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SANTE BARDINI Gli artisti di un mondo rusticale che va scomparendo Memorie, curiosità, immagini, ricette della maialatura nel nostro contado i masalìn mantovani

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SANTE BARDINI

Gli artisti di un mondo rusticale che va scomparendoMemorie, curiosità, immagini, ricette della maialatura nel nostro contado

i masalìn mantovani

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SANTE BARDINI

Gli artisti di un mondo rusticale che va scomparendoMemorie, curiosità, immagini, ricette della maialatura nel nostro contado

i masalìn mantovani

Città di Castiglione delle Stiviere

Comune di Cavriana

Pro Loco Guidizzolo

Pro Loco Cavriana

GAL Colline Moreniche del Garda

Gruppo Micologico “Colli Morenici”

Circolo ANSPI Gozzolina

Associazione Postumia Gazoldo degli Ippoliti

Con il patrocinio

Comune Guidizzolo

Comune di Ceresara

Città di Castel Goffredo

Pro Loco Voltese

Pro Loco Sordello Goito

Ente Filarmonico Guidizzolo

Amici di Rebecco

Gruppo Alpini Guidizzolo

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Fotografie di Daniele Sinico

Fotografie copertina, inizio capitoli e “Sequenza di una maialatura mantovana” di Andrea Dal Prato

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Gli artisti di un mondo rusticale che va scomparendoMemorie, curiosità, immagini, ricette della maialatura nel nostro contado

i masalìn mantovani

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L’autore ringrazia:Andrea Dal Prato, direttore della rivista “la Notizia”, per avere concesso le immagini relative alla sequenza della maialatura, per i costanti, amichevoli incoraggiamenti e per il suo fondamentale apporto alla organizzazione editoriale del lavoro. Daniele Sinico per le fotografie dei masalìn intervistati e per essere stato cordiale compagno di viaggio nel girovagare per tutta la provincia. Zeno Roverato, maestro masalìn, per i suoi preziosi suggerimenti sulla maialatura nella terra mantovana. Tutti i masalìn e gli altri informatori che hanno fornito notizie dirette e memorie importanti su questa particolare scansione della nostra vita contadina.

Ringrazia inoltre:Dott. Prof. Maurizio Castelli, assessore all’agricoltura dell’Amministrazione provinciale di Mantova. Dott.ssa Federica Guidetti, Museo del Polirone di San Benedetto Po (MN). Dott.ssa Daniela Ferrari, Archivio di Stato di Mantova. Dott.ssa Elena Montanari, della Biblioteca Baratta di Mantova. Dott. Marco Montesano, Guidizzolo (MN). Dott. Alberto Guidorzi, Sermide (MN). Renato Burato, Fossato di Rodigo (MN). L’Accademia Gonzaghesca degli Scalchi. Maria Dalboni, moglie dello scopritore del sito etrusco del Forcello, Bagnolo San Vito (MN). Dott.ssa Francesca Rizzini, Amministrazione provinciale di Mantova. Sen.Carlo Grazioli, Mantova. La Biblioteca di Goito. Prof.ssa Giuse Pastore, Mantova. Dott.ssa Carla Maturi, direttrice della Biblioteca di Pinzolo (TN).Per la collaborazione grafica: Claudia Dal Prato Design Studio - Guidizzolo.

L’editore ringrazia:quanti hanno agevolato con piena disponibilità il suo compito, in particolare: Graziano Pelizzaro, Annalisa Cappa, Gianfranco Ruffoni, Primo Onofrio, Diego Avesani.

Ringrazia altresì: tutte le Amministrazioni Comunali, le Associazioni e le ditte private che, con il loro contributo economico, hanno reso possibile la pubblicazione: Azichem s.r.l. (Goito), Centro Computer (Cremona), Agriturismo Corte Pompilio (Roncoferraro), Europneus di Alessandro Cargnoni, FM Elettronica, Furio geom. Sandro, Gandini Meccanica, Lucchini Idromeccanica, Ristorante La Baita (Cavriana), Tomasi Auto.

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Prefazione

Questo libro di Sante Bardini - autore di altri saggi di sociologia rurale analizzata sotto il profilo dei “mangiari” tradizionali - ci consente di conoscere un nuovo e singolare aspetto della tematica che gli è cara: i masalìn mantovani. Alla lettura appare immediato il grande amore per la sua terra che lui complessivamente definisce “mantovanità”. Con penna leggera, venata da sottile ironia ma capace anche di scrupolosi approfondimenti culturali, ci porta a rivisitare l’antica realtà del mondo contadino, a conoscerne risvolti particolari ed a meditare sui suoi valori.Oggi siamo affascinati dalla modernità ricca di intriganti suggestioni e perciò stesso tendiamo a rimuovere le dolorose memorie di un’esistenza fatta di miserie, di sacrifici e rinunce. Tempi difficili ma, alla fine, non del tutto negativi in quanto è proprio nelle difficoltà che si forgiano i valori dell’uomo.Il libro di Bardini è anche un’amabile sollecitazione a non dimenticare una storica e benemerita categoria di artigiani, “artisti” del contado, i quali si sono dati da fare da un secolo all’altro per rendere meno misero il desco familiare. Oltre al rigore storico, alla vastità dell’indagine, alle numerose ricette originali raccolte, alle descrizioni accurate della maialatura ed al concorso sempre evidenziato delle donne di casa, sono da apprezzare le valutazioni di carattere umano della ricorrenza. Pur nelle difficoltà del lavoro e lo stringimento costante della fame, si godeva la semplice gioia festosa di un giorno al quale non era esclusa la felicità di una tavola finalmente abbondante.I più attenti fra i lettori coglieranno certamente anche il rammarico dell’Autore per il riprovevole oblìo nel quale è caduta l’arte di far sö al pursèl nella nostra terra. Lamenta, giustamente, che stiamo disperdendo un patrimonio di esperienze popolari assolutamente unico. Esso trae certamente da un’antico ed amorevole rapporto della gente del contado con la propria terra ma anche da una intelligente scelta della famiglia Gonzaga. Era questa una dinastia di alto lignaggio nell’Europa di quei tempi, con dimore ricche di ragguardevoli opere d’arte ma, alla fine, anche di gusti piuttosto semplici

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nei mangiari di ogni giorno. Per sorvegliare e governare i loro possedimenti avevano palazzi, affidati ai rami cadetti, sparsi in quasi tutti i più importanti centri della provincia. I cuochi erano individuati in ambito locale tra coloro, uomini e donne, che avevano singolari abilità ai fornelli. Nel tempo avveniva dunque uno scambio di esperienze, una osmosi tra la cucina padronale e quella della campagna che ha portato la nostra terra a possedere un patrimonio gastronomico invidiabile, superiore certamente a quello di altre regioni.Mi compiaccio di presentare questo libro anche perché mi è gradita l’occasione di evidenziarne le rilevanti potenzialità commerciali che sono legate al recupero della honesta voluptate mantovana. Il nostro Paese è sempre più alla ricerca della qualità e questa si realizza soprattutto nel genuino quotidiano. Abbiamo le carte in regola per dimostrare, ancora una volta, di essere dei depositari privilegiati sul tema suggestivo della tavola sapiente e deliziosa. Il saggio sui nostri masalìn non va dunque affidato alla polvere dello scaffale ma va letto con devota attenzione.

Andrea Dal Prato

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Presentazione

La mia attività professionale comporta un contatto costante con la legislazione finan-ziaria, con le pratiche amministrative e tributarie e con i bilanci.Con le scartoffie, insomma.Va da sé che tale impegno lo affronto con entusiasmo e interesse perché, dopo tanti anni, ancora mi appassiona e mi coinvolge nonostante le molte complessità proprie del mestiere legato alla realtà quotidiana, oggi più che mai, irta di insidie e difficoltà.Nel contesto di un’attività inesorabilmente sempre più coinvolgente e frenetica, ogni tanto, sento la necessità di ritemprare la mente e lo spirito con qualcosa che mi tocchi e mi intrighi in una mia antica passione: il mondo contadino ed i suoi mangiari.Cosa c’è allora di più confortante, sereno e distensivo di un incontro amicale tra vec-chi sodali toccati ab imo pectore dallo stesso fervore? Cosa può superare in cordiale felicità un desco guarnito da un piatto di affettati di sana e robusta costituzione fisica, distinto da rigorosa genesi contadina, ben guarnito da qualche bottiglia impettita e maliziosa. Questi sani ingredienti creano così un perfetta combinazione che diviene ben presto strumento ineludibile per liberare una conversazione sincera, senza insidie, su temi diversi del nostro quotidiano più intimo e più vero.Una fetta di salame coscienzioso ha il merito di riportarci a tempi passati, direi addi-rittura alla nostra infanzia, di evocare il sentimento scomparso dell’autenticità, quella che nasceva da un contesto povero sino alla miseria - si mangiavano i malfacc fatti con el pamòi, le erbe spontanee di campagna che dunque non si comperavano – ma dove tutto era franco e genuino e solidale. Ed il pane era pane.Ringrazio il prof. Sante Bardini per il pregevole lavoro di ricerca svolto. Mi ricon-duce da una parte alla mia adolescenza e mi rinfranca dall’altra nel presente. Come ho detto, di tanto in tanto infatti mi diletto ancora ad impugnare la coltellina lunga e sottile, a munirmi di un tagliere dalle venature vecchiotte e ad affettare con la stessa ieraticità con cui si officia un rito. Molto spesso sono attorniato da un gruppo di amici sinceri che seguono la svolgimento della liturgia anche se con un distacco che è solo apparente.

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Mi fa piacere che nel libro sia ricordata la città di Castiglione delle Stiviere, e la frazione di Gozzolina. Qui i masalì (noi lo diciamo così, alla bresciana) sono molto attivi, particolarmente numerosi e devoti all’osservanza (c’è un che di francescano nel loro agire).A Gozzolina, infatti, sono stati recentemente organizzati degli incontri ‘spirituali’ per la condivisione di competenze, esperienza e orgoglio localistico con l’auspicio che si possa ben presto giungere alla stesura di un disciplinare che detti i canoni di produzio-ne del salame tipico dell’Alto Mantovano.Cosa dire poi delle coppe, delle pancette, dei cotechini e di altre mirabilia locali.Credo infine che lo sforzo del prof. Bardini vada particolarmente apprezzato perché, raccogliendo e commentando le testimonianze di questa affascinante arte rurale, egli intende preservare e tramandare il messaggio forte e genuino di una attività tipica contadina che tanto ha caratterizzato il nostro territorio. In conclusione, trovo acconcio parafrasare il troppo spesso dimenticato Leopardi: “… Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in tanto ben di Dio”.

Marco Montesano

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La civiltà contadina va scomparendo. Insidiata dalla industrializzazione, snaturata dalla chimica, vessata e stuprata dalle ferree leggi dell’economia della società con-temporanea tesa, per definizione, all’avere più che all’essere, vive da tempo un’agonia irreversibile.Per la apatia morale che ci condiziona non ci stiamo accorgendo che valori essenziali - ai quali ci siamo tutti formati - si stanno inesorabilmente disgregando dando luogo a prospettive inquietanti. È la fine di un lungo ciclo vitale, di un lento processo evo-lutivo che è stato alla base delle conquiste del mondo occidentale che ora si arrende all’edonismo. Restano i ricordi, autentiche pagine di storia, che persone attente recuperano e siste-mano con tanta passione come giusto memento per un’epoca plurimillenaria, consoli-data nelle sue modalità, scandita dal duro lavoro e dal susseguirsi delle stagioni, con-traddistinta da impegno e vivo senso della solidarietà. Sono fondamentali documenti di vita.Nella mente dell’uomo si sono consolidate nel tempo delle esperienze importanti e ri-petute che ormai, con il passare dei millenni, fanno parte del suo patrimonio genetico. La paura dell’incognito, la necessità della caccia e della pesca, la malìa del fuoco, la battaglia per il predominio sul territorio, la difesa della tana, la tutela della famiglia ecc. costituiscono quelle pulsioni primitive che sono in noi già dalla nascita e che affiorano dal subconscio ancestrale per ricordarci la nostra estrazione animale. Siamo legati cioè a quella condizione nativa che cerchiamo, senza riuscirci pienamente, di celare con l’educazione, cosmesi formale e artificiale che non riesce a nascondere del tutto la nostra natura originaria.È questo il tessuto complesso e misterioso che forma la psicologia di un popolo. Esso è fatto di ricordi, di riferimenti territoriali, di sentimenti, empiti religiosi, norme con-divise, usi, costumi e tradizioni cucinarie, legami spirituali, controllo sociale. Tutto questo rappresenta le nostre origini, l’involucro della nostra coscienza, l’interiore ho-mine.

Introduzione

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Il mondo della maialatura, animato dai masalìn, è una componente essenziale ed in-defettibile di questa civiltà.L’impulso a descrivere il fascino di un mondo particolare che si inserisce con ampio diritto nell’ambito della civiltà contadina, mi è sorto una sera di giugno del 2011 nella piazza del comune di Rodigo. Convenuti dalla provincia mantovana, dai paesi e dalle cascine sparse sulle colline o nella piana o vicini alle rive del Po, c’erano i nostri masalìn, i fedeli interpreti di una tradizione antica che da noi affonda le sue radici addirittura nell’epoca etrusca. Circondati da un folto pubblico curioso e partecipe, seduti a tavoli opportunamente predisposti, una cinquantina circa di questi validissimi artisti del contado valutavano, intimamente compresi che la storia li osservava, i salami in gara nella prima edizione del “Concorso provinciale del Masalìn Mantovano”. Gli epigoni di un tempo passato ma ancora ben radicati nella memoria e nella riconoscenza della nostra gente, sede-vano uno accanto all’altro, un poco intimiditi dall’essere al centro della attenzione generale, pronti a fare con scrupolo il loro dovere.Vedendoli intenti a palpeggiare clinicamente, ad annusare, ad assaggiare i capi sot-toposti al loro giudizio, ed ascoltando i loro dialoghi animati da una appassionata esperienza professionale, ho capito che esiste ancora la maniera di essere legati ai modi dell’onestà. Con le fette brandite, con rispetto ma non esente talvolta da severi giudizi negativi come si conviene ad una competizione corretta, scevra dai soliti opportunismi com-piacenti, mi hanno confermato che il contado è depositario di valori permanenti che la modernità non riesce ancora a sconfiggere. Mi sono subito rafforzato nelle mie aspettative. L’evento di Rodigo non si poteva assimilare alle tante feste, che soprattutto nel periodo estivo, costellano la provincia con seducenti richiami mangerecci quali la rievocazione delle tavole medievali, la rassegna dei risotti, l’antologia della griglia ovvero la giostra rutilante delle fujade. Mi sentivo immerso in un contesto di rango superiore, sempre di carattere rusticale, ovviamente, ma dalle connotazioni di cospicuo valore sociologico. Capivo insomma che ero privilegiato spettatore di un soprassalto identitario inteso a salvare un bene culturale, un sapido ed incommensurabile patrimonio della cucinaria nostrana che va disperdendosi nelle nebbie della modernità. Ho avvertito allora l’urgenza interiore di far gemere i torchi. Ho voluto incontrare gli interpreti di questo evento così rilevante. Li ho ascoltati, ne ho indagato l’anima, ne ho raccolto i ricordi in alcune pagine scritte più con il cuore che con la mente. Ho cer-cato anche di proporre delle immagini a maggiore esplicazione del testo, un corredo questo che mi auguro possa essere apprezzato un giorno da qualche appassionato di demologia rurale.

A leggere la lunga storia della cucina si colgono passaggi che evidenziano come i modi e la varietà delle preparazioni siano tanto soggetti alle scoperte geografiche o

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scientifiche quanto alla mutabilità delle strutture e degli ordinamenti sociali. La co-noscenza della patata, del pomodoro, del riso, del formentone, del caffè ecc. hanno sensibilmente modificato la tavola di ogni nostro aggregato sociale. Ma anche la diffu-sione della democrazia e della dignità dell’uomo nonché il progredire della istruzione di base, hanno contribuito notevolmente ad ampliare il consumo di beni alimentari da parte degli strati meno abbienti della popolazione e nel contempo a diminuire, a ridurre i fasti delle mense di rango superiore, nobiliari, aristocratiche e borghesi, sino a raggiungere, soprattutto in questi ultimi anni, una discreta reciproca prossimità.Alcuni secoli fa le imbandigioni delle tavole signorili si caratterizzavano per la im-pressionante profusione degli ingredienti, quasi buttati alla rinfusa in ogni prepara-zione. Non c’era il senso, sviluppatosi successivamente, dell’accordo, dell’armonia tra i sapori. Si riteneva che il sommarsi di componenti preziose rendesse di per sé stesso il piatto prelibato. Oggi noi restiamo, sorpresi, direi stupiti per il numero di tali apporti alla confezione della vivanda. Propongo un esempio tra i tanti possibili. Ci proviene dal cuoco gonzaghesco Bartolomeo Stefani. Traggo dal suo libro “L’arte di ben cucinare”, la ricetta della testa di vitello: “Pigliarete due libbre di polpa di vitello, ben battuta, oncie sei di lardo avertendo che non sii rancido; erbe odorifere, cioè, mentuccia, maggiorana, serpollo, & altre erbe diverse tutte ben battute insieme, cascio parmigiano, oncie tre di midolla di bue, libra una di ricotta fresca, libra una di pasta di marzapane, libra una di cedro condito, oncie sei pignoli, oncie tre uva passa, quarti tre canella pista, oncia mezza di garofani pesti, un poco di pepe, noce moscata, e sale a discrezione …”. In tali formule c’è un alcunchè di raccapricciante per l’uomo di oggi che si troverebbe a mal partito nell’assumere, al di là di ogni considerazione gastronomica, un insieme tanto rilevante di sapori così intensi e disomogenei.La classe subalterna, sempre in difficoltà nel combinare il pranzo con la cena, aveva invece necessariamente sviluppato una cucina assolutamente semplice, povera, sareb-be da dire addirittura primordiale, basata molto spesso su alimenti di risulta che trae-vano, in particolar modo, da quanto gli poteva offrire la terra che lavorava duramente. Degli animali di bassa corte (polli, conigli, galline, anatre ecc.) non consumava di consueto le parti migliori, quelle di pregio, di rilevanza superiore, che vendeva ai signori o barattava, ma ciò che restava dell’animale. Questo residuo era costituito dai ritagli, dalle rigàglie (ironicamente le parti spettanti al re): fegato, cuore, collo, testa, zampe ecc. A Cerlongo, paese dove vivo da tanti anni, con tali frattaglie le residùre approntano un piatto chiamato “tìngol” (da intingolo) che nella sua semplicità è di una bontà assoluta, una ricetta perfezionata nel tempo, portato di una lunghissima pratica comunitaria. Con polenta.È da parecchi anni che la cucina non c’è più, come scrive il prof. Giovanni Ballarini presidente della Accademia italiana della cucina. O più precisamente non c’è più la pratica antica della cura amorevole del cibo della tradizione. Ora c’è - soffocante, ossessiva, ineludibile e debordante - la cosiddetta “cucina creativa” che si propone di titillare il cuoco nascosto che c’è in noi. Essa non è più correttamente intesa come nu-

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trizione, sostentamento, pazienza, lavoro manuale. Oggi è divertimento, svago, spet-tacolo, hobby, competitività, ad uso dei tanti concorsi che ne costellano i dintorni. È pervasa da una deplorevole fretta che già da sola contraddice ai criteri di ogni buona pratica dei tegami. Si corre, si taglia, si cuoce, si impiatta con una concitazione che è al limite della frenesia. Poi si sta lì, scelleratamente, a curare la presentazione come se fosse un quadro, un’opera d’arte e ci si dimentica che la bellezza è un conto ma che la calda bontà è un conto di gran lunga superiore. Si va al ristorante per mangiare bene e non per vedere. Per questo ci sono i musei.Si è talmente esagerato in questa pratica che al detto “anche l’occhio vuole la sua par-te” bisognerebbe sostituire finalmente, come peraltro è sempre stato, “anche il palato vuole la sua parte”, parte che non può essere offesa da piatti cromaticamente variegati, pasticciati ma inesorabilmente freddi. È la moda di questi tempi nei quali l’immagi-ne prevale sulla sostanza e dove l’affastellamento verticale, in angoscioso equilibrio instabile, impera sul cheto servito pianeggiante. Ma, stiamo allegri: come tutti gli an-dazzi che caratterizzano ogni epoca, anche questo passerà lasciando pochi rimpianti. Da tutte queste considerazioni emergono ancora una volta i valori perseveranti della campagna. Sono princìpi e criteri che io ho assunto, senza mai pentirmi, come metodo e misura dei miei rapporti con il prossimo, con il mondo che mi sta attorno e che mi guidano nella vita.Nelle nostre case o corti o comunità, era norma comune la concretezza, il sano reali-smo, rustico fin che si vuole ma improntato all’efficienza, alla giusta resa del lavoro non disgiunto da qualche piacere del desco. Il diletto, la soddisfazione, il compenso personale si racchiudeva praticamente nel ristretto ambito della fondina. Il soprappiù lo si conquistava tra le lenzuola.Il lettore attento avrà capito che intendo riferirmi proprio ai masalìn mantovani, attori tra i più attivi, solerti e provveduti della vita contadina. Questi, con una professionalità antica che si è trasmessa oralmente di padre in figlio ed allievi, tra becaröl, coltelli, meséte, tritacarne e budelli, traevano dal maiale allevato con un amore sinceramente interessato, parte ampia e gratificante del companatico quotidiano. Nascevano così pancette, cotechini, coppe e salami ed altre sublimità sistemate con orgoglio e com-piacenza sul baldachìn. A festeggiare tanta grazia di Dio dopo mesi di desco piuttosto povero e talvolta addirittura squallido perché al limite dell’indigenza, si chiamavano la sera i parenti più prossimi ed i sodali della cerchia ristretta, per godere finalmente, in sana letizia, un pasto amabilissimo ed abbondante.I piatti che si succedevano per l’occasione erano conformi ad una sequela consolidata e veneranda, rispettata da tutte le famiglie: macaròn o risòt dal pursèl servito all’on-da, ossa, codino e zampetti bolliti con contorno di cren, bussolano mantovano (quello duro) intinto nel vino. Il quale vino era quello di casa, attinto alla botte della cantina, quasi sempre reso infermo da una estate torrida che giustificava il detto “al bev pian ma al va so fort” (sa di aceto). La serata si svolgeva nella cucina (al lato sinistro dell’ampio andito) grande allora

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quanto tre o quattro volte quelle attuali, con il focolare ben illuminato dalle fiamme di qualche sòca e con ai lati un curioso arnese in ferro chiamato la pumatéra che sostene-va su appositi ripiani delle mele che liberavano pacifici sbruffi di ventosità. L’allegria era generale, le risate convinte. Qualche barzelletta un tantinello scollacciata, celie e frizzi innescati dal naturale allentamento dei freni inibitori - sempre presenti nella rusticalità del contado di una volta e intrisi di simpatica ironia - rendevano indimenti-cabile l’incontro. C’erano anche il prete e al dutòr che con la loro presenza davano un tono rilevante al desco. Erano tempi difficili ed anche i religiosi non disdegnavano il mangiare rustico né il contorno amicale. Fuori stazionavano il gelo o la neve o, nei casi più generosi, la nebbia, quella della valle padana ovattata e spessa, da tagliarsi con il coltello. Le donne di casa, indaffarate ma soddisfatte della particolare novità, servivano la cena. Le ossa dovevano essere bollenti, tali da scottare gradevolmente il palato. Ognuno si affrettava a consumare quanto gli era posto davanti per non darla vinta alla perfidia del freddo che rischiava di raffreddare la pietanza. Alla fine c’era il caffè, d’orzo, bollente anch’esso, cui si ac-compagnava, nelle famiglie più benestanti, un goccio di fèrnet o di ferrochina. Grappa fatta in cantina, di straforo. Mia mamma si ricordava che in tale occasione i suoi fratelli - sette maschi, capaci di suonare ciascuno uno strumento diverso – si mettevano assieme per formare una specie di orchestrina con le musiche da ballo allora in voga. Uno spasso, una felicità totale. Mi torna alla mente un pensiero di J. Wolfgang Goethe che ogni tanto traggo dalla memoria perchè riassume stupendamente il mio amore per il contado:

”Odo già il brusìo del borgo Qui è il paradiso vero del popolo,

felici e contenti tutti quanti.Qui sono uomo. Qui posso esserlo”.

Oggi, ai primi anni del terzo millennio, la carne e gli insaccati di suino sono ritenuti cibi di scarso pregio in un contesto alimentare reso esteso e direi pletorico dalla ric-chezza che ci ha sciaguratamente afflitti subito dopo la seconda guerra mondiale. E ci sta ossessionando. Vogliamo tutto e sempre di più, non ci accontentiamo mai di nulla, l’uomo è pervaso dal furore del denaro, del possesso, è intriso di cupidigia dell’avere più di quanto gli abbisogna. Vogliamo farci del male, Masoch si aggira fra le nostre contrade e sparnazza il veleno che ci allontana e ci mortifica nei sentimenti migliori. Una volta non era così. A sostegno di questa affermazione riporto quanto mi ha rac-contato l’informatrice, signora Lina Decca di Cerlongo. A metà del secolo scorso lei abitava a Cavriana, paese della morena mantovana, poco adatto alla agricoltura, senza risorse idriche, complessivamente dunque molto povero. Sotto le feste natalizie in molte famiglie veniva ammazzato il maiale ed era pratica antica che i più poveri andassero a fare el caedù. Il compianto prof. Antonio Minuti riteneva che la parola

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derivasse dal francese cadeau (dono) e che la sua pratica si potesse riferire agli antichi diritti comunitari del Settecento. So per certo che questa richiesta di carità, si badi, era attesa ed addirittura bene accetta dalle famiglie benestanti. Nel basso mantovano era denominata ùnsar al spròc denominazione fortemente allusiva, connotata dall’affilato sarcasmo contadino per lenire in un qualche modo il dramma che le era sotteso. Lina era ancora molto piccola e con un carrettino trainato dall’asinello di suo padre, sempre ammalato, accompagnava la “Mantuana” e la “Marca” – due anziane donne ridotte alla miseria – a fare el caedù. Passavano dalle corti di fittavoli che vivevano discretamente - una volta da una parte del paese e poi da un’altra - e chiedevano un poco di aiuto. Tutti davano qualcosa. Si trattava di oboli modesti che nel loro assie-me erano sufficienti per non morire di fame: un pezzetto di lardo, una salamella, un piccolo cotechino confezionato appositamente per questa circostanza, un po’ di farina gialla o bianca, mezza zucca, qualche grepula, una bottiglia di vino, un paio di uova, legna per il camino ecc. La mia informatrice aggiunge che in occasione della festa di San Biagio, molti veni-vano da fuori - era una delle rare occasioni per stare assieme - ed erano ospiti presso i parenti di Cavriana. In successione: c’era la vigilia, la festa vera e propria che cade il 3 di febbraio, ed il Sanbiasì, il giorno dopo. Tutti cercavano di fare bella figura e per questo chiedevano ai vicini, per una o per l’altra di queste giornate, le posate e la tovaglia bianca, a quel tempo preziosità che molti poveri non possedevano. Lina ricorda benissimo che se avessero prestato le posate a qualcuno, la mamma ap-prontava per il pranzo dei maccheroni, fatti in casa e alla svelta, più grossi del solito per poterli mangiare con le dita. Lina completa l’affresco dicendomi che era consueti-tudine diffusa, come atto apotropaico per allontanare le malattie, di indossare qualco-sa di nuovo per il giorno di Natale. Loro erano poverissimi e quindi erano più solleciti a tutelarsi dalla sfortuna anche perchè qualsiasi infermità sarebbe stata una tragedia. La mamma allora, per il bene dei figli, metteva una semplice mollettina di ferro, dal costo insignificante, sui capelli di ciascuno. I nostri giovani queste cose non le sanno e se qualcuno gliele dice non ci credono ovvero le rimuovono con un sorriso di compatimento.Dicevo del “far su” il maiale.Il masalìn era atteso da grandi e piccoli con trepidazione. Tutti erano impazienti di vivere un rito antico, di serenità e di gioia. Egli arrivava e subito dava gli ordini ne-cessari per la buona riuscita dell’impresa. A quel tempo era forte il senso dell’autorità. Rientravano in questa cerchia ristretta, a prescindere dalla categoria di appartenenza, tutti coloro che per rango sociale ma anche per credito e fama, godevano di prestigio e di considerazione. Si andava dunque, passando di grado in grado, dal rasdòr al fattore, dal proprietario della terra al prete, dal maestro al sindaco. Il dottore, il farmacista ed il parroco formavano la terna storica di ogni paese, la triade delle autorità riconosciu-te. La loro parola era ascoltata, attesa e, sovente, seguita. Allora l’istruzione, anche a livelli modesti, conferiva un grande ascendente.

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Anche il masalìn rientrava in questo singolare contesto gerarchico e ne era consape-vole. Quando arrivava, di primissimo mattino, alle prime luci dell’alba se non addirit-tura ancora al buio, abbandonava la consueta familiarità ed incominciava ad impartire ordini non con il tono che gli era solito, cordiale ed affabile, ma con quello del coman-do. Si trattava, ovviamente, di sfumature ma erano percepite nettamente ed alla svelta. Presiedeva la liturgia che si andava allestendo e nessuno si permetteva di discutere le sue direttive. Investito intimamente della parte, a voce bassa, con toni secchi ed imperativi, officia-va secondo una esperienza maturata nel corso di tanti anni, attento ad ogni passaggio, pronto a sollecitare il lavoro, dirimere scelte, valutare modalità, controllare quanto fatto, approntare conce e pugnare (la parola corretta sarebbe misturare) l’impasto del salame. Era rispettato per due motivi: perché assicurava una fondamentale riserva di cibo e perché celebrava un sacrificio pubblico. Dava la morte di fronte a tutti e ciò lo metteva, in una qualche misura, prossimo alla sacertà.Ai suoi aiutanti riservava - sempre sotto suo riscontro e vigilanza - la pelatura del maiale, il lavaggio dei budelli, la manovra del tritacarne (fino a poco tempo fa avveni-va manualmente), la riduzione delle carni in pezzi grossolani, la legatura, la foratura degli insaccati ed altre operazioni minori.Erano in ballo onore, reputazione, notorietà e da queste discendeva immediatamente la possibilità di ingaggi presso le famiglie nel duro periodo invernale quando i lavori nei campi erano fermi. C’era di mezzo il pane ed altri pochi generi essenziali. Sullo sfondo si stagliava la figura dal buteghér, che faceva credito per l’inverno ed aspet-tava.A metà mattina le donne di casa, con le ghiandole dell’animale (caren mate nell’alto mantovano), i polmoni, la reticella, un pezzo di filetto per dare un gheo di nobiltà, ed il fegato, approntavano un piatto che è considerato ancora oggi una beatitudine terrena: la fritüra. Le ricette sono molte e variano da zona a zona della provincia. Per l’area dell’alto mantovano ritengo corretta quella del volontariato “cerlonghino”, aggettivo ortografi-camente errato ma del tutto corrispondente all’orgoglio di questa comunità. Si tratta di frattaglie diverse del maiale, aventi ciascuna scarso valore, che vengono cucinate secondo modalità antichissime. È la colazione tradizionale, con dignità di pranzo, nel giorno della maialatura. Solo chi l’ha mangiata può comprendere la bontà di questa pietanza, caposaldo della vecchia cucina campagnola, grossolana alla vista ma ineguagliabile al palato. Vanta una storia bimillenaria. È talmente diffusa e carat-teristica che ho ritenuto opportuno farne un capitolo a parte.Ho chiesto a tutti i masalìn che ho incontrato se, a loro parere, il salame di una volta era migliore di quello di oggi. Un tempo - si parla di oltre un secolo fa - l’alimen-tazione risentiva in proporzione elevata delle condizioni economiche della famiglia che teneva il maiale. Se c’erano delle ristrettezze - e c’erano quasi sempre - anche la bestia risentiva di questa povertà e le sue carni non erano un granchè. Ma a contrastare

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questo svantaggio si poteva contare sul fatto che la terra, l’acqua e l’aria erano intrin-secamente di gran lunga diverse e migliori. La conclusione è ovvia: salami eccellenti e quindi migliori di quelli attuali se prodotti nelle case di benessere fiorente e conso-lidato. Peggiori nel caso opposto.Pane, salame ed un bicchiere di lambrusco brioso, rappresentavano - ma lo sono anco-ra oggi - una formulazione completa, una “carte” angusta ma finita della nostra cucina contadina. Era una composizione che da sola qualificava la tavola del contado, sia quella povera che quella ricca. Pane e salame non sempre erano presenti, infatti, nelle nostre famiglie di salariati e braccianti di campagna, nelle quali talvolta mancava persino il pane stesso. Ho raccolto penose immagini di parecchie donne anziane, nella mente delle quali era ben fermo il ricordo che la sporta delle pagnotte veniva appesa molto in alto affinchè i bambini non potessero arrivarci. Con il passare del tempo, diventate meno precarie le condizioni economiche, il salame è passato da protagonista della mensa di un certo rango a piacere di tutti, ad una fun-zione di complemento del pasto ed a presenza indefettibile in ogni incontro amicale. Compariva ormai quasi quotidianamente, portato in tavola sul tagliere accompagnato invariabilmente dalla curtelìna, affilato ma suadente strumento di un po’ di felicità a buon mercato, di un momento di gioia piuttosto raro comunque nello scorrere di un’e-sistenza costellata di sacrifici, di rinunce e di fatiche. È difficile oggi parlare di questo mondo disagiato ed angusto. Appena vi accenno, cer-cando di acquisire notizie di un passato sociologicamente di grande interesse, i nostri vecchi si ritraggono, lo sfiorano appena ed anche quel poco me lo descrivono con fa-tica, quasi vergognandosi di essere stati attori quotidiani di realtà dolorose delle quali non avevano alcuna colpa. Tentano di rimuoverle con un sorriso mentre si soffermano volentieri su altri aspetti di quell’epoca: mancava tutto ma c’era una umanità stupen-da, con comportamenti e sensibilità che ora si collocano nel repertorio dei bei ricordi. C’erano comprensione reciproca, solidarietà, amicizia vera, senso del religioso. A metà degli anni sessanta appare una ennesima rivoluzione nel campo della ma-ialatura. L’accresciuto e diffuso benessere collettivo unitamente alla comparsa dei supermercati ed alle reiterate raccomandazioni della medicina sui pericoli del coleste-rolo “polistirolo” nella sarcastica dizione dialettale, dei “tricicli” cioè dei trigliceridi, inducono profonde trasformazioni nella socialità contadina. Il maiale non è più con-siderato come prezioso sussidio alimentare, da lesinare oculatamente, con ogni parsi-monia per farlo durare più a lungo possibile, ma, come accennavo, occasione di vivaci incontri amicali, di feste di associazioni e sodalizi, di doni rituali tra le parentele. All’inizio del secolo scorso, regalare all’amico occasionale un cotechino o un salame o un cartoccio di grepule (di ciccioli), era considerato uno spreco, un atto malaccorto, una riprovevole ostentazione. Da allora questo tipo di omaggio - unitamente magari ad una bella punta di grana, altro prodotto tradizionale ormai a disposizione di tutti - è diventato un’apprezzabile strenna in prossimità delle feste natalizie o sostanzioso presente per consolidare un’amicizia sincera.

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Dopo la guerra la maialatura si espande e tocca anche nuclei familiari che le erano sempre stati estranei in passato. Successivamente, in ossequio alle sollecitazioni della scienza medica e condizionati dalla tipologia delle abitazioni ormai prive della storica e fresca cantina, la sua pratica si è andata sempre più riducendo. Oggi si va al super-mercato.Ma il maiale è straordinario e sa adattarsi - come ha fatto peraltro in ogni epoca - alle diverse necessità dell’uomo. Con una lunga serie di incroci, accuratamente progettati in laboratorio e verificati sul campo, si è dato vita a nuove tipologie con caratteri peculiari capaci di corrispondere alle moderne esigenze e quindi con produzione di carni particolarmente magre, tali da poter essere prescritte anche nelle più rigorose diete alimentari.C’è dell’altro. I nostri giovani, sempre alla ricerca di nuovi motivi di incontro, stanno creando delle aggregazioni di stampo quasi goliardico, ma nelle quali non è difficile rinvenire il desiderio di riappropriarsi della tradizione, aventi per tema la sperimen-tazione diretta del “far sü al gugiöl”. Un bel capo viene diviso tra dieci o più ragazzi che operano sotto la guida di un atipico masalìn, cioè uno di loro, giovane, che ha già fatto qualche pratica con il nonno, il papà o lo zio. In uno scantinato, con tavoli ed attrezzature prese in prestito, con tanto di grembiule sottratto alla nonna, si divertono, ridono, spendono poco per due salami ed un cotechino a testa, con comodo di cena, ris dal pursèl, un cartoccetto di grepule. Il fascino della discoteca, con tutte le sue insidie, comincia ad affievolirsi.

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L’origine del maiale come animale con singolari caratteristiche particolarmente utili all’uomo è piuttosto lontana ed incerta. Nelle grotte di Altamira in Spagna, tra i nume-rosi disegni che in un certo senso affrescano le sue pareti a partire da circa 35.000 anni fa, ci sono delle rappresentazioni di quadrupedi che somigliano molto al cinghiale. Più certa appare, anche se con contorni ancora imprecisi, la documentazione tratta da im-magini (pitture e statue) e da reperti tratti da siti studiati approfonditamente da equipes di esperti, che fanno risalire la presenza del maiale vero e proprio in Asia circa 5.000 (altri però sono più inclini per un’età più alta, a 7.000 - 7.500) anni fa.Il maiale, così come lo conosciamo oggi, deriva dalla domesticazione del cinghiale. Linneo 1758 classifica il cinghiale sotto la dizione “sus scrofa” come specie ed il maiale, suo diretto discendente, con il nome di “sus scrofa domesticus” come sotto-specie. Il passaggio dall’uno all’altro è stato indotto verosimilmente dal fatto che una popolazione di cacciatori, di tipo essenzialmente nomade, come era quella dell’ homo sapiens, diventando col passare dei secoli sempre più stanziale, è stata sollecitata ad utilizzare per la sua alimentazione animali da carne non adatti alla transumanza, in ag-giunta agli ovini ed ai caprini che sopportavano invece lunghe migrazioni stagionali. Ha dunque ristretto prima il cinghiale ma poi soprattutto il maiale in zone ancora vaste ma comunque confinate quali erano le selve ed i boschi. Da questa trasformazione della società, con il concorso positivo della notevole pro-lificità del suino e successivamente con selezioni mirate, partendo dal cinghiale si ottennero via via animali che si adattarono agevolmente alla nuova forma di vita con conseguenti modificazioni anche nella struttura e nell’aspetto, in specie nella confor-mazione del cranio. In un primo tempo questi erano certamente allevati ma allo stato brado, in terreni cioè chiusi caratterizzati dalla presenza di stagni, di paludi ed in par-ticolar modo di querceti e quindi ricchi di ghiande e di bacche di cui prevalentemente si nutrivano. Questo lento ma sicuro passaggio dal nomadismo alla stanzialità influì notevolmente sui caratteri delle prime società dell’uomo. Si costituirono aggregazioni di più nuclei familiari per formare un’unico insieme, dapprima in forma approssimati-

Cenni di storia del maiale nel mantovano

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va ma poi con una propria organizzazione gerarchica e religiosa aventi connotazioni di vita sociale ancora elementari. Col passare dei secoli l’agricoltura e la suinicoltura ebbero il sopravvento sulle altre forme di approvvigionamento del cibo. L’economia si sviluppò infatti secondo criteri che privilegiavano la coltivazione e l’allevamento, orientamenti questi che si stavano sempre più imponendo sulla caccia e sulla pesca, opportunità non sempre sicure e stabili nel tempo.

Per rilevare in modo corretto la storia del maiale nel mantovano, bisogna rifarsi, alme-no inizialmente, alle ultime glaciazioni. Senza approfondire un discorso complesso, ancora allo studio, che esula oltretutto dal tema del libro, si può dire che le glacia-zioni hanno avuto dei periodi ciclici, di avanzamento e successivo ritiro dei ghiacci in Europa - e di conseuenza anche sulle Alpi - con esiti importanti sui nostri territori. L’ultima, denominata di Wurm, da un affluente del Danubio, ebbe una durata di circa 110.000 anni e finì approssimativamente 12.000 anni fa, con varie fasi interglaciali come se si fosse in presenza di una struttura viva e pulsante. Durante l’epoca wurmiana, i ghiacciai dopo il loro accumulo incominciarono per ef-fetto gravitazionale a discendere dalle Alpi verso la Pianura Padana. Questa enorme massa, per effetto della escavazione sul fondo e della frizione contro le pareti roccio-se, ha portato con sé, spingendola sempre più avanti (è immagine poco scientifica ma verrebbe da dire, per meglio capirci, come può fare una ruspa oggi) una straordinaria quantità di materiale che ha sconvolto la conformazione originaria dei territori inte-ressati. Il lago di Garda e le colline della morena mantovana si sono formate in questo modo. È quindi comprensibile come anche i territori finitimi abbiano subito delle trasformazioni ragguardevoli non soltanto nel loro substrato naturale ma anche nella geografia fluviale e nel sistema climatico. La provincia di Mantova, prossima alle Alpi, è stata positivamente coinvolta da que-sto sconvolgimento. I suoi terreni ricchi di detriti portati dai ghiacciai, resi soffici da ghiaia e sassi, potenziati da acque a bassa velocità di scorrimento che la rendevano particolarmente adatta allo sviluppo arboreo, diedero vita in poco tempo ad una verde coltre di piante ed arbusti. Questi, sviluppandosi allo stato naturale formarono, in po-che migliaia di anni, boschi e selve. Le piante che vi attecchirono furono tigli, cerri, ontani, olmi, pioppi e specialmente farnie (quercus robur, L.), fagacee di notevoli di-mensioni e longevità, produttrici di frutti acheni del tipo ghiande. Quando il cinghiale (sus scrofa) giunse tra noi trovò nelle zone premontane e nella Pianura Padana un habitat ideale. Circa 10.000 anni fa iniziò la fase del Neolitico. È certamente il periodo più interes-sante per la conoscenza delle dinamiche antropologiche della Pianura Padana. Ci fu il sorgere e lo sviluppo dell’agricoltura come fonte di approvvigionamento alimentare cui fece seguito, dopo qualche millennio, quello dell’allevamento. Questo inizialmen-te si indirizzò verso gli ovini ed i caprini più adatti, come si è detto, alle migrazioni

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stagionali ma successivamente, consolidatesi le tendenze alla stanzialità, ci si rivolse verso i suini inidonei per struttura e pesantezza a lunghi spostamenti ma eccellenti fornitori di carni pregiate.L’accrescimento costante della popolazione e le migrazioni di popoli da altre regioni europee imposero un graduale ma continuo ampliamento delle aree destinate alle col-ture con la corrispondente diminuzione di quelle incolte e disabitate. Si formarono i primi siti stabili le cui tracce, scoperte continuamente anche grazie a nuove tecniche e strumenti di ricerca, sono attentamente studiate e denominate scientificamente “ci-viltà”. Nel periodo romano le terre sono sempre più indirizzate alla produzione agricola ed accanto ai disboscamenti delle selve inizia, sia pure in proporzione limitata, la ridu-zione delle paludi e l’arginamento dei fiumi.Siamo praticamente ai nostri giorni. Molte estensioni vengono assegnate, mediante centuriazione, ai legionari reduci dalle varie campagne di guerra. Ciò per gratificare i soldati ma anche per stimolare un’attenta cura del territorio, obiettivo ineludibile per garantire produzioni alimentari sempre più varie e specializzate e per evitare un ritorno alla foresta. Anche la nostra provincia venne interessata da queste operazioni. Dopo il neolitico, nella prima età del rame, si sviluppano sempre più i metodi di con-servazione delle carni e dei pesci. Si utilizzano soprattutto la salagione e la essicazio-ne ma è il primo sistema quello che attecchisce maggiormente perché assicura risultati migliori e più resistenti nel tempo. Intanto la terra che prima era un bene comune in quanto res nullius incomincia a scarseggiare per il forte incremento demografico avvenuto a seguito delle migliorate condizioni di vita. Si tenga conto che un figlio in più, a quel tempo, significava certamente l’aggravio di una ulteriore bocca da sfamare ma anche l’apporto di altra forza lavoro per la migliore gestione della famiglia e del gruppo sociale, spesso in lotta contro nemici. I territori collettivi cominciarono allora a diventare proprietà di chi li lavorava anche se sempre sotto il controllo di primitivi enti comuni o di rappresentanti locali di iniziali strutture di potere politico ed ammi-nistrativo.In epoca etrusca il maiale era cibo preferito rispetto alla carne bovina ed ovina. Nei loro insediamenti rinvenuti dagli archeologi e studiati ormai in ogni loro aspetto, si può evincere chiaramente che era parte preponderante della alimentazione e che gli erano dedicate anche alcune forme di liturgia religiosa. “Polibio riferisce che mandrie di maiali erano frequenti in Maremma e aggiunge che i porcari etruschi, a differenza di quelli greci che spingevano gli animali con un basto-ne, li guidavano suonando la buccina. Varrone fa rilevare che a tale comportamento gli animali erano educati sin da lattonzoli”. (Forni). Il sus scrofa domesticus è un animale facile all’incrocio e molto prolifico. In un anno potrebbe dare, almeno teoricamente, tre gestazioni dato che ciascuna ha una durata media di 114 giorni (tre mesi, tre settimane, tre giorni). Proprio per queste caratteristi-che l’uomo ha spinto all’esasperazione la selezione modificandone più volte l’obietti-

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vo a seconda delle esigenze della propria alimentazione. Prima si privilegiava la carne fresca e si allevava quindi un certo tipo di suino, poi si voleva carne da conservare e si operò per ottenere specie più pesanti, successivamente si preferì il lardo per le esigen-ze di riserva di grassi e con ibridazioni anche composite si giunse ad un’altra varietà. Ora si richiedono carni molto magre - così da contrastare i pericoli dei lipidi saturi - e si è pervenuti con incroci opportuni ad individui diversi. La scelta ormai definitiva della stanzialità dei gruppi umani, l’espandersi della agri-coltura, l’allevamento ormai diffuso del maiale per avere carni fresche, la successiva conservazione delle carni stesse, tramite la salagione o la affumicazione nonchè la riduzione delle paludi, le prime costruzioni di argini, per indirizzare il corso del Po ed eliminare o quantomeno limitare i danni delle piene, annunciano la affascinante e nobilissima tradizione della maialatura nel mantovano.Si tende ad una stabilizzazione dei siti e ad un tenore complessivo del quotidiano più accogliente, più sicuro. La vita del gruppo e della famiglia si distacca dalla concezio-ne del servizio, del sacrifico, della sottomissione alle forze della natura per cogliere le possibilità che via via si evidenziano di operare al fine di un maggiore benessere. Dagli studi su questo argomento, sempre più raffinati ed approfonditi, si evince che le comunità evolvono, il lavoro si differenzia, si specializza e si volge non soltanto alla ricerca della semplice utilità pratica, ma anche a quella del bello e del buono, con la formulazione rudimentale di trattamento dei cibi (ricette) che si inseriscono irresisti-bilmente nelle impronte e nel modo di vivere della nuova società. Nascono abitazioni più congrue alle necessità della famiglia, sistemi di irrigazione e di difesa articolati ed efficienti, stoviglie non più essenziali nella loro funzionalità ma con ornamenti sempre più raffinati e complessi, tessuti con forme, disegni e colori che li collocano nell’ambito di un gusto sempre più gradevole e talvolta annoverabili, a pieno titolo, nell’ambito della creazione artistica di valore assoluto. Di quell’epoca ci sono giunti manufatti di una bellezza sorprendente. L’uomo non è più subordinato alla realtà che lo circonda e condannato ad accettarla come immodificabile, ma capisce che può dominarla, piegarla alle sue esigenze. Comincia insomma ad avanzare la sua ipoteca per fare emergere l’immanenza che gli è connaturata, i caratteri intellettivi ed estetici che gli sono precipui e che lo differenziano dalla bestia. La nostra civiltà comincia formarsi. Gli scambi con altri paesi e genti di cultura e sto-ria diverse forniscono apporti importanti per la evoluzione del nostro mondo. Siamo ormai prossimi all’epoca romana la quale rappresenta il culmine dei valori dell’uomo sotto l’aspetto militare, estetico, culturale e cucinario. La analisi di questo affascinan-te contenuto esula dal tema del libro e dai limiti sociologi che vi sono sottesi ma è assolutamente intrigante, ricca di connotazioni difficilmente riscontrabili in altre te-matiche. Ci sarebbe da mettere le mani e rovistare, pervasi dal démone del ricercatore e lo scrupolo dello studioso, in molti archivi abbaziali e conventuali, o in quelli di fa-miglie nobiliari o nei polverosi tabulari vescovili, ovvero nelle raccolte di manoscritti statali e comunali. Si tratta di un lavoro immane che richiede passione e competenza

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documentaristica specializzata.Sono consapevole delle mie lacune in merito. Mi sono riproposto solamente di rac-cogliere e di mettere a disposizione di uomini di buona volontà, materiale diretto, più sperimentale che compilativo, senza quelle mediazioni personali volte molto spesso a soddisfare l’ego dell’autore e che finiscono per tradire lo spirito documentario.

Da noi questa meditazione speculativa sui primitivi insediamenti umani ha ragguar-devoli testimonianze. Vado a Bagnolo San Vito ad incontrare Maria Dalboni. Mi accoglie nella sua ampia casa nella quale si fondono con bella armonia la praticità ed il gusto della borghesia di campagna. È rimasta vedova nel 2003 ed ancora si colgono nelle sue parole l’amore e la devozione assoluta per Amilcare, il suo compagno, portato via in poco tempo da un male inesorabile. Un nipotino ci caracolla attorno cercando di attirare la mia atten-zione. È bravissimo, ci riesce. Sono così intensi l’affetto e la fedeltà che Maria pone nel descrivere l’affascinante avventura culturale del marito alla scoperta del Forcello, che mi sento francamente commosso. Verso gli anni Settanta del XX secolo, Amilcare Riccò di Bagnolo San Vito, docente nella scuola di agraria di San Benedetto Po, osservava con grande cu-riosità che nella località comunale denominata Forcello, per effetto delle arature che in quegli anni erano molto profonde, apparivano in superficie dei pezzi di ceramica antica e schegge di manufatti di bronzo. Da attento uomo di cultura non gli fu difficile collegare tali scoperte con la probabile esistenza di un sito di epoca arcaica che biso-gnava assolutamente individuare nei suoi contorni e studiare nei contenuti. In queste passeggiate per i campi era quasi sempre assieme alla moglie Maria e dai figli, giovanissimi. Talvolta era invece accompagnato dal dott. Zanoni, farmacista di Mantova, anch’egli appassionato di archeologia. La presumibile presenza di un deposito derivava dal fatto che il Forcello era un dosso attorniato da una zona di terre basse, caratteristiche precipue ed ineludibili dei primi insediamenti umani, edificati per la sicurezza comune in luoghi sopraelevati circonda-ti da acque o da zone paludose, come erano appunto quelle prossime al Po. Amilcare era assolutamente convinto che là sotto ci fosse qualcosa di molto interessante ed armeggiando con il metal detector era riuscito a raccogliere via via materiale assai probante. Non fu distolto da questa sua congettura nemmeno dal fatto che, portati i reperti alla Sovrintendenza per i beni archeologici della Lombardia, sezione di Mantova, questi furono dichiarati, nell’immediato, di scarso interesse in quanto assai simili a moltissi-mi altri di poco conto rinvenuti attorno al grande fiume, ma poi ampiamente rivalutati sotto il profilo della loro rilevanza documentale. Per fortuna i due amici trovarono un inaspettato ed incoraggiante sostegno da parte del prof. Sassatelli dell’Università di Bologna, eminente etruscologo che ebbe modo di visionare e valutare i ritrovamenti. Tra i tanti libri di archeologia che Amilcare aveva letto c’erano anche quelli di Mas-

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simo Pallottino, romano, etruscologo di fama internazionale, che propendeva, senza avere certezze assolute ma comunque in possesso di molte indicazioni (che bisognava storicamente raccordare ed attestare), che gli etruschi - circa 2500 anni fa - fossero presenti nel mantovano. Il prof. Sassatelli, lo ricorda Maria, ha detto loro “Verrei io stesso a scavare perché sono certo che voi avete trovato la vera Mantova etrusca, ma non posso perché sono di un’altra regione”. Qui si innesta la lunga, animata e mai sopita disputa sulla presenza nel mantovano di popolazioni etrusche che traeva soprattutto dalle affermazioni di Virgilio. Il poeta scriveva:

“... Anche lui conduce un esercito dalla patria, il grande Ocno, figliuolo di Manto fatidicae del fiume tirreno, Ocno che a te, Mantova, diede le mura ed il nome materno,Mantova illustre di nascita; ma l’origine degli abitanti non è una sola:il suo popolo è composto di tre stirpi; e sotto ogni stirpeson quattro città, ed essa è la prima, e i più forti dei suoi guerrieri son Etruschi di sangue”.

Virgilio (Eneide X, 203 - 220).

