà di caratteri individuali e speci-fici, e la varietà stessa degli aspetti che assume la vitain società è una conseguenza, e per noi una prova inpiù, della sua generalità.

Solo recentemente la socialità, vale a dire il bisognodell’animale di associarsi con i suoi simili, l’amore dellasocietà per la sua stessa salvaguardia, combinato alla«gioia di vivere», hanno cominciato a ricevere dagli zoo-logi l’attenzione che meritano. […]

Gli esempi citati ci hanno mostrato come la vita insocietà sia l’arma più potente nella lotta per l’esistenzapresa nel senso più ampio del termine, e sarebbe agevo-le portare ulteriori prove, ammesso che fosse necessa-rio. La vita in comune rende gli insetti, gli uccelli e imammiferi più deboli capaci di lottare e di proteggersicontro i più temibili carnivori o contro i rapaci; essafavorisce la longevità; rende le specie in grado di alleva-re la loro prole con un minimo dispendio di energia, e di

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mantenere altresì un numero sufficiente di membrianche se la loro natalità è ridottissima; consente aglianimali gregari di migrare in cerca di nuovi habitat.Dunque, pur ammettendo pienamente che la forza, larapidità, la colorazione mimetica, l’astuzia, la resisten-za alla fame e alla sete, ricordati da Darwin e Wallace,siano qualità che rendono l’individuo o la specie piùadatti in certe circostanze, affermiamo che, in ogni cir-costanza, la socialità rappresenta un grande vantaggionella lotta per l’esistenza. Le specie che, volontaria-mente o no, abbandonano quest’istinto associativo, sonocondannate a regredire. Viceversa, gli animali chemeglio sanno mettersi insieme hanno le maggiori pro-babilità di sopravvivenza e di ulteriore evoluzione, equesto anche se sono inferiori ad altri animali in cia-scuna delle facoltà enumerate da Darwin e Wallace,con l’eccezione di quella intellettiva. I vertebrati supe-riori, e gli uomini in particolare, sono la prova miglioredi quest’asserzione. Quanto alla facoltà intellettiva, setutti i darwinisti sono d’accordo con Darwin nel pensareche è l’arma più possente nella lotta per la vita e il fat-tore più potente di ulteriore evoluzione, non potrannonon ammettere altresì che l’intelligenza è una qualitàeminentemente sociale. Il linguaggio, l’imitazione e leesperienze accumulate sono altrettanti elementi di pro-gresso intellettuale che mancano all’animale non socia-le. Così, troviamo in cima alle differenti classi di anima-li le formiche, i pappagalli e le scimmie, che unisconotutte un alto grado di socialità con un alto grado di svi-luppo intellettivo. I più adatti alla vita sono dunque glianimali più socievoli, e la socialità appare come uno deiprincipali fattori dell’evoluzione, sia direttamente, assi-curando il benessere della specie e diminuendo nel con-tempo l’inutile dispendio di energia, sia indirettamente,favorendone lo sviluppo intellettivo.

È inoltre evidente che la vita in società sarebbe asso-lutamente impossibile senza un corrispondente incre-mento dei sentimenti sociali, e particolarmente di uncerto senso di giustizia collettiva che tende a divenire

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consuetudinario. Se ciascun individuo commettessecostantemente abusi a suo personale vantaggio, senzache gli altri intervenissero in favore di chi ne viene leso,nessuna vita sociale sarebbe possibile. Sentimenti digiustizia si sviluppano quindi, più o meno, presso tuttigli animali che vivono in gruppi. [...]

Se la visione sviluppata nelle pagine precedenti èvalida, il quesito che necessariamente ne deriva è fino ache punto questi fatti sono congruenti con la teoria del-la lotta per l’esistenza così come l’hanno espostaDarwin, Wallace e i loro discepoli. Cercherò ora di darebrevemente una risposta a questo quesito. Innanzi tut-to nessun naturalista può dubitare che l’idea di una lot-ta per l’esistenza estesa a tutta la natura organica nonsia la più importante generalizzazione dell’ultimo seco-lo. La vita è lotta, e in questa lotta il più adatto soprav-vive. Ma davanti a domande come: «Quali sono le armipiù adatte a sostenere questa lotta?», le risposte differi-scono grandemente a seconda dell’importanza data aidue diversi aspetti di questa lotta, di cui uno è proprio,la lotta per il nutrimento e la sicurezza dei singoli indi-vidui, mentre l’altro è la lotta che Darwin descrivevacome «metaforica», lotta molto spesso collettiva controle circostanze avverse. Nessuno può negare che ci sia,in seno a ciascuna specie, una certa competizione effet-tiva per il nutrimento, quantomeno in certi periodi. Mala questione è sapere se la lotta ha le proporzioni soste-nute da Darwin o anche da Wallace, e se questa lottaha esercitato nell’evoluzione del regno animale il com-pito che le si attribuisce.

L’idea che permea l’opera di Darwin è certamentequella di una reale competizione all’interno di ognigruppo animale per il cibo, la sicurezza individuale e lariproduzione. Il grande naturalista parla spesso diregioni così piene di vita animale che non potrebberocontenerne di più; da questa sovrappopolazione derivala necessità della competizione. Ma quando cerchiamo

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nella sua opera prove concrete di questa lotta, dobbia-mo confessare che non le troviamo sufficientementeconvincenti. Se facciamo riferimento al paragrafo inti-tolato La lotta per la vita è più aspra tra gli individui ele sottoclassi della stessa specie, non vi riscontriamoquell’abbondanza di prove e di esempi che solitamentetroviamo negli scritti di Darwin. La lotta tra individuidella stessa specie non è confermata, in questo stessoparagrafo, da alcun esempio: è data per scontata. E lalotta tra le specie strettamente imparentate non è pro-vata che da cinque esempi, di cui uno almeno (concer-nente due specie di tordi) sembra ora da porsi in dub-bio. Ma quando cerchiamo maggiori particolari per sta-bilire fino a che punto il declinare d’una specie sia statocausato dall’espandersi di un’altra specie, Darwin conla sua buona fede abituale ci dice: «Possiamo vagamen-te intravedere perché la competizione debba essere piùaccanita tra specie simili che quasi occupano la stessacollocazione in natura; ma probabilmente in nessuncaso riusciremo a dire con precisione perché una specietrionfi su un’altra nella grande battaglia della vita».

Quanto a Wallace, che cita gli stessi fatti sotto untitolo leggermente modificato, La lotta per la vita tra glianimali e le piante strettamente imparentati è spessodelle più aspre, fa la seguente osservazione che dàtutt’altro aspetto ai fatti sopra citati [i corsivi sonomiei]: «In alcuni casi, si ha senza dubbio una vera guer-ra tra le due specie, in cui la più forte uccide la piùdebole, ma questo non è in alcun modo necessario, e cipossono essere casi in cui la specie più debole trionferàfisicamente per le sue capacità di riproduzione più rapi-da, per la sua maggiore resistenza ai mutamenti clima-tici, o per la sua superiore abilità nello sfuggire aicomuni nemici».

In questi casi ciò che viene chiamata competizionepuò non essere affatto una vera competizione. Una spe-cie soccombe non perché sia sterminata o affamata daun’altra specie, ma perché non s’adatta bene alle nuovecondizioni, mentre l’altra ci si adatta. Di nuovo, l’e-

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spressione «lotta per la vita» è qui impiegata in sensometaforico, e non può averne altro. Quanto all’effettivacompetizione tra individui della stessa specie, di cui siparla in un altro passo relativo ad una mandria in SudAmerica durante un periodo di siccità, il valore del-l’esempio è diminuito dal fatto che si tratta di animalidomestici. In condizioni simili, i bisonti migrano alloscopo d’evitare la lotta. Per quanto dura sia la lotta del-le piante – cosa abbondantemente provata – non pos-siamo che ripetere l’osservazione di Wallace, il quale farilevare che «le piante vivono dove possono», mentre glianimali hanno in larga misura la possibilità di scegliereil proprio habitat. E allora ci chiediamo di nuovo: fino ache punto la competizione esiste realmente in ogni spe-cie animale? Su cosa viene basata questa opinione?

Occorre fare la stessa osservazione anche a propositodell’argomento indiretto a favore di un’implacabile com-petizione e di una lotta per la vita in seno ad ogni spe-cie, argomento che si basa sullo «sterminio delle varietàtransitorie» così di frequente ricordato da Darwin. Si sache per lungo tempo Darwin si è arrovellato sulla diffi-coltà che individuava nell’assenza di una ininterrottacatena di forme intermedie tra le specie prossime, e cheha poi identificato la soluzione di questa difficoltà nelsupposto sterminio delle forme intermedie. Tuttavia,un’attenta lettura dei differenti capitoli nei qualiDarwin e Wallace parlano di tale soggetto, ci porta benpresto alla conclusione che non bisogna intendere «ster-minio» nel senso letterale della parola; la stessa osser-vazione fatta da Darwin sull’espressione «lotta per lavita» s’applica anche alla parola «sterminio»: non deveessere presa in senso proprio, bensì «in senso metafori-co».

Se partiamo dalla supposizione che un dato spazio èpopolato da animali al massimo della sua capacità eche, di conseguenza, si scatena un’aspra competizionetra tutti i suoi abitanti per assicurarsi il cibo quotidia-no, allora la comparsa di una nuova varietà vincentesignificherebbe in molti casi (benché non sempre) la

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comparsa di individui capaci di appropriarsi di unaquota superiore alla loro porzione di mezzi di sussisten-za. Il risultato sarebbe che, affamandole, questi indivi-dui trionferebbero prima sulla varietà primitiva chenon possiede le nuove modificazioni e poi sulle varietàintermedie che non le posseggono al medesimo grado. Èpossibile che dapprima Darwin si sia rappresentato inquesto modo la comparsa di nuove varietà, o almenol’impiego frequente della parola «sterminio» dà questaimpressione. Ma Darwin e Wallace conoscevano troppobene la natura per non accorgersi che questo processodi cose non è il solo possibile, e oltretutto non è affattonecessario.

Se le condizioni fisiche e biologiche d’una data regio-ne, l’estensione dell’area occupata da una specie e leabitudini dei membri di questa specie restassero inva-riate, la comparsa subitanea d’una nuova varietà in talicondizioni potrebbe significare l’annientamento perfame e lo sterminio di tutti gli individui non sufficiente-mente dotati delle nuove qualità proprie alla nuovavarietà. Ma un tale concorso di circostanze è precisa-mente ciò che in natura non si vede. Ogni specie tendecontinuamente a estendere il proprio territorio; lemigrazioni verso nuovi spazi sono la regola, tanto pres-so la lenta lumaca quanto presso il rapido uccello; lecondizioni fisiche si trasformano incessantemente inogni regione; e le nuove varietà animali in un grannumero di casi, se non nella maggioranza, si formanonon grazie allo sviluppo di nuove armi capaci di strap-pare il nutrimento ai propri simili – il nutrimento non èche una delle centinaia di condizioni necessarie allavita – ma, come lo stesso Wallace mostra in un interes-sante paragrafo sulla «divergenza dei caratteri», grazieall’adozione di nuove abitudini, allo spostamento versonuovi habitat e all’assunzione di nuovi alimenti. In que-sti casi non ci sarà sterminio e neppure competizione,poiché il nuovo adattamento porta ad attenuare la com-petizione, ammesso che effettivamente ci fosse. Tutta-via ci sarà, dopo un certo periodo, assenza di forme

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intermedie, semplicemente per effetto della sopravvi-venza dei meglio dotati rispetto alle nuove condizioni; eciò sempre nell’ipotesi dello sterminio delle forme pri-mitive. È appena necessario aggiungere che se ammet-tiamo con Spencer, con tutti i lamarckiani e con Darwinstesso, l’influsso moderatore dell’ambiente sulle specie,diventa ancor meno necessario ammettere lo sterminiodelle forme intermedie. […]

Fortunatamente la competizione non è la regola nénel mondo animale né nel genere umano. Negli animaliè ristretta a periodi eccezionali, mentre la selezionenaturale trova occasioni decisamente migliori per ope-rare. Condizioni migliori sono appunto create dalla eli-minazione della competizione per mezzo del reciprocoaiuto e del mutuo appoggio. Nella grande lotta per lavita – per una vita di massima pienezza e intensità afronte di un minimo dispendio di energia – la selezionenaturale cerca sempre i mezzi per evitare la competizio-ne per quanto è possibile. [...]

È questa la tendenza della natura, sempre presentepur se non sempre pienamente realizzata. È questa laparola d’ordine che ci viene dal cespuglio e dalla fore-sta, dal fiume e dall’oceano: «Unitevi! Praticate ilmutuo appoggio! Esso è il mezzo più sicuro per dare atutti e a ciascuno il massimo di sicurezza, è la miglioregaranzia di esistenza e di progresso fisico, intellettualee morale». Ecco ciò che la natura ci insegna, e che que-gli animali che hanno raggiunto la più elevata posizio-ne nelle loro rispettive classi mettono in pratica. Ma èpure ciò che l’uomo, anche l’uomo più primitivo, ha fat-to; ed è proprio per questo che l’uomo ha potuto rag-giungere la posizione che occupa attualmente, comevedremo nel capitolo seguente, consacrato al mutuoappoggio nelle società umane.

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V

Lo stesso paradigma interpretativo che regge l’ideadell’aiuto intraspecifico costituisce anche la base teoricadel concetto di solidarietà, le cui linee di fondo sonoricavate, non a caso, dal Mutuo appoggio, con la diffe-renza però che qui l’attenzione è rivolta al mondo stori-co-umano. La filosofia kropotkiniana della storia è debi-trice dell’evoluzionismo in quanto afferma l’esperienzacomune dell’umanità, nel senso che le necessità dellavita sono sostanzialmente le stesse, così che nel corso deltempo gli uomini finiscono per percorrere canali presso-ché uniformi.

Secondo Kropotkin la storia dell’uomo non ha fonda-zione autonoma, non è creatrice di proprie forme e diproprie leggi, perché è una variabile della più grandestoria della natura; come questa, a sua volta, non è altroche l’espressione dinamica della vita intesa nel sensouniversale del termine. Le leggi di questa si impongonoalle vicende degli uomini e perciò, da questo punto divista, la lotta tra libertà e autorità, tra uguaglianza edisuguaglianza si delinea quale momento di una conti-nua opposizione trasversale tale da determinare tutti ipossibili comportamenti storici. Ne consegue che nelpensiero kropotkiniano non c’è un concetto di lotta socia-le inteso quale lotta di classe, appunto perché il conflitto

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non è precipuo di una specifica situazione spazio-tempo-rale, ma scaturisce da una contrapposizione universale:il mutuo appoggio e la lotta sono momenti che attraver-sano tutta la storia dell’uomo essendo insiti alle leggidella vita; anzi, sono la vita stessa intesa sul piano sto-rico-umano.

Per mettere in luce la pratica della solidarietà, eglisceglie l’età medievale e moderna perché, a suo giudizio,questo periodo mostra con maggior chiarezza lo spiritocomunitario. L’età comunale raffigura, in generale, unmodello societario fondato sull’autonomia e sulla decen-tralizzazione. Testimonia un’epoca di libertà e di creati-vità popolare, di autonoma iniziativa individuale e dispontanea edificazione collettiva, premesse fondamenta-li per una democrazia dal basso e per un esercizio effet-tivo del potere da parte del popolo. La linfa vitale dellastoria, la sua ricorrente fecondità creativa, si rinvienenelle masse popolari anonime che con le loro migliaia diatti quotidiani di concreta e spontanea solidarietà col-lettiva hanno contribuito alla costruzione societaria, astratificare cioè, nel corso dei secoli, quella civiltà sele-zionata di pratiche, di consuetudini e di saperi che glo-balmente costituiscono il work in progress della perfetti-bilità umana.

La sua tesi si riallaccia comunque, senza soluzione dicontinuità, con l’idea proudhoniana dell’autonomia delsociale rispetto all’eteronomia del politico; vuole confer-mare l’esistenza di una spontanea autofondazione dellasocietà quale premessa storica decisiva per concepire lapossibilità di una sua edificazione anarchica.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edi-zione italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella tra-duzione (rivista) di Camillo Berneri.

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LA SOLIDARIETÀ UMANA

Nel precedente capitolo è stata brevemente analizza-ta l’immensa parte avuta dal mutuo appoggio nell’evo-luzione del mondo animale. Occorre ora gettare unosguardo sulla parte avuta da questo stesso fattorenell’evoluzione del genere umano. Abbiamo visto comesiano rare le specie animali che vivono isolate e comenumerose siano quelle che vivono in società per la dife-sa reciproca, per la caccia, per immagazzinare le prov-viste, per allevare la prole o semplicemente per goderedella vita in comune. Abbiamo anche visto che sebbeneavvengano guerre tra le diverse classi di animali e lediverse specie, o anche tra i diversi gruppi della stessaspecie, la concordia e il mutuo appoggio sono la regolaall’interno dei gruppi e delle specie; e abbiamo anchevisto che le specie che meglio sanno unirsi ed evitare la

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competizione hanno le maggiori probabilità di sopravvi-vere e di svilupparsi ulteriormente. Queste prosperano,mentre le specie non sociali deperiscono.

Sarebbe dunque del tutto contrario a quello che sap-piamo della natura se gli uomini facessero eccezione auna regola così generale, e cioè che una creatura disar-mata, come fu l’uomo alla sua origine, avesse trovatosicurezza e progresso non nel mutuo soccorso, come glialtri animali, ma nella sfrenata competizione per ilvantaggio personale senza riguardo per gli interessidella specie. Per una mente abituata all’idea di unità innatura, una tale affermazione sembra assolutamenteinsostenibile. Tuttavia, per quanto improbabile e nonfilosofica sia, non ha mai mancato di partigiani. Vi sonosempre stati pensatori che hanno giudicato con pessi-mismo il genere umano. Essi lo conoscono più o menosuperficialmente nei limiti della loro esperienza; sannodella storia ciò che ne dicono gli annali, sempre attentialle guerre, alle crudeltà, all’oppressione, e a nient’al-tro. E ne concludono che il genere umano non è altroche una fluttuante aggregazione di individui semprepronti a battersi l’uno contro l’altro e trattenuti dal far-lo solo grazie all’intervento di una qualche autorità.

È stato appunto questo l’atteggiamento assunto daHobbes. E se alcuni dei suoi successori del XVIII secolosi sono sforzati di provare che in nessuna epoca dellasua esistenza, neppure nella più primitiva, l’uomo havissuto in uno stato di guerra permanente, ma che èstato sociale anche allo «stato di natura», e che è statal’ignoranza, piuttosto che le sue cattive tendenze natu-rali, a spingere il genere umano agli orrori delle primeepoche storiche, la scuola di Hobbes ha continuato adaffermare, al contrario, che il preteso «stato di natura»altro non era se non una guerra permanente tra indivi-dui accidentalmente riuniti dal semplice capriccio dellaloro bestiale esistenza.

È senza dubbio vero che la scienza, dopo Hobbes, hafatto progressi e che per ragionare su questo soggettoabbiamo ora basi più sicure di quelle a disposizione di

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Hobbes e di Rousseau per le loro speculazioni. Cionono-stante, la filosofia di Hobbes ha ancora numerosi ammi-ratori, tanto che ultimamente tutta una scuola di pen-satori, applicando la terminologia di Darwin più che lesue idee fondamentali, ne ha tratto degli argomentifavorevoli alle opinioni di Hobbes sull’uomo primitivo,riuscendo persino a dar loro parvenza scientifica. Hux-ley, come si sa, si è messo a capo di questa scuola e, inun articolo scritto nel 1888, ha presentato gli uominiprimitivi come delle tigri o dei leoni, privi di qualsiasiconcezione etica, capaci di spingere la lotta per l’esi-stenza fino ai più crudeli eccessi, impegnati in una vitadi «sfrenato combattimento continuo». Per citare le sueparole, «al di fuori dei ristretti e temporanei legamifamiliari, la guerra hobbesiana di tutti contro tutti eralo stato normale dell’esistenza».

Si è fatto notare più d’una volta che l’errore principa-le di Hobbes, come dei filosofi del XVIII secolo, è stato disupporre che il genere umano sia cominciato sotto for-ma di piccole famiglie isolate, un po’ simili alle famiglie«limitate e temporanee» dei grandi carnivori, mentreora si sa in modo certo che non è avvenuto così. Benin-teso, non abbiamo testimonianze dirette sul modo divivere dei primi esseri umani. Non siamo nemmeno cer-ti dell’epoca della loro prima comparsa, anche se attual-mente i geologi sono inclini a individuarne le primetracce nel pliocene o addirittura nel miocene, sedimentidell’era terziaria. Ma abbiamo il metodo indiretto che cipermette di gettare qualche luce su questa remota anti-chità.

Un’indagine minuziosa delle istituzioni sociali deipopoli primitivi è stata fatta durante gli ultimi qua-rant’anni, ed essa ha individuato nelle istituzioni attua-li tracce di istituzioni molto più antiche, scomparse dalungo tempo, che tuttavia hanno lasciato indiscutibilisegni della loro esistenza anteriore. Tutta una scienzaconsacrata alle origini delle istituzioni umane s’è cosìsviluppata grazie ai lavori di Bachofen, MacLennan,Morgan, Edwin Tylor, Maine, Post, Kovalevsky, Lub-

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bock e parecchi altri, stabilendo con certezza che l’uma-nità non ha incominciato sotto forma di piccole famiglieisolate.

Lungi dall’essere una forma primitiva di organizza-zione, la famiglia è un prodotto molto tardivo dell’evolu-zione umana. Per quanto indietro ci si possa spingerecon la paleoetnologia, troviamo uomini che vivono insocietà, in gruppi simili a quelli dei mammiferi superio-ri; ed è poi stata necessaria un’evoluzione estremamen-te lenta e lunga per condurre questo tipo di societàall’organizzazione clanica, che è passata a sua voltaattraverso un’altra lunghissima evoluzione prima che igermi della famiglia, poligama o monogama, potesseroapparire. Dunque, sono stati i gruppi, le bande, le tribù– e non le famiglie – le forme primitive di organizzazio-ne umana presso gli antenati più remoti. Cosa cui èarrivata l’etnologia dopo laboriose ricerche, arrivando adimostrare semplicemente quello che uno zoologoavrebbe potuto prevedere. Nessuno dei mammiferi su-periori – eccetto qualche carnivoro e qualche primate,come gli orangutan e i gorilla, la cui decadenza è indu-bitabile – vive in piccole famiglie isolate erranti nellaforesta. Tutti vivono in società. E lo stesso Darwin,peraltro, avendo ben capito che i primati solitari nonavrebbero mai potuto trasformarsi in esseri umani, neha indotto che l’uomo discende da una specie relativa-mente debole, ma sociale, quale è quella degli scim-panzé piuttosto che da una specie più forte, ma nonsociale, quale è quella dei gorilla. La zoologia e lapaleoetnologia sono così d’accordo nel ritenere che ilbranco, e non la famiglia, è stata la prima forma di vitasociale. Le prime società umane non sono state altroche uno sviluppo ulteriore di quelle forme associativeche avevano costituito l’essenza stessa della vita pressogli animali superiori. [...]

Non si può studiare l’uomo primitivo senza essereprofondamente colpiti dalla socialità della quale dà pro-

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va fin dai primi passi della vita. Tracce di società uma-ne sono state trovate nei reperti dell’età paleolitica eneolitica, e quando studiamo i selvaggi contemporanei,il cui genere di vita è ancora quello dell’uomo neolitico,li troviamo strettamente uniti dall’antichissima orga-nizzazione clanica, che permette loro di mettere insie-me le capacità individuali, altrimenti deboli, di goderedella vita in comune e così di progredire. In natura,l’uomo non è un’eccezione, ma si conforma anche lui algrande principio del mutuo appoggio, che dà le miglioriprobabilità di sopravvivenza a quelli che sanno meglioaiutarsi nella lotta per l’esistenza. Tali sono le conclu-sioni alle quali siamo giunti nel precedente capitolo.

Tuttavia, quando arriviamo a un grado più alto diciviltà e ci rivolgiamo alla storia, che ha già qualchecosa da dire su questo periodo, siamo colpiti dalle lottee dai conflitti che rivela. Gli antichi legami sembranoessere interamente spezzati: si vedono clan combatterealtri clan, tribù contro tribù, individui contro individui.Dal caos e dallo scontro di queste forze ostili, il genereumano esce diviso in caste, asservito a despoti, separa-to in Stati sempre pronti a farsi guerra. Basandosi suquesta storia del genere umano, il filosofo pessimistaconclude trionfalmente che la guerra e l’oppressionesono l’essenza stessa della natura umana, che gli istintidi guerra e di rapina dell’uomo possono esser contenutientro certi limiti solo da una forte autorità che locostringa alla pace, concedendo a un pugno degli uomi-ni più nobili l’opportunità di progettare per il genereumano una vita migliore per il futuro.

Tuttavia, da quando la vita quotidiana degli esseriumani in periodo storico è stata sottoposta ad una piùaccurata analisi, com’è avvenuto recentemente innumerosi e pazienti studi sulle istituzioni dei tempiremoti, questa vita appare sotto un aspetto del tuttodifferente. Se lasciamo da parte le idee preconcette del-la maggior parte degli storici e la loro marcata predile-zione per gli aspetti drammatici della storia, ci rendia-mo conto che sono propri i documenti che studiamo ad

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esagerare la parte di vita umana votata alle lotte tra-scurandone i lati pacifici. I giorni sereni e soleggiatisono perduti di vista nelle tormente e negli uragani.Anche nella nostra epoca i voluminosi documenti cheaccumuliamo per i futuri storici con la nostra stampa, inostri tribunali, i nostri uffici ministeriali, ma anchecon i nostri romanzi e le nostre opere poetiche, sonogravati della stessa parzialità. Essi trasmettono allaposterità le più minuziose descrizioni di ogni guerra,battaglia o scaramuccia, di ogni contestazione, di ogniatto di violenza, di ogni sorta di sofferenza individuale,mentre riportano a malapena qualche traccia degliinnumerevoli atti di solidarietà e affetto che ognuno dinoi conosce per esperienza personale. Riportano amalapena ciò che forma l’essenza stessa della nostravita quotidiana: i nostri istinti e i nostri costumi sociali.Non c’è da stupirsi se le testimonianze del passato sonostate così inesatte. Coloro che hanno compilato gliannali, infatti, non hanno mai mancato di raccontare lepiù piccole guerre o calamità sofferte dai loro contempo-ranei senza prestare alcuna attenzione alla vita dellemasse; che pure hanno vissuto lavorando pacificamen-te, mentre solo un piccolo numero di uomini guerreggia-vano fra di loro. I poemi epici, le iscrizioni monumenta-li, i trattati di pace… quasi tutti i documenti storicihanno il medesimo carattere: trattano della violazionedella pace, non della pace stessa. Cosicché lo storico,per quanto ben intenzionato, fa inconsciamente un qua-dro inesatto dell’epoca che si sforza di illustrare. Pertrovare la proporzione reale tra i conflitti e la consocia-zione, occorre ricorrere all’analisi minuziosa di migliaiadi piccoli fatti e di indicazioni accessorie, conservateaccidentalmente tra le reliquie del passato; occorre poiinterpretarle con l’aiuto dell’etnologia comparata e,dopo aver tanto udito parlare di tutto quello che hadiviso gli uomini, bisogna ricostruire pietra su pietra leistituzioni che li tenevano uniti.

Ben presto occorrerà riscrivere la storia con unanuova prospettiva, al fine di tener conto di questi due

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aspetti della vita umana e di apprezzare la parte rap-presentata da ciascuno dei due nell’evoluzione. Nell’at-tesa, possiamo trarre profitto dall’immenso lavoro pre-paratorio fatto recentemente con l’intento di ritrovarele linee principali di quel secondo aspetto fino ad oracosì trascurato. Dai tempi storici meglio conosciuti pos-siamo già trarre qualche esempio della vita delle mas-se, con l’intento di rilevarvi la parte rappresentata dalmutuo appoggio; e per non estendere troppo il lavoro,possiamo dispensarci dal risalire fino agli Egizi o anchefino all’antichità greca e romana. L’evoluzione del gene-re umano non ha infatti avuto il carattere di una suc-cessione ininterrotta: parecchie volte si è esaurita inuna data regione, presso un certo popolo, ed è rinataaltrove, tra altri popoli. Però, ad ogni nuovo inizio rico-mincia con le stesse istituzioni claniche che abbiamogià rilevato presso i selvaggi. Se dunque consideriamol’ultima rinascita, quella degli inizi della nostra attualeciviltà, tra quelli che i Romani chiamavano i «Barbari»,avremo tutta la scala dell’evoluzione, cominciando dallegentes e terminando con le istituzioni dei nostri tempi.Cosa alla quale sono appunto dedicate le pagine cheseguono. […]

Nessun periodo della storia può meglio mostrare ilpotere creatore delle masse popolari quanto il X e l’XIsecolo, allorché i villaggi fortificati e le loro piazze delmercato, «oasi nella foresta feudale», hanno cominciatoa liberarsi dal giogo dei signorotti, preparando lenta-mente la futura organizzazione delle città. Sfortunata-mente, è un periodo sul quale le informazioni storichesono particolarmente rare: conosciamo i risultati, masappiamo poco circa i mezzi con i quali sono stati otte-nuti.

Al riparo delle loro mura, le assemblee popolari dellecittà – sia completamente indipendenti, sia rette dalleprincipali famiglie nobiliari o mercantili – conquistava-no e conservavano il diritto di eleggere il defensor, il

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difensore militare della città, e il supremo magistrato, oquantomeno di scegliere tra quelli che aspiravano atale carica. In Italia i giovani Comuni licenziavano con-tinuamente i loro defensores o domini, combattendoquelli che rifiutavano di andarsene. La stessa cosaaccadeva a Est: in Boemia, i ricchi e i poveri insieme(Bohemicae gentis magni et parvi, nobiles et ignobiles)prendevano parte all’elezione; nelle citta russe leassemblee popolari, le vyeches, eleggevano regolarmen-te i loro duchi – tutti regolarmente della famiglia Rurik– e stipulavano insieme le loro convenzioni, esautoran-doli però se ne erano scontenti. Alla stessa epoca, nellamaggior parte delle città dell’Europa occidentale emeridionale la tendenza era di prendere per defensorun vescovo eletto dalla città stessa; e molti vescovi sisono messi alla testa della resistenza per proteggere le«immunità» cittadine e difendere le loro libertà, tantoche, dopo la morte, molti sono stati santificati divenen-do i patroni delle loro città, come san Uthelred di Win-chester, san Ulrik di Asburgo, san Wolfgang di Ratisbo-na, san Heribert di Colonia, san Adalbert di Praga ecosì via. Anche molti abati e monaci sono diventati san-ti patroni delle città per aver sostenuto i diritti delpopolo. Con questi nuovi defensores – laici o ecclesiasti-ci – i cittadini hanno conquistato la piena autorità giu-ridica e amministrativa per le loro assemblee popolari.[...]

Tuttavia, oltre all’idea di comunità rurale, occorrevaun altro elemento capace di dare a questi centri in cer-ca di libertà l’unità di pensiero, azione e iniziativa cheha fatto la loro forza nel XII e XIII secolo. La diversitàcrescente di arti e mestieri, nonché l’estensione delcommercio a Paesi lontani, hanno fatto desiderare unanuova forma di aggregazione, il cui elemento necessariosono state le corporazioni. Si sono scritte molte opere suqueste associazioni che sotto il nome di corporazioni,gilde, fratellanze – o druzhestya, minne, artels in Rus-

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sia, esnaifs in Serbia e in Turchia, amkari in Georgia,ecc. – si sono sviluppate in modo considerevole nelMedio evo tanto da rappresentare una parte sostanzia-le nell’emancipazione delle città. Ma ci sono voluti piùdi sessant’anni perché gli storici riconoscessero l’uni-versalità di questa istituzione e il suo vero carattere.Solo oggi, dopo che centinaia di statuti corporativi sonostati pubblicati e studiati e dopo che i loro rapporti ori-ginari con i collegiae romani e le antiche unioni dellaGrecia e dell’India sono stati riconosciuti, possiamoparlarne con piena cognizione di causa e possiamoaffermare con certezza che queste fratellanze rappre-sentano uno sviluppo degli stessi princìpi che abbiamovisto in azione tra le gentes e nelle comunità rurali. [...]

Così, quando un certo numero di artigiani – murato-ri, carpentieri, tagliatori di pietre, ecc. – si riunivanoper costruire ad esempio una cattedrale, essi apparte-nevano tutti a una città con il suo ordinamento politico,e inoltre ciascuno apparteneva alla propria arte, matutti si consociavano altresì per l’impresa comune, checonoscevano meglio di chiunque, e s’organizzavano inun corpo, stringendo forti legami, quantunque tempora-nei, e fondando una gilda per l’erezione della cattedra-le. Anche oggi possiamo riscontrare questi stessi fattinel çof dei Cabili: essi hanno la loro comunità rurale,ma questa associazione non basta per tutti i bisognipolitici, commerciali e personali dell’unione ed essicostituiscono quindi una fratellanza più stretta nel çof.

Quanto ai caratteri sociali delle gilde medievali,qualsiasi statuto può darne un’idea. Prendiamo adesempio lo skraa di qualche primitiva gilda danese: vileggiamo dapprima un’esposizione dei sentimenti difraternità generale che devono regnare nella gilda, poivengono le regole relative all’auto-giurisdizione in casodi litigio tra due fratelli, o tra un fratello e un esterno;infine vengono enumerati i doveri sociali dei fratelli. Sela casa di un fratello è distrutta dal fuoco, o se egli haperduto il suo bastimento, o ancora se ha soffertodurante un pellegrinaggio, tutti i fratelli devono venire

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in suo aiuto. Se un fratello cade gravemente ammalato,altri due fratelli devono vegliare presso il suo letto finoa che non sia fuori pericolo; se muore, devono sotterrar-lo – faccenda non da poco in tempi di pestilenze –accompagnandolo in chiesa e alla tomba. Dopo la suamorte devono soccorrere i suoi figli se sono nel bisogno,mentre molto spesso la vedova diventa una «sorella»della gilda.