Quella della realtà di insediamenti preromani nella nostra provincia è stato - ed è an-cora, come dicevo - un argomento assai avvertito sul piano storico e sociologico, che ha originato un dibattito piuttosto insistito e controverso tra gli studiosi. Le ipotesi si infittavano in quanto i segnali erano parecchi e decisamente convergenti ma mancava sempre la prova assoluta, incontrovertibile. Il Forcello ha saputo dirimere la questio-ne. Finalmente dopo i carotaggi e le prospezioni stratigrafiche effettuate negli anni 80-83, ebbero inizio gli scavi diretti dal prof. De Marinis della Università degli studi di Milano, che hanno consentito di acquisire la consapevolezza totale del sito e delle sue caratteristiche. Si scava ancora, si fanno esami, verifiche e controlli con risultati sempre molto soddisfacenti. A questo proposito la signora Dalboni tiene molto ad evidenziare che il nome e la diffusione a livello mondiale della importanza della scoperta, sono dovuti alla felice intuizione del sindaco di allora, Fausto Pozzi, il quale ha avuto la coraggiosa accortez-za di espropriare il terreno interessato alle ricerche e di dar vita al “Parco archeologico didattico” che attira a Bagnolo ogni anno molte scolaresche.In un bellissimo libro scritto a più mani dal titolo “Millenario Bagnolese 997 – 1997”, Riccò quantifica statisticamente i reperti del Forcello provenienti da animali e ne ipo-tizza correttamente la destinazione: “I reperti ossei quasi tutti attribuibili ad animali domestici attestano la netta prevalenza dei suini 58 % circa seguiti da un 24 % di ca-prini ovini e da circa un 18 % di bovini. Il fatto interessante emerso da queste indagini osteologiche è che nei resti scheletrici suini mancano in grande quantità le ossa degli

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arti posteriori: fatto che ci permette di ipotizzare la produzione di gambe salate ed esportate” (pag. 23). I nostri prosciutti nascono così.I masalìn mantovani vantano dunque degli ascendenti illustri e di elevato livello. Gli etruschi sono stati i precursori della loro arte.

Il medioevo è un periodo storico estremamente variegato, ricco di avvenimenti impor-tantissimi, sempre al limite tra il laico ed il sacro, tra leggi severe ed astuzie singolari. L’allevamento del maiale, sempre meno coincidente con quello del cinghiale, si svi-luppa ancora in terreni boschivi e selve ma tende a ridursi in spazi sempre più ristretti, se non addirittura in stabbioli costruiti allo scopo, contigui alle case dei contadini. Da boschi valutati per il numero di porci che potevano nutrire, si passa a sistemazioni meno vaste ma prossime alle abitazioni. I maiali si tengono in ambienti dove l’alleva-mento è meno difficoltoso e più protetto, dove si possono catturare con facilità senza improvvisare battute di caccia. Ogni zona si andava strutturando in città, paesi e borghi, animati invariabilmente dalle imprese eroiche di santi vagabondi ed eremiti isolati in caverne, da quelle criminali di banditi da strada e da processioni di zoccolanti o conventi di monaci orientati alla fuga mundi. Ogni piazza era teatro di spettacoli sfarzosi o di battaglie tra famiglie comitali o di cerretani che si rivolgevano al popolo semplice e credulo osservando il principio, valido sempre, anche oggi, che recita “con falsità ed inganno se vive la mezza parte dell’anno, con inganno e falsità se vive l’altra metà”. Il maiale era sempre presente sia come sicurezza e consolazione, come cibo gradito a tutti, come portata allettante e sontuosa. In questo scenario curioso e davvero affascinante, in tale contesto di varia umanità, emergono uomini dabbene e ladruncoli da strada, notari e pezzenti, catari e signorotti, malandrini, ghirlande di salami e collane di salamelle, pergamene ed editti, galeri e tiare papali, abbazie, cenobi, regge, tuguri. E Matilde.Il porcello è lì, generoso e servizievole, pronto ad illuminare il desco contadino quan-to ad esaltare i convivi principeschi. I cuochi di corte ne fanno sempre più uso per illustrare la magnificenza del loro signore. Pare sia di questi tempi la fantasiosa ed opulenta ricetta del maiale cotto con dentro un agnello con dentro un pollo con dentro delle quaglie. Il popolo, di gusti più semplici e meno provveduti, preferisce sempre comunque la porchetta cotta allo spiedo farcita di aglio e di erbe odorose. Dopo la fine del laborioso popolo dei Celti e quello succesivo degli etruschi, dopo la fine del potente e fastoso impero romano si succedono le invasioni barbariche, di uomini dotati di una carattere forte ed imperativo che portano una civiltà fatta di con-cretezza, senso pratico cui si congiungeva talvolta l’intima ammirazione per la nostra cultura. Si ha la sottomissione delle popolazioni dell’Italia settentrionale. Nel medioevo, eloquenti notizie circa la presenza e l’importanza del maiale in quel tempo si può desumere dal suo allevamento nelle abbazie di tutta l’Europa come cen-tri di cultura, di preghiera e di commendevole rifiuto delle cose del mondo. Si notino

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le proporzioni. In una semplice commenda di Calvados (Leo Moulin) i monaci tem-plari possedevano 14 vacche, 3 giovenche, 1 manzo, 8 vitelli, 2 buoi, 3 “bestie con le corna”, verosimilmente capre, e 98 porci. Nel XIII secolo l’abbazia di Cambron - che un secolo prima riusciva a malapena a nutrirsi – ha 169 vacche, 400 tra pecore e mon-toni e ben 636 maiali. Tali bestie non avevano bisogno di grandi cure, potevano essere liberamente lasciate nei boschi, in aree giuridicamente ben delimitate, ed avevano una resa qualitativamente eccellente e quantitativamente elevata. L’abbazia di Bobbio ne possiede oltre 5.000 e quella di Sain-Germain-des-Prés circa 8.000. È interessante anche osservare come la stazza media del maiale aumenti nell’area pa-dana con il passare degli anni. Se si eccettuano le colline moreniche che ne fornivano una modesta quantità a causa della difficile coltivazione della pianta (gli olivi dell’a-rea gardesana e limitrofe sono gli ultimi geograficamente possibili per via del freddo), in pianura c’era poco olio e di scarso pregio da utilizzare per il consumo familiare (di colza, di ravizzone ecc.) per cui la famiglia si è sempre più orientata verso il grasso animale. Le invasioni barbariche che caratterizzarono l’alto medioevo, ebbero tra le tante significative conseguenze anche quella di una modificazione dell’impiego del grasso in cucina. Da un uso praticamente riservato all’olio d’oliva si passò a quello del lardo ritenuto di sapore più gradito soprattutto nelle regioni italiane invase dai barbari. Il grasso animale si diffuse e già Antimo, un greco assai considerato alla corte raven-nate e molto attento ai costumi dei tempi, nel suo libro “De observatione ciborum” indica il grasso del maiale come ottimo per condire pietanze di vario genere. Il lardo entrò anche nella vita monastica, in alternanza con l’olio d’oliva. Questo era considerato “di magro” e quindi assolutamente necessario nelle varie scansioni tem-porali che il calendario religioso e liturgico indicava come di severa astinenza, ma al di fuori di queste poche ricorrenze, era consentito il grasso di maiale. Questo più ampio utilizzo ingenerò nel tempo una preferenza che solamente da qualche decennio, a causa delle virtù alimentari dell’olio di oliva, comincia a declinare. Avvalendosi della sua singolare prolificità e disponibilità agli incroci, si sono ottenuti tipi di stazza via via maggiore proprio per ottenere una sempre più elevata percentuale di lardo. Queste le indicazioni del “Museo del salame” di Felino.

Anno Peso medio

1500 82 kg1600 98 kg1700 106 kg1820 125 kg1880 155 kg1935 160 kg1960 180 kg

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L’area del Po, o meglio la Pianura Padana, è un concreto esempio di adattamento della cucina alle risorse locali. Mancando la coltivazione dell’olivo si è orientata da parec-chi secoli verso il grasso animale. Era una necessità. Ecco perché le nostre rasdore imponevano ai loro uomini di allevare maiali di grande taglia.Ma l’espansione negli ultimi due secoli della produzione di latte e quindi di burro, ha indotto un’ulteriore evoluzione nelle modalità cucinarie mantovane per cui il lardo è riservato oggi a pochi piatti ed utilizzato soltanto per ricette di carattere storico, nei pochi casi nei quali è d’obbligo un’assoluta osservanza alla tradizione. La diffusione dei caseifici tra la fine del sec. XIX e l’inizio del sec. XX consente di ampliare note-volmente l’allevamento del suino da consumo familiare e per produzione di insaccati su vasta scala. Come sottoprodotto della lavorazione del formaggio si hanno siero, lat-ticello ed altri liquidi di lavaggio che arricchiti di crusca, farina, frumentone e scarti di alimentazione domestica, fornivano un importante cibo per i suini. Ogni caseificio ha la sua porcilaia. Si arrivano a costituire delle grandi stalle suddivise in numerosi stabbi interni che possono contenere oltre trecento bestie ciascuna. È in questo periodo, a cavallo tra i due secoli, che si consolidano e si ingrandiscono piccole ditte artigianali che, sorte inizialmente come attività locali e mai rinunciando quindi alla qualità come elemento distintivo e peculiare delle proprie produzioni, conquistano in breve tempo mercati di dimensioni nazionali. Nella provincia mantovana è d’obbligo citare, tra le altre, la ditta Levoni di Castellucchio.Un cenno sulle razze allevate nel mantovano. Sino ad un secolo fa la propensione era per le razze da lardo e quindi si allevava la razza Lombarda che poteva raggiungere stazze ragguardevoli. Nel basso mantovano non mancava la Parmigiana, la Bolognese e la Romagnola. Poi, con l’allevamento su vasta scala e con l’esigenza sempre più avvertita di carni meno ricche di lipidi saturi, sono state introdotte, variamente incro-ciate tra loro, le razze Large White, la Landrace e l’americana Duroc. Attualmente per la macellazione familiare il peso medio è invariato (170 - 180 kg) mentre è diminuito quello degli animali in vendita presso i negozi ed i supermercati che tendono a pro-porre carni decisamente magre.La nostra salumaria è di rango elevatissimo e molto diversa rispetto ad altre regioni a causa dei vari stati in cui l’Italia era suddivisa sino a un secolo e mezzo fa. Abbiamo prodotti che nessun altro Paese può vantare. Siamo in grado di battere ogni concor-renza anche la più agguerrita e perciò spesso la conquista dei mercati internazionali è quasi un obbligo morale oltrechè un imperativo commerciale. È obiettivo dalle grandi prospettive.Da un punto di vista della tradizione, dell’economia della nostra terra e della socio-logia rurale, sarebbe assai interessante esaminare, studiare ed approfondire in tutte le sue connessioni, questo aspetto rilevante della nostra maialatura familiare o artigiana-le ma ciò esula dai limiti specifici di questo lavoro.

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Nel mantovano era consuetudine diffusa uccidere il maiale poco prima di S. Martino, giorno del termine dei lavori agricoli e quindi deputato ai trasferimenti da un possi-dente terriero all’altro, da un’abitazione ad una diversa, perché si volevano evitare disagi alla povera bestia. I bambini marinavano allegramente la scuola ed era cosa tollerata se non addirittura favorita in quanto la maialatura era già di per sé stessa ottima occasione per apprendere le scansioni della vita contadina e per arricchirsi di un’esperienza importante. Il maiale veniva tratto in qualche modo fuori dalla porci-laia, stretta e bassa (e con un bestione di oltre due quintali non era facile), e poi lo si capovolgeva sveltamente, lo si “corava” con uno stiletto infilzato nel cuore e quindi si tagliavano le vene giugulari, con la rasdora pronta a raccogliere il sangue che finiva in una pentola di rame, con sul fondo la chiave in ferro del portone di casa per evitare delle reazioni chimiche dannose. Venivano poi eseguite tutte le procedure di rito per il sezionamento e la scelta della carni destinate alle varie utilità. Se il maiale era stato al-levato a soccida in parti uguali, le due mezzene venivano stimate ad occhio e soltanto se vi era discordanza ampia tra le due allora si ricorreva alla stadera. Quando le varie operazioni erano terminate e si era già sistemato tutto sul baldachìn, allora veniva portata in tavola la cena con il risotto (ma forse era più preferibile al ris, meno grasso e quasi in brodo), le ossa bollite dalle quali estirpare con modalità barbariche - mani e denti - brandelletti di carne, gli zampetti, orecchie, codino ed altre parti meno nobili.Una volta tanto non si risparmiava, c’era un po’ di abbondanza. Le donne brigavano attorno al focolare mentre gli uomini erano tutti seduti. Quasi sempre erano ospiti il prete ed il dottore. Con il favore di qualche bicchiere di vino nuovo la conversazione inizialmente timida e contenuta, fluiva con cordialità in toni sempre più rumorosi. A questo punto (traggo dall’eccellente Giovanni Tassoni, il più grande sociologo del contado mantovano) si aspettava con ansia ed ilarità il rito del “martinò” che non era specifico dell’area mantovana ma, come attesta A. Visconti nel libro “I Lombardi”, aveva divulgazione regionale. La canzonetta era di tipo amebeo, cioè con versi cantati alternativamente. Scrive Tassoni: “Ad un tratto, nella sera già buia, s’alzava il canto di una comitiva questuante. Il chiacchierìo subito cessava intorno alla tavola; tutti si mettevano in ascolto ammiccando in segno di compiacimento.

Aprite l’uscio, ohibèlachè vöi vegnar déntara g’ho ‘n bel fasoltin

e val vöi regalar

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Dall’interno della cucina, stuzzicante di carni fresche e di fritture, rimbeccava per celia il coro dei commensali:

So ben che voi l’avetema me nu v’el turòintant stè lé de föracantand al Martinò

L’uscio - c’era da pensarlo - restava chiuso; ma i cantori non si scoraggiavano per questo; anzi riprendevano i versi, ora per offrire un grembiale, ora le scarpette o un monile all’oibèla irriducibile. La lenta melodia secondava la mollezza (sic) della di-gestione, nel tepore della chiusa stanza, ma inaridiva le gole canterine, piantate sul portone.

E se vulì che cantebagnèm en po’ la boca,

col veşulìn che gosaa cantarém pü ben.

La Bella lo sapeva; e dal limitare consentiva, finalmente, con le voci raccolte a tener bordone:

Disturbator di quietevenite pure avanticol veşulìn davanti

noi canterém pü ben.

L’uscio veniva spalancato; la compagnia entrava in cucina; le donne offrivano le ec-cedenze della cena e versavano da bere il vino nuovo, ancora un po’ torbido, ma tanto cordiale”.Chi ama i valori permanenti della antica civiltà contadina, coglie immediatamente - con un senso di vivo rammarico, ma direi meglio, di sofferto, intimo dolore - la sem-plicità, la schiettezza, la poetica ingenuità di comportamenti che appartengono ormai ad un tempo passato. Allora la povertà non portava, se non in casi eccezionali, alla violenza, oggi è il contrario. Per completezza di analisi aggiungo una osservazione interessante: nel mantovano i norcini sono individuati con più nomi quali masìn, masalìn, masalì, masalèr, masalàr, mazèn ecc. Nella vicina provincia veronese invece non ha un suo nome specifico. Il motivo, assai rilevante da un punto di vista sociologico, mi è stato spiegato dal sig. Davide Desto che possiede un agriturismo a Gaium di Rivoli. A suo parere il norcino

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era una figura pressochè sconosciuta in quanto in ogni famiglia contadina, per rispar-miare, c’era qualcuno che sapeva lavorare il maiale. Si tenga conto che il mantovano, dal terreno piatto e ben strutturato, era naturalmente una zona ricca mentre il verone-se, dalla superficie ondulata, con alti dislivelli e fondo roccioso, era molto povera e ci si arrangiava. In questa terra, anticamente, ci si orientava verso la soprèsa, insaccato di notevoli dimensioni (anche oltre trenta chili) per averlo sempre morbido, conciato con molto aglio, da consumare con la polenta.Sull’argomento di questo mio lavoro sono stato informato dall’amico sen. Carlo Gra-zioli e successivamente dalla prof. Giuse Pastore, esperta in edifici religiosi mantova-ni, che nei secoli scorsi vi è stato un singolare rapporto, mantenuto sino ad oggi, tra la nostra città e la comunità di Pinzolo nella valle Rendena. Da questo paese infatti durante l’inverno venivano a Mantova molti operai, in massima parte facchini e fa-legnami per la lavorazione del legno per barche e ponti ma anche norcini. Il numero era talmente considerevole che era stato loro concesso il giuspatronato di un altare nella chiesa di S. Martino, posta in via Pomponazzo, ed un locale di sepoltura situato davanti all’altare stesso. Il rogito è del notaio Emilio Righelli e porta la data del 10 febbraio 1604. Sopra l’altare vi è un quadro raffigurante la Madonna con il bimbo benedicente ed i santi Sebastiano, Antonio abate, Stefano e Rocco, tutti venerati a Pinzolo.Mi ha molto incuriosito la presenza di questi masalìn a Mantova. Ho chiesto informa-zioni presso la biblioteca di Pinzolo. La direttrice dott. Carla Maturi, gentilissima, mi ha precisato che la tradizione dei salumai più che di Pinzolo è tipica di due frazioni limitrofe, Strembo e Caderzone. I residenti di Pinzolo svolgevano la professione di arrotino, mentre quelli di Strembo e Caderzone erano norcini. Molti si sono spinti anche nella zona di Trieste.

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La maialaturanel mantovano

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Con il nome maialatura i dizionari defiscono aridamente“il complesso delle operazio-ni con le quali si prepara la carne di maiale per gli usi di pizzicheria” (Palazzi). Detta così, in modo asettico, sembra cosa di poco conto. In realtà “fàr sö el pursel” era un fatto di fondamentale importanza nella vita rurale di una volta, sia perchè da esso dipendeva in buona misura la disponibilità di grasso e di insaccati per scampare l’in-verno, sia perchè era una delle rare occasioni nelle quali si poteva finalmente stare a tavola senza preoccupazioni ed arrivare, per una volta, alla sazietà godendo per giunta la compagnia degli amici. Mangiare era una necessità ma anche l’unica opportunità di procurarsi un poco di gio-ia senza spendere troppo. Era dunque un giorno molto atteso, al quale ci si preparava per tempo con un fervore pieno di grandi aspettative. Quotidiane erano le valutazioni sulla crescita del maiale allevato in uno stalletto o nel porcile, attente le osservazioni sulla forma del suo dorso, sulla probabile resa in lardo ecc., da parte delle donne di casa perchè tale obiettivo era quasi un’ossessione. Averne una buona provvista signi-ficava possibilità di variare il cibo per gli uomini, compensarli della fatica ed ottenere le giuste gratificazioni. A quei tempi la scelta del maiale non era difficile: la razza “romagnola” era la più dif-fusa proprio perchè assicurava una preponderanza di tessuto adiposo su quello magro. Adesso vanno per la maggiore la Landrace, di forma affusolata e con una costola in più, e l’Enduro, incrocio tra la prima e la Large White, estremamente asciutte al punto da essere consigliate persino nelle diete speciali. Un tempo i maiali raggiungevano il peso anche di oltre 300 kg. La scrofa non doveva avere la febbre cioè non doveva essere in calore. Il verro era sempre castrato (sanà, in dialetto) altrimenti le sue carni e soprattutto la sugna, sapevano di orina tanto da non poter essere addirittura lavorate. Che fosse un verro mal castrato lo si capiva da tanti elementi ma soprattutto dal pelo duro ed irto sul dorso. Bisognava dunque stare molto attenti.

Area collinare Informatori: Arturo Antonioli, Gino Bonatti, Ezio Moreni

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Tutti, maschio o femmina che fossero, dovevano possedere una schiena molto ampia e spessa per ricavarne abbondante lardo da conservare al fresco della cantina. Oggi, mutata la filosofia alimentare, si preferisce invece un maiale molto magro, del peso di 170 - 180 kg.Il lavoro e le sue sequenze, invariate da secoli, avevano molto di rituale per cui parlare di cerimonia o addirittura di sacertà non è del tutto improprio. I suoi officianti erano i masalì sempre supportati da un ristretto numero di giovani aiutanti - verrebbe da dire “concelebranti” - desiderosi di imparare il mestiere. Era un lavoro che teneva occupati soprattutto durante i mesi invernali e proprio per questo costituiva una valida alterna-tiva a quello nei campi. Gli ordini, la gestualità, gli attrezzi e la suddivisione dei com-piti, erano il portato di una consuetudine tramandata che nessuno osava infrangere. Dal buon esito della maialatura infatti dipendeva la consistenza della più importante scorta alimentare - vale a dire della complessiva serenità della casa - per cui non erano ammesse improvvisazioni avventate e dall’esito incerto.Le componenti che potevano pregiudicare il risultato finale erano parecchie (con-cia, insaccatura, foratura, conservazione, cantina ecc.) ed i masalì che commettevano qualche errore vedevano compromessa la loro professionalità, la loro fama. Ogni vol-ta mettevano dunque a repentaglio qualche futuro incarico, posta troppo importante per abbandonare la sicura via delle regole consuete. Essi avvertivano questo senso di responsabilità, non ammettevano iniziative personali ed in pratica sorvegliavano tutto. La loro autorità, peraltro, non veniva mai messa in discussione. Ci si rivolgeva a loro premettendo sempre la parola masalì che nel contesto assumeva il significato di “maestro”.Ad essi spettavano i compiti più difficili e delicati quali quello di uccidere il maiale con un coltello lungo ed affilato - frequente l’uso di una baionetta da soldato - di ta-gliarlo nelle due mezzene, di sceglierne le carni per i salami, i cotechini e le pancette, di controllare la pulizia dei budelli e soprattutto di preparare la concia, segreto pro-fessionale del quale erano gelosissimi custodi e che non confidavano a nessuno. Agli assistenti di cattedra erano affidate le mansioni di complemento come la raschiatura delle setole, il disossamento, il sezionamento e la macinatura delle carni, l’insacca-mento (ma non sempre perchè operazione piuttosto delicata), la legatura, la foratura finale e tutte le pulizie dei tavoli. Le donne avevano invece il compito di approntare il fuoco, i paioli e le pentole, le pezze e gli stracci, cucire i budelli ed infine di cucinare la fritüra, colazione del matti-no piuttosto gagliarda, preparata con il sangue del maiale, fegato, polmone, animelle, filetto, reticella, carni di scarto e ghiandole (caren mate), prima tutto affettato e poi soffritto con cipolla in convincente misura ed accompagnato con polenta fresca. Noi bambini sottolineavamo questo insolito mangiare, ricco ed abbondante, con sorri-si festosi e vivaci esclamazioni. La raschiatura delle setole - che non dovevano essere tagliate ma levate - veniva effettuata con una apposita raspa, ricavata quasi sempre da una vecchia falce, o con un coltello usato in un certo modo.

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Le carni magre e le parti grasse (circa un terzo delle prime) venivano macinate, siste-mate in un largo contenitore di legno detto mésa o méseta, pesate, conciate diversa-mente per salami e cotechini, e poi pügnade cioè lavorate lungamente, con le nocche delle mani chiuse, sino a che le se amava, “si amavano” - espressione stupenda, di caratura dantesca - e la massa diventava via via più compatta. Se la carne era fredda si doveva lavorare molto di più. Per i salami andava bene qualsiasi tipo di carne eccettuata la testa ed i muscoli del-le zampe che finivano nei cotechini, assieme, è ovvio, alle cotenne. La fase della pügnadüra era terminata quando un po’ dell’impasto sbattuto nel palmo e poi capo-volto, restava attaccato alla mano. Gli informatori concordano nel dire che per un buon cotechino le cotenne, tagliate prima a strisce e poi ridotte a pezzetti dalla mac-china, devono essere il 50% del totale. Noto, per inciso, che la stessa proporzione si ri-trova nell’“Apicio moderno” scritto dal grande Francesco Leonardi, cuoco di Caterina 2ª imperatrice di tutte le Russie, alla voce “Codechini”.Tutte queste notizie le ho apprese da alcuni norcini di Cerlongo. Per farmi descrivere come si fà sö el pursel alla cerlonghina (non “alla cerlonghese”, dizione corretta e quindi foresta) ne ho invitati, tramite il prezioso Virgilio Antonioli, alcuni individuati con il criterio della “chiara fama” ed ho dato loro appuntamento nella sede dei Cantori del Caldone, il grande coro locale di canti popolari. Mi ero preparato molte domande che attingevano tanto ai ricordi della mia infanzia quanto ad una serie di mie personali scelleratezze culinarie intervenute in giovane età. Hanno risposto Gino Bonatti di anni 73 (circa 2400 maiali in carriera), Ezio Moreni di anni 53 (circa 450 lavorazioni) e Arturo Antonioli di anni 57 (circa 400). I loro maestri, verso i quali hanno espresso sentimenti di commossa gratitudine, sono stati: Baldi, Rino Minuti detto Pirlì, Messedaglia detto Mosca ed il grande Santo Bo-nani di Cereta, frazione ad un tiro di schioppo da Cerlongo, detto Santì. Passato un primo momento di imbarazzo, la conversazione si è svolta molto piacevol-mente, direi in modo caloroso ed appassionato, in un susseguirsi di ricordi soggettivi, di episodi caratteristici e di commenti interessanti. Autentica, nei miei ospiti è stata la gioia di poter parlare del proprio lavoro ed altrettanto sincero il loro entusiamo. Voci un po’ fragorose, per la verità, difesa convinta delle proprie scelte professionali ma grande rispetto per quelle degli altri. É saltato fuori - ma già lo sapevo - il piccolo mondo della civiltà contadina, proprio quello che io amo e che con molta amarezza vedo arrendersi, giorno dopo giorno, incalzato dalla arrembante e stolida angoscia di nuove mode. É scaturito cioè un uni-verso fatto di cose semplici e di valori concreti nell’ambito del quale la maialatura, da sola, può dire molto ai sociologi. Un tempo c’era almeno il novanta per cento delle famiglie che confezionava il maiale in casa. Ora le proporzioni si sono invertite e, là in fondo, si profila arcigno lo spettro della fine. Un amen commosso.

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C’è buio. Siamo al mattino, verso le sette, di un giorno compreso tra il 20 novembre ed il 20 dicembre, periodo ritenuto ottimale in zona collinare perchè l’aria è ancora abbastanza umida. Davanti alla casa è allestita una incastellatura a cavalletto, fatta con pali di legno, detta becaröl, mentre nel paiolo già bolle l’acqua. Gli uomini si danno da fare, le donne sono pronte, i bambini già svegli ed eccitati. Con tecnica consumata, in due ribaltano il maiale ed il masalì lo uccide con un lungo coltello. La bestia viene stesa su delle assi, si raccoglie il sangue e subito dopo viene sbollentata con acqua calda e raschiata con la raspa per togliere le setole che non de-vono essere tagliate ma estirpate. Dopo che il maiale è nettato con cura, lo si solleva sul becaröl agganciandolo ai tendini delle zampe posteriori. Viene successivamente eviscerato, tagliato a metà e ridotto in parti: la testa, le frattaglie, i budelli (subito la-vati più volte, ripassati ancora con acqua ed aceto, tagliati per la lunga, a misura e dati alle donne per la cucitura), la vescica ecc. Tutto è buono, non si scarta nulla. A questo punto, passato il momento cruciale della morte violenta, vissuto da tutti con un senso di afflizione e di inquietudine, iniziano gli scherzi. Essi rappresentano un complemento liberatorio ed irrinunciabile della liturgia. Quelli più consueti si riducono ancora oggi, in buona sostanza, a tre. Al ragazzo più giovane ed inesperto viene comandato di andare dalle donne a farsi dare al nètaurècie - o anche sgüraurecie - il nettaorecchie, (strumento inesistente). Questi, ubbidiente, corre in casa e, complice la residùra, torna con un sacco pesantissimo ove è stato sistemato un grosso sasso o un prisma di calcestruzzo. Gli si raccomanda di non ap-poggiarlo per terra perché contiene uno strumento delicatissimo. Sbuffa per la fatica, quasi non riesce a sollevarlo e tutti ridono della sua ingenuità. L’altro è decisamente greve ma lo riporto perchè è riscattato dalla componente demo-logica: gli uomini mandano a chiamare la più graziosa e smorfiosetta delle ragazze. Viene, le dicono di portare un piatto per il cuore ed i rognoni nonchè un ago con del filo bianco. La curiosità è femmina: “per far cusa ?” chiede ignara la fanciulla, ore rotundo. “Per cùsega el büs del cül” (non traduco) è la salace risposta. Sorpresa, stupore, sconcerto, poi tutti sbottano in risate sgangherate ma piene di innocente bo-narietà. L’ultimo consiste nell’ordinare ad un bambino di andare nella corte dei vicini a farsi dare una improbabilissima squadra tonda per misurare la precisione dei lavori. Messo in soggezione dal nome tecnico dell’attrezzo ed abituato a non discutere gli ordini degli adulti, il bambino va di corsa ma viene sempre indirizzato verso altre fa-miglie. Quando infine qualcuno, impietosito, lo manda a casa, è informato, tra le risa di tutti, che la squadra tonda è stata trovata. Anche per questa via, comica ma un poco maligna, si provvedeva ad educare alla vita.I pezzi vengono portati dentro, in un locale rustico di buon comando o anche in cu-cina, posti sulle tavole da lavoro e scarniti dagli aiutanti e da qualche collaboratore occasionale. Il maestro toglie le parti particolari che gli serviranno per le coppe e le pancette, seleziona quelle destinate a far cotechini, dà indicazioni per eliminare le in-filtrazioni di unto. Per fare dei buoni salami occorre infatti un grasso sodo e compatto:

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quello della spalla è sempre il migliore. Con mano abile ritaglia le larghe e spesse falde di lardo e leva la cotenna agli altri pez-zi meno nobili. Il suo occhio è vigile, non gli sfugge nulla, risolve i piccoli problemi, valuta immediatamente la qualità, scarta inesorabilmente ciò che potrebbe nuocere alla conservazione: è in gioco il suo prestigio.Le carni sono tagliate in strisce e macinate. Un tempo, quando ancora non c’erano le macchine, le cotiche erano poste su una zocca (Arturo lo ricorda bene) e sminuzzate con un rettangolo di ferro bene affilato alla base avente due manici detto la pistàsa. Le carni invece erano ridotte mediante mannarine dal lungo manico di legno manovrate da due lavoranti posti ortogonalmente l’uno all’altro così che il taglio avvenisse nei due sensi. Gli informatori concordano nel dire che le carni, sminuzzate e non violen-tate dalla pressione della macchina (mia smunsìde, dice Pierino Bissoli), davano un prodotto migliore.Grande attenzione era posta agli strumenti di lavoro ed in particolare ai coltelli ed alla macchina per tritare le carni. I coltelli - dice Gino Bonatti - dovevano essere fatti di buon acciaio ed essere sempre ben molati. Si arrotavano soprattutto da una sola parte e poco dall’altra affinchè il filo fosse sempre sostenuto. Lo si rigenerava di quando in quando con el salì (affilacoltelli), lungo ferro leggermente zigrinato, passato obli-quamente per cinque o sei volte dalla punta verso il manico. Per la macinatrice il problema principale era di far aderire perfettamente la stella delle lame alla piastra dai fori dalla quale doveva passare la carne. Questa doveva essere ben tagliata e non maciullata. Se tutto non era a posto - bastava un’occhiata per accorgersene - si doveva rifare la molatura dopo solo due maiali per cui i bravi masalì avevano sempre lame e piastre di riserva per non interrompere il lavoro. Un grande progresso è stato l’in-troduzione delle lame autoarrotanti con le quali non si doveva ammattire: intanto che macinavano si affilavano da sole.Siamo alla concia. Questa, pur con tutte le varianti, proprie di ciascun masalì e delle diverse aree del mantovano, mantiene ancora molto di quanto si ritrova negli antichi epulari. L’impasto per il salame viene posto in un capace contenitore di legno, di tara nota, e pesato. Calcolato il peso netto il norcino lo cosparge di una proporzione perso-nalissima di sale, aglio, droghe. Molti anni fa, quando i maiali venivano allevati in casa, il sale giungeva sino al 33 - 34 % del peso netto. Ora, con i mangimi ricchi di sostanze chimiche, si scende al di sotto del 26 %. É considerato normale il 23. Si faccia attenzione che io uso la di-zione corrente tra i masalì. In realtà la matematica impone di collocare una virgola in mezzo alle due cifre. Era pratica consueta non salare troppo l’impasto e per capire quanto sale si doveva ancora eventualmente aggiungere, si metteva un poco di pesto in un tegame o semplicemente su un foglio di carta oleata, lo si cuoceva sulle braci e tutti i presenti lo assaggiavano. Questa grossa polpetta era chiamata tastasàl, pratica consueta soprattutto nel Veneto e che dalle nostre parti veniva cotta più che altro come scusante per mangiare un boccone assieme e bere un goccio confortante.

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L’aglio (tre capi ridotti in spicchi mondati e privati dell’anima, in media, per quintale di impasto) è un ingrediente ineludibile. Può essere aggiunto semplicemente tritato ovvero posto la sera prima in una terrina con del buon vino rosso, molto alcolico e di buon corpo che sappia ricavarne l’umore. Dopo aver versato il vino vi si aggiunge anche il succo strizzando fra le mani gli spicchi spellati e tritati, avvolti in un panno a trama larga. La quantità di pepe è piuttosto variabile: da uno (Gino) a due etti (Ezio) per un quinta-le di pasta di salame. Deve essere del tipo “mezzagrana” vale a dire macinato grosso. Arturo ci mette anche mezzo etto di quello garofolato (garofanato) che conferisce un particolare sapore. Una volta - proprio per garantire una buona conservazione - era immancabile il nitro (salnitro) che a Cerlongo si comperava al fontec (fondaco) di Elia Nobis ed ora, in bustine, in farmacia. Ha la funzione di evitare la formazione del terribile botulino e di conservare il colore rosa vivo alle carni stagionate.Anticamente - ma anche oggi la tradizione non è del tutto scomparsa - oltre ai salami, come dire, normali c’erano anche quelli particolari. Il più tipico era quello “della lin-gua”. Si confezionava infilando nel budello, assieme alla solita pasta, anche la lingua del maiale, prima spellata e tenuta in concia per qualche ora con sale, pepe, droghe ed aglio. Lo si mangiava cotto, nelle famiglie di rigorosa tradizione, soltanto per il giorno della Ascensione per cui era noto il detto “chi magna mia el salam el dé de l’Asensa, per töt l’an el resta sensa” cioè “chi non mangia il salame nel giorno dell’Ascensione non lo mangia per tutto l’anno”. La ingenua poesiola era considerata di grande comi-cità ed ironia. Altri tipi di salami particolari erano quello con l’osso del petto (lo sterno) condito come la lingua e confezionato con la vescica, o quelli che, come variante, si insacca-vano con dentro un pollo, una faraona, un piccione ecc. Questi volatili da cortile ve-nivano puliti bene, messi in infusione precedentemente anche per due giorni con vino rosso e droghe, riempiti poi di pasta di salame ed infilati, con altra pasta attorno, nella vescica o in grandi budelli. Erano serviti in particolari circostanze dopo averli cotti in acqua non troppo salata. Ma torniamo al presente storico. L’insaccatura va fatta con molta cura per non lasciare all’interno bolle d’aria che fa-rebbero marcire tutto. Quando i salami sono pronti da appendere, proprio per evitare questo pericolo, vengono comunque tutti punzecchiati a fondo con il furì (forino). Oltre che con i budelli del maiale l’insaccatura può essere fatta anche con vescica, budello gentile, pelle delle coste, membrana della sugna, quelle delle cosce ecc. In queste ultime, assai spesse, può conservarsi sino a due anni.Nei cotechini diminuisce la percentuale di sale (tra il 20 ed il 22 %) perchè non ne-cessitano di lunga conservazione. Bisogna infatti cuocerli in tempi brevi, entro due mesi al massimo. Gli aromi sono ovviamente diversi: per 15 chili di pasta si mettono 10 grammi di spezie in polvere (cannella e chiodi di garofano in parti uguali), pepe 20 grammi, un pizzico di salnitro, ed ancora un poco di aglio con il suo vino. Arturo non mette chiodi di garofano ma noce moscata ed un poco di pepe garofanato. All’aglio si

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toglie, come sempre, il germoglio interno. Il cudeghì del tripet (fatto utilizzando lo stomaco) è la sublimazione del cotechino, un trofeo di circa 5 chili che molti anni fa si mangiava a luglio (era l’unico che resistesse per tanto tempo ma in una cantina fresca), quando si batteva il grano. La famiglia di Ezio lo fa asciugare per circa 15 giorni poi lo conserva, immerso nello strutto, in un apposito recipiente. Le coppe, informa Gino, sono fatte, ovviamente, con la carne del collo cosparsa gene-rosamente di un trito di pepe, sale, cannella, aglio, chiodi di garofano e poi tenute in un recipiente adatto per 4 giorni, rivoltate due volte al giorno ed infine insaccate nelle pelli della sugna. Arturo concia le coppe con solo sale, pepe e poca noce moscata. Ezio con sale e alloro secco sbriciolato, leva il liquido che giornalmente si forma nel recipiente e quando insacca cosparge la carne con pepe e noce moscata. Il salame è già buono dopo quattro - cinque mesi, la coppa è ottima a maggio.La pancetta, altro salume di grande prestigio da queste parti, è condita normalmente, dichiara Arturo, con la stessa ricetta del salame più una pizzicata di cannella. Qui però le dottrine divergono: Gino mette anche dei chiodi di garofano, Ezio niente cannella ma molto pepe.E il culatello? Non è un insaccato usuale. Ne fornisco la ricetta solo per non tradire le aspettative dei miei norcini, evidentemente orgogliosi della loro capacità di saper fare, anche dalle nostre parti, questi veri diamanti della gastronomia emiliana e vene-ta, che trovano la loro glorificazione rispettivamente a Langhirano ed a San Daniele del Friuli. Per la verità non è il culatello vero e proprio ma la punta della coscia cioè il “fiocco”. Come si tratta? Ezio lascia il grasso ma lo insacca nella vescica, dopo averlo tenuto in concia per 4-8 giorni con solo sale e foglie di lauro sbriciolate. Arturo toglie il grasso ma lo insacca nelle pelli della coscia dopo averlo tenuto in infusione con sale, pepe e noce moscata. Gino addirittura non lo inserisce nel suo repertorio perchè non ha il tempo di ripassare nelle case dopo il periodo di marinatura, per insaccarlo.Le migliori cantine? A Cerlongo erano quelle vecchie degli Antonioli, del pret, dei Ferri e di Nino “Carinchio”. Questi sacri antri, deputati a custodire beni così eccelsi e profumati, erano conosciuti da tutti perchè al di là di ogni concia raffinata, di ogni attenta lavorazione, della migliore cura professionale, la qualità del salame è, prima di tutto, data dal luogo della sua conservazione. Ricordo benisimo che Rino Minuti, famoso masalì locale, mi ha assicurato che si possono ottenere dei buoni salami anche se l’impasto è condito con solo sale (indispensabile) purchè appesi in un ambiente adatto per grado di umidità e per temperatura costante, molto fresca, anche in periodo estivo. Alcuni contadini che abitavano nelle zone collinari si costruivano, una volta (ma ce n’è ancora qualcuna), una specie di caverna all’interno della collina proprio per avere queste condizioni. Io ne ho viste un paio e posso assicurare che i luoghi erano perfetti per la stagionatura. Ovviamente era necessario, per evitare riprovevoli incursioni esterne, che questo singolare tipo di cantina fosse costruita in prossimità

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della casa. Un tempo, come si è già detto, il salame e gli insaccati in genere avevano un solo scopo, un’unica aspirazione: sostenere la famiglia in periodo invernale. Non passava giorno infatti che una parte della consistente riserva iniziale non fosse adoperata in cucina. Era un consumo graduale, parsimonioso e misuratissimo, le porzioni del quale erano storicamente determinate: una fetta. Se ”l’uomo è ciò che mangia”, come diceva Feuerbach, i nostri vecchi dovevano esse-re costituiti di una essenza eterea, impalpabile: a cena una fettina di salame (“proprio una e trasparente”, precisa Gino) doveva bastare. La si gustava alla fine, dopo averla resa diafana a forza di passarci sopra con la polenta calda. Qualche rarissima volta - ma era considerato come un biasimevole spreco - si tagliava un salame in compagnia degli amici. Era un momento di consolazione, con un risvolto addirittura di leopar-diano - sissignori - se inteso come cessazione momentanea dell’affanno perenne. Si sconfiggeva, per una sera la parsimonia, la povertà e non era poco. Il gruppo si ritrovava in quel clima di festa fra uomini, ricco di valori e di implicazioni socializzanti, per descrivere il quale prendo a prestito, mi si consenta il gheo, alcuni versi quanto mai acconci di C. Porta:

“el mangià e bev in santa libertaa in mezz ai galantomen, ai amis

in temp d’inverna al cold, al fresch d’estaa diga chi voeur, l’è on gust cont i barbis”.

Dopo la legatura, che consiste nel fare passare sopra le corde messe per la lunghezza, per sostenere il peso del salame, una serie di cappi disposti trasversalmente segue la fase della foratura. Qualcuno usa la rete elastica, una diavoleria moderna che ha il vantaggio di stringere continuamente la pelle man mano che il tutto si asciuga ma, a vederla, stringe il cuore. Siamo giunti alla fine. I salami ed i cotechini - le pancette, le coppe ecc. - sono disposti sul baldachì cioè legati sopra una impalcatura che si fissa al soffitto della cantina. É il trofeo della famiglia, che tutti ammirano con occhio compiaciuto. Dopo una asciu-gatura di circa una settimana, che richiede ogni attenzione possibile per mantenere gli insaccati a temperatura costante e per garantire un ambiente al giusto grado di umidi-tà e di areazione (si aprono e si chiudono i finestrelli, si mettono delle braci vicino alla porta ecc.), si può dire che il più è fatto. Poi si mettono in cantina.I masalì concordano che i salami andrebbero posti sopra le botti del vino perchè la lenta evaporazione del liquido assicura il corretto tasso di umidità. Il pavimento ideale della cantina è quello costituito dalla sola terra o quello fatto di mattoni. Il cemento, per una volta tanto, non va assolutamente bene. Me ne compiaccio.Da ora in poi bisogna stare attenti ai possibili difetti che possono mandare a male tutto il prezioso lavoro. I principali sono:

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- la muffa: si forma generalmente durante gli inverni piovosi, quando il clima è troppo umido. Per eliminarla si fanno asciugare i salami fuori dalla cantina, all’aria aperta in una giornata secca e poi si spazzolano. L’operazione viene particolarmente bene con il getto d’aria che ha il vantaggio di non toccare le pelli. Se non è possibile eseguire la spazzolatura perchè le giornate permangono umide, si lavano con acqua ed aceto (metà e metà).- il lispio (umidiccio sopra la pelle): si lavano semplicemente con acqua ed aceto.- budelli secchi: è un inconveniente non raro quando l’ambiente è particolarmente asciutto (el strìca). Si corregge ponendo in terra, sotto il baldachì, dei sacchi di iuta bagnati d’acqua oppure si inumidiscono direttamente le pelli con vino bianco spruz-zato con l’arnese per nebulizzare la biancheria (sprüsì). - camole (vermi): si formano quando la muffa non viene tolta in tempo. I vermi si insinuano al di sotto della muffa, non entrano nel salame perchè troppo salato ma ne mangiano il budello. Lavare con acqua ed aceto.Con un senso di apprezzabile disagio i masalì mi hanno detto che oggi è pratica diffusa preservare i salami nel congelatore, avvolti in un sacchetto di carta, durante il periodo estivo. Ciò è conseguente al fatto che le odierne cantine, costruite con mattoni forati, non sono più adatte a mantenere il grado di temperatura (10 °C - 15 °C) indispensabile alla conservazione. A loro parere l’insaccato mantiene il sapore ma perde il profumo.Le grepule (cìccioli). Dai numerosi ragguagli dei miei informatori, dalle loro attente e continue precisazioni, ho ricavato la convinzione complessiva che una cattedra in “grepologia” non sarebbe insegnamento del tutto inutile. Nei supermercati è posta in vendita una produzione di tipo industriale, non malvagia per la verità, ma secca e bru-nita come un biscotto. Manca il contatto tenero e pastoso con i denti, manca il colore dorato tipico delle venature del lardo per cui, stesa sulla polenta, presenta un aspetto inquietante. I cìccioli vanno fatti con il grasso molle del maiale o meglio ancora con la pancetta. Si mettono le parti adatte in una pentola di rame con un fondo di acqua ed a fiamma inizialmente bassa per favorire l’immediato scioglimento dei pezzi più teneri. Si toglie via via lo strutto che si forma. É quello bianco ed è il migliore, adatto anche per fare dolci fini. Verso la fine, quando le grepule cominciano leggermente ad imbrunire, si aumenta un poco la fiamma per poi ritirarle bene asciutte. Allo scopo può essere utile anche versare, assai lentamente per evitare spruzzi roventi, un poco di latte o mettere una copia di pane. Bisogna avere un occhio molto allenato per levarle dal fuoco prima che brucino. Non si salano. Per dire quanto la tradizione possa dominare nella maialatura, faccio presente che la stessa tecnica si ritrova nel “Libro de arte coquinaria” di Maestro Martino, scritto verso la metà del 1400, nella ricetta “Per far structo de porco”.Le grepule si mangiano con la polenta. Lo strutto si conserva in vasi di terracotta (pi-gnate da tera) oppure in sacchetti di plastica, messi in congelatore, senza sale.Per completezza di informazione occorre dire che oltre che con la carne di maiale, i

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salami possono essere fatti anche con quelle di vitello o manzo (il cosidetto mistürì), di tacchino e di oca. Le parti grasse di questi animali vanno però tolte e sostituite con grasso di maiale. L’impasto e la concia sono quelli consueti. Il mistürì di manzo e maiale viene cotto e mangiato di domenica.

Con una punta di amarezza, con un certo travaglio interiore, inserisco qualcuna tra le modalità più seguite per conservare i salami ed i cotechini quando il caldo della primavera e, soprattutto dell’estate, rendono inutile anche la cantina meglio costruita. Con la temperatura alta i salami cominciano a sudare, si seccano ed il sapore si altera. Una volta, tra le famiglie del contado, c’era la consuetudine di consumarli entro San Giovanni e cioè il 28 di Giugno. Con l’avvento del freezer qualcuno ha trovato la pos-sibilità, per via empirica ma non corrispondente, per ottemperare alla bisogna. 1) Si mette il salame in un sacchetto di carta e lo si pone nel congelatore. Lo si tira fuori un giorno prima del consumo. 2) Si leva la parte superiore di una bottiglia di plastica da 2 litri, vi si colloca il salame o il cotechino, si riempie di acqua e si pone – ovviamente in posizione verticale finchè non si è formato il ghiaccio - in freezer. 3) Si mette il salame in un involucro di carta da cucina e quindi in un altro di plastica goffrata. Vi si fa il vuoto con la apposita macchina. Si conserva in frigorifero a temperatura da 1 a 9 gradi. É soluzione migliore delle precedenti. 4) Il sig. Giuseppe Zen di Rodigo, esperto in salumaria, dà queste indicazioni. Il salame stagionato che si intende consumare va pulito dalla muffa con una spazzola rigida (brüscia) sotto acqua corrente e quindi tagliato non di sbieco ma perpendicolar-mente alla lunghezza. La sezione della parte che rimane va leggermente unta di olio. Si mette poi questa sezione appoggiata su un piatto liscio affinchè sia esclusa dal con-tatto con l’aria e non si ossidi. Il salame va poi tenuto in un cassetto e mai più riposto in frigorifero.

La sera della maialatura veniva servito il “risot del pursèl”. Eccone la ricetta canonica così come dettata dagli intervistati (per una volta assolutamente concordi).Come già detto è questo il piatto principale che si serve ai masalì, ai lavoranti, alla famiglia ed agli amici. La cuoca sa che non deve farlo troppo pesante per compiacere i norcini, stanchi ormai di cibi eccessivamente grassi. Secondo tradizione locale deve risultare molto morbido, quasi in brodo. Per mezzo chilo di riso quattro etti di pasta di salame appena fatta, brodo preparato con acqua, sale e ossa di maiale (ha un gusto dolce, molto particolare), formaggio gra-na ed un bicchierotto di vino bianco secco (ma in certe famiglie si usava il vino rosso). Riso vialone nano mantovano, rigorosamente. Il brodo va fatto molte ore prima, cioè al mattino, con alcune ossa dell’animale e poi lasciato al freddo così da dare modo al grasso di rapprendersi e di essere facilmente asportato con un mestolo forato. Comincia ad essere una pratica abbastanza diffusa

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fare il brodo, il giorno precedente, con una mezza gallina vecchia, corretto alla fine con un poco di dado. È un vulnus all’osservanza ma consente di avere un brodo gusto-so, privo di grassi, discretamente allineato alla tavola contadina di una volta.Rosolare la pasta di salame con il vino bianco (si noti che non si fa uso nè di burro nè di cipolla). Quando la carne ha cambiato colore ed il grasso si è un poco sciolto, si versa il riso e lo si fa tostare per qualche minuto. Si porta poi a cottura con il brodo accuratamente sgrassato e versato sapientemente a mestoli successivi, menando di quando in quando. Alla fine spolverare di grana padano grattugiato a mano e tramena-re delicatamente un’ultima volta. Coprire. Lasciar riposare due minuti. Servire.

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Alto mantovanoInformatore: Zeno Roverato

I ricordi della maialatura come avveniva tanti anni fa, li conservo impressi nella mia mente fin da ragazzino.Era una genuina tradizione familiare contadina, rinnovata ogni anno per necessità, quando la terra nei mesi di riposo non dava alcun frutto, nella semplicità e solidarietà che distinguevano a quei tempi le umili persone di campagna. Nel timore che possano sfumare dalla mia memoria, cercherò di illustrare a parole, immagini ed emozioni vive in me, sperando di riuscire a tradurle il più fedelmente possibile e trasmetterne l’autenticità. Una volta, quando nelle campagne si viveva a stento, tra fame e miseria, durante il lungo e rigido inverno, alcune categorie di lavoratori come i braccianti, i muratori, i piccoli agricoltori, gli affittuari o mezzadri, si ritrovavano senza lavoro. Erano privi-legiati i masalìn, gli unici ad avere una fonte di guadagno, seppur modesta, in questo periodo difficile. Alcuni di questi, persone forti e determinate, avevano appreso l’arte dal padre o dal nonno, mentre altri, naturalmente predisposti a macellare, osservando e collaborando a far su il maiale della propria famiglia e quelli dei vicini, avevano acquisito facilmente le nozioni di base e, con disinvolto coraggio, si improvvisavano masalìn ed andavano per le case. La ricompensa era di grande aiuto per sostentare le famiglie. Inoltre venivano omag-giati della classica “ciupeta”(così detta per la caratteristica forma, equivalente a circa 4 salamelle) e una dopo l’altra, a fine stagione si ritrovavano con un discreto “balda-chin”. C’era un po’ di gavetta da fare per farsi conoscere, perché ogni famiglia era legata al proprio masalìn e lo prenotava un anno per l’altro. Le opportunità all’inizio erano poche: qualche famiglia nuova, oppure quelle disdette dai masalìn più quota-ti, in quanto troppo povere o di scarsa collaborazione. Bisognava inoltre procurarsi l’attrezzatura necessaria, che era così composta: la machina di salam o de masnà (il tritacarne era una dizione sconosciuta), dotata di due piastre di diverso diametro, con un unico coltello a crocetta per entrambe, per la macinatura del salame e del cotechino e due imbuti per l’insaccatura.

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Questa veniva posizionata in una cassetta di legno, che poggiava sul fanale della bi-cicletta e fissata al manubrio. Il cannello per gonfiare la vescica e le pelli grasse del surrene, tre o quattro coltelli per sè e per gli aiutanti, lo stiletto per la scannatura, una piccola scure per sezionare le due mezzene e due raspette, ricavate da una vecchia falce, per levare le setole dopo la scottatura con l’acqua bollente. Questi ultimi attrezzi erano riposti in una sporta di cuoio o di paglia attaccata al manubrio. Con le “sgalmare” (zoccoli di legno) ai piedi e ben avvolto nel tabarro, rigorosamente col buio, il masalìn, con la bicicletta ben caricata, si recava nella corte, dalla famiglia con la quale aveva concordato per quel giorno l’uccisione del maiale. Ancora da lontano, lo si sentiva arrivare dal tintinnio degli attrezzi, per i sobbalzi della bicicletta e dal rumore della ghiaia solcata dalle ruote. Gli uomini indaffarati nei preparativi già da alcune ore, si scambiavano un cenno d’intesa, a conferma che tutto era pronto. Lo si vedeva sbucare dalla nebbia o dal buio solo quando entrava nello spazio illumi-nato dal chiarore del fuoco, sotto il paiolo. Tutti lo salutavano con premura, subendo la soggezione che incuteva. Le donne erano da giorni indaffarate a preparare il locale, mettendolo in bell’ordine. Avevano disposto il tavolo con sopra l’asse della pasta, preparato gli stracci e le tovaglie vecchie, tenute da parte da un anno all’altro appo-sitamente per l’occasione. Queste si usavano legate davanti, a mo’ di grembiule, per appoggiarvi le cose e asciugare il sangue. Avevano preparato i vasi di vetro lavati e ben asciugati, per la raccolta del grasso e dello strutto, gli altri recipienti, i piani di ap-poggio necessari e si affrettavano a preparargli il caffè. Gli mostravano come avevano predisposto, sperando in un cenno di approvazione. Lui riponeva l’attrezzatura nel locale della maialatura, prendeva solo il necessario per la macellazione, indossava gli stivali di gomma per non bagnarsi e imbrattarsi di san-gue, si rimboccava le maniche e con lo stiletto in mano, si avviava verso il paiolo. Vi immergeva un autoritario dito per controllare la temperatura dell’acqua. Quasi sempre contestava: se l’addetto all’acqua riteneva fosse già pronta, per lui era ancora fredda. Se invece bolliva bene, faceva aggiungere un po’ di acqua fredda, asserendo che altri-menti avrebbe scottato la cotenna, rendendo difficoltosa la pelatura. In questo modo imponeva la sua autorità. Nessuno osava reclamare o contestare, ma tutti eseguivano con solerzia ogni suo ordine. L’atmosfera era particolare, il bagliore e lo sfavillio del fuoco che veniva ravvivato sotto il paiolo, illuminavano i visi rossi ed il fiato delle persone intorno che indaffarate si muovevano in silenzio e parlavano sottovoce, quasi volessero non far capire quello che stavano facendo. Una decina di metri più in là, in fondo alla corte, era illuminato il porcile. Da dietro il portello di legno rosicchiato e chiuso con un catenaccio di sbieco, qualche grugnito voleva richiamare l’attenzione di chi non gli aveva ancora portato il pasto. Al primo accenno dell’alba la persona, cui l’animale era affezionato, aveva l’ingrato compito di farlo uscire. Impresa difficile in quanto era vissuto sempre in quel piccolo spazio.

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Con calma, grattandogli la schiena, gli legava una corda attorno ad una zampa po-steriore, poi lo sollecitava ad uscire spingendolo da dietro con le ginocchia. Allora non c’erano i mezzi di stordimento attuali, quindi la fase dell’abbattimento era molto cruenta. Per alcuni minuti, i versi della povera bestia, immobilizzata su una balla di paglia per raccogliere il sangue da tre o quattro uomini, suscitavano una profonda pena. Quando tornava il silenzio era un sollievo per tutti, ognuno riprendeva il proprio ruolo: chi versava l’acqua, chi aiutava a raschiare le setole attento a non procurare tagli alla cotenna, chi teneva pulito il posto di lavoro e chi aveva l’incarico di far bastare l’acqua anche per la pulizia e il lavaggio dei budelli. Dopo l’accurata pelatura e raschiatura, si toglievano le unghie con l’apposito rampino. Una piccola di esse, il masalìn se la metteva in tasca, la usava poi, messa in punta al coltello, per infilare le budelline e aprirle con facilità. Si fissavano le zampe posteriori, ben divaricate, al picaröl che veniva issato facendolo scorrere su due robusti sostegni, posti obliquamente contro il muro della stalla o del portico, fino a che il maiale rimaneva perpendicolare, senza toccare terra. Si accendeva un pezzo di carta sotto il musetto per bruciare i peli rimasti, un’ultima lavata e raschiata per togliere eventuali residui e si procedeva all’eviscerazione. Que-sta operazione era la più attesa, richiamava sempre un gruppetto di curiosi del vicinato per controllare e confrontare lo spessore del grasso, patrimonio fondamentale perché era il condimento per tutto l’anno a venire. Nel frattempo la rasdüra portava una sedia con sopra un piatto per raccogliere le cervella e il midollo, due pezzi di spago, uno per legare il retto durante l’eviscerazione al fine di non contaminare la carne, l’altro per legare la vescica dopo averla gonfiata con il cannello di bambù, due tovaglie pulite per proteggere le mezzene, quando si caricavano in spalla per portarle in casa ed un mestolo per versare l’acqua all’interno dei budelli durante la lavatura. Tutto era sistemato con cura e posto a fianco del picaröl. I commenti si accavallavano, ognuno faceva la propria previsione, fino a quando il coltello maneggiato sapiente-mente e con precisione dal masalìn, metteva in evidenza lo spessore del grasso che subito si misurava con la mano, contando le dita sovrapposte. Capitava che qualcuno cercasse di barare allargando leggermente le dita, per sminuire un po’, altrimenti sa-rebbe stato più alto del suo. La massima resa che si poteva vantare, era l’altezza di un “sömes” cioè una spanna con le tre dita interne chiuse. Si esaltava chi aveva azzeccato la previsione, si giustificava chi l’aveva sbagliata, ma tutti speravano che la signora autoritaria, rimasta in silenzio per tutto il tempo con una teglia in mano, li invitasse a mangiare la “fritüra”, che si apprestava a cucinare, non appena il masalìn le avesse messo a disposizione la reticella, il fegato, il polmone, le caren mate ed un filetto. Quasi sempre finiva bene, giungeva il sospirato invito a colazione e quel giorno man-giavano tutti. In cambio avrebbero dato una mano per il resto della giornata ed inoltre il suo uomo sarebbe stato ricambiato dai presenti con altrettante colazioni. Ricevuto l’invito, regnava subito uno spirito diverso, più gioviale, finivano le polemiche e tutti si prodigavano per rendersi utili. Dopo l’eviscerazione, serviva occhio e mano ferma

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e decisa per la spaccatura dell’animale. Le due mezzene dovevano risultare possibil-mente uguali e non “con due orecchie da una parte”, frase di rito scherzosa, che si rivolgeva al masalìn pronto all’opera. Qualcuno furbescamente sperava in un errore grossolano, per poi movimentare tutta la giornata. Le due mezzene venivano lavate dal sangue, ormai coagulato rimasto all’interno e si lasciavano gocciolare mentre nel-la stalla, con un aiutante che gli versava l’acqua, il masalìn procedeva alla lavatura dei budelli con acqua calda ed aceto, preparandoli tagliati a misura per essere cuciti.Per cucire i budelli, non era difficile trovare la disponibilità delle donne del vicinato o parenti, perché l’aiuto sarebbe stato poi in qualche modo restituito. Ma più ghiotta era l’occasione di una bella scorpacciata di pettegolezzi. A volte, durante l’insaccatu-ra, capitava di trovare qualche budello cucito con una fetta dritta e una rovescia, ma nessuna di loro era stata. Quando chiamavano per andare a tavola, una sciacquata agli stivali, mezzo maiale ciascuno in spalla ai due più robusti, si raccoglievano gli attrezzi e si portava tutto dentro. Varcando la soglia di quella casa, apparentemente povera perché senza lus-so, si respirava invece un’atmosfera ricca di calore umano, di semplicità e umiltà, un’accoglienza genuina e sincera che avvolgeva in un piacevole tepore. Sulla stufa a legna nell’angolo della cucina, c’era una grossa padella di ferro, piena di “fritüra” che borbottava sobbollendo, per l’alta temperatura dell’unto. Sul suo scorrimani erano appoggiati i piatti che dovevano essere preventivamente ri-scaldati per evitare che l’unto si addensasse quando si serviva la “fritüra”. Sulla stufa stessa, fette di polenta a non finire.Seduto accanto, appoggiato alla vasca dell’acqua bollente, l’anziano della famiglia, rosso in viso tanto era accaldato ma impeccabile con il gilè, la giacca ed il fazzoletto al collo, si era tolto il cappello però, forse più per rispetto che per il calore e lo teneva sulle ginocchia, leggermente tremolanti. Si era alzato molto presto per accendere il fuoco, lasciando riposare un po’ di più chi poi doveva lavorare sodo. A tavola mentre gustavano quella prelibatezza sapientemente cucinata, parlavano della stagione, di quando acquistare il maialino per l’anno dopo, per scongiurare rischi di malattie, si scambiavano opinioni ed esperienze provate. Veniva anche programmato il lavoro della giornata, assegnando i vari compiti a chi dava la disponibilità di aiuto. Non man-cavano mai i complimenti alla cuoca, con la promessa di ricambiare. Un ultimo bicchiere e il masalìn sollecitava a riprendere il lavoro. La parte più fatico-sa era fatta, ora si lavorava in casa, al caldo. Si entrava nella fase operativa specifica, particolarmente importante. Messo il grem-biule, il masalìn consegnava un coltello a chi riteneva fidato, dava le istruzioni ade-guate e si iniziava a sezionare le mezzene, spolpando cosce, spalle, coppe, pancette e costine. Si tagliavano le cotenne a strisce, lasciando attaccato lo strato di grasso e unto, si sistemavano stese in un locale non riscaldato affinché si raffreddassero per meglio lavorarle in seguito. Si mondava la carne, separando quella da cotechino da quella per il salame. Operazione abbastanza veloce, per la modesta quantità che si

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ricavava dai maiali di allora (32/40 kg di salame). Nel frattempo, fissata al tavolo la macchina dei salami, i due aiutanti più robusti ini-ziavano a macinare mentre il masalìn scotennava il grasso che aggiungeva alla carne nella giusta quantità (allora piuttosto abbondante). Messo da parte il grasso sodo adat-to alla conservazione (macinato o a baffe, sotto sale), il rimanente veniva tagliato a pezzi piuttosto regolari e posto nel paiolo che l’addetto a fare le grepule attendeva per procedere nell’esecuzione. La carne macinata cadeva nel meset posto a terra sotto la macchina. Questo recipiente era presente in quasi tutte le case o veniva preso in presti-to per l’occasione. Era un corredo simbolo della maialatura, era un vanto avere quello più capiente. Era assemblato con assi intere, per evitare fessurazioni e con legno ben stagionato per non subire calo di peso e deformazioni. Sul bordo superiore in numeri romani era inciso il peso. Terminata la macinatura, con la stadera si pesava il “meset”e si sottraeva la tara dello stesso ed il masalìn cominciava a calcolare le percentuali del-la concia. Aveva già dato disposizione, fin dal mattino presto, delle cose da procurare e quindi era tutto pronto. Sale grosso un po’ ridotto con una bottiglia, pepe macinato grossolanamente, spezie macinate in polvere (noce moscata, cannella e chiodi di garofano), salnitro, aglio tri-tato e messo a macerare in una scodella di vino rosso. La preparazione della concia avveniva in un’atmosfera quasi mistica, nessuno fiatava, si udiva solo il borbottare del masalìn che faceva i propri conti. Fatto il magico miscuglio, lo si spargeva sopra l’impasto del salame e si procedeva alla pugnatura, rivoltando e mescolando continua-mente affinchè la concia si distribuisse in modo omogeneo. Veniva poi rovesciato sul tavolo ed era un buon segno se si staccava completamente dal meset. Riposizionata la macchina con l’imbuto, recuperati i budelli cuciti, messi in un re-cipiente con acqua calda e aceto per mantenerli morbidi, si insaccavano i salami. Una donna man mano terminava la cucitura dei budelli chiudendo l’estremità lasciata aperta per permettere l’insaccatura. Mentre il masalìn legava i salami, la macchina veniva approntata per la macinatura delle cotenne, precedentemente pestate sul ceppo per ridurle il più possibile, con una piastra a fori larghi. Poi si ripeteva l’operazione una seconda volta unendovi anche la componente magra, con una piastra a fori picco-li. Entrambe le macinature, erano molto faticose e richiedevano la forza di due uomini robusti. Dopo la concia del salame, decadeva l’obbligo di sobrietà e gli uomini inizia-vano a bere qualche bicchierotto di vino. Siccome uno tira l’altro, vuotavano qualche fiaschetto riscaldando l’atmosfera. Così compensavano il pranzo saltato, perché dopo la sostanziosa colazione, non si ferma-vano a mezzogiorno e recuperavano poi alla sera con la cena. I salami venivano appesi dove c’era una fonte di calore o nella camera da letto sopra la cucina, perché era la meno umida e la più calda, quindi particolarmente adatta all’asciugatura (di solito era la stanza dove dormivano i bambini). Mentre si procedeva con i cotechini, all’ester-no continuava la preparazione delle grepule ed ogni tanto il masalìn ne controllava il punto di cottura. Doveva liquefarsi tutta la parte composta da strutto e diventare

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asciutta e croccante la parte rimanente, composta da lardo e venature di carne. Era importante la scelta di quando toglierle dal fuoco, per non bruciare lo strutto ma allo stesso tempo avere la giusta cottura. C’era sempre una persona esperta per questa operazione, con il supporto del masalìn. Durante questa fase, per tenere lontani i ragazzini che, tornati da scuola, giocavano scorazzando attorno al paiolo pericolosamente e con la fastidiosa aggiunta di mille perché, promettevano loro una prelibatezza esclusiva. Quando lo strutto era quasi pronto per il travaso, fase a rischio di ustioni, mettevano dei panini vecchi dentro lo strutto e quando si erano ben insaporiti ne davano uno a ciascun ragazzino, raccoman-dando loro di non farsi notare. Così se lo mangiavano di nascosto, allontanandosi dal pericolo ed inoltre, sazi e quasi nauseati, se ne stavano buoni e tranquilli anche la sera, quando le donne erano impegnate nei preparativi della cena del maiale. La giornata oramai volgeva al termine. Anche i cotechini erano appesi e, se era richie-sto, per ultimo si macinava il grasso posto al freddo per mantenerne la consistenza. Veniva raccolta, lavata e asciugata l’attrezzatura, che il masalìn gelosamente control-lava e riponeva con cura, pronta per il giorno dopo. A volte il masalìn se era un po’ distante da casa sua o si era fatto troppo tardi, non si fermava per la cena. Ricevuto il compenso e la ciupeta, soddisfatto dava un’occhiata al baldacchino completo e forniva qualche suggerimento sulla temperatura da gestire nei giorni successivi, per l’asciugatura. Si congedava con gratitudine. La cena era un rituale antico. Si invitavano amici, parenti e i vicini. In genere parteci-pava un uomo per famiglia, ma si arrivava comunque a un discreto numero. Era una serata allegra, si mangiava e beveva abbondantemente riso con l’impasto del salame, ossa, faraona arrosto o arrotolato di lonza preparato dal masalìn, gorgonzola ed em-menthal, tutto accompagnato dal vino nuovo. Talvolta per il masalìn veniva preparata un poco di minestrina con i fegatini. Spesso si finiva allegramente la serata con una bella cantata.In questo ambito, in queste atmosfere, ravvivato da un amore costante per la mia terra e le sue tradizioni, mi sono educato a questa antica e nobilissima arte. Sono nato e cresciuto in campagna, essendo la mia una famiglia di salariati, addetti alla stalla. Abbiamo sempre vissuto in corti agricole abbastanza grandi, con altre tre o quattro famiglie di lavoranti, oltre naturalmente a quella dei padroni. Ogni nucleo familiare allevava il proprio maiale per poi macellarlo durante l’inverno. Nel periodo da novembre a fine gennaio, quando uscivo per andare a scuola, all’età di 7/8 anni, al mattino presto perché dovevo andare a piedi, udivo spesso i versi di qualche maiale, che stavano uccidendo, provenire da una delle corti limitrofe. Se non c’era nebbia, si vedeva il bagliore del fuoco e capivo chi era il fortunato. Quando però il giorno in cui, ritornando da scuola, notavo certi preparativi in casa e mio nonno fuori approntava il paiolo pieno d’acqua con accanto un mucchietto di fascine, ero certo che la mattina seguente sarebbe stato il nostro turno. Preso dall’en-tusiasmo, dovevo escogitare una scusa per non andare a scuola. Come primo tentativo

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imploravo mia nonna promettendole che non avrei disturbato e mi sarei reso utile. La risposta era no, se pur con un amorevole sorriso per la tenerezza che le avevo suscita-to, anche se il mio proposito era serio. Il mattino seguente, mi svegliavo prestissimo ed ai primi rumori sospetti balzavo giù dal letto e dalla finestra osservavo i movimenti esterni. Chissà perché, soffrivo molto, in quelle occasioni, di attacchi improvvisi di mal di testa, mal di denti o di pancia che fortunatamente si risolvevano passata l’ora di andare a scuola. Probabilmente i miei genitori, indaffarati com’erano, fingevano di credermi. Per me era iniziata la più bella giornata dell’anno. Ho sempre avuto una forte attrazione verso questa storica tradizione. Ne ho subito il fascino, mi ha coinvolto con forti inconsce emozioni, ed è nata in me una crescente passione. Questa credo sia la sorgente, nonché l’anima del vero masalìn. Masalìn dunque per passione, non per necessità. Ho vissuto la maialatura nelle sue ultime evoluzioni, da quella sopra raccontata a quella attuale. Nei primi tempi, durante la lavorazione, me ne stavo in disparte atten-to ad osservare, incantato ed affascinato, ogni movimento del masalìn, nelle fasi di trasformazione del maiale. Nonostante la soggezione, ero sempre pronto ad ubbidire a qualsiasi richiesta, cercando di rendermi utile per non essere allontanato. Con il passare degli anni, aumentava la mia passione e mi arricchivo sempre più di nozioni e manualità. Mi avvicinavo sempre più al tavolo, fino al contatto con la carne ed i sa-lami. Sono sempre stato piuttosto robusto e dotato di notevole forza, così, nel tempo, venivo maggiormente coinvolto ad aiutare il masalìn fino a divenirne un prezioso collaboratore. Gradualmente mi venivano affidate mansioni via via più importanti, a volte superiori persino alle mie capacità. Io, stimolato dall’orgoglio, le svolgevo comunque senza esitare. All’età di venti anni circa, ho creduto di farcela da solo. Con un minimo di attrezzatu-ra, ho provato a mettere in pratica, su minime quantità di carne, ciò che avevo appreso negli anni, in casa mia e da qualche amico. Sì, il risultato era soddisfacente, ma l’in-sicurezza era tanta, era molto più semplice lavorare con il tranquillizzante supporto di un esperto. Mi arrangiavo, ma ero ben lontano dall’impersonare quella figura che tanto avevo ammirato. Mio papà, che condivideva la mia passione, mi consigliò allora di andare da Gianni Cargnoni, amico di famiglia, agricoltore di Selvarizzo, una borgata tra Guidizzolo e Castelgrimaldo, a chiedergli se potevo seguirlo per imparare. Questi nel periodo invernale era richiesto da numerose famiglie perché era un valido masalìn. Gian-ni, un po’diffidente, acconsentì di mettermi alla prova, naturalmente senza nessuna pretesa di compenso da parte mia. Capì subito la mia potenzialità e mi portò con sè tutta la stagione, affidandomi presto mansioni di responsabilità (l’abbattimento, la concia, l’insaccatura ecc.), se pur sotto la sua stretta sorveglianza. Prove di fiducia gratificanti, che non potevo deludere e che mi responsabilizzavano. É stato un grande maestro, mi ha insegnato con fermezza, decisione e precisione, senza “ma” e “forse”. Una tecnica precisa e scrupolosa, mirata a dare il massimo risultato senza sprechi.

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Ogni operazione, fatta in un determinato modo anziché un altro, aveva sempre una spiegazione logica e precisa. Mi ha insegnato a rispettare l’animale durante la fase della macellazione e l’attenzione e la pulizia, nelle fasi successive, per non inquinare la carne. Il suo insegnamento mi ha fatto acquisire la capacità di affrontare qualsiasi inconveniente o imprevisto e mi ha reso indipendente e sicuro. Al momento di dargli il compenso, alcune famiglie cercavano di trattenerne una minima parte per il mio vitto, ma lui era soddisfatto ugualmente anzi a volte mi omaggiava della ciupeta o di una piccola mancia. Con queste basi solide, ho iniziato ad impegnarmi con le famiglie che mi richiedeva-no, guadagnando poco a quei tempi ma riuscendo tuttavia ad acquistare l’attrezzatura necessaria, abbastanza costosa. Acquisita sempre più esperienza e perfezionata la mia tecnica, quando mi sono messo in gioco partecipando ai vari concorsi o a gare paesane del miglior salame, non sono mancate le soddisfazioni ed ho ricevuto gratificanti ri-conoscimenti. Ogni volta andavo a trovare il mio maestro per renderlo partecipe della soddisfazione ricevuta. Non potevo fargli regalo migliore, era molto orgoglioso di me e del suo insegnamento. Solo nell’ultimo confronto, il più importante, svoltosi a Rodi-go il 25-26 giugno 2011 e cioè il “1° CONCORSO PROVINCIALE DEL MASALIN MANTOVANO” - nel quale mi sono classificato primo su 56 partecipanti, prove-nienti da altrettanti comuni della provincia - non ho potuto coinvolgerlo e mostrargli la medaglia d’oro perché purtroppo era venuto a mancare poco prima. Mi è spiaciuto profondamente, nutrivo un sincero affetto per questa persona semplice e modesta. Aveva 83 anni ma non li dimostrava: una di quelle persone che non invecchiano mai. Era rimasto sempre lo stesso come quando mi portava con sè e mi presentava alle famiglie. Era molto cordiale e dal sorriso contagioso. È stato un masalìn come pochi, una per-sona speciale, che sicuramente rimarrà nel cuore di tanti. Se potessi gli domanderei se, da bambino, aveva provato le mie stesse emozioni e se, come me, aveva dormito nella camera dei salami. Sono sicuro che mi risponderebbe di sì. Spero di riuscire a mante-nere viva la passione per questa tradizione il più a lungo possibile, con lo stesso entu-siasmo di Gianni, per salvarla dalla caotica frenesia del mondo d’oggi. Questa rischia di lasciare solo una malinconica nostalgia delle cose genuine e semplici, che per tanti anni sono state le basi del nostro sano vivere, mentre oggi cedono alla speculazione industriale la quale chimicamente e con spregio della tradizione, ne ripete le caratte-ristiche organolettiche tramite adeguate essenze, quasi senza usare la materia prima.Nel tempo la maialatura, pur mantenendo le tecniche basilari, ha subito significativi cambiamenti. Fortunatamente la ripresa economica ha diminuito lo stato di povertà. L’informazione su salute e alimentazione, ha portato a modificare lo stile di vita delle famiglie. Conseguentemente sono state selezionate razze suine sempre più adatte alle esigenze, dando preferenza alla massa magra. La stagionatura è divenuta sempre più difficoltosa a causa del cambiamento climatico e l’irregolarità delle stagioni. Sono variati certi parametri, diminuendo in modo significativo la percentuale di grasso nel

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salame, la percentuale di sale nella concia e la pezzatura dei salumi. Ci sono punti vendita specifici, che offrono tutto quanto inerente la maialatura: dalle spezie, ai budelli di tutti i tipi, alle attrezzature sempre più all’avanguardia. Ognuno può personalizzare il proprio baldacchino. La selezione delle carni è divenuta sempre più accurata, con l’intento di migliorare la qualità del prodotto finito. Anch’io mi sono adeguato nella manualità e nell’attrezzatura, preferendo acciaio e teflon al legno e se-guendo le nuove regolamentazioni, ma sempre attento a conservare le caratteristiche e la tipicità che distinguono il nostro salame fatto in casa. Non si macella più il maiale a casa. Fino a qualche anno fa lo si poteva fare presso l’allevamento dove lo si acqui-stava, ma ora sono divenuti anch’essi fuori norma. Attualmente alcuni allevamenti della zona, si sono attrezzati, creando locali idonei alla macellazione nel rispetto delle norme igienico-sanitarie vigenti e la convenzione con l’ASL, per l’assistenza veterinaria. In linea di massima lavorano tutti abbastanza bene. La materia prima oggi è di buona qualità, ci sono dei protocolli da rispettare nell’alimentazione e i controlli sono abbastanza severi. Per acquistare un maiale la prassi è molto semplice: lo si prenota del peso che si vuole, si concorda il prezzo e si fissa la data e l’ora per il ritiro. Il giorno stabilito, dopo la macellazione e il benestare del veterinario, viene consegnato nelle due mezzene e completo della propria frittura, come fosse stato macellato a casa, però con il vantaggio di una procedura sicuramente più igienica. Mi sono servito presso diversi allevamenti, ma non soddisfacevano mai la mia pignoleria. Da anni mi rivolgo a un allevamento di Carpenedolo, un po’ sco-modo certamente, ma ne vale la pena. La scelta si basa soprattutto, sulla possibilità di acquistare maiali di 12/13 mesi di età, di 200/ 220 kg di peso e con una ottima resa, spesso superiore alla media. La fase dell’abbattimento, avviene dopo che l’animale dalla pesatura passa attraverso un piccolo corridoio creato con transenne, senza contatto diretto con l’uomo, rima-nendo chiuso nel tratto terminale. Qui si corica spontaneamente, tranquillizzandosi. A questo punto viene stordito con corrente elettrica tramite una pinza ad essa collegata, avente due elettrodi che vengono appoggiati nelle zone temporali. Il dissanguamento, la pelatura, l’eviscerazione ecc. vengono svolte scrupolosamente, con la massima at-tenzione e pulizia da persone competenti. Altra cosa molto importante è il lasso di tempo, ora molto breve in queste strutture, che intercorre dalla morte dell’animale alla sua eviscerazione. Circa 15/20 minuti contro i 60 minuti e oltre, con la prassi tradizionale a casa. I parametri sanitari indi-cano un tempo massimo per tale operazione di 30/40 minuti, cioè prima che la massa fecale, all’interno dell’intestino, inizi il processo di fermentazione con produzione di gas. Essi infatti sviluppano cariche batteriche che possono contaminare la carne, ri-percuotendosi negativamente nella fase di stagionatura. Non è una regola ma sovente può essere una concausa per la compromissione della buona riuscita dei salami .La mia maialatura si svolge in parte con procedimento generico, di routine, fino alla disossatura. Dopodiché per la mondatura della carne, invece, adotto la tecnica che ho

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appreso dal mio maestro, che comporta alcune ore di lavoro in più. I vari pezzi gros-solani vengono ridotti asportando tutta la parte bianca che li riveste. Nel sezionare la carne ulteriormente in parti più piccole, si evidenziano le membrane tra le fasce mu-scolari, i nervetti, qualche coagulo di sangue, qualche ossicino o cartilagine, a volte qualche cistina o ghiandola e si elimina il tutto. Questa operazione ritengo sia di fon-damentale importanza. Basta tenere da parte tutto lo scarto ed osservarlo alla fine, per convincersene. I miei collaboratori condividono pienamente questa pratica, al punto che preferiscono eseguirla loro stessi, perché essendo io più veloce nel maneggiare il coltello, sono convinti, sbagliando, che sia meno accurato. Quando tutta la carne è sezionata e selezionata, viene stesa sul tavolo e vi si aggiunge il grasso in giusta quantità, tagliato a pezzetti più piccoli e distribuito uniformemente, per una migliore invariabilità dell’impasto durante la macinatura. La parte grassa, comprende la pancetta, il guanciale ben pulito dalle ghiandole e il grasso della schie-na e della coppa. Si macina con piastra del 10, avendo ancora la massima attenzione nel mantenere la giusta proporzione magro-grasso, evitando accumuli di una delle due parti, altrimenti risulta poi difficile la distribuzione nell’impasto nonostante la pugnatura. Le piastre e i coltelli della macchina sono autoaffilanti ed in acciaio inox, perciò è meglio abbinarli senza più scambiarli, così si adattano l’uno all’altra e sicuramente il taglio delle carni risulta migliore, fatto in modo netto, senza schiacciarle e sfibrarle. Dopo la pesatura, preparo la concia per tutta la lavorazione, in un recipiente, mesco-lando sale a grana media in percentuale del 2,2%, pepe spaccato per lo 0,17%, un pizzico di spezie (noce moscata, chiodi di garofano e cannella) e salnitro in minima quantità, meno della metà della dose consentita che è di 15 g /100 kg. Sparsa accurata-mente la concia sull’impasto, si pugna o, meglio, si mescola e si rivolta a mani aperte con le dita allargate, tipo rastrello, in modo da mantenerne la granosità. Verso la fine aggiungo il vino, colando l’aglio tritato che vi ho messo a macerare la sera prima, 150 gr peso netto, cioè ben mondato, tolta l’anima, e immerso in 2 bottiglie di vino rosso corposo (io uso il Nebbiolo). Questa dose mi basta anche per i cotechini. Dopo il vino, ancora due o tre passate e, quando lega bene (el se ama), è pronto. Preparo i budelli già messi a bagno precedentemente e inizio l’insaccatura. Faccio uso solo del crespone pelato di scrofa, del calibro 8/9. È un budello naturale un po’ delicato, richiede una certa cautela nella manipolazione ma lo preferisco ad altri tipi, anche se più robusti e più facili da usare. La legatura con spago abbastanza sottile, la eseguo con 6/8 corde longitudinali ed a distanza fra loro di 2 cm le trasversali. La lun-ghezza dei salami è di circa 30/35 cm e mediamente il peso da kg 1,5 a kg 2 ed oltre. Per preparare i cotechini, uso tutte le cotenne tagliate a strisce sottili e macinate gros-solanamente con piastra a 9 buchi. Successivamente aggiungo anche la parte magra, composta dalla punta dei muscoli, i nervi, parte del diaframma, carne rossa non adatta per salami, carne della testa, cuore, lingua e lo strato superiore del guanciale, infiltrato di ghiandole. Rimacino il tutto una seconda volta con piastra del 6, mescolando bene

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magro e cotenne. A volte se non risulta ben omogeneo rimacino per una terza volta. La concia è leggermente più speziata e salata di quella del salame. Li insacco sempre in crespone, più corti cioè alla misura di 20 cm circa e mediamente di 1 kg di peso. Questa mia descrizione è generica perché ogni maialatura presenta delle diversità che richiedono delle varianti alla procedura consueta, che si valutano al momento. Usando lo stesso metodo, gli stessi parametri, gli stessi ambienti di stagionatura, ogni maiale darà sempre dei salami diversi da un altro, mantenendo comunque le caratteristiche personali e lo stile che distinguono il masalìn. Non c’è uno standard e questo ne con-ferma la genuinità, senza alcuna ombra di sofisticazione. Sono presenti inoltre differenze anche tra una famiglia e l’altra, avendo ciascuna le proprie usanze e abitudini. Per questo ogni maialatura è ricca di aneddoti unici, piace-voli e raramente sgradevoli, perché quella è comunque una giornata di duro lavoro sì, ma talmente appagante che - con le cose buone uniche di quel giorno, il trionfo finale del baldachin e il tutto condiviso in buona compagnia - può solo generare un clima festoso. Spesso questi episodi si rievocano proprio durante la cena del maiale, dopo qualche bicchiere di vino, stimolando l’ilarità dei commensali.Oggi più che mai, l’uomo sente l’esigenza di ritrovare se stesso e il proprio equilibrio interiore. Anche buona parte dei giovani, per fortuna, avverte il bisogno di recuperare quanto di buono e di bello c’era una volta nelle nostre campagne, nella nostra vita contadina, certamente difficile ma solida e positiva nelle amicizie e negli affetti fami-gliari. Ci sono però realtà consolanti che aprono alla speranza. Il comune di Ceresara, per esempio, con attenzione e costante impegno organizza numerosi eventi legati alle tradizioni contadine e alla tutela dei prodotti tipici locali. Nel 2006 la collaborazione tra il Comune di Ceresara e l’Accademia Gonzaghesca degli Scalchi, ha visto concludere un lavoro di appassionata ricerca e documentazione con l’ufficializzazione del disciplinare. Nel marzo 2007 è stata appovata la DE.CO. “del salame familiare artigianale di Ceresara”.Sono orgoglioso di avere preso parte alla ricerca, come membro del “collegio degli informatori”. A marzo in occasione della fiera della Possenta, ogni anno si svolge il concorso del miglior salame. A giudicare dalla crescente partecipazione del pubbli-co, l’iniziativa conferma la voglia di ritornare, come dicevo, alla bontà genuina da condividere a tavola in amicizia, magari avvolti da quell’atmosfera umile, semplice, solidale e festosa come allora, durante la cena del maiale.

È stato piacevole raccontare questa parentesi della mia vita. L’ho fatto con nostalgia ma sorridendo ai ricordi, anche se con l’amarezza per le cose perdute. Mi auguro ne sia stata piacevole la lettura e... che mi si perdoni la grammatica.

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Medio mantovanoInformatore Icilio Benatti

Il maiale dalle nostre parti veniva chiamato - nella parlata dialettale, allora quasi unica perché anche i pochi che avevano studiato lo usavano nei rapporti con tutti - al gugét. C’era nell’appellativo un certo senso di amicizia, quasi di affetto verso un bene di fa-miglia assolutamente prezioso, che avrebbe assicurato il compolentatico per un lungo periodo.Subito dopo l’ultima guerra c’era una grande fame, l’Italia doveva riprendersi ed il lavoro era duro per tutti. Nel periodo invernale, per la stasi delle operazioni agricole dovuta al gran freddo, il lavoro in campagna mancava praticamente del tutto per cui ci si arrangiava a fare qualche giornata dove capitava, percorrendo magari parecchi chilometri in bicicletta per arrivare sul posto di lavoro. Riuscivano un po’ meglio degli altri a sbarcare il lunario i masalìn, gente speciale, in possesso di una professionalità acquisita in tanti anni di impegno, che andavano di corte in corte a “far sü al gugét”.Non ci si improvvisava masalìn. Il lavoro era complessivamente semplice ma era esposto a tante e tali insidie e responsabilità (ne andava di mezzo la buona gestione futura della tavola, per mesi e mesi) che il mestiere poteva essere esercitato soltanto da uomini - solamente uomini - dotati di grande attenzione, sensibilità, buon senso pratico ed esperienza. Occorreva un lungo impegno, di anni ed anni, per arrivare al riconoscimento definiti-vo. Questo apprendistato non era tuttavia disdegnato dai più giovani per due motivi: si mangiava bene per molti giorni dell’inverno (e già questo non era poco, una sera di qua ed un’altra di là) e si imparava un mestiere da esercitare negli anni futuri, indispensabile per sostentare la famiglia quando il lavoro nei campi era fermo. Per la verità c’era anche un terzo motivo, non così evidente ma certamente da tenere nel conto giusto: in una società come quella di una volta, quando la scuola dell’obbigo si fermava alla quinta elementare, si tendeva a distinguersi in un qualche modo nell’am-bito della propria comunità ed il titolo di masalìn dava un certo prestigio.La scelta del maestro (del norcino) da parte di una famiglia era fatta secondo criteri

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diversi ma, in particolare, doveva avere una concia adatta al gusto di tutti e doveva essere persona capace, in grado di assumersi le sue responsabilità. Una volta indivi-duato quello valido, era assai difficile che fosse cambiato negli anni successivi. Nella concia le famiglie potevano richiedere delle variazioni rispetto a pochi elementi come sale, pepe ed aglio ma lui, il maestro, faceva poi quello che voleva. Ascoltava, diceva seriamente di sì ma alla fine si arrangiava con i cartocci perché capiva che in fin dei conti era la “sua” concia quella che andava bene e per la quale era stato ingaggiato. Il maiale veniva ingrassato con la şota, il cibo quotidiano in cui c’era dentro un po’ di tutto: residui della tavola di casa, farina gialla, patate, zucche di scarto, erbe, crusca, orzo, cascami di barbabietole, siero del latte, ed ultimamente della farina di soia. Do-veva raggiungere un peso superiore ai 200 kg cioè 220 / 230. Certe volte, ed era una meraviglia che si faceva vedere con compiacenza a tutti, si arrivava oltre i 300. Lo si ammazzava a dicembre o gennaio e doveva essere di “due agosti” vale a dire di circa 15 mesi in modo che la carne fosse ben fatta ed il lardo avesse raggiunto un ragguardevole spessore. Era questo, il grasso, quello che contava. I salami infatti ve-nivano dati in buona parte ai bottegai per saldare vecchi debiti. Ricordo che poi erano venduti in negozio con la tipica classificazione at prima, at seconda e at tersa (senza difetti, con qualche difetto, con gravi difetti, quasi al limite della edibilità).Quelli che venivano a lavorarlo erano quasi sempre due persone e cioè il masalìn ed un aiutante già un poco esperto detto al garşòn (il garzone). Questi aiutanti iniziavano in età giovanissima. C’erano degli assistenti che avevano anche 14 - 15 anni. Malgra-do l’età erano uomini già fatti, che avevano ricevuto importanti lezioni dalla maestra sofferenza, brutta ed arcigna ma efficacissima. Avevano senso dell’impegno, erano seri, fidati, rispettosi. C’erano poi, a dare una bella mano, i componenti della famiglia e, se non bastavano, c’erano anche dei parenti chiamati appositamente. Questi venivano volentieri per sta-re assieme alla sera per la cena finale ma anche perché così sarebbero stati ricambiati, a loro volta e nello stesso modo, per la lavorazione del proprio gugét. Il maiale era lavorato nei mesi freddi, da metà dicembre a metà gennaio, sia per la conservazione delle carni impossibile nella stagione estiva e sia perché non c’erano mosche, zanzare ed altri insetti che potevano rovinare tutto. Il giorno prima si preparavano le cose occorrenti e cioè al paröl, le fascine, stracci e pezze varie, i tavoli ed alcuni tulér (assi della pasta), a volte prestati dai vicini, da mettere sopra i tavoli per allargare il piano di appoggio. Budelli e spezie per le conce erano portati dal masalìn. Alla sera era immancabile la festosa cena finale con la fa-miglia al gran completo, tutti gli aiutanti, alcuni parenti e qualche amico. Come primo piatto venivano serviti i macaròn, fatti in casa con il torchio o acquistati. Conditi con un ragù fatto di pist (pasta di salame), cipolla, pomodoro ecc.Al mattino di buon’ora, ancora al buio, arrivavano gli artisti che predisponevano con cura attrezzi e coltelli. Questi erano parecchi e venivano usati un po’ da tutti eccetto un paio che il masalìn voleva riservati a sé per le operazioni più delicate. Il maiale, dopo

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averlo rampinato per trarlo dallo stalletto, veniva macellato (non senza qualche fati-ca), sistemato su assi sollevate da terra da due alte sponde laterali (il tutto sembrava una slitta), pulito dalle setole e dalle unghie dopo averlo cosparso di acqua caldissima ma non bollente, issato cun li tài (le taglie della carrucola) sul becaröl , venivano le-vate immediatamente le interiora ed i budelli. Questi ultimi, una volta puliti per bene dagli uomini sotto la vigile attenzione del masalìn stesso, erano consegnati alle donne di casa le quali con ago e filo li cucivano assieme per ottenere budelli più grandi men-tre per le salamelle andava già bene il calibro dell’intestino, quindi tagliato nei due mezzi seguendo il centro della spina dorsale. Una volta portate in casa le due mezzene - siamo a metà mattino, circa le dieci - ci si riposava un attimo facendo colazione. Questa era costituita, per tradizione antichissi-ma, dalla fritüra che era accompagnata da polenta abbrustolita sulle braci del camino. La fritüra era preparata con reticella, cipolla e polmone a pezzetti, con l’aggiunta finale del fegato. Assieme a questo piatto caldo c’era anche il gras pistà vale a dire lardo battuto sul tagliere, ridotto in poltiglia, e condito con sale ed aglio (poco). Vino lambrusco fatto in casa con l’üa d’or. I miei erano produttori di vino e ne avevano una buona scelta. Spettava al masalìn dichiarare la fine della colazione e sollecitare a riprendere le ope-razioni. Si andava, senza altre interruzioni, sino verso le sette – otto di sera quando gli insaccati venivano allineati sulle perghe che erano attaccate al soffitto. Questa vi-sione confortante non era chiamata con un proprio nome specifico e cioè al baldachìn come in altre parti del mantovano, ma era indicato semplicemente come le perghe (le pertiche). Dalle nostre parti, al masalìn non venivano date in regalo parti del maiale. Lo si paga-va e basta. Non si tirava mai sulla somma pattuita. Allora non c’erano contratti scritti di qualsiasi specie e la stretta di mano valeva più di un rogito del notaio. Qualche regalo comunque veniva fatto: al pustìn (il portalettere, il quale si doveva subire, nel rigore dell’inverno, delle lunghe e faticose biciclettate per portare la posta), al dotùr e al prét.Ricordo la pratica dell’ùnşar al spròc. Era un’usanza rispettata in osservanza della solidarietà comunitaria alla quale peraltro pochissimi si sottraevano per la diffusa convinzione che la miseria poteva toccare a tutti un giorno, persino a quelli che al momento erano i più ricchi. Non vi partecipavano ovviamente i figli delle famiglie di una certa tranquilità economica o quantomeno non povere, perché sarebbe stata considerata in paese una vergognosa speculazione. I bambini delle famiglie più biso-gnose passavano di corte in corte, di famiglia in famiglia e cantavano una canzoncina di circostanza, mezza in italiano e mezza in dialetto, tutta sgangherata nella rima. Davano tutti qualcosa. Salami, cotechini, coppe e pancette, dopo l’insaccatura e la legatura, venivano ap-pesi a delle pertiche robuste e sistemate per un paio di giorni in un luogo abbastanza asciutto e non freddo (cucina) e quindi nella “camara di salàm” una stanza posta a

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tramontana, fredda d’inverno e fresca verso l’estate, quando le perghe si traslocavano in cantina, sempre fresca e con il fondo in terra battuta. Tra i capi sospesi ai bastoni, c’era quasi sempre la soppressata di testa, un prodotto tipico dell’area emiliana la quale dista pochi chilometri. Per le grepule era d’obbligo la attenta sorveglianza del masalìn perché il passaggio tra un unto bianco, quasi candido ed un altro marroncino e bruciaticcio, era questione di pochi secondi. Parte del lardo era tritata e conservata, giustamente salata, in vasi e pentole di terra-cotta vetriata. Qualche maestro faceva anche il prosciutto crudo ma doveva essere molto salato per resistere al clima caldo ed umido della zona, per cui non era molto apprezzato. I malanni che colpiscono gli insaccati nel periodo della loro maturazione, sono quelli che possono derivare da non corrette condizioni ambientali come la errata ventilazio-ne (da porte e finestre), infiltrazioni di fumo (quando si bruciavano le stoppie) o, più in generale, dal clima esterno: troppo umido per via della pioggia insistente o troppo secco, ovvero troppo caldo. La muffa è un elemento naturale, una componente che deve svilupparsi ma ci si deve preoccupare di quella bianca, molto alta, detta localmente pél dal gàt (pelo di gatto). In certi casi di ostinata umidità si può formare una specie di morchia denominata mol-chégn, talora leggermente maleodorante e pericolissima perché potrebbe corrompere la pelle del salame e penetrare all’interno rendendolo assolutamente immangibile. Per porre rimedio bisogna lavarli immediatamente con un pennellino passato delicata-mente ed intinto in una miscela di acqua ed aceto casalingo in parti uguali.

Il sig. Benatti è anche un appassionato gastronomo, profondamente legato alla cucina contadina di una volta. Opera su grandi proporzioni e sulla assoluta genuinità degli ingredienti. A casa sua ho potuto apprezzare alcuni piatti in grado - da soli ed al di là di ogni più acuta dissertazione sociologica - di far capire quanto stiamo perdendo con la moder-nità che ci affascina ed ottunde. Con estrema fatica sono riuscito ad avere alcune ricette. Rendo l’onore delle armi: c’è stata da parte sua una tenace resistenza.

Mostarda di anguria (ricetta di casa vecchia)

Si usano angurie bianche. Levare la scorza e tagliare l’anguria a pezzi. Togliere i semi. Mettere la polpa in una capace zuppiera e per ogni kg di frutto aggiungere 3 hg di zucchero ed un quarto di limone tagliato finemente. Lasciar riposare per 48 ore. Trascorso questo tempo, far bollire velocemente il tutto. La miscela dovrà essere ad-densata e di un colore biondo non troppo scuro. Lasciar raffreddare quindi aggiungere

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l’essenza liquida di senape nella misura di 12 - 13 gocce per kg di polpa di anguria. Porre in vasetti e sistemare in luogo fresco. È pronta dopo un mese e mezzo.

Marmellata di zucchine (ricetta di casa vecchia. Era denominata “duls e brüsch”)

Occorrono delle zucchine “passate”, cioè molto mature e molto grosse. Nettare, la-vare, eliminare i semi interni, tagliare le zucchine a dadini e metterli sotto aceto per 48 ore. Scolare bene e far bollire aggiungendo 3 hg di zucchero per chilogrammo di polpa, un limone tagliato a fettine sottili ed un paio di chiodi di garofano. Si fa andare a fiamma molto bassa sinchè la miscela non si è bene addensata. Mettere in vasetti da conservare al fresco.

Fegato di maiale(ricetta di casa vecchia. Differisce dalla fritüra)

Per un chilogrammo di fegato di maiale fresco.Affettare finemente due belle cipolle, dolci, ramate e cuocerle in abbondante acqua leggermente salata. Fare andare sino a quando l’acqua si è consumata e le cipolle sono diventate una crema. Addizionare burro, olio, sale, pepe ed alloro. Lasciar cuocere ancora per qualche minuto.Spellare il fegato, ridurlo a fettine e porlo nel tegame delle cipolle. Pochi minuti di cottura, rigirando le fette almeno due volte. Servire il fegato con la sua base di cipolla accompagnando con polenta.

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Area di confine tra Veneto ed Emilia Informatore: Alberto Guidorzi

Il maiale era oggetto d’allevamento per la macellazione ad uso famigliare, ma si al-levavano anche scrofe per la produzione di maialini da vendere. Era acquistato in primavera o addirittura in autunno, mantenuto fino ai primi freddi dell’autunno suc-cessivo e macellato. I ricoveri dei maiali erano angusti vani ricavati sotto i pollai o addirittura sotto il forno da pane.All’interno vi era una vasca in cemento che fungeva da mangiatoia, la quale veniva riempita dall’esterno attraverso un’apertura ad imbuto. L’alimento era costituito da una brodaglia,”la bróda dal pòrc”, che spesso era l’acqua in cui erano stati lavati i piatti usando come sgrassatore un pugno di farina gialla, altra farina e crusca erano aggiunte oltre a resti di cibo o scarti di verdure come le bucce delle patate e croste di polenta staccate dalla pentola o paiolo di rame. Nei mesi finali di mantenimento e per accelerare l’ingrasso, si somministrava farina gialla in quantità più abbondante, patate sottomisura cotte e zucche coltivate per quest’uso. Il maiale è un animale onnivoro, ma che non può alimentarsi di fieno a causa della conformazione del suo apparato digerente. Può invece mangiare erba e radici, per cui durante i mesi più caldi e nelle ore più afose, si portava all’aperto in prati erbosi e ombreggiati dove, legato tramite una lunga catena di ferro attaccata al suo collare, scavava con il “grugno” e sfuggiva anche agli eccessivi caldi che lo avrebbero fatto soffrire limitandone l’accrescimento.Normalmente per l’ingrasso si allevavano solo maschi castrati. Le scrofe per la pro-duzione di maialini da vendere partorivano verso la fine dell’ estate, i maialini si al-levavano per tutto l’inverno e nella primavera successiva si vendevano. Si cedevano anche al caseificio cooperativo che con l’apertura primaverile cominciava un nuovo ciclo d’allevamento di maiali e così valorizzava i sottoprodotti della fabbricazione del formaggio. Era un’attività integrativa della famiglia contadina che copriva un periodo relativamente morto per i lavori agricoli. Vi interveniva una figura particolare: “il castrino”, che era lo specialista nel privare dei testicoli i giovani animali al fine d’ac-celerare i tempi dell’ingrasso. A lui era demandato anche il compito di “piallare” loro i denti per evitare ferite alle mammelle della madre durante l’allattamento. Quando

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il castrino operava, i dintorni erano invasi dalle grida acutissime dei maialini oggetto dell’operazione cruenta. Per la nostra zona e per i dintorni operava il “castrìn ‘d Ma-gnacaval” (il castrino di Magnacavallo), la cui professione era tanto pregnante che i suoi figli erano conosciuti semplicemente come: “I fioi dal castrìn” (i figli del castri-no). Poteva capitare che i nati di un parto fossero soprannumerati rispetto al numero delle mammelle della scrofa per cui qualche maialino per tutto il periodo dell’allatta-mento poteva poppare solo dopo che gli altri si erano ben nutriti. Esso era chiamato “‘l scarecc” e stava ad indicare l’ultimo nato e il più malnutrito.Il maiale era macellato alle prime gelate di fine autunno o inizio inverno in modo da lavorare la carne a temperature basse e poter mantenere più a lungo inalterate le frattaglie e le parti destinate al primo consumo. Il maiale di una volta aveva un’età minima di 12 o 13 mesi o anche più per cui la carne era molto meno acquosa di quella dei maiali attuali macellati solo dopo nove mesi, l’alimentazione era inoltre molto più varia. Al mattino presto arrivavano i due macellai (operai agricoli che cercavano di integrare i loro scarsi guadagni). Con una grossa e robusta fune legavano una zampa del maiale e lo trascinavano fuori dal porcile, facendolo gridare come un ossesso. Era il segnale che spingeva i ragazzini a precipitarsi nella corte. Mentre uno tratteneva l’animale, l’altro si avvicinava e, afferrata con una mano la zampa anteriore destra, con l’altra, tenuta nascosta dietro la schiena, impugnava un lungo coltello appuntito e tagliente. Spesso si trattava di baionette di moschetto, residuati di guerra, opportuna-mente affilate. Il maiale, con due dei quattro piedi immobilizzati, poteva facilmente essere rovesciato sul fianco e offrire il punto del corpo dove conficcare il coltello per arrivare dritto al cuore e trafiggerlo. Il grido si faceva altissimo e reiterato per poi man mano affievolirsi. Era sopraggiunta la morte. Il coltello lasciato infilato serviva da convogliatore del sangue che fuoriusciva copioso e che era raccolto in una pentola, lasciato coagulare e mangiato poi fritto tagliato a fette. Le donne di corte già dalle pri-me ore della mattina avevano provveduto a far bollire molta acqua in grossi paioli di rame su focolai improvvisati,“li furnaşèli”, sistemati in vicinanza del porcile. L’acqua bollente raccolta con secchi era versata sulla pelle del maiale morto in modo da am-morbidire l’epidermide e rendere più facile l’asportazione delle setole. La raschiatura dell’epidermide e dei peli avveniva il più alla svelta possibile tramite lame affilate ricavate da vecchie falci fienaie rotte. Il tutto era raccolto per essere venduto a produt-tori di pennelli. L’acqua bollente facilitava anche l’asportazione, mediante l’ausilio di uncini, delle unghie dei piedi. Anche queste erano vendute: macinate avrebbero costi-tuito concime organico (il cornunghia), che ora l’agricoltura biologica ha riscoperto. Il corpo del maiale era appeso ad una trave del portico o ad un cavalletto appositamente costruito, per mezzo di legature sulle zampe posteriori, rafforzate da ganci inserite nei tendini. Era lasciato penzolare e, per facilitare la fuoriuscita del sangue ancora ritenu-to dal corpo, si sgozzava. Contemporaneamente si procedeva allo svisceramento e alla divisione in due mezzene, “li sc-iapi dal pòrc”. Gli intestini erano svuotati, rivoltati, lavati, sbollentati e passati nell’aceto per la di-

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sinfezione. Dopo il taglio in pezzi, erano consegnati alle donne per la cucitura di un estremo. Diventavano i budelli destinati a contenere (secondo il diametro) la carne dei cotechini, dei salami, e delle salsicce. La vescica urinaria costituiva anch’essa un contenitore di conservazione, mentre fegato, polmoni, reni e cuore sarebbero stati cucinati come frittura. Una parte del fegato era fritta subito in tanta cipolla e sommi-nistrata, assieme ad abbondante polenta, come colazione di mezza mattina ai macellai ed ai componenti della famiglia. Il grasso per friggere era ricavato da una pellicola reticolata che avvolgeva il fegato. Le due mezzene, private delle parti interne molli, ben sgrondate e pulite dal sangue, erano divise in tre pezzi: la parte posteriore (i pro-sciutti), la parte mediana e la parte anteriore (spalla e testa). La parte mediana nella zona dorsale e sotto la pelle (la cotica) aveva il lardo, il condimento per eccellenza delle famiglie di una volta. Più lo spessore di grasso era alto e più si apprezzava l’ani-male, ora è l’inverso, sono cambiati gusti ed esigenze alimentari. Il grasso della zona ventrale con infiltrazioni di carne magra era la pancetta che poteva essere semplice-mente conservata sotto sale come il lardo o essere cosparsa di sale, pepe e spezie varie e arrotolata per farne un salume insaccato o avvolto in “carta pecora” da consumarsi stagionato.All’interno della parte mediana dell’animale vi erano due depositi di strutto racchiu-si da una pellicola trasparente, cartacea e consistente che serviva per fabbricare un contenitore d’insaccati, in particolar modo la coppa. Il lardo mantenuto attaccato alla cotica era tagliato in bande larghe, salate nella loro parte interna, fatte combaciare in coppia, avvolte nella “carta pecora” (tipica carta oleata, ormai sparita, ma l’unica sufficientemente resistente e impermeabile prima dell’avvento della plastica) e appese ad una trave del soffitto. La massaia ogni mattina ne tagliava una piccola fetta che usava per fare il soffritto, “‘l sufrìt”, alla minestra del pranzo di mezzogiorno. Parlare, allora, di una famiglia che mangiava la minestra con “il soffritto” ad ogni pasto era come definirla benestante. É evidente che con i mezzi di conservazione del tempo era inevitabile ritrovarsi, col passare dei mesi, del lardo irrancidito, “grass rans”, ma ciò non era motivo sufficiente per smettere di mangiarlo. Solamente quando era divenuto veramente immangiabile, si sceglieva un’altra utilizzazione: si conservava assieme ad altre sostanze grasse di scarto e non più commestibili per fare il sapone casalingo che poi sarebbe servito per il bucato.Le parti anteriori e posteriori erano disossate e se ne ricavavano quattro tipi di carne: quella da salami (il miglior muscolo con le migliori parti grasse) quella da cotechini (la carne meno pregiata dei muscoli), quella per le salsicce (che si consumavano senza grande stagionatura) e quella per la testina (le parti cartilaginose della testa e le più grasse) che doveva essere cotta, tritata, condita, insaccata e mangiata abbastanza alla svelta. Nella parte superiore, subito dietro la testa, vi erano due muscoli che servivano per fare la “coppa”. Le carni per gli usi sopraindicati erano tritate con apposite mac-chine, salate, pepate, speziate, aggiunte di aglio, mescolate ed insaccate nei “budelli” del maiale o in altri, che si acquistavano, ricavati dai bovini. L’aggiunta d’aglio ha

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sempre contraddistinto i salami delle nostre zone rispetto a tutte le altre limitrofe. Il budello riempito di carne era legato nella parte superiore e tutt’intorno. Alla carne da cotechino normalmente si aggiungeva una parte di cotiche tritate, da cui deriva appun-to il nome. I ritagli particolarmente grassi erano accumulati e consegnati alla massaia che li poneva nel paiolo sotto il quale ardeva un fuoco moderato e costante. Nel grasso che si scioglieva cominciavano a nuotare i ciccioli, “li grasóli”, che erano estratti dal liquido con la schiumarola e lasciati ben scolare. Essi erano un ottimo accompagna-mento per la polenta. Particolare cura era data a questa operazione perché i ciccioli non fossero troppo fritti e lo strutto, la parte liquida, non ingiallisse, ma solidificandosi rimanesse bianco. Esso sarebbe servito per le fritture, al posto dell’olio, dei “pinsìn”, delle “lattughe” di carnevale, del pesce pescato nei fossi e nei canali. Il prosciutto di coscia era fatto solo dalle famiglie che uccidevano più maiali e quindi dalle più ricche, poiché se si volevano fare buoni salami vi si doveva necessariamente includere anche la carne della coscia. Alla fine della lavorazione rimanevano le ossa con residui di car-ne, le zampe (i sampét), le orecchie, il codino e il grugno. Queste parti si mangiavano per prime, di solito lessate e risolvevano almeno per una settimana il problema del pasto. Come già accennato, la scelta dei mesi più freddi per la macellazione favoriva, in mancanza di frigorifero, la conservazione delle carni, e nello stesso tempo forniva alimenti particolarmente calorici in un periodo dell’anno in cui il fisico era pronto ad assorbirli. Da un osso particolare della zampa del maiale si faceva un giocattolo per i bambini, “al frul” il cui nome in dialetto deriva dal rumore che esso faceva se fatto roteare nell’aria mediate l’ausilio di una corda infilata in un foro praticato nella sua parte mediana. Qualcuno se lo ricorda? La conservazione degli insaccati era praticata in casa, prima in una camera riscaldata per l’asciugatura (con la massima attenzione affinchè il budello non si seccasse troppo e si staccasse dal trito di carne interno) e poi in una camera fredda e non molto umida per la prima fuoriuscita della muffa normal-mente era la camera da letto,“la càmara di salàm”. Per definire qualcuno un po’ tonto si affermava che era “nato nella camera dei salami”.Solo i salami duravano per tutto l’anno, mentre, nell’ordine, si consumavano salsicce, testina, cotechini, pancetta e coppa. La conservazione dei salami nelle giornate più calde di primavera - estate era fatta nelle cantine aziendali con pavimento in terra battuta ed esposte a nord. Il salame era simbolo di accoglienza per l’amico o il parente che venivano in visita oppure prezioso dono di riconoscenza per favori ricevuti. Per la famiglia si tagliava ogni tanto e si mangiava come companatico, ma con molta parsimonia. Si racconta che un nonno capo famiglia, a cui era demandato il taglio e la distribuzione delle fette del salame, durante un desinare abbia allungato ad un nipote una fettina di salame e per ricordargli il dovere di riconoscenza gli abbia detto: “ve-dat to nonu!” (vedi tuo nonno!). Al nipote, purtroppo, sembrò che la fetta fosse così sottile da essere quasi trasparente e pertanto rispose: “sì, purtròp, c’av vedi nonu” (si nonno che vi vedo, purtroppo!). A quei tempi si dava del “voi” ai nonni, alle persone anziane in genere e ai mariti.