Questi due caratteri fondamentali s’incontrano intutte le fratellanze formate non importa a quale scopo.Sempre i membri devono trattarsi in modo fraterno,tanto da chiamarsi appunto fratelli e sorelle, e sono tut-ti uguali di fronte alla gilda. Essi possiedono in comuneil cheptel (bestiame, terre, bastimenti, fondi agricoli).Tutti i fratelli sono tenuti a giurare di dimenticare gliantichi dissensi e, senza imporsi reciprocamente di nonlitigare nuovamente, devono convenire che nessuna litedeve degenerare in vendetta o condurre a un processodavanti ad altra corte che non sia il tribunale della fra-tellanza. Se uno è implicato in una contesa con qualcu-no estraneo alla gilda, questa lo deve sostenere, sia cheabbia torto sia che abbia ragione; ovvero, tanto nel casoche venga ingiustamente accusato di aggressione quan-to nel caso che sia realmente l’aggressore, i fratelli lodevono sostenere e condurre le cose a una conclusionepacifica. A meno che non si tratti di un’aggressioneocculta – nel qual caso verrebbe proscritto – la fratel-lanza lo difende. Se i parenti dell’uomo leso voglionovendicarsi prontamente dell’offesa con una nuovaaggressione, la fratellanza gli procura un cavallo perfuggire, o una barca e un paio di remi, un coltello e unacciarino; se rimane in città, dodici fratelli lo accompa-gnano per proteggerlo, e nello stesso tempo si occupanodi comporre il conflitto. Inoltre, i fratelli si presentanodavanti alla corte di giustizia per sostenere sotto giura-mento la veridicità delle dichiarazioni del loro fratello,e se viene riconosciuto colpevole, non lo abbandonano acompleta rovina, né lo fanno diventare schiavo: se eglinon può pagare il compenso dovuto, lo pagano loro,

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come facevano le gentes nelle epoche precedenti. Ma sequalcuno viene meno alla sua lealtà verso i fratelli del-la gilda, o verso altri, viene escluso dalla fratellanza«con la fama di uomo da nulla» (tha scal han maeles afbrödrescap met nidings nafn).

Tali sono le idee dominanti in queste fratellanze, e apoco a poco si estenderanno a tutti gli aspetti della vitamedievale. Infatti, si conoscono gilde in tutte le profes-sioni immaginabili: gilde di servi, gilde di uomini liberie gilde miste di servi e uomini liberi; gilde formate peruno scopo specifico, quale la caccia, la pesca o un’impre-sa commerciale, e disciolte quando questo scopo specifi-co viene raggiunto; gilde che invece per certe professio-ni o certi mestieri durano secoli. Via via che le attivitàsi diversificano, il numero delle gilde cresce. Così, nonci sono soltanto mercanti, artigiani, cacciatori o conta-dini uniti da questi legami, ma ci sono pure gilde dipreti, di pittori, di maestri di scuola primaria e didocenti universitari, gilde per rappresentare la «passio-ne», per costruire una chiesa, per occuparsi dei «miste-ri» di una data scuola o di particolari arti e mestieri, epersino gilde di mendicanti, di boia e di «donne perdu-te», tutte organizzate sotto il doppio principio dell’auto-giurisdizione e del mutuo appoggio. Per la Russiaabbiamo la prova manifesta che il suo consolidamento èstato tanto opera dei suoi artels, o associazioni di cac-ciatori, di pescatori e di mercanti, quanto del germo-gliare delle comunità rurali; e ancor oggi il Paese è pie-no di artels. [...]

Un’istituzione così adatta a soddisfare i bisogni con-sociativi, senza privare l’individuo della sua iniziativa,non poteva che estendersi e rafforzarsi. Una difficoltà siera presentata quando si era cercata una forma chepermettesse di federare le unioni delle gilde senza inva-dere il campo di quelle delle comunità rurali e di fede-rare le une e le altre in un tutto armonico. Quando que-sta combinazione venne trovata, e un insieme di circo-

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stanze favorevoli permise alle città di affermare la pro-pria indipendenza, esse lo fecero con un’unità di pensie-ro che non può che suscitare la nostra ammirazione,persino nel secolo delle strade ferrate, dei telegrafi edella stampa. Ci sono pervenute centinaia di «carte»con le quali le città proclamavano la loro indipendenzae in tutte – nonostante l’infinita varietà di particolaricorrelati ad un’emancipazione più o meno completa – siritrova la stessa idea dominante: un’organizzazione cit-tadina basata sulla federazione di piccole comunitàrurali e di gilde. [...]

Questa ondata emancipativa si diffuse nel XII secoloper tutto il continente, toccando sia le città più ricchesia i villaggi più poveri. E se possiamo dire che, in gene-rale, le città italiane furono le prime a liberarsi, nonpossiamo identificare alcun centro dal quale il movi-mento si sarebbe propagato. Molto spesso un piccoloborgo dell’Europa centrale prendeva l’iniziativa per lasua regione e i grandi agglomerati accettavano la cartadella piccola città come modello per la loro. […]

L’auto-giurisdizione era il punto essenziale, e auto-giurisdizione significava auto-amministrazione. Ma ilComune non era semplicemente una parte «autonoma»dello Stato (queste parole ambigue non erano ancorastate inventate): era esso stesso uno Stato. Aveva dirittidi guerra e di pace, di federazione e di alleanza con ivicini; era sovrano nei propri affari e non interferivacon quelli degli altri. Il potere politico supremo potevaessere rimesso interamente a un foro democratico,come era il caso a Pskov, la cui assemblea popolare(vyeche) inviava e riceveva ambasciatori, stipulava trat-tati, accettava e rifiutava principi, o ne faceva a menoper decenni. Oppure il potere veniva esercitato, o usur-pato, da un’aristocrazia a volte nobiliare a volte mer-cantile, come avveniva in centinaia di città dell’Italia edel centro Europa. Il principio, tuttavia, rimanevaimmutato: la città era uno Stato e, cosa ancor più note-vole, quando il potere della città veniva usurpato daun’aristocrazia nobiliare o mercantile, la vita interna

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della città ne risentiva marginalmente e il caratteredemocratico della vita quotidiana non scompariva: per-ché l’uno e l’altro dipendevano molto poco da ciò che sipotrebbe chiamare la forma politica dello Stato.

Il segreto di questa apparente anomalia è che unacittà medievale non era uno Stato accentrato. Durante iprimi secoli della sua esistenza, la città poteva a mala-pena essere chiamata uno Stato per quanto riguardavala sua organizzazione interna, perché il Medio evo nonconosceva l’attuale accentramento delle funzioni nétanto meno l’accentramento territoriale del nostro tem-po. Ogni gruppo aveva la sua parte di sovranità. [...]

La città medievale ci appare così come una doppiafederazione: innanzi tutto quella di tutte le unità dome-stiche all’interno di territori delimitati – la strada, laparrocchia, il quartiere – e poi quella degli individuiuniti da giuramento in gilde secondo le loro professioni.Mentre la prima era un prodotto della comunità rurale,origine della città, la seconda era una creazione poste-riore la cui esistenza derivava dalle mutate condizioni.

Garantire la libertà, l’auto-amministrazione e la paceera lo scopo principale della città medievale, e il lavoro,come vedremo tra poco parlando delle gilde di mestiere,ne era la base. Ma la «produzione» non assorbiva tuttal’attenzione degli economisti del Medio evo. Con il lorospirito pratico, essi compresero che il «consumo» dovevaessere garantito al fine di ottenere la produzione; diconseguenza, il principio fondamentale di ogni città eradi provvedere alla sussistenza comune e all’alloggiotanto dei poveri quanto dei ricchi (gemeine notdurft undgemach armer und richer). L’acquisto di viveri e di altribeni di prima necessità (carbone, legna, ecc.) prima chefossero passati per il mercato o in condizioni particolar-mente favorevoli dalle quali altri fossero esclusi – inuna parola la preemptio – era assolutamente vietata.Tutto doveva passare dal mercato ed essere offerto inacquisto a tutti fino a quando la campana non avessechiuso il mercato. Solo a quel punto il venditore alminuto poteva comprare ciò che restava, e anche allora

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il suo profitto doveva rimanere nei limiti di un «onestoguadagno». Di più, quando il frumento veniva compratoall’ingrosso da un fornaio dopo la chiusura del mercato,ogni cittadino aveva comunque il diritto di reclamare,al prezzo all’ingrosso, una parte di tale frumento (circadue kg.) per proprio uso, a condizione che lo reclamasseprima della chiusura delle contrattazioni; a sua volta,ogni panettiere poteva reclamare lo stesso diritto nelcaso fosse un cittadino a comprare il frumento perrivenderlo. Nel primo caso il frumento non aveva cheda essere portato al mulino della città per essere maci-nato a un prezzo convenuto, e il pane poteva poi esserecotto nel forno comunale. Insomma, se una carestia col-piva la città tutti, più o meno, ne soffrivano, ma a partequeste calamità, finché sono esistite le città libere, nes-suno vi è morto di fame, come disgraziatamente oggiavviene anche troppo spesso. [...]

Insomma, più conosciamo la città del Medio evo, piùvediamo che non era una semplice organizzazione poli-tica per la difesa di determinate libertà. Era un tentati-vo, su ben più vasta scala rispetto alla comunità rurale,di organizzare una stretta unione di assistenza eappoggio mutuo per il consumo, per la produzione e perla vita sociale nel suo insieme, senza frapporre gliimpedimenti dello Stato, ma lasciando piena libertà diespressione al genio creatore di ciascun gruppo nellearti, nei mestieri, nelle scienze, in commercio e in poli-tica. Vedremo meglio fino a che punto questo tentativoha avuto successo quando analizzeremo, nel capitoloseguente, l’organizzazione del lavoro nella città medie-vale e le relazioni delle città con la popolazione dellecampagna circostanti. […]

I risultati di questo nuovo progresso dell’umanitànella città medievale furono immensi. All’inizio delsecolo XI le città europee erano piccoli raggruppamentidi capanne miserabili, ornati solamente di chiese bassee tozze delle quali il costruttore sapeva appena fare la

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volta. Le arti – vi erano solo tessitori e fabbriferrai –erano ad uno stadio primitivo; il sapere non si trovavache in qualche raro monastero. Trecentocinquant’annipiù tardi il panorama europeo era mutato. Il territorioera disseminato di città benestanti circondate da spessemura, munite di torri e porte, ciascuna delle quali eraun’opera d’arte. Le cattedrali, d’uno stile grandioso ericcamente decorate, innalzavano verso il cielo i lorocampanili di una purezza di forme e di un ardire diimmaginazione che oggi ci sforzeremmo inutilmente diraggiungere. Le arti e i mestieri avevano raggiunto inmolte attività un grado di perfezione che oggi non pos-siamo vantarci di aver superato se diamo maggior valo-re all’abilità inventiva dell’operaio e alla perfezione delsuo lavoro che non alla rapidità di esecuzione. Le navidelle città libere solcavano i mari europei in tutte ledirezioni, e sarebbe bastato solo uno sforzo ulteriore pervarcare gli oceani. Su vasti spazi di territorio il benes-sere aveva sostituito la miseria, e il sapere si era svi-luppato e diffuso. Si andavano elaborando i metodiscientifici e ponendo le basi della fisica, si stava prepa-rando il cammino per tutte le invenzioni meccanichedelle quali il nostro secolo è così orgoglioso. Tali furonoi magici cambiamenti compiuti in Europa in meno diquattrocento anni. E se ci si vuol rendere conto delleperdite subite dall’Europa dopo la distruzione dellecittà libere, occorre raffrontare il secolo XVII con il XIV oil XIII: la prosperità che caratterizzava in altri tempi laScozia, la Germania, le pianure d’Italia, è scomparsa, lestrade sono cadute nell’abbandono, le città sono spopo-late, il lavoro è asservito, l’arte è in decadenza, e lostesso commercio è in declino.

Se anche le città medievali non ci avessero lasciatoalcun documento scritto a testimonianza del loro splen-dore, ma solo i monumenti architettonici che vediamoancor oggi in tutta Europa, dalla Scozia all’Italia e daGirona in Spagna a Breslavia in territorio slavo, po-tremmo comunque affermare che il periodo in cui lecittà ebbero una vita indipendente fu quello del più alto

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sviluppo dello spirito umano dall’era cristiana fino alXVIII secolo. Se guardiamo, ad esempio, un quadro delMedio evo raffigurante Norimberga con le sue torri e isuoi campanili slanciati, ciascuno dei quali portal’impronta di un’arte liberamente creatrice, abbiamoqualche difficoltà a pensare che trecento anni prima lacittà non era che un ammasso di misere capanne. E lanostra ammirazione non fa che crescere quando entria-mo nei particolari dell’architettura e dei fregi di ciascu-na delle innumerevoli chiese, dei campanili, dei palazzimunicipali, delle porte di città ecc., presenti in Europae che arrivano ad est fino alla Boemia e alle città, oggimorte, della Galizia polacca. Non è unicamente l’Italia,questa patria delle arti, ma tutta l’Europa ad esserericoperta da tali monumenti. Il fatto stesso che tra tut-te le arti sia proprio l’architettura – arte sociale pereccellenza – a toccare il suo più alto sviluppo è signifi-cativo. Per arrivare al grado di perfezione che ha rag-giunto, quest’arte non poteva che essere il prodottod’una vita eminentemente sociale.

L’architettura medievale ha raggiunto la sua gran-dezza non soltanto perché fu il fiorire spontaneo di unmestiere, come è stato detto recentemente; non soltantoperché ogni costruzione, ogni decorazione architettonicaera l’opera di uomini che conoscevano con l’esperienzadelle proprie mani gli effetti artistici che si possonoottenere dalla pietra, dal ferro, dal bronzo, o anchesemplicemente da travi e calcina; non soltanto perchéogni monumento era il risultato dell’esperienza colletti-va accumulata in ciascun «mistero» o mestiere: l’archi-tettura medievale fu grande perché derivò da una gran-de idea. Come l’arte greca, essa scaturì da una concezio-ne di fratellanza e di unità generata dalla città. Avevaun’audacia che non si può acquistare se non con lotteaudaci e con vittorie; esprimeva vigore perché il vigoreimpregnava tutta la vita della città. Una cattedrale, unpalazzo comunale, simboleggiavano la grandezza di uninsieme del quale ciascun muratore e ciascun tagliatoredi pietra era un costruttore. Un monumento del Medio

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evo non era uno sforzo temporaneo, dove migliaia dischiavi eseguivano la parte loro assegnata dall’immagi-nazione di un solo uomo: tutta la città vi contribuiva.L’alto campanile svettava su una costruzione che avevain sé della grandezza, in cui si sentiva palpitare la vitadella città; non era una costruzione assurda come latorre in ferro alta 300 metri di Parigi o come quella fab-brica in pietra fatta per nascondere la bruttezza d’unaarmatura di ferro, come la Tower Bridge a Londra.Come l’Acropoli di Atene, la cattedrale di una città delMedio evo era innalzata con l’intenzione di glorificarela grandezza della città vittoriosa, di simboleggiarel’unione delle sue arti e dei suoi mestieri, di esprimerela fierezza di ogni cittadino per una città che era la suapropria creazione. Spesso, compiuta la seconda rivolu-zione dei nuovi mestieri, si videro le città innalzarenuove cattedrali proprio per esprimere la nuova unità,più profonda ed estesa, che veniva allora alla luce. [...]

Tutte le arti erano progredite in modo analogo nellecittà medievali. Le arti del nostro tempo non sono, perla maggior parte, che una continuazione di quelle svi-luppatesi in quest’epoca. La prosperità delle città fiam-minghe era basata sulla fabbricazione di bei tessuti dilana. Firenze all’inizio del XIV secolo, prima della pestenera, fabbricava dai 70.000 ai 100.000 panni di stoffa dilana, valutati intorno a 1.200.000 fiorini d’oro. La cesel-latura dei metalli preziosi, l’arte del fondere, i bei ferrilavorati furono creazioni dei «misteri» medievali, cheriuscirono a eseguire, ciascuno nel proprio campo, tuttociò che era possibile fare a mano, senza l’aiuto di unpotente motore. [...]

È vero, come dice Whewell, che nessuna di questescoperte era stata il risultato di qualche nuovo princi-pio. E tuttavia la scienza del Medio evo aveva fattoqualcosa di più che la scoperta propriamente detta dinuovi princìpi: aveva preparato la scoperta di tutti inuovi princìpi che conosciamo attualmente nelle scien-ze meccaniche. Aveva cioè abituato il ricercatore adosservare i fatti e a ragionarci sopra. Era la scienza

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induttiva, quantunque non avesse ancora pienamentecapito l’importanza e il potere del metodo induttivo;comunque sia, essa poneva già le basi della meccanica edella fisica. Francesco Bacone, Galileo e Copernico sonostati i discendenti diretti di un Ruggero Bacone e di unMichele Scoto, proprio come la macchina a vapore è sta-to un prodotto diretto delle continue ricerche nelle uni-versità italiane dell’epoca sul peso dell’atmosfera edegli studi tecnici e matematici fatti a Norimberga.

Ma è necessario insistere sui progressi delle scienze edelle arti nella città medievale? Non basta citare le cat-tedrali nel campo dell’abilità tecnica o la lingua italianae i poemi danteschi nel campo del pensiero per dareimmediatamente la misura di ciò che la città medievaleha creato durante i suoi quattro secoli di vita?

Le città del Medio evo hanno reso un immenso servi-zio alla civiltà europea: le hanno impedito di avviarsiverso le teocrazie e gli Stati dispotici dell’antichità; lehanno dato la diversità, la fiducia in se stessa, lo spiritod’iniziativa e le immense energie intellettuali e mate-riali che possiede ancor oggi e che sono la migliorgaranzia della sua capacità di resistere ad una nuovainvasione che venga da Oriente. Ma perché dunquequesti centri di civiltà, che avevano tentato di risponde-re a bisogni così profondi della natura umana e che era-no così pieni di vita, non sopravvissero più a lungo?Forse perché furono colpiti da debolezza senile nel XVIsecolo e, dopo aver respinto tanti assalti esterni e averreagito inizialmente con vigore alle lotte interne, allafine soccombettero sotto questo duplice attacco?

Varie cause hanno contribuito a questo risultato;alcune avevano le loro radici in un lontano passato,altre rimandavano a colpe commesse dalle città stesse.

Verso la fine del XV secolo, vennero costituiti alcunipotenti Stati che si rifacevano al vecchio modello roma-no. In ogni regione, qualche signore feudale, più abile,più avido di ricchezze e spesso meno scrupoloso dei suoivicini, era riuscito ad assicurarsi più ricchi possedimen-ti personali, un più alto numero di contadini per le sue

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terre e di cavalieri per il suo seguito, un più consistentetesoro nei suoi scrigni. Aveva scelto come sua residenzaun gruppo di villaggi ben situati, dove non si era ancorasviluppata la libera vita municipale – Parigi, Madrid oMosca – e con il lavoro dei suoi servi ne aveva fatto del-le città regie fortificate. Là attirava compagni d’arme,cui concedeva villaggi con liberalità, e mercanti, cuioffriva la sua protezione per il commercio. Si andavacosì formando il germe d’un futuro Stato, che gradata-mente avrebbe cominciato ad assorbire altri centrisimili. In questi centri vi era inoltre una abbondanza digiureconsulti, razza di uomini tenaci e ambiziosi uscitidalla borghesia e versati nello studio del diritto roma-no, che detestavano in pari grado l’alterigia dei signorie ciò che chiamavano lo «spirito ribelle» dei contadini.Trovavano ripugnante la forma stessa della comunitàrurale, che i loro codici ignoravano, e i princìpi federati-vi, che consideravano un’eredità dei «barbari»; vicever-sa, appoggiavano un cesarismo, sostenuto dalla menzo-gna del consenso popolare e dalla forza delle armi, elavoravano alacremente per quelli che promettevano diattuarlo.

La Chiesa cristiana, una volta avversaria della leggeromana e ora sua alleata, lavorò nello stesso senso.Essendo fallito il tentativo di costituire in Europal’Impero teocratico, i vescovi più intelligenti e più ambi-ziosi diedero il loro appoggio a quelli sui quali contava-no per ricostruire il potere dei re d’Israele o degli impe-ratori di Costantinopoli. La Chiesa consacrò questi pri-mi dominatori, li incoronò come rappresentanti di Diosulla Terra, e mise al loro servizio la scienza e lo spiritopolitico dei suoi ministri, le sue benedizioni e le suemaledizioni, le sue ricchezze e l’influenza che avevaconservato tra i poveri. I contadini che le città non ave-vano potuto o voluto liberare, vedendo come queste nonriuscissero a metter fine alle interminabili guerre tranobili, guerre per le quali pagavano un alto prezzo, vol-gevano allora le loro speranze verso re, imperatori eprincipi; così, mentre li aiutavano a schiacciare i poten-

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ti signori feudali, li aiutavano anche a costruire lo Statocentralizzato. Infine, le invasioni dei Mongoli e dei Tur-chi, le guerre sante contro i Mori di Spagna, le terribiliguerre che ben presto scoppiarono tra i centri dellanascente sovranità – tra Ile de France e Borgogna,Scozia e Inghilterra, Inghilterra e Francia, Lituania ePolonia, Mosca e Tver, ecc. – contribuirono tutte allostesso risultato: vennero costituiti potenti Stati e allecittà toccò ora resistere non solamente a vaghe alleanzedi signori, ma anche a centri di potere saldamente orga-nizzati che avevano armate di servi a loro disposizione.

Il peggio fu che queste autocrazie in ascesa trovaronoappoggi grazie anche alle divisioni che si erano formatein seno alle città stesse. L’idea fondamentale della cittàmedievale era grande, e tuttavia non era abbastanzavasta. L’aiuto e il sostegno reciproco non potevano esse-re limitati ad una piccola associazione, ma dovevanoestendersi al territorio circostante, senza tuttavia chequesto assorbisse l’associazione. Ma sotto questo aspet-to il cittadino del Medio evo aveva commesso fin daprincipio un grave errore. Invece di vedere nei contadi-ni e negli operai che si riunivano sotto la protezionedelle sue mura altrettanti ausiliari che avrebbero con-tribuito alla prosperità della città – come fu effettiva-mente il caso – tracciarono una profonda divisione trale famiglie della vecchia borghesia e i nuovi venuti. Aiprimi furono riservati tutti i benefici derivanti dal com-mercio e dalle terre comunali; niente fu invece lasciatoagli ultimi, eccetto il diritto di servirsi liberamentedell’abilità delle loro mani. La città fu così divisa: dauna parte i «borghesi» o «il Comune», e dall’altra «gliabitanti». Il commercio, che era dapprima comunale,diventò il privilegio di alcune famiglie di mercanti e diartigiani; non vi era ormai che un passo da fare perchédivenisse un privilegio individuale o di un gruppo dioppressori, e questo inevitabile passo fu fatto.

Tale divisione si andò consolidando tanto nella cittàpropriamente detta che nei villaggi circostanti. Il Co-mune aveva ben tentato, inizialmente, di emancipare i

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contadini, ma le sue guerre contro i signori divennero,come abbiamo già detto, guerre per liberare la città daisignori anziché per liberare i contadini. La città lasciòal signore i suoi diritti sui contadini, a condizione chenon la molestasse più e divenisse un concittadino. Ma inobili «adottati» dalla città, e ora residenti nelle suemura, non fecero che portare la loro tradizionale belli-cosità nella cinta stessa della città. Benché non tolle-rassero di sottomettersi a un tribunale di semplici arti-giani e di mercanti, continuarono nelle loro anticheostilità tra famiglie, nelle loro guerre private portatenelle vie cittadine. Ogni città aveva ora i suoi Colonna ei suoi Orsini, i suoi Overstolze e i suoi Wise. Grazie allecospicue rendite delle terre che avevano conservate, sicircondarono di numerosi clienti, feudalizzando i costu-mi e le abitudini della città stessa. E quando i dissensicominciarono a farsi sentire tra gli artigiani, offrironole loro spade e le loro compagnie d’armi per risolvere leliti invece di lasciare che i dissensi trovassero soluzionipiù pacifiche, come tradizionalmente accadeva nei tem-pi passati. […]

Il più grave e funesto errore fatto dalla maggior par-te delle città fu di prendere per base della loro ricchezzail commercio e l’industria a detrimento dell’agricoltura.Ripeterono in tal modo l’errore già commesso dalle cittàdella Grecia antica, e proprio per questo caddero neglistessi delitti. Estraniatesi dal mondo agricolo, un grannumero di città si trovarono necessariamente trascina-te in una politica avversa ai contadini. Questo divennesempre più evidente al tempo di Eduardo III e delle jac-queries in Francia, delle guerre ussite e delle guerrecontadine in Germania. D’altra parte, la politica com-merciale le impegnava in imprese lontane, tanto checolonie furono fondate dalle città italiane nel sud-est,dalle città tedesche nell’est, dalle città slave nell’estre-mo nord-est.

Si cominciarono a mantenere milizie mercenarie perle guerre coloniali e ben presto anche per la difesa dellacittà stessa. Fu necessario sottoscrivere prestiti in pro-

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porzioni talmente smisurate da demoralizzare comple-tamente i cittadini; e la conflittualità interna imperò aogni elezione nella quale la politica coloniale, di cuibeneficiavano solo alcune famiglie, era in gioco. La divi-sione tra ricchi e poveri diventò più profonda e, nelsecolo XVI, in ogni città l’autorità regia trovò alleati sol-leciti e l’appoggio dei poveri.

Ci fu ancora un’altra causa nella rovina delle istitu-zioni comunali, più profonda e insieme di ordine piùelevato delle precedenti. La storia delle città medievalirappresenta uno dei più grandiosi esempi del poteredelle idee e dei princìpi sui destini del genere umano, edell’estrema diversità nei possibili esiti che accompa-gnano ogni profonda trasformazione delle idee preva-lenti. La fiducia in se stessi e il federalismo, la sovra-nità di ogni gruppo e la costituzione del corpo politicodal semplice al complesso, erano le idee prevalenti nelsecolo XI. Ma nelle epoche successive le opinioni simodificarono profondamente. Gli studiosi di dirittoromano e i prelati della Chiesa, strettamente alleatidall’epoca di Innocenzo III, riuscirono a neutralizzarel’idea – l’antica idea greca – che aveva presieduto allafondazione delle città. Durante due-trecento anni predi-carono dall’alto del pulpito, insegnarono nelle univer-sità, pronunciarono dal banco del tribunale, che occor-reva cercare la salvezza in uno Stato fortemente centra-lizzato, posto sotto un’autorità semi-divina. Questa sisarebbe incarnata in un uomo dotato di pieni poteri, undittatore che, solo, avrebbe potuto salvare la società; innome della salute pubblica, questi avrebbe potuto com-mettere qualunque specie di violenza: bruciare uominie donne sul rogo, farli perire a seguito di indescrivibilitorture, sprofondare intere province nella più abbiettamiseria. E non esitarono a mettere in pratica questeteorie con inaudita crudeltà, ovunque potesse arrivarela spada del re, o il fuoco della Chiesa, o tutti e dueinsieme. Con questi insegnamenti e questi esempi,costantemente ripetuti fino a condizionare l’opinionepubblica, lo spirito stesso dei cittadini fu modellato in

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modo nuovo. Ben presto nessuna autorità fu trovataeccessiva, nessuna esecuzione a fuoco lento parve trop-po crudele se compiuta «per la sicurezza pubblica». Econ questa nuova attitudine di spirito, e questa nuovafede nella potenza di un uomo, il vecchio principio fede-ralista svanì e il genio creatore delle masse si estinse.L’idea romana trionfava e, in queste circostanze, lo Sta-to accentrato trovò nelle città una facile preda.

Nel XV secolo Firenze offre il miglior esempio di que-sto mutamento. Nelle epoche precedenti, una rivoluzio-ne popolare era il segnale d’un nuovo slancio. Ora,quando spinto dalla disperazione il popolo insorge, nonha più idee costruttive, nessuna nuova idea lo illumina.Un migliaio di rappresentanti entrano nel consigliocomunale invece di quattrocento; cento uomini entranonella signoria invece di ottanta. Ma una rivoluzione dicifre non vuol dir niente. Lo scontento del popolo crescee nuove rivolte scoppiano. Allora si fa appello a un sal-vatore, al «tiranno». Questi massacra i ribelli, e tutta-via il disgregamento del corpo comunale continua, peg-gio che mai. Quando, dopo una nuova rivolta, il popolodi Firenze si rivolge all’uomo più popolare della città,Gerolamo Savonarola, il monaco risponde: «Popolo mio,sai bene che non posso occuparmi degli affari di Stato...purifica la tua anima, e se in questa disposizione di spi-rito riformerai la tua città, allora, popolo di Firenze,avrai inaugurato la riforma di tutta l’Italia!». Vengonobruciate le maschere di carnevale e i cattivi libri, si fadecretare una legge di carità, un’altra contro l’usura…ma la democrazia di Firenze resta tal quale. Lo spiritodel tempo antico è ormai morto. Per aver avuto troppafiducia nel governo, i cittadini hanno cessato d’averfiducia in se stessi, sono incapaci di trovare nuove vie.Allo Stato non resta che farsi avanti e schiacciare leultime libertà.

E tuttavia la corrente del mutuo appoggio non si èdel tutto inaridita nelle moltitudini, ma ha continuato ascorrere anche dopo questa disfatta. Si è ingrossata dinuovo con una forza formidabile agli appelli comunisti

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dei primi propagatori della Riforma, e ha continuato ascorrere anche dopo che le masse, non essendo riuscitea realizzare quell’esistenza che speravano di inaugura-re sotto l’ispirazione della religione riformata, sononuovamente cadute sotto la dominazione di un potereautocratico. Il flusso scorre ancora oggi alla ricerca diuna nuova manifestazione, che non sarà più lo Stato,né la città del Medio evo, né la comunità rurale dei bar-bari, né il clan dei selvaggi, ma che parteciperà di tuttequeste forme, pur superandole grazie a una concezionepiù ampia e profondamente umana.

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VI

Per Kropotkin l’idea del bene e del male esistenell’umanità, nel senso che il sentimento morale non siconfigura come una semplice irruzione soggettivadell’anima, ma come la verità della sua datità biologico-naturale giunta al punto del suo auto-riconoscimentorazionale. Perciò diventa legittima la fondazione diun’etica basata sulle scienze naturali, o meglio sullaricerca «etologica» delle leggi del comportamento umanoderivato dallo studio naturalistico dei costumi; ciò che,in termini attuali, può essere definita la «scuola adatti-va» della cultura. La dimensione positivistica ed evolu-zionistica di tale concezione si rende evidente quando siafferma che è possibile colmare la profonda sfasaturaesistente tra lo sviluppo delle scienze naturali e quellodelle scienze morali, tra le prime che hanno fatto im-mensi progressi e le seconde che sono rimaste arretratead uno stadio di elaborazione metafisica, compenetran-do queste due dimensioni in un’unica Weltanschauung.

A questo proposito ecco che cosa ha recentementescritto uno scienziato notissimo a livello mondiale (e chenon ha nulla a che vedere con la scuola socio-biologica),Luca Cavalli Sforza: «Oggi la moralità non è più consi-derata una prerogativa della nostra specie. Gli studieffettuati da trent’anni a questa parte sulla vita sociale

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di numerose specie di animali – in particolare mammi-feri – e soprattutto su scimmie e primati indicano che ilsenso della giustizia [il tondo è mio], di simpatia e diempatia sono diffusi anche fra parecchi animali. Nonsolo: se vogliamo comprendere l’origine di questi feno-meni nella nostra stessa specie ci conviene guardare allontano passato, alla lunghissima evoluzione che inostri antenati hanno diviso con gli antenati delle scim-mie attuali».

In conclusione viene confermato quanto sostenuto daKropotkin: la socialità non è una scelta dei protagonisti,ma una necessità della specie, non discende dallavolontà dei singoli, ma dalla loro appartenenza alla col-lettività. E la società, a sua volta, è il risultato dell’evo-luzione spontanea della natura, perché deriva da unlento ma irreversibile sviluppo delle potenzialità liberta-rie ed egualitarie latenti negli esseri viventi, per cui sol-tanto la piena coscienza scientifica di questa tendenzanaturale trasforma la sua datità deterministica in unapossibilità progettuale di liberazione: gli individui siliberano solo attraverso il pieno riconoscimento dellaloro inscindibile appartenenza alla specie e dunque del-la loro ineliminabile dimensione collettiva.

Per Kropotkin il punto centrale è rappresentato dal-l’idea di giustizia quale pratica immanente alle relazio-ni sociali. Con il progredire della società, infatti, si falargo anche il concetto di uguaglianza. Così equità euguaglianza tendono a coincidere con il sentimentoinnato di socialità, e in questo senso la giustizia non èun valore soggettivo, o una mera formulazione ideale,ma un fatto intrinseco alle leggi della vita sociale, laquale non può svolgersi se non viene esplicata la reci-procità fra i suoi membri.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edi-zione italiana de L’etica del 1972, nella traduzione (rivi-sta) di Alfredo M. Bonanno e Vincenzo Di Maria.

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L’ETICA

Lo scopo principale dell’etica realistica moderna è[...] di dare una definizione del fine morale cui tendia-mo. Ma questo fine, o questi fini, quale che sia il carat-tere ideale che essi comportano e quale che sia la lonta-nanza della loro realizzazione, devono nonostante tuttoappartenere al mondo reale.

La morale non può avere per scopo qualche cosa di«trascendente», cioè di superiore a ciò che in realtà esi-ste, come vogliono certi idealisti; il suo scopo deve esse-re reale. È nella vita, e non in uno stato successivo aldecorso naturale della vita, che dobbiamo trovare lanostra soddisfazione morale.

Quando Darwin ha formulato la sua teoria della «lot-ta per l’esistenza» e ha presentato questa lotta come ilfattore principale dell’evoluzione, egli ha sollevato anco-

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ra una volta il vecchio problema della moralità o dellapossibile immoralità della natura. L’origine delle nozio-ni di bene e male, che ha occupato il pensiero filosoficodopo lo Zend-Avesta, è stata nuovamente posta sul tap-peto con maggiore energia e profondità. I darwinistihanno considerato la natura come un vasto campo dibattaglia dove i più deboli vengono sterminati dai piùforti, dai più abili, dai più astuti. In queste condizioni lanatura non può insegnare all’uomo che la lotta, il corpoa corpo.

Queste idee, come sappiamo, si sono diffuse larga-mente. Partendo da esse il filosofo evoluzionista hadovuto però risolvere una grave contraddizione da luistesso introdotta nella sua filosofia. In base a questafilosofia, infatti, non ci si può dichiarare assolutamentecerti che l’uomo sia in possesso di un’idea superiore del«bene» e che la credenza nel trionfo graduale del benesul male sia profondamente radicata nella natura uma-na. Pertanto, questa dottrina è tenuta a spiegare dadove proviene la nozione di bene, la credenza nel pro-gresso. Essa non può adagiarsi sul comodo guancialeepicureo che il poeta Tennyson descrive con le seguentiparole: «In un modo qualsiasi il bene si troverà comerisultato definitivo del male». La dottrina evoluzionisti-ca non può concepire la natura «tinta di sangue» – redin tooth and clow (con gli artigli e i denti rossi di san-gue), come la descrivono Tennyson e il darwinista Hux-ley – sempre in lotta contro il bene, negazione viventedel bene, e affermare nello stesso tempo che «in ultimaanalisi» il principio del bene trionferà. Deve, quantome-no, spiegare questa contraddizione.

Se uno studioso riconosce che la sola lezione chel’uomo da se stesso può ricavare dalla natura è la lezio-ne della violenza, egli dovrà nello stesso tempo ricono-scere l’esistenza di qualche altra influenza, esterna allanatura, soprannaturale, che ispira all’uomo l’idea di«bene supremo» e conduce verso un fine superiore losviluppo dell’umanità. E così facendo, annullerà il suostesso tentativo di spiegare l’evoluzione dell’umanità

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con il solo gioco delle forze naturali.In realtà, le posizioni della teoria evoluzionistica

sono lontane dall’essere così poco solide; esse non con-ducono affatto alle contraddizioni in cui è caduto Hux-ley. Lo studio della natura, come ha dimostrato Darwinstesso nella sua seconda opera, L’origine dell’uomo, èlontano dal confermare la prospettiva pessimista di cuiabbiamo appena parlato. La concezione di Tennyson edi Huxley è incompleta, unilaterale e, conseguentemen-te, falsa; la anti-scientificità diventa chiara se si pensaal fatto che Darwin parla, in un capitolo del suo libro,di un aspetto assai differente della vita e della natura.

La natura stessa, egli dice, ci mostra, accanto allalotta, un’altra categoria di fatti con un significato asso-lutamente diverso: il mutuo appoggio all’interno dellastessa specie; questi fatti hanno una importanza supe-riore a quelli precedenti perché sono necessari a mante-nere la prosperità della specie.

Questa tesi estremamente importante, che la mag-gior parte dei darwinisti si rifiuta di tenere in conto eche Alfred Russel Wallace è arrivato persino a negare,io ho cercato invece di svilupparla, citando a tal propo-sito una gran quantità di fatti in una serie di articoli incui ho dimostrato l’enorme importanza del mutuoappoggio per la sopravvivenza delle specie animali edell’umanità, e soprattutto per il loro sviluppo progres-sivo, per la loro evoluzione.

Senza cercare di attenuare il fatto che numerosi ani-mali si nutrono di specie appartenenti ad altre classidel mondo animale o di specie più piccole della stessafamiglia zoologica, ho dimostrato che in natura la lottaè spesso circoscritta a una lotta fra specie differenti, mache all’interno di ciascuna specie, e spesso all’interno diun raggruppamento formato da specie diverse maviventi in comune, il mutuo appoggio è la regola gene-rale. È per questo che il lato sociale della vita animalesvolge in natura un ruolo molto più importante che ilmutuo sterminio, avendo oltretutto un’estensione piùvasta. Il numero delle specie sociali tra i ruminanti,

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nella maggior parte dei roditori, presso numerosi uccel-li, nelle api, nelle formiche ecc., cioè le specie che nonvivono cacciandosi a vicenda, è in effetti considerevolis-simo, e il numero di individui che comprende ciascunadi queste specie è estremamente alto. Inoltre, pressotutte le fiere e tutti i rapaci, soprattutto quelli che nonsono in via di estinzione a seguito dello sterminio con-dotto dall’uomo o per altre ragioni, viene praticato incerta misura il mutuo appoggio. Il mutuo appoggio è difatto dominante in natura. [...]

Essendo necessario alla conservazione, alla prospe-rità e allo sviluppo di ciascuna specie, il mutuo appog-gio è diventato ciò che Darwin ebbe a definire un istintopermanente costantemente in azione presso tutti glianimali sociali, ivi compreso, naturalmente, l’uomo.

Questo istinto, che si manifesta fin dai primordidell’evoluzione del regno animale, è, senza dubbio,profondamente radicato presso tutti gli animali, inferio-ri e superiori, come l’istinto materno; anzi si traduce inun vantaggio nei casi in cui è dubbia l’esistenza di unistinto materno, come nei molluschi, in certi insetti enella maggior parte dei pesci.

Così Darwin aveva pienamente ragione quando affer-mava che l’istinto della mutua attrazione si manifestapresso gli animali sociali in modo più costantedell’istinto egoista alla conservazione personale. Egli vivedeva, come sappiamo, il rudimento di una coscienzamorale: fatto che, malauguratamente, i darwinisti han-no troppo spesso dimenticato.

Ma non è tutto: questo istinto, una volta apparso,sarà l’origine dei sentimenti di benevolenza e di accet-tazione parziale del singolo nel suo gruppo, diventandoil punto di partenza di tutti i sentimenti superiori. Èinfatti su questa base che si svilupperanno i sentimentipiù elaborati di giustizia, equità, uguaglianza e, infine,di ciò che abbiamo convenuto chiamare abnegazione.[...]

Comprendiamo così non soltanto che la natura non cidà lezioni di comportamento amorale, ovvero di indiffe-

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renza riguardo la morale, indifferenza che, essendo unprincipio estraneo alla natura, dovrebbe combattere perdominarla, ma che al contrario la nozione di bene e dimale, i ragionamenti sul «bene supremo», sono impron-tati alla natura stessa. Essi non sono che i riflessi, neiragionamenti dell’uomo, di ciò che egli ha visto pressogli animali; nel corso della vita sociale queste impres-sioni vanno a comporre la nozione generale di bene e dimale. E non si tratta di punti di vista personali di qual-che individuo, ma dei sentimenti della maggioranza.Questi giudizi ci confermano gli elementi di giustizia edi mutua attrazione, quale che sia il soggetto presso cuisi riscontrano; è qualcosa di analogo alle nozioni dimeccanica che, dedotte dalle osservazioni fatte sullasuperficie terrestre, si applicano benissimo ai problemidegli spazi celesti.

Non possiamo non ammettere la stessa cosa quandosi parla dello sviluppo del carattere e delle istituzioniumane. Anche l’evoluzione dell’uomo si effettua tramitela natura, da cui riceve un impulso positivo. Le stesseistituzioni di assistenza e di mutuo appoggio createall’interno della società mostrano all’uomo, con sempremaggiore evidenza, quale potenza può generarsi attra-verso il loro impiego. Con un simile mezzo di azionesociale la fisionomia morale dell’uomo si elabora inmodo più pieno. Ricerche storiche recenti permettono diconcepire la storia dell’umanità, per ciò che concernel’elemento etico, come un’evoluzione del bisogno, carat-teristico dell’uomo, di organizzare la sua esistenza sullabase del mutuo appoggio. Tanto nei clan che, più tardi,nelle comunità rurali, nelle repubbliche e nelle cittàlibere, queste forme sociali diventeranno, malgradoalcuni periodi di regresso, le fondamenta del nuovo pro-gresso.

S’intende che dobbiamo rinunciare all’idea di studia-re la storia dell’umanità nel senso di una catena inin-terrotta, di un’evoluzione che va dall’età della pietrafino all’epoca attuale. Lo sviluppo della società non èavvenuto senza interruzioni. Più volte si è stati costret-

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ti a ricominciare: in India, in Egitto, in Mesopotamia,in Grecia, a Roma, nella penisola scandinava, nell’Eu-ropa occidentale; ogni volta partendo da tribù primitivee in seguito da comunità rurali. Se consideriamo ciascu-na di queste linee di sviluppo, una dopo l’altra, vedremosoprattutto nell’Europa occidentale, dopo la cadutadell’Impero romano, un graduale estendersi delle nozio-ni di aiuto e di soccorso reciproco, prima dalla tribù allacittà, poi alla nazione e infine all’unione internazionaledelle nazioni. D’altra parte, a dispetto delle fasi diregresso che a diverse riprese si sono manifestate pres-so le stesse nazioni più civili, si può constatare una ten-denza a estendere sempre più i benefici delle idee cor-renti sulla giustizia e sul reciproco aiuto tra gli uomini.Questa tendenza è portata avanti in seno ai popoli civilidagli esponenti del pensiero più avanzato e da queimovimenti popolari che vogliono attuare il progressoponendo in essere alcune di quelle concezioni che sem-bra desiderabile attendersi dallo sviluppo futurodell’evoluzione.

Il fatto stesso che le fasi di regresso verificatesiperiodicamente presso i diversi popoli siano consideratedalla parte più colta della società come dei fenomenipasseggeri, verosimilmente evitabili in avvenire, dimo-stra come il criterio etico sia collocato su un livello piùelevato. Man mano che aumentano nella società civile imezzi per soddisfare i bisogni dell’insieme della popola-zione, aprendo in tal modo la via a una migliore com-prensione della giustizia per tutti, le esigenze etichediventano necessariamente sempre più elevate.

Così, ponendosi dal punto di vista di un’etica scienti-fica e realistica, l’uomo può non soltanto credere nelprogresso morale, ma fondare questa credenza su dellebasi scientifiche, malgrado tutte le lezioni di pessimi-smo che riceve. La credenza nel progresso che all’inizionon era che una semplice ipotesi, si trova ora piena-mente confermata dalla conoscenza; e d’altro canto nonbisogna dimenticare che l’ipotesi precede sempre la sco-perta scientifica.

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Se la filosofia dell’empirismo, che si fonda sullescienze naturali, non ha potuto, fino a oggi, provarel’esistenza di un progresso continuo delle regole morali(che si può considerare come uno degli elementi fonda-mentali dell’evoluzione), lo si deve, in gran parte, aifilosofi speculativi, cioè non scientifici. Sono questi chehanno insistentemente negato l’origine naturale delsenso morale, abbandonandosi a infinite sottili disser-tazioni per attribuirgli un’origine soprannaturale. Illoro lavoro si è talmente dilatato, fino alla «predestina-zione dell’uomo», allo «scopo della nostra esistenza», ai«fini della natura e della Creazione», che una reazionedoveva necessariamente prodursi contro tutte questeidee mitologiche e metafisiche. Contemporaneamente,gli evoluzionisti moderni, dopo aver mostrato l’esisten-za nel regno animale di un’aspra lotta per la vita tra lediverse specie, si sono visti nell’impossibilità di ammet-tere che un fenomeno così brutale, origine di tante sof-ferenze per gli esseri viventi, potesse essere un’espres-sione della volontà dell’Essere Supremo. Così hannofinito per negare l’esistenza di un qualsiasi elementomorale. Ciò non significa che ora, quando si comincia aconsiderare lo sviluppo graduale delle specie, delle raz-ze umane, delle istituzioni umane e dei princìpi stessidell’etica nel senso di un’evoluzione naturale, nondiventi possibile studiare, senza cadere nella filosofiadel soprannaturale, le diverse forze che presiedono aqueste evoluzioni, ivi compresa la forza naturale dellamorale che è costituita dal mutuo appoggio e dalla cre-scente attrazione reciproca.

Perseverando in questo senso, si attua una grandeconquista per la filosofia. Siamo così in diritto di con-cludere che lo studio della natura e della storia, giusta-mente inquadrato, denuncia l’esistenza costante di unadoppia tendenza: da un lato la tendenza alla socialità;dall’altro, come risultato di questa, l’aspirazione a unamaggiore intensità di vita, da cui il bisogno di una mag-giore felicità per l’individuo, e l’aspirazione verso unprogresso rapido dal punto di vista fisico, intellettuale e

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morale.Questa duplice aspirazione è caratteristica della vita

in generale, costituendo una delle proprietà fondamen-tali e uno degli attributi necessari a qualsiasi aspettodella vita nel nostro pianeta o altrove. Non si tratta diun tentativo della metafisica di inficiare la «universa-lità della legge morale», né di una semplice supposizio-ne. Senza un aumento costante della socialità, cioèdell’intensità della vita e della varietà di sensazioni cheessa apporta, la vita stessa è impossibile. Qui appuntorisiede l’essenza centrale dell’esistenza. Se questa con-dizione viene meno, la vita stessa ne viene menomataavviandosi alla propria distruzione. Siamo davanti aduna vera e propria legge di natura.

Ne risulta che la scienza, lungi dal misconoscere ifondamenti dell’etica, dà al contrario un contenuto con-creto alle nebulose affermazioni metafisiche dell’eticatrascendentale, cioè soprannaturale. Man mano che lascienza penetra sempre più a fondo nella natura essadona all’etica evoluzionistica una certezza filosoficaincontestabile, là dove il pensatore trascendentale nonpoteva fondarsi che su ipotesi assai vaghe.

Un altro rimprovero spesso mosso al pensiero fonda-to sullo studio della natura, è ancor meno giustificato.Sarebbe un modo di pensare che non può che condurrealla conoscenza di una fredda verità matematica. Leconoscenze di questo tipo avrebbero poca influenza sul-le nostre azioni. Lo studio della natura ci può tutt’al piùispirare l’amore per la verità, ma solo la religione puòispirare un’emozione superiore, come quella della «infi-nita bontà».

Non è difficile provare che tale affermazione è infon-data ed è per conseguenza falsa. L’amore per la veritàcostituisce già in sé una buona meta, la «migliore» ditutta la dottrina morale. E i credenti che siano anchepersone intelligenti lo comprendono benissimo. Quantoalla nozione di bene e all’aspirazione verso questo bene,la «verità» di cui parliamo – il riconoscimento delmutuo appoggio come carattere fondamentale dell’esi-

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stenza di tutti gli esseri viventi – è chiaramente unaverità ispiratrice destinata un giorno a esprimeredegnamente la poesia della natura, in quanto aggiungealla conoscenza di questa un nuovo tratto: l’umanitari-smo. Goethe, con la perspicacia del suo genio panteista,ne comprese tutta l’importanza filosofica quando lo zoo-logo Eckermann gliene fece cenno nel corso di una con-versazione.

Man mano che studiamo più da vicino l’uomo primi-tivo, constatiamo sempre più che dalla vita degli ani-mali, con i quali viveva in stretta comunanza, egliacquisì le prime lezioni sulla coraggiosa difesa dei pro-pri simili, sull’abnegazione a favore del gruppo,sull’amore illimitato per la famiglia, sull’utilità genera-le della vita in società. Le nozioni di «virtù» e di «vizio»non sono soltanto umane, ma zoologiche.

Non è necessario insistere sull’influenza che le ideehanno sulle nozioni morali, come pure sull’influenzainversa che le nozioni morali hanno sulla fisionomiaintellettuale di ciascuna epoca. L’aspetto e lo sviluppointellettuale di un’epoca possono qualche volta prende-re una direzione completamente falsa sotto la pressionedi circostanze esterne diverse: sete di ricchezza, guerre,ecc.; esse possono, durante il corso della storia, rimbal-zare in una nuova direzione e raggiungere, in questomodo, un livello più elevato. Ma nell’uno o nell’altrocaso, la vita intellettuale di un’epoca esercita sempreuna profonda influenza sull’insieme delle nozioni mora-li di una società. La stessa cosa è vera anche quando sitratta di un individuo.

È altrettanto certo che i pensieri, le idee, sono delleforze, per usare l’espressione di Fouillée; essi diventanoforze etiche, morali, quando sono giusti e sufficiente-mente diffusi per esprimere la vita della natura nel suoinsieme e non soltanto in uno dei suoi aspetti. È perquesto che quando si tratta di creare una moralesuscettibile di determinare un’influenza duratura sullasocietà, bisogna cominciare a stabilirne le basi per mez-zo di verità solidissime. Questo costituisce uno dei prin-

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cipali ostacoli all’elaborazione di un sistema etico com-pleto, capace di soddisfare le esigenze del nostro tempo.La causa è data dallo stato infantile in cui si trovaancora la scienza della società. La sociologia ha riunitoda poco i suoi materiali; essa comincia soltanto ora astudiarli allo scopo di stabilire la direzione probabiledella futura evoluzione dell’umanità. Essa urta conti-nuamente contro una gran quantità di pregiudizi inve-terati.

L’etica moderna ha per compito principale quello dicercare, con la riflessione filosofica, ciò che vi è di comu-ne tra le due categorie di sentimenti contrapposti cheesistono nell’uomo; essa aiuta così a trovare non unsemplice compromesso o un accordo tra i due, ma laloro sintesi, la loro generalizzazione. Alcuni di questisentimenti portano gli uomini a dominare i loro similiin vista di scopi personali; altri, all’inverso, li portano aunirsi tra di loro per attendere con uno sforzo comuneall’attuazione di ciò che non è possibile realizzare dasoli. I primi rispondono a un bisogno fondamentaledell’uomo: il bisogno della lotta; i secondi rispondono aun altro bisogno egualmente fondamentale: quellodell’unione e della reciproca attrazione. Questi duegruppi di sentimenti non possono non entrare in conflit-to, ma è assolutamente necessario trovare la loro sinte-si, sotto una forma qualsiasi. Ciò è tanto più necessarioper l’uomo moderno in quanto, se non ha delle convin-zioni precise che lo mettano in grado di riconoscere ilsuo posto in questo conflitto, egli rischia di perdere lasua potenza attiva. Egli non può ammettere che la lottaper il predominio, la guerra al coltello tra gli individui ele nazioni, sia l’ultima parola della scienza; d’altra par-te egli non crede che la questione possa essere risoltapredicando la fratellanza e l’abnegazione, come il cri-stianesimo ha fatto per secoli senza mai arrivare peròné alla fratellanza tra i popoli o tra gli uomini, né allareciproca tolleranza tra le diverse dottrine cristiane.Quanto alla dottrina comunista, la maggioranza non vicrede per la stessa ragione su esposta. Così lo scopo

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principale dell’etica è attualmente quello di aiutarel’uomo a trovare una soluzione a questa fondamentalecontraddizione. A tal proposito, rivolgeremo ora l’atten-zione ad un’analisi dettagliata dei mezzi ai quali gliuomini hanno fatto ricorso nei secoli per arrivare al piùalto grado di benessere per tutti senza paralizzare, alcontempo, l’energia personale di ciascuno. Allo scopo digiungere alla sintesi voluta, dobbiamo studiare egual-mente le tendenze analoghe che si rivelano nella nostrasocietà, i primi tentativi ancora timidi come le possibi-lità latenti. Poiché nessun nuovo movimento si producesenza risvegliare un certo entusiasmo, necessario a vin-cere l’inerzia intellettuale, la nuova etica avrà per com-pito fondamentale quello di suggerire all’uomo un idea-le capace di risvegliare l’entusiasmo, donando agliuomini la forza necessaria per realizzare nella vita rea-le ciò che può conciliare l’energia individuale con illavoro per il bene di tutti.

Questa necessità di un ideale legato alla realtà ciporta a considerare la principale obiezione opposta aquesti sistemi etici non religiosi. Essi mancherebberodell’autorità necessaria, si dice, le loro finalità non ri-sveglierebbero che il semplice sentimento del dovere,dell’obbligo. È perfettamente vero che l’etica empiricanon ha mai preteso, come suo carattere vincolante, ciòche fonda, ad esempio, i dieci comandamenti di Mosé. Èaltrettanto vero che quando Kant propone l’«imperativocategorico» come fondamento della legge morale – «agi-sci in modo tale che l’aspirazione della volontà possadivenire il principio di una legge suscettibile di applica-zione universale» – egli intende dimostrare che questaregola non ha bisogno di alcuna sanzione superiore peressere riconosciuta come universalmente vincolante.Essa è, continua Kant, una forma necessaria del pen-siero, una categoria della nostra ragione; non è dedottada alcuna considerazione utilitaristica.

Ma la critica moderna, dopo Schopenhauer, hamostrato che Kant sbaglia. Egli non ha provato perquali ragioni l’uomo si dovrebbe sottomettere a questo

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«imperativo», ed è curioso che il ragionamento conducalo stesso Kant all’idea che la sola ragione che permetteal suo «imperativo» di aspirare al generale riconosci-mento è la sua utilità sociale. Eppure le pagine in cuiKant dimostra che in nessun caso le considerazioni diutilità devono essere date come base per la morale sonole più belle che abbia scritto. In realtà egli ha compostouno splendido elogio del sentimento del dovere, ma nonè riuscito a trovare a questo sentimento altra base chela conoscenza intima dell’uomo e il suo desiderio di con-servare un’armonia tra le sue idee e i suoi atti.

La morale empirica non cessa certamente di contro-battere all’ingiunzione religiosa espressa dalle parole«Io sono il signore Dio tuo»; ma la contraddizioneprofonda che continua ad esistere tra le prescrizioni delcristianesimo e la vita reale delle società che si defini-scono cristiane toglie comunque all’accusa in questionetutta la sua forza. Bisogna dire che la morale empiricanon è completamente priva di un carattere condizio-nante. I diversi sentimenti e atti che, dopo AugustComte, si chiamano «altruisti» possono essere facilmen-te suddivisi in due categorie. I primi, assolutamentenecessari se si vuole vivere in società, non dovrebberomai essere definiti altruisti: essi contengono un caratte-re di reciprocità e sono compiuti dall’individuo esclusi-vamente nel proprio interesse, come avviene per tuttigli atti dettati dall’istinto di conservazione. Accanto aquesti atti ne esistono altri che non presuppongonoalcuna reciprocità. Chi li compie dà la sua forza, la suaenergia, il suo entusiasmo, senza attendere nulla incambio, senza presupporre alcuna ricompensa. Sonoproprio questi atti i grandi fattori di perfezionamentomorale che è possibile definire obbligatori. Queste duecategorie di atti sono costantemente confusi da tutti gliautori che trattano di morale, ed è per questo che sirilevano così tante contraddizioni nelle questioni relati-ve all’etica.

È facile, tuttavia, uscire da questa confusione. Èchiaro fin dall’inizio che non bisogna confondere il

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dominio dell’etica con quello della legislazione. L’eticanon dà risposta alcuna a questo problema: una legisla-zione è, o meno, necessaria? La morale è al di sopra diquesto problema. Si conoscono numerosi studiosi di eti-ca che negano la necessità di una qualsiasi legislazionee si appellano direttamente alla coscienza umana; agliinizi della Riforma, questi pensatori esercitarono unanotevole influenza. Il compito dell’etica non è quello diinsistere sui difetti dell’uomo e rimproverargli i suoi«peccati»: essa deve fare opera positiva, indirizzandosiai suoi migliori istinti. L’etica definisce e spiega iprincìpi fondamentali senza i quali né gli animali né gliuomini avrebbero potuto vivere in società. Successiva-mente, fa appello a qualcosa di superiore: all’amore, alcoraggio, alla fratellanza, al rispetto di se stessi, a unavita conforme all’ideale. Infine, dice all’uomo che sevuole vivere una vita nella quale tutte queste forze tro-vino piena espressione, deve rinunciare una volta pertutte a credere che sia possibile vivere senza tener con-to dei bisogni e dei desideri dei suoi simili. L’etica inse-gna che ci si avvicina a questa vita solo quando si stabi-lisce una certa armonia tra l’individuo e coloro che locircondano. E aggiunge: «Guardate la natura, studiateil passato dell’uomo, vi troverete la verità». Quandol’uomo, per una ragione qualsiasi, esita non sapendocome agire in un caso determinato, l’etica gli viene inaiuto mostrandogli come lui stesso vorrebbe che gli altriagissero nei suoi riguardi nelle stesse circostanze.

Anche in questo caso, l’etica non indica alcuna lineadi condotta in modo rigido, perché l’uomo deve misura-re da sé il valore dei diversi argomenti. A chi è incapacedi sopportare uno scacco, è inutile consigliare il rischio.Allo stesso modo è inutile predicare a un giovane pienodi energia la prudenza dell’età matura. Egli ribatteràcon le parole profondamente giuste con le quali Egmontsi rivolge al vecchio conte Oliver nel dramma di Goethe,ed avrà ragione: «Come se fossero posseduti da spiritiinvisibili, i corsieri luminosi del tempo trasportano illeggero veicolo del nostro destino; non ci resta che tene-

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re coraggiosamente le redini e guidare il carro, a sini-stra, per evitare una pietra, a destra, per evitare unafrana. Dove siamo condotti? Non si sa. Noi sappiamosoltanto da dove veniamo». [...]

Ma lo scopo principale dell’etica non è quello di dareconsigli individuali. Essa tende piuttosto a prospettareall’insieme degli uomini un fine supremo, un ideale cheli guidi e li inciti ad agire istintivamente nella direzionevoluta, meglio di qualsiasi consiglio. Proprio come loscopo dell’educazione è di abituare a effettuare quasiinconsciamente una moltitudine di ragionamenti ap-propriati, così lo scopo dell’etica è di creare un’atmosfe-ra sociale in grado di far comprendere alla maggioranzadegli uomini, in modo assolutamente abitudinario, cioèsenza esitazioni, gli atti che conducono al benessere ditutti e al massimo di felicità per ciascuno.

È questo lo scopo finale dell’etica. Per raggiungerlo,dobbiamo sbarazzare le teorie etiche dalle contraddizio-ni interne.

Così, ad esempio, la morale che predica la «benevo-lenza» per misericordia e per pietà, porta in sé unamortale contraddizione. Essa comincia con il proclama-re la necessità della giustizia per tutti, cioè l’uguaglian-za o una fratellanza perfetta, che poi è la stessa cosadell’uguaglianza, o almeno un’uguaglianza di diritto.Successivamente si affretta ad aggiungere che è inutileperseguire questo scopo: l’uguaglianza è irrealizzabile...Quanto alla fratellanza, che poi è la base di tutte lereligioni, non bisogna prenderla alla lettera: è solo unaparola poetica usata da predicatori entusiasti. «La disu-guaglianza è una legge di natura», affermano i predica-tori religiosi che, in questo caso, evocano la natura. Manoi consigliamo di domandare delle lezioni alla naturapiuttosto che alla religione, la quale ha preteso di sotto-mettere la natura. Ma diventando troppo evidente ladisuguaglianza tra gli uomini, continuando le ricchezzea essere accaparrate da una piccola minoranza delimi-tata, la maggioranza degli uomini è ridotta a vivere nel-la più grave miseria. Essere in favore del povero è allo-

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ra un vero e proprio dovere sacro, purché ciò non intac-chi la propria situazione privilegiata. Una morale simi-le può certamente mantenersi per qualche tempo, oanche per parecchio tempo se viene sostenuta dallareligione così come l’interpreta la Chiesa imperante.Ma dal momento in cui l’uomo applica alla religione ilsuo spirito critico e cerca di stabilire dei convincimenticoncreti per mezzo della ragione, e non per mezzo dellafede e dell’obbedienza evangelica, questa contraddizio-ne interna non può reggere a lungo: egli cercherà disepararsene, e prima lo fa meglio è; la contraddizioneinterna è la morte dell’etica, un verme che rode edistrugge tutta l’energia di un uomo.

La moderna teoria della morale è basata su una con-dizione fondamentale: essa non deve intralciare l’atti-vità spontanea dell’individuo, neanche per uno scopoelevato quale potrebbe essere il bene della società o del-la specie. Wundt, nella sua eccellente esposizione delledottrine etiche, fa osservare che dopo «il secolo deilumi», alla metà del XVIII secolo, quasi tutti i sistemimorali sono diventati individualistici. Ma questo puntodi vista è vero solo in parte, in quanto i diritti dell’indi-viduo sono stati difesi con grande energia solo in campoeconomico. E anche qui la libertà individuale è stata, inpratica come in teoria, più apparente che reale. Quantoagli altri settori – politico, intellettuale, artistico – sipuò dire che man mano che l’individualismo economicosi è affermato con maggiore energia, l’assoggettamentodell’individuo all’organizzazione militare dello Stato eal suo sistema di istruzione, per non parlare della disci-plina intellettuale necessaria a mantenere le istituzioniesistenti, è costantemente aumentato. Anche la mag-gior parte dei riformatori sociali di tendenze estremisteammettono ora, come premessa necessaria delle loroprevisioni future, una maggiore ingerenza dello Statonel raggio di azione dell’individuo.

Questa tendenza non ha mancato di sollevare prote-ste, formulate da Godwin agli inizi del XIX secolo e daSpencer nella seconda metà dello stesso secolo; essa ha

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portato Nietzsche ad affermare che è meglio rifiutare lamorale, se non le si può trovare altra base che il sacrifi-cio dell’individuo a favore del genere umano. Questacritica delle dottrine morali correnti costituisce una del-le caratteristiche intellettuali della nostra epoca, tantopiù che il suo movente principale non è tanto un’aspira-zione all’indipendenza economica (come è avvenuto nelXVIII secolo per tutti i difensori dei diritti dell’individuo,Godwin escluso), quanto invece il desiderio appassiona-to di indipendenza individuale in vista della creazionedi un nuovo e migliore ordine sociale, dove il benesseredi tutti diventerà la base per il completo sviluppodell’individuo.

Uno sviluppo insufficiente dell’individuo conduceinvece a una mentalità gregaria, caratterizzata damancanza di iniziativa e di forza creatrice personale.Ciò costituisce uno dei difetti peculiari del nostro tem-po. L’individualismo economico non ha rispettato le suepromesse: non ha condotto al rigoglioso sbocciare dellapersonalità... D’altro canto, nel settore sociale l’operacreatrice si è manifestata con estrema lentezza e l’imi-tazione resta il grande sistema di diffusione delle inno-vazioni fatte dal progresso. Le nazioni moderne ripeto-no la storia delle popolazioni barbare e delle cittàmedievali, che copiavano le une dalle altre i loro movi-menti politici, religiosi ed economici, e le loro «carte del-la libertà». Nazioni intere hanno di recente assimilatocon sorprendente rapidità la civiltà industriale e milita-re europea, e queste riedizioni – non ancora riordinate– di antichi modelli mostrano in modo chiarissimo lasuperficialità di ciò che chiamiamo cultura e come tuttosi basi su semplici modelli imitativi.

È ora naturale porsi questa domanda: le dottrinemorali attualmente diffuse non hanno contribuito aquesta subordinazione imitativa? Non si sono date trop-po da fare a costruire un uomo che sia «automa di idee»,nel senso indicato da Herbart, un essere immerso nellacontemplazione e che cova dentro tutte le tempeste del-le passioni? Non è giunto il momento di difendere i

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diritti dell’uomo pieno di energia, capace di amare conforza ciò che è degno di amore e di odiare ciò che merital’odio, sempre pronto a combattere per l’ideale che esal-ta il suo amore e giustifica le sue antipatie? I filosofi delmondo antico proposero una particolare interpretazionedella «virtù», diffusa anche oggi, nel senso di una «sag-gezza» che incoraggia l’uomo a «sviluppare la bellezzadel suo animo» piuttosto che a lottare contro i mali delsuo tempo a fianco dei suoi «simili». Più tardi si chiamòvirtù la «non resistenza al male», e per lunghi secoli la«salute dell’anima», unita alla rassegnazione e all’atti-tudine passiva verso il male, ha costituito l’essenzadell’etica cristiana. Ne sono scaturiti una serie di sottiliargomenti in favore dell’«individualismo virtuoso» el’apologia di una indifferenza monastica verso i malidella società. Fortunatamente, comincia a farsi sentireuna reazione contro questo tipo di virtù egoista. E unadomanda si fa avanti: l’attitudine passiva a contatto delmale non è una vigliaccheria criminale? Non avevaragione lo Zend-Avesta quando affermava che la lottaattiva contro Ahriman è la condizione prima dellavirtù? Il progresso morale è necessario, ma è impossibi-le senza il coraggio morale.

Nel groviglio dei problemi posti dalla dottrina mora-le, questi sono quelli che abbiamo potuto discernerenell’attuale conflitto di idee. Tutti portano a una con-clusione fondamentale: la richiesta di un nuovo modo diintendere la morale, in particolare i suoi princìpi essen-ziali che devono essere assai flessibili per dare nuovavita alla nostra civiltà; e ancora, la richiesta di liberarladalle sopravvivenze extranaturali e trascendentali,come pure dalle ristrette idee dell’utilitarismo borghe-se.

Gli elementi per questa nuova visione della moraleesistono già. L’importanza della socialità e del mutuoappoggio nell’evoluzione animale e nella storiadell’umanità può, mi sembra, essere ammessa comeuna verità scientifica stabilita, e non più ipotetica. Pos-siamo inoltre considerare come provato il fatto che man

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mano che il mutuo appoggio diventa, nella società, uncostume consolidato, realizzato per così dire istintiva-mente, questa pratica conduce allo sviluppo del senti-mento di giustizia, con il suo senso di uguaglianza oequità come corollario obbligato, e all’attitudine a con-tenere i propri impulsi nel nome di questa uguaglianza.L’idea che i diritti individuali sono inviolabili, allo stes-so modo dei diritti naturali di tutti gli altri, si sviluppaman mano che scompaiono le distinzioni di classe. Que-sta idea diventa una nozione corrente quando una cor-rispondente trasformazione si fa sentire nelle istituzio-ni sociali.