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Il maiale nella letteratura

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In un libro che tratta del suino e del suo rapporto con l’uomo nel corso di un lasso temporale di alcuni millenni, non potevano mancare alcune citazioni - brevissime, a mo’ di esempio perché la produzione è sterminata - alle numerose ricette, metafore, paradossi, simbologie e divertissements sul tema, sempre caratterizzati da un elegante registro ironico. Il gugèt è stato infinite volte soggetto di scherzi ed operette umoristiche che superando il riferimento all’animale, con consolidati risvolti popolari e talvolta scurrili, hanno finito per darci testi di cucina e letterari di pregevole e raffinata cultura. Ne propongo alcuni esempi tratti, come dicevo, da un patrimonio immenso.

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Omero (incerte data di nascita e di morte), grande poeta epico.

Odissea - libro XIV – traduzione di Ippolito PindemonteIn esso si narra dell’incontro tra Odisse o ed il suo fedele servo Eumeo, devoto porca-ro. Si descrive lo stabbio ove Eumeo tiene i maiali con grande cura e la sua sofferenza per dover servire ogni giorno ai Proci le carni per le loro gozzoviglie. Trovollo assiso nella prima entrataD’un ampio, e bello, ed altamente estruttoRecinto, a un colle solitario in cima.Il fabbricava Euméo con pietre tolteDa una cava propinqua, e mentre lungiStavasi Ulisse, e senz’alcun dal veglioLaerte, o da Penelope, soccorso:D’un’irta siepe ricingealo, e foltiDi bruna, che spezzò, quercia scorzataPali frequenti vi piantava intorno.Dodici v’eran dentro una appo l’altraCommode stalle, che cinquanta a seraMadri feconde ricevean ciascuna.I maschj dormian fuor, molto più scarsi,Perchè scemati dall’ingordo denteDe’ Proci, a cui mandar sempre doveaL’ottimo della greggia il buon custode.Trecento ne contava egli, e sessanta;E presso lor, quando volgea la notte,Quattro cani giacean pari a leoni,Che il pastor di sua mano avea nodriti.Calzari allor s’accomodava ai piedi,Di bue tagliando una ben tinta pelle,Mentre, chi qua, chi là, gïano i garzoni.Tre conducean la nera mandra, e il quartoAlla cittade col tributo usatoLo stesso Euméo spedialo, e a que’ superbi,Cui ciascun dì gli avidi ventri empieaDella sgozzata vittima la carne.

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Bernardino ProsperiLettera ad Isabella d’Este conservata nell’Archivio di Stato di Mantova - Archivio Gonzaga. Il Prosperi era ambasciatore mantovano presso la corte estense. Nella let-tera descrive quanto accadeva a Ferrara ed in altre città (Bologna, Venezia ecc.) per la singolare festa che vedeva la gara per la conquista di un porco tra popolani affa-mati. Scritto citato da Emilio Faccioli ed Evio Hermas Ercoli. Ferrara 1506.

“Il signore ha posto suso uno tribunale in la piaceta del castello uno porco ligato per uno pede, poi parechi fachini e famigli armati cum l’armadura tuta da omo d’arme, cum boni bastoni in mano de uno brazo de longeza, e cum li ochi velati dentro a li elmeti; e a sono de le trombette per amazar e guadagnar el porco, si sono bastonati a modo de aseni, e batendosi uno d’essi sopra il porco per tirarlo al fine, ha avuto de le mazate senza modo da li compagni”.

Maestro MartinoCuoco alla corte del Reverendissimo Monsignor Camorlengo et Patriarcha de Aqui-leia. È forse la prima ricetta della salamella nostrana. Metà secolo XV. Dal “Libro de arte coquinaria”.

Se tu vorrai fare bone salzicchie di carne di porcho o d’altra carne.

Togli della carne magra et grassa inseme senza nervi et tagliala ben menuta. Et se la carne è dece libre metteve una libra de sale, due oncie de finocchio ben necto et doi oncie di pepe pistato grossamente; et mescola bene queste cose inseme et lassale stare per un di. Et dapoi togli di budelli ben necti et ben mondi et impieli de questa carne et poneli asciuccare al fumo.

Johannes BockenheymJohannes Bockenheym era membro di rango elevato del clero tedesco alla corte di Papa Martino V con il compito di responsabile delle cucine. Abituato ad approntare vivande per persone di dignità ed abitudini diverse, come erano appunto quelle che formavano la cerchia del pontefice, scrisse un singolare trattatello dal titolo “Regi-stro di cucina” contenente 76 ricette, in tardo latino, delle pietanze che più si addice-vano agli uni ed agli altri. È curioso notare che il maiale era preferito dagli italiani.

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Minestra di carne

Sic fac ministrum de carnibus. Recipe carnes porcinas macras, cun petrocilino, et radicibus eius, et pista illa insimul cum cultello, et pane grattato, et tempera illa cum ovis et speciebus bonis; et fac illa omnia insimul modicum bulire. Et erit bonum pro Italicis.

Così si fa la minestra di carne. Prendi carne magra di maiale, tritala con il coltello, insieme a prezzemolo, radici di prezzemolo, pan gratttato e mescola con uova e spezie buone. Fai bollire tutto insieme per un poco. E sarà buono per gli Italici.

Maiale arrostoSic debes assare porcum. Recipe intestina eius, scilicet jecorum et pulmonem, et pi-stailla cum cultello, et tempera illa cum ova dura, lardone, et petrocilino, maiorano, et uva passa, et speciebus dulcibus. Et tunc scinde porcum per latus, et mitte ad spi-tonem, et inmitte illam temepraturam, et consue bene latus; et trahe unum pedem per alium, propter bene stare, et facvalde plane rostire.Et erit pro divitibus.

Così si deve fare il maiale arrosto. Prendine le interiora, cioè fegato e polmone, trita-le con il coltello e mescola con uova sode. Poi taglia il maiale per il lungo, farciscilo con l’impasto e ricucilo bene. Mettilo allo spiedo dopo avergli legato le zampe l’una all’altra in modo che vi stia saldo. Fallo arrostire bene e a lungo.E sarà per i ricchi.

Fritüra di maiale allo spiedoSic fac vigitellos de porco. Recipe jecorem eius, et pulmonem, cum aliis intestinis, et fac partes ad longi-tudinem unius digiti, et circunda illas partes cum rete illius porci, et fac rostire in spitone. Post hoc recipes species dulces, cum brodio buono. Et mitte illas partes superius in scutella, ita quod brodio non tangantur, et sparge superius spe-cies dulces.Et erit pro Romanis.

Così si cucina la corata di maiale. Prendine il fegato, il polmone e le altre interiora e fanne dei pezzi dello spessore di un dito, avvolgili nella rete del maiale e falli arrostire sullo spiedo. Poi prendi buon brodo con spezie dolci e metti i pezzi di carne in una scodella, separati dal brodo, e cosparsi di spezie dolci.E sarà per i Romani.

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Zuppa di carneSic fac brodittum de carnibus. Recipe carne porcinas coctas, et pista illas cum cultello, et tempera illa cum caseo recenti, ova, et zapharano, cum brodio grasso; et mitte intus, et non moveas donec veniat tempus prandendi. Tunc species ad scutellam.Et erit pro Italicis.

Così si fa la zuppa di carne. Prendi carni di maiale già cotte, tritale con il coltello ed aggiungi formaggio fresco, uova, e zafferano. Mettile nel brodo grasso e lasciale riposare finchè non sarà ora di pranzo. Servi in una scodella con spezie.E sarà per gli Italici.

Domenico Romoli Detto il Panunto. Ottimate fiorentino, scalco di papa Leone X e di altri nobili aristo-cratici, uomo dotto, esperto di cucina e di politica.Da “La singolare dottrina … de’ condimenti di tutte le vivande …” – 1560.

Un paracuore in potaggio

Questa vivanda sarà brutta e buona, né per molti si costuma. Quando il porco sarà stato morto tanto che il sangue sia corso al cuore e ghiacciatovisi, si spaccherà il porco cavandogli prima le trippe politamente. Pigliate poi un vaso polito e tagliate tutto il restante del fegato, polmone e cuore, grassoli, animellette, gangole e sangue, e mettete ogni cosa così sanguinosa in quel vaso. Lievatevi il fegato dal polmone e vi lascerete le punte e quelle sue alette. Lavate poi ogni cosa con vino bianco e acqua; con la medesima lavatura con tutto il sangue, se viene, sarà del ripreso, e quanto più sanguinoso sarà, sarà migliore. Mettete ogni cosa a bollire con la medesima lavatura in una pignatta di terra; come la schiuma sarà ingrossata, si lievi questa sola volta lasciando cuocere i duo terzi; cavatelo sopra la tovaglia polita e tagliate ogni cosa in-sieme grossolanamente. Pigliate de’ porri bianchi e tagliategli similmente alla grossa, e fategli soffriggere da per sé, e tanto che sieno quasi cotti mettete il paracuore nel tegame o cazzuola polita con il fondo del suo brodo più sanguinoso, che a fatica sia coperto. Mettetevi poi i porri soffritti , erbette odorifere tagliate e pepe acciaccato che ne senta; lasciatelo fornir di cuocere e farete i vostri piattelli con spezie dolci sopra. (Il paracuore è il polmone)

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Maffio Venier

Poeta, arcivescovo, cortigiano presso papa Sisto V e Francesco I de’ Medici. Era della nobile famiglia veneziana dei Venier (1550 – 1586). Lo scritto è un lamento amoroso in stile bernesco.

Signora mai, vu manizé per tutocussì sto porco infina ale buele:donca per far salsizze e mortaèlevu ve degné d’un animal sì bruto ?

Mò mi, che son per vu morto e destruto,no m’avì mai tocà nianca la pèle;forse che lu de quele mani sì belese sentì mai d’amor caldo un persuto ?

Orsù, s’ammazza el porco, e mi son mortoMile volte per vu; ma ingiustamente,che lu muor a rason, mi muoro a torto.Lu tuttavia ve ‘l tegnì sempre arente,e mi non avì mai nessun confortode sì longo servir con tante stente !

Agostino GalloBresciano, importante agronomo italiano, uno dei protagonisti dell’agronomia cin-quecentesca. Da “Le vinti giornate dell’agricoltura et de’ piaceri della villa…” 1580.

Ancora si debbe tenere de’ porci per ammazzarli grassi nel tempo del freddo per bi-sogno della famiglia e de’ lavoratori, tenendoli però serrati in luogo commodo per lo verno e per l’estate, il quale sia solato d’assi di larice sopra i travi di rovere o piu tosto di castagna, le quali non si tocchino appresso un dito, e non vi sia il terreno appresso un braccio, acciochè il piscio loro possa penetrare e star maggiormente asciutti. Es-sendovi poi un albio talmente accomodato che vi si possa metter il lor mangiare senza aprire altramente l’uscio. Ai quali si possono dare le lavature di cucina, il brodo di latte, le ghiande di rovere, i frutti dei giardini, la diversità dell’erbe, le rape cotte con la semola e senza, la melica macinata o cotta, e il farinaccio de’ pellizzari, ma non già quello de’ molinari perciocchè fa la carne spongiosa, che abonda di spuma nel cuocerla.

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Vincenzo TanaraImportante agronomo italiano e magistrato a Bologna. Di famiglia aristocratica, gli spettava il titolo di marchese. Tra gli scritti arguti e burleschi più ricorrenti, c’è il “Testamentum porcelli”, già noto verso la fine del IV secolo dopo Cristo. Ne ha parlato S. Gerolamo nella sua bella pre-fazione al Commentario di Isaia. Veniva recitato dagli studenti nelle scuole di allora come tiritera, con grandissimo spasso.Nel tempo ha subito delle modificazioni. Il testo qui riportato è quello del Tanara ed è tratto dalla sua opera “L’economia del cittadino in villa”. Il maiale aveva nome Grunnius Corocotta. Come benefattore dell’umanità dona all’uomo non soltanto il suo corpo ma anche i suoi premurosi pensieri.

Testamentum porcelli “Avvedutosi certo venerabil porco, che dal protosguattero Zighettone doveva esser macellato, gli addimandò un hora di tempo per poter disporre delle sue facoltà, così comparve il notaro di Svigo, il quale rogò l’ultima volontà di quello. “Prima lascio che il mio corpo sia, da una caterva di golosi con varia cuocitura nel loro ventre seppellito. Lascio a Priapo (Dio della fecondità e degli orti) il mio grugno, col quale possa cavare i tartufi dal suo horto. Lascio a’ librari e cartari i miei maggiori denti, da poter con comodità piegare e pulire le carte. Lascio a’ dilettissimi Hebrei, dai quali mai ha avuto offesa alcuna, le setole della mia schiena, da poter con quelle rappezzar le scarpe e far l’arte del calzolaio. Lascio a’ fanciulli la mia vescica da giocar. Lascio alle donne il mio latte, a loro proficuo e sano. Lascio la mia pelle a’ mondatori e mugnai, per far recipienti da acconciar i grani. Lascio la metà delle mie cotiche a’ scultori, per far colla di stucco, e l’altra metà a quelli che fabbricano il sapone. Lascio il mio sebo a’ candelottari, per mescolarlo a metà col bovino e caprino e far ottime candele, con le quali li virtuosi possono alla quiete della notte studiare. Lascio la metà della mia songia a’ carrozzieri, bifolchi e carrettieri, e l’altra metà a’ garzolari per conciare la canapa. Lascio le mie ossa ai giocatori, per far dadi da giocare. Lascio a’ rustici, miei nutritori, il fiele per poter senza spesa cavar le spine dal loro corpo, quando scalzi e nudi nel lavorar la terra gli fossero entrati nella pelle, e per poter senza spesa, in luogo di lavativo, l’indurato corpo irritare. Lascio agli alchimisti la mia coda, acciò conoscano che il guadagno che son per fare con quell’arte è simile a quello che io faccio col dimenar tutto il giorno la detta coda. Lascio agli hortolani le mie unghie, da ingrassar terreno per piantar carote.

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In tutti gli altri liei, lardi, prosciutti, spalle, ventresche, barbaglie, salami, mortadelle, salcizzutti, salcizze e altre mie preparationi, intuisco cuglio che sia mio herede univer-sale il carissimo economo villeggiante”.

Vittore VettoriMantovano, “dottor fisico” e poeta – autore de “Le piacevoli rime” - 1744Lo strambotto di stile bernesco, cioè burlesco, sottoriportato, è stato scritto per la morte del porco dell’amico Gian Maria Galeotti. La donna di casa è molto dispia-ciuta ma si consola quando il marito decide di lavorare ugualmente il maiale e di conservarne le carni in vasi di terracotta coperti di strutto.

In morte di un porco

Al Galeotti, o genti, è morto il porco,è morto il porco al Galeotti o genti.Guardate come accadon gli accidenti;in su la bruna seralo afferrò per gli orecchi la versierae fu percosso dall’ombra dell’Orco.Povero porco! Io lo vedo sdraiatoCh’e’ pare addormentato;la dolente massaiagli sta, piangendo, a lato,e sbatte nel paniere la civaia.Poi gli appresta nel secchion la broda,poi gli tira la coda,poi lo chiama per nome;ma perché nulla sente e non si scuote,la disperata si graffia le gote e si caccia le mani entro le chiome.Il Galeotti intantoNon bada al di lei pianto.Ma quando la massaia il sente direChe, fatto in pezzi, lo vuol seppellireNegli orci con lo strutto,riman col ciglio asciutto.

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Tigrinto Bistonio Pseudonimo secondo lo stile accademico, gonfio di sfumature arcadiche e mitologi-che, dell’abate Giuseppe Ferrari di Castelvetro di Modena (Accademia de’ Dissonan-ti) - Da “Gli elogi del porco” - 1761.

Sembri raschiato un candido ArmellinoE sembri aperto ricca galleria,A pompa, e gloria del saper divino.

Son tutte le tue parti in simmetria,E la macchina tua si estima assaiDalla tagliente rossa notomia.

A ogni figura accomodar ti sai,Arrosto, Fricandò, Lesso, Bragiole,E sempre piaci, e non disgusti mai.

Mastro lo cuoco senza Te non suoleIn Pranzo signoril figurar bene,Ne fa scialacquo, ed il Padron sen duole.

Più avanti si adira contro coloro che sono in realtà i veri maiali e cioè gli uomini avidi, vili e volgari. Scrive:

Chi mangia a due ganascie, un porco egli è;Porco chi ha sempre il gorgozzule in molle;porco chi scarno in pria, grasso si fè:Porco chi non ha il sangue, che gli bolle;Porco chi lascia un peto in abbandono,Porco il Melenso, il Brodoloso, il Molle.

Nelli (autore del XVII secolo, non meglio identificato)

“... per preparare i salumi, macellato che sia il Majale, e levatone il pelo, e ben mondo e pulito si separano i Lardi, i Lardoncelli della gola e della ventresca, le sugne e il sevo

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per farne lo strutto, si staccano le bondiole, le spalle e i prosciutti, e della carne che rimane segli con molta cura la migliore e più magra per farne i salami da conservarsi privandola di ogni sostanza tendinosa, cartilaginosa e aggiungendovi tanta quantità di carne grassa, che basti ad ammorbidirla. Quella che rimane sarà serbata anch’essa a farne dei salami, i quali per essere di qualità inferiore sono facili a rancidire, e per-ciò si consumano al più presto. Prima però di fare i salami bisogna tritar bene con la Mannaja e molto fina la carne, che si manipola poi e per così dire si impasta fino al necessario a conservarla, e tanto pepe bastante a renderla saporita.Alcuni costumano di mettervi dell’aglio stemperato nel vino, in quantità così discre-ta, che le carni non ne contraggono che un odore molto remoto. La quantità di sale necessaria è generalmente di sette once (g 191) per ogni peso (kg 8,2) di carne e il pepe che molti costumano di mettere in coccole initere, e molti altri ammaccate, non oltrepassi mai due once (g 54/55) per peso; dopo si manipola e si rimescola di nuovo, e ben bene, finchè il sale e il pepe vi si distribuiscano ugualmente. Preparata così se n’empiranno gli intestini dello stesso Majale, che saranno stati con la massima cura liberati dalle feci, e puliti e a più riprese lavati nel vino tiepido, o nell’aceto nel quale spesse volte rinnovato, saranno stati per alcun tempo immersi. Ed ecco fatti i salami, che si attaccano al soffitto di una stanza temperata finchè siano discretamente asciutti, che poi si trasportano in un’altra camera ben ventilata dove passano due mesi circa e che di là si portano in cantina o in altri luoghi sotterranei freschi.Prima di trasportarli in quest’ultimo luogo di loro dimora sarà utile ed anche necessa-rio di lavarli in una emulsione fatta in olio e aceto”.

È una delle rare ricette antiche per fare i salami

Francesco LeonardiCuoco della imperatrice Caterina II di Russia. Da “L’Apicio moderno” 1797.

Mortadelle (un tempo venivano così chiamati i salami)

Prendete della carne di maiale la più magra e tenera che sarà possibile; quella dei prosciutti sarebbe la migliore; levategli tutte le pelli e nervi, tritatela una cosa giusta. Per ogni decina di carne vi vogliono due libbre e mezza di lardo fresco, tagliato in grossi quadretti e condito con sette once di sale fino; unite questo lardo col suo sale alla carne; aggiungeteci per ogni decina di carne un’oncia di pepe sano, qualche garo-fano sano ed un poco di cannella in polvere; mescolate e maneggiate il tutto bene con le mani, a forza di braccia, onde acquisti la composizione di una certa consistenza. I budelli più adattati sono le molette, cioè l’estremità del budello del maiale, oppure

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grossi budelli di manzo detti volgarmente mazzi di vaccina; questi debbono esere ben lavati e puliti; riempiteli con un imbuto di stagno, ben stretti et incalcati, legateli con uno spago da una parte, mentre dall’altra il budello è chiuso di sua natura, e legate anche all’intorno a diverse incrocicchiature; indi appendetele, fatele scolare dodici ore circa, poi mettetele alla stufa, fatele sfumare con legno di ginepro e alloro, avendo attenzione che il fumo sia moderato e mai divenga fiamma, bastando due o tre tizzi, e cambiargli sito a misura che le mortadelle principiano ad asciugarsi. Quando saranno asciugate per tutto, cioè fino alla legatura superiore, levatele, appendetele in luogo arioso ed asciutto, e se cavassero anche dell’umidità le farete sfumare un altro poco nella stessa stanza. Queste si mangiano crude e rare volte si fanno cuocere.

Trilussa(Carlo Alberto Salustri – 1871 – 1950) poeta romanesco ironico e pungente, di ele-vato valore letterario - Da “La vacca e er maiale”.

La vacca, riferennose ar maiale:Nun te vergogni? Dio quanto sei zozzo.Pe’ te è normale che ariempi er gozzode quello schifo? Embè, sarà normale…Io so’ convinta, è mejo ne la vitaa magna’ ‘st’erba fresca, è più pulita. J’arispose er maiale: Dici bene!Ogniuno magna (a scanzo de l’odore)quer che ritiene je dà più saporee quello che a l’orfatto je conviene.Je dai troppo spago a questa favola,ne riparlamo quanno stamo a tavola e vedrai che la boria te spariscequanno t’accorgi de la preferenzae che ognuno che se mette a mensaquasi sempre er maiale preferisce.Comunque, co’ coniji, co’ gallinece toccherà de fa’ la stessa fine.

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Carlo LeviScrittore e pittore (1902 - 1975) - Da “Cristo si è fermato a Eboli”.

Il sanaporcelle

“Poi venne la neve, le mani delle donne si arrossarono per il gelo, sopra i veli bianchi apparvero le grandi mantiglie di lana nera; e un’immobilità più ferma, un silenzio più fitto del consueto parve addensarsi sulle distese solitarie dei monti.Una sera che un vento selvaggio aveva portato qualche squarcio di sereno, udii squil-lare la tromba del banditore, e rullare il tamburo; la strana voce del becchino ripeteva, davanti a tutte le case, con la sua unica nota alta e strascicata, il suo appello. – Donne, è arrivato il sanaporcelle! Domattina, alle sette, tutte al Timbone della Fontana con le vostre porcelle. Donne, è arrivato il sanaporcelle! – La mattina il tempo era incerto, ma fra le nuvole basse appariva qualche lembo di cielo. La neve era quasi tutta sciolta: restava, a chiazze, qua e là, nei luoghi dove il vento l’aveva accumulata. Uscii presto di casa, e mi avviai.Il Timbone della Fontana era un largo spiazzo, quasi piano, fra i monticelli di argilla, nei pressi dell’antica sorgente, un po’ fuori del paese, a destra della chiesa. Quando ci arrivai, nella luce ancora grigia lo vidi già pieno di folla. Quasi tutte le donne, giovani e vecchie, erano là; e molte tenevano al guinzaglio, come un cane, la loro scrofa: le altre le accompagnavano, e venivano ad assistere alla sanatura. Veli bianchi e scialli neri ondeggiavano, al vento: un gran sussurrìo, un frastuono di voci, di grida, di risa, di grugniti, si spargeva nell’aria tagliente. Le donne erano tutte eccitate, rosse in viso, piene di apprensione e di appassionata attesa. I ragazzi correvano, i cani abbaiavano, tutto era movimento. In mezzo al Timbone stava ritto un uomo alto quasi due metri, e robusto, col viso acceso, i capelli rossi, gli occhi azzurri e dei gran baffi spioventi, che lo facevano assomigliare a un barbaro antico, a un Vercingetorige, capitato per caso in questi paesi di uomini neri. Era il sanaporcelle. Sanare le porcelle significa castrarle, quelle che non si tengono a far razza, perché ingrassino meglio, e abbiano carni più delicate. La cosa, per i maiali, non è difficile, e i contadini la fanno da soli, quando le bestie sono giovani. Ma alle femmine bisogna togliere le ovaie, e questo richiede una vera operazione di alta chirurgia. Questo rito è dunque eseguito dai sana-porcelle, mezzi sacerdoti e mezzi chirurghi. Ce ne sono pochissimi: è un’arte rara, che si tramanda di padre in figlio. Quello che io vidi, era un sanaporcelle famoso, figlio e nipote di sanaporcelle; e passava di paese in paese, due volte all’anno, a eseguire la sua opera. Aveva fama d’essere abilissimo: era ben raro che una bestia gli morisse dopo l’operazione. Ma le donne trepidavano ugualmente, per il rischio e l’amore per l’animale familiare.L’uomo rosso si ergeva possente in mezzo allo spiazzo, e affilava il coltello. Teneva in bocca, per aver libere le mani, un grosso ago da materassaio; uno spago, infilato

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nella cruna, gli pendeva sul petto; e aspettava la prossima vittima. Le donne esitavano attorno a lui: ciascuna spingeva la vicina o l’amica a portare per prima la sua bestia, con grandi esclamazioni e deprecazioni. Anche le scrofe pareva sapessero la sorte che le aspettava, e puntavano i piedi, o tiravano sulle corde per fuggire, e strillavano come ragazze impaurite, con quelle loro voci così umane. Una giovane donna si fece innanzi con la sua bestia, e due contadini che facevano da aiutanti afferrarono subito la maialina rosea, che si dibatteva e gridava di spavento. Tenendola ben ferma per le zampe, che legarono a dei paletti conficcati in terra, la sdraiarono a pancia all’aria. La scrofa urlava, la giovane si fece il segno della croce, e invocò la Madonna di Viggiano, fra il mormorìo di partecipe consenso di tutte le altre donne; e l’operazione cominciò. Il sanaporcelle, rapido come il vento, fece un taglio col suo coltello ricurvo nel fian-co dell’animale: un taglio sicuro e profondo, fino alla cavità dell’addome. Il sangue sprizzò fuori, mescolandosi al fango e alla neve: ma l’uomo rosso non perse tempo: ficcò la mano fino al polso nella ferita, afferrò l’ovaia e la trasse fuori. L’ovaia delle scrofe è attaccata con un legamento all’intestino: trovata l’ovaia sinistra, si trattava di estrarre anche la destra, senza fare una seconda ferita. Il sanaporcelle non tagliò la prima ovaia, ma la fissò con il suo grosso ago, alla pelle del ventre della scrofa; e, assicuratosi così che non sfuggisse, cominciò con le due mani a estrarre l’intestino, dipanandolo come una matassa. Metri e metri di budella uscivano dalla ferita, rosate viola e grigie, con le vene azzurre e i bioccoli di grasso giallo, all’inserzione dell’o-mento: ce n’era sempre ancora, pareva non dovesse finir più. Finché a un certo punto, attaccata all’intestino, compariva l’altra ovaia, quella di destra. Allora, senza usare il coltello, con uno strattone, l’uomo strappò via la ghiandola che era uscita allora, e quella che aveva appuntata alla pelle; e le buttò, senza voltarsi, dietro a sé, ai suoi cani. Erano quattro enormi maremmani bianchi, con le grandi code a pennacchio, i rossi occhi feroci, e i collari a punte di ferro, che li proteggono dai morsi dei lupi. I cani aspettavano il lancio, e prendevano al volo, nelle loro bocche, le ovaie sanguinan-ti e poi si chinavano a leccare il sangue sparso per terra. L’uomo non si interrompeva. Strappate le ghiandole, rificcò, pezzo a pezzo, spingendolo con le dita, l’intestino den-tro il ventre, ricacciandolo a forza quando quello, gonfio d’aria come un pneumatico, stentava a rientrare. Quando tutto fu rimesso a posto, l’uomo rosso si cavò di bocca, di sotto i gran baffi, l’ago infilato, e con un punto, e un nodo da chirurgo, chiuse la ferita. La scrofa, liberata dai ceppi, restò un attimo come incerta, poi si rizzò in piedi, si scrollò, e strillando si mise a correre per lo spiazzo inseguita dalle donne, mentre la giovane padrona, liberata dall’ansia, cercava nella tasca, sotto la sottana, le due lire di compenso per il sanaporcelle. L’operazione non era durata in tutto che tre o quattro minuti; e già un’altra bestia era afferrata dagli aiutanti, e coricata con la schiena a terra, pronta al sacrificio. La scena di prima si ripeté: e, una dopo l’altra, per tutta la mattina, senza interruzione, le scrofe furono sanate. Il giorno era chiaro ormai, con un gran vento freddo, che portava qua e là degli stracci di nuvole. L’odore del sangue gravava nell’aria: i cani erano ormai sazi di quella carne ancor viva. La terra e la neve

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erano rosse; le voci delle donne si erano fatte più alte, le scrofe sanate e quelle ancora da sanare strillavano insieme, ogni volta che una era buttata in terra, rispondendosi e commiserandosi, come un coro di lamentatrici. Ma la gente era allegra, nessuna bestia pareva dovesse morire. Era ormai mezzogiorno; il meraviglioso sanaporcelle si rizzò in tutta la sua statura, e disse che avrebbe rimandato al pomeriggio quelle poche bestie che restavano da sanare. Le donne cominciarono ad andarsene, con i loro animali al guinzaglio, commentando: il sanaporcelle, seguito dai suoi cani, contando le monete del suo guadagno, si avviò alla casa della vedova per mangiare; e anch’io me ne andai dietro a lui. Per qualche giorno, in paese, non si parlò d’altro: si trepidava al pensiero che qualche complicazione potesse far morire qualcuna delle scrofe sanate: ma tutto andò bene, i cuori si rassicurarono e ogni apprensione sparì. Il sanaporcelle era partito la sera stessa per Stigliano, coperto di benedizioni, con i suoi baffi rossi da sacerdote druidico, e il coltello del sacrificio.

Giovanni TassoniIl più grande demologo mantovano. Autore di numerosi libri e saggi sul nostro fol-clore. Membro di varie accademie. (Viadana 1905 – Villafranca di Verona 2000). Da “La maialatura”, articolo scritto per “Quadrante padano” 1985.

Se, nel primo stadio della nutrizione si lasciava libero di grufolare nel brolo o per il prato di casa, gli si metteva poi al grifo un anello metallico perché non danneggiasse la cotica erbosa.

Il periodo migliore della maialatura era stabilito dal massimario popolare: Par sant’Andrea / ciàpa ‘l porch, par la séa*, noto ancora al tempo delle X Tavole vene-ziane del sec. XVI, che ammettevano peraltro una dilazione per ragioni climatiche: Par san Maté, ciapa ‘l porch par i pé, purchè non si andasse oltre il limite massimo del carnevale: a carnaval al porsèl al va masà, né si scegliesse - vivaddio ! – la festa di Sant’Antonio abate, protettore degli animali in generale e del maiale in particolare. Vi fu, nondimeno, chi trasgredì al tabù religioso e, sgozzato il porcello proprio il 17 gennaio, se lo vide sorgere vivo dalla tinozza dove stava per dissetolarlo, e sgambar via fulmineo dentro la palaia in fondo alle barchesse. Né, per quanto cercasse nella selva dei pali, gli fu possibile ritrovarlo. Il gran Santo di Coma aveva punito l’apostata e tratto in salvo il suo protetto.Proverbio: Chi ‘n ghà né ort né porc / gh’hà sémpar al müs stort. (Chi non ha né orto né maiale / ha sempre il muso di traverso).

* Per séa in dialetto mantovano si intende seta. Nel nostro caso le setole (mia nota).

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Ottorino BernardelliScrittore di sociologia rurale mantovana. Proverbi mantovani in dialetto. Dal libro “La maialeide”.

Al gugiöl gras al n’é mai cuntent.Al gugiöl pulì al n’é mai gras. Al gugiöl magar a s’agh dà la farina şalda.Al nimàl pegar agh toca sempar li giandi böghi.Al nimàl pegar al magna sul l’aqua da lavà şò.Al nimàl pegar al magna sempar la şòta freda.Al porch al dis dam, dam, e mia cuntaram né més né an.Al porch al völ magnar spurch e durmir pulì.Al porch mal vià cuma‘la pensa a’la fa. Al porch quand l’è pin l’arbalta l’albi.A ghé dò robi chié buni sul da mort: l’avar e al porch.An bişogna mia guardar l’albi, bişogna guardar al gugiölAn bişogna mia vendar al pursél par cumprar an gugiöl.An val mia saràr al pursèl dopu ch’é scapà al gugiöl.Chi a gh’à an bun porch al gh’à an bun ort.Chi a ghà an fiöl sul, a’là fa mat; chi a ghà an porch a’là fa gras.Chi a Nadal al n’à màsa mia al porch, par töt l’an al gavrà al müs stort.Dal gugiöl n’as böta via gnint e dlà gugiöla gnanca al nömar dal telefunu.Far i salàm agh völ caran ad gugiöl e spèsi, far al siùr agh völ sul i bèsi.I gugiöl i sà stima a pesu.In mancansa dal gras iè buni anca li codghi.L’acqua d’avrèl: la pegura la red, al bö l’ingrasa, al porch al la màsa.L’avar lé cum’al porch, lè bun sul quad lè mort.L’è sempar mei püsar ad gugiöl che ad cuiùn.Li tre felicità dl’om iè: far al raşdur, masar al gugiöl e armagnar veduf.Marcantìn e porch is peşa quand iè mort.Parma bèla, Rès gentela, Modna pursèla.Se par Sant’Andrea (30/11) al porch pral’ pel tan’al ciaparè, fin dop Nadal tan’al cuparè.Porch a l’aria e peguri al sul.Pòrc ad mulinèr, can da bchèr, dòna d’ustarìa, an‘töri mìa.Pòrch ad mulinèr, caval di frà e fiöi ad vedvi iè töti mal viàPröma d’andar a cumprar al gugiöl bisogna giustar al pursèl.Quand al gugiöl l’é gras, l’é ura at masal.S’at vö an bèl gugiöl, in mars bisogna töl.

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Modi di dire

Averach nà testa ca la magna gnanca i gugiöi.Ésar an bèl gugiöl nègar.Ésar an gràn nimàl (o nimalùn).Ésar indrè cume la cùa dal gugiöl, ... clà gira, cla gira e l’è sempar lé,.. d’aturan al büs dal cül.Métar al porch a l’òra.Stàr ferum cume an gugiöl ca pèsa.Star ferum cume nà roia chi a’grata la pansa.

Ebe RossiLa maialatura ha sempre stimolato la vena poetica di tanti cantori popolari. Mi è parso opportuno richiamarne un esempio in questo capitolo, proponendo quello della signora Ebe Rossi di San Matteo delle Chiaviche di Sabbioneta. Lo scritto mi è per-venuto grazie alla cortese collaborazione della signora Daniela Saccani e del marito Sergio Aldrighi, animatori del “Fogolèr”, sodalizio dialettale di Mantova.

Al masaler 1ª parte

Na bèla matina, cun quatar di ad brina,ma propria bunura, pröma ch’a spunta l’aurorae pröma ch’a canta anca al galèl,in biciclëta, cun sö na casëtau cun an sistèl cun dentar i sò fèr,arivava in dl’èra al masalèr.In meşa ai sò fèr, a gh’era an pügnalpar masà stu pùar nimal.Intant i òm cun ad legna an bèl masöli eva bèla fat föch sota al paröl.Av deghi pròpria che quand al nimal al murevaa töti an pu agh dispiaşeva.In .sna grada u barèla, il fava arbaltàpar pudìl mèi vultà e pirlà.Dopu il bruvava, il plava e dentar li urëci ben il raspava,e cun li sidèli, par. i sghirlëti l’inpicava sota i purghët.

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In mèşa il taiava cun la folsa e i curtèi,e po’, sufiand mütè in n’ucarina,i gh’infiava la psiga a dl’urina.E senpar li doni, cun gran critéri,li ciapava al sanch cun li süperi,parchè na volta as tgneva dacat töt,a strava via propria angot.Dopu, par vedar s’l’éva bütà ben u mal,na s-ciapa i gh’a bsava a stu. pùar nimal.Il sbatéva in s’an taulàs, i gh taiava li fëti dal grase i a miteva in dli casëti, ben saladi, invèrsi e indreti. Vers a li ot, par rumpar la fam e la frescüra, .i magnava la pulenta cun la fritüra.Dopu, al masalèr, cun sti curtèi al cuminciava a fa di tuchèi.E la risdura: «An tuclëin al va ai vsëin,n’atar tuclëin al darom al .pustëin,al veterinari e al siur dutur, par salvà la facia e l’unur, an tuclëin al dom a la fiöla, ch’l’è spuşada a Vèla Saviöla».Tra vsëin, amich„ cunusent e parent,agh vuleva an bö, par cuntentà töta sta gent.E tra tuchèi, tuclëin e tuclon al dvantava pisnëinstu bèl nimalon. Intant in d’an canton dal gran camaroncun na scusàla e li manghi brodghi, al famèi al pistava li codghi.

2ª parte

In dl’èra, in n’ atar canton, i fava föch sota an fugònpian pian as brüşava an fasëin intregh,i fava bóiar li grëpuli in dal dulèghe cun na pèsa bianca, in mèşa dò schidi,i a stricava pès che a dli vidie là dinturan, fra latëin e latón, a gh’era parecul da scutas par dabon.In dla stala u in d’an camarëin,li doni sintadi in s’an scanëin, cun an padlëin ad braşi taca i süpèibagulando, li cuşeva töti i büdèi.Cun la furbşina, al didàl, na göcia e na spöla, i a miteva in sna şmuiaröla.In sal mesdé, cun sta bèl muviment,

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ad fa an bevr’in vëin, quaşi as catava mia al temp!Intant al masalèr ad trit l’éva fat an mücion e an mücen:al prom ad salam, al second ad cutghen.Al la misciava in sal taulàs,cun ai, sal, pévar, spèsi e la fòrsa di bras,parchè al ciapès par ben al sò sals. E finalment insacava i büdèi cun la machina a mane cun la lasa i ligava i cudghen e i salam;cun la püsè longa e sütila a dli büdèli,i fava la résula a dli salamèli.Par cumpletà e fni la funcëta, i cuşéva la spala, la copa e la pansëta.I a pasava dal taulàs a longa a li pérghi a sgusulas.E, dopu töt sta gran laurà, agh restava da svonşar e da frigà.E intant a gneva sira e ura ad .mangià:in dal brö d’ òs i trava dentar al rise töta sta gent as licava i barbisma, al de dopu, l’era ris e òs. “Porcu mond ladar, asasëin e balòs.”E proma d’ andà a cà, i òm i biveva l’ ültim bicer ad vëin e, a li doni, s’agh dava al sò scartusëincun dentar trè grëpuli, sucuanti òs e an pu ad fritüra,par prüdensa e fa bèla figüra.Proma d’andà a lèt, al paisan, taca i travèi al cüntava i salam,e sò muier, vardand a l’insö:“Me a vaghi a lèt, parchè an an pòs propria pö.”E che a fnes la fòla dal masalèr,dal pùar nimal, dla ròia u dal vèr.

George Orwell (Eric Arthur Blair)Grande scrittore noto per i suoi penetranti approfondimenti di carattere sociologico e politico, sempre venati da una sottile, piacevole ironia. È stato anche giornalista e saggista. Da “La fattoria degli animali”. Passaggi diversi accostati tratti dal capitolo primo.

“Durante il giorno era corsa voce che il Vecchio Maggiore, il verro Biancocostato premiato a tutte le esposizioni, aveva fatto la notte precedente un sogno strano che

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desiderava riferire agli altri animali. Aveva dodici anni e cominciava a divenire corpulento, ma era pur sempre un maiale dall’aspetto maestoso, spirante saggezza e benevolenza, benché mai fosse stato castrato. In breve cominciarono a giungere gli altri animali e ognuno si accomodava a seconda della propria natura. Quando vide che tutti si erano bene accomodati e aspettavano attenti, il Vecchio Maggiore si rischiarò la gola e cominciò: «L’uomo è la sola creatura che consuma senza produrre. Egli non dà latte, non fa uova, è troppo debole per tirare l’aratro, non può correre abbastanza velocemente per prendere conigli. E tuttavia è il signore di tutti gli animali. Li fa lavorare e in cambio dà ad essi quel minimo che impedisca loro di morir di fame e tiene il resto per sé. Il nostro lavoro coltiva la terra, i nostri escrementi la rendono fertile, eppure non uno di noi possiede più che la sua nuda pelle. Voi, mucche che vedo davanti a me, quante migliaia di galloni di latte avete dato durante lo scorso anno? E che ne è stato di quel latte che avrebbe dovuto nutrire vigorosi vitelli? Ogni sua goccia è andata giù per la gola del nostro nemico. E voi, galline, quante uova avete deposto in un anno e quante di queste uova si sono dischiuse al pulcino? Le restanti si sono tutte mutate in danaro per Jones e i suoi uomini. E tu, Berta, dove sono i quattro puledri che hai portato in grembo e che avrebbero dovuto essere il sostegno e il conforto della tua vecchiaia? Ognuno di essi fu venduto al compiere di un anno e tu non li rivedrai mai più. E neppure avviene che la misera vita che conduciamo abbia il suo corso naturale. Non mi lamento per me, perché io sono tra i fortunati. Ho dodici anni e ho avuto più di quattrocento figli. Questa è la naturale vita di un maiale. Poco mi rimane ancora da dire. Solo ripeto di ricordar sempre il vostro dovere di inimicizia verso l’uomo e tutte le sue arti. Tutto ciò che cammina su due gambe è nemico. Tutto ciò che cammina su quattro gambe o ha ali è amico.”.

Stefano ScansaniGià caporedattore ed ora direttore del quotidiano “La nuova Ferrara”. In precedenza è stato responsabile delle pagine culturali della “Gazzetta di Mantova”. È autore di numerose, penetranti ed esaustive pubblicazioni sui mangiari della società contadina. Da “Fenomenologia del maiale” - Ed. Tre Lune -- Mantova. 2006

Il maiale non è come il pane e non è come il vino. In Italia si dice pane e basta, si dice vino e basta, anche nei dialetti. Invece per esprimere il maiale reale e il maiale concet-tuale le lingue hanno provveduto a moltiplicarsi e a sovrapporsi: maiale, suino, porco, verro, scrofa, con tutti i vezzeggiativi e i peggiorativi del caso. La parola maiale, che è attinente alla dea Maia, è l’unico che ha una relativa eleganza sacrale fra i tanti ter-mini ambigui, polivalenti. Il vocabolario grugnisce passando da porcello a lattonzolo

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(latòn in dialetto), porcastro, magrone, verro e troia. Verro potrebbe essere legato alla mascolinità, quindi al latino vir, decisamente maschio, più anticamente deriverebbe dall’indoeuropeo wers che significa fecondare. Tant’è che nei dialetti illustri del vici-no Veneto il verro è chiamato màs-cio. Tutti gli altri nomi dell’animale hanno invece un legame con la voce propria della bestia: sus, scrob, gor, pork. Il maiale è un suono. Molte sue varianti sono anomatopee tanto plastiche e diffuse da essere diventate nomi. Così come è capitato per la tortora che fa tut-tur o per il tacchi-no che nel mantovano diventa pit o pitòn e nel modenese toch ad imitazione del suo richiamo. Per quel che riguarda il porco un esempio fulminante dei prestiti linguistici storici e internazionali sta nei mantovani gugiöl, gugét, gugìn, gugión.Si tratta di una bellissima serie di nomi alterati, diminuiti, vezzeggiati, peggiorati con una stessa radice, come il francese cochon. L’origine è pressochè analoga in tutti i pa-esi di lingua neolatina. Nomi che imitano il sonoro del maiale o il richiamo del maiale inventato dagli uomini:

in francese gorin castigliano garrinoin catalano garrìin galiziano cuchoin portoghese cochimin rumeno cuciu

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Incontri con i masalìn

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Zeno è un masalìn di tutto riguardo, anche nell’aspetto. Viso bene irrorato circondato da una barbetta suggestiva, struttura importante, corporatura solenne, sorriso sempre sollecito che ispira grande cordialità. Viene da una famiglia di salariati prima e di braccianti poi, che lavoravano per conto di possidenti facoltosi i loro terreni a Cere-sara e Castelgrimaldo. Sin da piccolo ha vissuto le difficoltà (assai spesso contigue alla vera e propria miseria) che un tempo caratterizzavano inesorabilmente la vita contadina. Prima di entrare nel dettaglio della sua professione mi descrive, con parte-cipazione viva, quel piccolo mondo antico fatto di ristrettezze ma ricco di umanità, di comprensione, di aiuto reciproco, di solidarietà, che erano i valori cardinali sui quali si reggeva l’esistenza di tutti. I salariati erano coloro che badavano alle stalle e si distinguevano, nell’ambito delle categorie rurali di una volta, dai braccianti che invece lavoravano la campagna. Il lavoro da compiere era suddiviso in “spese” ed ogni spesa costituiva il lavoro giorna-liero di un uomo e comportava la cura ed in particolar modo la mungitura, di dodici vacche. Badavano anche agli altri animali quali tori, asini, cavalli. Mi precisa che con tre spese una famiglia faceva molta fatica a campare per cui si arrangiava con l’orto, il pollaio, i conigli, le uova che consumavano o vendevano barattandoli con quanto era indispensabile per la casa come pentolotti, coltelli, piatti, un po’ d’olio o un pezzo di stoffa. Quando moriva un vitello, per ragioni igieniche doveva essere subito sotterrato e Zeno mi racconta che non era raro il caso che di notte andassero a dissotterrarlo per poi cucinarlo. Il commento: “era una delle rare volte in cui si mangiava della carne”. Si dice che in casi disperati la bestiola morisse inaspettatamente. Per avere il credito necessario (fare la spesa con il libretto) la famiglia doveva godere di grande fiducia per cui tutti i suoi membri si comportavano in modo molto corretto.Ogni nucleo familiare viveva nella casa del padrone ed aveva come corredo storico il porcile (pursìl) per il maiale. Il maiale veniva allevato vicino a casa con quanto era allora possibile dargli e cioè scarti della cucina di casa, siero di latte, patate, un po’ di farina gialla ed altro ancora, ingredienti necessari per fare la broda (detta şota) che

Zeno Roverato Ceresara

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era poi versata calda nel truogolo. Il maiale forniva il compolentatico per arrivare sino all’estate e la rasdura (la donna che reggeva la casa) era attenta a far durare il più pos-sibile tale scorta preziosa, soprattutto quella rappresentata dal lardo che deve arrivare come optimum allo spessore di un sömes, cioè di una spanna con le dita interne volte verso il palmo. A quei tempi infatti non era tanto importante il salame che si otteneva dalla lavorazione quanto il lardo. Di salame se ne mangiava poco e quasi sempre a cena: tre fettine sottili come ostie - quasi trasparenti precisa Zeno - finivano nel piatto degli uomini assieme a quattro fette di polenta. C’era poco da stare allegri.Per avere un po’ di legna gli uomini andavano, magari in pieno inverno a raccogliere i taparèi cioè quei monconi che sporgevano dalle radici dopo il taglio dei grossi rami da utilizzare nel lavoro dei campi e che si seccavano. In estate le cose non erano però molto diverse e ricorda ancora che venivano delle vere e proprie squadre di uomini in bicicletta dalle colline (Volta Mantovana e Cavriana) sulle quali, per la conformazione del terreno, c’era purtroppo poca terra da coltivare. Precisa che questi lavoratori, lieti di avere il pane assicurato, arrivavano cantando. A mezzogiorno, sotto la barchessa della stalla, mangiavano qualcosa portato da casa oppure consumavano quello che una donna che abitava nella corte aveva loro approntato. Da piccolo non conosceva svaghi o divertimenti, niente giocattoli. Le bambine giocavano a “campana” che, secondo il compianto prof. Antonio Minuti, derivava dalla modalità, legata all’abilità ed al caso, di assegnazione delle terre centuriate ai soldati romani come riconoscimento per il servizio militare prestato. Il discorso si fa serio e non manca una notazione di carattere sociale che volentieri riporto. La fame, almeno entro certi limiti si intende, stimola al lavoro ed all’impegno personale. Il benessere e la ricchezza oltre le normali necessità inducono al gioco ed al disinteresse. Ricorda con piacere che d’estate andava su e giù in bicicletta dalla casa alla campagna a portare l’acqua per i braccianti arsi dalla calura. Parliamo della sua procedura per confezionare la carne di maiale, par far su el pursèl secondo la sua dizione. Ci tiene a sfatare una credenza diffusa nel contado mantovano e cioè che sia l’arte della concia la componente fondamentale per ottenere un ottimo salame. Una volta infatti le ricette erano formule preziose che ogni masalìn teneva accuratamente per sé al fine di non pregiudicare, diffondendola, gli ambìti ingaggi delle famiglie. Per il sig. Roverato è certamente una componente fondamentale per il buon esito, per la buona riuscita dei salami, ma non la prima. A suo convintissimo parere il buon prodotto ha inizio molto prima e cioè dall’allevamento del maiale, dalla cura con la quale viene accudito, dal cibo che mangia, dall’ambiente in cui vive e dalla modalità della uccisione.L’uccisione. Si apre tra noi un discorso difficoltoso, fatto di parole espresse con toni smorzati, come si può ben capire. È un argomento penoso e triste che comunque affrontiamo. Lui non tollera le varianti nelle quali affiorano tracce di crudeltà com-piaciuta e di sadismo vero e proprio che non depongono mai a favore dell’operatore (volutamente non lo chiama masalìn) e che oltretutto incidono pesantemente sulla

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bontà delle carni. Il maiale va ucciso con attenzione, direi con simpatia, quasi con delicatezza, non c’è bisogno di violenza. Lui va di persona nello stalletto, con suoni accattivanti e dolci lo spinge fuori e poi - il più velocemente possibile e con l’animale sempre molto tranquillo - lo abbatte con un colpo di pistola sulla fronte che spara un tondino di acciaio lungo circa sei-sette centimetri. Questo penetra nel cervello ed im-mediatamente priva di ogni senso l’animale che non avverte quindi nessun dolore. Poi con un coltello affilato lo scanna, gli recide cioè le arterie prossime al cuore. Il masalìn una volta era ingaggiato per conoscenza, per bravura, per amicizia ma so-prattutto perché la sua concia era gradita alla famiglia. È ancora buio quando arriva. Giunge in bicicletta con davanti la cassetta degli attrezzi e sul manubrio la sporta dei coltelli e delle raspe, sorta di spatole ricavate da qualche vecchio ferro da falciatura dell’erba. I suoi assistenti sono giù sul posto ed aiutati dagli uomini della famiglia hanno già approntato il paiolo (al paröl) di rame con l’acqua bollente. Questo per la verità era compito specifico del più anziano della casa sia per il fatto che per la tarda età si alzava sempre piuttosto presto e sia perché da persona esperta del lavoro da compiere era più di altri meticoloso ed attento alla bisogna. Già dalla sera prima era stato approntato, in un luogo opportuno della corte, una balla (bòtula) di paglia con sopra un asse o uno scaletto steso per la lunga. Lo scaletto e la paglia avevano la funzione di sostenere l’animale e di drenare l’acqua caldisima con la quale lo si bagnava, a zone e con grande cura, così da scottare la cotica senza cuo-cerla e poter allo stesso tempo estirparne i peli, le setole (operazione detta peladüra). All’osservatore esterno sembra questa, in fin dei conti, una cosa semplice, banale. Non è così perché se si scalda troppo la cotenna questa si cuoce e non è più possile levare le setole stesse. L’operazione infatti veniva compiuta, contemporaneamente, da due persone che operavano in perfetto accordo. Il compito più rilevante era quello di versare accortamente l’acqua calda e non quello di raschiare i peli secondo il diffuso assioma, sempre ripetutogli dal padre, che in definitiva quel ca péla al pursèl l’è quel che bröa (chi il maiale è soprattutto l’uomo che lo sbollenta).Subito dopo il maiale veniva appeso a gambe aperte su un apposito treppiede detto picaröl (da impiccare) e si tagliava per la lunga nelle due mezzene con la fòlsa, una mannaia grossa ed affilata. Il nostro non è mai andato a scuola il giorno della maialatura. Stranamente gli capita-va quel giorno un improvviso mal di denti o di testa o di pancia che benignamente si risolvevano dopo l’ora della campanella. Gli venivano affidate delle piccole incom-benze che lui svolgeva con grande impegno. Intanto guardava e non gli sfuggiva nul-la: vedeva ed imparava. Con il passare degli anni la sua partecipazione all’impegno collettivo si ampliava e si faceva sempre più consapevole, apprezzato ed utile. Era contento e piano piano interiorizzava (il verbo è corretto) gli arcana del mestiere.Da un uomo particolarmente robusto, le due mezzene venivano portate in casa e si-stemate su dei tavoli. Con sapiente lavoro di coltello venivano tagliate le parti da de-stinare ai salami, alle coppe, alle pancette, ai cotechini, alle grepule ecc. Dalle nostre

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parti soltanto ultimamente ci si sbizzarisce nell’approntare prosciutti, culatelli, lombi da stagionare ed altre amenità. Una volta la pezzatura principale, come si è già detto, era rappresentata dal lardo che veniva salato per la conservazione e steso su delle assi nella parte più fredda della cantina. Quasi tutto il resto, levate le coppe, i cotechini ed i ciccioli, finiva nel salame non depauperato quindi, come purtroppo accade ora, delle sue componenti più apprezzabili.Zeno si dilunga a raccontarmi nel dettaglio queste operazioni. Avverto che non gli sono davanti, lo sguardo mi fissa ma lui è lontano, è là, davanti alla mezzena. Con i coltelli in mano la scruta, la analizza e da ex infermiere le fa, come dire, una radio-grafia. Già al momento dei tagli opera delle selezioni che ritiene ineludibili. Distingue subito la polpa della carne dalla parte bianca cioè dal grasso e dallo strutto che poi seleziona ulteriormente. Non mette i muscoli della gamba nei cotechini ma li apre, ne elimina la parte nervosa e dura e pone la polpa nel salame. Vi aggiunge anche quella che ricava dalla mondatura dell’osso dello stomaco. A suo dire sono essenziali, ineludibili.Taglia la carne in pezzi piccoli ed anche da questi toglie le pelletiche interne. Poi vi aggiunge, in proporzioni convenienti secondo la sua sapienza masalina, il lardo della pancetta unitamente a quello della schiena. Macina con la ”machina di salàm” (altri-menti denominata tritacarne, ma è dizione desolante), colloca nella méséta, impasta e condisce. Nella pasta del salame convergono tutte le carni utili mondate con ogni cura possibile, da grasso molle (unto), pelletiche, nervetti ecc. Si passano alla macchina con piastra del 10 e si stende il macinato su un piano di legno (ora di plastica per alimenti) molto capace o in una mesèta, una specie di grosso bacile rettangolare di legno con lati obli-qui. La si concia a spaglio con il preparato di cui sotto e quindi la si rimesta (si pügna). Si bagna con il vino profumato di aglio e si pügna nuovamente. Il vino va messo per ultimo perché tende a legare l’impasto e quindi a penalizzare la rimestatura. Si lavora sino a quando un pugnello sbattuto contro il palmo della mano posto in verticale, resta attaccato al palmo stesso. Poi si insaccano i salami, si legano e si forano i budelli con l’apposito strumento (la furèla). Salami, coppe, pancette, cotechini ed altre sublimità si appendono infine al baldachin.Ai bambini venivano fatti degli scherzi, semplici ed innocenti, per insegnar loro ad essere attenti e consapevoli delle gherminelle che la vita avrebbe inevitabilmente ar-recato. Ricorda benissimo questo: veniva chiesto ad uno di loro di andare in casa e farsi dare dalla rasdora del grasso per ungere i coltelli, richiesta assolutamente sciocca perché il lavoro si stava svolgendo proprio immersi nel grasso. La donna di casa ca-piva e sgridava bonariamente il piccolo che si immusoniva per essere stato preso in giro. Era scuola anche questa.I suoi criteri per la scelta dell’animale giusto sono questi: maiale lungo, due belle cosce, spalle larghe, asciutto di pancia, orecchie ritte.