Un certo grado di identificazione degli interessi pro-pri dell’individuo con quelli del suo gruppo ha dovutonecessariamente esistere agli inizi della vita sociale;esso si manifesta anche presso gli animali inferiori. Macon il radicarsi dei rapporti di uguaglianza e di giusti-zia nelle società umane, si è preparato il terreno per losviluppo e l’estensione ulteriori di questi rapporti. Gra-zie a questi l’uomo si è abituato a capire e a rilevare leripercussioni dei suoi atti sull’intera società, incomin-ciando a trattenersi dal danneggiare gli altri, anche nelcaso di dover rinunciare a soddisfare un proprio deside-rio; egli arriva ora a identificare i suoi sentimenti conquelli degli altri, che si dimostrano pronti a donargli leproprie forze senza attendere nulla in cambio. Questogenere di sentimenti e di abitudini non egoiste, che sidesignano ordinariamente con i nomi assai inesatti dialtruismo e abnegazione, merita a parer mio solo ilnome di morale, benché la maggior parte dei pensatoricontinui a confonderlo ancor oggi con il semplice sensodi giustizia.

Il mutuo appoggio, la giustizia, la morale, sono i gra-di ascendenti degli stati psichici che si sono resi eviden-ti grazie allo studio del mondo animale e dell’uomo.Essi sono una necessità organica, che ha in sé una pro-pria giustificazione e che conferma tutta l’evoluzionedel mondo animale, dai primi scalini (sotto forma dicolonie di molluschi) su per la successiva scala evoluti-

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va fino alle più perfezionate società umane. Possiamodire che in questo vi è una legge generale e universaledell’evoluzione organica, che agisce in modo che ilmutuo appoggio, la giustizia e la morale siano profon-damente radicati nell’uomo con tutta la potenza degliistinti innati. Il primo dei tre, l’istinto del mutuo appog-gio, è evidentemente il più forte; il terzo, il più tardo adapparire, è un sentimento incostante e consideratoquello meno obbligante. [...]

Questa è la solida base che la scienza può fornirci perl’elaborazione e la giustificazione di un nuovo sistemaetico. Invece di proclamare il «fallimento della scienza»,dobbiamo quindi esaminare come sia possibile edificareun’etica scientifica con gli elementi acquisiti a questoscopo dalle ricerche moderne fondate sulla teoriadell’evoluzione. […]

La nozione di «giustizia», che ha avuto agli inizi lostesso significato di vendetta, si riallaccia direttamenteall’osservazione degli animali. È assai probabile peròche la stessa idea di ricompensa e castigo (giusto eingiusto) nei confronti degli animali, sia nata nell’uomoprimitivo dalla considerazione che gli animali si vendi-cano dell’uomo che non li tratta come occorre. Questopensiero è così profondamente radicato nello spirito deiselvaggi del mondo intero che lo si deve considerarecome una delle nozioni fondamentali dell’umanità. Apoco a poco questa nozione si è espansa ed è diventatal’idea del Gran Tutto, in cui tutte le parti si riunisconoin base a princìpi di mutuo appoggio. Questo Gran Tut-to sorveglia gli atti di tutti gli esseri viventi e, in ragio-ne di questa reciprocità, ha il compito di punire le azio-ni malvagie.

Da questa nozione è nata l’idea delle Erinni e delleMoire presso i Greci, delle Parche presso i Romani, diKarma presso gli Indù. La leggenda greca delle gru diIbycus, che lega il mondo degli uomini a quello degliuccelli, e le innumerevoli leggende orientali sono l’e-

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spressione poetica di questa stessa idea. Più tardi essesi sono estese ai fenomeni celesti: nei libri sacri piùantichi dell’India, i «Veda», le nuvole sono, ad esempio,esseri viventi analoghi agli animali.

Ecco ciò che l’uomo primitivo ha visto nella natura,ecco gli insegnamenti che ne ha ricevuto. Sotto l’in-fluenza del nostro insegnamento scolastico, che ignorasistematicamente la natura ed estrinseca gli atti piùnormali dell’esistenza facendo ricorso alla superstizioneo alle astrusità metafisiche, noi abbiamo cominciato adimenticare queste grandi lezioni. Ma per i nostri ante-nati dell’età della pietra, la socialità e il mutuo appog-gio all’interno della tribù dovevano essere fatti del tuttoabituali e generali in quanto non poteva esserci per loroaltra rappresentazione della vita.

L’idea dell’uomo come essere isolato è un frutto dellaciviltà più avanzata, un prodotto delle leggende createin Oriente tra uomini che rifuggivano la società. Lun-ghi secoli sono stati sprecati per diffondere nell’uma-nità questa idea astratta. Agli occhi degli uomini primi-tivi l’esistenza di un essere isolato appariva così estra-nea, così rara e contraria alla natura degli esseri viven-ti, che quando vedevano la tigre, il tasso o il toporagnocondurre una vita isolata, oppure un albero cresceresolo fuori dalla foresta, restavano tanto colpiti da affi-dare le loro impressioni alla leggenda per spiegare unfenomeno talmente strano. Non si sono mai create leg-gende per spiegare la vita in società, ma sempre perspiegare un esempio di vita isolata. Spesso, se l’eremitanon era un saggio che si ritirava temporaneamente dalmondo, per meglio meditare sui suoi destini, e non eraneppure uno stregone, era allora un bandito cacciatodal suo gruppo per qualche grave violazione dei costumistabiliti dalla vita comunitaria. Esso aveva compiutoun atto talmente in contrasto con il modo di esistenzaabituale che la società lo aveva espulso. Frequentemen-te si trattava di uno stregone cui si attribuivano poterisulle forze del male e in rapporto con i cadaveri, fonti diinfezione. Per questo si aggirava solo nella notte perse-

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guendo nell’oscurità i suoi disegni malvagi.Tutti gli altri esseri vivono in società ed è con questo

orientamento che lavora lo spirito dell’uomo: la vitasociale, cioè noi e non io, ecco il modo di esistenza natu-rale. Si tratta della vita stessa in azione. Per questo«noi» deve essere stata la forma di pensiero comunedell’uomo primitivo, una «categoria» del suo spirito,come direbbe Kant.

Con questa identificazione, o meglio con questa dis-soluzione dell’«io» nella tribù e nella popolazione, ven-gono gettati i rudimenti di tutto il pensiero etico, di tut-te le nozioni morali. L’affermazione dell’individualità èvenuta molto più tardi. Ancora adesso, la personalità,l’«individuo», quasi non esistono nella mentalità dei sel-vaggi primitivi. Il primo posto appartiene nel loro spiri-to al clan, con i suoi costumi ben definiti, i suoi pregiu-dizi, le sue credenze, le sue difese, le sue abitudini, isuoi interessi.

È in questa identificazione costante dell’umanità conil tutto che si rinviene l’origine dell’etica; per conse-guenza è da essa che sono nate le idee di giustizia e leidee ancora più elevate di morale. [...]

La natura è stata quindi la prima ad insegnareall’uomo la morale. Non quel genere di natura chedescrivono i filosofi nel chiuso dei loro studi, o i natura-listi che non la studiano se non attraverso gli esemplarisenza vita dei musei; ma la natura di cui si sono occu-pati i grandi iniziatori della zoologia descrittiva stu-diandola sul continente americano (con una popolazio-ne all’epoca ancora ridotta), in Africa e in Asia, cioè stu-diosi come Audubon, Asara, Wied, Brehm e altri. Ciriferiamo, pertanto, a quella natura cui pensavaDarwin quando ha scritto, ne L’origine dell’uomo, unabreve esposizione dell’origine del senso morale nell’indi-viduo.

È fuor di dubbio che l’istinto di socialità ereditatodall’uomo, e pertanto profondamente radicato in lui, ha

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dovuto via via svilupparsi e fortificarsi a seguito anchedell’aspra lotta per l’esistenza. […]

I primi elementi di questa morale si trovano, come siè detto, nel sentimento di socialità. L’istinto gregario, ilbisogno di aiuto reciproco, esistono presso tutti gli ani-mali e si sono sviluppati in seguito nelle società umaneprimitive. D’allora in poi diventa naturale che l’uomo,grazie all’esistenza del linguaggio che sviluppa lamemoria e crea la tradizione, stabilisca regole di vitamolto più complesse di quelle esistenti presso gli ani-mali. Successivamente, con la nascita della religione,anche nelle sue forme più grossolane, un nuovo elemen-to viene introdotto nell’etica umana, elemento che con-tribuisce a darle una certa stabilità e, più tardi, un cer-to spirito e un certo idealismo.

Con l’evolversi della vita sociale, la nozione di equitànelle relazioni reciproche viene a prendere un posto viavia più grande. I primi rudimenti della giustizia, sottoforma di parità di trattamento, si osservano già pressogli animali, in particolare i mammiferi. Infatti la madreallatta diversi piccoli senza discriminazioni, mentre neigiochi si hanno delle regole stabilite e obbligatorie pertutti indistintamente. Ma il passaggio dall’istinto disocialità, cioè dalla semplice attrazione, dal semplicebisogno di vivere in mezzo ai propri simili, alla conce-zione della necessità della giustizia nei rapporti reci-proci si effettua nell’uomo, nell’interesse stesso dellavita sociale. In ogni società infatti i desideri e le passio-ni di un individuo urtano contro i desideri e le passionidegli altri individui anche loro membri della società.Questi conflitti condurrebbero fatalmente a continuediscordie e alla disgregazione finale della società senzala nozione, elaborata al contempo tra gli uomini (cosìcome era già stata elaborata tra taluni animali), diuguaglianza tra tutti i membri della società. Questanozione fa nascere, a poco a poco, quella di equità, cheesprime, come dice la stessa parola (aequitas), un’idea

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di uguaglianza. È per questo che gli antichi rappresen-tavano la giustizia sotto l’aspetto di una donna con gliocchi bendati e una bilancia in mano. [...]

È certo che in tutte le società, a qualsiasi grado dievoluzione si trovino, vi sono sempre stati e sempre visaranno individui che vogliono approfittare della loroforza, della loro abilità, del loro acume o del loro corag-gio per sottomettere le volontà altrui; e alcuni raggiun-gono lo scopo. Se ne trovano certamente anche presso ipopoli primitivi, come presso tutti i popoli e tutte le raz-ze, a tutti i livelli di civiltà. Ma, a tutti i livelli, vediamoanche che, per controbilanciare le loro azioni, compaio-no dei costumi diretti a impedire l’espandersi dell’indi-viduo a spese della società. Tutte le istituzioni chel’umanità ha elaborato nelle diverse epoche – il clan, lacomunità rurale, la città, le repubbliche con le loroassemblee popolari, l’autonomia delle parrocchie e delleprovince, il governo rappresentativo ecc. – tutte aveva-no lo scopo di proteggere la società contro la volontàindividuale di questi uomini e contro la nascita del loropotere. […]

Tutta la storia dell’umanità può essere considerata,in definitiva, come la manifestazione di due tendenze:da una parte, la tendenza degli individui o dei gruppi aimpadronirsi del potere per sottomettere le grandi mas-se al loro dominio; dall’altra, la tendenza a mantenerel’uguaglianza (almeno tra le persone di sesso maschile)e a resistere a questa conquista del potere, o almeno alimitarla, cioè a mantenere la giustizia all’interno delclan, della tribù o della federazione dei clan.

Quest’ultima tendenza si manifesta in maniera net-tissima anche in seno alle città libere del Medio evo,soprattutto durante i secoli successivi all’emancipazio-ne dai signori feudali. Le città libere erano in ultimaanalisi delle unioni difensive di cittadini che si mette-vano insieme per lottare contro i feudatari vicini. Maben presto la popolazione di queste città si divise in

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strati. Inizialmente, il commercio era praticato dallacittà intera, e infatti i prodotti delle industrie urbane ele merci acquistate nelle campagne erano esportate dal-la città stessa, tramite alcuni mandatari, e il profittorestava alla città nel suo complesso. A poco a poco,però, da sociale il commercio divenne privato, arric-chendo non solo le città ma in particolare i liberi mer-canti (mercatori libri) che, soprattutto dopo le Crociate,intrapresero un attivo commercio con l’Oriente. Succes-sivamente nacque la classe dei banchieri alla quale sirivolgevano, in caso di bisogno, non solo i nobili cavalie-ri decaduti ma, via via, le stesse città.

È così che all’interno delle città, un tempo libere, siera andata costituendo una classe aristocratica di mer-canti che le dominava e che dava il suo sostegno alpapa o all’imperatore, nell’intento di avere dalla loroquesta o quella città, oppure a un re o a un principeche, interessato alla conquista di una città, si appoggia-va ai ricchi mercanti oltre che alla popolazione piùpovera. Gli Stati centralizzati moderni si sono formatiin questo modo. […] L’assoggettamento delle piccoleunità alle più forti e la concentrazione del potere venne-ro poi completati con la formazione dei grandi Statipolitici.

Naturalmente una tale trasformazione, fondamenta-le per la vita pubblica come per le rivolte religiose o leguerre, non mancò di imprimere il suo modello all’insie-me delle idee morali di ogni Paese e di ogni epoca. Ungiorno sarà fatto uno studio dell’evoluzione morale inrapporto alle modificazioni della vita sociale. Per ades-so questo campo viene lasciato dalla scienza delle idee edelle dottrine morali (l’etica) a un’altra scienza (lasociologia), che è la scienza della vita e dell’evoluzionedelle società. Per evitare di oscillare tra questi duecampi è bene, per il nostro lavoro, limitarci a quello distretta competenza dell’etica.

Presso tutti gli uomini, per quanto rudimentale sia illoro grado di sviluppo, come presso certi animali sociali,constatiamo – come abbiamo fatto personalmente – cer-

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ti tratti che attengono alla morale. In tutti i gradidell’evoluzione umana troviamo la socialità e il senti-mento comunitario. Alcuni uomini si mostrano piùpronti ad aiutare gli altri, qualche volta anche a rischiodella loro stessa vita. Queste qualità contribuiscono amantenere e sviluppare la vita sociale che, a sua volta,assicura a tutti la vita stessa e il benessere. Esse ven-gono man mano considerate, anche nelle epoche piùremote, non solo qualità desiderabili ma necessarie. Ivecchi saggi, gli stregoni dei popoli primitivi e, più tar-di, i preti raffigurano questi tratti della natura umanacome effetti di ordini venuti dall’alto, emanati da forzemisteriose, che siano dei o un creatore unico. Ma fin daitempi più remoti, in particolare dopo l’epoca della fiori-tura delle scienze in Grecia, cioè da più di 2500 anni,alcuni pensatori si sono posti il problema dell’originenaturale di quei sentimenti e di quelle idee morali cheimpediscono agli uomini di compiere in generale attinocivi per i loro simili o per i legami societari. Essi han-no cercato, in altri termini, una spiegazione naturale aciò che si chiama morale dell’uomo e a ciò che in tutte lesocietà è indiscutibilmente considerato come desidera-bile.

Tentativi di questo genere sembra siano stati fattianche in epoche molto remote, e infatti se ne trovanotracce anche in Cina e in India. Ma solo quelli dellaGrecia antica sono arrivati fino a noi in forma scientifi-ca. In Grecia, per quasi quattro secoli, tutta una seriedi pensatori – Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro e,più tardi, gli stoici – hanno esaminato seriamente, daun punto di vista filosofico, le fondamentali questioniche seguono:

• da dove provengono nell’uomo le regole morali ingrado di contrastare le sue passioni e spesso di frenar-le?

• da dove deriva il sentimento obbligante della mora-le, sentimento che si manifesta anche presso uominiche negano le regole morali esistenziali?

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• si tratta forse del frutto della nostra educazione, dicui saremmo incapaci di sbarazzarci, come affermanoattualmente alcuni pensatori e come hanno già affer-mato in passato alcuni negatori della morale?

• oppure la coscienza dell’uomo è frutto della naturastessa? E in questo caso, non si è radicata nel corso del-la sua vita in società durante migliaia e migliaia dianni?

• e se è così, bisogna allora sviluppare questacoscienza, oppure sarebbe meglio distruggerla e inco-raggiare il sentimento opposto, l’egoismo, secondo cuil’ideale dell’uomo di cultura è negare ogni morale?

Dopo più di duemila anni i pensatori lavorano ancorasu questi problemi, inclinando periodicamente ora ver-so l’una ora verso l’altra delle soluzioni prospettate. Dailoro lavori è nata una scienza: l’etica.

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VII

In Campi, fabbriche, officine non è delineato soltantoil concetto di piccola comunità, ma anche quello di inte-grazione fra città e campagna quale risoluzione sinteti-ca del trinomio uomo-natura-ambiente. Per Kropotkinun piano della libertà e dell’uguaglianza deve esplicarsiattraverso due aspetti complementari: l’integrazione inogni individuo del lavoro manuale con quello intellet-tuale, l’integrazione geografico-sociale della città con lacampagna. I due aspetti sono complementari perchémirano al superamento di due forme dello stesso feno-meno del dominio, così com’è concepito dal più classicoschema anarchico, vale a dire quale rapporto che vadall’alto al basso, dal centro alla periferia, dal puntopiù alto della piramide alla linea più bassa della base.

In questo senso diventa logico modellare le istituzioniumane sui ritmi naturali della crescita sociale, immet-tendo nella creazione culturale delle forme continua-mente adattabili e funzionali al senso spontaneo dellosviluppo collettivo. La rete di questa comunità si compo-ne di un’infinita varietà di associazioni federate di tuttele dimensioni e gradi, locali, regionali, nazionali e inter-nazionali – temporanee o permanenti – per tutti gli sco-pi possibili. Come nella vita organica, l’armonia risultadall’assestamento e riassestamento, dall’equilibrio con-

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tinuo di forze e di influenze diverse secondo una radica-le insorgenza dal basso, una irreversibile immanenzadel sociale che deve rendere impossibile ogni costruzionepolitica imposta dall’alto.

In altri termini, i problemi della convivenza non van-no risolti attraverso mega-strutture, ma riformulandocompletamente le domande di una socialità integrata econtrollabile, interrogando questa rispetto ai bisognieffettivi della comunità che si trova a vivere in un deter-minato contesto fisico, sotto un determinato clima e per-ciò carica di un determinato passato. Scrive LewisMumford in La città nella storia: «Con quasi mezzosecolo di anticipo sul pensiero tecnico ed economico con-temporaneo, Kropotkin aveva intuito che la duttilità el’adattabilità delle comunicazioni e dell’energia elettri-ca, unite alla possibilità di un’agricoltura intensiva ebiodinamica, avevano posto le basi di un’evoluzioneurbana più decentrata da svolgersi attraverso piccolecomunità basate sul contatto umano diretto e provvistedei vantaggi della città oltre che di quelli della campa-gna. Kropotkin si rese conto che i nuovi mezzi di tra-sporto e di comunicazione, uniti alla possibilità di tra-smettere l’energia elettrica attraverso una rete e nonmediante una linea unidimensionale, mettevano le pic-cole comunità sullo stesso piano della supercongestiona-ta metropoli per quanto concerneva la possibilità delleattrezzature tecniche essenziali. [...] Prendendo comebase la piccola comunità, egli colse l’opportunità di unavita locale più responsabile e più sensibile, che lasciassemaggior campo d’azione a quegli aspetti umani trascu-rati e frustrati dall’organizzazione di massa».

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edi-zione italiana di Campi, fabbriche, officine del 19822,nella traduzione (rivista) di Franco Marano.

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PICCOLO È BELLO

Le due attività sorelle dell’agricoltura e dell’indu-stria non sono sempre state così estranee l’una all’altracome lo sono oggi. C’è stato un tempo, e quel tempo nonè molto lontano, in cui entrambe erano intimamentelegate: i villaggi ospitavano allora una molteplicità diofficine e gli artigiani delle città non abbandonavanol’agricoltura; molte città non erano altro che villaggiindustriali. Se la città medievale ha costituito la culladi quelle industrie che confinavano con l’arte e che ave-vano lo scopo di soddisfare i bisogni delle classi piùagiate, era pur sempre la produzione rurale a soddisfa-re i bisogni delle masse, come avviene attualmente inRussia e in buona parte anche in Germania e in Fran-cia. Ma più tardi, con l’avvento delle turbine, del vapo-re, con lo sviluppo della meccanica, i legami che una

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volta vincolavano la fattoria all’officina si sono spezzati.Le fabbriche sono cresciute e i campi sono stati abban-donati. Ci si è andati aggregando lì dove la vendita deiprodotti risultava più facile, o dove le materie prime e ilcombustibile potevano essere ottenuti a miglior prezzo.Nuove città sono state costruite e le vecchie si sonorapidamente estese, mentre i campi venivano progres-sivamente disertati. Milioni di contadini, strappati aviva forza dai campi, si sono raccolti nelle città in cercadi lavoro, dimenticando ben presto i vincoli che una vol-ta li univano alla terra. E noi, nella nostra ammirazio-ne per i prodigi compiuti dalla nuova organizzazioneindustriale abbiamo trascurato i vantaggi della vecchia,in cui chi dissodava il suolo era al tempo stesso un lavo-ratore industriale. Abbiamo così condannato alla spari-zione tutti quei settori dell’industria che un tempo sole-vano prosperare nei villaggi, condannando a sua voltanell’industria tutto ciò che non somigliava alla grandefabbrica.

È vero, i risultati sono stati straordinari per quantoriguarda l’aumento delle capacità produttive dell’uomoMa si sono rivelati terribili per milioni di esseri umani,precipitati nella miseria, che nelle nostre città hannopotuto contare su mezzi di sussistenza precari. Inoltre,nel suo complesso, la nuova organizzazione ha provoca-to le stesse condizioni anomale che ho cercato di trat-teggiare nei primi due capitoli. Siamo stati cacciati,così, in un vicolo cieco, e mentre si va delineandol’imperiosa necessità di un cambiamento totale degliattuali rapporti tra lavoro e capitale, si è reso ancheinevitabile un completo rimodellamento di tutta lanostra organizzazione industriale: i Paesi industrialidevono tornare all’agricoltura, devono trovare i mezzipiù opportuni per combinarla con l’industria, e devonofarlo senza perdere tempo.

Interrogarci, in specifico, sulla possibilità di una talecombinazione è lo scopo delle pagine che seguono. Èpossibile da un punto di vista tecnico? È auspicabile?Esistono, nell’attuale realtà industriale, caratteri tali

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da garantirci che un cambiamento nella direzioneaccennata potrebbe trovare gli elementi necessari allasua realizzazione? Sono queste le domande che ci sipongono. E per rispondere non c’è, ritengo, altro mezzoche studiare quell’immenso ma trascurato e sottovalu-tato settore industriale che va sotto il nome di officinerurali, lavorazioni a domicilio e artigianato, e studiarlonon nelle opere degli economisti, troppo inclini a consi-derarlo come una forma superata d’industria, ma nellaloro stessa esistenza, nelle loro lotte, nei loro fallimentie nelle loro conquiste.

Chi non ne ha fatto l’oggetto di uno studio specificodifficilmente si rende conto della molteplicità di formeorganizzative riscontrabile nelle piccole industrie. Esi-stono, innanzi tutto, due grandi categorie: le industrieattive nei villaggi in connessione con l’agricoltura equelle attive nelle città o nei villaggi senza alcuna con-nessione con la terra, nelle quali i lavoratori traggonoappunto i propri guadagni esclusivamente dall’attivitàindustriale.

In Russia, in Francia, in Germania, in Austria, ecc.,milioni e milioni di lavoratori rientrano nella primacategoria. Possiedono e lavorano la terra, allevano unao due vacche, molto spesso dei cavalli, e coltivano i cam-pi, o i frutteti, o gli orti, considerando il lavoro indu-striale come un’occupazione secondaria. Soprattutto inquelle regioni in cui l’inverno dura a lungo e non è asso-lutamente possibile lavorare la terra per parecchi mesil’anno, questa forma di piccola industria è largamentediffusa. In Inghilterra, al contrario, ci imbattiamonell’estremo opposto. Sono poche infatti in questo Paesele piccole industrie sopravvissute in connessione conl’agricoltura; e tuttavia centinaia di botteghe e piccoleofficine si rintracciano nei sobborghi e nei bassifondidelle grandi città come Sheffield e Birmingham, dovegrandi masse di popolazione si procacciano da viverecon una molteplicità di attività artigianali. Tra questidue estremi abbiamo evidentemente una gran varietàdi forme intermedie, a seconda dei legami più o meno

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stretti che continuano a sussistere con la terra. Vi sonodunque grossi paesi e persino città popolate da lavora-tori occupati in piccole industrie, anche se la maggiorparte di loro coltiva un orticello, un frutteto o un cam-po, oppure si avvale semplicemente di un qualche dirit-to sui pascoli comuni, a differenza di quelli che vivonoesclusivamente dei propri redditi industriali.

Quanto alla commercializzazione dei prodotti, le pic-cole industrie offrono la stessa varietà di organizzazio-ne. E anche qui abbiamo due grandi settori. Nel primoil lavoratore vende il proprio prodotto direttamente algrossista; è il caso degli ebanisti, dei tessitori e dei fab-bricanti di giocattoli. Nell’altra grande categoria il lavo-ratore produce per un «padrone», e questi vende il pro-dotto a un grossista o agisce semplicemente da interme-diario raccogliendo a sua volta le commissioni da qual-che grossa azienda. È questa «l’organizzazione delsudore» propriamente detta, in cui troviamo una miria-de di piccole industrie. È il caso di parte dei fabbricantidi giocattoli, dei sarti che lavorano per grandi ditte diconfezioni, molto spesso per quelle di Stato, delle donneche cuciono e abbelliscono i gambali per i calzaturifici, eche spesso trattano con la fabbrica come con un inter-mediario del «sudore», ecc. In tale organizzazione per lacommercializzazione dei prodotti si riscontrano ovvia-mente tutte le gradazioni possibili di feudalizzazione esottofeudalizzazione del lavoro.

E ancora, quando si considerano gli aspetti indu-striali o, piuttosto, tecnici delle piccole industrie, si sco-pre ben presto la stessa varietà di caratteri. Anche quiabbiamo due grandi settori: da una parte le lavorazionia domicilio – vale a dire quelle esercitate in casa dallavoratore, con l’aiuto della famiglia o di un paio disalariati – e quelle esercitate in officine distaccate. Inentrambi i settori, ci si imbatte in tutte le varietà appe-na menzionate per quanto riguarda la connessione conla terra e con i diversi modi di disporre del prodotto.Tutte le attività possibili – la tessitura, la lavorazionedel legno, del metallo, dell’osso, della gomma, ecc. –

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possiamo ritrovarle sotto la categoria delle lavorazionia domicilio, con tutte le possibili gradazioni tra la formaprettamente «domestica» di produzione, l’officina e lafabbrica.

Così, accanto alle attività industriali esercitate inte-ramente in casa da uno o più membri della famiglia, visono le attività industriali in cui il proprietario tieneuna piccola officina annessa alla casa e vi lavora contutta la famiglia o con pochi «aiutanti», e cioè dei sala-riati. In alcuni casi l’artigiano dispone invece di un’offi-cina a parte, dotata di energia idraulica, come nel casodei fabbricanti di coltelli di Sheffield. In altri, diversilavoratori si mettono insieme in una piccola fabbrica diloro proprietà, o affittata in associazione, o dove posso-no lavorare per un certo affitto settimanale. E in ognu-no di questi casi possono lavorare direttamente per ilcommerciante, o per un piccolo padrone, o per un inter-mediario.

Uno stadio ulteriore di questo sistema è la grandefabbrica, specialmente di abiti già confezionati, in cuicentinaia di donne pagano un tanto per la macchina dacucire, il gas, i ferri a gas, ecc., e a loro volta ricevonoun tanto per ogni capo di abbigliamento che cuciono oper ogni parte di esso. Immense fabbriche del genereesistono in Inghilterra, e si è appreso dalle testimonian-ze rese davanti alla «Commissione del sudore», che intali laboratori le donne vengono terribilmente sfruttate,al punto che il prezzo completo di ogni capo di vestiarioleggermente rovinato viene dedotto dai loro bassissimisalari a cottimo.

E, infine, c’è la piccola officina (spesso con presad’energia motrice a nolo) in cui il piccolo imprenditoreimpiega da 3 a 10 lavoranti salariati, vendendo il pro-dotto a un commerciante o a un imprenditore più gros-so: con tutte le possibili gradazioni tra un’officina delgenere e la fabbrica di piccole dimensioni, in cui a voltealcuni salariati (tra i 5 e i 20) vengono impiegati da unproduttore indipendente. Nell’industria tessile, la tessi-tura viene spesso fatta dal nucleo familiare o da un pic-

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colo imprenditore che impiega talvolta solo un ragazzotalvolta diversi tessitori. Questi, dopo avere avuto ilfilato da un grosso imprenditore, paga un operaio spe-cializzato per metterlo sul telaio e crea quanto occorreper tessere un determinato, e a volte molto sofisticato,disegno; dopo avere tessuto la stoffa o i nastri con il suotelaio, o con un telaio preso a nolo, viene pagato perogni pezzo di stoffa secondo una scala molto complicatadi compensi pattuiti tra padroni e lavoranti. Quest’ulti-ma forma, come vedremo tra poco, oggi è largamentediffusa, soprattutto nelle industrie della lana e dellaseta, e continua a esistere accanto alle grandi fabbrichein cui 50, 100 o 5.000 salariati, a seconda dei casi, lavo-rano con il macchinario dell’imprenditore e vengonopagati a salari giornalieri o settimanali.

Le piccole industrie sono dunque un mondo che, inmodo abbastanza sorprendente, continua a esistereanche nei Paesi più industrializzati, fianco a fianco conle grandi fabbriche. E in questo mondo dobbiamo orapenetrare per gettarvi un’occhiata: solo un’occhiata per-ché occorrerebbero pagine e pagine per descrivernel’infinita varietà non solo di attività e organizzazionema anche di interrelazione con l’agricoltura e con lealtre industrie.

La maggior parte delle attività artigianali, fattaeccezione per alcune di quelle connesse con l’agricoltu-ra, si trovano, dobbiamo riconoscerlo, in posizione deci-samente precaria. I guadagni sono molto bassi e l’im-piego è spesso incerto. La giornata lavorativa è più lun-ga di due, tre o quattro ore rispetto a quella delle fab-briche ben organizzate, e in certe stagioni raggiungeuna durata quasi inverosimile. Le crisi sono frequenti esi protraggono per anni. Inoltre, il lavoratore è moltopiù alla mercé del commerciante o dell’imprenditore, el’imprenditore è alla mercé del grossista. Entrambirischiano di divenire schiavi di quest’ultimo, indebitan-dosi con lui. In alcune delle attività artigianali, soprat-tutto nella fabbricazione di tessuti comuni, i lavoratorisopravvivono in condizioni spaventosamente misere.

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Ma chi pretende che tale miseria costituisca la regola sisbaglia del tutto. Chiunque abbia vissuto, ad esempio,tra gli orologiai della Svizzera e ne conosca intimamen-te il modo di vivere, ammetterà che le condizioni di que-sti lavoratori sono di gran lunga superiori, sotto ogniriguardo, morale e materiale, alle condizioni di milionidi operai di fabbrica. Persino durante la crisi dell’orolo-geria, che ebbe luogo tra il 1876 e il 1880, le loro condi-zioni sono rimaste di gran lunga preferibili alle condi-zioni degli operai di fabbrica durante una qualsiasi crisidell’industria laniera o cotoniera; e gli stessi lavoratorine erano ben coscienti.

Ogni volta che scoppia una crisi in qualche settoreartigianale, non manca chi profetizza che quel mestieresi avvia a scomparire. Durante la crisi di cui, vivendotra gli orologiai svizzeri, io stesso fui testimone nel1877, l’impossibilità di salvaguardare questa attività difronte alla concorrenza degli orologi fatti a macchinaera l’argomento principe della stampa. Le stesse cosefurono dette, nel 1882, a proposito dell’industria sericadi Lione, e di fatto ovunque si sia avuta una crisidell’artigianato. E tuttavia, nonostante le tetre profeziee le ancor più tetre prospettive per i lavoratori, quellaforma d’industria non è ancora scomparsa. E anchequando ne scompare qualche settore, qualcosa comun-que rimane: alcuni rami continuano ad esistere comepiccole industrie (orologeria di precisione, sete più raffi-nate, velluti di prima qualità, ecc.), o al posto dei vecchinascono nuovi settori a essi connessi, o ancora la picco-la industria, avvantaggiandosi di un motore meccanico,assume una nuova forma. La scopriamo quindi dotatadi straordinaria vitalità. Essa passa attraverso variemodifiche, si adatta a nuove condizioni, lotta senzaabbandonare la speranza in tempi migliori. In ognicaso, le sue non sono le caratteristiche di un’istituzionein decadenza. In alcune attività industriali la fabbricaha senza dubbio la meglio, ma vi sono altri settori incui i laboratori artigianali mantengono le loro posizioni.E nella stessa industria tessile che tanti vantaggi pre-

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senta per il sistema industriale – specialmente in con-seguenza dell’ampio impiego lavorativo di donne e bam-bini – il telaio a mano compete ancora con quello mec-canico.