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CONCE

Salame

La ricetta è quella di una volta quando la percentuale di sale era piuttosto alta. Oggi, per via dei mangimi, tale componente è alquanto diminuita. Si tenga conto che nella dizione corrente, osservata in tutta la nostra provincia, non si mette la virgola fra le due cifre.Proporzioni nell’impasto: se il salame è fatto con carne e pancetta va il 50 % dell’una ed il 50 % dell’altra. Se invece si confeziona con carne e lardo va rispettivamente il 70 % ed il 30 %.- Sale: 22 %- Pepe: 1,7 – 2,0 %- Aglio: 3 capi medi o 4 piccoli per maiale- Vino rosso corposo: due bottiglie per maiale- Spezie (vedi sotto in “coppe e pancette”)

Zeno priva l’aglio dell’anima interna (il germoglio) e poi lo trita grossolanamente e lo mette a macerare in un vaso chiuso ermeticamente, con il vino la sera prima in modo che ceda tutto il suo aroma. Il giorno della maialatura versa nell’impasto il solo liquido.

Coppe e pancette

Misto di spezie fatto da lui, calibrato nell’arco di una ventina d’anni: passare al ma-cinacaffè una noce moscata, un pugnello di chiodi di garofano, una piccola stecca di cannella. Raccogliere in un barattolo con chiusura ermetica in modo che l’aria non ossidi il composto.Nella pancetta è opportuno fare prima delle incisioni in senso longitudinale per favo-rire ed accelerare la presa di condimento, sulla coppa non è necessario. Il trattamento su coppe e pancette lo fa subito e poi le mette a macerare in una baci-nella con il 35 % di sale (in realtà, come è stato ricordato, il 3,5 %), il 25 % di pepe, spezie (quelle sue, indicate sopra) un poco più del salame, un sospetto di salnitro (un pizzichino), vino rosso. Non bagna con il vino subito ma solamente dopo qualche ora per dare tempo al sale di fare la sua importante azione di espulsione dei liquidi interni. Insacca le coppe e le pancette per ultime, quando ha finito tutto il resto. Poi le lega e le affida al baldachìn.

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Salamelle e pesto

Dice: ho sperimentato diverse composizioni di carne, variando le parti anatomiche, escludendone alcune e scegliendone altre. A mio avviso il miglior risultato si ottiene usando in parti pressappoco uguali, i fondelli (fine lombata), i sottospalla, la rifila-tura della coscia da prosciutto e la pancetta. Tutte queste parti sono anatomicamente inerti, non lavorano come la coscia la spalla o la coppa, che trasformate e insaccate innescano un decorso chimico molto utile nel caso del salame, a favorire il processo di stagionatura. Sono per questo indicate per un prodotto da consumare fresco, perché conciate acquisiscono una morbidezza e una fragranza superiore che rimane inalte-rata. Questa la ricetta:

ingredienti per 100 kg di pasta:

- Fondelli o scanelli kg 25- Sottospalla kg 25- Rifilatura coscia kg 25- Pancetta kg 25- Sale media grana kg 2- Pepe spaccato 1/16° g 160/180- Spezie un bella pizzicata- Aglio tritato g 120/150- Vino rosso corposo 1 litro- Salnitro un pizzico

Lavorazione:

Mondare la carne eliminando la parte bianca molliccia, eventuali nervetti e membrane interne, tagliandola a piccoli pezzi. Stendervi sopra la pancetta, tagliata a pezzi più piccoli della carne per una migliore uniformità durante la macinatura, evitando cumo-li di grasso che poi non si riuscirebbe a distribuire in modo uniforme. Macinare con piastra dell’otto (diametro fori), e conciare come il salame (diminuendo la percentuale di sale al 2%). In una ciotola, o altro recipiente capace, mescolare il sale, il pepe, le spezie e il sal-nitro e spargere sopra l’impasto. Rimestare (pugnare). Alla fine versare il vino dopo averne eliminato l’aglio tritato messo in precedenza a macerare. Tramenare ancora un po’ fino che il tutto lega bene. Insaccare le salamelle o fare i sacchetti di pesto. Si può assaggiarlo subito a pizzicotti o fare qualche polpettina di tastasal, così, per prova e per piacere.

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Lombo insaccato

Sezionato il lombo dalla mezzena, lo si pulisce per bene lasciando il filo di grasso che ha da una parte, lo si sistema in un recipiente sufficientemente lungo dopo averlo condito rivoltandolo in un miscuglio fatto con sale 30 - 35 %, pepe 18 - 20 %, un bel pizzico delle sue spezie (vedi sopra in “concia per coppe e pancette” fatto cioè con cannella, noce moscata e chiodi di garofano) ed una presina di salnitro. Il miscuglio dovrà essere abbondante per utilizzarne anche nella lavorazione successiva. Si tiene la carne nella bacinella per una settimana in un posto molto fresco eliminando ogni giorno il liquido che si sarà raccolto sul fondo ed aggiungendo ancora del mi-scuglio sia per compensare quello che intanto sarà stato assorbito dalla carne e sia per aromatizzare eventuali zone rosse che non hanno ricevuto condimento a sufficienza. Alla fine della settimana tutto il miscuglio saporoso che il bravo norcino avrà prepa-rato sarà stato completamente utilizzato. A questo punto si bagna con vino rosso ed aglio come è stato fatto per i salami. Dopo un giorno di macerazione lo si lega stretto e lo si insacca in un budello di buon spessore. Si lega ancora all’esterno e lo si appende per la maturazione.

Cotechino

La concia è leggermente più speziata e salata di quella del salame. Si insacca in cre-spone, alla misura di 20 cm circa e mediamente di 1 kg di peso.

RICETTE

Il sig. Roverato è un gentleman chef molto valido. È stato indagato più volte per pro-duzione e spaccio di risotti stupefacenti. Nei vari incidenti probatori, ai quali anch’io ho partecipato come giudice, è sempre risultato stupendamente colpevole.

Ris dal pursèl

Zeno è un raffinato. Distingue con sicurezza tra i due risi che adornavano la cena del-la maialatura. C’era quello tipo risot menà e l’altro - a suo parere più in linea con la vecchia tradizione - da servire in brodo. Ritiene quest’ultimo quello consueto perché i masalìn, che una volta passavano l’inverno tra lardo e strutto, avevano in uggia i mangiari troppo grassi.Fare un brodo con sole ossa del maiale, acqua e sale. Sgrassare nella misura più ampia possibile e versare in una pentola la quantità necessaria per il piatto. A parte preparare

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il condimento mettendo in tegame dai bordi alti la pasta del salame, un trito di sedano e un poco di conserva di pomodoro fatta in casa, quel tanto che basta per dare al ris un colore rosato e non rosso. Addizionare mezzo bicchierotto di vino bianco e fare cuocere.Far bollire il brodo di ossa, versare il riso vialone nano mantovano (3 bicchieri ogni 5 persone) e fare andare a fiamma non troppo alta. A metà cottura addizionare il con-dimento e, “tramenando” di quando in quando, portare alla fine. Aggiustare di sale. Solamente per scrupolo scientifico, Zeno mi fa presente che qualcuno, in vena di turpitudini innovative, ci mette anche del dado. Sistemare nei piatti servendo del for-maggio grana a parte. Siccome la preparazione al momento è così ardente da ustionare la lingua, non è raro il caso che qualche commensale si faccia sfacciatamente portare due piatti della delizia: uno per l’immediato ed uno per dopo.

Risòt a la pilota

Usando un comune bicchiere (circa 160 ml), preparare la dose del riso. Un bicchiere a persona è una buona e abbondante porzione.In una pentola antiaderente, con fondo spesso, versare tanti bicchieri di acqua quanti quelli del riso, più un mezzo bicchiere (indipendentemente dal numero di quelli di riso). Salare leggermente e portare a bollore, quindi versare il riso, cuocere a fiam-ma alta e scoperta mescolando di tanto in tanto dai 4 ai 6 minuti, cioè fino a quando presenta, l’aspetto del risot menà piuttosto asciutto (l’acqua deve essere quasi tutta assorbita). A questo punto abbassare la fiamma, coprire con coperchio e sopra mettere una tovaglia o un asciughino. Dopo 10 minuti mescolare velocemente il riso e ricoprire come prima. Dopo altri 10 minuti spegnere e fare il “cappello” versando il condimento sul riso senza mescolare e ricoprire per alcuni minuti. Infine aggiungere una manciata di grana, mescolare bene il tutto e dopo un altro “riposino”, di un paio di minuti, si può servire. La fase finale di attesa è molto importante, anche se richiede un po’ di sofferenza, serve a smorzare l’alta temperatura che disperde gli aromi, dar tempo al riso e al pesto di conoscersi a fondo per poi esprimersi al meglio.Con un po’ di attenzione nel misurare l’acqua e il riso, il risultato è garantito.

Preparazione del condimento da farsi mentre si cuoce il riso.In altro tegame sciogliere una noce di burro, aggiungere il pesto, circa 120 g per ogni bicchiere di riso, a volte con un rametto di rosmarino (facoltativo). Lasciare rosolare alcuni minuti, poi mettere un po’ di vino bianco e terminare la cottura; piuttosto breve (15 minuti circa) per conservare l’aroma e la fragranza del pesto.

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Lombo in tegia

Prendere del buon lombo nel peso adatto alla bisogna, lavarlo accuratamente, asciu-garlo e fargli due profondi tagli a V in senso longitudinale. Introdurre inizialmente nei due solchi un trito composto da: salvia, rosmarino, alloro, sale, pepe, un pizzichino di spezie (le sue: cannella, garofano e noce moscata). Completare poi, fino a riempire i tagli, con burro e formaggio grana a listarelle. Strofinare all’esterno con sale e pepe, legarlo stretto e cuocerlo in una teglia dai bordi un poco alti con solo vino bianco. Si può arricchire degnissimamente il piatto mettendo attorno alla carne delle cipolline bianche ben mondate. Fare andare al coperto ed a fiamma bassissima per circa tre ore. Una volta lo si metteva in un àngol dla stüa e lo si abbandonava là, al suo destino. Quando è ben cotto e colorito, slegarlo ed affettarlo. Servirlo con le cipolline come contorno.

Tortellini dolci

Ingredientiper la pasta frolla:

- farina g 350- burro g 150- zucchero g 150- uova 3- lievito per dolci g 4/5 circa- rum un goccio- zucchero vanigliato q. b.

per il ripieno:

- marmellata di fichi g 500- marmellata di susine g 500- amaretti a piacere g 150/200- limone la buccia

Esecuzione:

Impastare farina, lievito, burro, zucchero, un uovo intero più due tuorli ed il rum. Deve risultare un composto ben consistente. A parte mescolare le marmellate, gli ama-retti tritati, la buccia grattugiata del limone. Prendere un pezzo di pasta, spianarla un

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po’ con le mani, metterla tra due fogli di carta da forno e con il mattarello tirare una sfoglia dello spessore di 1 euro circa. Togliere il foglio superiore della carta e con una tazza tagliare dei cerchi. Sollevare un disco alla volta, mettere un cucchiaino di ripieno al centro e quindi ripiegare delicatamente e premere sui bordi per sigillare il tortellino.Cuocere i dolcetti in forno - meglio se ventilato - per circa 25 minuti a 150 °C. Siste-mare in una guantiera e spolverare con zucchero vanigliato.

Macedonia sotto spirito

Procurarsi un recipiente di vetro a bocca larga. Zeno usa una damigiana per l’aceto da 15 litri per avere un risultato generoso. Si inizia a febbraio con i mandarini giapponesi, si termina a ottobre con l’uva adatta a conservarsi sotto spirito. Tenere il recipiente al buio o ricoprirlo con carta. Si aggiungerà man mano la frutta adatta di stagione, matu-ra ma ben soda, sempre lavata, asciugata e tagliata a pezzi o lasciata intera secondo la varietà e le dimensioni. Addizionare ogni volta 3 hg di zucchero per ogni kg di frutta che si aggiunge e mantenerla ricoperta di alcool a 90° che, dopo la prima volta, verrà aggiunto saltuariamente, perché la frutta cala di volume e emette il proprio liquido. Questo in dettaglio il procedimento:Inizialmente porre nel vaso 1 kg di mandarini interi, 3 hg di zucchero e coprire con alcool. Nello stesso modo si prosegue nel tempo, con ananas mondato e a pezzi, fra-gole intere, albicocche a pezzi, pesche a pezzi, ciliegie intere, melone (ben mondato) a pezzi, pere a pezzi, uva tipo bigolona (acini interi). La frutta, esclusi ananas e melone, non va sbucciata. A Natale raggiunge la sua ente-lechìa.

Lingua di manzo salmistrata

Prendere una grossa lingua di manzo, nettarla e lavarla bene, asciugarla e massaggiar-la con un pizzico di salnitro. Sistemarla poi in un contenitore con coperchio. Aggiun-gere sale grosso, misto spezie, 2 spicchi di aglio, due rametti di rosmarino, una foglia di alloro spezzettata, tutto distribuito uniformemente. Coprire e porre in frigorifero o al freddo se la stagione è quella invernale. Girare ogni due giorni o meglio quotidiana-mente per un mese. Terminata questa fase di marinatura, lavare la lingua sotto acqua corrente, sistemarla in un recipiente capace e farla cuocere per 3-4 ore. Pelarla appena scolata ed ancora caldissima e servire calda o fredda a piacere. Può anche arricchire un vassoio di salumi se bene affettata sottilmente alla macchina.

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Zeno, animato da spirito certosino, fornisce anche una tabella che gradua sale e spezie a seconda del peso iniziale della lingua. Per un peso iniziale di kg 1 mettere 40 g di sale e 25 g di misto spezie, poi aumentare - per pesi maggiori - aggiungendo 4 grammi di sale e 2,5 grammi di spezie per ogni etto in più di lingua fresca.

Esempio:peso iniziale 1 kg sale g 40 spezie g 25peso iniziale 1,2 kg sale g 48 spezie g 30Per il misto di spezie usa un composto già preparato da una ditta di sicuro affidamen-to. Nella cartina non sono specificate le dosi (lui presume un pizzico di ognuno), ma solo gli ingredienti: pepe - ginepro - coriandolo - origano - alloro - cannella regina - rosmarino - salvia - anice stellato - macis - timo - finocchio - basilico - noce moscata - menta - maggiorana - dragoncello - chiodi di garofano. Qualche anno fa comperava il cartoccetto dalla drogheria Zanini che aveva il suo ne-gozio in via Verdi a Mantova. Il sig. Zanini era un artista delle droghe. Gli tributo un encomio sincero e riconoscente.

Pulàstar in tegia

Ingredienti (per sei persone):- un pollo grosso oppure sei quarti posteriori;- una grossa cipolla o due medie;- un peperoncino piccante e tre spicchi di aglio mondati e senza germoglio interno;- 6 foglie di alloro e 5-6 rametti di rosmarino;- due belle pizzicate di origano, olio extra vergine di oliva e burro;- un bicchiere di vino bianco, una spruzzata di brandy, sale, pepe;- olive nere denocciolate (circa 300 g) e succo di limone.

Esecuzione:Preparare un trito con alloro, rosmarino. In un tegame capiente fare rosolare tre o quattro cucchiai di olio, una noce di burro, la cipolla affettata finemente ed il peperon-cino. Quando tutto è pronto addizionare il pollo (tagliato a pezzi o i quarti posteriori se non si cucina il pollo intero), salare, pepare, spolverare con l’origano e la metà del trito fatto precedentemente. Dopo cinque minuti girare il pollo e cospargerlo con l’al-tra metà del trito stesso. Fare andare a fuoco medio per circa un’ora. A questo punto le carni si saranno aperte ed il loro liquido interno si sarà evaporato. Spruzzare di brandy (il cognac italiano) ed addizionare le olive scolate. Continuare la cottura per una ventina di minuti e poi versare il succo di mezzo limone. Dopo altri pochi minuti,

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spegnere la fiamma. Lasciare riposare per qualche tempo prima di servire, meglio se può attendere una notte intera.Avvertenze: se il pollo è di natura ruspante i tempi saranno ovviamente più lunghi, in alternativa al pollo si può cucinare una faraona, meglio se bella, grossa e fattrice.

Fujade cun el pisù

In questi ultimi tempi quasi tutti i network televisivi presentano programmi con chefs, massaie, nonne e giovinotti che illustrano le loro ricette antiche, vecchie e moderne. È una pervasione fastidiosa, soffocante. Non mancano persino quelli che non si fanno mancare nulla e si rifanno alla storia della civiltà del mondo con gli approfondimenti inevitabili sui mangiari asiatici.In uno di questi, uno studioso giapponese ha esplorato l’origine dei noodles, una sorta di bigoli di farina tondi e grassottelli appiattiti successivamente con le dita. Pare che provengano dalle pratiche alimentari di popoli indo-cinesi. Hanno una storia di alme-no tremila anni. Si servono ancora nelle strade di molti paesi orientali in un brodo di pollo e verdure e vengono introdotti nella bocca con necessarie aspirazioni rumorose (una modalità sconcertante).I noodles mantovani si chiamano fujade e si condiscono in modo molto diverso. A mio parere - un tocco di sana partigianeria non guasta - sono decisamente più piacevoli. Ce lo dimostra questa ricetta.I piccioni sono sempre stati una presenza ragguardevole nella cucina contadina di tutti i tempi. La loro destinazione elettiva era l’abbinamento con la pasta fatta in casa, le fujade, vale a dire le fettuccine moderne, dizione quanto mai angosciante. Questa ricetta è quella di una volta.Prendere dei piccioni, spennarli, pulirli, tagliarli in quarti e farli andare in una teglia con - tutto a freddo - poco olio, una noce di burro, uno spicchio di aglio intero, un rametto di rosmarino, qualche foglia di salvia, vino bianco secco, sale e pepe q.b. Cuocere a fuoco moderato quel tanto che è sufficiente per riuscire a spolparli (il tem-po varia secondo l’età dei volatili). Dal fondo di cottura togliere l’aglio e gli aromi, aggiungere una noce di burro, un trito di cipolla, carota, sedano e un po’ di pancetta tagliata a dadini. Fare rosolare a fiamma bassa e quindi aggiungere tutta la polpa, la pelle e le frattaglie, precedentemente sminuzzate con un coltello su un tagliere. Ad-dizionare una foglia di alloro. Lasciare insaporire. Dopo una decina di minuti unire il pomodoro in minima quantità (il suo gusto non deve prevaricare quello del piccione), aggiustare di sale e pepe e bagnare ancora con vino bianco secco.Cuocere a fuoco lento per circa due ore. Lasciare riposare. Il tutto viene meglio se preparato il giorno prima. Ottimo per le classiche tagliatelle ma, se capita di avere a disposizione dei bigoli fatti col torchio, la sostitizione è assolutamente consentita.

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Silvano Buoli Schivenoglia

Il sig. Buoli, baldo giovinotto di ottant’anni, mi accoglie sulla porta di casa con un ampio e compiaciuto sorriso. Ci eravamo sentiti per telefono qualche giorno prima ed ero atteso. La moglie Anna Maria Riccardi, con il senso della semplice ma cordiale ospitalità propria del contado, ci prepara subito il caffè. Il mio fotografo di fiducia Da-niele Sinico inizia il suo lavoro. Il leggero senso di imbarazzo che ci coglie quando si parla con gente sconosciuta, viene subito dissolto seduti attorno al tavolo da pranzo in una conversazione nella quale prevale il dialetto, lingua nostrana che ben si acconcia al tema. Silvano ricorda che ha cominciato ad interessarsi attivamente - prima era solamente viva, infantile curiosità per l’insolito evento - quando aveva appena quindici anni. Seguiva ed aiutava i masalìn che venivano a far su al gugèt nella sua casa. All’età di 25 invece, per la assoluta necessità di compensare il poco lavoro in campagna del periodo invernale, si era messo assieme, come aiutante, ad un norcino molto esperto che ricorda con gratitudine, Gino Formigoni. Allora non c’erano tutte le comodità di oggi. Si alzavano alle cinque del mattino, andavano a lavorare in bicicletta, con le sporte degli attrezzi ben fissate ai manubri o su portapacchi di fortuna, sempre al freddo ma talvolta anche sotto la pioggia, la neve o con il tormento del ghiaccio, e tornavano all’una di notte dopo una giornata di dura fatica, trascorsa al limite della concitazione ma anche molto appagante. Ricorda infatti che già la distesa delle carni sul lungo tavolo, la loro suddivisione nelle diverse specie secondo l’impiego successivo, l’odore penetrante delle spezie e soprattutto la vista delle falde di lardo, dei salami, delle coppe, pancette e cotechini, sollecitavano in tutti un insolito senso di piacere, di gratificazione, quasi di euforia, a ricompensa psicologica, direi spirituale, di mesi e mesi di angosce e ristrettezze alimentari.Contrariamente a quanto oggi si potrebbe pensare, lo scopo principale della maialatu-ra allora non erano tanto gli insaccati, da utilizzare, con parsimonia anacoretica, come companatico ovvero come merce di scambio con il buteghèr, ma il grasso, quello del-la schiena in particolare, che garantiva un po’ di condimento nei piatti che la rasdura

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quotidianamente preparava per la famiglia. L’obiettivo dunque era il lardo per cui si preferivano le scrofe ai verri. Una scrofa di oltre tre quintali era un trofeo, certamente raro ma non impossibile, da esibire compiaciuti ai vicini di casa, sorpresi ed un tanti-nello invidiosi. Il maiale allora era mantenuto con la şota, un misto di tutti gli avanzi di cibo domesti-co cui si aggiungevano farina, patate, orzo, crusca e siero del latte preso in caseificio. I contadini di condizione benestante non aggiungevano il siero per allungare la şota, perché volevano risultati migliori in qualità e quantità. Nello stalletto, a sostituire il maiale appena ucciso, veniva messo ad allevare un altro dell’età di circa tre o quattro mesi.Il porcile era situato nel portghèt (il portichetto della barchessa) in un apposito stab-biolo. Il giorno fatidico venivano messe ai lati della porta le grate di un carretto da lavoro così da restringere al gugét, una volta fuori, in poco spazio altrimenti c’era da diventare matti a rincorrerlo nei campi. Il giorno precedente si aveva l’accortezza di non dargli nulla da mangiare in modo che fosse sollecito verso un poco di pastone che gli si metteva davanti, nello spazio costruito. Appena uscito dalla stalla, veniva sveltamente ribaltato dagli uomini ed infilzato con al curadòr (la traduzione sarebbe il cuoratore ma è infelice) ferro tondo di circa 6 mm. di diametro, lungo 30, terminante con una freccia acuminata e ben arrotata. Appena compiuta la violenta operazione la punta dell’arnese, per evitare malanni, veniva resa innocua ficcandola in un tappo di sughero. In una pentola di rame con dentro un fer-ro, il maestro raccoglieva il sangue della bestia che successivamente veniva nettata e pelata dagli aiutanti. Per quest’ultima necessità la si sistemava su delle grate o delle assi per lavarla accu-ratamente con acqua fredda e togliere la maggior parte della sporcizia evidente. Suc-cessivamente il maiale era bagnato a zone con acqua calda (ma non bollente) a 80 °C circa per facilitare la asportazione delle setole, tramite un apposito raschietto. A questo punto si collocavano due timoni da carro contadino (quello trainato da buoi) appoggiati contro un muro, nella corte teatro di tutte queste operazioni e si fissava una traversa che li congiungeva nella parte superiore. A questa erano legati ad una di-stanza di circa due metri uno dall’altro, due paranchi detti tài (da taglia). Sotto questa incastellatura veniva portato il maiale e gli venivano assicurate le zampe posteriori, una per paranco, a degli uncini che giravano attorno ai tendini. Con la carrucola era sollevato completamente e lavato di nuovo per eliminare ogni ulteriore residuo di sudiciume. Lo si tagliava allora in due mezzene che finivano, portate dai garzoni più robusti, in casa sul grande tavolo della cucina. Qui si sezionavano le parti che il masalìn indica-va per la confezione dei vari prodotti finali: salami, pancette, coppe, cotechini, lardo, grepule (non ce la faccio a scrivere “cìccioli”). Gli intestini appena estratti dall’addome, venivano portati subito nella stalla per lavo-rarli riparandosi un poco dal freddo (ma talvolta si operava nel gelo della corte). L’ òm

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di büdei, aiutante giovane ma molto attento li puliva accuratamente. Si macinavano le carni quasi sempre con la piastra dell’8, si condivano e con la macchina azionata a mano si confezionavano i salami insaccando la carne nei budelli e legando poi i capi con dello spago. Alla fine, con un apposito piccolo attrezzo detto furin o furèla, fatto come una piccola spazzola rotonda con infilzati degli aghi di ferro (ma in mancanza si adoperava anche una forchetta) si bucavano per tutta la superficie andando in profondità per far uscire tutta l’aria. Questa, se fosse rimasta imprigionata all’interno avrebbe formato delle bolle che avrebbero resa rancida la carne.I salami stavano per due o tre giorni nella stanza del camino per asciugarsi. Questa operazione era delicatissima e se non controllata a dovere poteva pregiudicare il buon esito finale di tutta la partita. Quindi le stanghette venivano sistemate nella camera da letto, fresca ma non frigida dove sostavano per tutto marzo. Ai primi caldi della primavera si trasportavano in cantina.La sc-iapa dal gras (la falda del lardo) dopo essere stata ben mondata, era subito co-sparsa di sale grosso e restava stesa per una settimana per consentirle di cacciare gli umori interni, poi era infilata ad un uncino ed appesa al soffitto della cantina o di una stanza molto fredda. La rasdura andava di buon mattino con un coltello e toglieva via via ciò che serviva al fabbisogno del mangiare quotidiano.

CONCE

Salame

- Sale 2,8 %- Pepe da 0,26 a 0,28 %. In un quintale di pasta andavano circa due etti di pepe o poco più. - Aglio la quantità variava a seconda del gusto delle famiglie. In media si metteva una bella manciata di spicchi (poi mondati, privati del germoglio interno e tritati) su 60 - 65 kg di pasta.- Vino rosso, corposo, 1 bottiglia in tutto

Salam dla lengua

Era il salame speciale che veniva consumato il giorno della Ascensione. Silvano non spellava la lingua ma la raschiava. Se si agiva bene la superficie veniva via senza troppe diffcoltà. Di buon mattino vi faceva un taglio per la lunga e dentro al taglio poneva del sale. Alla sera levava il sale, introduceva in un budello e quindi insaccava mettendole attorno la pasta del salame. Si mangiava cotto.

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RICETTE

Porchetta

Avverto una certa fierezza nell’esposizione del procedimento. Il piatto non era con-sueto dalle nostre parti e quindi conferiva all’operatore una considerazione in più. La porchetta va lavata per bene e quindi conservata nella sua interezza, compresa assolutamente la testa e la cotica. Si asportano solamente le interiora e le ossa. Si sala all’interno con le stesse proporzioni del salame, quindi si condisce con foglie intere di alloro ed un trito abbondante fatto con rosmarino, salvia, altro alloro e pepe a mezza grana. Le proporzioni sono tra di loro circa uguali in peso. Niente aglio.Va cotta nel forno del pane utilizzando il pomeriggio quando non si cuoce più nulla ma la volta refrattaria è ancora ben calda. Deve restare a crogiolare per 12 ore.

Prosciutto al forno

È compiaciuto del mio stupore. “Sa fare anche questo, gli chiedo ?”. Certo che lo sa fare ed è anche piuttosto semplice.Il prosciutto va trattato come la porchetta. Va ben ripulito e condito con il misto di erbe (alloro, rosmarino, salvia, pepe e sale visto prima) che si inserisce nella carne tramite buchi piccoli e profondi fatti con un coltellino lungo ed acuminato. Cottura come per la porchetta cioè in una placca, al forno, per 12 ore.

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Gianni Vicini San Giacomo delle Segnate

Sono tra le brulle terre di San Giacomo delle Segnate, paese nel quale sono stato sfollato da piccolo per sfuggire ai bombardamenti ed alle tragedie della guerra. È una campagna particolare, con pochi alberi a causa, io suppongo, di un sottosuolo ricco di sale, che risente ancora di una lunga permanenza di fondali marini. A San Rocco chiedo informazioni circa l’abitazione del signor Benatti presso un’osteria di impronta decisamente moderna. È gestita da cinesi i quali, con i modi cortesi e con lo stile riguardoso che è loro proprio, mi fanno capire, più a cenni che a parole, che non sanno dirmi nulla. Passo davanti alla villa Arrigona, semplicemente stupenda nelle sue linee architettoniche bene evidenziate da un accurato ed avvincente restauro della facciata, e finalmente arrivo a casa Benatti, dall’amico Icilio. Ad attendermi c’è anche il sig. Gianni Vicini, suo suocero, masalìn di lunga esperienza, persona di altri tempi, pacato nei modi e con un atteggiamento di grande rispetto nei miei confronti. Superato il leggero disagio iniziale, rotto il ghiaccio del rapporto con un estraneo, capìto che sono della stessa pasta semplice e schietta, Gianni si apre come un vecchio amico. Il colloquio scorre piacevolmente tra brume invernali, mezzene, budelli, salami e grepu-le. Mi avvince per il tono e la accuratezza della esposizione. Icilio e Gianni sono due personaggi dal carattere diametralmente opposto: dinamico e sempre sollecito alla battuta ed al lazzo il primo, posato e riflessivo il secondo. Il sig. Vicini inizia già prima dei tredici anni a seguire lo zio Mario Vicini e Adelchi Rovesta, due famosi norcini della zona, nei loro spostamenti di corte in corte a far su al gugèt. Andavano dove erano stati ingaggiati anche a 10 /12 chilometri di distanza, in bicicletta al mattino prestissimo, non di rado verso le quattro e mezza, con qualsiasi tempo - ricorda sorridendo certe bufere di neve - con gli attrezzi in una borsa attaccata alla canna della bicicletta. In spalla si mettevano li tai (corda con carrucole che servi-va per issare il maiale). Il maiale veniva spinto fuori dallo stabbio ma ricorda che altri lo traevano all’esterno mediante un uncino detto rampin ficcato in una balza della gola. Poi, rovesciato sul

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dorso, con un coltello lungo che era quasi sempre una baionetta militare bene affilata, gli trapassavano il cuore. Era questa un’operazione che richiedeva occhio e perizia per non trasformarsi in un tormento che poteva pregiudicare la bontà delle carni. La bestia era poi lavata con acqua fredda per togliere lo sporco sulla pelle e quindi, posta su un sostegno. Lo si bagnava poi con quella calda a circa 70° / 80° per levare le setole. Gli uomini facevano poi passare un uncino tra i nervi delle gambe posteriori e lo tiravano su con li tai poste a circa metri 1,60 una dall’altra, legate ad una rudimen-tale incastellatura. Qui il porcello veniva nuovamente lavato e riguardato attentamente e con un coltello affilatissimo si toglievano le setole sfuggite alla prima passata. Lo si apriva dalla parte della pancia, si levavano le budella e le frattaglie e, poi, con una folsa (mannarina dal lungo manico di legno) si procedeva alla divisione in mezzene. La prima, attenta e trepidante occhiata era volta alla resa in lardo. La rasdura, che era intanto venuta per raccogliere il sangue, la valutava con pignolerìa e scupolosità as-solute. Non sbagliava di un niente, la sua lunga esperienza le consentiva di giudicare con un colpo d’occhio la durata della riserva e di pensare già alla ripartizione mensile del suo utilizzo.Si mettevano da parte le setole e le unghie per venderle poi al raccoglitore. La bestia veniva poi portata in casa. Ricorda che quando era giovane e forte (aveva quindici anni) ha portato dentro con grande fatica una mezzena, pesantissima carica-tagli sulla schiena dagli uomini. Rovesciata su un tavolo questo si è spaccato in due. A questo punto incominciava la coinvolgente procedura della scelta delle varie carni: queste per i salami, queste altre per i cotechini, questo per le pancette ecc. Lui intanto approntava le conce. Faceva tutto ad occhio, secondo una prassi consolidata ed attento a non farsi carpire la ricetta. Non si buttava nulla. Persino al spisurlèr, il membro del maschio, trovava una sua precisa utilità: ungere la tomaia di sòcui, degli zoccoli. L’occasione era decisamente propizia per uno scherzo di tipico carattere contadino. Quando levavano il pene al verro operando verso le parti basse, sistemavano a bello studio il maiale e dicevano ad un ragazzo presente: và da drè a tör al cuìn (vai dietro a prendere il codino). Il giovincello ignaro si vedeva arrivare un affare lungo circa 50 cm che assomigliava ad una coda ma era un’altra cosa. Appena lo prendeva in mano tutti si mettevano a ridere. Questo spisurlèr veniva appeso ad un chiodo della stalla e al bisogno lo si scaldava un poco davanti al focolare e con questo si ungevano le tomaie degli zoccoli. Quelli alti, precisa Gianni, all’interno dei quali per avere un poco più di caldo e proteggere i piedi dal rigore invernale, si metteva della paglia. Suo nonno cambiava la paglia ogni mattina.Il lardo una volta veniva macinato, salato e poi messo in piccoli orci di terraglia. Era il canonico, rituale, ineludibile condimento di tutte le minestre in brodo, con cipolla e conserva fatta in casa, e delle pastasciutte. Parlando di conservazione dei prodotti della ricca giornata, salta fuori che il sangue lo friggevano con del formaggio e poi era insaccato in un budello. Oggi sembrerebbe qualcosa di disgustoso e ripugnante ma

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allora era un accompagnamento delizioso con la polenta. Alcune salamelle venivano conservate anch’esse in un vaso di terracotta, ricoperte di strutto.Passiamo alle ricette.Malgrado il clima di sincera cordialità, avverto che fa fatica a darmi la formula della “sopressata di testa”, un insaccato caratteristico della zona emiliana. È la “sua” ricetta, quella che porta ad un risultato finale di grande livello gastronomico, per il quale va famoso in tutta la zona. All’inizio recalcitra decisamente, poi nicchia, quindi tentenna ed alla fine, prospettatagli l’importanza di annoverare nella propria gamma un simile capo per la affermazione dei masalìn giovani, verso i quali avverte un obbligo mora-le, cede. Per la continuazione della specie (quella dei masalìn), me la descrive allora minutamente.

CONCE

Salame

- Sale 28 %- Pepe 0,2 % (due grammi per ogni chilo)- Aglio ad occhio e secondo gusto familiare. Circa quattro - cinque capi medi per quintale di pasta- Salnitro (per conservare e mantenere un colore vivace) 15 grammi per quintale.Proporzione carni / grasso (di spalla soprattutto) 70 % e 30 %

Pancetta

Ingredienti: sale, pepe, cannella, chiodi di garofano macinati finemente. Non sa pre-cisare le quantità. Il sale era in proporzione maggiore, garofano e cannella in rapporto molto più basso.Fare dei tagli, non profondi, per la lunga ed inserire la concia. Arrotolare bene stretto e legare. Infilare nel budello e legare ancora.

Coppa

La concia era come quella della pancetta, in proporzioni leggermente diverse.

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Cotechino

- Sale 25 %- Pepe 0,2 %- Aglio a seconda del gusto familiare. Spezie (miste, in bustina, acquistate dal buteghèr) una bella spolverata. Ancora non sa quantificare, andava ad occhio.

Sopressata di testa

Nettare bene la testa del maiale togliendo solamente gli occhi, non belli da vedere. Sistemarla in una pentola capace e poi farla bollire in acqua per il tempo necessario affinchè le ossa si stacchino dalla carne. A cottura avvenuta si pone la testa sul tavolo e con molta attenzione si eliminano le ossa, denti, sangue e parti scure. Ciò che risulta si taglia a pezzetti grossolani. Aggiungere ogni due chili di bollito, mezzo chilo di pasta di salame già trattata con i suoi aromi. Condire il tutto con sale a mezzagrana, pepe a discrezione personale, 15 g di aglio tritatissimo, un pizzico di spezie miste da bustina comperata al supermercato. Lavorare l’impasto. L’acqua di cottura non va buttata ma rimessa ancora sul fuoco a scaldare. Insaccare a mano in budelli (ne serviranno tre o quattro a seconda della loro dimen-sione e della grossezza della testa), legare accuratamente come si fa per i salami ed immergere gli insaccati per 5 minuti, non di più, nella acqua di cottura ben calda, qua-si bollente. L’operazione ha lo scopo di amalgamare e legare bene tutte le componenti interne. Bucherellare infine con la fürela per fare uscire il liquido in eccesso. Dopo quindici giorni è già pronta per il consumo. La fetta deve stare in piedi. Sorri-dendo, Gianni precisa che deve essere granda cume la röda dal carriàs (spessa come la ruota del carro).

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Battista Toaldo Castelbelforte

Subito ho creduto di essermi mosso per nulla. La dimora bella, grandissima, ben cura-ta in tutti i suoi aspetti, esprimeva la confortevole comodità delle case della borghesia rurale di una volta. Giardino ampio e signorile, una sala da pranzo con un tavolo per sedici persone, marmi di pregio, qualche stucco alle pareti, mi avevano indotto a pen-sare di essere venuto a Castelbelforte per incontrare un ricco signore con l’hobby della norcineria. Non sarebbe stato, ovviamente, quello che cercavo.Mi ero sbagliato, l’impressione iniziale non era corretta. Seduto al tavolo della cucina ho parlato a lungo e con estrema cordialità con il sig. Battista di anni 76. Ne ho ricavato la sensazione di uomo schietto, semplice, concreto e realista, vecchio ed appassionatissimo masalìn, andato per anni a maialare presso le famiglie locali a raggranellare qualcosa di utile per scampare ai rigori dell’inverno.I Toaldo sono venuti a Castelbelforte nel 1925. La famiglia era originaria di Pozzo-leone di Nove, centro notissimo per le ceramiche artistiche vicentine. Erano in tanti, poveri nella scarsella ma ricchi di quella buona volontà che è dote permanente ed indefettibile della gente del contado. Con gli anni e con l’impegno hanno messo in piedi prima ed ampliato poi un’azienda agricola importante con una stalla di bovini di circa settecento capi.Ci tiene a raccontarmi le sue memorie e lo fa con intelligenza, con realismo, consape-vole che gli operatori dell’arte masalina vanno diminuendo sempre più ed avanza il dolore della sua scomparsa. I giovani che sostituiscono gli anziani sono sempre meno ed anche questi, per legge naturale, seguono la stessa sorte. Ha cominciato a 8 – 10 anni assistendo, subito dopo la guerra, alla lavorazione del maiale fatta da un caro amico del padre Matteo, il sig. Aldo Braga, classe 1910, che operava certamente con criteri e conce dell’ottocento. Mi dice con una sostanziosa punta di orgoglio che ha ucciso e lavorato un maiale, con tutte le responsabilità connesse, all’età di sedici anni. Un primato.Mi descrive la successione delle operazioni. La settimana precedente, dopo attento consiglio familiare, veniva fissata la data fatidica. Si andava allora a comperare i bu-delli da Lino Cavallari di Castelbelforte, fornitore attento e scrupoloso di tutti i norcini

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della zona. Al mattino del giorno prescelto, ancora al buio, si mettevano a bollire circa 80 litri di acqua nel caratteristico, grosso paiolo di rame e si approntava un erpice con fissata sopra una grata, una alta sponda da carro, sulla quale doveva poi essere steso l’animale. Operava con attenzione, quasi in silenzio con ordini secchi, impartiti come schiocchi di frusta. Il maiale nel porcile si muoveva nervosamente, sentiva che c’era qualcosa di insolito. Uno o due aiutanti andavano dentro e con pazienza lo spingevano fuori. Appena varcata la soglia Battista lo ramponava nel sottogola (mi informa che altri masalìn praticavano diversamente: gli mettevano un laccio che passando tra i denti gli attorcigliava il grugno), poi un suo fratello, diventato con la pratica un vero specialista, gli prendeva la gamba anteriore sinistra e facendo leva con la propria spal-la in un attimo lo rovesciava. Due tenevano ferme le zampe posteriori. Battista, con un coltello lungo e sottile, lo scannava recidendogli le arterie. Il sangue usciva a fiotti (4-5 litri) e la mamma Armanda era già pronta a raccoglierlo in una pentola con sul fondo la chiave in ferro della porta di casa per evitare le reazioni chimiche del rame.La bestia, collocata sulla grata, veniva subito lavata con acqua fredda per togliere lo sporco più evidente e quindi si procedeva con acqua calda per la spellatura delle setole. Aggiunge che in giornate molto fredde era necessario stendere sulla pelle un sacco doppio in modo che l’acqua stessa non diventasse subito fredda ed impedisse o rendesse difficoltosa l’estirpazione dei peli. Le setole si toglievano con una metico-losa raschiatura mediante delle raspette ricavate, per evitare spese, da vecchi ferri per falciare il fieno. Per ultime si levavano quelle delle zampe tenendole immerse in un secchio di acqua calda. Setole ed unghie venivano date a qualche modesto raccoglito-re ed il corrispettivo consisteva in una mancia, piccolissima, per i bambini.L’animale veniva attaccato al becaröl, termine di derivazione tedesca. Dopo aver le-vato le interiora ed i budelli, si lavavano accuratamente quelli grossi e si tagliavano a misura e a strisce quelli piccoli che poi venivano cuciti a fette appaiate (i fet) dalla mamma Armanda Pezzorgna. Quindi diviso in due parti mediante la falséta, un col-tellaccio speciale, il quale consentiva di operare lungo la spina dorsale passando al centro di ogni anello. Le mezzene riuscivano perfette. Si portavano in casa e subito collocate sull’ampio asse della pasta. Quindi si sezionavano e si suddividevano le carni secondo le loro varie utilizzazioni: per i sa-lami, per i cotechini, le coppe, le pancette, le grepule ecc. La testa era tutta destinata ai cotechini. Le infiltrazioni di grasso nelle carni venivano accuratamente levate per accrescere il pregio dei salami. Questi ritagli finivano nei cicciòli o nei cotechini. Il lardo della schiena con tutta la sua cotica spessa e coriacea, veniva tagliato in grossi pezzi rettangolari, salati in superficie, dalla parte viva, e di-stesi su apposite assi tenute al fresco nella cantina. Le cotiche della pancia (al pansàl), più morbide e tenere, venivano messe nei cotechini.Alla cena della sera non venivano mai invitati il prete ed il dottore per una forma di rispetto nei loro confronti: si voleva evitare che sentissero delle espressioni volgari. Le regalìe di prammatica erano quasi sempre costituite da due braciole attaccate (la

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dopia brasöla). La casa dei Toaldo era prossima all’area veronese per cui si rispettava la tradizione del “tastasàl”. Questi non era altro che un poco di impiœm che veniva cotto sulla griglia. Si diceva, con ironia tipicamente contadina, che si valutava se il sale era stato messo nella proporzione corretta.

CONCE (di una volta)

Salame

- Carne 85 % e grasso 15 %- Sale 28 – 32 % di sale mezzo fino- Pepe 2 etti a mezzagrana per q- Aglio 2 capi e mezzo per q ridotto in poltiglia al coltello, ora con un mixer- Vino rosso una bottiglia

Cotechino

- Sale 30 – 32 % (la quantità è più alta rispetto al salame perché molto si disperde nell’acqua di cottura.- Pepe misto (pepe e pepe garofanato) 2 etti per q- Niente aglio, niente altroSi macina prima con la piastra del 16 e poi con quella dell’8

Pancetta

Sale e pepe come per il salame. Spezie: un pizzico di un misto fatto con cannella, chiodi di garofano e noce moscata. Fare dei buchi con un coltello nella pancetta ed infilarvi pizzicate del trito stesso.

RICETTE

Gras pistà

Il gras pistà è un cardine, direi meglio un monumento, della vecchia cucina mantova-na. Su un tagliere si battono, in proporzioni variabili secondo gusto familiare, 3 etti di lardo di schiena, uno spicchio di aglio senza il germoglio interno, una manciata di prezzemolo, sale. Si batteva il tutto su un tagliere da cucina sino a farlo diventare una pasta. Per rendere l’operazione più facile si usava bagnare ogni tanto il coltello

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nell’acqua bollente. Talvolta parte del battuto si metteva nell’acqua stessa con l’ag-giunta di qualche cucchiaio di conserva di pomodoro fatta in casa. Era il brodo nel quale si cuocevano tagliatelle, pastina o riso.Si poteva anche spalmare su delle fette di polenta ben calde. In questo caso era la merenda o la cena contadina. Per questo uso si era soliti aggiungere al battuto un poco di pasta di salame.

Cuore in padella

Tagliare il cuore del maiale appena ucciso a fettine sottilissime. In una padella fare un fondo di reticella e cipolla affettata e fare andare a fiamma bassissima. Quando il tutto è ben disfatto, alzare la fiamma, addizionare le fettine di cuore e dare alcuni minuti di cottura (non troppi chè altrimenti la preparazione tende ad indurirsi). Salare solamen-te a questo punto. Pepe a piacere.

Salam in dal tegìn

Va fatto possibilmente con salame non troppo stagionato. Allo scopo Battista conserva in freezer alcune salamelle fatte da lui nella maialatura di casa. Avvolge ciascuna in un pezzo di carta morbida, le colloca in un sacchetto di plastica, con la macchina apposita fa il vuoto e poi surgela. Al momento dell’uso, la salamella va tagliata a fette trasversali un poco spesse che poi saranno messe, senza alcuna aggiunta, in un tegamino. Questo va tenuto sulla fiamma in posizione obliqua così da raccogliere sul bordo del fondo tutto il grasso che cola. Evitare dunque che la salamella si imbibisca di unto. Mettere le fette in un piatto. Con polenta, ma Battista preferisce il pane.

Risòt a la pilota

In una zona storicamente risariva non poteva mancare la formula del noto “risòt a la pilota”. Richiede molto tempo per cui i cuochi locali si sono specializzati in nuove modalità di cottura ma nelle famiglie di stretta osservanza si mantengono le propor-zioni e la prassi della procedura antica. Un chilo di riso vialone nano assolutamente mantovano, acqua, poco sale. Mettere l’acqua nella stagnada (paioletto di rame), portarla a bollore e versare il riso che deve superare di tre dita (5-6 cm) il pelo dell’acqua. Se questa è troppa la si toglie con un mestolo, se è poca la si aggiunge, calda. Appena ripreso bollore, mescolare con la stecca. Fare andare per 5-6 minuti a fiamma

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allegra. In questo tempo il riso dovrà avere assorbito tutta l’acqua di cottura. Spostare la pentola su un calore appena accennato, coprirla mettendo un panno tra il coperchio e la pentola stessa. Dopo 25 - 30 minuti assaggiare il punto di cottura andando a pren-dere il riso ben al di sotto della superficie (sopra è quasi sempre indietro). Se il riso è al punto giusto, sgranare con la stecca, condire con il pesto (il tastasal) fatto cuocere in solitudine, senza aggiunte e per non più di dieci minuti, a fiamma bassa (altrimenti perde il suo profumo). Informaggiare abbondantemente con grana padano grattugiato, rimettere il coperchio, tenere al caldo per tre o quattro minuti e poi servire con un mestolo forato. Un tempo per mantenere calda la pentola e consentire al riso di passarsi bene, si usava mettere un panno di lana attorno alla pentola stessa. Era detto al tabàr, il mantello. La cosa era tuttavia più di sapore pubblicitario e folcloristico che non un’effettiva esigenza gastronomica.

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Sergio Todeschi Soave di Porto Mantovano

Durante le mie peregrinazioni alla ricerca della verità sulla norcineria nostrana, non ho mai incontrato una persona tanto sensibile, meticolosa e compresa di nobili valori esistenziali - tra la filosofia e la poesia - come il sig. Todeschi. La sua descrizione della maialatura è assolutamente particolare. Vi è spazio certamente per un impegno vissuto con partecipazione ma si incontra anche lo zelo compassionevole e venato di amore per la natura ed il prossimo, chiunque sia, anche un animale dunque, del vero masalìn che sa che deve uccidere ma vuole farlo senza procurare sofferenza, senza crudeltà.Mi parla infatti della sua attività invernale con distacco sereno, pacato, pervaso di accenti toccanti. Sento che per lui non si trattava di dare la morte ad una bestia qua-lunque ma a quella di un compagno di vita, quasi di un amico, vissuto con la famiglia per più di un anno. Il maiale non era insomma un estraneo, gli si voleva bene e si apprezzava, come dire, il suo sacrificio.Ha iniziato a 13 anni al seguito del norcino Mario De Biasi che aveva circa una ven-tina d’anni più di lui. Era dunque anche questi molto giovane ma aveva avuto come maestro un caposcuola riconosciuto e già anziano, Giuseppe Poli. Ci addentriamo nell’atmosfera cruciale. Il giorno prima le donne approntavano il grande paiolo di rame (litri 180) e le fascine per il fuoco da scaldare l’acqua. Sergio voleva che ad andare a spingere il maiale fuori dallo stabbiolo fosse uno di famiglia che lo conosceva bene perché, mi informa con voce sommessa ma sicura, il maiale è come l’uomo condannato a morte che scalcia. Anche lui avverte immediatamente se c’è qualcosa che non va. Ciò stimola inizialmente la sua diffidenza che si trasforma subito, se capisce l’antifona, in reazione violenta. Su questo duro e penoso argomento ha fatto delle esperienze con il veterinario dott. Cesare Trazzi di Sant Antonio di Porto Mantovano che ritiene sia stato il suo grande maestro. Il Trazzi consigliava di abitua-re il maiale ad uscire dal porcile, diventato ormai la sua tana, e talvolta di portarlo a passeggiare per la campagna. Se non si fosse agito in questo modo e si fosse usato violenza all’animale al momento della macellazione, a convinto parere del dottore, il tessuto si alterava e cambiava addirittura colore. Sergio ha constatato personalmente

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che la carne della coscia, la prima che si vede al taglio, non era più rosea ma scura. La qualità di tutti gli insaccati veniva in questo modo assai compromessa. Appena ucciso l’animale, si stendeva per terra sopra un asse e con acqua calda ma non bollente lo si pelava. Todeschi ancora adesso, malgrado le molte comodità moderne (sorridendo mi dice che non ha più le sgalmare, gli zoccoli di legno di una volta, ma gli stivali di gomma), esegue l’operazione in questo modo. Poi veniva attaccato al becaröl e lo si sollevava. Si facevano le mezzene e si proce-deva per le ulteriori operazioni secondo la prassi consueta nel mantovano. Non man-cava, con tutta la solennità che le conferiva il rango di rasdüra e con tutta la curiosità femminile che le spettava di diritto, la padrona di casa. Invariabilmente sollecitava il masalìn a fare le mezzene alla svelta per valutare lo spessore del grasso ed altrettanto perfidamente questi rispondeva “va pian che se no dopo at resti mal” (và piano che altrimenti dopo ci rimani male). Tagliato l’animale a metà, le due parti venivano portate dentro e stese su una “banca”. Vale la pena di precisare che Soave è un paese vicino al Mincio ed al Lago Superiore di Mantova, comunità dunque di pescatori e di lavandaie. La “banca” era il lungo asse per lavare i panni. Se non c’era in casa lo si chiedeva in prestito. Era il primo supporto delle mezzene che poi si portavano in casa e sistemate sull’asse dle tajadèle. Per la cena della sera, occasione di cibo abbondante, di vino nuovo e quindi di alle-gria, erano sollecitate a partecipare una o due persone per famiglia del parentado oltre ai masalìn ed a qualche amico. Gli inviti erano accuratamente ponderati in base alle relazioni interfamiliari ed alla necessità di riconoscere favori importanti. Le presenze dunque erano molte ma anche molto soppesate, dalle 12 alle 18 bocche. Almeno per tutto l’immediato dopoguerra non si voleva abbandonare il sano principio della par-simonia. C’era sempre il prete, il dottore, il veterinario e, talvolta, la signora Elide, la levatrice che li aveva fatti nascere tutti quanti.Tra gli scherzi per i bambini piccoli ricorda il rapatìn. Si prendeva un’unghia del maiale e la si poneva al caldo del focolare. L’unghia si ritirava ma poi posta su un piano freddo liberava delle energie meccaniche che facevano compiere dei saltelli al rapatìn con un rumore sordo e caratteristico. Una curiosità per i più piccoli ed uno spasso. Il racconto fa posto alla conversazione. Si snoda sulla comparazione tra la vita di un tempo e quella attuale. Ricorda che nel 1948 la spesa totale per la lavorazione di un maiale era di 400 lire, venti centesimi di euro. Erano parecchi i giovani che lo seguiva-no sia per imparare - in campagna è un principio basilare anche se dopo si fanno altre cose - ma soprattutto per mangiare la fritüra a metà mattina e la cena abbondante e cordialissima la sera. Si prosegue sulla falsariga del confronto tra le due società: quel-la di un tempo e quella che stiamo vivendo. Le conclusioni sono sempre molto amare. Con parole venate di amarezza ci rappresentiamo i drammi della droga, constatiamo l’impressionante aumento della criminalità, ci soffermiamo sulla difficile educazione dei giovani, ci confermiamo nella decadenza del sentimento religioso. L’accresciuto

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tenore di vita lo paghiamo a caro prezzo. Relativamente alla produzione alimentare delle grandi industrie, Sergio lamenta che oggi i cibi sono snaturati inizialmente dall’aria, dalla terra e dall’acqua, che non sono più sane come una volta, e poi dall’uso smodato di concimi, conservanti e coloranti sparsi dappertutto con mano luciferina. Alzando gli occhi al cielo quasi a chiamare Dio a testimone di tanta nefandezza, con-cludiamo assieme con il mantovanissimo giudizio: “sporcacioni, veh!”. Con una “c”.