Nel complesso, la trasformazione dell’artigianato ingrande industria procede con una lentezza che non puònon sorprendere anche coloro che sono convinti dellasua necessità. Oltretutto, a volte assistiamo anche alprocesso inverso: di tanto in tanto, ovviamente, e soloper un certo periodo. Non dimenticherò mai il mio stu-pore quando constatai a Verviers, una trentina di annifa, come la maggior parte delle fabbriche di stoffe dilana – immensi edifici affacciati sulla strada con più dicento finestre l’uno – fosse immersa nel silenzio e il lorocostoso macchinario lasciato ad arrugginire, mentre lestoffe venivano tessute a mano nelle case dei tessitoriper i proprietari di quelle stesse fabbriche. Abbiamoqui, naturalmente, solo un fatto occasionale, che si spie-ga interamente col carattere spasmodico dell’industriae con le gravi perdite sostenute dai proprietari dellefabbriche allorché non sono in grado di farle funzionaretutto l’anno. E tuttavia questo dimostra gli ostacoli concui la trasformazione deve fare i conti. Quanto all’indu-stria serica, essa continua a diffondersi per l’Europanella sua forma d’industria rurale, mentre centinaia dinuove attività artigianali compaiono ogni anno, e nontrovando nessuno che le eserciti nei villaggi – comeavviene in questo Paese – trovano rifugio nei sobborghidelle grandi città, come abbiamo appena appresodall’inchiesta sull’ «organizzazione del sudore».

Oggi, i vantaggi offerti dalla grande fabbrica in con-fronto all’artigianato si presentano da sé per quantoriguarda l’economia di lavoro e soprattutto – ed è questoil punto principale – le possibilità sia di vendita sia dirifornimento delle materie prime a prezzo inferiore.Come possiamo allora spiegarci la persistenza dell’arti-gianato? Molte cause, la maggior parte delle quali non èpossibile valutare in scellini, giocano a favore dell’arti-gianato, e queste cause le coglieremo meglio dalle dimo-

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strazioni che seguono. Devo dire, però, che una panora-mica anche breve delle innumerevoli attività industria-li esercitate su piccola scala in questo Paese e sul conti-nente, sconfinerebbe alquanto dallo scopo di questocapitolo. Quando ho cominciato a studiare l’argomento,una trentina di anni fa, non immaginavo neppure, dallascarsa attenzione prestatagli dagli economisti ortodos-si, quale vasta, complessa, importante e interessanteorganizzazione sarebbe apparsa alla fine di un’indaginepiù accurata. [...]

Gli artigiani rappresentano, dunque, un importantefattore della vita industriale nella stessa Gran Breta-gna, anche se molti di loro si sono insediati in città. Mase troviamo in questo Paese così poche industrie ruralirispetto al continente, non dobbiamo immaginare che laloro scomparsa sia dovuta a una più intensa concorren-za delle fabbriche: la causa principale è stata l’esodoforzato dai villaggi.

Come tutti sanno dall’opera di Thorold Rogers, lacrescita della struttura industriale in Inghilterra è inti-mamente connessa con quell’esodo forzato. Interi setto-ri industriali, che fino ad allora avevano prosperato,sono stati stroncati dallo spopolamento forzato dellecampagne. Le officine, ancor più delle fabbriche, si mol-tiplicano dovunque si trovi manodopera a basso costo, el’aspetto specifico di questo Paese è che la manodoperapiù a buon mercato – vale a dire la gran massa deipoveri – si trova nelle grandi città. [...]

In realtà, la diffusione delle officine artigiane a fian-co delle grandi fabbriche non ci deve affatto stupire:essa rappresenta una necessità economica. L’assorbi-mento delle piccole officine da parte delle aziende piùgrandi è un fatto che aveva già colpito gli economistinegli anni Quaranta dello scorso secolo, soprattutto nel-le industrie tessili. Questo processo va tuttora avanti inmolti altri settori e interessa soprattutto un certonumero di aziende molto grandi impegnate nella metal-

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lurgia e nelle forniture militari ai vari Stati. Ma c’è unaltro processo che va avanti parallelamente a questo eche consiste nella creazione continua di nuove indu-strie, di solito avviate su piccola scala. Ogni nuova fab-brica chiama in vita una quantità di nuove piccole offi-cine, in parte per sopperire al proprio fabbisogno e inparte per sottomettere il suo prodotto a una trasforma-zione ulteriore. Così, per citare un solo esempio, i coto-nifici hanno creato un’enorme domanda di rocchetti dilegno e di bobine, e migliaia di uomini del Lake Districtsi sono messi a fabbricarli, prima a mano e più tardicon l’aiuto di qualche semplice macchinario. Solo direcente, dopo che sono stati spesi anni a inventare eperfezionare i macchinari, si è cominciato a produrre irocchetti su scala industriale. E ancora oggi, essendo lemacchine molto costose, una gran quantità di rocchettiviene comunque fabbricata in piccole officine, con unmodesto aiuto delle macchine, mentre le fabbriche stes-se sono relativamente piccole e raramente occupano piùdi 50 operai, in maggioranza bambini. Quanto alle bobi-ne di forma irregolare, vengono ancora fatte a mano o,in parte, con l’aiuto di piccole macchine continuamenteinventate dagli operai stessi. Perciò nuove industriesorgono a soppiantare le vecchie e ognuna passa per lostadio preliminare della piccola scala prima di raggiun-gere quello della grande fabbrica; e tanto più è attivo lospirito creativo di una nazione, tanto più arriviamo aquesta fioritura di industrie. In proposito, abbiamol’esempio delle innumerevoli piccole fabbriche di bici-clette sorte recentemente in questo Paese e rifornite dipezzi già pronti dalle fabbriche più grandi. Un altroesempio comune è la produzione domestica o in piccoleofficine di scatole per fiammiferi, stivali, cappelli, dol-ciumi, generi di drogheria, ecc.

Inoltre, la grande fabbrica, generando nuovi bisogni,stimola la nascita di nuove attività artigianali. Il bassoprezzo dei cotoni e delle lane, della carta e dell’ottone,ha creato centinaia di nuove piccole industrie. Le no-stre case sono piene dei loro prodotti, per la maggior

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parte oggetti di creazione abbastanza moderna. E men-tre alcuni di questi sono ora prodotti in serie nelle gran-di fabbriche, tutti sono passati per lo stadio della picco-la officina prima che la domanda fosse abbastanza altada richiedere l’organizzazione della grande fabbrica.Quante più nuove invenzioni ci saranno, tante più pic-cole industrie del genere si creeranno; e ancora, quantopiù se ne creeranno, tanto più si diffonderà lo spiritocreativo, la cui mancanza è così giustamente avvertitain questo Paese (da W. Armstrong tra i tanti). Non dob-biamo stupirci, perciò, se vediamo in questo Paese cosìtante piccole industrie, dobbiamo piuttosto rimpiangereche tanta gente abbia abbandonato i villaggi a causadelle cattive condizioni della terra e che sia migrata inmassa nelle città, a scapito dell’agricoltura.

In Inghilterra, come dappertutto, le piccole industrierappresentano un fattore importante della vita indu-striale; ed è soprattutto nell’infinita varietà delle picco-le industrie, dove si utilizzano i prodotti semilavoratidelle grandi industrie, che si sviluppa lo spirito creativoe si elaborano i rudimenti delle future grandi industrie.Le piccole officine di biciclette, con le centinaia di picco-li perfezionamenti che hanno introdotto, hanno svolto,sotto i nostri stessi occhi, la funzione di cellule origina-rie per la grande industria automobilistica, e più tardiper quella aeronautica. I piccoli produttori di marmella-te dei villaggi sono stati i precursori e i padri dellegrandi fabbriche di conserve che oggi impiegano centi-naia di lavoratori, e così via.

Di conseguenza, affermare che le piccole industriesono destinate a scomparire, mentre ne vediamo appa-rire di nuove ogni giorno, significa semplicemente ripe-tere l’affrettata generalizzazione di chi, all’inizio del XIXsecolo, stava assistendo alla sostituzione del lavoromanuale con il lavoro meccanizzato nell’industria coto-niera: una generalizzazione che, come abbiamo visto ecome vedremo ancora meglio nelle pagine che seguono,non trova alcuna conferma nell’analisi delle industrie,grandi e piccole, e che viene rovesciata dai censimenti

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delle fabbriche e delle officine. Lungi dal manifestareuna tendenza a scomparire, le piccole industrie mostra-no al contrario la tendenza verso un ulteriore sviluppo,dato che la fornitura municipale di energia elettrica –come quella che c’è, ad esempio, a Manchester – per-mette al proprietario di una piccola fabbrica di fruire dienergia motrice a basso costo, esattamente nella quan-tità richiesta in ogni dato momento, e di pagare soloquanto è stato effettivamente consumato.

La varietà di piccole industrie che s’incontra in Fran-cia è infinita e rappresenta un aspetto quanto maiimportante dell’economia nazionale. Si calcola, in effet-ti, che metà della popolazione francese viva di agricol-tura e un terzo di industria, e che questo terzo si troviequamente distribuito tra grande e piccola industria. Aquesto andrebbe aggiunto un numero considerevole dicontadini che si dedicano alla piccola industria senzaabbandonare l’agricoltura; e i guadagni supplementariche questi contadini ne ricavano sono così importantiche in diverse parti della Francia la proprietà contadi-na non potrebbe essere mantenuta senza l’aiuto delleindustrie rurali.

I piccoli proprietari rurali sanno che cosa li aspette-rebbe il giorno in cui diventassero manodopera di fab-brica in città, e finché gli usurai non riusciranno a spo-destarli delle loro terre e case, e il villaggio non perderài diritti sui pascoli o sui boschi comunali, si tengono benstretti a questa combinazione di industria e agricoltura.Non possedendo, nella maggior parte dei casi, animaliper arare la terra, fanno ricorso a un espediente larga-mente diffuso, se non universale, tra i piccoli proprieta-ri terrieri francesi, anche nei distretti puramente rura-li. Chi dei contadini possiede un aratro e un tiro dicavalli, dissoda a turno tutti i campi. Nello stesso tem-po, grazie al perpetuarsi di uno spirito comunitario, delquale ho parlato altrove, un ulteriore sostegno vienetrovato nel pascolare e nel torchiare il vino in comune oin altri svariati modi di mutuo appoggio esistenti tra icontadini. E dovunque si mantenga lo spirito comunita-

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rio di villaggio, le piccole industrie persistono, mentrenon si risparmiano sforzi per coltivare intensamente ipiccoli poderi.

Orticoltura da mercato e frutticoltura spesso vannodi pari passo con le piccole industrie. E dovunque siricavi un po’ di benessere da un suolo relativamenteimproduttivo, lo si deve quasi sempre a una combina-zione delle due attività sorelle.

Nello stesso tempo, è possibile notare come le piccoleindustrie si adattino straordinariamente ai nuovi biso-gni e a un sostanziale progresso tecnico dei metodi diproduzione. Nelle regioni boschive del Perche e del Mai-ne troviamo ogni genere di industrie del legno, le quali,evidentemente, possono essere mantenute solo graziealla proprietà comunale dei boschi. Nei pressi dellaforesta di Perseigne c’è un piccolo borgo, Fresnaye, inte-ramente popolato da lavoratori del legno.

A Thiers, dove si producono le posaterie più a buonmercato, la divisione del lavoro, il basso affitto dellepiccole officine rifornite di forza motrice dal fiumeDurolle o da piccoli motori a gas, l’apporto di un’infinitàdi attrezzi meccanici inventati all’occorrenza, e la com-binazione esistente tra lavoro meccanico e lavoromanuale hanno condotto a una tale perfezione l’appara-to tecnico di questa attività industriale che ci si chiedese l’organizzazione di fabbrica possa economizzare ulte-riormente il lavoro. Per dodici miglia attorno a Thiers,in ogni direzione, tutti i ruscelli sono punteggiati di pic-cole officine che danno lavoro ai contadini senza chequesti smettano di coltivare i campi.

La canestreria è anch’essa un’importante attivitàartigianale in diverse parti della Francia, e precisa-mente nell’Aisne e nell’Alta Marna. In quest’ultimodipartimento, a Villaines, sono tutti canestrai, «e ognicanestraio fa parte di una società cooperativa», comeosserva Ardouin Dumazet. «Non ci sono imprenditori;tutto il prodotto viene portato ogni quindici giorni aimagazzini della cooperativa e lì venduto per contodell’associazione. A questa appartengono circa 150

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famiglie, e ciascuna possiede una casa e dei vigneti». AFays-Billot, sempre nell’Alta Marna, 1.500 canestraifanno parte di un’altra associazione, mentre a Thiéra-che, dove parecchie migliaia di uomini esercitano lastessa attività, non è stata formata alcuna associazionee di conseguenza i guadagni sono nettamente più bassi.

A Héricourt, un’infinità di piccole industrie è sortaaccanto alle grandi fabbriche di ferramenta. La città siriversa nei villaggi, dove la popolazione fabbrica maci-nacaffè, macinapepe, macchine per tritare il mangimeper il bestiame, così come selle, piccoli articoli di ferra-menta, o persino orologi. Altrove, dove la fabbricazionedei vari pezzi dell’orologio è stata monopolizzata dallefabbriche, le officine hanno cominciato a fabbricare pez-zi di bicicletta, e più tardi di automobile. In breve, tro-viamo qui tutto un mondo di industrie di tipo modernoe, con esse, di invenzioni realizzate per semplificare illavoro manuale.

Ogni casa contadina, ogni fattoria e ogni métayeriedelle zone collinose del Beaujolais e del Forez era untempo una piccola officina, e si potevano vedere, comeha scritto Reybaud nel 1863, ragazzi di vent’anni inten-ti a ricamare delicate mussoline dopo aver finito dipulire le stalle delle fattorie, senza che quel delicatolavoro risentisse della combinazione di due occupazionicosì disparate. Al contrario, la delicatezza del lavoro el’estrema varietà dei disegni erano le caratteristichetipiche delle mussoline di Tarare e la ragione del lorosuccesso. Tutte le testimonianze concordavano nel rico-noscere che, quando l’agricoltura trovava sostegnonell’industria, la popolazione agricola godeva di un cer-to benessere.

Ciò che più merita la nostra ammirazione non è tan-to lo sviluppo delle grandi industrie – le quali, dopotut-to, qui come altrove, sono in gran parte di origine inter-nazionale – quanto le doti creative e inventive e lecapacità di adattamento della gran massa di questeindustriose popolazioni. A ogni passo, nei campi, negliorti, nei frutteti, nei piccoli caseifici, nelle officine, nelle

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centinaia di piccole invenzioni fatte per queste attività,è possibile notare lo spirito creativo del popolo. In que-ste regioni si capisce meglio perché la Francia, pren-dendo la popolazione nel suo complesso, venga conside-rata la più ricca nazione d’Europa.

Il centro principale dell’artigianato in Francia è tut-tavia Parigi. Lì troviamo, accanto alle grandi fabbriche,un’impressionante varietà di officine per la fabbricazio-ne di merci di ogni genere, destinate sia al mercatointerno sia all’esportazione. Le officine artigianali diParigi prevalgono a tal punto sulle fabbriche che lamedia degli operai occupati nelle 98.000 fabbriche eofficine parigine è inferiore alle sei unità, mentre ilnumero di persone impiegate nelle officine con meno dicinque operai è quasi il doppio del numero di personeimpiegate negli stabilimenti più grandi. In effetti, Pari-gi è un grande alveare dove centinaia di migliaia diuomini e donne fabbricano in piccole officine ogni possi-bile genere di merci che richiedono abilità, gusto e crea-tività. Queste piccole officine, di cui tanto si loda ilgusto artistico e la rapidità di lavorazione, stimolanonecessariamente la capacità mentale dei produttori; epossiamo tranquillamente affermare che se gli operai diParigi sono generalmente considerati, e a ragione,intellettualmente più sviluppati degli operai di qualsia-si altra capitale europea, ciò lo si deve in gran parte altipo di lavoro che fanno: un lavoro che implica gustoartistico, abilità e soprattutto un’inventiva semprepronta a creare nuovi tipi di merci e ad accrescere dicontinuo e perfezionare le tecniche di produzione. Ed èassai probabile che se incontriamo una popolazionelavorativa molto evoluta anche a Vienna o Varsavia, dinuovo ciò dipende in gran parte dal notevole sviluppodelle piccole industrie dello stesso genere, le quali sti-molano l’inventiva contribuendo grandemente a svilup-pare l’intelligenza del lavoratore.

Le conclusioni da trarne sono state così formulate daLucien March: «In definitiva, durante gli ultimi cin-quant’anni si è avuta una notevole concentrazione di

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fabbriche nei grandi agglomerati», ma «questa concen-trazione non impedisce la persistenza di una certaquantità di piccole imprese, le cui dimensioni medie noncrescono che molto lentamente». Quest’ultimo fatto, inrealtà, lo abbiamo già rilevato dal nostro breve schizzosulla Gran Bretagna, e possiamo soltanto chiederci se –così stando le cose – la parola «concentrazione» siaindovinata. Ciò che vediamo in realtà è la comparsa, inalcuni settori dell’industria, di un certo numero digrandi stabilimenti, e soprattutto di fabbriche di mediagrandezza. Ma questo non impedisce minimamente checontinui a esistere un gran numero di piccole fabbriche,in settori diversi, o negli stessi settori dove sono com-parse le grandi fabbriche (tessili, metalmeccaniche), onei settori connessi e derivati da quelli principali, comel’industria dell’abbigliamento che trae origine da quellatessile. Quanto alle grandi deduzioni sulla «concentra-zione» effettuate da certi economisti, si tratta di sempli-ci ipotesi, utili naturalmente a stimolare la ricerca, madestinate a rivelarsi alquanto nocive quando vengonopresentate come leggi economiche, mentre in realtà nonsono affatto confermate da un’accurata osservazione deifatti.

Sfortunatamente, la discussione su questo importan-te argomento ha spesso assunto in Germania un carat-tere appassionato e persino di polemica personale. Daun lato, gli elementi ultraconservatori della politicatedesca hanno cercato, riuscendovi in certa misura, difare dell’artigianato e delle lavorazioni a domicilioun’arma per assicurare il ritorno ai «bei tempi andati».Hanno persino approvato una legge intesa a reintro-durre le superate, chiuse e patriarcali corporazioni – daassoggettare alla stretta supervisione e tutela delloStato – guardando a questa legge come a un’arma con-tro la socialdemocrazia. Dall’altro lato, i socialdemocra-tici, giustamente contrari a queste misure ma a lorovolta propensi a considerare astrattamente le questionieconomiche, attaccano ferocemente tutti coloro che nonsi piegano a ripetere le stereotipate frasi a effetto come

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«l’artigianato è in declino» e «prima scompare meglio è»perché così darà spazio alla concentrazione capitalisti-ca, la quale, secondo il credo socialdemocratico, «faràben presto la sua stessa rovina». E in questa avversioneper le piccole industrie naturalmente concordano congli economisti della scuola ortodossa, contro i quali siscagliano su quasi tutti gli altri punti.

Il fondamento di questo credo si trova in uno deicapitoli conclusivi del Capitale di Marx (il penultimo),in cui l’autore parlava della concentrazione del capitalescorgendovi la «fatalità di una legge naturale». In que-gli anni Quaranta questa idea della «concentrazione delcapitale», originata da quanto avveniva nelle industrietessili, ricorreva di continuo negli scritti di tutti i socia-listi francesi, specialmente in Considérant, e nei loroseguaci tedeschi, che se ne servivano come di un argo-mento a favore della necessità di una rivoluzione socia-le. Ma Marx era un pensatore troppo grande per nonaccorgersi dei susseguenti sviluppi della vita industria-le, imprevedibili nel 1848; e se fosse vissuto oggi, sicu-ramente non avrebbe chiuso gli occhi davanti alla for-midabile fioritura di tanti piccoli imprenditori e aipatrimoni della classe media realizzati in mille modiall’ombra dei moderni «milionari». Molto probabilmenteavrebbe anche notato l’estrema lentezza con cui procedela rovina delle piccole industrie: lentezza non prevedibi-le cinquanta o quarant’anni fa, dal momento che nessu-no era in grado di immaginare allora le possibilità futu-re dei trasporti o la crescente varietà della domanda, nél’attuale economicità della fornitura di piccole quantitàdi energia motrice. Essendo un pensatore, avrebbe stu-diato questi fatti, e molto probabilmente avrebbe miti-gato l’assolutezza delle sue formulazioni originarie,come in realtà fece una volta a proposito delle comunitàdi villaggio in Russia. Sarebbe quanto mai auspicabileche i suoi seguaci facessero minore affidamento su for-mule astratte – buone solo come parole d’ordine nellelotte politiche – e cercassero di imitare il loro maestronelle analisi dei fenomeni economici concreti.

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È evidente che in Germania un certo numero di atti-vità artigianali sono oggi destinate a scomparire, ma cene sono altre, al contrario, dotate di grande vitalità, etutte le probabilità depongono a favore della loro persi-stenza e del loro ulteriore sviluppo per molti anni avenire. Nella fabbricazione di certe stoffe tessute amilioni di metri, e meglio producibili con l’aiuto di unmacchinario complicato, la concorrenza del telaio amano contro il telaio meccanico non rappresenta cheuna semplice sopravvivenza, mantenibile per qualchetempo in determinate condizioni locali, ma destinata ascomparire.

Lo stesso si può dire di molti settori delle industriesiderurgiche, della fabbricazione di ferramenta, terra-glie, ecc. Ma dovunque siano necessari l’interventodiretto del gusto e dell’inventiva, dovunque debbanoessere di continuo introdotti nuovi generi di merci cherichiedono un rinnovamento continuo di macchine eattrezzi allo scopo di soddisfare la domanda (come nelcaso di tutti i tessuti alla moda, anche se fabbricati perrifornire le masse), dovunque vi sia una gran varietà dimerci e un’ininterrotta invenzione di nuovi prodotti(come nel caso dei giocattoli, della fabbricazione di stru-menti, orologi, biciclette e così via), e infine dovunquesia il senso artistico del singolo lavoratore a realizzare iprodotti migliori (come è il caso in centinaia di settoridi piccoli articoli di lusso), là c’è ampio spazio per leattività artigianali, le officine rurali, le lavorazioni adomicilio, e simili. In queste industrie occorrono eviden-temente più aria fresca, più idee, più visioni generali epiù cooperazione. E dove lo spirito d’iniziativa è statodestato in un modo o nell’altro, vediamo le industriemarginali assumere nuovo sviluppo, proprio comeavviene in Germania o, l’abbiamo appena visto, inFrancia.

In Germania, in quasi tutte le attività marginali lacondizione dei lavoratori è unanimemente descrittacome la più miserabile, e i tanti ammiratori della cen-tralizzazione che troviamo in Germania insistono sem-

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pre su tale miseria per predicare e auspicare la scom-parsa di «queste sopravvivenze medievali» che la «con-centrazione capitalistica» deve soppiantare per il benedel lavoratore. La verità, tuttavia, è che quando con-frontiamo le miserabili condizioni dei lavoratori delleindustrie marginali con le condizioni dei salariati dellefabbriche, nelle stesse regioni e nelle stesse attività,notiamo come la stessa identica miseria domini tra ilavoratori di fabbrica. Essi vivono, nei bassifondi dellecittà invece che in campagna, di salari che vanno dai 9agli 11 scellini la settimana, lavorano undici ore al gior-no, e sono oltretutto soggetti alla miseria straordinariain cui li precipitano le crisi ricorrenti. È solo dopo esse-re passati attraverso sofferenze di ogni genere nelle lot-te contro i proprietari delle fabbriche che alcuni lavora-tori sono riusciti, più o meno, qua e là, a strappare aipropri datori di lavoro un «salario che consenta di vive-re», e questo solo in certe attività.

Accogliere positivamente tutte queste sofferenze,vedendo in esse l’azione di una «legge naturale» e ilcammino necessario verso la necessaria concentrazionedelle industrie, sarebbe semplicemente assurdo. Masostenere che la pauperizzazione di tutti i lavoratori ela rovina di tutte le industrie artigianali rappresentinoil cammino necessario verso una più elevata forma diorganizzazione industriale, significa non solo affermarepiù di quanto si sia autorizzati ad affermare in baseall’imperfetto stato attuale della conoscenza economica,ma anche dimostrare un’assoluta mancanza di com-prensione del senso delle leggi sia economiche sia natu-rali. Al contrario, chiunque abbia studiato la questionedella crescita delle grandi industrie non può non con-cordare con Thorold Rogers, che considerava le soffe-renze inflitte alle classi lavoratrici a quello scopo comeassolutamente non necessarie, anzi inflitte per favoriregli interessi temporanei di pochi ma non certo quellidella nazione.

Un fatto domina in tutte le indagini condotte sullacondizione delle piccole industrie, e lo riscontriamo tan-

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to in Germania quanto in Francia o in Russia. In unenorme numero di attività a pesare contro la piccolaindustria e a favore della grande fabbrica non sono lasuperiorità dell’organizzazione tecnica o le economierealizzate sul prezzo dell’energia, ma sono le più van-taggiose condizioni di vendita del prodotto e di acquistodelle materie prime di cui le grandi aziende dispongo-no. Dovunque questa difficoltà sia stata superata – permezzo dell’associazione, o grazie ad un mercato certoper la vendita dei prodotti – si è sempre scoperto, pri-mo, che le condizioni dei lavoratori o degli artigianimigliorano immediatamente e, secondo, che si realizzaun rapido progresso nelle caratteristiche tecniche dellerispettive industrie. Nuovi procedimenti sono statiintrodotti per migliorare il prodotto oppure per accele-rarne la fabbricazione; nuovi strumenti meccanici sonostati inventati; si è fatto ricorso a nuove energie motri-ci; l’attività è stata riorganizzata in modo da diminuirei costi di produzione.

Al contrario, dovunque gli indifesi, isolati operai oartigiani continuano a rimanere alla mercé dei grossisti– che sempre, sin dai tempi di Adam Smith, «aperta-mente o tacitamente» operano di concerto per abbassa-re i prezzi a un livello quasi da fame, e tale è il caso perla stragrande maggioranza delle piccole industrie e del-le attività artigiane – la loro condizione è così penosache solo l’aspirazione dei lavoratori a una relativa indi-pendenza, e il fatto di sapere che cosa li aspetti in fab-brica, impedisce loro di unirsi alle file degli operai difabbrica. Sapendo che nella maggioranza dei casil’avvento della fabbrica significherebbe la perdita com-pleta del lavoro per la maggior parte degli uomini el’assunzione in fabbrica di bambini e ragazze, essi fan-no l’impossibile per impedire che facciano la loro com-parsa nel villaggio.

Quanto alle associazioni di villaggio, alla cooperazio-ne, e simili, non bisogna mai dimenticare quanto gelo-samente i governi tedesco, francese, russo e austriacoabbiano fino a oggi impedito ai lavoratori, e soprattutto

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ai lavoratori rurali, di partecipare a qualsiasi associa-zione con finalità economiche. In Francia i sindacaticontadini sono stati ammessi solo con la legge del 1884.Tenere il contadino al livello più basso possibile, permezzo di tasse, servitù della gleba e simili, è stata ed èancora la politica della maggior parte degli Stati conti-nentali. È stato solo nel 1876 che la Germania ha per-messo una certa estensione dei diritti di associazione; eancor oggi, una semplice associazione cooperativa perla vendita di prodotti artigianali viene subito considera-ta una «associazione politica» e assoggettata di conse-guenza alle usuali limitazioni, come l’esclusione delledonne e così via. Un impressionante resoconto dellapolitica relativa alle associazioni di villaggio è stato fat-to dal professor Issaieff, il quale ha pure parlato dellesevere misure prese dai grossisti del settore giocattoliper impedire ai lavoratori di entrare in rapporto direttocon i compratori stranieri.

Quando si prende in attenta considerazione la vitadelle piccole industrie e la loro lotta per la sopravviven-za, ci si accorge che non è vero che esse periscano per-ché «si può economizzare ricorrendo a un centinaio dicavalli-vapore invece che a un centinaio di piccoli moto-ri». Questo inconveniente non si manca mai di citarlo,benché sia stato facilmente eliminato a Sheffield, aParigi e in molti altri luoghi dove si affittano officinedotate di volano, alimentato da una macchina centraleo più spesso, come opportunamente osservato dal pro-fessor W. Unwin, dalla trasmissione elettrica dell’ener-gia. Esse periscono non perché nella produzione di fab-brica si può realizzare una notevole economia – in casimolto più frequenti di quanto di solito si suppongaavviene persino il contrario – ma perché il capitalistache impianta una fabbrica si emancipa dai grossisti edai dettaglianti di materie prime; e soprattutto siemancipa dai compratori del suo prodotto trattandodirettamente con chi compra all’ingrosso e con l’espor-tatore; o ancora, perché concentra in una sola aziendale differenti fasi della fabbricazione di un dato prodotto.

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A questo proposito sono quanto mai istruttive le pagineche Schulze-Gäwernitz ha dedicato all’organizzazionedell’industria cotoniera in Inghilterra, e alle difficoltàcon cui si sono dovuti confrontare i proprietari di coto-nifici tedeschi dal momento che dipendevano da Liver-pool per il cotone greggio. E ciò che caratterizza l’indu-stria del cotone, domina anche in tutti gli altri settori.

Se i posatieri di Sheffield che oggi lavorano nelle lorominuscole officine, dotate del volano di cui si è detto,fossero incorporati in una sola grande fabbrica, il princi-pale vantaggio che si realizzerebbe nella fabbrica nonsarebbe un’economia nei costi di produzione a pari qua-lità di prodotto; anzi, in una società per azioni i costipotrebbero persino aumentare. E tuttavia il prodottonetto aziendale (salari inclusi) probabilmente sarebbesuperiore alla somma degli attuali redditi dei singolilavoratori grazie ad un minor costo nell’acquisto del fer-ro e del carbone, e alle facilitazioni relative alla venditadel prodotto. La grande azienda troverebbe perciò i suoivantaggi non in quei fattori imposti attualmente dallenecessità tecniche dell’industria, ma negli stessi fattorieliminabili da un’organizzazione cooperativa. Tutte que-ste sono nozioni elementari per gli esperti del settore.

È quasi inutile aggiungere che un vantaggio ulterio-re per il grande imprenditore è che può trovare il mododi vendere anche un prodotto di qualità assai inferiore,purché ce ne sia da vendere una quantità considerevo-le. Tutti quelli che hanno familiarità con il commerciosanno, in verità, come un’enorme massa degli scambimondiali consista di scarti, di robaccia inviata in Paesilontani. Intere città, come abbiamo appena visto, nonproducono altro che merce scadente.

Al contempo, va considerato come un fatto fondamen-tale della vita economica europea che il fallimento di uncerto numero di piccole industrie, di attività artigianalie di lavorazioni a domicilio, sia stato provocato dallaloro incapacità di organizzare la vendita dei prodotti enon la loro produzione. Lo stesso fenomeno ricorre inogni fase della storia economica. L’incapacità di orga-

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nizzare la vendita senza cadere schiavi del mercante fuun fenomeno determinante nelle città medievali, che apoco a poco finirono sotto il giogo economico e politicodelle corporazioni commerciali semplicemente perchénon furono in grado di mantenere la vendita dei loroprodotti nelle mani della comunità nel suo complesso, odi organizzare la vendita di un nuovo prodotto nell’inte-resse della comunità. Quando il mercato di tali prodottidivenne da una parte l’Asia e dall’altra il Nuovo Mondo,il destino non poteva che essere questo, e dal momentoche il commercio aveva cessato di essere comunale edera diventato individuale, le città divennero preda dellerivalità tra le principali famiglie mercantili.

E ancor oggi, quando vediamo le società cooperativeavviate con successo sulla strada della produzione,mentre cinquant’anni fa mostravano invariabilmentescarse capacità produttive, possiamo concludere che lacausa dei passati fallimenti risiedeva non nella loroincapacità di organizzare adeguatamente la produzio-ne, ma nella loro incapacità di operare come venditoried esportatori del prodotto fabbricato. I loro successiattuali, al contrario, sono pienamente garantiti dalladisponibilità di una rete di distribuzione. La vendita èstata semplificata e la produzione resa possibile orga-nizzando prima di tutto il mercato.

Queste sono alcune delle conclusioni ricavabili dauno studio delle piccole industrie in Germania e altro-ve. E si può tranquillamente dire, riguardo alla Germa-nia, che se non verranno prese misure per sottrarre icontadini alla terra, come purtroppo è avvenuto in que-sto Paese, se al contrario il numero dei piccoli proprie-tari terrieri si moltiplicherà, inevitabilmente questi sirivolgeranno alle più svariate piccole industrie inaggiunta all’agricoltura, come hanno fatto e ancora fan-no in Francia. Qualunque passo si faccia per risvegliarela vita intellettuale nei villaggi, o per garantire i dirittidei contadini e del contado sulla terra, porterà necessa-riamente avanti la crescita industriale nei villaggi.

Se si vuol estendere questa ricerca ad altri Paesi, la

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Svizzera offre un vasto campo per osservazioni quantomai interessanti. Vi si nota la stessa vitalità in unamolteplicità di piccole industrie; e va citato quanto èstato fatto nei diversi cantoni per sostenere le piccoleindustrie con tre diversi tipi di provvedimenti: la pro-mozione della cooperazione; un’ampia diffusionedell’istruzione tecnica nelle scuole; l’introduzione dinuovi settori di produzione artigianale in diverse partidel Paese; e la fornitura di forza motrice a buon merca-to nelle case per mezzo di trasmissione idraulica o elet-trica dell’energia ricavata dalle cascate. Un altro librodi grandissimo interesse e valore si potrebbe scriveresu questo argomento, soprattutto sull’impulso dato auna quantità di piccole industrie, vecchie e nuove, permezzo della fornitura a buon mercato di energia motri-ce. Un tale libro sarebbe anche di grande interesse inquanto mostrerebbe in quale misura la combinazione diagricoltura e industria, da me descritta nella prima edi-zione di questo libro come «la fabbrica tra i campi», siaprogredita ultimamente in Svizzera, cosa che non puòmancare di colpire anche il viaggiatore occasionale.

I fatti che abbiamo brevemente passato in rassegnamostrano, in certo modo, i benefici che si potrebberotrarre da una combinazione tra agricoltura e industriase quest’ultima arrivasse al villaggio non nel suo aspet-to attuale di fabbrica capitalistica, ma in quello di pro-duzione industriale socialmente organizzata, con il pie-no supporto del macchinario e della preparazione tecni-ca. In effetti, l’aspetto più evidente delle piccole indu-strie è che un relativo benessere si riscontra solo dovesono combinate con l’agricoltura, dove i lavoratori sonorimasti proprietari del suolo e continuano a coltivarlo.Anche tra i tessitori francesi o moscoviti, che pure devo-no fare i conti con la concorrenza della fabbrica, dominaun relativo benessere grazie al fatto che non sono staticostretti a separarsi dalla terra. Al contrario, non appe-na le forti tasse o l’impoverimento dovuto a una crisihanno spinto il lavoratore a domicilio ad abbandonareil suo ultimo pezzo di terra all’usuraio, la miseria ha

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fatto il suo ingresso nella casa. Lo sfruttatore divieneonnipotente, si fa ricorso a uno sfibrante superlavoro el’intera industria cade spesso in rovina.

Fatti del genere, come anche la pronunciata tenden-za di alcune fabbriche a spostarsi nelle aree rurali, chesi fa sempre più palese e che ha trovato ultimamenteespressione nel movimento delle «Città-giardino», sonomolto indicativi. Naturalmente, sarebbe un grosso erro-re immaginare il ritorno dell’industria al suo stadiomanuale allo scopo di combinarsi con l’agricoltura.Ogni volta che è possibile risparmiare lavoro umanoper mezzo di una macchina, la macchina è benvenuta eva impiegata; e non c’è quasi settore dell’industria incui il lavoro meccanico non possa essere introdotto congrande vantaggio, almeno in alcune fasi della produzio-ne. Nell’attuale stato caotico dell’industria, chiodi etemperini a basso prezzo si possono ancora fare a ma-no, e i cotoni comuni si possono ancora tessere col telaioa mano. Ma una anomalia del genere non durerà: lamacchina prenderà il posto del lavoro manuale nellafabbricazione delle merci comuni. Nello stesso tempo,però, il lavoro manuale estenderà il proprio dominiosulla rifinitura artigianale di molte merci che vengonooggi interamente prodotte in fabbrica, e rimarrà sem-pre un fattore importante per la nascita di migliaia dinuove produzioni industriali.

Ma ecco sorgere alcuni quesiti: perché i cotoni, lestoffe di lana e le sete, oggi tessuti a mano nei villaggi,non dovrebbero essere tessuti a macchina negli stessivillaggi senza che per questo si tralasci il lavoro neicampi? Perché centinaia di industrie a domicilio, oggiesercitate interamente a mano, non dovrebbero farricorso a macchine che risparmino il lavoro, come giàavviene nella fabbricazione delle maglie e in molti altricampi? Non c’è ragione perché i piccoli motori non deb-bano avere un uso molto più generalizzato di oggi,dovunque non ci sia bisogno di una fabbrica; e non c’èragione perché il villaggio non debba avere la sua picco-la fabbrica, dovunque il lavoro di fabbrica sia preferibi-

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le, come già si vede di tanto in tanto in certi villaggidella Francia.

Ma c’è di più. Non c’è ragione per cui la fabbrica, conla sua energia motrice e il suo macchinario, non debbaappartenere alla comunità, come già avviene per la for-za motrice nelle già menzionate officine e piccole fabbri-che della zona collinare francese del Giura. È evidenteche oggi, sotto il sistema capitalistico, la fabbrica è lamaledizione del villaggio dato che giunge a sottoporre ibambini a un lavoro eccessivo e a impoverire i suoi abi-tanti maschi; ed è del tutto naturale che essa incontril’ostilità assoluta dei lavoratori quando questi riesconoa mantenere l’organizzazione delle loro antiche attività(come a Sheffield o a Solingen), o quando non sono statiridotti in completa miseria (come nel Giura). Ma conun’organizzazione sociale più razionale, la fabbrica nontroverebbe ostacoli come questi: sarebbe un bene per ilvillaggio. E abbiamo già un’inequivocabile prova chedimostra come passi in questa direzione siano già statifatti in alcune comunità rurali.

I vantaggi fisici e morali che l’uomo trarrebbe divi-dendo il suo lavoro tra il campo e l’officina si presenta-no da sé. La difficoltà starebbe, ci dicono, nella necessa-ria centralizzazione delle industrie moderne. Nell’indu-stria, come anche in politica, la centralizzazione vantamolti ammiratori! Ma in entrambi i campi l’ideale deicentralizzatori sfortunatamente ha bisogno di essereriveduto. In effetti, se analizziamo le industrie moder-ne, scopriamo ben presto che per alcune di esse la colla-borazione di centinaia, o persino di migliaia, di lavora-tori raggruppati nello stesso posto è realmente necessa-ria. Le grandi fonderie e le imprese minerarie appar-tengono decisamente a questa categoria: i transatlanti-ci non si possono costruire nelle officine di villaggio. Mamoltissime grosse fabbriche non sono altro che agglo-merati, sotto un’amministrazione comune, di parecchieindustrie distinte, mentre altre sono semplici agglome-rati di centinaia di esemplari di un’identica macchina; etali appunto sono la maggior parte delle nostre gigante-

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sche filande e tessiture.Essendo la fabbrica un’impresa strettamente priva-

ta, i suoi proprietari trovano vantaggioso tenere tutti isettori di una determinata industria sotto la propriaamministrazione; in questo modo cumulano i profittidelle successive trasformazioni della materia prima. Equando diverse migliaia di telai meccanici si trovanoriuniti in una sola fabbrica, il proprietario realizza unulteriore vantaggio nella possibilità di controllare ilmercato. Ma dal punto di vista tecnico i vantaggi di unasimile accumulazione sono insignificanti e spesso incer-ti. Anche un’industria così centralizzata come quellacotoniera non ha risentito affatto dall’aver suddiviso levarie fasi di lavorazione di una data produzione in fab-briche distinte: lo si è visto a Manchester e nelle cittàvicine. Quanto alle piccole industrie, non si è riscontra-to alcun inconveniente nella ulteriore suddivisione trale officine della fabbricazione di orologi e di moltissimialtri prodotti.

Spesso sentiamo dire che un cavallo-vapore costatanto in un piccolo motore e nettamente meno in unmotore dieci volte più potente, o che una libbra di filatodi cotone costa molto meno quando la fabbrica raddop-pia il numero dei suoi fusi. Ma nell’opinione dei miglioriingegneri meccanici, come il professor W. Unwin, ladistribuzione idraulica e soprattutto quella elettrica dienergia da parte di una stazione centrale elimina il pri-mo punto della questione. Quanto al secondo, calcoli delgenere valgono solo per quelle industrie che preparanoprodotti semilavorati per ulteriori trasformazioni. Equanto alle innumerevoli specie di merci che si avvalgo-no del lavoro specializzato, le si può meglio produrre inpiccole fabbriche che impiegano poche centinaia o persi-no poche decine di operai. Ecco perché la «concentrazio-ne» di cui tanto si parla spesso non è altro che un’unio-ne di capitalisti allo scopo di controllare il mercato, nona quello di ridurre il costo dei processi tecnici.

Anche nelle condizioni attuali le fabbriche gigante-sche presentano grandi inconvenienti dato che non sono

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in grado di modificare rapidamente il proprio macchi-nario in sintonia con le domande continuamente va-rianti del consumatore. Quanti fallimenti di grandiaziende, troppo note in questo Paese perché se ne facciail nome, si devono a questo motivo durante la crisi deglianni tra il 1886 e il 1890! Quanto ai nuovi settoridell’industria che ho menzionato prima, essi devonosempre avviarsi su piccola scala, e possono prosperaretanto nelle piccole città come nelle grandi se gli agglo-merati più piccoli dispongono di istituzioni che stimoli-no il gusto artistico e lo spirito di inventiva. I progressiraggiunti di recente nella fabbricazione dei giocattoli,come anche l’elevato grado di perfezione raggiunto nel-la fabbricazione di strumenti scientifici e ottici, di mobi-li, di piccoli articoli di lusso, di terraglie, costituisconoesempi significativi. L’arte e la scienza non sono più ilmonopolio delle grandi città, e ulteriori progressi si rag-giungeranno diffondendole ovunque.

In buona parte, la distribuzione geografica delleindustrie in un dato Paese dipende, ovviamente, da uncomplesso di condizioni naturali: è ovvio che certe loca-lità sono meglio indicate per lo sviluppo di determinateindustrie. Le sponde del Clyde e del Tyne sono certa-mente quanto mai indicate come cantieri navali, e icantieri navali devono essere circondati da una molte-plicità di officine e di fabbriche. Le industrie trarrannosempre vantaggio dall’essere raggruppate, e raggruppa-te in armonia con gli aspetti naturali delle singoleregioni. Ma dobbiamo ammettere che oggi esse non sitrovano affatto raggruppate in base a questi criteri.Cause storiche – principalmente guerre di religione erivalità nazionali – hanno avuto molto peso nella lorocrescita e nella loro distribuzione attuale. Inoltre, idatori di lavoro sono stati guidati dalla valutazione del-le possibilità di vendita e di esportazione: vale a dire,da considerazioni che vanno perdendo importanza viavia che aumentano le possibilità di trasporto, e chesempre più ne perderanno quando i produttori produr-ranno per se stessi e non per clienti lontani.

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Perché, in una società organizzata razionalmente,Londra dovrebbe rimanere il grande centro dell’indu-stria conserviera e fabbricare ombrelli per quasi tuttala Gran Bretagna? Perché le innumerevoli piccole indu-strie di Whitechapel dovrebbero rimanere dove sonoinvece di diffondersi per tutto il Paese? Non c’è ragionealcuna per cui i mantelli indossati dalle signore inglesidebbano essere cuciti a Berlino e a Whitechapel inveceche nel Devonshire o nel Derbyshire. Perché Parigidovrebbe raffinare lo zucchero per quasi l’intera Fran-cia? Perché metà degli stivali e delle scarpe che si usa-no negli Stati Uniti dovrebbe essere fabbricata nei1.500 laboratori del Massachusetts? Non c’è assoluta-mente ragione per cui queste e altre anomalie del gene-re continuino ad esistere. Le industrie devono dissemi-narsi in tutto il mondo; e la disseminazione delle indu-strie in tutte le nazioni civili sarà necessariamenteseguita da un’ulteriore disseminazione delle fabbrichenei territori di ciascuna nazione.

Nel corso di questa evoluzione, i prodotti naturali diciascuna regione e le sue condizioni geografiche saran-no certamente uno dei fattori che determineranno iltipo di industria destinata a svilupparsi in quell’area.Ma quando vediamo che la Svizzera è divenuta unagrande esportatrice di locomotive e di navi a vapore,benché non abbia miniere di ferro né carbone per otte-nere l’acciaio, e non abbia neppure porti per importarli;quando vediamo che il Belgio è riuscito a diventare ungrande esportatore di uve, e che Manchester si è datada fare per diventare un porto, comprendiamo che nelladistribuzione geografica delle industrie i due fattori delprodotto locale e di una vantaggiosa vicinanza col marenon costituiscono i fattori dominanti. Cominciamo acapire che, tutto considerato, il fattore intellettuale – lospirito creativo, la capacità di adattamento, la libertàpolitica, ecc. – è quello che conta più di tutti gli altri.

Che ciascuna attività industriale tragga vantaggiodall’essere esercitata in stretto contatto con una granvarietà di altre attività industriali, il lettore lo ha già

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rilevato da numerosi esempi. Ogni industria richiedeun ambiente tecnologizzato. Ma la stessa cosa si puòdire anche dell’agricoltura.

L’agricoltura non si può sviluppare senza l’aiuto del-la meccanica, e l’uso di macchinari avanzati non puòdivenire generale senza un’industrializzazione diffusa:senza officine meccaniche facilmente accessibili al colti-vatore del suolo, l’uso del macchinario agricolo non èpossibile. Il fabbro del villaggio non basterebbe. Se illavoro di una trebbiatrice dev’essere sospeso per unasettimana o più perché uno dei denti della ruota si èrotto, e se per avere una nuova ruota bisogna mandareun corriere particolare nella provincia vicina, alloral’uso di una trebbiatrice diventa impossibile. Ma questoè proprio quanto vidi durante la mia infanzia nellaRussia centrale; e abbastanza di recente ho trovatol’identico fatto menzionato in un’autobiografia inglesedella prima metà del XIX secolo. Inoltre, in tutta la par-te settentrionale della zona temperata, chi coltiva ilsuolo deve trovare una sorta di impiego industrialedurante i lunghi mesi invernali. Cosa che è stataappunto realizzata con il grande sviluppo delle indu-strie rurali, delle quali abbiamo appena visto esempicosì interessanti. Ma questo bisogno viene avvertitoanche nel clima più mite delle isole della Manica, nono-stante l’estensione raggiunta dall’orticoltura in serra.«Abbiamo bisogno di tali industrie. Potreste suggerirce-ne qualcuna?», mi ha domandato uno dei miei corri-spondenti di Guernsey.

Ma non è tutto. L’agricoltura ha così bisogno dell’aiu-to di coloro che abitano nelle città che ogni estatemigliaia di uomini lasciano i loro bassifondi urbani evanno in campagna per la stagione dei raccolti. I poveridi Londra si recano a migliaia nel Kent e nel Sussexper la raccolta del fieno e del luppolo, giacché si valutache il solo Kent abbia bisogno di 80.000 uomini e donnein più per raccogliere il solo luppolo; in Francia interivillaggi, e il loro artigianato, vengono abbandonati inestate perché i contadini si trasferiscono nelle parti più

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fertili del Paese; centinaia di migliaia di esseri umanivengono trasportati ogni estate nelle praterie del Mani-toba e del Dakota. E ogni estate, molte migliaia dipolacchi si riversano al tempo del raccolto nelle pianuredel Mecklenburg, della Westfalia e persino della Fran-cia; in Russia si verifica ogni anno un esodo di parec-chie migliaia di uomini che da nord si spostano verso lepraterie del sud per raccogliere le messi, tanto che mol-ti industriali di San Pietroburgo riducono in questa sta-gione la produzione proprio perché gli operai ritornanoai villaggi natali per coltivare i loro appezzamenti.

L’agricoltura non può andare avanti in estate senzamanodopera addizionale, ma essa necessita ancor dipiù di aiuti temporanei per migliorare il terreno e perdecuplicarne la produttività. La dissodazione meccani-ca del suolo, il prosciugamento e la concimazione fareb-bero delle pesanti argille a nordovest di Londra un ter-reno molto più ricco di quello delle praterie americane.Per divenire fertili, quelle argille hanno bisogno solo delsemplice, comune, lavoro umano, quello necessario perdissodare il suolo, collocare i tubi di drenaggio, polve-rizzare le fosforiti, e così via; e quel lavoro sarebbe dibuon grado adempiuto dai lavoratori di fabbrica, abeneficio dell’intera società, se fossero adeguatamenteorganizzati in una libera comunità. Il suolo reclama unaiuto del genere e lo avrebbe con un’organizzazioneadeguata, anche se per questo fosse necessario fermarein estate molte fabbriche. Non c’è dubbio che gli attualiproprietari di fabbrica considererebbero come una rovi-na dover fermare le fabbriche parecchi mesi l’anno, poi-ché il capitale investito in una fabbrica è destinato apompare denaro tutti i giorni e tutte le ore, se possibile.Ma questo è il punto di vista dei capitalisti, non dellacomunità.

Quanto ai lavoratori, che in realtà dovrebbero esserecoloro che gestiscono le industrie, sarà per loro salutarenon fare lo stesso monotono lavoro per tutto l’anno, eabbandonarlo in estate, se davvero non si trovasse il mododi tenere in funzione la fabbrica organizzando dei turni.

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La disseminazione delle industrie per tutto il Paese –in modo da portare la fabbrica tra i campi e da apporta-re all’agricoltura tutti quei benefici che essa trae sem-pre dalla combinazione con l’industria (come avvienesulla costa orientale degli Stati Uniti) – è certamente ilprimo passo da compiere, non appena si sia resa possi-bile una riorganizzazione delle nostre condizioni attua-li. E questo passo – che viene già fatto qua e là, comeabbiamo visto nelle pagine precedenti – lo impone unanecessità che è tale per gli stessi produttori: lo imponela necessità, per ogni uomo e donna sana, di passareparte della vita nel lavoro manuale all’aria aperta; ediventerà ancora più necessario quando i grandi som-movimenti sociali, oggi divenuti inevitabili, verranno aperturbare l’attuale scambio internazionale spingendoogni nazione a fare ricorso alle proprie risorse per man-tenersi. L’umanità intera, come ogni singolo individuo,guadagneranno nel cambio, e il cambio sarà inevitabile.

Per noi, però, esso implica anche una completa modifi-ca dell’attuale sistema educativo. Implica una societàcomposta da uomini e donne capaci di lavorare con leproprie mani ma anche con il proprio cervello, e di farloin più attività. È questa «integrazione di capacità», èquesta «istruzione integrale», che intendo ora analizzare.

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VIII

Kropotkin svolge una critica radicale al collettivismo,cioè a quel sistema che intende mantenere la remunera-zione individuale a fianco di una socializzazione deimezzi di produzione. Il collettivismo sia esso libertario oautoritario, non attuando una trasformazione veradell’esistente, implica una conseguenza contraddittoria,perché gli esiti della rivoluzione sociale risultano limita-ti da forme più arretrate dell’opera demolitrice dellarivoluzione medesima; esso, in altri termini, dimostra isuoi limiti rispetto al compito immane dell’emancipazio-ne integrale.

Si pensi, ad esempio, al superamento della divisionegerarchica del lavoro sociale, vera base strutturale delladisuguaglianza. Il regime collettivista, infatti, se da unlato intende socializzare i mezzi di produzione, dall’al-tro lascia intatta la diversa remunerazione individualescaturita dalla differente qualità di lavoro erogata daciascun membro della società. In tal modo, secondo Kro-potkin, si costituisce la sanzione «socialista» della gerar-chia sociale, la santificazione del principale ostacolodell’obiettivo egualitario.

Come Bakunin, Kropotkin ritiene che il superamentodella divisione gerarchica del lavoro sia la via maestraper l’abolizione delle classi. Ancora una volta, la norma

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del dover essere si coniuga con la constatazione dell’og-gettività necessitante della sua utilità pratica. Ne deri-va, in questo caso, l’idea del perseguimento dell’«uomocompleto». L’integrazione del lavoro, infatti, mira a svi-luppare un essere sociale «completo», mentre nello stessotempo abolisce la gerarchia sociale che sta alla base diogni disuguaglianza.

Vi è qui una perfetta analogia con il rapporto città-campagna. Infatti, come il lavoro intellettuale è domi-nante rispetto a quello manuale, così la posizione dellacittà è dominante rispetto a quella della campagna: nonsi può, insomma, integrare l’uno senza integrare l’altro.Perciò l’integrazione fra lavoro manuale e intellettuale èperfettamente complementare, in senso anarchico, aquella fra centro e periferia.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edi-zione italiana di Campi, fabbriche officine del 19822,nella traduzione (rivista) di Franco Marano.

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L’INTEGRAZIONE DEL LAVORO

In passato gli scienziati, soprattutto quelli che mag-giormente hanno contribuito allo sviluppo delle scienzenaturali, non disdegnavano il lavoro e le attivitàmanuali. Galileo si costruiva i telescopi da sé. Newtonapprese da ragazzo l’arte di maneggiare gli utensili edesercitava la sua giovane mente ideando le macchinepiù ingegnose; e quando intraprese le sue ricerche otti-che, fu in grado di fabbricarsi da solo le lenti per i suoistrumenti e di costruire, sempre da solo, il famoso tele-scopio, che rappresentò, per quei tempi, un ottimoesempio di abilità tecnica. Leibniz si dedicava con pas-sione all’invenzione di macchine: mulini a vento e carrisenza cavalli ne impegnavano la mente tanto quanto lespeculazioni matematiche e filosofiche. Linneo divennebotanico aiutando suo padre, esperto giardiniere, nei

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lavori di ogni giorno. In breve, per i grandi geni l’abilitàmanuale non costituiva un ostacolo alle ricerche teori-che: al contrario, le favoriva. D’altra parte, se in passa-to gli operai avevano ben poche occasioni di esercitarela scienza, molti di loro trovavano però uno stimolointellettuale nelle svariate occupazioni delle officinenon specializzate di allora; e alcuni ebbero la fortuna diintrattenere rapporti amichevoli con uomini di scienza.Watt e Rennie furono amici del professor Robinson; lostradino Brindley, malgrado il suo salario di 14 scellinigiornalieri, frequentava uomini istruiti ed ebbe cosìmodo di sviluppare le proprie notevoli doti ingegneristi-che; il rampollo di una famiglia benestante poteva «per-der tempo» nella bottega di un carradore, preparandosia divenire, più tardi, uno Smeaton o uno Stephenson.

Tutto questo è cambiato. Col pretesto della divisionedel lavoro, abbiamo nettamente separato il lavoratoreintellettuale dal lavoratore manuale. La massa deglioperai non riceve oggi maggiore istruzione scientifica diquanta ne ricevessero le generazioni passate; anzi, èstata privata persino dell’istruzione che può dare la pic-cola officina, mentre i suoi figli e figlie, dai tredici anniin poi, vengono avviati in miniera o in fabbrica, e lìdimenticano ben presto quel poco che hanno potutoimparare a scuola. Quanto agli uomini di scienza, essidisprezzano il lavoro manuale. Pochi sarebbero in gra-do di costruire un telescopio, o anche uno strumentomeno complesso! La maggior parte non sarebbe neppu-re capace di disegnare uno strumento scientifico, e unavolta dato allo strumentista un vago suggerimento,lascia a lui il compito di creare l’apparecchio di cui habisogno. Per di più, hanno elevato il disprezzo per illavoro manuale a livello di teoria. «All’uomo di scienza»,affermano, «scoprire le leggi della natura, all’ingegnereapplicarle, e all’operaio eseguire in acciaio o in legno, inferro o in pietra, i progetti ideati dall’ingegnere. Eglideve lavorare con le macchine ideate per lui, ma non dalui. Non importa che non le capisca e non sia in gradodi perfezionarle: lo scienziato e l’ingegnere penseranno

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al progresso della scienza e dell’industria».Si potrebbe obiettare che, ciononostante, esiste una

classe di uomini che non rientra in nessuna delle trecategorie appena delineate. Da giovani sono stati lavo-ratori manuali, e alcuni lo rimangono, ma grazie a for-tunate circostanze sono riusciti ad acquisire una certapreparazione scientifica e hanno perciò combinato lascienza con il mestiere. Uomini del genere esistono, esiamo fortunati che sia rimasto un certo numero di indi-vidui sfuggiti alla tanto decantata specializzazione dellavoro perché è proprio a loro che l’industria deve le sueprincipali e più recenti invenzioni. Ma nella vecchiaEuropa rappresentano un’eccezione: sono gli irregolari,i «cosacchi» che hanno rotto le righe e sfondato le barrie-re tanto laboriosamente erette tra le classi. E sono cosìpoco numerosi, in confronto alle sempre crescenti esi-genze dell’industria – e della scienza – che tutto il mon-do lamenta proprio la scarsità di uomini del genere.

Come si spiega, in effetti, la pressante richiesta diinsegnamento professionale sorta simultaneamente inInghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti e Russia, senon come la conseguenza di un generale malcontentoverso l’attuale divisione tra scienziati, ingegneri e ope-rai? Prestate orecchio a coloro che conoscono l’industriae sentirete che proprio questo è l’oggetto delle lorolamentele: «L’operaio, le cui mansioni sono diventatecosì specialistiche a causa della divisione permanentedel lavoro, ha perduto ogni interesse intellettuale nelproprio lavoro, e ciò è avvenuto soprattutto nelle grandiindustrie: egli ha perso le sue capacità creative. Unavolta creava in continuazione. È ai lavoratori manuali –e non agli uomini di scienza o agli esperti di ingegneria– che si deve l’invenzione o il perfezionamento deimotori e di tutta quella massa di macchinari che hannorivoluzionato l’industria negli ultimi cento anni. Ma daquando è sorta la grande fabbrica, l’operaio, depressodalla monotonia del proprio lavoro, non crea più nulla.Che cosa potrebbe inventare, infatti, un tessitore impe-gnato soltanto a sorvegliare quattro telai, senza sapere

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nulla dei loro complicati movimenti o del modo in cuiqueste macchine sono state concepite? Che cosa potreb-be creare un uomo condannato per tutta la vita adannodare alla massima velocità i capi di due fili e capa-ce soltanto di fare un nodo?

«All’inizio dell’industria moderna, tre generazioni dioperai sono stati capaci di inventare: oggi non lo fannopiù. Quanto alle invenzioni degli ingegneri particolar-mente esperti nella progettazione di macchine, o nonsono affatto geniali, o non sono abbastanza pratiche.Mancano in tali invenzioni quei ‘nonnulla’ di cui parla-va una volta a Bath sir Frederick Bramwell – quei non-nulla che si possono apprendere solo in officina e chepermisero a Murdoch e agli operai di Soho di ricavareuna macchina vera dai disegni di Watt. Solo chi conoscela macchina, non soltanto nei progetti e nei modelli manel respiro e nelle pulsazioni, solo chi inconsciamente lapensa mentre le sta vicino, può veramente perfezionar-la. Smeaton e Newcomen erano certamente eccellentiingegneri, ma nei loro motori un ragazzo doveva aprirela valvola del vapore a ogni colpo di pistone, e fu pro-prio uno di questi ragazzi a scoprire un giorno il mododi collegare la valvola al resto della macchina perché siaprisse automaticamente, mentre egli si allontanavaper giocare con i compagni. Tuttavia, nei macchinarimoderni i perfezionamenti improvvisati come questinon sono più possibili. E se per ulteriori invenzioni èdiventata necessaria l’istruzione scientifica su largascala, questa istruzione viene negata agli operai. E nonc’è verso di superare tale difficoltà, a meno che istruzio-ne scientifica e mestiere non vengano combinati; ameno che l’integrazione delle conoscenze non sostitui-sca le attuali specializzazioni».

Ecco la vera sostanza dell’attuale movimento a favo-re dell’insegnamento professionale. Ma invece di chiari-re al pubblico le ragioni, forse incomprese, dell’attualemalcontento, invece di allargare l’orizzonte degli scon-tenti e discutere il problema in tutta la sua estensione,i promotori del movimento non oltrepassano, in genere,

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il punto di vista di un bottegaio. Alcuni si perdono inchiacchiere sulla necessità di annientare la concorrenzadi tutte le industrie straniere; altri vedono nell’insegna-mento professionale solo uno strumento per perfeziona-re leggermente la macchina di carne della fabbrica epromuovere alcuni operai alla classe superiore degliingegneri.

Un simile ideale può bastare a loro, ma non certo aquanti, tenendo ben presenti gli interessi comuni dellascienza e dell’industria, considerano entrambe come ilmezzo per elevare il livello dell’umanità. Noi sostenia-mo che, nell’interesse della scienza e dell’industria,come anche della società nel suo complesso, ogni essereumano, senza distinzione di nascita, dovrebbe ricevereun’istruzione tale da permettergli di unire una solidapreparazione scientifica a una solida preparazione pro-fessionale. Riconosciamo, certo, la necessità di una pre-parazione specialistica, ma sosteniamo anche che laspecializzazione viene dopo l’istruzione generale e chel’istruzione generale deve comprendere tanto la scienzaquanto il mestiere. Alla divisione della società tra lavo-ratori intellettuali e lavoratori manuali contrapponia-mo l’unione di entrambi i tipi di attività; e invece cheper l’«insegnamento professionale», che sottintende ilmantenimento dell’attuale divisione tra lavoro intellet-tuale e lavoro manuale, siamo per l’éducation intégrale,l’istruzione integrale, che comporta la scomparsa di talenociva distinzione.

In parole povere, lo scopo della scuola in un similesistema dovrebbe essere il seguente: impartire un’istru-zione tale che, nel lasciare la scuola all’età di diciotto-vent’anni, ragazzi e ragazze fossero provvisti di unasolida preparazione scientifica – una preparazione chene facesse dei validi lavoratori scientifici – e nello stes-so tempo avessero in pugno le basi della preparazioneprofessionale; inoltre, dovrebbero disporre di una parti-colare specializzazione in grado di assicurare loro unposto nel grande mondo della produzione manuale diricchezza. So che molti troveranno questo scopo troppo

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ambizioso, o addirittura impossibile da raggiungere,ma spero che, se avranno la pazienza di leggere le pagi-ne che seguono, si accorgano che non chiediamo nulla diirrealizzabile. In effetti, tale scopo è già stato raggiun-to, e ciò che si è fatto in piccolo lo si potrebbe fare più ingrande se cause economiche e sociali non impedisserol’attuazione di ogni seria riforma nella nostra societàcosì infelicemente organizzata.

Lo spreco di tempo è l’aspetto dominante della nostraattuale istruzione. Non solo si insegnano un mucchio dicose inutili, ma ciò che inutile non è ci viene comunqueinsegnato in modo da farci sprecare su di esso quantopiù tempo possibile. I nostri attuali metodi di insegna-mento risalgono a un tempo in cui le doti richieste auna persona istruita erano estremamente limitate, esono rimasti inalterati anche se la mole di nozioni daindirizzare alla mente dello scolaro, dopo che la scienzaha tanto esteso i suoi antichi confini, sia immensamen-te cresciuta. Di qui l’oppressività delle scuole, e sempredi qui l’urgenza di rivedere interamente sia gli argo-menti sia i metodi di insegnamento in base alle nuoveesigenze e agli esempi già forniti, qui e là, da singolescuole e da singoli educatori.

È evidente che gli anni dell’infanzia non andrebberosprecati come oggi. I pedagoghi tedeschi hanno dimo-strato come gli stessi giochi infantili possano servire aindirizzare alla mente dei bambini qualche nozione con-creta di geometria e di matematica. I bambini che han-no realizzato i quadrati del teorema di Pitagora con deipezzi di cartone colorato non considereranno il teorema,quando lo ritroveranno in geometria, come un semplicestrumento di tortura inventato dagli insegnanti; e ciòsarà più vero se lo applicheranno come lo applicano icarpentieri. I complicati problemi di aritmetica, chehanno tanto tormentato la nostra infanzia, vengonofacilmente risolti da bambini di sette-otto anni se postisotto forma di interessanti giochi di pazienza. E se ilKindergarten – che i pedagoghi tedeschi spesso trasfor-mano in una specie di caserma, dove ogni movimento

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del bambino è regolato in anticipo – è spesso divenutouna prigione per i piccoli, l’idea dalla quale è nato è cio-nonostante valida. In effetti, è quasi impossibile imma-ginare, senza averlo verificato, quante solide nozioninaturali, quante abitudini alla classificazione e quantogusto per le scienze naturali possano essere indirizzatialle menti dei bambini. E se l’idea di una serie di corsiconcentrici, adeguati alle diverse fasi di sviluppodell’essere umano, venisse generalmente accolta nell’i-struzione, il primo corso di ogni scienza, eccettuata lasociologia, potrebbe essere insegnato prima dei dieci-dodici anni, dando così una visione generale dell’univer-so, della Terra e dei suoi abitanti, e dei principali feno-meni fisici, chimici, zoologici e botanici, e lasciando lascoperta delle leggi di tali fenomeni a corsi successivipiù approfonditi e specializzati.

D’altra parte, sappiamo tutti come i bambini aminocostruirsi da soli i giocattoli e come imitino spontanea-mente le occupazioni degli adulti quando li vedono allavoro in officina o nel cantiere. Ma i genitori talvoltabloccano stupidamente questa passione, talvolta nonsanno come utilizzarla. La maggior parte disprezza illavoro manuale e preferisce far studiare ai bambini lastoria romana, o i precetti di Franklin sul risparmio,anziché vederli al lavoro, buono «solo per le classi infe-riori». E in questo modo fanno del loro meglio per ren-dere più difficile l’apprendimento successivo.

Poi arrivano gli anni della scuola, e il tempo viene dinuovo incredibilmente sprecato. Prendiamo, ad esem-pio, la matematica, che tutti dovrebbero conoscere inquanto costituisce la base di ogni successiva istruzione,e che pochi imparano veramente nelle nostre scuole. Ingeometria il tempo viene scioccamente sprecato conl’uso del metodo mnemonico. Nella maggioranza deicasi, il ragazzo legge e rilegge più volte la dimostrazio-ne di un teorema, fino a quando non ha imparato amemoria la successione dei ragionamenti. È per questoche nove ragazzi su dieci, alla richiesta di dimostrareun semplice teorema due anni dopo aver lasciato la

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scuola, saranno incapaci di farlo, a meno che la mate-matica non sia la loro specializzazione. Essi avrannodimenticato le linee ausiliarie da tracciare non avendomai imparato a scoprire le prove da soli. Nessunameraviglia se più tardi, nell’applicare la geometria allafisica, incontreranno tante difficoltà, se il loro progressosarà disperatamente lento, e se pochi saranno in gradodi padroneggiare la matematica più complessa.

Esiste, tuttavia, un altro metodo, che consenteall’allievo di progredire, nel complesso, molto più velo-cemente e con il quale chi ha imparato la geometrianon la dimenticherà più. Con questo sistema, ogni teo-rema viene posto come un problema; la soluzione nonviene mai data in anticipo, ma l’allievo è costretto a tro-varla da solo. Così, se si sono fatti degli esercizi prelimi-nari con il regolo e il compasso, non c’è ragazzo o ragaz-za che non riesca a tracciare un angolo uguale a unaltro dato angolo e a dimostrarne l’uguaglianza dietropochi suggerimenti dell’insegnante; e se i problemiseguenti vengono dati in successione sistematica (esi-stono testi eccellenti in materia) e l’insegnante noncostringe gli allievi ad andare più in fretta di quantoall’inizio siano in grado, questi passeranno da un pro-blema all’altro con facilità sorprendente, una voltasuperata la difficoltà iniziale di indurre l’allievo a risol-vere il primo e perciò ad acquistare fiducia nel suo stes-so ragionamento.