CONCE

Salame

Sale 32 – 33 % (mette un po’ più di sale quando il clima è umido)Pepe 2,5 etti per quintale di impastoAglio 3 capi o teste per quintaleVino 1 bottiglia di vino bianco secco (usa vino bianco perché così il salame non si scurisce e resta chiaro)Pepe garofanato in polvere (i masalìn lo chiamano garofolato) un paio di cucchiaiNoce moscata una grattatina

Cotechino

Come il salame ma con un poco più di sale in quanto dovrà cuocere nell’acqua che ne sottrarrà parecchio.

Moretta

(È un capolavoro della tradizione veneta che si fa con il sangue del maiale. È stato portato dalle nostre parti da agricoltori venuti nella nostra provincia molti anni fa. Sergio ha appreso la ricetta e l’ha preparata molte volte).

- 5 litri di sangue,- mezzo chilo di pane grattugiato,- 2 hg di formaggio grana grattugiato,- 2 hg di mostarda mantovana fatta con mele campanine,- i polmoni del maialeSi macinava il tutto e si condiva con 3 etti di sale, due cucchiai di pepe a mezza grana, poca noce moscata grattugiata, poca cannella sbriciolata, un bicchiere di vino rosso

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corposo. Veniva poi insaccata in rocchi successivi come le salamelle. Aveva un colore molto scuro. Era cotta lessata oppure cucinata in tegame con conserva di pomodoro fatta in casa, per un quarto d’ora. Qualcuno, mi dice sottovoce e con un sorriso com-plice, la rifiutava perché gli sembrava uno…

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Valentino Tartari Torre di Goito

Il signor Tartari non è un norcino nel vero senso della parola. Quando era giovanissi-mo dava una mano - entusiasta, attiva e competente - ai masalìn ed al padre quando facevano su il maiale. Ho voluto comunque sentirlo come testimone sicuro ed infor-mato sui fatti su un aspetto specifico dell’allevamento suinicolo e cioè la graduale ma rapida trasformazione da cura familiare a lavoro artigianale e quindi a dimensione industriale. Il padre ha seguito per tutta la sua vita - con dogmatica ostinazione - una dieta singolare nella sua essenzialità: salame e pasta al pomodoro (colazione, pranzo e cena).Come ho già scritto, dopo l’allevamento allo stato brado in boschi e foreste con quer-ceti, il maiale fu allevato in spazi sempre più ristretti sino a ridursi in epoca moderna ad una porcilaia posta vicina alla casa, con somministrazione di residui alimentari del-la famiglia integrati da farina gialla, orzo, patate, bietole ecc. Il tutto veniva scaldato con acqua bollente e costituiva la şota, versata nel truogolo. È evidente che questo tipo di alimentazione risentiva moltissimo delle condizioni familiari, del tenore di vita ed in parecchi casi portava a risultati assai modesti se non addirittura miserevoli sia dal punto di vista delle resa in carni sia della loro qualità.Questa situazione la troviamo praticamente inalterata dal medioevo sino al novecento inoltrato o meglio sino alla prima guerra mondiale o poco oltre, discrimine storico fra due epoche assolutamente diverse. È infatti di questo periodo la sempre maggiore dif-fusione, nella provincia di Mantova, di caseifici aventi ciascuno un bacino di prelievo del latte piuttosto ampio. Dopo la produzione del formaggio e del burro, il liquido di risulta, cioè il siero, possedeva ancora degli elementi nutrizionali che potevano integrare la dieta dei suini. Ricordo benissimo che i contadini – o, meglio, i loro figli giovanissimi - portavano il latte al caseificio con un carrettino formato da una stanga di legno con due ruote, all’estremità della quale era sistemato un gancio cui veniva appeso un bidone metallico che all’andata conteneva il latte ed al ritorno il siero.Il lavoro di Valentino incomincia praticamente a 13 anni. Non amava molto lo studio e preferiva aiutare il padre che era casaro presso una ditta di Castiglione delle Stiviere.

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L’impegno era notevole ma non gli dispiaceva. Ricorda che talvolta lavava di notte le vasche di acciaio che contenevano due quintali di latte ciascuna. Con la caratteristica mentalità del contado mantovano, per il padre il lavoro era impegno assolutamente prioritario rispetto ad ogni altra cosa e talvolta precedeva addirittura l’attenzione per la famiglia. L’azienda lavorava 70-80.000 quintali di latte all’anno e siccome ne oc-correvano 5 per una forma di grana, il conto è presto fatto: oltre 14.000 furmaie.Attualmente - è pratica di questi ultimi anni - il siero rimasto dopo l’estrazione della cagliata, possiede ancora una discreta parte di proteine e di carboidrati ma non va più nella şota dei maiali. Viene scremato e poi venduto per fare cosmetici e generi ali-mentari. Portato alla temperatura di 6 °C è immesso in un apposito silo da cui viene prelevato con autobotti. Al maiale dunque non va più nulla. Ora sono alimentati con mangimi specifici programmati in base all’età ed al peso degli animali. Data questa indipendenza dall’attività casearia, oggi ci sono molti agricoltori che allevano maiali: fanno il pastone con i mangimi (granoturco, soia, orzo, crusca e sali minerali, macinati ed addizionati tra di loro in proporzioni studiate da un computer) e li sciolgono non più nel siero ma nell’acqua calda. Ricorda che molti anni fa, verso gli anni ottanta, qualche giorno prima della sua uc-cisione veniva somminisrata al maiale una şota con dentro parecchio zucchero. Ciò serviva a rendere la carne più gustosa, più gentile.

RICETTE

Filét in sle braşeAl mattino della maialatura prendere il filetto e metterlo in una marinata fatta con vino rosso, pepe ed aglio. Alla cena della sera, tagliarlo longitudinalmente con il coltello bene affilato svolgendolo via via così da ottenere un’unica bisteccona. Appiattirlo leggermente con un batticarne e cuocere per poco tempo su brace intensa coperta da un velo di cenere. Servire dopo averlo tagliato a pezzi.

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Giordano Dugoni Roncoferraro

Conosco il geom. Giordano Dugoni da moltissimo tempo. Oggi, al momento dell’in-tervista, ha 86 anni portati con spirito garibaldino anche se attualmente opera nelle retrovie, ai servizi di sussistenza risottara per via di fastidiosi acciacchi alle gambe. Da qualche tempo porta il bastone che gli conferisce l’aspetto tipico del signore di una certa età del contado mantovano. Mente dunque lucida, serena ma sempre presente e talvolta addirittura pugnace. Un esempio: si stava parlando del risòt a la pilota ed in particolare della sua consi-stenza tanto asciutta da richiedere frequenti irrigazioni di lambrusco. Gli ho chiesto se, a suo illuminato parere, il nome poteva derivare dal riso pilav - di origini anatoli-che o giù di li – in quanto anch’esso molto sgranato e secco.Mamma li turchi! Con voce vibrante non ha voluto sentire interferenze saccenti sul piatto locale che si chiama appunto “a la pilota” in quanto trae solamente dai pilarini o piloti, lavoranti addetti alla pilatura nelle aziende risarive di una volta. Accostarlo, anche se solo nella cottura, ad altri piatti apparentemente similari, l’ha assunta come una provocazione, un attentato alla materia della quale detiene, nobilmente, la catte-dra di Roncoferraro, un’angosciante eresia da collocarsi subito in partibus infidelium. Cautamente, senza dare nell’occhio, mi sono ritirato. Ancora in giovanissima età seguiva come aiutante il padre Carlo, muratore, che d’in-verno combinava il pranzo con la cena facendo il masalìn. Il padre, emigrato in Ger-mania nel ‘39 per trovare il lavoro che qui scarseggiava, fu arrestato e rinchiuso in un campo di concentramento e precisamente nel lager di Badhall. Una parentesi triste in un insieme di ricordi non troppo felici. Anche il nonno Selùm (Anselmo) era masalìn per cui i Dugoni si configurano come una validissima stirpe norcina.I suoi ascendenti, e lui stesso, hanno usato sempre le stesse conce. Erano considerati specialisti del cotechino al punto che i loro prodotti venivano assunti come pietra di paragone nei confronti degli altri. Li facevano piuttosto piccoli in modo che si cuo-cessero perfettamente anche all’interno ed anche per il fatto che altrimenti il budello correva il rischio di rompersi malgrado lo stretto involucro di pezza nel quale erano

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avvolti per la cottura.Veniamo al maiale. Il giorno prima si approntavano il paiolo di rame per l’acqua cal-da, gli stracci, i panni e le pezzuole per le varie necessità. Si allestiva anche al becaröl al quale legare la bestia e reggerla perpendicolarmente. Era composto da due robusti travetti di legno con sopra una traversa a forma di giogo da buoi. Questa aveva una serie di buchi posti a circa una spanna uno dall’altro, entro i quali si inserivano dei cavicchi di legno per sostenere l’animale opportunamente divaricato negli arti poste-riori. Al momento del sacrificio lo si spingeva fuori dal porcile, se ne bloccavano i movi-menti con un uncino innescato sotto la gola detto guiöl, gli si legava una gamba poste-riore, lo si ribaltava e lo si corava, gli si trafiggeva cioè il cuore con uno stiletto. Veni-va coricato immediatamente su un fianco e la padrona dal mescul (la padrona di casa) raccoglieva il sangue che sgorgava dalla ferita mentre gli uomini gli comprimevano la gabbia toracica per agevolarne la fuoriuscita. Questo era raccolto in una pentola di rame con dentro un oggetto in ferro (quasi sempre - con intenzioni anche simboliche - la chiave della porta di casa) per prevenire reazioni chimiche (verderame). Poi veniva versato in un capace catino smaltato. Prima di issarlo sull’incastellatura il maiale era lavato accuratamente e gli venivano estirpate le setole con acqua calda e con raschiette ricavate da un fèr da sgar (un ferro per falciare l’erba). Si rammenta benissimo della nonna Lina che con il caldarìn (sec-chio) bagnava la cotica mentre suo marito raspava con diligenza. La fase successiva consisteva nell’eviscerazione e con una vaschetta si raccoglieva la massa delle interiora. Quindi si toglievano le altre frattaglie (cuore, polmoni, rognoni, ecc.) e per ultimo il fegato. Le budella venivano svuotate dagli uomini, nettate più volte, ripassate con aceto, tagliate nelle lunghezze adeguate e poi date alle donne. Queste le cucivano con la parte interna voltata verso l’esterno per evitare alla carne del salame di entrare in contatto con eventuali residui fecali. Con il sangue venivano fatte le morette, un insaccato diffuso nel Veneto il cui confine dista pochi chilometri. I due mezzi erano poi portati in casa e stesi su dei piani di legno fatti appositamente cioè con un bordo rialzato, una piccola sponda, su un lato. Si procedeva alla seziona-tura delle varie parti, alla triturazione delle carni dei salami e delle cotiche, all’appron-tamento dei pezzi interi per pancette e coppe.Concorda sul fatto che le carni tagliate a coltello, come si usava nell’ottocento quando il tritacarne era poco diffuso dalle nostre parti, davano dei risultati migliori, mantene-vano inalterato il loro sapore perché non erano schiacciate e tormentate dal verme del-la macchina. L’introduzione della machina ha notevolmente accorciato i tempi della maialatura casalinga ma ha sottratto qualcosa alla bontà complessiva. A questo propo-sito ricorda benissimo che per il risotto della sera, il pistùm era ancora preparato alla moda antica e cioè sminuzzato dalla cuoca con la curtèla. Verosimilmente si seguiva la via migliore perché si trattava di modesta quantità.

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Quando entriamo nel tema della “mattazione” colgo appieno la sostanza più intima della sua passione, il vero spirito masalino, l’anima dell’uomo attento e coscienzioso. È assolutamente contrario ad ogni forma di violenza gratuita e senza senso sull’ani-male anche se, per consuetudine diffusa, è ancora praticata da qualcuno. Concorda sul fatto che in questo modo le carni, oltretutto, subiscono delle alterazioni irrecuperabili. Riporta quanto diceva il padre Carlo: “Se il maiale si accorge di essere ucciso, si fa venire la febbre (sic) ed i salami i riuscirà col buso”. Cioè con qualche cavità centrale per cui, nel tempo, sarebbero marciti, sarebbero andati a male. Le salamelle, fatte con la pasta del salame, venivano conservate in latte di olio vuote, poste a strati con dello strutto. Sopra, ad ulteriore protezione, si mettevano delle co-tiche. La paga era modesta. Al masalìn venivanno regalate, in aggiunta alla remunerazione pattuita, le due tradizionali salamelle (la ciupéta) e talvolta i polmoni. Suo padre ha sempre macellato maiali bianchi cioè quelli dalla cute rosa.Scherzi? Interessante e significativo questo nel quale avverto un refolo di arguzia to-scana. Sullo sfondo mi pare di scorgere la presenza di Chichibio, Calandrino e Frate Cipolla. Un giorno Carlino, il padre, riceve la visita di un tale Primizio. Gli dice che il vete-rinario ha consigliato di ammazzare il maiale alla svelta perché ha un po’ di febbre e non sa capirne l’origine. Il maiale viene macellato e Carlino gli mette nello stomaco una piccola bietta, il cuneo in ferro che si usava in campagna per fendere il legno dle soche. Finge di averla trovata. La fa vedere al contadino e lo assicura che la febbre certamente viene da lì perché il ferro fa di queste birbanterie. La sera, all’osteria, Primizio incontra il veterinario e, con atteggiamento di sufficien-za, lo rimprovera per non aver capito una cosa tanto semplice. Il veterinario prima abbozza ma poi bonariamente gli spiega che non poteva assolutamente essere: i suini mangiano di tutto ma non il ferro. Primizio capisce di essere stato preso in giro, di essere caduto in un tranello che lo esporrà per anni al divertito dileggio della comu-nità. Torna a casa e dice al Dugoni (che sta ancora lavorando): “ Carlino, finisci tran-quillamente il tuo lavoro che io te lo pagherò tutto sino all’ultimo minuto ma poi non mettere mai più piede in casa mia”. Non lo ha più chiamato. Noto la fragranza della burla ma anche la corretteza, l’onestà del contadino di allora che non intende rivalersi sul compenso. Quello è sacro e va rispettato. Ricorda questa filastrocca. Era recitata dai bambini, figli di gente povera, che andava-no a questuare presso le famiglie contadine, non ricche ma nemmeno indigenti, che avevano appena “fatto su il maiale”. Nel nome di questa antica pratica - unşar al sproc - c’era un alcunchè di greve, di allusivo, ma era ampiamente riscattato sia dall’età del questuante che dalla naturale arguzia popolare, sempre disposta ad ascoltare allusioni grassocce per poi cordialmente sorriderne:

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La rasdura da sta càChe tant buna la sarà

‘na qual roba las darà.

Se las dà an salamìnO magari an bel cutghìn

Al métrema in dal spurtìn.

Se las dà adla panséta(E a sperém ‘na bela féta)A ghem mia ‘d far la dieta

Se las dà salam e panGh’a dsém grazie incò e ‘d man

E pu anca pasadman

Se las dà invece gnéntAgh mandéma un asidént

Par ch’l’as tegna sempr’in mént

Ma a la fin la ringraziémE stan quegn a turnarém

E ancòr gla cantarém

Dopo aver recitato la flastrocca, con atteggiamento scherzoso ma composto e pruden-te, il ragazzino allungava un bastoncino, al sproc (lo sprocco, il pollone di un ramo) attorno al quale la donna di casa metteva sempre qualcosa. Ho avuto qualche perplessità sulla parola “dieta”. Mi è parso al momento un aggiu-stamento poetico per conquistare la rima. Lo ritenevo un vocabolo di concezione mo-derna, affatto sconosciuto nell’ottocento ed in particolar modo nella consueta parlata popolare.Mi sbagliavo. È un termine presente nella sezione dialettale dell’Arrivabene (il fon-damentale “Vocabolario italiano – mantovano”), stampato presso gli Eredi Segna nel 1882.

Mi corre l’obbligo di ricordare che questa usanza è da secoli conosciuta soprattutto nell’Italia centrale con il nome di “Sant’Antonio”, patrono degli animali e del maiale in particolare. Veniva cantata da una brigata di uomini, alcuni mascherati, in una cu-riosa questua stagionale passando di casa in casa, volta semplicemente a fare un po’ di baldoria. Le lezioni sono diverse ma non manca mai l’accenno alla malasorte in caso di diniego. Riporto come esempio un brano abruzzese:

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Sant’Antonio de la RoccaDamme ‘na piega de savicicce

E si ni’ mi li vò dàTi si pozza fracicà

CONCE

Salame (per quintale di pasta)

- 70 % di carne magra- 30 % di pancetta o grasso sodo- 2,5 - 2,8 % di sale- 0,15 % di pepe- 0,18 - 0,20 di aglio (pestato o tagliato con la mezzaluna)- Un poco di coriandolo o pepe garofanato- Un bel pizzico di spezie (cannella e chiodi di garofano in polvere)- Un litro di vino rosso corposo.La concia andava sparsa sulla pasta e quindi miscelata cun ùnt ad gumbét (con olio di gomito)

Pancetta

Andava messa sotto sale per una settimana con cannella, pepe e chiodi di garofano. Rigirata ogni giorno.

Cotechino

Va fatto con carne della testa, cotica della gola, muscolo, carni rosse non adatte per i salami, niente orecchie, tritate e condite poi con sale, pepe e spezie.

Coppa

Dopo averla ben nettata e rifilata, si mette sotto sale con chiodi di garofano e pepe.

Pistüm (pesto per il risòt a la pilota)

Per un chilogrammo di pesto:

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- 700 g di carne magra (lombo, coscia, muscolo)- 300 g di pancetta o altro grasso sodo- 20 g di sale- 1,5 - 2.00 g di pepe sfrangiato con il dorso di una bottiglia- 1,8 g di aglio tritato finissimamente alla mezzaluna

Tritare il tutto con la curtlina (coltello da tagliere, ma ora si usa il tritacarne) e condire. Il pesto deve riposare dalla mattina alla sera.

RICETTE

Moretta

Esattamente come quella del Todeschi ma senza mostarda. Da consumare solamente lessata e rigorosamente con polenta abbrustolita.

Custine da puntèl

Molto spesso, secondo la vecchia tradizione contadina, il risòt a la pilota era accom-pagnato da costine di maiale - o, nei casi più sontuosi, da braciole – per rendere più ricco il piatto. Non si ponevano sopra il riso ma, con tratto signorile, su un bordo. La costina aveva il compito, gradevolissimo, di sostenere il piatto stesso, di puntellarlo, gastronomicamente si intende. Le costine, suddivise una per una e tagliate a metà o in segmenti ancora più corti, vanno messe in una padella già unta di burro per evitare che si attacchino al fondo. Fare andare così, a fuoco allegro, per circa dieci minuti, rigirando spesso. Bagnare con abbondante vino bianco secco. Fare sfumare e quindi addizionare un paio di rametti di rosmarino e del pepe. Proseguire la cottura a coperto ed a fuoco bassissimo sino a quando la carne si staccherà dall’osso. Occorrerà circa un’ora. Salare solamente a questo punto per non indurire la carne. Ad ogni commensale vanno serviti tre o quattro pezzi.

Fegat, pulmun, cör in tegia

Tagliare il polmone a pezzetti dopo averlo ben mondato, tagliare il cuore a fettine sottilissime e fare andare entrambi con reticella di maiale unitamente ad aglio, rosma-rino, sale e pepe. Sfumare con vino bianco. Verso la fine aggiungere il fegato tagliato a fette.

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Risotto con il luccio

Dugoni afferma che si può far risalire con sicurezza a metà ottocento.

Per 4 persone:

- un luccio di Po o di Mincio di circa un chilo- 500 g di riso vialone nano mantovano- olio in discreta quantità- prezzemolo tritatissimo q.b.- aglio tritatissimo q.b.- mezza cipolla tritatissima- mezzo bicchierotto di vino bianco secco.- brodo di verdure fatto con acqua, sale, cipolla, sedano, carota, qualche foglia di prezzemolo.- burro fatto con una zangola casalinga (una bottiglia dal collo largo con dentro la panna e sbattuta continuamente dai ragazzini di casa)- formaggio grana grattugiato a mano. (Dugoni afferma che nonna Nina brontolavaperché era una spesa in più ma il nonno Selùm, sorridendo, faceva finta di non sentir-la). È da notare che nell’ottocento le mogli davano del “vü” (del voi) ai mariti in segno di sottomissione e rispetto.

Fare il brodo di verdure, lessarvi il luccio, ritirarlo quando è tiepido e spolparlo accu-ratamente disponendo le fese su un piatto di servizio in modo da farle stare in un unico strato. Condire con sale, pepe, olio d’oliva eccellente e cospargere di prezzemolo ed aglio. Far riposare al fresco per almeno quattro ore affinchè la polpa del pesce assorba il condimento.In una pentola soffriggere appena - senza dunque rosolare - la cipolla con l’olio. Ver-sare il riso e tostarlo per qualche minuto. Bagnare con il vino e fare sfumare. Quando il fondo è piuttosto asciutto, cominciare ad aggiungere via via mestoli di brodo bollente. Tramenare frequentemente. Dopo circa 10 minuti unire metà del con-dimento di luccio. A cottura ultimata aggiungere l’altra metà. Spegnere con il riso ancora al dente. Aggiungere un paio di cucchiai di burro, dare velluto con il grana, profumare con un giro di pepe fresco da mulinello mantecando delicatamente ad ogni passaggio. Incoperchiare e far passare tre minuti in operosa quiete.

Risòt a la pilota

Premessa. La preparazione di questo piatto è tipica della zona di sinistra Mincio della provincia di Mantova. È limitata dunque a cinque comuni su un totale di settanta ma

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è talmente nota che molti autori, approssimativi, la classificano come “il risotto man-tovano”. Per la precisione storica: non “il” dunque ma “un”.La sua caratteristica principale è quella di essere asciutto, con i chicchi ben sgranati, “che corrono per il piatto” come si usa dire con icastica immagine. La sua cottura ri-chiede molto tempo ed è per questo motivo che molti ristoratori - non tutti, per fortuna - adottano procedure sbrigative ma, complessivamente, non infami. Giordano Dugoni, studioso del riso e del piatto, lo esegue di quando in quando per una ristretta cerchia di sodali. La sua è senza alcun dubbio la vera ricetta antica, con-solidata e veneranda, che non si trova in nessun libro di gastronomia. Degustarne una fondina (con rinforzo) è un privilegio. La esecuzione è stata da me annotata in ogni suo passaggio successivo nel corso di un pranzo, addì 21 gennaio 2012. Per l’occasio-ne Dugoni aveva convocato il suo grattugiatore di fiducia, il sig. Vito Papotti, persona dal tocco leggero, quasi soave.Con una manciata di sale e poca acqua pulire bene la stagnada di rame. Per kg 1,5 di riso, rigorosamente vialone nano mantovano, versare nella pentola l 1,9 di acqua. Salare poco perché poi si aggiungeranno il pesto ed il formaggio. Portare a bollore. Versare il riso in modo da formare un cono e poi ruotare la pentola con colpi secchi nei due sensi affinchè il riso si assesti. Dopo poco si formerà sulla superficie una vaporosa schiuma grigiastra che in gergo locale è detta matafra. Va tolta con un mestolo forato. Ripetere più volte quest’ultima operazione e quella della rotazione della stagnada sino a quando - dopo 6-7 minuti - l’acqua non sarà stata tutta assorbita dal riso stesso. A questo punto chiudere con un coperchio avvolto in un panno avente la funzione di raccogliere e trattenere il vapore acqueo. Sistemare su una piastra di ferro con sotto un fuoco bassissimo. Un tempo si collocava su un sostegno da focolare con sotto alcune braci ricoperte di cenere. Tenere al caldo per 15 minuti. A questo punto assaggiare la consistenza del riso cogliendone una forchettata in profondità. Se non è pronto ri-mettere il coperchio e dare ancora qualche minuto. Fare attenzione: il riso è al punto giusto quando è tutto cotto, fuori ma anche dentro, quando cioè il dente non coglie più la durezza della parte interna detta anima. Gli esperti risottari non si fidano troppo del palato e per essere sicuri - ma anche per fare un poco di “teatronico” che non guasta mai – collocano un chicco tra due unghie e poi lo schiacciano. Se all’interno non c’è una parte (l’anima) particolarmente bianca siamo a cavallo.Nel frattempo preparare il condimento ponendo il pesto (al pistùm) in una capace cas-seruola assieme ad un etto e venti grammi di burro. Non bisogna avere fretta per non perdere o compromettere il sapore delizioso. Il fuoco deve essere basso ma piuttosto prolungato. Questa operazione si definisce sbalüsàr al pist.A cottura ultimata, dopo un quarto d’ora circa, levare la stagnada dal fuoco, sgranare delicatamente con una stecca di legno, addizionare il condimento prelevato con un mestolo forato per evitare un eccesso di grassi, unire il formaggio cui sarà stato addi-zionato uno scrupolo di cannella. Si manovra delicatamente, con la stecca, in due: il docente tramena e l’altro, l’assistente di cattedra, versa. Infine tre minuti con il coper-

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chio sopra. È canonico servirlo con il mestolo forato e mangiarlo con il cucchiaio.La ricetta come si vede è molto semplice ma per un risultato tale da aspirare alla bigoncia è necessario osservare, con attenzione bizantina, tutte le raccomandazioni indicate.

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Giuliano Sgarbi - Lino Ferrari Quingentole

Nel contesto di un’indagine complessiva sui masalìn nostrani, non poteva mancare un cenno, davvero consolatore, sul lavoro di due bravi ragazzi di Quingentole. Sono assai giovani, se rapportati come età a tutti gli altri intervistati, ma sono animati da grande passione. Rinunciando alle accattivanti suggestioni della contemporaneità, fatta quasi soltanto di banalità e di divertimenti a luci psichedeliche, si sono messi da qualche tempo e con vero entusiasmo a praticare la nobile arte della maialatura. Esercitano per le loro famiglie e tutt’al più per qualche amico, non potendo dire di no a tutti ed estenuati da cordialissime insistenze. Non vanno dunque in giro “a far su”. Ma curano talmente i dettagli di ogni passaggio, stanno così attenti alla selezione delle carni, si sono talmente addentrati nelle conce e sprigionano tali entusiasmi quando affettano le loro opere - e ne riempiono i piatti - che sono ampiamente ripagati delle rinunzie. Giuliano ha cominciato negli anni ’80 con il padre Carlo. Lo seguiva come suo assi-stente e così, come tanti altri suoi colleghi-ragazzi, apprendeva i rudimenti della pro-fessione e si innamorava di quel mondo particolare, con aspetti cruenti ma anche ricco di impegno, di sacrificio, di onestà. Allora viveva a Cavezzo di Modena, area deputata a produzioni di altissimo livello. Si è sposato ed è venuto ad abitare nel mantovano, a Quingentole. Si è dato subito da fare per coltivare la sua passione. Qui infatti allarga i suoi orizzonti con le conce locali, tutto sommato abbastanza simili a quelle paterne di Carlo, ma con delle variazioni che stimolano la sua curiosità. Non segue più il padre, ma incontra il cognato Lino al quale non gli è difficile trasmettere in poco tempo lo slancio e la volontà di produrre e sperimentare per le esigenze di casa e per non perdere il gusto del buon mangiare. Nasce così un’alleanza di simpatici spiriti masalini che si trasforma ben presto nella comune intesa di mettere la mani in pasta, quella del salame ovviamente. E quando c’è la passione si entra rapidamente in possesso di tutte le sottigliezze e gli accorgimenti tecnici necessari all’arte quali i criteri di pulitura delle carni, i metodi di insaccatura, i tipi delle spezie, le proporzioni tra i vari tagli di carne, le avvedutezze per una corretta stagionatura ecc. Sono queste

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le qualità che fanno grande ed apprezzabile un lavoro. La successione delle varie operazioni è la stessa di tutti i masalìn mantovani, che essi seguono accuratamente in ogni fase: uccisione del maiale, pulitura, divisione nelle mezzene, selezione delle carni, macinatura di quelle destinate ai salami ed ai cotechi-ni, aromatizzazione, legatura e loro compiaciuta distribuzione in sli perghi dal balda-chìn. Accuratezza e competenza sono coscienziosamente sottese ad ogni passaggio.Sottolineo il fatto che intervengono con dolcezza sull’animale, lo stordiscono con la pistola in modo che non avverta alcun dolore. Una curiosità: il sangue lo donano ad un amico che ne ricava la componente principale per sapide frittate. La sera del sacrifico, come tradizione comanda, cena con gli amici. I quali sono sem-pre ben attenti a ringraziare e lodare per non compromettere inviti futuri. Ma non dicono falsità: il risotto e la fritüra sono eccellenti. Dolcetto finale e vino del brolo del Priore.

CONCE

Salame

- Sale 2,2 %- Pepe 0,25 %- Aglio 0,3 % macinato finemente- Nitrato di potassio un pizzico (precisamente:5 gr per 100 kg di impasto)

Cotechino

- Sale 2,8 %- Pepe 0,3 % macinato finemente- Spezie (noce moscata, cannella chiodi di garofano, finocchio coriandolo) 0,5 %- Nitrato di potassio un pizzico (vedi sopra)

Coppe e pancette

- Sale 3 %- Pepe 0,3 %- Aglio Alcuni spicchi macinati finemente.- Cannella e chiodi di garofano tritati 0,01 % (in parti uguali)

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RICETTE

Risòt dal gugét

Il piatto veniva servito alla sera nella cena con gli amici.In un tegame cuocere l’impasto fresco del salame con vino bianco ed un rametto di rosmarino. In una pentola cuocere riso vialone nano mantovano nel brodo fatto con le ossa e verso la fine addizionare il condimento ed una noce di burro. A cottura quasi ultimata spegnere la fiamma, unire una generosa spolverata di parmigiano. Tramenare il tutto delicatamente, coprire e lasciar riposare qualche minuto prima di servire ben caldo con altro formaggio a parte. Dosi per 5 persone: mezzo chilo di riso, mezzo chilo di impasto o poco meno, mezzo bicchiere di vino bianco, un rametto di rosmarino, una noce di burro e grana padano grattugiato a mano q. b.

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Mario Buttarelli Rivarolo Mantovano

Suono alla porta e viene ad aprirmi lui stesso. Corporatura importante e sorriso aperto. Settant’anni, mente vivace ed aperta.Con lo stile semplice ma pieno di attenzione e cordialità, proprio della campagna, mi fa accomodare nella sala da pranzo. Dopo i primi convenevoli di rito, avverto che gli fa un grande piacere parlare della sua professione invernale che gli dà modo di espri-mere una vocazione naturale per la maialatura alla quale non era estranea, tuttavia, l’intima soddisfazione della certezza del cibo. Proviene da una famiglia di contadini e lui stesso è stato sempre impegnato nel lavoro dei campi. Ha cominciato ad interessarsi alla maialatura verso i 12 - 13 anni anni. Quello era un giorno meraviglioso. Era in piedi presto, come tutti gli altri peraltro, e si dava da fare per aiutare nelle varie incombenze. Stava male solamente al momento della mattazione. Si incupiva, si dispiaceva. Capiva che era un passaggio obbligato ma non riusciva a trattenere la sua ansia e la sua paura.Seguiva ogni tanto lo zio Elia Menozzi, muratore, che d’inverno faceva il masalèr per sbarcare il lunario come tanti altri. A 16 anni gli chiede se poteva essere il suo assi-stente abituale per imparare il mestiere ma quello gli risponde che non può in quanto già in parole con altro giovane. Si rivolge allora ad un certo Luigi Orlandi detto Bigi il quale, avendo saputo delle sue qualità, è ben lieto di metterlo alla prova. Va con lui quasi ogni giorno dell’invernata in tutte le case dove era richiesto. Esegue gli ordini senza lasciarsi sfuggire nulla di quanto fa. È un allievo decisamente sveglio e quindi guarda, lavora ed impara. Ha una difficoltà iniziale: teme di non riuscire a tagliare correttamente in due al nimàl, ha paura di sbagliare e la prima volta, con la sola assistenza del suo maestro, chiede a tutti gli altri di allontanarsi. Il taglio è perfetto.Bigi gli vuole bene, lo apprezza, lo perfeziona, gli insegna infine la sottile arte della composizione delle conce e le loro proporzioni nei vari insaccati, per cui a soli 18 anni si sente masalèr a pieno titolo. Può assumersi delle responsabilità.La prima famiglia che lo ha ingaggiato è stata quella del sig. Mario Gandolfi il quale

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- mi riporta con orgoglio il mio norcino - ha detto “Quest’anno voglio il risulèn”. Ri-sulèn è la forma dialettale di “ricciolino”. È conosciuto con questo soprannome che gli derivava (ma c’è ancora qualche traccia) da una capigliatura indomabile e sbarazzina.Per uccidere il maiale usava una procedura che da sola la dice lunga sulle sue qualità professionali. Entrava nel porcile assieme al proprietario dell’animale per non ren-derlo nervoso. Dentro nello stabbiolo lui prendeva la gamba davanti ed il proprietario quella dietro dallo stesso lato del corpo. Ad un segnale convenuto ribaltavano la bestia su un fianco ed il nostro gli conficcava all’altezza del cuore al curadòr, un apposito tondino di ferro con una estremità ridotta a punta schiacciata ed arrotata. Era un lam-po.Il maiale veniva portato fuori, lavato grossolanamente con acqua fredda, privato delle setole con acqua calda ma non bollente versata sulla cute e poi raschiata con delle raspette ricavate quasi sempre dai vecchi ferri usati per segare il fieno. Il sangue era subito raccolto.Per issarlo mettevano una piana di legno appoggiata a due muri di sostegno. Attorno a questa passavano due ligàm (catene che tenevano le vacche fisse al muro della stalla) e si fissavano a questi ligàm un paio di sidèli (carrucole) che agganciavano, tramite appositi uncini, il nervo dei piedi. Veniva tirato su e lo si apriva dal davanti. Poi c’era la consueta trafila del ripasso delle setole, della estrazione e della pulitura dei budelli, della asportazione delle interiora (fegato, polmoni, cuore, rognoni ecc.). Tagliato successivamente lungo la spina dorsale si ottenevano le due mezzene che ve-nivano portate in casa. Solamente a questo punto c’era la consueta sosta di metà mat-tina per la colazione con la fritüra e la polenta fresca approntata dalla cuoca di casa. Mario sovraintendeva alla pulitura dei budelli ed alla loro cucitura fatta dalle donne. Tagliava i pezzi secondo le loro destinazioni e li disossava lui stesso per essere certo che non vi si lasciasse troppa carne attaccata. Assegnava agli aiutanti della famiglia il solo compito di passare le varie carni ala machina. Le parti tritate venivano poste sul banc cioè un asse di notevoli dimensioni con tre sponde: due piuttosto piccole alle estremità ed una più alta lungo il lato maggiore. Questi rialzi servivano per contenere meglio le diverse paste (per salami, per cotechi-ni ecc,) evitando che trabordassero. Il banc era di proprietà del masalèr e le famiglie venivano a prenderlo il giorno prima, con un carretto o altro, a casa sua, assieme alla “misa” altra denominazione della mesèta, la grande conca rettangolare di legno, con tara incisa a fuoco, dove si mettevano l’impasto dei salami e dei cotechini. Ha sentito parlare della pistàsa. Ricorda che quando era giovane c’era un vecchio masalèr che usava ancora questa antica tecnica di tritare le carni con delle mannarine per mia snervàr la càran.Oggi non vuole aiutanti. I giovani sono inaffidabili. Cresciuti nel benessere e nelle comodità, hanno paura del sangue per cui lavora da solo con l’aiuto di qualcuno del-la famiglia. Ammette però che - uso la sua espressione – “uccidere maiali in serie è massacrante”. Fa una distinzione sottile e saliente: c’è chi esercita per necessità e chi

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vi aggiunge anche la passione. È solamente quest’ultimo che si affermerà nel tempo e resisterà più degli altri al doloroso declino della professione. Capisco che appartiene all’area più nobile della sua partizione quando mi informa che fa salami, pancette, coppe, cotechini, culatelli, fiocchetti, lonze insaccate ed altre sublimità di cui non ricordo il nome. Ogni due o tre anni esperimenta qualche nuovo salume. Tritate tutte le varie carni, preparate le pancette, le coppe, l’impasto dei cotechini ecc., insacca con la attenzione dovuta a questo passaggio, che è all’apparenza insignifican-te, ma, in realtà, pieno di insidie. L’impasto deve riuscire di distribuzione omogenea nel budello soprattutto senza vuoti interni con ristagno di aria che non sempre fuorie-sce anche con una accurata foratura finale.Parliamo dei salami. Il salame - altra sua sentenza apodittica - è “carne morta ma cor-po vivo”. Nel tempo infatti si trasforma, cambia nella forma e migliora nel gusto. È insomma un corpo vivente che penzola ma non fa paura. Anzi ! Ogni muffa è da togliere. Anche la prima, quella verde. Se prende il lidghèn (specie di morchia superficiale, appiccicaticcia) non c’è molto da fare. Quindi bisogna stare sempre molto attenti. La cantina ideale dovrebbe soddisfare questi parametri suggeriti dall’esperienza: essere un poco sotto terra cioè con tre gradini per arrivare al piano, situata a tramontana dove non batte il sole, che abbia la possibilità di un giro d’aria (da regolare in base all’andamento della stagionatura) e un pavimento non di terra battuta, come pretendono tanti, ma di mattoni di terra cotta semplicemente accostati (non cementati dunque).Per una notte i salami appena fatti sostavano in una stanza con la stufa al calor mi-nimo affinchè si asciugassero. Questa stanza doveva avere accesso (una porta) ad un’altra vicina, ma senza stufa, che riceveva un po’ di caldo dalla prima. Il giorno suc-cessivo si trasferivano in quest’ultima, un poco più fresca, per completare il processo. Poi venivano sistemati in cantina. Cotechini fatti senza vantrasèl (stomaco), polmone, milza. Una volta allungavano con questa roba.A questo punto, dopo oltre un’ora di conversazione piacevolissima e coinvolgente, la moglie porta un Ortrugo (bianco frizzante) da togliersi il cappello. Siamo alla fine. Dopo le conce gli chiedo se ha qualche sua ricetta. Mi guarda sorridendo: no, non è un produttore diretto di amenità palatali, è soltanto un consumatore diretto. Contra-riamente ad altri colleghi, accettava gli ingaggi sempre “a condizione”. A condizione cioè che non dovesse trattenersi per la cena perché ormai al ris cun le verze e al rost gli ripugnavano. Mi fa vedere il posteggio delle sue creature: fresco, ben disposto, gratificante, sostan-zioso. Un sancta santorum soffuso di amore e di rispetto.Gli chiedo direttamente perché lo chiamano risulèn. Perchè aveva i ricci, ovviamen-te. Noto, sorridendo, che doveva essere bello. Lui sorride ed aggiunge, un tantinello sconsolato, “’na volta”. Ma la moglie che gli è accanto esce con una frase e con un tono che valgono molto più delle nostre parole: “L’è bèl ancora adès”.

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Vi ho rinvenuto, intatto, l’amore sincero ed affettuoso delle nostre donne di campa-gna, devote al proprio uomo, attaccate a lui da rispetto e fedeltà. Oggi è poesia allo stato purissimo.

CONCE

Salame

- Sale 21 % (una volta anche il 35 % - mettere una virgola tra la prima e la seconda cifra)- Spezie miste un etto per q di impasto- Pepe come le spezie, un etto per q di impasto - Salnitro una bustina e mezzo per q.le di impasto (circa 20 g)

Cotechino Stessa concia nelle stesse proporzioni del salame

Coppa Messa in un contenitore e condita ad occhio con sale, pepe e spezie. Va rigirata due volte al giorno. Torna nella famiglia per confezionarla ed insaccarla dopo 5 - 6 giorni.

RICETTE

Cena della sera

Riso e verze con il pestoOssa bolliteAl rost (lonza al forno)Bisulàn pucià in dal vin biancTurta düra con la grappa

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Giancarlo Chittolini Rivarolo Mantovano

Ha iniziato come tanti in giovanissima età, 15 - 16 anni. Aiutava un masalìn di grande fama locale, tal Marino Cauzzi detto Màru. Andava a casa sua in Vespa, una delle prime serie di questo famoso veicolo, rischiando parecchio sulle stradine di campagna tormentate dalla neve e dal ghiaccio. Attraversa con lui tutte le varie fasi della maialatura. Sono le stesse, rituali, della co-munità e dei dintorni ma con alcune variazioni molto interessanti. Compera da vari anni i budelli da una vecchia e seria ditta specializzata per non coinvolgere le donne di casa in un’operazione fastidiosa e per certi aspetti non più proponibile per cui quando arrivava il giorno prefissato, gli uomini e le donne della famiglia hanno già approntato tutto quanto occorre.Ricorda che al mattino presto, molto presto perché il lavoro si protraeva normalmente sino a tarda sera, iniziavano le operazioni. Se il porcile lo consentiva lui ed uno della famiglia andavano dentro e spingevano fuori al nimàl altrimenti cercavano di farlo uscire da solo, tranquillamente, senza creare situazioni che potessero metterlo sul-la difensiva, magari mettendogli davanti qualcosa che potesse allettare la sua fame. Quando tutto era calmo e tranquillo, in due prendevano la bestia per le gambe da uno stesso lato, la ribaltavano coricandolo su un fianco e Giancarlo la accorava con lo strumento fatto da un tondino di ferro terminante a freccia. Il sangue - dai tre ai cinque litri circa - si raccoglieva immediatamente tagliando le vene giugulari. L’animale, ormai privo di vita, si lavava sommariamente, come al solito, con alcune secchiate d’acqua fredda per togliere lo sporco superficiale e suc-cessivamente sbollentato con acqua calda per levare le setole e per una pulizia più accurata. Quindi lo issava nella necessaria posizione verticale con un sistema davvero curioso e del tutto particolare. Si legavano i capi di una grossa corda, ad una certa distanza uno dall’altro, ad un trave posto in alto. La corda veniva girata attorno ad un robusto paletto rotondo con un buco nel mezzo dentro al quale si infilava un piolo così da formare una specie di verricello a due bracci. Le zampe posteriori venivano legate al paletto per cui, girando il piolo la corda si avvolgeva attorno al paletto e via via

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alzava l’animale. Confesso che ho dovuto farmi illustrare con un disegno il semplice ma ingegnoso impianto dentro il quale mi è parso di cogliere, lo scrivo sorridendo, l’intelligenza pratica di Leonardo. Con una mannarina dal lungo manico di legno - attrezzo storico nell’ambito della maialatura mantovana - la bestia veniva sc-iapada in due ed i mezzi erano poi portati in casa e messi sul banc, ampio asse di legno con delle sponde di circa 4-5 cm ai lati e di 15 sul fronte. La tradizionale fritüra con la polenta fresca consentiva di rifocillarsi ma anche di fare due chiacchiere sull’evento. Il vino dava subito un tono di allegria.Non si stava molto a tavola perché c’era da fare e fare bene. Lui individuava i pezzi adatti per ricavarne salami, cotechini, pancette, coppe ecc. Poi c’era la macinatura delle carni che venivano poste nella misa, pronte per la insaccatura. Dopo questa, momento assai delicato, tutto veniva opportunamente legato con spago di qualità che andava dall’alto al basso e tutt’attorno al capo. Per togliere eventuali sacche d’aria che avrebbero compromesso la stagionatura facendo marcire dall’interno, si forava con la furèla, una sorta di timbro con lunghi aghi appuntiti. A suo parere il salame riesce tanto meglio quanto più - entro certi limiti, si intende - la grana è grossa. A questo proposito ricorda benissimo un norcino locale che tritava usando delle mezzelune. Ne aveva tre, di varia misura per il primo, il secondo ed il terzo passaggio. La machina da masnàr esiste in modelli più o meno lunghi, lui preferisce usare quella corta, così la carne non si riscalda. Il masalèr veniva scelto in base alla fiducia anca se la roba l’andava da mal (anche se andava a male), precisa la moglie che assiste incuriosita al nostro dialogo ed insiste perché beva un bicchierotto del suo limoncino. Poi si metteva il tutto appeso al baldachèn e qui finiva la respon-sabilità del masalèr.Sa fare salami normali, con la lingua e con il filetto, coppe, pancette, culatello, co-techino, fiocchetto, lonza insaccata. Mi confessa che uccide il maiale senza provare sensi di colpa. I quali affiorano invece e gli impediscono l’operazione, caso davvero curioso, se si tratta di vitelli, capretti, agnelli, volatili ecc. La cena serale, quella che vedeva per una volta riuniti attorno alla tavola parenti pros-simi ed amici, consisteva in ris cun le verşe e pasta di salame, ossa bollite per 4 ore senza sconti, lonza arrosto e busulàn. Vino nuovo.

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CONCE

Salame

- Sale a mezza grana: 2 %- Aglio: due capi per quintale Gli spicchi vanno mondati, privati dell’anima interna e poi ridotti in poltiglia nel mortaio- Spezie: tre belle pizzicate per quintale. Le spezie sono acquistate ancora oggi in bustina da una vecchia ditta.- pepe 0,2 %- Vino rosso corposo: una bottiglia- Noce moscata e chiodi di garofano ridotti in polvere: due pizzicate- Salnitro: g 15-20 per quintale.

Pancetta

Come per il salame ma senza l’aglio. Tenere in una bacinella con il suo condimento per un giorno. Rigirare ogni tanto.

Cotechino

Come la pancetta, con sale a mezza grana.

Lombo insaccato

Va posto su un asse (in sal banc) e cosparso dappertutto di condimento come quello della pancetta. Poi lo si colloca per 4-5 giorni in una vaschetta dove perde il liquido in eccesso. Va rigirato varie volte. Si insacca e si lega al quinto giorno. In sei mesi è pronto. Va tagliato finemente.

RICETTE

Lonza arrosto (veniva servita la sera della maialatura)

Aprire il lombo a libro. In una terrina mettere pasta di salame, pane grattugiato, for-maggio grana grattugiato, 2 uova intere, un poco di latte, 50 g di prosciutto cotto, un bel goccio di vino bianco, sale ed amalgamare bene il tutto. Fare dei tagli longitudinali nella carne e farcire inserendo il miscuglio. Chiudere la lonza, legarla ben stretta e co-

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spargere la superficie di sale e pepe. Collocare in un tegame con latte freddo e cuocere a fiamma bassa. Occorrono almeno due ore. Verso la fine aggiungere ancora un poco di vino bianco secco. Levare la corda, affettare e servire.

Torta di sangue (il termine torta oggi è improprio. Nella presenza dello zucchero, ingrediente da signori, trovo una lontana eco della cucina nobiliare del ‘500).

Ingredienti:

- sangue di maiale (1 l circa)- una bella cipolla- 1 cucchiaio da cucina di zucchero- 1 bicchiere di brodo vegetale- sale q. b.

Friggere la cipolla in una pentola con della reticella, aggiungere il sangue di maiale, il brodo vegetale e lo zucchero. Far andare il tutto a fiamma bassa finché il sangue risulta cotto. Salare a piacere.

Ris dal nimàl

Era il risotto che veniva servito la sera a parenti ed amici.

Ingredienti:

- 500 g riso Arborio- 500 g di verza tagliata finemente- pesto di maiale a piacere - olio q. b.- brodo di ossa di maiale

Soffriggere la verza in una pentola con un fondo di olio, aggiungere tre mestoli circa di brodo di ossa di maiale, far bollire finché la verza risulti semicotta. Aggiungere il pesto e fare andare a fiamma allegra per qualche minuto. Versare il riso, farlo tostare un poco e quindi addizionare via via mestoli di brodo sino a cottura, rigirando ogni tanto in modo che non si attacchi al fondo. A cottura quasi ultimata dare sapore con una bella manciata di grana padano grattugiato cun la grataröla. Coprire, attendere un poco e servire. Alla fine deve risultare un riso molto morbido, non asciutto, tendente al brodoso.

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Vado sul posto accompagnato dall’amico dott. Alberto Guidorzi, membro autorevole della antica aristocrazia contadina locale in quanto il nonno era un grande possidente terriero. I suoi studi di agronomia lo hanno portato ad acquisire una cultura specifica di rango elevato e temprare ed avvalorare una passione istintiva e devota per la vita rusticale. Mi racconta che un tempo quasi tutta la campagna sermidese apparteneva alla fami-glia Gonzaga che poi l’ha ceduta - si parla, si badi, di migliaia e migliaia di biolche di terra - ad ebrei mantovani. Noto una quasi totale mancanza di alberi e gli chiedo se è dovuta ad un terreno ricco di sale in profondità. Rinvengo nella mia memoria il fatto che in quelle terre migliaia di anni fa c’era il mare. Mi conferma l’ipotesi. È certamen-te così, come risulta anche da uno studio di carattere universitario redatto dal figlio dott. Simone, ma c’è di mezzo soprattutto la attuale coltura del melone che ha bisogno di terreni privi di ostacoli in superficie così da rendere più agevole e vantaggioso il lavoro delle macchine. Entriamo nella proprietà del sig. Nadalini. La dimora dove vive è in stile moderno, posta sul fronte di una corte di campagna con un albero in mezzo e tutto attorno le di-verse costruzioni rurali. Rolando ci viene incontro sorridendo e, dopo i cordiali saluti di rito, mi indica un rustico posto sul lato sinistro dell’accesso. Mi dice che quella è la casa dove è nato Mons. Penitenti. Resto impressionato dalla sua semplictà, dalla sua modestia al limite dell’indigenza anche se rapportata ad un secolo fa, quando le abitazioni erano tutte assai povere. Mons. Giulio Penitenti è stato una figura religiosa di assoluto rilievo nella nostra diocesi e successivamente nella curia romana. Nato nel gennaio del 1912, fu ordinato sacerdote nel 1936. Si era fatto amare da tutti per la sua bontà e per la determinazione nel fondare comunità religiose volte all’apostolato. Tra queste la “Pia Società Sa-cerdotale Laicale” per l’unità dei cristiani. Era conosciuto ed assai stimato dal card. Tisserant.Siamo ora nella abitazione del nostro ospite. Questi ha cominciato in età giovanissi-

Rolando Nadalini Sermide

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ma - stigmate sicure della passione - ad interessarsi alla maialatura familiare. Il padre aveva ben sette fratelli che svolgevano lavori diversi. Uno di loro faceva il macellaio. Era dunque questo zio che veniva a lavorare al porc verso la fine di gennaio di ogni anno. Veniva da solo, senza garzoni, perchè nella casa gli aiutanti non mancavano. Durante la amabilissima ed appassionata conversazione, raccolgo una curiosità, ben definita nelle sue connotazioni sociologiche dal dott. Guidorzi. Nella zona non erano rari i vasti possedimenti terrieri acquisiti dagli ebrei. In ogni importante famiglia c’era dunque il padre, titolare dell’azienda, ma anche un figlio demandato alla cura degli interessi della proprietà. Era denominato e conosciuto come al didìn. Talvolta c’era anche una figlia solitamente non sposata che, a mo’ di compensazione, governava l’andamento della casa sia pure sotto la signorìa indefettibile della rasdora. Questa figlia era la déda, una sorta di segretaria della azienda stessa con compiti di cura degli interessi secondari.La sera prima al gugét era tenuto senza cibo sia per liberarlo in una qualche misura dalla massa fecale e sia per averlo sollecito, il giorno successivo, verso quel poco di farina che gli si metteva davanti per farlo uscire dal porcile. Gli si legava una gamba per non doverlo rincorrere per i campi se qualcosa non fosse andata per il verso giu-sto. Poi, al masalàr davanti ed un aiutante dietro, gli prendevano le gambe sinistre e, ad una voce, lo rovesciavano sul fianco destro. Il maestro lo corava (lo accorava), gli infiggeva cioè al curadòr nel cuore. Se il cuore non era raggiunto al primo colpo si obliquava il ferro e lo si rigirava nella ferita più volte per attingerlo.Rolando si ricorda che lo zio poneva l’attrezzo sul punto giusto e rivolto al ragazzo diceva “cücia” (spingi). Lui eseguiva l’ordine. Mi preme fare osservare che questa pratica non era assolutamente una manifestazione di sadismo, una specie di gioco crudele e volgare, ma l’insegnamento pratico ad essere pronti, nella vita, ad affrontare situazioni anche difficili e ripugnanti per il bene superiore della famiglia e dei figli. La pratica oggi è assolutamente diversa: si mette tra i denti ed il naso un cavetto di filo di ferro (al müsét) che lo tiene fermo mentre gli si appoggia la apposita pistola sulla fron-te la quale, per effetto di una cartuccia esplosiva, spara un chiodo che lo tramortisce.Appena morto, al porc è lavato sommariamente con un getto di acqua fredda, collo-cato poi nella peladòra, una sorta di grande bacile di legno, e sbollentato con acqua molto calda. La peladòra ha il vantaggio di tenere tutta la cotica al caldo senza che si raffreddi in breve tempo. Si pelava l’animale. Gli si fissavano le gambe dietro con due uncini che giravano attorno al nervo dei piedi e, mediante le solite carrucole, lo si issava appeso ad una piana. Lo si apriva dalla parte anteriore, si levavano le budella che venivano lavate e rilavate dal masalàr e poi cucite ai lati (i fet) e sul fondo dalle donne. Si prelevava il sangue che si raccoglieva nella parte inferiore del petto. Verso mezzogiorno la prima parte della lavorazione dal gugét era terminata. I lavo-ranti se ne andavano e si ritrovavano alla sera per la cena con la fritüra. Questa sosta è una specificità locale, difficilmente riscontrabile nell’ambito abituale della maialatura mantovana. Essa aveva sia lo scopo di consentire ai lavoranti, quasi tutti contadini,

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di non abbandonare per troppo tempo gli impegni nelle stalle e nei campi, ma anche quello di far raffreddare le carni per averle più favorevoli alle varie lavorazioni il giorno successivo.Le mezzene restavano al freddo e solamente al calare della luce venivano portate nella camaràsa (in italiano la “cameraccia”). Le donne intanto si davano da fare per approntare la cena, semplicissima e coinvolgente allo stesso tempo, che consisteva so-stanzialmente in generose porzioni di fritüra accompagnata da vaste fette di polenta. Vino lambrusco novello in proporzioni coraggiose, ancora un poco torbidino, appena spillato dalla botte. Vi partecipavano soltanto i familiari e coloro che si erano impe-gnati al mattino. Non erano previste regalìe agli ottimati del paese. Il giorno dopo, con le carni fredde e quindi più rispondenti alla azione dei coltelli, si sezionavano i due mezzi, si ripartivano le carni secondo le destinazioni per salami e cotechini. Si riducevano a strisce e poi si passavano alla macchina attraverso piastre di varie misure secondo l’arte del maestro. La machina era azionata a mano. Chiedo all’informatore se ha mai sentito di una triturazione delle carni in modo diverso. Sì, ma andiamo indietro come ultimo ricordo a prima o subito dopo la seconda guerra mondiale. Rammenta che c’erano norcini che mettevano le strisce su un asse piuttosto spesso e poi le riducevano in minuzzoli cun al falsòn (la mannarina). A suo parere il risultato finale, al palato, era certamente di livello superiore perché le carni non erano tormentate dal verme della macchina. Le coppe e le pancette venivano rifilate e preparate per essere immesse nel budello. A questo punto il masalàr approntava le conce. La descrizione, tra il serio ed il faceto, ha un alcunchè di medioevale che mi riporta di plinco al tempo dei maghi e delle fattucchiere.Ho assitito anch’io, da giovanissimo, a questa fase. Era un momento topico. I norcini dovevano fare dei calcoli per adattare le proporzioni personali, ben fisse nella loro mente, al peso degli impasti della giornata ed a quello dei pezzi da preparare a parte. Il masalàr non aveva dimestichezza con la matematica, era ancora fermo allo “zero via zero forma zero” (tabellina ottocentesca) e gli era piuttosto difficile districarsi. Inizia-va allora un borbottìo molto simile - il Signore non me ne voglia per l’accostamento sacrilego - a quello del sacerdote, fra sé e sé, a bassa voce, prima di un atto liturgico fondamentale, sempre udito ma mai compreso completamente dai fedeli. Dopo una lunga biascicata le proporzioni erano raggiunte ed applicate. La varietà dei prodotti non era molto ampia: salami, cotechini, coppe, pancette e grasòli (ciccioli). L’unto appena fatto veniva raccolto in pentole at preda, di terracot-ta. Siccome ai primi caldi della primavera tendeva ad irrancidire, il mio informatore mi precisa sorridendo che prelevandolo sistematicamente da sopra, erano costretti a mangiarlo sempre rancido. I quadrotti di lardo si cospargevano con del sale grosso. In caso di indifferibile necessità si raschiava la falda appesa ad un trave per levare un poco di grasso dalla parte superiore, quel tanto che bastava par metaràl in sla pulenta rustìda (per collocarlo sulla polenta abbrustolita).

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La sera si faceva la grande cena canonica con familiari, amici, parenti, il prete. Il menù era di stretta osservanza e seguiva una tradizione consolidata: macarùn (conditi con pesto, cipolla e pomodoro), brasöli (braciole, in tegame o sulle braci), filetto, busulàn (bussolano, dolce tipico della provincia virgiliana). Vino ‘d bòta, di tipo lambrusco, piuttosto allappante, di rango palatale quindi non elevato ma riscattato da una vigorosa schiettezza. Un secolo fa lo si beveva cun la scüdèla (con una scodella di terraglia). Intanto che c’è, il dott. Guidorzi mi confida una pratica di suo padre. Metteva sempre aglio e vino rosso corposo nella carne macinata dei salami, ma usava un espediente: l’aglio tagliato fino lo metteva in un tovagliolo forgiato a sacchetto, poi vi versava dentro il vino e strizzava il tutto sull’impasto della carne macinata in modo che i sapori fossero meglio distribuiti. Alla fine - ecco la sostanziosa particolarità - ciò che rimaneva dell’aglio lo spargeva anch’esso sul trito e con le dita lo incorporava.

CONCE Salame

- Sale 33 % (una volta)- Pepe 0,3 %- Aglio (mondato e ridotto a pezzetti) 2 etti per q di impasto.- Vino niente- Salnitro no, no e poi no.

Pancetta

- Sale (ad occhio, ma in quantità approssimativamente quanto la percentuale che va nel salame)- Pepe (ad occhio)- Cannella (ad occhio), in polvere, macinata al momento.

Coppa

Sale, pepe, chiodi di garofano macinati al momento (tutto ad occhio)

Cotechino

Sale, pepe, noce moscata (tutto ad occhio)

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Adriano Luppi Carbonara di Po

Il sig. Luppi proviene da una scuola di alta formazione masalina. Il padre Oreste in-fatti è stato masalèr per sessant’anni, sempre assai apprezzato dalla comunità per la sua valentìa. Oggi è vicino ai 90. È stato molto attivo sino alla fine del secolo scorso poi, negli ultimi tempi, venendogli lentamente a mancare le forze fisiche, si è ritrat-to via via dalla pratica manuale senza mai rinunciare tuttavia a guardare, precisare, intervenire nei passaggi più delicati e difficili, consigliare e qualche volta correggere l’operato del figlio. Ora ascolta la mia intervista con molto interesse.Ultimamente dava una mano ad Adriano solamente per legare i salami. Partecipa-va come poteva insomma per sentirsi ancora attivo ma anche per non abbandonare l’interesse che lo aveva animato per tanti anni. Si tenga conto che non essere di peso alla famiglia ed esserle utile in qualche modo, è un impulso forte e nobilissimo nella nostra concezione del lavoro e dei rapporti interni alla casa mantovana. Farsi servire perché impossibilitato, era avvertito, nella socialità di una volta, come una condizione umiliante, come menomazione avvilente per chi aveva lavorato per tutta la vita. Con il masalèr Adriano, prima del colloquio, come dire, di carattere tecnico, ci scam-biamo qualche pensiero sulla realtà di oggi rapportata a quella di una volta. Concor-diamo sul fatto che il nostro piccolo mondo antico, ricco di valori umani e religiosi, è stato stravolto da comportamenti diffusi e quasi tollerati improntati a violenza, diso-nestà, furbizia, agnosticismo, insicurezza per le persone e le cose. Trovo un’immedia-ta, sincera, partecipata adesione. Entriamo in una saletta delle scuole. È con noi l’amico Carlo Roncada, bancario in pensione e quindi attivamente dedito, secondo un consolidato dovere comunitario, assai avvertito nei piccoli paesi mantovani, alle locali attività di volontariato. Molti anni fa il padre di Adriano lavorava il maiale per la sua famiglia e per un ristret-to numero di amici ai quali non poteva assolutanente dire di no. Era conosciuto per la meticolosità che poneva in ogni operazione per cui le richieste di ingaggio erano parecchie. Lui lavorava non più di una quarantina di maiali all’anno. Il figlio era ovviamente il suo aiutante di fiducia anche perché Oreste aveva capito che oltre alla

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stoffa che dimostrava sul campo e che manifestava con una sempre più convincente manualità, era pervaso anche dall’amore per il mestiere. Adriano, a 25 anni, per sod-disfare le richieste, comincia ad andare da solo, aiutato dallo zio, dal fratello e talvolta ancora dal padre.Al momento della uccisione lui entrava nel porcile assieme ad un membro della fami-glia in modo da mantenere tranquillo l’animale. Mi dice che la cosa è fondamentale perché se si innervosisce è facile che nel giro di poco tempo, una mezz’ora all’incirca, gli venga la febbre con la compromissione immediata e totale della qualità delle carni. Una volta tirato fuori e posto nella massima calma possibile, veniva velocemente ab-brancato per le zampe di un lato, ribaltato sull’altro fianco e accorato con lo strumento che ancora usa: una baionetta affilatissima risalente alla guerra del 15-18. Mi precisa, è una curiosità, che tali lame erano di un acciaio tanto buono e compatto da rendere addirittura difficile la loro molatura. Siamo al dunque. Occorre il presente storico. Il maiale viene lavato alla svelta e posto su un asse. A questo punto, dato che le cotiche per età e razza della bestia sono un poco diverse, su una parte della pelle il nostro versa acqua più o meno bollente sino a trovare il giusto calore per l’estirpazione delle setole. Quando individua tale rapporto ottimale dà ordine ai suoi aiutanti di proseguire rapidamente nella operazione. Prima testa e schiena poi le altre parti. Dopo toglie le unghie con un apposito ferretto. Issato il maiale sui sostegni per tenerlo verticale, rifinisce la pulizia delle setole cun al curtèl da pél (con il coltello da pelo) così affilato ed importante che non si usava per altre lavorazioni. Per levare le interiora, apre al gugèt dalla parte dello sterno. Il san-gue scende verso il basso e la rasdora lo raccoglie in una bacinella. È già coagulato e forma dei grumi particolari detti péni (penne).La rasdora portava in casa il sangue, la raidèla (reticella), i polmoni, le ghiandole, il cervello, cuore, fegato, rognoni ecc. Con alcune di queste frattaglie cuoceva la fritüra, sublimazione del quinto quarto, che veniva servita, a metà mattina, a lavoranti ed altri familiari accompagnata con una bella polenta fresca solare. I budelli erano lavati accuratamente dagli uomini con vino, aceto ed aglio. Stavano in questo liquido disinfettante, caro alla empirica farmacopea contadina, per un paio d’o-re quindi venivano strizzati, rivoltati, puliti da eventuali residui, dimensionati secondo la bisogna e passati alle donne per la cucitura dei lati e del fondo. Poi si consegnavano al masalèr per l’insaccatura.Terminata la colazione si sezionavano con attenzione le parti da utilizzare e si suddi-videvano secondo la loro destinazione: salami, cotechini, coppe, pancette e grépule. Distribuiva le operazioni ai vari aiutanti di giornata ma poi lui ripassava il tutto per es-sere ben certo della precisione del lavoro fatto. Le carni destinate a salami e cotechini, ben distinte ovviamente, erano macinate con la machina di salàm fissata all’apposita asse con le sponde per tenere tutto ben raccolto. Usa ancora oggi un tritacarne azio-nato manualmente perché consente di graduare meglio la immissione delle parti da ridurre. Salami e cotechini vengono insaccati e punzecchiati in profondità con al furòt

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per agevolare la fuoriuscita dell’aria interna. Queste eccellenze palatali unitamente a coppe e pancette, si appendevano alle pertiche (le pèrghe di salàm) e portate in una stanza tiepida per l’asciugatura, passaggio molto importante per il loro buon esito finale. Stavano lì, oggetto di ammirazione e di quotidiano desiderio collettivo, per qualche giorno e poi si sistemavano in cantina.La séra dal porc c’era la grande cena alla quale partecipavano i lavoranti, i familiari, amici e parenti stretti. Si invitavano anche il prete, il direttore di banca ed il dottore. Il menù era per tradizione antica ed imprescindibile, costituito da risotto fatto con l’im-pasto fresco del salame e brodo di gallina vecchia, portato in tavola molto morbido, braciole della lombata cotte in teglia o, secondo consuetudine familiare, sulle braci del focolare, formaggio grana (Carlo precisa: sémpar, sempre), verdure di contorno e busulàn. Vino nuovo in proporzioni liberali. Mi sposto a casa di Adriano dove incontro il patriarca Oreste. È un vegliardo dalla lin-gua arguta, pieno di memorie. Ripercorro con lui i tempi della mia infanzia nei quali trova posto anche qualche ricordo curioso. Mi parla di un prete di campagna, estroso, raccoglitore di anticaglie da brocante, sempre disposto alla questua assillante. Ne ri-porta i principi ai quali si ispirava: “sat ghè prüdensa at vè a cà sensa, sat tsè sfacià at vè a cà cargà” (Se sei prudente non porti a casa niente, se sei sfacciato torni caricato). È presente il fratello di Adriano, il sig. Paolo Luppi. Lavora come norcino presso una ditta di Santa Croce di Sermide. Ne tesse gli elogi a riprova che ci sono produttori su vasta scala assai attenti alla qualità. Mi informa che tra le loro specialità si distingue la sopressata di testa - salume che conosco bene, tipico dell’area emiliana, caposaldo anch’esso del quinto quarto - che viene prodotto per tutto il tempo dell’anno.

CONCE

Salame

- Sale 3 kg per q di impasto (ora siamo sui 2,2 – 2,3)- Pepe 2,2 etti per q- Aglio (ben mondato e tritatissimo) 2,2 etti per q- Salnitro niente- Vino rosso niente

Cotechino

- Sale 3 %- Pepe 0,25 % - Noce moscata un poco, ad occhio

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Aglio qualche spicchio Vino bianco qualche bicchierotto

Pancetta

- Sale ad occhio (poco più del salame)- Pepe poco- Cannella una pizzicataSi fanno delle incisioni longitudinali entro le quali si mette il condimento, poi si arro-tola, si lega e si insacca.

RICETTE

Lombo in tegia (si cucinava la sera dal porc)

La cottura deve essere rapida perché la carne tende ad indurirsi. In un tegame mettere olio o burro (o entrambi), rosmarino e salvia (qualcuno mette anche dell’aglio). Oc-corre dunque mano svelta e fuoco gagliardo. Fare andare qualche minuto affinchè il grasso si impregni dei profumi e quindi aggiungere il lombo tagliato a fette. A fiamma molto vivace, cuocere da entrambe le parti. Spruzzare con poco vino bianco perché altrimenti la carne si indurisce ancora di più e fare immediatamente evaporare. Salare e pepare solo alla fine.

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Vico Fava Castelletto Borgo (MN)

Mi porta subito nel sancta sanctorum. La casa è grande ed attraverso alcuni corridoi interni saliamo una scala che porta nella stanza dove c’è un baldachìn multiplo (me-glio sarebbe dire alcuni baldachìn affiancati, diversi per altezza) al quale sono appese delle sublimità celestiali. Mi illustra, con il tono pacato ma preciso e puntuale della docenza, che ben conosco, tutti i suoi prodotti. Ha portato con sé un coltello e lo bran-disce a mo’ di bacchetta per indicarmi i prodotti del suo lavoro: vi sono salami e coppe e pancette ed ogni altro ben di Dio ma anche un insaccato che lui chiama, con vezzo campagnolo in vena di sofisticherie, “salame pancettato”. Gli faccio notare che nella dizione corrente in provincia, si definisce “pancetta insalamata”. Lui mi sorride e mi appioppa un lungo discorso intriso di sapienti proporzioni tra la carne magra e la parte grassa che ne legittima il nome: insomma c’è più impasto di salame che di pancetta. È orgoglioso, mi guarda, anzi mi scruta, capisce che me ne intendo, sollecita le mie valutazioni che non gli faccio mancare: ampie, convinte, apologetiche. Con un tocco reso sicuro da una lunga consuetudine stacca due capi. Uno è un salame lungo e sottile come un soave randello, l’altro è del tipo “pancettato” di cui ho detto. Vico aveva una bottega di salumeria in paese che serviva anche clienti di fuori. Mi mostra la antica insegna del negozio, dipinta da un artista locale. È di una semplicità, direi meglio di una ingenuità, commovente. Vi ritrovo, riassunto, il mondo di una vol-ta: essenziale, elementare, sincero ma con la candida voglia di far bene, di conquistare l’arte. Dabbasso ci attende la moglie che ha già preparato pane, vino, piatti, tagliere e col-tellina. Tra una fetta dell’uno e dell’altro, entrambe di assoluta pregevolezza gastro-nomica, inizia la nostra conversazione. Vico è un fiume in piena. Quando devo disto-gliere lo sguardo per scrivere, non riesce a fermarsi e si rivolge al fotografo che mi accompagna nell’avventura - giovane dabbene ed eziandio provveduto - e prosegue con lui. Il giovinotto è provveduto si ma non capisce più di tanto, quanto dice il Ma-estro. Svolge comunque con scrupolo la sua parte: mangia di gusto, si guarda bene

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dall’interloquire ed annuisce coscienziosamente con la testa ad ogni passaggio.Vico, ottantatre anni portati con piglio baldanzoso, ha cominciato da piccolo a vivere le meravigliose giornate della maialatura contadina. Il padre Cesare Ruggero era nato nel 1900 e, ritornato dalla prima guerra mondiale, in un clima esasperato da tensioni sociali e da grande miseria, raggranellava qualche soldarello andando a far sù al gu-giòl aiutato dai fratelli Archimede e Vito. Quando veniva il turno della propria fami-glia, lui non andava a scuola e pieno di ansia e di fervore dava una mano nelle piccole faccende della lavorazione. Impegni di poco conto ovviamente, intanto però vedeva, imparava, si addentrava sempre più negli enigmi del rito, ne chiariva i passaggi più ardui, si avvicinava alle conce. A poco meno di vent’anni raggiunge quell’insieme di conoscenze che gli consentono di assumersi delle responsabilità e di andare presso le famiglie.Mi racconta che in quel giorno, entrava nel porcile la donna che abitualmente dava la şota (il pastone) al maiale così da mantenerlo tranquillo. Dopo veniva dolcemente spinto fuori in un luogo chiuso affinchè non scappasse via. Se la bestia era restìa lui usava al rampin, un ferro uncinato che prendeva la pappagorgia del sottogola e im-pediva al maiale di scappare e lo costringeva a tirare indietro. In questo caso, peraltro piuttosto raro, bisognava fare alla svelta perché la situazione era insolita e dolorosa e al gugiòl poteva essere preso, come detto più volte, dalla febbre con immediata alte-razione delle carni. Nei casi più difficili ed ostinati, operando sempre con cautela ma alla svelta, legavano una corda attorno ad una zampa e lo trascinavano fuori dallo stalletto. Due o tre uo-mini lo ribaltavano su un fianco e lui con una baionetta, un poco accorciata nella sua eccessiva lunghezza, lo accorava. Il maiale veniva posto su una grata di legno, lavato sommariamente con acqua fredda per eliminare lo sporco superficiale. Poi Vico, con l’aiuto di uno che versava acqua caldissima ma non bollente, usando una raspéta ricavata come sempre da un vecchio ferro per falciare l’erba, gli toglieva le setole. Con al rampìn (ferro con un uncino) gli tirava via le unghie con le quali venivano fatti i carapatìn, singolari giochetti per i bambini. Per stare allegri, ad uno di questi veniva chiesto di andare a prendere al malaföc con la carriola. Al malaföc non era altro che una grossa pietra messa dentro ad un sacco affinchè il bambino non se ne accorgesse. Risate generali.Il maiale veniva issato a testa in giù su una traversa e quindi sc-iapà (spaccato) in due parti. Le donne erano pronte con mastelli per raccoglire i budelli e con catini per portare in casa la picarìa, cioè l’insieme della frittura (costituita da reticella, polmoni, rognoni, fegato, cuore, sangue ecc.).I budelli venivano portati nella stalla sia per stare un poco al caldo e sia per eliminare facilmente la materia fecale, e quindi lavati accuratamente più volte con aceto e sale. Vico commenta l’operazione così: l’è al büdèl cal fa al salàm (è la cura del budello che fa il salame). Affermazione piuttosto impegnativa.Le carni le teneva una notte al fresco così da averle più rispondenti, il giorno dopo,

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al lavoro dei coltelli ed alle lame della màchina. Veniva quindi la fase della selezione delle parti da destinare alla confezione degli insaccati. Le cotiche, le carni tigliose e di minor pregio finivano nei cotechini, la parte della pancia dopo essere stata ben rifilata era condita per farne pancette, quella del collo lavorata con conce speciali per ottenere la coppa ed il resto era destinato ai salami. Questa fase della lavorazione non era difficile ed intervenivano infatti anche membri della famiglia solleciti a dare una mano. Ma lui comunque sorvegliava tutto, non gli scappava nulla, era in gioco il suo prestigio. Macinava ed insaccava con una macchina a mano di produzione austriaca. Si allarga a descriverne i pregi e conclude con una affermazione curiosa: “La Bohemia è la patria dei salami”. Francamente lo ignoravo. Verso sera era tutto pronto e venivano portate le perghe (pertiche) lungo le quali si in-filavano le meraviglie. Il fastoso insieme delle perghe formava il baldachìn ammirato con compiacimento da tutti i presenti tra i quali gli amici ed i parenti prossimi arrivati con gioia. Era già tempo della cena.

CONCE

Salame (proporzioni di una volta)

-Sale 30 % (la percentuale di sale una volta si spingeva anche al 3,5 %. Si osservi che nella ricetta di Vico la quantità non è alta perché altro sale viene immesso con l’aglio. Vedi sotto.)- Pepe (sfransà cun al butigliùn, rotto con il dorso di un bottiglione da vino) ad occhio ma circa lo 0,2 %.- Aglio 3 etti al q pestato nel mortaio assieme a del sale grosso.- Salnitro una punta- Spezie nienteIl condimento va sparso sull’impasto e poi va arà (arato) con le dita. Vico specifica meglio: la cünsa la và sutrada (la concia va sotterrata)

Pancetta

La concia è sostanzialmente come quella del salame con meno pepe ma con la aggiun-ta di un poco di cannella in polvere ed una bella pizzicata di nosce moscata.

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Salame pancettato

Nello stesso budello finisce l’impasto del salame condito a parte e dei tocchetti di pancetta, presa dalla parte della coda dove è più alta, conditi con sale, noce moscata abbondante, un sospetto di pepe e miscelati bene a mano. Le proporzioni – ecco la giustificazione del nome – è di dieci chili di pasta di salame e cinque chili di pancetta lavorata.

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Luigi Bissoli Solferino

Luigi ha incominciato presto ad avvicinarsi alla pratica del far sö el pursèl. A 13 anni si guadagnava qualcosa legando gli insaccati nella salumeria dei Tonolini che avevano bottega di fronte a casa sua. Ha appreso l’arte dal sig. Arturo Leoni di Guidizzolo, lavorante presso la stessa ditta, persona di grande umanità che non gli lesinava consi-gli, suggerimenti tecnici, segreti dei budelli e delle conce. Solferino è un bel paese di campagna posto sulle colline della morena gardesana. È il giorno. Gli uomini e le donne hanno approntato quanto occorre: paröl di rame per l’acqua calda, fasìne da bruciare, pèse, tovaglie, pentole, corde con le sidèle (carruco-le) per issare la bestia, pignatta e farina gialla per la polenta, ecc.Luigi arriva di buon presto, da solo perché non vuole aiutanti se non quelli della fami-glia. Con prudenza ma anche con estrema sollecitudine lega le due zampe posteriori ed aiutato dagli assistenti (o mediante un trattore) tira fuori il maiale dallo stabbiolo. Con l’indispensabile aiuto dei presenti lo colloca con fatica su una botola di paglia e mentre un paio di uomini tirano la corda delle zampe, un altro dà una decisa botta sulla fronte con il rovescio di una scure, cun l’oc dal manarin. Il maiale stordito non si muove più di tanto e Luigi con una baionetta del ’15 - ’18 lo accora e poi gli taglia le vene giugulari. Le donne raccolgono il sangue con un catino. A dirlo così, il racconto dà la sensazione di un masalì (nell’alto mantovano c’è l’apo-cope che toglie la “n” finale) rude, caparbio, violento ed insensibile. Niente di tutto questo. Luigi è persona modesta, pacata, senza toni imperiosi, direi timido e schivo. Mi addentro un poco nel caso. Mi bastano poche parole. Capisco che di fronte al la-voro - regola interiorizzata e preminente in tutto il mantovano - occorre fare quanto è necessario senza andare troppo per il sottile. Dalle sue parole emerge il severo con-dizionamento ambientale che si è riflesso per secoli sui comportamenti comunitari ed individuali. Una volta la zona collinare, senza acqua e con poche strade, era una terra poverissima per cui al lauràr, quando c’era, assumeva delle connotazioni imperative da rispettare senza troppe riluttanze.Puliva alla svelta la bestia con secchi d’acqua presa dal albi (abbeveratoio) e subito

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dopo ne levava le setole versando dell’acqua calda sulla cotica ed abradendo con un raschietto. A questo punto al pursèl veniva fissato sulla pica, una robusta traversa di legno con dei fori nei quali si infilavano, a distanza conveniente, dei cavicchi che fermavano e tenevano aperte le gambe posteriori. I buchi erano parecchi così da in-dividuare subito quelli più adatti alle dimensioni della bestia entro i quali infiggere i pioli. La traversa veniva poi fatta scorrere verso l’alto lungo due paletti appoggiati ad una parete sino a quando al pursèl veniva a trovarsi in posizione verticale.Una buona parte del lavoro iniziale era stata fatta. Tagliava la pancia del maiale dall’alto verso il basso e raccoglieva i budelli e le frattaglie necessarie per la fritüra e per altri piatti di giornata: reticella, cuore, polmoni, fegato, milza, caren mate ecc. Dopo la sc-iapada (divisione in mezzene), immediate erano le valutazioni sulla resa del prezioso lardo. Era quello che contava. I salami erano quasi tutti venduti ai signori di Mantova o al butighér per saldare vecchi debiti segnati giorno per giorno sul libret-to della spesa. Si misurava il suo spessore con l’antico criterio del sömes, la spanna con le tre dita interne raccolte verso il palmo della mano. Nel giudizio le donne erano espertissime, ad esse importava la quantità del lardo ma anche la sua compattezza. Se era sodo e non flaccido andava benissimo. Una volta non c’erano i budelli di maiale o di manzo nella quantità e nella varietà che oggi è invece possibile trovare un po’ dappertutto. Un tempo si usavano solo quelli che si ricavavano dalla stessa bestia per cui era una vera arte recuperarli da ogni parte: dal crespone, dalla doppia cucitura di quelli piccoli (adatti per le salamelle ma non per i salami), dalle cosce, dai sunşì (le parti grasse che avvolgono i reni, ricoperte da una pellicina), dalle costine, dalla vescica ecc.A metà mattina si portavano in casa, in una stanza di basso servizio, i due mezzi e si mangiava la storica, tradizionale fritüra cucinata dalle donne. Il piatto era decisamen-te plebeo e dall’aspetto inquietante ma di una brillantezza ineguagliabile. Al termine della colazione con dignità di pranzo, si lavorava sino a sera. Si sezionavano i pezzi, si valutava la loro destinazione, si riducevano a proporzioni più piccole e si improvvisa-vano i soliti scherzi aventi per protagonisti gli ignari bambini. Anche queste, come dire, imbarazzanti consuetudini rientravano nell’ambito della educazione familiare, volta a far capire alla svelta ed a non farsi buggerare. Non mancava quindi la solita richiesta del masalì di andare dalla residura a prendere al netaurèce ma anche quella dell’amico che rubava i reni e poi sosteneva, tra l’ironia e l’abominio, che il maiale era di scarsa qualità, non andava bene, proprio per la magagna: mancavano i due organi. Sconcerto, ricerche affannate, voci sopra le righe sinchè i rognoni saltavano fuori. Im-mantinente - ma lo sapevano tutti - erano lavati a fondo, affettati e cotti sulla griglia. Preparate le varie carni per cotechini, salami, coppe e pancette, si tritavano con la macchina quelle destinate agli insaccati. Per i salami usava piastre del 10 ma anche del 12 mentre per i cotechini erano dell’ 8 o del 6. Ha sentito parlare del taglio a lama mediante mannarine e con le polpe stese sulla pistàsa. Lui però non lo ha mai prati-cato.

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Oggi è come una volta. Gli impasti vengono raccolti nelle mesete, conciati accurata-mente (vedi conce) e quindi insaccati a macchina. Legati e forati sono poi appesi alle pertiche per formare al baldachìn. Li tiene una notte o due nella stanza del focolare. Se questa non è disponibile mette sotto al generoso tripudio qualche palata di braci con sopra poca cenere. Nei giorni immediatamente successivi si portano i capi in una stanza asciutta ed ai primi caldi della primavera si trasferiscono in cantina.Come sceglie il maiale ? I suoi criteri sono questi: coda grossa, culo grosso (insiste su questo particolare per cui gli propongo l’aggettivo “maestoso”), pancia sollevata e non rilassata, spalle ampie, razza Landrace. Alla sera, cena con i parenti, gli amici più cari, gli aiutanti di rilievo e qualche persona importante alle quali era dovuto l’invito. Per una volta si mangiava a volontà. Il menù era quello di sempre ma sempre atteso da tutti: risotto con al pistùm (pesto), ossa bollite almeno quattro ore (bisogna provarle per coglierne appieno la bontà), qualche polpettina di impiöm (è sempre il pesto ma con diversa dizione dialettale, più frequente verso l’alto mantovano), formaggio - sal gh’era (se c’era) precisa - e grapa da scundòn (distillata in casa, di nascosto). Sono passate quasi due ore. Vedo che si agita un poco. Gli chiedo se deve andare da qualche parte. Si, c’è una persona anziana che deve essere aiutata a scendere dal letto ed a muoversi. Non è un parente né un amico ma un cittadino qualunque del paese. Questa è la vera solidarietà, la vera, sentita coscienza comunitaria. Vado via subito. Lo saluto con amicizia e riconoscenza. Idealmente lo abbraccio.

CONCE

Salame (proporzioni di molti anni fa) - Sale 30 % circa- Pepe 0,3 %- Aglio 2 etti per q.le (ben nettato e tritato)- Salnitro poco, ad occhio- Vino rosso un bottiglione e mezzo per q.le di impasto

Pancetta

- Sale 40 %- Pepe 0,4 %- Aglio 3 spicchi per pancetta (mondato e tritato)- Spezie (cannella, chiodi di garofano, noce moscata) un pizzico del misto ridotto in polvere.Sistemare la carne in una bacinella con il condimento sparso sopra. Versare del vino

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rosso in quantità tale che la copra tutta. Tenere al fresco uno o due giorni rivoltando alcune volte. Poi insaccare.

Cotechino

La concia è come quella del salame. Viene preparato con le carni meno nobili e con il 50 % di cotenna.

Coppa

Come la pancetta

RICETTE

Turta de sang (torta di sangue). La ricetta è della signora Anna Magalini, moglie di Luigi.

Il sangue del maiale era adoperato principalmente per fare morette o come ingrediente della fritüra ovvero per la turta de sang.

Ingredienti:

- un litro e mezzo di sangue di maiale non coagulato (per ottenerlo rimestavano il sangue fresco con un rametto pulito);- un uovo sbattuto- una cucchiaiata di pinoli- una bella manciata di uva sultanina- un po’ di càren màte.

In una zuppieretta mescolare il tutto, porre in una teglia di rame e fare cuocere a fuoco lento (al forno o sulle braci del focolare) per almeno un’ora. Non era una torta ovvia-mente anche se aveva delle componenti dolci. A mio parere è una traslazione plebea dalla cucina principesca rinascimentale.

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Giancarlo Bertellini Suzzara

L’interieziome è costante, sistematica, quasi ossessiva: a ghéra da far ecunumìa, ghéra da star stréc (stretti di borsa e di pretese, ovviamente). Giancarlo conferma, ancora una volta, che un tempo - andiamo indietro di quasi un secolo - il maiale pos-sedeva il tratto, la peculiarità della Provvidenza (con la maiuscola, si badi), era un cospicuo bene della casa perché veniva a contrastare la pervicace fame quotidiana. Come tale doveva essere trattato con ogni cura possibile, in rapporto alle disponibi-lità della famiglia, ed utilizzato con grande parsimonia. Allora, nel forese di Suzzara non c’erano ancora le industrie e le aziende artigiane che successivamente daranno notevole respiro al territorio. C’era soltanto campagna e le bocche da sfamare erano sempre troppe. Un indizio di questa dura situazione si può evincere dal fatto che la scansione dal far su al gugiöl qui aveva modalità diverse da quasi tutta la restante parte della provin-cia: il maiale veniva ucciso il giorno prima della sua lavorazione per raffreddare le carni e renderne più agevole il trattamento. Al mattino dopo i lavoranti ritornavano ed il maestro per prima cosa levava l’òs giót (l’osso ghiotto, quello dello sterno con attaccata dell’ottima carne) che poi metteva, con interessata sollecitudine, a cuocere in una ramina. L’òs giót era messo in tavola per il pranzo. Alla sera, una volta appesi gli insaccati a li perghi, si mangiava la fritüra. Si eludeva insomma la consueta cena finale e con essa anche gli invitati di riguardo. Giancarlo è di conversazione amabilissima. Mi parla di sua mamma Maria Bottazzi, detta Léise, giunta a 95 anni senza assumere mai una medicina, del suo carissimo ami-co Ferdinando Montanari e del pronipotino Russell al quale, come avvertito compito istituzionale, vuole un bene dell’anima.È giunto alla maialatura di tipo professionale ad una età piuttosto avanzata, verso i 30 anni. Prima dava una mano quando veniva in casa par far su al gugiöl un famoso ma-salìn della zona, tale Luigi Balboni. Giancarlo stava bene attento alla sua manualità, a come lavorava di coltello, alla sequenza delle operazioni, alla composizione delle

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conce, alle accortezze della insaccatura ecc. Mi parla di questo Maestro con un senso di grande simpatia umana non disgiunta da una ammirazione totale per la sua bravura. Era il numero uno nella zona di Suzzara e dintorni, il titolare della cattedra.Mi racconta che una volta lo stalletto del maiale era posto sotto il forno di campa-gna - monumento significativo ed accattivante della civiltà contadina - in modo che, ogni tanto, anche lui potesse godere di un poco di caldo. Il giorno fissato lo facevano uscire con calma, il proprietario o una donna di casa gli stavano accanto affinchè non si innervosisse. A volte, ma era caso piuttosto raro, lo tiravano fuori con al rampìn, un uncino di ferro fissato ad un lungo bastone che veniva infisso nella gola dell’animale, vicino all’osso della mascella inferiore. La bestia piantava i piedi per terra e tirava all’indietro ma il dolore gli imponeva di assecondare la trazione. Gli uomini lo ribaltavano su un fianco ed il masèn lo corava con un coltello o con l’apposito ferro. Lo lavavano alla svelta con qualche secchio di acqua fredda e quindi, aiutandosi con acqua calda ed il solito raschietto, gli levavano le setole. Operazione questa piuttosto delicata, che richiedeva assoluta perizia. Sino a una trentina di anni fa veniva issato sulla solita incastellatura detta pcaröl (sen-za la “i” tra le due consonanti iniziali). Il maiale era sollevato ad altezza d’uomo per facilitare l’evisceramento degli intestini e della corata. Il sangue affluiva nella gabbia toracica e da questa levato per darlo alle donne in attesa. Ora, con i nuovi mezzi in dotazione a tutti i contadini, lo si solleva con la pala di un trattore. Lui ha predisposto un attrezzo speciale per questa bisogna che si adatta benissimo alla pala stessa. Me lo mostra con un pizzico di orgoglio.Subito dopo, con una affilata mannarina lo tagliava lungo la spina dorsale per ottene-re i due mezzi che robusti giovanotti portavano in casa, in cucina o in una stanza da disbrigo. Erano sistemati su due scàn (gli assi per bucato, con le gambe) e lasciati per una notte a riposare. Le budella erano subito accuratamente nettate, rivoltate, lavate varie volte e poi tenute in una bacinella, nell’aceto, sino al giorno dopo, quando aveva inizio la lavorazione vera e propria.La mattina successiva le mezzene erano sezionate e le carni ripartite secondo la loro destinazione: per salami, cotechini, pancette, ecc. Gli aiutanti disossavano sotto la sua attenta sorveglianza. La maialatura entrava nella sua fase più cruciale ed ogni passag-gio poteva nascondere delle insidie tali da pregiudicare il futuro del lavoro. Mi dà una notizia che avevo appreso di sfuggita parlando con altri masalìn. Prima del-la guerra o subito dopo, per evitare difficoltà con le machine di salàm ancora piuttosto problematiche, le cotiche subivano un trattamento preventivo di frammentazione e sminuzzamento grossolano con la pistàsa. Questo arnese era costituito da una piastra rettangolare di ferro, con un bordo assai tagliente e con sopra due manici di legno collocati alle estremità. Era un lavoro semplice ma faticoso. Andando su e giù con forza, si riduceva a tocchi sempre più piccoli la cotenna, posta su una zocca di legno, per passarli successivamente alla macinatura.Quando tutto era pronto procedeva alla concia. Spargeva la miscela sulla carne e ma-

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nipolava rastrellando con le dita la superficie affinchè pepe, sale e spezie scendessero in profondità, senza compressioni, lasciando cioè soffice l’impasto. Lavorava a lungo affinchè la concia si distribuisse uniformemente. Poi insaccava rigirando i salami in modo che l’impasto avesse una distribuzione omogenea e non si formassero all’inter-no delle sacche d’aria, quindi legava ed infine forava con al furìn. Destinazione finale: li perghi (le pertiche) collocate, secondo consolidata osservanza, in dla camara da lèt.Anche lui concorda che per la massaia era importante il lardo. Lo spessore ideale era quello di un sémàs, cioè una spanna con le tre dita interne piegate sul palmo della mano.

CONCE

Salàm

- Sale una volta anche il 30 %; ora il 22 %- Pepe 2 etti / q (metà macinato fine e metà a mezzagrana)- Aglio 3 teste per q (mondato e ridotti a pezzettini). Precisa che nel suzzarese non piace più di tanto. - Spezie niente

Cotechino

Come per il salame ma con meno sale e con la aggiunta di un poco di spezie (cannella, chiodi di garofano, noce moscata).

Culatello

La descrizione della ricetta è preceduta da un’ampia esegesi con appassionati con-notazioni laudative. Il culatello è un capo molto apprezzato nella zona. Tutti i mazèn locali sanno prepararlo. È naturale, siamo prossimi alla terra emiliana. La maturazione non dura normalmente meno di un anno. Un suo collega lo tiene a stagionare anche per 18 - 20 mesi, in ambiente adatto, con temperatura fresca ed umidità controllata. Il prezzo di acquisto di questi capi speciali è decisamente importante: sino ad 70 euro al kg. Oggi, anno 2012 a Virginis partu. Se si considera che la pezzatura media è sui 5 kg si capisce immediatamente il suo va-lore. A trovarlo poi! Il signor Bertellini non ha dubbi: è decisamente superiore a qual-siasi prosciutto crudo: è delicato, morbido, suadente, coadiutore ineguagliabile per meditazioni amicali sulla caducità delle cose umane. Con un lambruschino leggero, di nobile e sicura origine, che non ottunda il palato ma che lo vellichi delicatamente.

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Si usa la coscia senza il fiocchetto. Lo si stringe con dello spago per dargli subito una certa forma poi lo si voltola su un letto di sale (23 %, come per il salame), chiodi di garofano interi, cannella sbriciolata con le dita, poco pepe in polvere ed un pizzichino di salnitro (come per i salami, precisa). Deve essere lasciato ad impregnarsi del condimento per 5-6 giorni rigirandolo fre-quentemente. Alla fine va pulito, insaccato nella vescica e legato con una cordatura robusta e stretta, che avviluppi tutta la superficie così da dargli la caratteristica forma a pera.Stagionatura da uno a due anni.

Sopressa di testa

È un insaccato tipicamente emiliano. È comprensibile quindi che trovi attenzione an-che nell’area suzzarese.Si prende la testa intera del maiale senza la parte interna dell’orecchio, troppo sporca, e la si fa bollire in acqua sino a quando la carne si stacca bene dalle ossa. E gli occhi, chiedo io con tono insinuativo? Risposta: “iè bun anca quei”.Mettere le carni cotte sul tagliere e farne tocchi grossolani al coltello. Condire il tutto con sale al 20 %, pepe 2 % e poco aglio, 4 o 5 spicchi pestati unitamente al sale. Insac-care e legare. La stagionatura non è molto lunga: da uno a due mesi. Alcuni la affetta-no già dopo due settimane. Rondelle gaudiose, larghe un dito (devono stare in piedi).

RICETTE

Sangue fritto

Anche il sangue del suino poteva essere l’ingrediente principale per un piatto singola-re. Le donne venivano a prenderlo con una pentola di rame sul fondo della quale era messo un oggetto di ferro. Quasi sempre, con intenzione apotropaica, la chiave della porta di casa. “Almèn atsì las puliva” (almeno così si puliva) è il suo commento pun-gente ma con ampi margini di verità.In un capace tegame - la storica padella di rame con il manico curvo - mettere della reticella e fare sciogliere. Versare il sangue e rigirare. Condire con sale, pepe e un poco di buccia di limone grattugiata. Accompagnare con polenta solare.

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Leonardo Dal Prato Guidizzolo

Ammetto subito che ho trovato qualche difficoltà nell’incontro. Lo conoscevo da anni, piuttosto superficialmente per la verità anche perché ci incon-travamo di rado, e non sapevo nulla della sua inclinazione masalina. Il fratello Andrea mi aveva informato che Leo da tempo si occupa e produce in proprio raffinati pro-dotti di norcineria. Sono stato mosso dalla curiosità di incontrarlo perchè il tema dei “masalìn mantovani” che mi tocca di dentro, postula per principio una ricerca su tutti coloro che sono animati ed hanno praticato, anche se non professionalmente, l’arte. Sono sincero. Non avevo molto credito, ero piuttosto scettico. Ritenevo che alla fine si trattasse del solito hobby da esercitare occasionalmente per il puro piacere della sperimentazione ovvero per stare assieme una sera con compagni dalla forchetta sem-pre innestata, solleciti a lodare chi li mette con i piedi sotto la tavola. Non è difficile trovarne infatti più di uno nella consolidata cerchia amicale, disposto a titillare l’ego di chiunque li convochi per un’occasione mangereccia. Leo è un uomo maturo, alto, leggermente claudicante per via di qualche acciacco non felicemente risolto per cui soffre ma non si lamenta. Si caratterizza per una voce stentorea incupita dall’età e per un sorriso perenne, indelebile, vivido ed accattivante, che sopprime d’acchito qualsiasi perplessità formale. Offre a chiunque amicizia senza condizionamenti, distinzioni o barriere di sorta. È un personaggio eminente della comunità guidizzolese. Il suo carattere intessuto di profonda umanità ed istintiva simpatia nonchè da una sensibilità ampiamente eclettica e da naturale capacità introspettiva, sa rapportarsi immediatamente con tutti. La sua casa di squisita fattura ottocentesca e soprattutto il suo giardino estivo (e d’in-verno il suo antro ove regna una confusione perfettamente organizzata nella quale lui trova tutto immediatamente), sono una specie di porto di mare per i molti amici che passano nei pressi: un saluto alla voce, una bagola sul paese, un invito ad una sosta dello spirito, quattro chiacchiere sul mondo e sulle sue miserie, si coniugano sempre con soccorsi immediati di sua produzione, irrigati da un gotto o due di quello giusto. La sua vita è questa. È pervaso dal sentimento dell’amicizia, dalla capacità naturale

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nel campo dell’arte ceramica della quale è autore di vaglia (buon sangue non mente: il padre Alessandro è stato pittore insigne, un caposcuola con premi conquistati in ogni parte d’Italia), da una manualità poliedrica e versatile che lo porta a realizzare, oltre a lavori artistici di altissimo pregio come dicevo, macchine particolari, tavoli, sedie, lampadari ecc. Ed opere di norcineria nelle quali profonde una antica passione sempre sorvegliata da una esperienza ormai pluridecennale. Per capire un po’ di più quanto rattiene nelle sue corde, è necessario aggiungere che si fa il pane nel proprio forno, che è cuoco di sostanza, alieno da fronzoli estetici ma raffinato, che è persona di vasta cultura (possiede una biblioteca di circa cinquemila volumi nei quali ogni tanto si immerge per ritemprare lo spirito) e che as fa sö al nimàl in casa. È insomma un uomo libero, un bonario filosofo che ha capito l’essenza della vita, che è riuscito ad affrancarsi dai lacci delle convenzioni sociali e ad assumere compor-tamenti condizionati solamente dallo scrupolo dell’onestà e dalla interiorizzazione senza incertezze di una fede profonda che lo anima e lo sostiene perennemente. Dal Prato nasce nella casa posta sotto la torre comunale di Guidizzolo, 73 anni fa. Subito dopo la guerra ha avuto i primi contatti con la maialatura. Ne era affascinato. Veniva a far sö al pursèl della famiglia tale Terenzio Valenti, un’autorità riconosciuta nell’utilizzo dei doni che offre la natura. Le sue competenze spaziavano dagli animali, agli ortaggi, alle erbe, alla frutta, ecc. Compie la scuola dell’obbligo a Guidizzolo e quindi va a studiare presso l’Istituto d’Arte “Adolfo Venturi” di Modena. Torna all’età di 17 anni e dopo qualche tempo si fidanza con la signorina Sandra Maffezzoni, oggi sua moglie, nipote di un grande allevatore di suini dalle parti di Cavriana. Ha modo dunque di approfondire la sua pas-sione e di apprenderne i rudimenti. Via via migliora la manualità, penetra nel mistero delle conce, si affina nei passaggi più ardui. Dopo essersi sposato si mette assieme con il fratello Paolo che abitava a Volta Mantovana, a pochi chilometri da Cavriana e da Guidizzolo, per fare la prima maialatura completa sotto la sua responsabilità. Non ha mai ucciso maiali, comperava le carni presso allevamenti locali. La casa di Paolo era quella dei fittavoli della famiglia Boselli, grandi possidenti ter-rieri della zona, ed era particolarmente adatta alle necessità della conservazione e stagionatura. Nelle stanze del piano superiore, alte e con il pavimento di legno, veniva portato il baldachìn dopo essere stato qualche giorno dabbasso in un ambiente caldo per asciugare i capi. Sopra stavano sino a primi tiepidi di primavera e poi venivano sistemati in un’ampia cantina fatta di sasso, tipica della zona. Queste transumanze erano ottimali, singolarmente convenienti per la stagionatura.L’avventura va avanti per qualche anno e questo dà modo a Leo di approfondire le conoscenze e di migliorare la già rilevante manualità. Quando Paolo rinuncia, va per cinque anni a lavorare il maiale ad Anghiari presso la famiglia Valbonetti, un rampollo della quale, Fausto, gli era collega come insegnante presso l’Istituto Statale d’Arte di Guidizzolo.

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Ormai è masalìn nel senso pieno della parola con esperienze lontane (Toscana) che altri non hanno. Non si ferma più. Ormai padrone di salami, coppe, pancette, grepule che sono i cardini della maialatura mantovana e succube della sua innata curiosità ed intelligenza artistica, si dà da fare per aprire nuovi orizzonti. Aggiunge alla serie storica della gamma tradizionale di questi paesi, la lonza, il rigatino (pancetta tesa e molto pepata), capocollo, fiocco, guanciale. Avverte poi l’urgenza interiore di cono-scere la tecnica della affumicatura che lo intriga da tempo. Va allora in Val Ridanna vicino a Vipiteno ed apprende dai contadini locali i segreti di questa lavorazione che può essere fatta bene soltanto in certi luoghi, a certe altezze e con la totale padronanza della materia. Da noi è assolutamente impossibile ma non tanto per le modalità di approntamento quanto per la stagionatura. Mi racconta infatti che in Alto Adige, luogo deputato allo speck, dopo aver disossato e successivamente affumicato tutto il maiale, questo era sezionato in parti che stavano appese per mesi sotto il portico di casa e si asciugavano quotidianamente al freddo ed all’aria del luogo assumendo sapori particolari. Da noi marcirebbe tutto. Lui portava a casa le due mezzene intere completamente affumicate che poi riduceva in porzioni adatte all’uso di cucina. In malga le frazioni meno pregiate o addirittura di scarto perchè non commerciabili, venivano affumicate a parte per essere utilizzate nelle varie zuppe tipiche. Ha vissuto e vive una vocazione. Parafrasando verrebbe da dire che le vie del balda-chìn sono infinite.

CONCE

Non sa precisarmi le quantità dei singoli ingredienti, non li ricorda perché fa tutto ad occhio. Ritiene comunque che non si discostino più di tanto da quelle tradizionali del-la terra mantovana. Come unica variante di rilievo ha sostituito, come antiossidante, il nitrato con l’acido ascorbico (vitamina C).

Salame

Sale, pepe, aglio, vino rosso più alcuni semi di piante officinali che tiene nel suo orto di casa.

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Pancetta

Sale, pepe, aglio, semi di aromi naturali, vino rosso di buon corpo. Le mette in concia per almeno 15 giorni in salamoia rigirando ogni giorno. Riescono profumatissime.

Coppa

Come per la pancetta

Lonza (vari tipi)

Tipo toscano: sale, pepe, poco aglio, alloro e rosmarino. Va messa in salamoia per as-sorbire gli odori per almeno 15 giorni rivoltandola frequentemente. Quando la toglie la cosparge di pepe e la tiene attaccata al baldachìn per 8 - 10 giorni. Una volta bene asciutta la avvolge nella carta paglia (quéla dal buteghér) e la pone in cantina per un mesetto.

Salamelle nostrane

La stessa pasta del salame insaccata a rocchi nel budello piccolo.

Salamelle da mangiar crude

Insaccato di assoluto prestigio. La carne la trae dalla coscia. Per il grasso (15 % della carne) usa quello del guanciale, più morbido. Sale 18 %, pepe macinato 3 %. Aggiun-ge finocchio selvatico, vino rosso, aglio (un poco, spremuto dall’apposito attrezzo). Insacca e fa asciugare per una settimana.

Rigatino (o pancetta tesa)

Prendere la pancetta con la sua cotenna, mondarla dalle pelletiche e cospargerla di:- Sale 28 – 29 %- Pepe abbondante- Aglio mondato e tritatissimo 2 spicchi / kg- Finocchio selvatico 1 pizzico- Foglie di alloro tritate (se il profumo piace)

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Guanciale

Come il rigatino. Con la cotica. Appeso in ambiente piuttosto tiepido per una setti-mana.

Cotechino

- Carne magra 50 % (di cui 35 di muscolo di stinco e 15 di lingua spellata)- Guancia 15 %- Cotica 35 %- Sale 2,2 %- Pepe 0,3 %- Aglio- Vino rosso

RICETTE

Garganelli con l’anitra selvatica (mi mostra l’attrezzo per i garganelli). Il volatile gli viene conferito da amici che vanno a cacciare in Austria.

Spennare, pulire, spezzettare l’anitra. In una teglia rosolare un fondo di cipolla, se-dano, carota, olio, burro, sale e pepe. Aggiungere l’anitra. Fare andare a coperto ed a fiamma bassissima finchè le carni si staccano facilmente dalle ossa. Spolpare, tritare grossolanamente le polpe ed irrorarle con il proprio fondo bruno passato al setaccio. Condire la pasta. Formaggiare con buon grana padano.

Maccheroni alla chitarra con la salamella (mi mostra l’attrezzo per i maccheroni)

Sbriciolare la salamella in una teglia e rosolarla dolcemente con burro e rosmarino. Sfumare con del vino bianco secco. Addizionare dei pomodori freschi o in scatola, pelati e rotti con le dita. Sale e pepe. Portare a cottura a fuoco blando e coperto. Con-dire la pasta tramenando dolcemente dal basso verso l’alto con due forchette di legno.

Patate al forno (le giudica eccellenti)

Prendere delle buone patate non troppo grosse e di misura uniforme. Lavarle bene magari aiutandosi con una spazzola da cucina e non togliere la buccia. Fare un ta-

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glio longitudinale senza dividere la patata. Nella fessura inserire una foglia di alloro bagnata in acqua. Sistemare sulla placca del forno, irrorare con un filo di olio extra vergine d’oliva e cospargere di sale grosso. Infornare a 180° per circa un’ora. Ritirare le patate e disporle su un piatto da portata. Si mangia tutto.