Inoltre, ogni verità geometrica astratta va impressanella mente anche nella sua forma concreta. Non appe-na gli allievi avranno risolto dei problemi sulla carta, lisi spinga a risolverli anche sul campo da gioco con deibastoncini e uno spago, e ad applicare la propria cono-scenza in officina. Solo allora le linee geometriche assu-meranno un significato concreto nella mente dei bambi-ni; solo allora questi si accorgeranno che l’insegnantenon li prende in giro quando chiede loro di risolvere iproblemi con il regolo e il compasso senza ricorrere algoniometro; solo allora conosceranno la geometria.

«Dagli occhi e dalla mano al cervello»: è questo il vero

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modo per risparmiare tempo nell’insegnamento. Ricor-do, come fosse ieri, in che modo la geometria acquistas-se per me, improvvisamente, un nuovo significato, ecome questo nuovo significato mi facilitasse ogni studiosuccessivo. Fu mentre a scuola lavoravamo attorno auna mongolfiera, e io osservai come l’angolo in cima aognuna delle venti strisce di carta che costituivano ilpallone dovesse coprire meno d’un quinto di angolo ret-to. Ricordo poi come seni e tangenti cessassero di esseresemplici segni cabalistici quando ci permisero di calco-lare la lunghezza di un bastoncino nell’eseguire la se-zione di un fortino, e come la geometria dello spazio sifacesse semplice quando cominciammo a costruire unpiccolo bastione con feritoie e barbette: occupazione chenaturalmente ci fu subito proibita per lo stato in cuiriducemmo i nostri vestiti. «Sembrate degli sterratori»,ci rimproverarono i nostri sapienti insegnanti, mentrenoi eravamo orgogliosi proprio di questo e di avere sco-perto l’uso della geometria.

Obbligando i nostri figli a studiare cose reali su sem-plici rappresentazioni grafiche, invece di fargliele faredirettamente, li costringiamo a sprecare un tempo pre-zioso; ne impegniamo inutilmente le menti; li abituia-mo ai peggiori metodi di apprendimento; uccidiamo sulnascere l’indipendenza del pensiero; e molto raramenteriusciamo a dar loro un’idea concreta di quanto inse-gniamo. Superficialità, ripetizioni a pappagallo, schia-vitù e inerzia mentale: ecco i risultati del nostro metododi insegnamento. Ai nostri bambini non insegniamo adapprendere.

Anche l’insegnamento dei princìpi scientifici segue ilmedesimo deleterio sistema. Nella maggior parte dellescuole l’aritmetica viene insegnata in modo astratto,imbottendo le povere testoline di semplici regole. Inquesto Paese, negli Stati Uniti e in Russia, invece diaccettare il sistema metrico decimale, si torturanoancora i bambini insegnando loro un sistema di pesi emisure superato già da un pezzo.

Il tempo che si spreca per la fisica è semplicemente

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indecente. Mentre i giovani comprendono molto facil-mente i princìpi della chimica e le sue formule nonappena passano a fare direttamente i primi esperimen-ti con ampolle e provette, trovano infinitamente difficileimpadronirsi dell’introduzione meccanica alla fisica, inparte perché non conoscono la geometria, ma soprattut-to perché vengono loro mostrate solo macchine costoseinvece di essere indotti a costruire direttamente i sem-plici apparecchi che illustrano i fenomeni studiati.

Invece di apprendere le leggi dell’energia per mezzodi semplici strumenti che anche un ragazzo di quindicianni sarebbe in grado di costruire, le imparano daidisegni, in modo completamente astratto. Invece dicostruire direttamente una macchina di Atwood con unmanico di scopa e il bilanciere di un vecchio orologio, odi verificare le leggi della caduta dei corpi facendo sci-volare una chiave su una cordicella inclinata, si mostraloro un complicato apparecchio, e nella maggior partedei casi lo stesso insegnante non riesce a spiegare ilprincipio perdendosi in dettagli irrilevanti. In realtà,ogni apparecchio che serva ad illustrare le leggi fonda-mentali della fisica andrebbe costruito dagli stessiragazzi.

Lo spreco di tempo è la caratteristica non solo deinostri metodi di insegnamento scientifico, ma anche deimetodi usati nell’insegnamento professionale. Sappia-mo bene quanti anni sprechi un ragazzo che fa tirocinioin officina. Ma lo stesso rimprovero lo si può rivolgere amaggior ragione a quelle scuole professionali che cerca-no di insegnare, tutto in una volta, un qualche mestiereparticolare, invece di ricorrere ai metodi più completi esicuri dell’insegnamento sistematico.

Ogni macchina, per quanto complicata, la si puòridurre a pochi elementi (piastre, cilindri, dischi, coni,ecc.) e a pochi attrezzi (scalpelli, seghe, rulli, martelliecc.), e per quanto complicati siano i suoi movimenti, lisi può ricondurre a poche variazioni del moto, come latrasformazione del moto circolare in rettilineo e simili,con una quantità di fasi intermedie. Allo stesso modo,

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ogni mestiere può essere scomposto in un certo numerodi elementi. In ogni mestiere si deve saper fare una pia-stra a facce parallele, un cilindro, un disco, un foro qua-drato e uno rotondo; si deve saper maneggiare unnumero limitato di attrezzi, dato che tutti gli attrezzisono semplici modifiche di una decina di tipi; e si devesaper trasformare un tipo di moto in un altro. È questala base di tutti i mestieri meccanici, sicché la capacitàdi eseguire in legno quegli elementi primari e di tra-sformare i vari tipi di moto andrebbe considerata lavera base dell’ulteriore insegnamento di ogni mestieremeccanico. L’allievo fornito di tali capacità conosce giàuna buona metà di tutti i mestieri possibili.

Si tratti di un mestiere, di scienza o di arte, lo scopoprincipale della scuola non è di trasformare il princi-piante in uno specialista, ma di dargli una preparazio-ne e buoni metodi di lavoro, e soprattutto di infondergliquella generale ispirazione che lo spingerà più tardi, inqualsiasi cosa faccia, a una sincera ricerca della verità,ad amare tutto ciò che è bello, sia nella forma sia nelcontenuto, a sentire il bisogno di rendersi utile insiemea tutti gli altri uomini e portare così il suo cuore all’uni-sono con il resto dell’umanità.

Quanto ad evitare all’allievo la monotonia di un lavo-ro durante il quale non farebbe che cilindri e dischi, emai macchine complete o altri oggetti utili, vi sonomigliaia di mezzi per ovviare alla mancanza di interes-se e uno di essi, utilizzato a Mosca, è degno di menzio-ne. Si tratta di non attribuire un lavoro come sempliceesercizio, ma di utilizzare qualsiasi cosa l’allievo facciasin dalle prime lezioni. Ricordate con quale compiaci-mento, da bambini, vedevate il vostro lavoro utilizzato,anche solo come accessorio di qualcosa di utile? E così sifaceva alla Scuola Professionale di Mosca. Ogni assepiallata dagli allievi veniva adoperata come accessoriodi una macchina in una qualche officina. Quando unallievo, una volta ammesso al laboratorio di ingegneria,veniva messo a eseguire un blocco quadrangolare di fer-ro a lati paralleli e perpendicolari, quel blocco assume-

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va ai suoi occhi un certo interesse visto che una voltaterminato, dopo aver verificato angoli e lati e corretto idifetti, non finiva sotto il banco, ma veniva passato aun altro allievo più esperto che vi aggiungeva unamaniglia, lo verniciava e lo mandava al negozio dellascuola come fermacarte. L’insegnamento sistematicoacquistava così le dovute attrattive. (La vendita deilavori eseguiti dagli allievi non era affatto trascurabile,soprattutto per i corsi avanzati dove si costruivanomacchine a vapore. Proprio per questo la Scuola Profes-sionale di Mosca, al tempo in cui la conobbi, era unadelle più economiche del mondo. Pensione e insegna-mento costavano molto poco. Ma provate a immaginareuna scuola annessa a una fattoria dove si coltivassero escambiassero derrate a prezzo di costo: quanto coste-rebbe in tal caso l’insegnamento?).

È evidente che la rapidità del lavoro è un fattoreimportantissimo per la produzione. E dunque non pos-siamo non chiederci se, con il sistema sopra accennato,si raggiunga la necessaria rapidità. Ma vi sono duegeneri di rapidità. C’è la rapidità che ebbi modo diosservare in una fabbrica di merletti di Nottingham:uomini maturi, mani e teste percorse da un tremito,annodavano febbrilmente i capi di due fili di cotonerimasti nelle bobine; a stento si riusciva a seguirne imovimenti. Ma il fatto stesso che una fabbrica richiedauna rapidità di esecuzione come questa basta da solo acondannarla. Che cosa è rimasto dell’essere umano inquei corpi tremolanti? Quale sarà il loro futuro? Perchéquesto spreco di energie umane quando le stessepotrebbero produrre dieci volte il valore di quegli scar-ti? Questo genere di rapidità dipende esclusivamentedal basso costo degli schiavi di fabbrica; ci auguriamodunque che nessuna scuola tenti mai di esigerla. Ma c’èanche la rapidità dell’operaio preparato che permette dirisparmiare tempo, e ad essa si può arrivare facilmentecon il tipo di istruzione da noi proposta. Per quantosemplice sia il suo lavoro, l’operaio istruito lo svolgemeglio e più in fretta di quello non istruito. Osservia-

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mo, ad esempio, i gesti di un bravo operaio quandotaglia qualcosa – diciamo un pezzo di cartone – e con-frontiamoli con quelli di un operaio poco esperto. Que-st’ultimo afferra il cartone, prende l’attrezzo così com’è,traccia una linea a casaccio e comincia a tagliare; ametà strada è già stanco e, quando ha finito, il suo lavo-ro non serve a nulla; il primo, invece, esaminerà il suoattrezzo e lo perfezionerà se necessario, traccerà lalinea con esattezza, fisserà regolo e cartone, terràl’attrezzo nel modo giusto, taglierà molto facilmente econsegnerà un lavoro ben fatto.

Ecco la vera rapidità, quella che consente di rispar-miare tempo e lavoro; e il miglior modo d’arrivarci èun’istruzione di tipo veramente superiore. I grandimaestri dipingevano con rapidità prodigiosa, ma la lororapidità derivava da un grande sviluppo dell’intelligen-za e dell’immaginazione, da un profondo senso dellabellezza, da una sofisticata percezione dei colori. Ed èproprio questo il genere di rapidità di lavoro di cuil’umanità ha bisogno.

Vi sarebbero ancora molte cose da dire sui compitidella scuola, ma mi limito ad aggiungere qualcosasull’auspicabilità del tipo di istruzione brevemente trat-teggiato nelle pagine precedenti. Certamente non miilludo sulla realizzazione di una riforma radicale, oanche soltanto parziale, dell’istruzione finché le nazionicivili rimarranno legate all’attuale sistema, meschinoed egoistico, di produzione e di consumo. Tutto ciò chepossiamo aspettarci, fino a quando dureranno le condi-zioni attuali, sono dei microscopici tentativi di riforma,fatti qua e là e marginali; tentativi che si fermeranno,ovviamente, molto lontano dai risultati auspicati, datal’impossibilità di riforme anche marginali quando sussi-ste un legame così stretto fra le molteplici funzioni diuna nazione civile. Ma la potenza del genio costruttoredella società dipende principalmente da quanto profon-da è la sua opinione riguardo a ciò che andrebbe fatto esul come realizzarlo. La necessità di rimodellare l’istru-zione è una di quelle universalmente riconosciute, la

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più adatta a ispirare nella società quegli ideali senza iquali il ristagno, o addirittura la decadenza, si presen-tano inevitabili.

Supponiamo perciò che una comunità – una città, oun territorio di almeno qualche milione di abitanti –fornisca a tutti i suoi bambini, senza distinzione dinascita (e siamo abbastanza ricchi da concedercene illusso), l’istruzione che abbiamo tratteggiato, senzachiedere loro in cambio null’altro all’infuori di quelloche essi daranno una volta divenuti produttori di ric-chezza. Supponiamo che questa istruzione venga intro-dotta e analizziamone le probabili conseguenze.

Non insisterò sull’aumento della ricchezza che risul-terebbe dalla disponibilità di un giovane esercito diistruiti ed esperti produttori; e neppure mi dilungheròsui benefici sociali che deriverebbero sia dall’annulla-mento della distinzione attuale tra lavoratori intellet-tuali e lavoratori manuali, sia dalla raggiunta comu-nanza di interessi e dall’armonia tanto necessaria inquesti tempi di lotte sociali. Non mi dilungherò nean-che sull’esistenza più completa di cui ogni singolo indi-viduo godrebbe se gli si consentisse di servirsi appienodelle proprie capacità intellettuali e fisiche, né sui van-taggi che si ricaverebbero collocando il lavoro manualeal posto di onore che gli spetta nella società (mentreoggi rappresenta un marchio di inferiorità). E non insi-sterò neppure sulla scomparsa dell’attuale miseria edegradazione e delle loro conseguenze – immoralità,crimine, carceri, delazione e simili – che necessaria-mente seguirebbe. In breve, non entrerò adesso nellagrande questione sociale, sulla quale tanto è stato scrit-to e tanto rimane ancora da scrivere. Voglio soltantomettere in rilievo, in queste pagine, i benefici che lascienza stessa trarrebbe dal mutamento.

Alcuni diranno, naturalmente, che ridurre gli uominidi scienza al ruolo di lavoratori manuali provocherebbeil decadimento della scienza e del genio. Ma chi terràconto delle considerazioni che seguono si renderà contoche è vero l’opposto, cioè che provocherebbe un tale

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risveglio della scienza e dell’arte, e un tale progressodell’industria, che possiamo farcene solo una pallidissi-ma idea grazie anche a ciò che sappiamo dell’epocarinascimentale. È diventato un luogo comune magnifi-care i progressi della società durante il XIX secolo, ed èevidente che questo secolo, se confrontato ai precedenti,ha molte ragioni di vanto. Ma se teniamo presente chela maggior parte dei problemi che ha risolto erano giàstati evidenziati, e le loro soluzioni previste, un centi-naio di anni prima, dobbiamo riconoscere che il pro-gresso non è stato così rapido come si sarebbe voluto eche qualcosa lo ha ostacolato.

La teoria meccanica del calore era stata perfettamen-te prospettata nel secolo precedente da Rumford e daHumphry Davy, e sostenuta anche in Russia da Lomo-nosoff. Eppure, ben più di mezzo secolo è passato primache la teoria riapparisse nella scienza. Lamarck, maanche Linneo, Geoffroy Saint-Hilaire, Erasmo, Darwine parecchi altri si rendevano perfettamente conto dellamutabilità della specie e si avviavano ad aprire la stra-da alla costruzione della biologia sui princìpi dellamutazione; ma anche qui si dovettero perdere altri cin-quant’anni prima che la mutazione tornasse alla ribal-ta. Va anche ricordato come le idee di Darwin fosserosoprattutto portate avanti, e imposte all’attenzione delmondo accademico, da persone che non erano scienziatiprofessionisti; e presso lo stesso Darwin la teoriadell’evoluzione ha avuto limiti ristretti per l’importanzapreponderante attribuita a uno solo dei fattori dell’evo-luzione.

In breve, non c’è una sola scienza che non risenta,nel suo sviluppo, della mancanza di uomini e donnedotati di una concezione filosofica dell’universo, prontiad applicare il proprio spirito di ricerca in un dato cam-po, per quanto limitato, e sufficientemente provvisti ditempo per votarsi al lavoro scientifico. In una comunitàcome quella che noi immaginiamo, migliaia di lavorato-ri sarebbero pronti a rispondere a qualsiasi appello innome della ricerca. Darwin spese quasi trent’anni della

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sua vita a raccogliere e analizzare i fenomeni necessariall’elaborazione della teoria sull’origine della specie. Sefosse vissuto in una società come quella da noi ipotizza-ta, gli sarebbe bastato fare appello a dei volontari che sidedicassero alla ricerca dei fenomeni e alla sperimenta-zione particolare, e migliaia di esploratori avrebberorisposto al suo appello. Decine di associazioni sarebberosorte per dibattere e risolvere ciascuno dei problemiparticolari implicati dalla teoria, così che in dieci annise ne sarebbe avuta la verifica; e tutti i fattori dell’evo-luzione, ai quali soltanto oggi si comincia ad accordarela necessaria attenzione, sarebbero apparsi in pienaluce. Il progresso scientifico sarebbe stato dieci voltepiù rapido, e se pure il singolo non avrebbe gli stessidiritti alla gratitudine dei posteri che ha oggi, la massasconosciuta avrebbe eseguito il lavoro più velocementee dischiuso al progresso futuro prospettive maggiori diquante può aprirne il singolo in una vita intera.

Ma c’è un altro aspetto della scienza moderna chedepone ancora più imperiosamente a favore del cambia-mento che sosteniamo. Mentre l’industria, soprattuttodalla fine del secolo scorso e durante la prima partedell’attuale, è andata moltiplicando le sue creazioni inmisura tale da rivoluzionare la faccia stessa della Ter-ra, la scienza è andata perdendo le sue capacità creati-ve. Gli uomini di scienza non creano più nulla, o creanopochissimo. Non è sorprendente, in effetti, che la mac-china a vapore, anche nei suoi princìpi fondamentali, lalocomotiva, il battello a vapore, il telefono, il fonografo,il telaio meccanico, la macchina per merletti, il faro, lastrada in macadam, la fotografia in bianco e nero e acolori, e migliaia di altre cose meno importanti, non sia-no state inventate da scienziati di professione? Eppure,nessuno di loro avrebbe rifiutato di associare il proprionome a una qualsiasi di dette invenzioni. Uomini cheavevano ricevuto, a scuola un’istruzione rudimentale,che avevano a malapena raccolto le briciole del saperedalla tavola dei ricchi, e che effettuavano i propri espe-rimenti con i mezzi più primitivi – il commesso d’avvo-

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cato Smeaton, l’attrezzista Watt, il frenatore Stephen-son, l’apprendista-gioielliere Fulton, il costruttore dimulini Rennie, il muratore Telford, e centinaia di altridi cui persino il nome rimane sconosciuto – sono stati,come dice giustamente Smiles, «i veri creatori dellaciviltà moderna». Al contrario, gli scienziati di profes-sione, provvisti di ogni mezzo necessario ad acquisireconoscenze e a sperimentare, hanno avuto ben pocaparte nell’invenzione di quel formidabile complesso diapparecchi, macchine e motori che ha permessoall’umanità di utilizzare e di padroneggiare le forze del-la natura. (La chimica rappresenta, in genere, un’ecce-zione alla regola. Non sarà perché il chimico è in granparte un lavoratore manuale? Inoltre, negli ultimi diecianni si è notato un deciso risveglio della creativitàscientifica, soprattutto in fisica: vale a dire, in un cam-po dove l’ingegnere e l’uomo di scienza hanno modod’incontrarsi spesso). Il fatto è sorprendente, ma la suaragione è molto semplice: quegli uomini – i Watt e gliStephenson – sapevano qualcosa che i savants non san-no: sapevano servirsi delle mani; il loro ambiente nestimolava le capacità creative; conoscevano le macchinenei loro princìpi fondamentali e nel loro funzionamento;avevano respirato l’atmosfera dell’officina e del cantie-re.

Ben sappiamo come gli uomini di scienza accoglie-ranno il rimprovero. Diranno: «Noi scopriamo le leggidella natura, lasciate che siano gli altri ad applicarle; sitratta semplicemente di dividere il lavoro». Ma una talerisposta è assolutamente falsa. La marcia del progressosegue la direzione opposta, poiché in novantanove casisu cento l’invenzione meccanica precede la scoperta del-la legge scientifica. Non è stata la teoria dinamica delcalore a precedere la macchina a vapore, ma viceversa.

Quando già migliaia di macchine, da più di mezzosecolo, trasformavano il calore in moto sotto gli occhi dicentinaia di professori; quando già migliaia di treni,bloccati da freni potenti, approssimandosi alle stazionisprigionavano calore e spandevano sui binari fasci di

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scintille; quando già in tutto il mondo civile magli eperforatrici andavano rendendo incandescenti le massedi ferro loro sottoposte, allora e soltanto allora, Séguinin Francia e Mayer in Germania si arrischiarono a for-mulare la teoria meccanica del calore con tutte le sueconseguenze. Ma in aggiunta, gli uomini di scienzaignorarono il lavoro di Séguin e quasi spinsero Mayeralla pazzia aggrappandosi ostinatamente al loro miste-rioso fluido calorico. Peggio ancora, definirono «nonscientifica» la prima enunciazione di Joule sull’equiva-lente meccanico del calore.

Non fu la teoria dell’elettricità a darci il telegrafo.Quando il telegrafo venne inventato, tutto ciò che sape-vamo sull’elettricità si riduceva a pochi fatti raccoltialla meno peggio nei nostri libri; ancora oggi la teoriadell’elettricità non è pronta ma aspetta sempre il suoNewton, nonostante i brillanti tentativi degli ultimianni. Anche la conoscenza empirica sulle leggi dellacorrente elettrica si trovava al suo stadio primitivoquando pochi audaci stesero un cavo in fondo all’Atlan-tico, malgrado lo scetticismo degli uomini di scienzaufficiali.

Il termine «scienza applicata» è assolutamente scor-retto, poiché nella gran maggioranza dei casi le inven-zioni, lungi dall’essere un’applicazione della scienza,creano al contrario un nuovo ramo di scienza. I pontiamericani non sono affatto stati un’applicazione dellateoria dell’elasticità: l’hanno preceduta, e tutto ciò chepossiamo dire a favore della scienza è che, in questoparticolare settore, teoria e pratica si sono sviluppate inmodo parallelo, aiutandosi reciprocamente. E ancora,non è stata la teoria degli esplosivi a portare alla sco-perta della polvere da sparo: la polvere da sparo la si èusata per secoli prima che l’azione dei gas in un fucilefosse sottoposta ad analisi scientifica. E così via.

Naturalmente esiste un certo numero di casi in cui lascoperta o l’invenzione ha coinciso con la sempliceapplicazione di una legge scientifica (ad esempio con lascoperta del pianeta Nettuno); ma nell’immensa mag-

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gioranza dei casi la scoperta o l’invenzione hanno degliinizi niente affatto scientifici. Esse rientrano molto piùnel dominio delle arti – in quanto le arti prevalgonosulla scienza, come Helmholtz ha così bene dimostratoin una delle sue famose conferenze – e solo dopo chel’invenzione è stata fatta la scienza interviene a inter-pretarla. È ovvio che ogni invenzione si avvale dellecognizioni e delle idee accumulate in precedenza, manella maggioranza dei casi è in anticipo sulla conoscen-za e balza nell’ignoto, aprendo così alla ricerca un insie-me del tutto nuovo di fenomeni. Questo carattere del-l’invenzione, che consiste nell’essere in anticipo sullecognizioni del proprio tempo e non nell’applicare sem-plicemente una legge, la rende identica, nei processiintellettuali, alla scoperta; ne consegue che chi è lentonelle invenzioni lo è anche nelle scoperte.

Nella maggior parte dei casi l’inventore, per quantoispirato dallo stato generale della scienza in un datomomento, parte con pochissimi punti fermi a disposizio-ne. I fenomeni scientifici che sono stati alla basedell’invenzione della macchina a vapore, o del telegrafo,o del fonografo, erano estremamente elementari. Sicchépossiamo affermare che quanto conosciamo attualmen-te è già sufficiente per risolvere tutti i grandi problemiall’ordine del giorno: motori non a vapore, immagazzi-naggio di energia, trasmissione di potenza, o macchinevolanti. Se questi problemi non sono stati ancora risolti,lo si deve soltanto alla mancanza di spirito creativo,alla scarsità di uomini istruiti che ne siano dotati, eall’attuale separazione tra scienza e industria. [Lasciodi proposito queste righe come nella prima edizione:tutte le invenzioni nominate sono già state realizzate].Da un lato, abbiamo uomini dotati di capacità creative,ma privi sia della necessaria preparazione scientificasia dei mezzi atti a una sperimentazione che duri lun-ghi anni; dall’altro, abbiamo uomini preparati e in gra-do di sperimentare, ma privi di spirito creativo a causadella loro istruzione troppo astratta, troppo scolastica,troppo libresca, e dell’ambiente in cui vivono (per non

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parlare del sistema dei brevetti, che divide e disperdegli sforzi degli inventori, anziché combinarli).

Lo slancio dell’ingegno, che ha caratterizzato gli ope-rai all’inizio della moderna era industriale, è mancatoai nostri scienziati di professione. E continuerà a man-care finché essi rimarranno estranei al mondo, perdutitra le loro polverose librerie; finché non si trasforme-ranno anch’essi in operai tra gli operai, alla vampa delforno in fonderia, alla macchina in fabbrica, al tornionell’officina meccanica, marinai tra i marinai sul maree pescatori sui pescherecci, boscaioli nella foresta, zap-patori nei campi.

I nostri critici d’arte – Ruskin e la sua scuola – cihanno ripetuto di recente che è inutile aspettarci unrisveglio dell’arte finché il lavoro manuale rimarràquello che è; e ci hanno dimostrato come l’arte greca el’arte medievale fossero figlie del lavoro manuale, comel’uno alimentasse l’altra. Altrettanto si può dire deirapporti tra il lavoro manuale e la scienza: separarlisignifica farli decadere entrambi. Quanto alle grandiispirazioni, purtroppo tanto trascurate nella maggio-ranza delle recenti discussioni sull’arte (e assenti anchenella scienza), possiamo aspettarcele soltanto daun’umanità che, spezzate le sue attuali catene, si avviiverso gli alti princìpi della solidarietà, liberandosidell’attuale dualismo tra senso morale e filosofia.

È evidente, comunque, che non tutti gli uomini e ledonne potranno trarre uguale piacere dall’impegnoscientifico. La varietà delle inclinazioni è tale che alcu-ni troveranno maggiore soddisfazione nella scienza,altri nell’arte, e altri ancora in qualcuno degli innume-revoli rami di produzione della ricchezza. Ma quali chesiano le sue occupazioni preferite, ciascuno sarà tantopiù utile nel proprio settore quanto più disporrà di unaseria preparazione scientifica. E di chiunque si tratti –scienziato o artista, fisico o chirurgo, chimico o sociolo-go, storico o poeta – molti benefici trarrebbe dal passareparte della sua vita in officina o in fattoria (anzi, in offi-cina e in fattoria) a contatto con la quotidianità del

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lavoro umano, soddisfatto e consapevole di adempiereai propri doveri di produttore non privilegiato di ric-chezza.

Come comprenderebbero meglio l’umanità, lo storicoe il sociologo, se la conoscessero non soltanto dai libri,non soltanto da un esiguo numero di suoi rappresen-tanti, ma nel suo complesso, nella sua vita, nel suolavoro e nelle sue attività quotidiane! Come sarebbe piùefficace la medicina se, confidando più sull’igiene chesulle ricette, i giovani dottori fossero gli infermieri deimalati e gli infermieri ricevessero l’istruzione dei nostriattuali dottori! E come percepirebbe meglio, il poeta, lebellezze della natura, come conoscerebbe meglio il cuo-re umano, se avesse modo di osservare la levata delsole, contadino tra i contadini, o di lottare contro latempesta, marinaio tra i marinai, a bordo di una nave,se conoscesse la poesia del lavoro e del riposo, del doloree della gioia, della lotta e della conquista!

La cosiddetta «divisione del lavoro» è nata in unsistema che ha condannato le masse, tutto il giorno etutta la vita, alla dura fatica dello stesso gravoso gene-re di lavoro. Ma se consideriamo l’esiguità dei veri pro-duttori di ricchezza della nostra attuale società, e comeil loro lavoro vada sprecato, dobbiamo dar ragione aFranklin allorché diceva che in genere basterebbe lavo-rare ognuno cinque ore al giorno per assicurare a tutti imembri di una nazione civile quegli agi oggi accessibilisoltanto ai pochi.

Abbiamo fatto, però, qualche progresso dai tempi diFranklin, e alcuni di tali progressi, realizzati nel setto-re finora più arretrato della produzione – quello agrico-lo – li abbiamo segnalati nelle pagine che precedono.Anche in questo settore si può accrescere immensamen-te la produttività del lavoro e rendere facile e piacevoleil lavoro stesso. Se ciascuno si accollasse la sua parte diproduzione e la produzione venisse socializzata (comel’economia politica, se indirizzata al soddisfacimentodei bisogni sempre crescenti di tutti, ci consiglierebbedi fare), allora avremmo più di metà della giornata

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lavorativa da dedicare all’arte, alla scienza o a qualsia-si altra occupazione preferita; e il nostro lavoro in que-gli stessi settori sarebbe più proficuo se impiegassimol’altra metà della giornata in un lavoro produttivo; que-sto se l’arte e la scienza fossero coltivate più per purainclinazione che non per scopi commerciali. Inoltre, unasocietà organizzata sul principio che tutti lavoranosarebbe abbastanza ricca per sollevare uomini e donne– una volta raggiunta una certa età, diciamo i qua-rant’anni o poco più – dall’obbligo morale di parteciparedirettamente all’esecuzione del necessario lavoromanuale, e per consentir loro di votarsi interamenteall’arte, alla scienza o a qualsiasi altra occupazione. Inquesto modo sarebbero pienamente garantiti la liberaricerca in nuovi rami dell’arte e del sapere, la liberacreazione e il libero sviluppo individuale. E una societàcome questa non conoscerebbe miseria in seno all’ab-bondanza, ignorerebbe la dualità di coscienza che per-mea la nostra vita e paralizza ogni nobile sforzo, e vole-rebbe libera verso le più alte regioni del progresso com-patibile con la natura umana.

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IX

Il testo dove Kropotkin espone la sua concezione delcomunismo anarchico è La conquista del pane, operache vede la luce nel 1892. Kropotkin afferma che l’unicoregime privo di contraddizioni sociali è il comunismo.Diversamente dal collettivismo e dal mutualismo, essosupera tutte le disuguaglianze e le sperequazioni e rendegiustizia a tutti perché, esplicandosi integralmenteattraverso la semplice norma «da ognuno secondo le sueforze, ad ognuno secondo i suoi bisogni», abolisce radi-calmente la schiavitù del salario e, con essa, la dipen-denza dal bisogno. Per la stretta e necessaria correlazio-ne posta da Kropotkin tra lo sviluppo delle forze produt-tive e l’abolizione della proprietà privata, la ricchezzasociale sfuggirebbe alle leggi dell’economia politica perrisultare una creazione collettiva rispondente alle neces-sità funzionali della società, intesa, questa, nella suaoriginaria esistenza spontanea di solidarismo naturali-stico.

Questo comunismo è anarchico, nel senso che l’aboli-zione del salariato è contemporanea all’abolizione delloStato. Il presupposto scientifico del comunismo non èdato da una verità economica, sia essa di carattererazionale, storico o culturale, ma dalla constatazionedella sua perfetta rispondenza alle leggi dell’evoluzione

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naturale. Il comunismo è l’opposto dell’individualismo,esattamente come il mutuo appoggio è il contrario dellalotta per l’esistenza. È attraverso il comunismo che lanatura ha la sua logica continuità nella storia, per cuisi deve dire che comunismo e mutuo appoggio sono duedefinizioni di una stessa realtà: la logica intrinseca del-la vita che preserva se stessa. Il presupposto solidaristi-co costituisce dunque la vera premessa del comunismokropotkiniano, che pone la priorità etica rispetto a quel-la economica.

In questo senso sarebbe forse più opportuno parlaredi comunalismo o comunitarismo, in quanto Kropotkinè particolarmente interessato alla logica profonda dellavita comunitaria. Essa non si regge certo sul rapportodello scambio economico, misurabile quantitativamentee razionalmente, ma sugli impulsi esistenziali che ani-mano gli individui; impulsi che per la loro natura van-no al di là della prassi mercantile, che risulta sempreriduttiva rispetto all’insieme dei valori, delle speranze,delle fedi individuali e sociali.

In conclusione, il comunismo-comunitarismo non èsoltanto desiderabile, ma è pure lo sbocco inevitabiledella tendenza moderna dovuta all’incessante integra-zione dell’economia e della società in un tutto organico enecessitante. Il comunismo quindi non è «il diritto allavoro», e nemmeno il diritto della ripartizione «secondole opere». È invece il superamento di ogni diritto, per ladiretta soddisfazione dei bisogni. Questo grande rivolgi-mento sociale non può quindi essere l’esito di un’operalegislativa, bensì il frutto dell’azione spontanea dellegrandi masse popolari. Kropotkin è convinto che siapossibile arrivare all’agiatezza generale perché esisteuna ricchezza potenziale enorme, malamente utilizzataa causa della proprietà privata e della irrazionalitàdell’assetto capitalistico.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizio-ne italiana di La conquista del pane del 1975, nella tra-duzione (rivista) di Gabriella Gianfelici e Claudio Neri.

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IL COMUNISMO ANARCHICO

Va riconosciuto e proclamato con forza che ognuno,qualunque sia stata nel passato la sua funzione, qualun-que siano state la sua forza e la sua debolezza, le sueattitudini o le sue incapacità, possiede innanzi tutto ildiritto alla vita; e la società deve spartire tra tutti, senzaeccezioni, i mezzi di sussistenza di cui dispone. Si devericonoscerlo, proclamarlo e agire di conseguenza! […]

I servizi resi alla società, tanto il lavoro nelle fabbri-che o nei campi quanto le attività intellettuali, non pos-sono essere valutati in termini monetari. Non si puòdeterminare in riferimento alla produzione l’esattamisura di ciò che è stato impropriamente chiamatovalore di scambio, né del valore d’uso. Se si prendono

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due individui che, anno dopo anno, lavorano entrambicinque ore al giorno per la comunità in differenti lavoridi cui sono entrambi soddisfatti, si può dire che, nelcomplesso, il loro lavoro è più o meno equivalente. Manon si può frazionare il loro lavoro e dire che il prodottodi ogni giornata, di ogni ora, di ogni minuto del primovale il prodotto di ogni giornata, di ogni ora, di ogniminuto del secondo.

Si può dire, in termini generali, che l’uomo chedurante la sua vita si è privato della libertà per dieciore al giorno ha dato alla società molto più di quello chese ne è privato per cinque ore al giorno o che non se neè privato affatto. Ma non si può prendere ciò che ha fat-to durante due ore e dire che quel prodotto vale due vol-te più del prodotto di un’ora di un altro individuo, eremunerarlo in proporzione. Questo vorrebbe diremisconoscere tutta la complessità dell’industria,dell’agricoltura, dell’intera esistenza della societàattuale; vorrebbe dire ignorare fino a che punto il lavo-ro del singolo è il risultato dei lavori precedenti e attua-li della società nel suo insieme. Vorrebbe dire credersinell’età della pietra quando invece viviamo nell’etàdell’acciaio.

Se si entra in una miniera di carbone, si vede unuomo addetto a una grande macchina che sovrintendealla salita e alla discesa della gabbia. Questi tiene inmano la leva che aziona nei due sensi la macchina;quando l’abbassa, la gabbia torna indietro in un batterd’occhio, ed egli la manda su e giù ad una velocità verti-ginosa. Con la massima attenzione segue sul muro unindicatore che gli mostra, in scala, a quale altezza delpozzo si trova la gabbia in ogni istante del suo percorso;e quando l’indicatore ha raggiunto il livello voluto, fer-ma la corsa della gabbia né un metro più in alto né unopiù in basso del punto desiderato. Non appena i vagon-cini pieni di carbone sono stati scaricati e quelli vuotiagganciati, inverte la leva e rimanda la gabbia di nuovonel pozzo.

Per otto o dieci ore consecutive l’addetto deve mante-

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nere gli stessi alti livelli di attenzione. Se la sua mentedovesse distrarsi anche per un solo momento, la gabbiaandrebbe ad urtare contro l’argano fracassando le ruo-te, strappando la corda, schiacciando gli uomini e bloc-cando tutto il lavoro della miniera. Se perdesse tresecondi ad ogni colpo di leva, l’estrazione nelle nostremoderne e avanzate miniere verrebbe ridotta tra leventi e le cinquanta tonnellate al giorno.

È dunque lui quello che fornisce il servizio più impor-tante della miniera? O è il ragazzo che aziona dal bassoil segnale per far risalire la gabbia? O il minatore, chead ogni istante rischia la sua vita in fondo al pozzo eche forse un giorno sarà ucciso dal grisou? O l’ingegne-re, che se non individua la vena di carbone fa scavarenella roccia per un semplice errore nei calcoli? O ancorail proprietario, che ha messo tutto il suo patrimonionella miniera e che magari, contrariamente a tutte leprospezioni, ha deciso di scavare proprio in quel luogoper trovare il carbone migliore?

Tutti coloro che sono impegnati nella miniera contri-buiscono, secondo le loro forze, energie, conoscenze,capacità e abilità, ad estrarre il carbone. E possiamoaffermare che tutti hanno il diritto alla vita, a soddisfa-re i loro bisogni e anche le loro fantasie una volta che ilnecessario sia assicurato per tutti.

Ma come possiamo valutare la loro opera? E poi, ilcarbone che avranno estratto è interamente opera loro?Non è anche opera di quegli uomini che hanno costruitola ferrovia che conduce alla miniera e le strade che sidipartono da tutte le stazioni? Non è anche opera dicoloro che hanno arato e seminato i campi, estratto ilferro, abbattuto gli alberi della foresta, costruito lemacchine che bruciano il carbone, e così via?

Non è possibile distinguere tra i lavori di tutti questiuomini. Misurarli in base ai risultati porta all’assurdo.Frazionarli e misurarli in base alle ore impiegate portaall’assurdo. Non resta che una cosa: mettere i bisogni aldi sopra del lavoro e riconoscere prima di ogni altracosa il diritto alla vita e poi il diritto al benessere per

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tutti coloro che prendono parte alla produzione. […]

Ogni società che intende abolire la proprietà privatasarà costretta, secondo noi, ad organizzarsi in modocomunista anarchico. L’anarchia conduce al comunismoe il comunismo all’anarchia essendo entrambi espres-sione della tendenza predominante delle società moder-ne: la ricerca dell’uguaglianza.

C’è stato un tempo in cui una famiglia di contadinipoteva considerare il grano che faceva crescere e gli abi-ti di lana che tesseva nella capanna come prodotti delproprio lavoro. Ma anche allora questo modo di vederenon era affatto corretto. C’erano strade e ponti fatti incomune, paludi prosciugate con il lavoro collettivo epascoli comuni recintati da siepi che tutti manteneva-no. Un miglioramento nei telai o nei tipi di tintura deitessuti giovava a tutti; in quell’epoca una famiglia dicontadini non poteva vivere da sola ma dipendeva inmille modi dal villaggio o dalla comunità rurale.

Oggi, poi, nell’attuale sistema industriale dove tuttoè interdipendente, dove ogni ramo della produzione siinterseca con tutti gli altri, la pretesa di attribuireun’origine individuale ai prodotti è assolutamente inso-stenibile. Se le industrie tessili o metallurgiche hannoraggiunto una sorprendente perfezione nei Paesi avan-zati, lo devono allo sviluppo simultaneo di mille altreindustrie, grandi e piccole; lo devono all’estensione del-la rete ferroviaria, alla navigazione transoceanica,all’abilità di milioni di lavoratori, ad un certo grado dicultura generale di tutta la classe operaia; lo devono, indefinitiva, al lavoro umano eseguito da uno capo all’al-tro del mondo.

Gli italiani colpiti da colera durante gli scavi delcanale di Suez o dall’anchilosi nelle gallerie del Gottar-do, gli americani falciati dalle granate nella guerra perl’abolizione della schiavitù, hanno tutti contribuito allosviluppo dell’industria cotoniera in Francia e in Inghil-terra, non meno delle giovani ragazze che si sono con-

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sumate nelle manifatture di Manchester e Rouen, odell’inventore che, ascoltando i suggerimenti di qualchelavoratore, ha apportato miglioramenti al telaio.

Come stimare, allora, la quota di ognuno alla produ-zione di quelle ricchezze che tutti contribuiamo adaccumulare?

Considerando la produzione da questo punto di vistagenerale e sintetico, a differenza dei collettivisti nonriteniamo che una rimunerazione proporzionata alleore di lavoro da ciascuno effettuate per la produzionedelle ricchezze possa costituire l’obiettivo ideale o anchesolo un passo avanti nella direzione giusta.

Senza qui entrare nel merito se il valore di scambiodelle merci nella società attuale è effettivamente com-misurato con la quantità di lavoro necessario per pro-durle (così come hanno affermato Smith e Ricardo, sullecui tracce si è mosso Marx), ci basti dire al momento,riservandoci di tornarvi più tardi, che l’ideale collettivi-sta ci sembra irrealizzabile in una società che consideragli strumenti di produzione come un patrimonio comu-ne. Se è basata su questo principio, una tale società sivedrebbe costretta ad abolire subito tutte le forme disalariato.

L’individualismo moderato del sistema collettivistanon potrebbe coesistere con un comunismo parziale,cioè con la socializzazione del suolo e degli strumenti diproduzione. Una nuova forma di proprietà necessita diuna nuova forma di rimunerazione. Una nuova formadi produzione non può convivere con le vecchie forme diconsumo, non più di quanto possa adattarsi alle vecchieforme di organizzazione politica.

Il salariato è figlio della proprietà privata del suolo edegli strumenti di produzione, che è stata la condizionenecessaria per lo sviluppo del modo di produzione capi-talista, e che morirà con essa nonostante i tentativi ditravestirlo sotto forma di «buoni di lavoro». Il possessocomune degli strumenti di produzione condurrà neces-sariamente al godimento comune dei frutti di questolavoro comune.

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Sosteniamo inoltre che il comunismo non solo è desi-derabile ma che le società attuali, fondate sull’indivi-dualismo, sono comunque costrette a procedere verso ilcomunismo. […]

È questa, in breve, l’organizzazione che i collettivistivorrebbero far nascere dalla rivoluzione sociale. Comesi vede, i loro princìpi sono: proprietà collettiva deglistrumenti di lavoro e rimunerazione di ognuno secondoil tempo impiegato a produrre, tenendo conto della pro-duttività del suo lavoro. Quanto al regime politico, sitratterebbe di un sistema parlamentare modificato dalmandato imperativo per i rappresentanti eletti e dal-l’istituto del referendum, cioè da una votazione basatasull’opzione sì/no.

Diciamo subito che questo sistema ci sembra assolu-tamente irrealizzabile.

I collettivisti cominciano con il proclamare un princi-pio rivoluzionario – l’abolizione della proprietà privata– ma lo negano contestualmente in quanto si ripropon-gono un’organizzazione della produzione e del consumoche ha le sue origini nella proprietà privata.

Proclamano un principio rivoluzionario ma ignoranole conseguenze che questo principio comporta. Dimenti-cano che il fatto stesso di abolire la proprietà privatadegli strumenti di produzione – terra, fabbriche, vie dicomunicazione, capitali – deve lanciare la società versopercorsi assolutamente inediti; deve sconvolgere com-pletamente il sistema di produzione, tanto nei mezziche nei fini; deve modificare tutte le relazioni quotidia-ne tra gli individui nel momento stesso in cui la terra,le macchine e tutto il resto vengono assunti come pos-sesso comune.

«Niente proprietà privata» proclamano, e subito siaffrettano a mantenerla nelle sue manifestazioni quoti-diane. «Sarete una Comune per quanto riguarda la pro-duzione: i campi, gli utensili, i macchinari, tutto ciò cheè stato creato fino ad oggi – manifatture, ferrovie, porti,

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miniere ecc. – sarà vostro. E non si farà la minimadistinzione sulla partecipazione di ognuno a questa pro-prietà collettiva. Ma già da domani comincerete adiscutere puntigliosamente sulla parte che vi spettanella creazione dei nuovi macchinari, nell’apertura del-le nuove miniere. Comincerete a soppesare al grammola quota di vostra spettanza in ogni nuova produzione.Conterete i vostri minuti di lavoro controllando attenta-mente che un minuto del vicino non abbia maggiorpotere d’acquisto del vostro. E poiché l’ora non dà lamisura di niente, poiché in quella fabbrica un lavorato-re può sorvegliare sei telai alla volta, mentre nell’altranon ne sorveglia che due, comincerete a misurare la for-za muscolare, l’energia cerebrale e l’energia nervosache avete speso. Calcolerete rigorosamente gli anni diapprendistato per valutare la parte di ognuno nellafutura produzione. E tutto questo dopo aver dichiaratoche non va tenuta in alcun conto la parte avuta nellaproduzione passata».

Ebbene, per noi è evidente che una società non puòorganizzarsi su due princìpi assolutamente opposti, dueprincìpi che si contraddicono continuamente. E lanazione, o la Comune, che si desse una tale organizza-zione sarebbe costretta o a ritornare alla proprietà pri-vata, o a trasformarsi immediatamente in societàcomunista.

Abbiamo già rilevato come alcuni pensatori collettivi-sti auspichino che venga stabilita una distinzione tralavoro qualificato o professionale e lavoro semplice.Essi pretendono che l’ora di lavoro dell’ingegnere,dell’architetto o del medico venga contabilizzata comedue o tre ore di lavoro del fabbro, del muratore o dell’in-fermiere. E la stessa distinzione, affermano, deve esse-re fatta tra tutti i tipi di lavoro che esigono un appren-distato più o meno lungo e il lavoro dei semplici brac-cianti.

Ebbene, stabilire questa distinzione equivale a man-

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tenere tutte le disuguaglianze della società attuale.Vuol dire tracciare sin dall’inizio una demarcazione trai lavoratori e coloro che pretendono di governarli. Signi-fica dividere la società in due classi ben distinte: l’ari-stocrazia del sapere al di sopra della plebe dalle manicallose, dove quest’ultima sarà costretta a servire laprima e a lavorare con le proprie mani per nutrirla evestirla, mentre questa, approfittando della sua libertà,imparerà a dominare chi la mantiene.

Non solo, vorrebbe dire riprendere un tratto distinti-vo della società attuale e rilegittimarlo in nome dellarivoluzione sociale, erigendo così a principio un abusoche oggi si condanna nella vecchia traballante società.

Conosciamo bene le risposte che ci daranno: ci parle-ranno di «socialismo scientifico»; citeranno gli economi-sti borghesi – e anche Marx – per dimostrare che la sca-la salariale ha la sua ragion d’essere, poiché la «forzalavoro» dell’ingegnere è costata alla società più della«forza lavoro» dello sterratore. E infatti, gli economistinon hanno forse cercato di convincerci che se l’ingegne-re viene pagato venti volte più dello sterratore è perchéle spese «necessarie» per preparare un ingegnere sonopiù consistenti di quelle necessarie per preparare unosterratore? E Marx non ha forse asserito che la stessadistinzione è altrettanto logica tra i diversi tipi di lavo-ro manuale? Né poteva arrivare ad altra conclusioneavendo ripreso le teorie di Ricardo sul valore e avendosostenuto che i prodotti vengono scambiati in proporzio-ne alla quantità di lavoro socialmente necessario a pro-durli.

Ma noi abbiamo idee chiare a tal proposito. Sappia-mo che se l’ingegnere, lo scienziato e il dottore oggi sonopagati dieci o cento volte più del lavoratore, e se il tessi-tore guadagna tre volte più di un contadino e dieci voltepiù di una operaia di una fabbrica di fiammiferi, questonon avviene in ragione del loro «costo di produzione»,ma in ragione di un monopolio dell’educazione, o di unruolo produttivo. L’ingegnere, lo scienziato e il dottoresfruttano semplicemente un capitale – il loro diploma –

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come l’imprenditore borghese sfrutta la fabbrica o comeil nobile sfruttava i titoli di nascita.

Quanto all’imprenditore che paga l’ingegnere ventivolte più del lavoratore, lo fa in ragione di un calcolomolto semplice: se l’ingegnere può fargli risparmiare4.000 sterline all’anno sui costi di produzione, questi incambio lo paga 800 sterline. E se l’imprenditore ha uncaporeparto che gli fa risparmiare 400 sterline sul lavo-ro di un’abile e tartassata manodopera, è ben contentodi dargli tra le 80 e le 120 sterline l’anno. Ed è sempredisposto a spartire un 40 sterline in più quando siaspetta di guadagnarne 400 così facendo. È questal’essenza del sistema capitalista. E lo stesso accade perle differenze tra i diversi mestieri manuali.

Che non ci si venga dunque a parlare di un «costo diproduzione» che farebbe aumentare il costo del lavorospecializzato, e a sostenere di conseguenza che uno stu-dente – il quale ha allegramente trascorso la sua gio-ventù all’università – ha diritto ad un salario dieci voltepiù elevato dello smunto figlio del minatore che si con-suma in miniera fin dall’età di undici anni; o che untessitore ha diritto ad un salario tre o quattro volte piùelevato di quello di un bracciante agricolo. Le spesenecessarie per preparare un tessitore non sono quattrovolte più alte di quelle necessarie per preparare un con-tadino: semplicemente, il tessitore beneficia dei vantag-gi che il suo ruolo produttivo matura nel commerciointernazionale rispetto ai Paesi non ancora industria-lizzati, e come risultato dei privilegi accordati dallo Sta-to all’industria a scapito della coltivazione della terra.

Nessuno, poi, ha mai calcolato il costo di produzionedi un produttore. E se un aristocratico nullafacentecosta alla società ben più di un lavoratore, rimane anco-ra da sapere se – tutto compreso: mortalità infantile,anemia dilagante e morti premature – un robusto brac-ciante non costi alla società più di un esperto artigiano.Ci si vorrebbe far credere, ad esempio, che il salario diuna sterlina e 3 scellini pagato all’operaia parigina, o itre scellini pagati alla ragazza alvergnate che si acceca

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sui merletti, o il compenso di una sterlina e 8 scellinidato al contadino rappresentano i loro «costi di produ-zione». Sappiamo perfettamente bene che spesso silavora per meno di questo, ma sappiamo anche che lo sifa esclusivamente perché, grazie alla nostra superbaorganizzazione, si rischia di morire di fame senza que-sti salari irrisori.

A nostro avviso la scala salariale è il complesso risul-tato delle imposte, dei sistemi di sovvenzione, delmonopolio capitalista: in breve, dello Stato e del Capita-le. È per questo che sosteniamo che tutte le teorie sullascala salariale sono state inventate a posteriori per giu-stificare le ingiustizie già esistenti, ragion per cui nonbisogna dar loro troppa importanza.

Non si asterranno nemmeno dal dirci che la scalasalariale collettivista sarebbe nondimeno un progresso:«Vedere alcuni artigiani prendere una somma due o trevolte superiore a quella percepita dai lavoratori nonspecializzati», ci diranno, «è comunque meglio che vede-re dei ministri intascare in un sol giorno quello che illavoratore non riesce a guadagnare in un anno. Sareb-be pur sempre un grosso passo verso l’equità».

Viceversa, per noi questo sarebbe un regresso. Rein-trodurre in una nuova società la distinzione tra lavorosemplice e lavoro specializzato altro non sarebbe cheerigere a principio un fatto brutale, legittimato dallarivoluzione, che oggi già subiamo e che troviamo ingiu-sto. Sarebbe come imitare quei signori dell’Assembleacostituente francese che il 4 agosto 1789 proclamavanol’abolizione dei diritti feudali, ma che l’8 agosto li re-instauravano imponendo imposte ai contadini per risar-cire gli aristocratici, mettendo oltretutto queste impostesotto la salvaguardia della rivoluzione. Sarebbe comeimitare il governo russo che, al tempo della emancipa-zione dei servi della gleba, proclamava che certe terresarebbero state d’ora in avanti appannaggio dell’aristo-crazia, mentre prima queste stesse terre venivano con-siderate appannaggio dei servi della gleba.

O ancora, per citare un esempio più conosciuto,

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sarebbe come imitare la Comune del 1871 quando deci-deva di pagare i membri del Consiglio l’equivalente di12 sterline e 6 scellini al giorno, mentre i Federati chesi battevano in prima linea percepivano solo una sterli-na e 3 scellini al giorno: una decisione peraltro accla-mata come un atto di avanzata democrazia egualitaria.In realtà, la Comune non faceva che ratificare la vec-chia disuguaglianza tra funzionario e soldato, gover-nante e governato. Se si fosse trattato di una Cameradei deputati opportunista, tale decisione avrebbe anchepotuto sembrare degna di ammirazione, ma trattandosidella Comune, non mettendoli in pratica essa venivameno ai suoi princìpi rivoluzionari.

Nell’attuale sistema sociale, in cui un ministro perce-pisce 4.000 sterline all’anno, mentre il lavoratore deveaccontentarsi di 40 sterline, o meno ancora, in cui ilcaporeparto è pagato due o tre volte più dell’operaio ein cui tra gli operai stessi ci sono tutti i gradi, dalle 8sterline al giorno giù fino ai 3 scellini della ragazza dicampagna, noi siamo contrari tanto all’elevato stipen-dio del ministro quanto alla differenza tra le 8 sterlinedell’operaio e i 3 scellini della povera donna. E affer-miamo: «Abbasso i privilegi dell’educazione, così comequelli della nascita». Siamo anarchici proprio perchéquesti privilegi ci ripugnano. E se già ci ripugnano inquesta società autoritaria, come potremmo sopportarliin una società che nasce proclamando l’uguaglianza?

Proprio per questo certi collettivisti, comprendendol’impossibilità di mantenere la scala salariale in unasocietà ispirata dal soffio della rivoluzione, si affrettanoa proclamare che i salari saranno uguali. Ma si scontra-no con nuove difficoltà e la loro uguaglianza salarialediventa un’utopia irrealizzabile quanto le scale salarialidegli altri collettivisti.

Una società che avrà preso possesso di tutta la ric-chezza sociale e che avrà proclamato con forza il dirittodi tutti a questa ricchezza – qualunque sia stato il lorocontributo – sarà costretta ad abbandonare ogni siste-ma salariale, tanto in moneta che in buoni. […]

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Proprio come guardiamo alla società e alla sua orga-nizzazione politica da una prospettiva diversa da quelladi tutte le scuole autoritarie – in quanto partiamo dallibero individuo per arrivare ad una libera società inve-ce di partire dallo Stato per arrivare all’individuo – cosìricorriamo allo stesso metodo per i problemi economici.Ovvero, affrontiamo i bisogni dell’individuo ed i mezziai quali ricorrere per soddisfarli prima di discutere diproduzione, tasso di scambio, imposte, governo, ecc. Aprima vista la differenza può sembrare minima, ma difatto sconvolge tutti i canoni dell’economia politica uffi-ciale.

Se si consulta l’opera di qualunque economista, sipuò facilmente verificare come questa inizi con la PRO-DUZIONE, cioè l’analisi dei mezzi attualmente impiegatiper creare la ricchezza: la divisione del lavoro, la strut-tura industriale, i suoi macchinari, l’accumulazione delcapitale. Da Adam Smith a Karl Marx si sono tuttiattenuti a questo percorso. Solo nelle parti successivedel lavoro si affronta il CONSUMO, cioè i mezzi utilizzatinell’attuale sistema per soddisfare i bisogni dell’indivi-duo; e anche così, ci si limita a spiegare come le ricchez-ze vengano ripartite tra coloro che se ne disputano ilpossesso.

Si dirà forse che tutto questo è logico, che prima disoddisfare i bisogni occorre cercare ciò che può soddi-sfarli. Ma prima di produrre alcunché, non bisogna sen-tirne il bisogno? Non è stata la necessità che all’inizioha spinto l’uomo a cacciare, ad allevare il bestiame, acoltivare la terra, a fare utensili e, più tardi, a inventa-re le macchine? Non è l’analisi dei bisogni che dovrebbeindirizzare la produzione? Sarebbe quantomeno logicocominciare proprio dai bisogni e vedere poi come orga-nizzare la produzione in modo da sopperire a tali biso-gni.

Ed è appunto quello che intendiamo fare.Ma dal momento in cui la si guarda da questa pro-

spettiva, l’economia politica cambia totalmente. Cessadi essere una semplice descrizione dei fatti e diventa

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una scienza, che potremmo definire come lo studio deibisogni dell’umanità e dei mezzi per soddisfarli con ilminimo spreco possibile di forze umane. Ma la sua esat-ta denominazione sarebbe fisiologia della società edovrebbe costituire una scienza parallela alla fisiologiadelle piante o degli animali, che è anch’essa lo studiodei bisogni del mondo vegetale e animale e dei mezzipiù vantaggiosi per soddisfarli. Nell’ambito delle scien-ze sociologiche, l’economia delle società umane deveoccupare il posto che nelle scienze biologiche è occupatodalla fisiologia degli esseri organici.

Noi diciamo: ecco gli esseri umani riuniti in società.Tutti sentono il bisogno di abitare in case salubri. Lacapanna del selvaggio non li soddisfa più, chiedono unriparo solido e più o meno confortevole. Si tratta dun-que di chiedersi se, tenuto conto della produttività dellavoro umano, ognuno potrà effettivamente avere lasua casa o se esiste qualcosa che può impedirlo. Nonappena fatta questa domanda, ci rendiamo subito contoche ogni famiglia in Europa potrebbe perfettamenteavere una casa confortevole, come se ne costruiscono inInghilterra e in Belgio o negli insediamenti Pullman,oppure un appartamento equivalente. Un certo numerodi giornate lavorative sarebbe sufficiente per ottenereuna casetta ben arieggiata, ben disposta e con l’illumi-nazione a gas.

Invece, i nove decimi degli europei non hanno maiposseduto una casa confortevole perché in quasi tutte leepoche la gente comune ha dovuto lavorare giorno dopogiorno per soddisfare i bisogni dei suoi governanti, sen-za mai riuscire ad avere quel tanto in più, in tempo e indenaro, necessario per costruire o far costruire la casasognata. E così non ha casa, e abiterà in catapecchiefino a che le attuali condizioni non verranno modificate.

Come appare evidente, noi procediamo in senso in-verso rispetto agli economisti, i quali tendono a perpe-tuare le pretese leggi della produzione e a dimostrare,statistiche alla mano, che essendo il numero di abita-zioni effettivamente costruite ogni anno insufficiente a

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soddisfare tutte le richieste i nove decimi degli europeidevono abitare in catapecchie.

Occupiamoci ora del nutrimento. Dopo aver enume-rato i vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro, glieconomisti ci spiegano come questa divisione esiga chegli uni si applichino all’agricoltura e gli altri all’indu-stria, che l’agricoltura produca tanto e tanto l’industria,che lo scambio avvenga secondo queste modalità… econtinuano analizzando la vendita, i profitti, il prodottonetto o plusvalore, i salari, le tasse, il sistema bancarioe così via.

Ma, dopo averli seguiti sin qui, non siamo per questodiventati più saggi; e se domandiamo loro: «Com’è pos-sibile che così tanti milioni di esseri umani non hannoabbastanza pane quando ogni famiglia potrebbe pro-durre grano a sufficienza per nutrire dieci, venti e per-sino cento persone all’anno?», ci rispondono sempre conla stessa solfa – divisione del lavoro, salario, plusvalore,capitale, ecc. – e arrivano alla stessa conclusione: che laproduzione è insufficiente per soddisfare tutti i bisogni.Una conclusione che, anche se fosse vera, non rispondealle domande se l’uomo che lavora può o no produrre ilpane che gli necessita e, se non può, cos’è che glieloimpedisce.

Ci sono 350 milioni di europei, e ogni anno hannobisogno di quel tanto di pane, carne, vino, latte, uova eburro, di quel tanto di abitazioni e indumenti: di quelminimo di loro bisogni. Sono in grado di produrlo? E selo sono, resterà loro abbastanza tempo libero per l’arte,la scienza e il divertimento, in una parola per tutto ciòche non rientra nella categoria dello stretto necessario?Se la risposta è affermativa, cos’è che impedisce loro direalizzarlo? Cosa devono fare per eliminare gli ostacoli?È forse il tempo che gli manca? Che se lo prendano! Manon perdiamo di vista l’obiettivo della produzione: sod-disfare tutti i bisogni. Se i bisogni più impellentidell’uomo restano insoddisfatti, che bisogna fare peraumentare la produttività del lavoro? O non sarà chemagari ci sono altre cause? Non sarà, forse, che la pro-

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duzione, avendo perso di vista i bisogni dell’uomo, hapreso una direzione assolutamente sbagliata e la suaintera struttura ne è stata viziata? Poiché siamo in gra-do di dimostrare che le cose stanno esattamente così,vediamo allora come riorganizzare la produzione inmodo da soddisfare realmente tutti i bisogni.

Questo ci sembra il solo modo per affrontare corret-tamente la questione, il solo modo che consenta all’eco-nomia politica di diventare una scienza: la scienza dellafisiologia sociale.

È evidente che finché questa scienza si occuperà diproduzione così com’è espletata attualmente tanto neiPaesi avanzati che nelle comunità indù o tra le tribùprimitive, difficilmente potrà esporre i fatti in modomolto diverso da come lo fanno gli odierni economisti,cioè come un trattato semplicemente descrittivo, analo-go a quelli della zoologia e della botanica. Ma se questotrattato fosse scritto in modo da gettare luce sull’econo-mia delle energie necessarie a soddisfare i bisogni uma-ni, esso guadagnerebbe tanto in lucidità che in precisio-ne. E proverebbe in modo indiscutibile lo spreco spa-ventoso di energie umane proprio al sistema attuale,dimostrando altresì che finché esisterà questo sistema ibisogni dell’umanità non saranno mai soddisfatti.

La prospettiva, come appare chiaro, cambia del tutto.Dietro il telaio che tesse tanti metri di tela, dietro lamacchina che fora tante lastre d’acciaio e dietro la cas-saforte che ingurgita i dividendi, dobbiamo vederel’uomo, l’artigiano cui si deve la produzione, il più dellevolte escluso dal banchetto che ha preparato per altri.Dobbiamo inoltre aver chiaro che le pretese «leggi» delvalore e dello scambio non sono altro che una falsa spie-gazione degli eventi così come si producono al giornod’oggi, ma che le cose avverranno in modo del tutto dif-ferente quando la produzione verrà organizzata inmodo tale da provvedere a tutti i bisogni della società.

Non c’è un solo principio di economia politica che nonsi modifichi totalmente se ci si pone nella nostra pro-spettiva.

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Prendiamo, ad esempio, la sovrapproduzione, unaparola che risuona ogni giorno nelle nostre orecchie.Non c’è infatti un solo economista, accademico o aspi-rante tale, che non abbia portato argomenti a favoredella tesi che le crisi economiche sono dovute allasovrapproduzione, ovvero che in un dato momento siarriva a produrre più cotone, stoffe e orologi di quantine servano. E non abbiamo forse tuonato tutti contro larapacità dei capitalisti che si intestardiscono a produr-re più di quello che si può consumare?

Ebbene, non appena si approfondisce il problema tut-ti questi ragionamenti appaiono errati. Infatti, è possi-bile individuare anche una sola merce tra quelle di usouniversale di cui si produca più di quanto ne serva?Prendete in esame una per una tutte le merci speditedai grandi Paesi esportatori e ben presto vi accorgereteche quasi tutte sono prodotte in quantità insufficienteper gli abitanti degli stessi Paesi esportatori. Non èun’eccedenza di cereali quella che il contadino russoinvia in Europa: anche i migliori raccolti di grano esegala della Russia europea danno appena ciò che serveper la popolazione. E di norma, il contadino si priva delnecessario quando vende il suo grano o la sua segalaper poter pagare le tasse e l’affitto

Non è un’eccedenza di carbone quella che l’Inghilter-ra invia ai quattro angoli del mondo, dato che non lerestano per il consumo domestico interno che 750 kg.all’anno per abitante, tant’è che milioni di inglesi si pri-vano del fuoco in inverno o lo mantengono quel tantonecessario a far bollire qualche verdura. In realtà, tra-lasciando gli inutili oggetti di lusso, in Inghilterra,ovvero nel maggior Paese esportatore, c’è solo una mer-ce di uso universale – il cotone – che ha una produzioneabbastanza alta tanto da eccedere, forse, i bisogni. Maquando si guardano gli stracci che costituiscono gliindumenti di un buon terzo degli abitanti della GranBretagna, non si può fare a meno di chiedersi se il coto-ne esportato non sarebbe piuttosto utile per coprire ibisogni reali della popolazione.

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Generalmente non è un surplus quello che si esporta,anche se in origine è verosimilmente stato così. La sto-ria del calzolaio scalzo è vera per le nazioni come lo eraun tempo per il singolo artigiano. Ciò che si esportasono i beni necessari, e questo avviene perché i lavora-tori, una volta pagato l’affitto e l’interesse del capitali-sta e del banchiere, con il solo salario non possono com-prare quello che hanno prodotto.

Non solo dunque il bisogno sempre crescente dibenessere resta insoddisfatto, ma spesso manca anchelo stretto necessario. Ragion per cui la sovrapproduzio-ne non esiste, almeno non nel senso che le viene attri-buito dai teorici dell’economia politica.

E passiamo ad un altra questione. Tutti gli economi-sti ci dicono che c’è una legge assolutamente assodata:«L’uomo produce più di quanto consumi». Dopo averricavato di che vivere dal prodotto del suo lavoro, gliresta sempre un’eccedenza, tanto che una famiglia dicoltivatori produce ciò di cui nutrire più famiglie, e cosìvia.

Per noi, questa frase così frequentemente ripetuta èpriva di senso. Se intendesse dire che ogni generazionelascia qualche cosa alle generazioni future, la cosasarebbe vera. Un agricoltore, ad esempio, pianta unalbero che vivrà per trenta-quarant’anni, o forse unsecolo, e i cui frutti verranno ancora raccolti dai nipotidi questo agricoltore. O magari dissoda qualche acro diterreno vergine, incrementando così in proporzionel’eredità delle generazioni a venire. Le strade, i ponti, icanali, le case e il mobilio sono altrettante ricchezzelasciate alle generazioni successive.

Ma non è questo che si intende. Quello che ci si dice èche il coltivatore produce più grano di quanto non gliserva per il consumo. Mentre bisognerebbe piuttostodire che essendogli stata sottratta una buona parte deisuoi prodotti – dallo Stato sotto forma di tasse, dal pre-te sotto forma di decime e dal proprietario terriero sottoforma di affitto – si è andata creando una classe d’indi-vidui che, se un tempo consumava quello che produceva

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– ad eccezione della parte lasciata per gli imprevisti o lespese per rimboschire o costruire strade – oggi ècostretta a vivere miseramente perché tutto il resto le èstato preso dallo Stato, dal prete, dal proprietario ter-riero e dall’usuraio.

Ci sembra quindi più corretto dire che il coltivatoreconsuma meno di quanto produce, perché è costretto avendere la maggior parte del suo lavoro e a soddisfare isuoi bisogni con la scarsa parte restante.

Ci sia inoltre consentito osservare che se si prendonocome punto di partenza per la nostra economia politicai bisogni dell’individuo, si arriva necessariamente alcomunismo, cioè a un modo di organizzarsi che permet-te di soddisfare tutti i bisogni nel modo più completo edeconomico. Mentre se partiamo dal modo attuale di pro-duzione e miriamo solo al guadagno e al plusvalore,senza chiedersi se la produzione è in grado di soddisfa-re i bisogni, si arriva al capitalismo, o tutt’al più al col-lettivismo, ovvero a due forme diverse di salariato.

Finito di stamparenel mese di gennaio 1998

presso l’Officina Grafica Sabaini, Milanoper conto dell’Editrice A coop. sezione Elèuthera

via Rovetta 27, Milano

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