Carciofi sulla griglia

Scegliere dei bei carciofi freschi e polputi. Ridurli alla sola parte edibile. Tagliarli a metà e sbollentarli per qualche minuto (5 / 6) in acqua salata. Ritirarli con un mestolo forato ed ungerli appena appena con olio extra vergine d’oliva. Cuocerli sulla griglia rivoltandoli qualche volta.Sistemarli su un piatto da portata e condirli con altro olio, sale e pepe.

Fegatelli di maiale (piatto che lui prepara il giorno della maialatura)

Prendere del buon fegato di maiale fresco, togliere la pellicina, nettarlo dalle vene interne e tagliarlo a tocchi. Condire i pezzi con un misto di pane grattugiato, finocchio selvatico, aglio, sale, pepe abbondante. Avvolgerli nella reticella ed infilarli in spiedi-ni di legno alternandoli con foglie di lauro.Cuocerli in una teglia con strutto abbondante. Quelli che non si consumano subito possono essere conservati in un vaso ricoperti dallo strutto. Si mantengono per mesi e si servono al bisogno.

Arrosto di maiale

Prendere un bel pezzo di lombata di maiale, nettarla, passarla sotto l’acqua corrente, asciugarla accuratamente con carta da cucina. Con un coltello affilato fare delle inci-sioni in senso longitudinale alla distanza di circa 1 cm una dall’altra. Inserire in ogni taglio una fetta sottile di rigatino ed un pizzico di misto fatto con sale, pepe, finocchio selvatico, aglio, coriandolo (semirotto), senape più rosmarino e timo freschi. Legare il tutto. Sulla superficie spargere ancora un poco di misto e lasciare riposare per un paio d’ore affinchè la carne si compenetri dei sapori.Sistemare la lombata in una teglia e fare rosolare con olio e burro sino a quando non si sarà formata una bella crosticina. Versare mezzo bicchierotto di vino bianco e fare sfumare. Aggiungere ora un poco di brodo di carne ed a coperto e con fuoco lentissi-mo cuocere per almeno un’ora e mezzo. Controllare la cottura ed aggiungere, se del caso, altro poco brodo.Ritirare, affettare e servire.

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Peperoni alle olive

Prendere dei bei peperoni carnosi rossi e gialli, lavarli accuratamente, privarli dei semi e tagliarli a strisce larghe un dito. Stufarli in padella con olio e poco sale. Quando saranno morbidi e quasi cotti aggiungere delle olive nere tagliate a pezzi. Fare andare altri cinque minuti e poi addizionare una manciatina di capperi ben dissalati preceden-temente e spolverare con pane grattugiato. A metà cottura dare un tocco pungente con un cucchiaio di aceto balsamico.

Oca selvatica arrosto

Il volatile gli viene assegnato - per competenza - da amici che vanno a cacciare in Austria. In considerazione del fatto che l’oca selvatica - a differenza di altri palmipedi dello stesso tipo - ha uno scarsissimo sapore di pesce, è possibile cucinarla arrosto. La si frolla preventivamente per alcuni giorni (3 o 4 a seconda del suo peso). Poi la si lardella abbondantemente con rigatino e salvia battuti assieme ed infilati nelle fese, quindi se ne cosparge l’esterno con sale e pepe. Preparare intanto un ripieno fatto con pasta di salamella fresca abbondante e pane imbevuto di una miscela, in proporzioni uguali, di latte e uova sbattute (almeno due queste ultime). Introdurre nella pancia e richiudere con dello spago.Cuocere allo spiedo, a fuoco vivo, pennellando di tanto in tanto, dapprima con olio extra vergine d’oliva e poi con il fondo bruno che via via si raccoglierà nella leccarda. A questo si dovranno aggiungere un paio di bicchierotti di vino rosso. Intanto che è al giro, spolverare per un paio di volte con sale e pepe.Occorreranno 5 o 6 ore. Portare in tavola il trionfo e scaldare al momento.

o o o o o

La moglie di Leonardo, la prof. Sandra viene a salutarmi, siamo stati colleghi per anni nella stessa scuola. Mi parla con sentita riconoscenza di due dolci che sono stati fon-damentali nella crescita dei suoi quattro figli. Mi pare di capire che si tratta di un co-spicuo bene di famiglia per cui non posso esimermi dal richiederle le ricette. Eccole:

Torta di mele

Porre in ammollo due generosi pugnelli di uva sultanina (quella grossa). Sbucciare un kg di mele sode e spruzzarle di succo di limone e zucchero. In un mixer capace mette-re 80 g di burro ammorbidito ed un hg di zucchero. Mescolare ed aggiungere due uova intere. Fare andare lentamente ed addizionare poco alla volta 150 g di farina bianca

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setacciata unitamente ad una bustina di lievito. Se il tutto non è sufficientemente flui-do aggiungere poco latte. Ungere ed infarinare un tegame da torte e versarvi l’impasto cospargendo la superficie con un poco di uvetta. Affettare sottilmente le mele - magari aiutandosi con un robot - e fare un primo strato sulla pasta. Distribuirvi sopra l’uva rimanente e coprire con il resto delle mele. Con grazia.Versare sul tutto 40 / 50 g di burro sciolto e spargervi 50 g di zucchero. Per un ultimo tocco raffinato distribuire in superficie poche noci tritate. In forno già caldo per circa 40 / 45 minuti.

Strudel

Preparativi iniziali:- Porre in ammollo 150 g di uvetta- Sgusciare qualche noce- Mettere sul fuoco un pentolino di acqua e portarlo ad ebollizione- Sbucciare 1 kg di mele e spruzzarle di limone e zucchero- In un tegame mettere 100 g di burro e quando è sciolto (non deve bollire) addizionare 80 g di pane grattugiato. Tramenare con un cucchiaio di legno per 3 minuti

Ci siamo.

In un mixer porre 250 g di farina bianca, un uovo intero, un cucchiaio di olio extra vergine d’oliva, un pizzico di sale e poca acqua tiepida. Impastare. Levare questo im-pasto dalla macchina e metterlo sotto un pentolotto caldo ricoperto da qualche panno da cucina. Per una sua ottimale elasticità, la pasta deve restarci almeno 20 minuti. Nel frattempo accendere il forno.Su un telo infarinato, con l’ausilio delle mani e del mattarello, stendere la pasta in un velo sottilissimo. Ricoprirlo con il pane grattugiato, con le mele affettate finemente con la macchina, le noci tritate, l’uvetta e completare con un hg di zucchero. Prendere il telo da un capo e con pazienza arrotolarlo in modo che anche la pasta si avvolga su sé stessa. Sistemare su una placca un foglio di cartaforno e metterci sopra lo strudel. Completare con un velo di burro sciolto. In forno per 45 minuti. A cottura ultimata estrarre, porre su un piatto da portata e biancheggiare con poco zucchero a velo.

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Archimede Zangrossi Castellucchio

Mi sta aspettando. Ci siamo sentiti qualche giorno prima al telefono. Nel corso di una lunga ed appassionata conversazione abbiamo accertato che siamo in perfetta sintonia con la valutazione delle cose del mondo, degli sconvolgimenti che turbano la nostra terra, dei tempi oltremodo difficili per la nostra società contadina ivi compreso il pro-fondo e sentito rammarico per l’arte masalina che va scomparendo. La porta è socchiusa, suono il campanello e lui viene fuori sorridendo. Non alto di statura, figura magra e giovanile (80 suonati), sguardo penetrante ed indagatore come si conviene ad un uomo di estrazione contadina nei confronti dell’estraneo, mi fa ac-comodare nella sua bella abitazione.Il padre Aldo era bracciante e d’inverno, con i lavori dei campi fermi, cercava di rag-granellare qualcosa arrabattandosi con la pratica norcina. Era davvero bravo anche perché aveva appreso tecniche e procedimenti dal cugino Luigi Gerola. Archimede a 12 anni, subito dopo la guerra, seguiva il padre in questo lavoro. Aiutava come poteva a disossare, tagliare le carni, macinare con la macchina a mano, a sbrattare i tavoli sporchi di grasso e di sangue. Lui è appassionato ma cerca con insistenza un posto che gli dia una paga per tutto il tempo dell’anno.È svelto, capace, di pronta intelligenza ed ha voglia di dimostrarlo. All’età di 17 anni è masalìn finito e comincia sostituire il padre. Ricorda con orgoglio che il sabato, in paese, si faceva un po’ di festa. Il padre lo mandava allora presso la famiglia dove era stato ingaggiato, ad uccidere il maiale per averlo pronto la domenica. Quando le donne della corte (gli uomini erano quasi tutti fuori) si vedevano arrivare un ragazzi-no minuto gli dicevano, sorridendo, sta atenti cat magna (stai attento che ti mangia). Entrava nello stalletto, spingeva fuori il maiale con prudenza e delicatezza, lo calmava e quindi con un colpo secco di baionetta lo giugulava. La bestia si accasciava e piano piano moriva.La sua famiglia abitava a Grazie, paese vicino al Lago Superiore di Mantova, e lui sapeva condurre con perizia le tipiche barche locali dal fondo piatto nel labirinto dei numerosi canali che si snodavano nella fitta vegetazione fatta di arbusti, canne palustri

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ed erbe. Portava a caccia il sig. Lino Levoni della omonima azienda di Castellucchio. Un giorno fattosi coraggio, gli chiede se fosse stato possibile essere assunto presso la ditta. Il sig. Lino aveva avuto modo di apprezzare le sue belle qualità e conoscendo anche la sua esperienza nel campo della maialatura, non ha esitazioni e gli dice di presentarsi. Così, a soli 17 anni Archimede entra in uno dei più rinomati salumifici italiani. Era il settembre del 1949. Il sabato pomeriggio e la domenica continua per anni la sua attività di norcino.Nella Levoni si fa strada e giunge negli anni a sostituire l’addetto alle conce licenziato in modo piuttosto brusco dopo un’ennesima disattenzione. Il sig. Lino lo ammonisce: “Èt vist cal là. Se a ta stè mia atenti at fè la stessa fin”.Tira fuori un blocchetto di appunti vecchio come il cucco, una sorta di Tavole della Legge, ove sono scritte le proporzioni degli ingredienti per i vari prodotti. Di questi ultimi mi elenca, con malcelata compiacenza, una lunga sfilza: ungherese (un caposal-do, ricercatissimo da sempre), paesanella, abruzzese, Fabriano, nostrano mantovano, Felino (nel budello gentile), Napoli e Mugnano (un poco affumicati), sopressa veneta (insaccata nella bondiana, budello di manzo). S. Angelo (piccolo e pregiato), speck, mortadella, et cetera, et cetera, et cetera. Come era possibile produrre questa gamma di insaccati offrendo al consumatore la ti-picità di ciascuno di essi ? Era cosa complessa ma anche semplice. I rappresentanti re-sidenti nelle varie regioni italiane, portavano campioni e conce dei loro prodotti locali più richiesti. In ditta venivano analizzati a fondo, replicati e testati più volte assieme ai rappresentanti stessi che, dopo assaggi scrupolosi, suggerivano eventuali correzioni. Per sapienti approssimazioni successive si raggiungeva la formula ottimale. Si ap-prontava allora una produzione di lancio che era consegnata ai piazzisti affinchè fosse distribuita presso i principali negozi della loro zona. Ma ritorniamo alla dea Maia.Al buio arrivavano lui ed il padre. Il giorno prima alla bestia non era stato dato niente da mangiare sia per diminuire la massa nei budelli e sia per invogliarlo a venir fuori dal porcile. La donna che abitualmente gli portava la şota andava avanti con il solito secchio. Appena uscito lo si arpionava per la gola con al rampìn per tenerlo fermo ed il più rapidamente possibile lo si ribaltava. Le gambe davanti avevano meno forza di quelle dietro e proprio queste erano afferrate da due uomini robusti. Seguiva all’i-stante l’uccisione con una baionetta. Non era tanto importante colpire il cuore quanto tagliare l’aorta principale. In pochi momenti moriva. A quel tempo le donne erano solite raccogliere il sangue per fare le morette. Queste richiedevano però una elaborazione complessa, piuttosto brigosa, che avrebbe allun-gato di parecchio il tempo di lavoro con compromissione dell’ora della cena, attesa con gioia da tutti. Sorridendo mi racconta che in queste occasioni, con un’occhiata complice fra loro, mettevano in funzione una scappatoia di pragmatica concezione contadina: mentre la donna raccoglieva il sangue davano un colpetto al maiale moren-te il quale reagiva con un sussulto delle gambe davanti tenute astutamente libere. Il recipiente riceveva uno scossone che faceva fuoriuscire buona parte del liquido. Meno

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sangue, meno morette, meno tempo per arrivare con i piedi sotto la tavola. Seguivano le solite operazioni di lavatura, eliminazione delle setole, sollevamento al picaröl ed evisceramento. Prima di alzarlo si pulivano bene i piedi e la testa, opera-zione più agevole con il corpo a terra che non appeso. I budelli erano subito sgrassati, rivoltati affinchè l’impasto degli insaccati non venisse a contatto con la parte interna, più sporca, e lavati varie volte con acqua ed aceto. Le donne cucivano i budelli. Il gentile e la bariöla erano destinati ai salami mentre le budelline venivano aperte per la lunga tramite un coltello con un fagiolo infilzato nella punta. Tali strisce si tagliavano poi trasversalmente, alla distanza di circa 25 - 30 cm. (la lunghezza di un insaccato) e poi, tre a tre (tri fet) cucite assieme. Si ottenevano così gli involucri dei salami. Dal gentile sino alla bariöla si ricavavano invece i budelli per i cotechini.A metà mattina un poco di sosta. I due mezzi venivano portati dentro casa e stesi sull’asse della pasta mentre le donne portavano in tavola la fritüra, la polenta ed il vino nuovo. Finita la colazione con dignità di pranzo, si tagliavano a pezzi le carni distinguendo quelle per salami, cotechini, morette, coppe, pancette ecc. Esse erano disossate, mondate dai nervi, dalle parti sanguinose e dal grasso molle con il quale si facevano le grepule, in italiano ciccioli, ma è versione asettica, senz’anima. Ci vole-va una persona esperta. Si mettevano i pezzi nel paioletto di rame con in fondo un paio di mestoli di acqua per avviare la cottura e quindi si facevano andare a fiamma non troppo alta. Il grasso si scioglieva e diventava l’unt (lo strutto). Man mano lo si raccoglieva e si versava in recipienti di terracotta. Alla fine si levavano - operazione da fare in pochi secondi per evitare di bruciare tutto - i pezzi ormai bruniti, le grepule appunto. Prima che diventassero fredde si salavano e si addentavano con soddisfazio-ne perché erano le prime dopo un anno di attesa.Si riducevano le carni e le cotiche (con un coltellaccio) a strisce per lavorarle meglio. Si macinava con la machina e si metteva l’impasto nella meséta e si spargeva sopra la concia ed il vino agliato. Il tutto era lavorato a lungo, voltando e rivoltando, ed “aran-dolo” con le dita. Nel cotechino finivano le parti meno nobili e le carni della testa. Parliamo della Fiera di Grazie. È da secoli un caposaldo della sacertà mantovana, un luogo ed un momento nei quali si coniugavano la religiosità del contado e la voglia di festa, a mo’ di compenso per le tante tribolazioni patite durante l’annata. Lungo la strada che porta al santuario ci sono ancora oggi i banchetti che offrono merci di ogni genere ma soprattutto pane e cotechino fumante. Per quel giorno, pane e cotechino rappresentano realisticamente la dimensione popolare della fede. Su enormi vassoi di terracotta (oggi di acciaio) vengono esposti dei monumenti di sei, sette chili sezio-nati a bello studio così da mostrare le soavità interne, fumanti, dense ed appiccicose, pronte al sacrificio. La fiera si tiene d’estate quando c’è molto caldo ed i cotechini sono preparati due o tre giorni prima. Per l’occasione vengono macellati una ventina di maiali.Finiamo con un panoramica sui nostri acciacchi. Ci confidiamo, con reciproca com-prensione, le rispettive magagne. Mi fa vedere il frigorifero, origine perfida di tanti

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incomodi. È pieno di cose buone che lui, solamente per non buttarle via, si intende, ogni tanto addenta con successiva arrabbiatura delle figlie.Mette sul tavolo un cartoccio pieno di grepule. Sono salatine ma pastose al punto giu-sto. Mi appaiono come un Satana sotto la specie di tocchetti sodi e deliziosi, venati di carne e di grasso. Per una volta non mi perito di effondere con il maligno.

CONCE

Salame

Sale (una volta) 3 %Salnitro 20 g / qPepe nero in polvere 100 g / q – a mezza grana 150 g / qAglio 2 teste / q (tagliuzzato prima con un coltello, addizionato di sale già pesato e poi ridotto in panàda (in poltiglia) con il dorso di una bottiglia.Droga 25 g / q (chiodi di garofano, macis, cannella, pepe garofanato)Noce moscata 25 g / q ridotta in polvereLa concia va sparsa sull’impasto disteso nella meséta ed introdotto con le dita scen-dendo fino al palmo e quindi va rivoltato e pugnato sino a quando un gnocchetto sbattuto sul palmo della mano posta in verticale vi resta attaccato.

Coppa

Stessa concia del salame. Va sparsa e premuta in modo che penetri in profondità. Lui la metteva al fresco, ma non al frigido, tra i vetri e gli scuri di una finestra. La insac-cava nella vescica dopo due giorni. Ritornava nelle famiglie per questa operazione ed anche per macinare il grasso da conservare in recipienti di vetro o di terracotta.

Cotechino

Sale 3,5 %Salnitro 20 g / qAglio poco, ad occhioPepe 100 g / q in polvere (come per i salami)Noce moscata 30 g / qChiodi di garofano in polvere 20 g / qSpezie 20 g / q

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Pancetta

Sale bianco e salnitro 3 %

Quando si arrotola, si mettono all’interno, in proporzioni quasi a piacere, chiodi di garofano, cannella, pepe, noce moscata, aglio ecc.).

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Cereta è un piccolo paese, frazione di Volta Mantovana. È situato all’interno della campagna ai piedi delle colline moreniche ma dista poco dalla provinciale per Brescia. Non vi sono industrie, i laboratori artigianali sono pochi e di modeste dimensioni, la vita della comunità ha il suo riferimento nella storica osteria dei Ferri, famosa per i capunsei della signora Lidia. I ceretesi vivono ancora oggi una vita semplice, di tipo direi patriarcale con echi evidenti di una lontana quiete arcadica, in conclamata dissonanza con la concitazione dei nostri tempi e proprio per questo ricca di fascino per chi ricorda il passato con qualche rimpianto.Nel secolo scorso, a cavallo dell’ultima grande guerra, dopo l’11 novembre data canonica per l’inizio delle maialature, non era inconsueto vedere un uomo mingherlino e di bassa statura, avanzare per le vie del paese con la machina di salàm sulle spalle ed un borsone (o un carrettino ad una stanga con due ruote da bicicletta) con dentro gli attrezzi del mestiere. Era Delchi (corruzione dialettale di Adelchi) Bonani, masalìn che in inverno andava da una famiglia all’altra a far sõ él pursèl. Era bravo ed aveva sempre qualcuno che lo seguiva per addentrarsi nella pratica e carpire i segreti delle spezie. Delchi aveva avuto due figli: Rino e Sante. Il primo faceva l’operaio mentre il secondo era contadino ma toccato intimamente come il padre dalla rivelazione masalina. Sante, inteso da tutti come el Santì, si avvia all’arte ed in breve tempo acquisisce grande fama. Era richiesto in tutta la zona. Piccolo anche lui ma di forte personalità ed eccezionalmente capace, doveva talvolta rifiutare le molte richieste di giovani, quasi sempre manovali edili, disponibilissimi ad aiutarlo. Era questo un modo allora per praticare un secondo mestiere e tirare avanti. Vado a Cereta a raccogliere elementi certi da uno dei suoi più cari allievi: il sig. Giannino Primon, ben oltre i settanta ma ancora di piglio giovanile. Mi accorgo che per lui ricordare questi aspetti del suo passato è un affettuoso ritorno ad una passione antica.

El Santì e la scuola di Cereta

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Giannino è andato famei (famiglio) all’età di 12 anni dopo una lunga tribolazione infantile per via della tus canina. Verso i 17 - 18 inizia la sua attività di norcino. Diventa masalìn completo pronto ad assumersi le relative responsabilità sui 25 anni. Andava nelle case in motocicletta con la machina di salàm fissata dietro ed i coltelli e le spezie in un cesto davanti. Mi accoglie sulla porta e mi conduce ad un tavolo dove è già pronta la cosiddetta “ospitalità” e cioè un piatto colmo di fette di salame ben presieduto da una impettita bottiglia di vino nostrano, senza pretese ma di sapida bontà rusticale. Le immagini si affollano nitide e ricche di particolari. Entra da giovane nella cerchia del Santì che allora portava con sé, a dare una mano sapiente, il padre Delchi di 83 anni. Mi dice che questi era magro come il figlio, era ancora abile ed efficiente e teneva sempre il coltello tra i denti. Apprende da entrambi.Santì era di una rapidità eccezionale, curava meticolosamente le carni, mangiava poco e, dopo la fritüra di metà mattina, si alzava da tavola con sollecitudine perchè il lavoro veniva prima di tutto. Per i maestri allora c’era un grande rispetto. Santì capiva che la lavorazione era allo stesso tempo fatica ma anche insegnamento per cui ne spiegava con ogni dettaglio i passaggi più difficili. Non rimproverava, era comprensivo ma anche di polso fermo quando occorreva. Non faceva mai violenza al maiale perchè altrimenti “il sangue restava dentro”, le carni diventavano scure e quindi meno gradevoli al palato. La uccisione avveniva tramite el scupìn, cioè una specie di grosso chiodo dalla larga cappella fissato trasversalmente ad un tondino di ferro lungo più di mezzo metro che fungeva da braccio. L’aiutante appoggiava la punta sulla fronte della bestia ed il masalìn con un colpo preciso della mazza di legno gliela ficcava dentro. Tramortita, la si scannava e dopo averne levate le setole si issava sul “becaröl”, un trave orizzontale con dei fori nei quali si infilavano cavicchi di legno per fissare alla giusta distanza le gambe aperte.Santì è stato il creatore di uno stile di lavoro, di una metodica di procedimenti, di scelte e proporzioni delle conce che hanno avuto molti discepoli. Nel tempo infatti era venuto a formarsi un gruppo ragguardevole di abilissimi artigiani della maialatura per cui parlare di una vera e propria scuola è ampiamente giustificato. Consegno i loro nomi alla storia del contado mantovano: Giannino Primòn, Gino Vagni, Enzo Cavallara, Arnaldo Federici, Gaetano Gobbi, Luigino Pasquali. Il senatore Renato Colombo di Mantova era solito farsi fare i salami a Cereta. Ho finito, esco nel cortile e vedo qua e là parecchi gatti. Mi sorprendo e chiedo alla signora Claretta, moglie di Giannino, da dove arrivano. Mi spiega che vengono portati da coloro che vogliono disfarsene (sic). Insisto: ma non sono troppi ? La risposta: e alura, cusa s’ha da far ? La traduzione in italiano sarebbe “e allora, cosa si deve fare” ma è insignificante, inespressiva, ottusa. Manca il sentimento forte ed ineludibile della perenne solidarietà contadina, della difesa della vita, di ogni vita.

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L’intervista al Boccazzi mi riesce particolarmente ardua e laboriosa. I suoi 67 anni traspaiono dalla sua incipiente logorrea – per il resto è un giovanotto - che mi impo-ne frequenti soprassalti autoritari per circoscrivere, contenere, ricondurre il discorso all’essenza del tema. È stato ambulante e verosimilmente qualche giacenza di parlan-tina facile e debordante gli è rimasta attaccata alla lingua. Quando racconta è un fiume in piena e anche il più piccolo particolare si trasforma d’acchito in una descrizione straripante di annessi e connessi. La sua vita è una storia emblematica delle afflizioni della campagna. Franco, da giovane, ha vissuto infatti la sofferenza che caratterizzava il lavoro nell’im-mediato dopoguerra. D’inverno non c’era molto da fare, le entrate scarseggiavano, il conto con il bottegaio si allungava paurosamente e perciò, oltre all’attività abituale, si dava da fare come masalìn nelle famiglie del contado. Emerge in tutta la sua tangi-bilità lo spirito di adattamento proprio degli uomini di una volta e dei guidizzolesi in particolare. Era una peculiarità, il portato di un’educazione antica dove la privazione e la parsimonia erano presenze quotidiane in ogni famiglia. Si iniziava da giovanissimi a percorrere la via aspra della vita, senza mai scadere nella disperazione di fronte alle difficoltà.Franco Boccazzi ha cominciato a 9 anni a lavorare come marangone presso la ditta Cagioni, Tomasi ed Anversa - mobili ed infissi - molto nota ed apprezzata in tutta la zona. La sua paga era di 500 lire alla settimana corrispondenti a 0,25 centesimi di euro che lui però vedeva molto raramente perché i titolari andavano ogni giorno e ad ogni ora – la segatura, si sa, è terribile per la gola - all’osteria della Via de Mès (via Chiassi) a fare qualche gargarismo curativo. Apprende l’arte masalina all’età di 24 anni seguendo il suo amico Remo Cagioni, operaio presso la IAG di Gazoldo. Dopo due anni è maestro finito e va nelle case a far sö el pursèl da solo o con qualche aiutante occasionale. È molto richiesto per la attenzione, la bravura e le conce.

Franco Boccazzi Guidizzolo

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Mi fa vedere un braccio tormentato. Una volta, per un brusco scarto dell’animale al momento di sparargli il chiodo per tramortirlo è stato ferito profondamente dal polso al gomito. Si è legato alla bene e meglio con una corda, si è coperto con un giubbetto impermeabile ed ha continuato il suo lavoro. La descrizione dell’episodio cruento non mi ha sorpreso più di tanto. Molti anni fa, nelle nostre zone, non c’erano tempo né soldi per farsi curare dal dottore per cui le famiglie abituavano a sopportare anche i dolori più lancinanti. Era un’educazione spartana che forgiava alla vita di allora, rude e senza fisime ma illuminata da grandi valori umani e religiosi. Ricorda anche, ma lo fa a stento, con fatica, che una famiglia gli aveva commissio-nato la lavorazione di tre maiali nello stesso giorno. Lo stalletto era posto un poco in alto e per accedervi si dovevano salire tre gradini. Ha fatto subito presente che poteva esserci qualche pericolo ma non c’è stato verso di convincere il proprietario. Allora è andato su, è entrato nella porcilaia e con la pistola sparapunte ha ammazzato il primo, poi ha ucciso anche il secondo ma quando ha tentato di abbattere il terzo questo gli si è scagliato contro e prendendolo con il grugno in mezzo alle gambe lo ha sbattuto violentemente contro il muro. Riuscito a malapena a sfuggire ad altri assalti, non si è dato per vinto perchè bisognava guadagnare la giornata. Rientrato nel porcile, appena ha potuto ha sferrato nel ventre, quasi a casaccio, una coltellata veemente. La pena è durata quasi mezz’ora.Arrivava al mattino presto che c’era già tutto pronto: al becaröl per issare il maiale, al paröl con l’acqua caldissima, la botula ‘d paja per tenere sollevata la bestia e le-varne le setole, i tavoli per la lavorazione, i canovacci, la grande padèla per cuocere la colazione ecc. La mattazione avveniva in modo decisamente violento, difficile persino da narrare. Appena tirato fuori dallo stalletto veniva inferto al maiale un colpo violento cun l’occ dal manarìn (con il retro di una scure, là dove è infilato il manico) sulla fronte. Era necessario essere svelti e decisi. La bestia era tramortita e quasi immobile. Bisognava immediatamente scannarla e darle la morte. Altro procedimento: in quattro, uno per gamba, tenevano fermo il maiale su un asse robusto e lui con un ferro lungo ed acumi-nato (al scupìn) lo corava stando attento - pietà pelosa - a non invadere la zona della spalla per non rovinarne la carne.Pulita alla meglio con ripetuti secchi d’acqua fredda dallo sporco superficiale, veniva sistemata su una botula ‘d paja, una balla di paglia, e quindi pelata versando acqua bollente (insiste sull’aggettivo ‘bollente’ che mi sconcerta un poco) sulla cotica e raspando le setole con il solito raschietto. I peli residui, soprattutto quelli della testa, erano eliminati bruciandovi sotto della carta, quasi sempre dei vecchi giornali tenuti in serbo per la bisogna. Dice che faceva un certo senso vedere la testa tutta annerita. Sembrava il diavolo. Agganciato poi il maiale ai tendini delle zampe posteriori e fissato ad una traversa di legno con dei fori per tenergli dilatate le gambe, era sollevato da terra. Si tagliava dall’alto in basso per la parte ventrale e quindi si estraevano le budella, subito passate

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ai lavoranti per la pulizia, mentre la corata (polmoni, milza, cuore, fegato ecc.) veniva estratta, lavata, ridotta a tocchetti o fettine e messa a disposizione delle donne per la fritüra, la deliziosa ed affascinante colazione di metà mattino. La descrizione delle fasi successive e cioè la scelta delle diverse carni per i vari insac-cati, la macinatura delle stesse, la concia, la insaccatura e la legatura non differiscono sostanzialmente dalla modalità comune a tutti masalìn della zona.I suoi criteri personali per l’uso della màchina di salàm erano questi: piastra del 10 per i salami, piastra iniziale del 18 (tre fori) per i cotechini per poi passare a quella dell’ 8 e ripassare una seconda volta con lo stesso diametro.Il suo repertorio: salame, coppa, pancetta, cotechino, fiocchetto, speck. Drizzo le orecchie: anche lo speck ? Risposta: si parché a gò la màchina par al füm.

CONCE

Salame

Sale 2,8 – 3,0 (una volta, ora 2,2 al massimo)Pepe a mezzagrana g 150 per q.le di impastoVino una bottiglia di vino rosso corposo per qAglio tre teste per q di impasto. L’aglio va sminuzzato, immerso nel vino rosso la sera prima, strizzato con un panno sull’impasto stesso. I residui di aglio vanno messi nei cotechini.Spezie (noce moscata, chiodi di garofano, cannella) ad occhio, una bella pizzicata.

Cotechino

Come per il salame ma con maggiore sale, aglio e spezie.

Coppa

Se si concia nello stesso giorno mettere a bagno con vino rosso condito con il 2,5 % (peso della carne) di un bel misto di sale, spezie, aglio, pepe.

Pancetta

Non modifica sostanzialmente la sua dottrina aromatizzante. Modifica leggermente le quantità: tenere per qualche ora in salamoia con vino, sale 3 % e, ad occhio, pepe, aglio, poche spezie.

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RICETTE

Porchetta

Mi descrive il procedimento con la precisione e lo scrupolo che gli sono propri. Lui prende un maiale di circa cinquanta chili. Lo netta bene come per la maialatura e quindi lo disossa accuratamente stando bene attento di non intaccare la cotica. Lo condisce con:

- sale 1,5 % del peso vivo- pepe ridotto in polvere nella proporzione di un etto per q- tre cipolle bianche mondate e tagliate a tocchi.- rosmarino (gli aghi di due bei rametti).- un misto di erbe e spezie di sua produzione segretissima, una brancatina- 2 etti di burro a cubetti - Il succo di un limone.

Infila e sparge il tutto, ben mescolato, all’interno. Chiude la pancia con ago grosso e cordino, lega con dello spago e vi avvolge attorno infine una corda grossa, speciale, elastica, che stringe continuamente anche durante la cottura. Infila tra questa e la coti-ca dei rametti di rosmarino per rendere più saporito l’esterno.Porta la porchetta al forno dei Nosari di Guidizzolo (mi informa in assillante continua-zione che sono bravissimi) dove viene passata a calore non troppo alto per sei – sette ore. Dopo due ore il fornaio bagna la meraviglia e la placca che la contiene con due bottiglie di vino bianco secco. Secondo i suoi calcoli - sempre meticolosi neh - se da viva pesa 50 chili, disossata ne pesa 27 e cotta 18.Ad operazione ultimata toglie il rosmarino messo all’esterno e lo sostituisce con altro bello, verde, fresco. Perché, chiedo io ? Al fa pu sé bèl vedàr. È più bello alla vista.Porta alla compagnia, riscuote l’applauso, affetta, serve.La spiegazione è talmente appassionata e fervida che sono affascinato, commosso. Mi sembra di essere seduto anch’io là, alla tavola amicale, sorridente e con la forchetta brandita. Il masalìn Boccazzi, vede il mio turbamento e, svelto di comprendonio, si immedesima. Mi assicura che provvederà.

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A Castiglione Mantovano, piccolo centro della provincia ai piedi delle colline, si è costituito un gruppo di giovani che rivive - con l’entusiasmo che è proprio dell’età - le atmosfere che animavano le comunità contadine di una volta, fatte di impegno e sacrificio ma anche della gioia di stare assieme dopo il lavoro o nei giorni di festa. Si sono dati il nome di “Compagnìa del fil de fèr”, storico appellativo delle vecchie brigate nostrali. Con il loro dinamismo sono diventati ormai il fulcro della vita del paese, sono atti-vamente presenti con spirito di servizio, ad ogni incontro sociale ed amano ritrovarsi escogitando forme singolari di interesse comune. Non vogliono perdere insomma la dimensione naturale dell’uomo, quel meraviglioso sentimento popolare fatto di amore per le cose semplici, di schiettezza, di simpatia e, soprattutto, di amicizia. Ho avuto notizia della loro esistenza facendo ricerche in tutta la provincia per la ste-sura di questo libro. Proprio ora che l’arte della norcineria sembra soccombere agli attacchi perversi della modernità, appaiono improvvisamente dei bravi ragazzi che sia pure con modalità moderne riscoprono le nostre più autentiche tradizioni comunitarie. Al tempo della maialatura anch’essi “fanno su al pursèl”, guidati da qualcuno di loro che ha avuto qualche momentanea esperienza specifica. Alla fine si spartiscono un paio di salami a testa, un cotechino, qualche grépula ed un paio di pancette arrotolate da degustare, tutti assieme ovviamente, in qualche bella sera d’estate. Non sfugge certamente il risultato vero di questo impegno. Esso non si esaurisce infat-ti in quello che si porta a casa ma in ciò che resta nel cuore e cioè il vivo ricordo di una giornata trascorsa in sana allegria tra risate, battute, simpatici sfottò e qualche cantata. Con gagliarda appendice finale della fritüra, monumento della cucina rusticale. Si capirà facilmente che quel salame, quel cotechino, quel cartoccetto di grepule, non sono il portato della perfezione masalina, hanno più di una perfida pecca ma possie-dono tuttavia un gusto di gran lunga superiore a qualsiasi altro cibo che arriva sulla tavola. C’è dentro un sapore particolare: l’inappagabile piacere che hanno tutte le cose fatte assieme e con le proprie mani.

La compagnia del fil de fer

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I masalì di Gozzolina

Mi sembra di essere ritornato in cattedra. È una sensazione forte, intensa che mi tocca di dentro perché mi riporta indietro di parecchi anni: davanti a me c‘è il gruppo dei masalì (nella parlata locale cade la consonante finale) di Gozzolina, una frazione di Castiglione delle Stiviere, posta ai limiti settentrionali della morena mantovana. Anziani e giovani, maestri ed aiutanti, sono accomunati dalla imperativa passione della norcineria. Capeggiati dal solerte Maurizio Fezzardi, si sono dati alla resistenza ed hanno formato un sodalizio vivo e volenteroso che anima le feste della comunità e che allieta, come una volta, il desco della famiglie. Sono degni del lauro. Eccoli:

Amedeo Scandolara. Ha cominciato a 9 anni in una macelleria di Casalmoro. È qui da tre anni e si trova benissimo in questo contesto rusticale. Realizza salami, coppe, pancette e cotechini. Cura particolarmente la qualità.Dionisio Bonati. Inizia a sette anni ad aiutare nelle operazioni. Mi mostra con un certo orgoglio un dito accorciato da un incidente alla machina di salàm. Ha lavorato circa 900 maiali.Samuele Trebeschi. È norcino completo da due anni. Ci tiene a farmi sapere che è un risottaro a la pilota. Cuoce questo piatto senza il coperchio ma con solo un panno sopra la pentola. A 6 anni collaborava preparando l’aglio.Maurizio Fezzardi. Tiene unito il gruppo. Da piccolo aiutava il padre. Prepara anche il fiocco e la lonza insaccata. Attento e generoso, affetta con maestrìa. È molto attivo e benvoluto. Tiene molto alla vita sociale della collettività.Maurizio Treccani. Inizia a 14 anni con il cugino Luciano Mondelli. Sono sempre assieme. Nel suo repertorio vi sono anche l’osso dello stomaco (la carne migliore) e le costine insalamate.Daniele Piazza. Comincia a 10 anni con il padre. Talvolta uccide con la pistola ma preferisce le mezzene già pronte. Nell’osso dello stomaco mette la carne del cotechino. Fa anche - curiosità assoluta - il cotechino con dentro la coda.Enrico Novazzi. Per 40 anni ha fatto il macellaio, ora fa solamente il masalì. È un’attività piuttosto

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ridotta, per poche famiglie di amici e parenti ma gli piace moltissimo. Produce la noce con la carne conciata e poi insaccata.Giuseppe Zilio. Apprende l’arte all’età di 16 anni con Luigi Morandi. Si appassiona subito ed è pieno di intimo fervore per rito della maialatura. Nell’elenco delle sublimità annovera anche il culatello.Giacomo Treccani. È un personaggio molto interessante. È reso curioso da un paio di baffi a manubrio di taglio ottocentesco. Alleva maiali e bovini. Vive il baldachì con lo stesso atteggiamento dei nostri nonni: la sicurezza, la certezza di avere a disposizione quanto occorre per mantenere la famiglia e per superare le difficoltà. Un tempo era un’affanno, quasi un’angoscia e lo capisco perfettamente. Sollecitato, immagino, da questo nobilissimo sentimento prepara ogni anno una pancetta con cotica di quasi quindici chili. Sono sorpreso ed ammirato. Nasce un impegno.

Amedeo Scandolara Samuele TrebeschiDionisio Bonati

Maurizio Fezzardi Maurizio Treccani Daniele Piazza

Enrico Novazzi Giuseppe Zilio Giacomo Treccani

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La fritüra

La fritüra è la colazione tipica di metà mattina dei partecipanti (masalìn, assistenti e familiari) alla lavorazione del maiale domestico. Sia pure con qualche variazione, con qualche adattamento locale, è quasi la stessa in tutto il mantovano e dintorni. La sua ricetta, se letta in filigrana, ci dice molto dei tempi passati, delle ristrettezze storiche della campagna ma anche della capacità delle donne di casa di porre sul desco cibi meravigliosi.Appartiene incantevolmente alla cucina del quinto quarto. Per gli ingredienti che la compongono potrebbe sembrare un piatto volgare ma non è così. La miscela di sapori diversi ma aventi tutti la stessa origine, il maiale appunto, e la freschezza della mate-ria prima, riescono ancora oggi ad illuminare anche i palati più esigenti e sofisticati. Ritengo che a questo concorra in misura rilevante l’ineludibile condizionamento del “gusto originario” vale a dire quell’imprinting alimentare (si leggano le conclusioni dell’etologo Conrad Lorenz) acquisito nella primissima infanzia e che accompagna ciascuno di noi per tutta la vita.È così rituale, tipica e corrispondente all’atmosfera viva e cordiale della giornata, che ho ritenuto opportuno raccogliere le ricette ricevute in un capitolo specifico. Ritengo interessante evidenziare, sotto il profilo della sociologia rurale, come nell’am-bito dello stesso piccolo paese la ricetta potesse subire delle varianti significative. Por-to ad esempio due cuoche di Cerlongo: la signora Teresina Gaetti (nata il 18 marzo del 1923, tiene a precisare) e la signora Adalgisa “Cisa” Pistoni certamente più giovane, che teneva un “ambiente” cioè una osteria-trattoria.

Teresina Gaetti: reticella e cipolla iniziali, poi caren mate e polmone, quindi, verso la fine, fegato, sale e pepe.

Adalgisa Pistoni: tutto a freddo reticella, caren mate, cipolla, burro abbondante, vino bianco, pepe. Fare andare per oltre un’ora, quasi due. Verso la fine il fegato ed un poco

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di dado (contaminazione recente). Niente sale. Un esempio di come si cucinasse questo piatto già nei secoli scorsi, potrebbe essere quello riportato nel capitolo “Il maiale nella letteratura”, nel brano dell’autore Agosti-no Romoli con il titolo “un paracuore in potaggio”.

Cerlongo

Qui si chiama fretüra. La formula è tratta dal libro “La cucina cerlonghina”.Ingredienti: caren mate (animelle, ghiandole, minutaglia, carni non adatte per salami o cotechini ecc.), cipolla, redesèl (reticella), polmone, fegato, una spanna di filetto, sangue di maiale, salvia, vino bianco, rosmarino, sale, pepe, limone.Esecuzione: in un grosso tegame fare un soffritto con la reticella, le caren mate e la ci-polla. L’omento sciogliendosi fornisce il grasso necessario. Poi si aggiunge la salvia, il rosmarino ed il polmone tagliato a pezzetti e si fa cuocere il tutto per un’ora abbon-dante, bagnando ogni tanto con il vino bianco. A metà cottura unire il filetto tagliato a fettine, salare e pepare secondo gradimento. Quando siamo quasi alla fine si aggiunge il sangue cotto ed il fegato tagliati a fettine. La fretüra si serviva con polenta fresca. Qualcuno vi spruzzava sopra qualche goccia di limone. Cottura del sangue: si raccoglieva il sangue del maiale in una pentola e lo si cuoceva con acqua calda leggermente salata. Quando era ben coagulato lo si estraeva con un mestolo forato e, posto sull’asse da cucina, lo si affettava o lo si riduceva a pezzi.

Ceresara (formula del masalìn Zeno Roverato)

Il sig. Roverato ha delle convinzioni ben precise su questo piatto e sul come veniva cucinato nel suo paese. Ritiene infatti che le carni del maiale fresche, come lo sono appunto nel giorno della maialatura, abbiano un sapore ed una fragranza importanti e particolari che sarebbe colpevole alterare con cipolla ed altri ingredienti. La fritüra era cotta dalle donne intanto che il masalìn ed i suoi aiutanti stavano nella stalla (un po’ al caldo) a pulire i budelli. Mentre l’intingolo si cuoceva, si mettevano i piatti lun-go il corrimano della stufa così da riscaldarli bene e contrastare il freddo che tendeva a coagulare piuttosto rapidamente la parte grassa della fritüra.Ridurre in piccoli pezzi l’unto del surrene (sunşì), e sciogliere lentamente nella grande padella (non si usa la reticella), quando inizia a liquefarsi aggingere le caren mate e il polmone (curada) tagliati sottilmente. Cuocere a fuoco lento per circa 40 minuti, aggiungere il fegato e il filetto a fette sottili e terminare la cottura (10 minuti circa).Il sale e il limone viene messo a piacere direttamente nel piatto..

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Schivenoglia (formula della signora Anna Maria Riccardi, moglie del masalin Silvano Buoli)

Mettere in una ampia padella di rame della reticella con molta cipolla affettata fine-mente. Quando il tutto si è ben cotto (ma non rosolato) unire le ghiandole della gola, un filetto affettato finemente ed abbondante fegato nettato e ridotto a pezzi. Aggiun-gere rosmarino, alloro, salvia, poco aglio, pepe, garofano, cannella. Gli ingredien-ti vanno messi tutti contemporaneamente nel tegame. Non essendoci il polmone, il tempo di cottura è piuttosto breve per cui il fegato non diventa duro. Niente vino chè tenderebbe a rendere coriacea la pietanza.

S. Giacomo Segnate (formula della signora Tersilla, nonna, del masalìn Gianni Vicini)

Mettere nella padella - tutto accuratamente nettato e tagliato a pezzi - la reticella, il fegato, l’esofago, i polmoni, le ghiandole della coppa e la milza. Fare andare a coperto ed a fiamma bassissima per il tempo necessario alla cottura (circa tre ore). Servire, con polenta fresca, come colazione-pranzo per i lavoranti della maialatura. Quello che restava era sistemato in pentole alte di coccio, coperto a filo con lo strutto e nascosto. Il sig. Gianni dice “nascosto” con un ampio sorriso. Mi spiega che lui, amante del piatto e giovane con fame gagliarda, lo cercava continuamente e dappertutto ma non lo trovava mai perché la nonna riusciva sempre, con furbizia femminile, a sottrarlo alle sue spasmodiche ricerche.

Soave di Porto Mantovano (formula della signora Emma Germiniasi, moglie del Todeschi)

Fare un fondo con poco olio, reticella di maiale ed abbondante cipolla. Quando il tut-to è ben rosolato, a fiamma bassissima, unire il fegato ben nettato e tagliato a fettine sottili. Salare e pepare. Alla fine addizionare un bel bicchiere di vino bianco secco e fare andare ancora un poco. Spruzzare sopra del succo di limone. Con polenta solare. Talvolta la signora, ma solamente per accontentare il marito, mette un poco di caren mate cioè ghiandole ed altri rimasugli.

Castelbelforte (formula del masalìn Battista Toaldo)

Formula semplice e sbrigativa. Tagliare il fegato, ben pulito dalle pelletiche, a fette sottili. In un tegame fare un fondo di reticella ed abbondante cipolla. Bagnare con vino bianco. Sale e pepe. Unire il fegato già preparato e cuocere per poco tempo altrimenti

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si indurisce.Talvolta nel soffritto di base già pronto aggiunge i polmoni ridotti a pezzetti, poca salvia e poco rosmarino.

Torre di Goito (formula della signora Antonietta, moglie di Valentino Tartari)

Prendere della reticella di maiale e soffriggervi molta cipolla. Quando il tutto è ben cotto (ma non colorito) aggiungervi fettine di filetto ed il fegato mondato e tagliato a pezzi. Fare andare per non più di dieci minuti. Salare e servire con mezzi limoni. Niente polmoni nè caren mate.

S. Giovanni del Dosso (formula della signora Claudia Vicini, moglie del masalìn Icilio Benatti)

Pulire bene la reticella in acqua tiepida, tagliarla a pezzi grossolani e farla sciogliere un poco in una padella di rame. Aggiungere abbondante cipolla affettata finemente, polmone ben nettato e ridotto a pezzetti e fare cuocere per circa un’ora. Ad un quarto d’ora dalla fine addizionare il fegato tagliato a fettine.Accompagnava tradizionalmente il piatto anche il gras pistà vale a dire lardo battuto sul tagliere, ridotto in poltiglia, e condito con sale ed aglio (poco). Polenta abbondan-te, fette in ordine sparso.

Quingentole (formula della signora Marina Sgarbi ricevuta come bene dotale dalla mamma Ida).

Soffriggere della cipolla con olio d’oliva, un pizzico di pepe e sale quanto basta. A cipolla rosolata aggiungere il fegato tagliato a fette di circa 1 cm di spessore, friggere a fuoco alto, girare un paio di volte il fegato fino a che non perde più sangue. Mettere nel piatto, spruzzare con succo di limone, accompagnare con fette di polenta abbru-stolita (preferibilmente sulle braci).

Roncoferraro (formula del masalìn Giordano Dugoni)

In una padella di ferro o di acciaio a doppio fondo, mettere della reticella e due o tre cucchiai di strutto. Fare sciogliere ed aggiungere subito un paio di cipolle ramate fine-mente affettate. Fare andare a fuoco lento. Addizionare poi il fegato tagliato in modo da avere un bordo spesso ed uno fine (come lo spicchio di un pompelmo, precisa Du-

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goni con finezza bizantina). Far passare a fuoco allegro per circa una decina di minuti, per il tempo necessario cioè che il fegato cuocia ma senza indurire. Alla fine salare, pepare e spruzzare di succo di limone. Durante tutte le fasi, rigirare con cura affinchè la preparazione si presenti di colore grigiastro ed eccellente al palato.Il Maestro precisa: “In casa mia venivano consumati 3 hg di fegato a persona mangiati cun ordèi (orli) ad pulenta fresca, tajada cun al ref (filo di refe) u brustulìda in sla piastra dla stüa”. Non traduco, è chiaro così.

Carbonara di Po (antica formula della signora Mercedes Menghini, madre del ma-salìn Adriano Luppi)

Mettere in una capace padella della raidèla (omento), della cipolla abbondante tritata finemente ed i polmoni curati e tagliati a pezzetti. Fare andare a coperto ed a fiamma bassa finchè il polmone diventa tenero. Aggiungere il fegato mondato e tagliato a fette piccole e sottili. Portare a cottura. Salare e pepare alla fine. Polenta fresca tagliata a fette con del refe.

Castelletto Borgo (formula della signora Amalia Pinotti, moglie di Vico Fava)

In una teglia capace mettere della reticella, del burro, abbondante cipolla ramata di Sermide affettata sottilmente ed un poco di dado di carne (horribile dictu, mia nota). Fare andare a fiamma bassissima finchè la cipolla si sarà appassita e sarà diventata quasi una crema. Aggiungere di quando in quando poca acqua per evitare che si bruci. A questo punto addizionare il fegato tagliato a fettine sottili dopo averlo accuratamen-te nettato.Alzare la fiamma e cuocerlo velocemente perché altrimenti indurisce. Salare imme-diatamente. Niente pepe, spezie e vino. Polenta tagliata con il refe.

Solferino (formula della signora Anna Magalini, moglie del masalì Luigi Bissoli)

Nella padella di rame sciogliere, a fuoco basso della reticella. Addizionare poi abbon-dante cipolla ramata (quella mantovana di una volta) affettata finemente assieme a rosmarino e salvia. Aggiungere quasi subito le caren mate ed il polmone ben nettato e tagliato a pezzi piccoli. Cuocere, sempre a fiamma bassa ed al coperto, per almeno un’ora. Verso la fine, togliere rosmarino e salvia e mettere il fegato pulito e tagliato a fettine. Niente sangue, né aglio, né vino. Salare e pepare prima di portare in tavola. Polenta fresca o della sera prima abbrustolita sul focolare.

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Guidizzolo (formula della signora Maria Tarchini, vedova del grande Masalìn Gianni Cargnoni)

In una padella capace (quella di rame, con il manico a semicerchio) mettere della reticella e della cipolla affettata finemente ed in buona quantità. Fare sciogliere e poi aggiungere caren mate, polmone, rosmarino, salvia e, al coperto, fare andare per oltre un’ora. A metà cottura bagnare il tutto con un poco di vino bianco secco. Salare e pepare. A dieci minuti dalla fine addizionare il fegato mondato e tagliato a fettine.La signora mi dà un’informazione curiosa. Nella sua famiglia, al masalìn ed ai suoi aiutanti non veniva servita a metà mattina la consueta fritüra ma una colazione vera e propria fatta di salame, furmai vért (formaggio verde, Gorgonzola), mortadella e polenta abbrustolita.

Suzzara (formula del masalìn Giancarlo Bertellini. Ha ricordato quella della nonna Lésie)

Nella padella di rame mettere della reticella, olio e burro (questi ultimi in quanti-tà minime perché costavano) e fare sciogliere. Addizionare abbondante cipolla. Fare ammorbidire il tutto. Versare del buon vino rosso di casa. Quando la base è pronta aggiungere il fegato tagliato a fette e ben nettato. Cuocere per un tempo breve. Sale e pepe. Polenta solare. Niente polmone, né filetto, né carni di risulta.

Cereta di Volta Mantovana (informazione del masalì Giannino Primon)

Il signor Primon informa che nel giorno della maialatura, per arricchire la fritüra, preparava degli involtini con il sangue rappreso ridotto a tocchi, conditi poi con sale e pepe, avvolti nella reticella e cotti sulle braci del camino. Venivano serviti a parte soprattutto come alternativa per coloro che non amavano il fegato.

Castellucchio (formula del masalìn Archimede Zangrossi)

Nettare e tagliare a pezzi il polmone, la reticella e le caren mate (i lacerti, le ghiandole presenti nel grasso dei budelli). In una teglia capace fare soffriggere la reticella con tre belle cipolle gialle affettate finemente. Aggiungere il polmone e le caren mate e fare andare a fiamma bassa per almeno un’ora. Verso la fine addizionare il fegato ridotto a fettine e dare un ultimo quarto d’ora di cottura. Niente vino. Ritirare dal fuoco ed insaporire con sale e pepe. Servire accompagnando con fette di limone.

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Rivarolo Mantovano (formula della sig.ra Silvana Grasselli, moglie del masalìn Ma-rio Buttarelli)

In una teglia capace appassire della cipolla tritata unitamente ad abbondante reticella del maiale. Addizionare un poco di conserva di pomodoro fatta in casa. Quando il tutto è ben passato aggiungere il fegato del maiale, mondato dalla pellicina e tagliato a fette sottili. Spruzzare con vino bianco secco dell’Oltrepò (Ortrugo). Sale e pepe prima di servire.

Roverbella (formula dei macellai norcini Gilberto e Giovanni Savio)

In una padella di rame con l’ampio manico curvo mettere della reticella di maiale, abbondante cipolla ed un sospiro di aglio (dice proprio così). Fare rosolare per alcuni minuti e quindi aggiungere - tutto a fettine molto, molto sottili - fegato, cuore, pancet-ta fresca, filetto e limone. Sale e pepe q. b. Quando il tutto ha cambiato colore addi-zionare del vino bianco secco ed a fiamma allegra fare sfumare. Portare poi a cottura in tempi brevissimi altrimenti la carne indurisce. Servire con polenta.I signori Savio sono da tempo i miei macellai di fiducia. Con la ricetta della loro fritüra ho dato l’avvio ad una ondata di ricordi. Tra questi lo scherzo che si era soliti fare ai ragazzi che già davano una mano nella maialatura familiare. A quei tempi (an-diamo indietro di quasi un secolo) negli orti delle case di campagna si coltivavano le verze, cibo invernale diffuso e frequentato. Il capofamiglia rivolgendosi ai ragazzi ed indicando con finto orgoglio le sue verze ripeteva ogni tanto “Ah, chista sera a fema propria un bel rişot cun le verşe” (questa sera faremo proprio un bel risotto con le verze) prospettiva quanto mai deludente. Alla cena veniva servito invece al ris dal pursèl, gustoso ed abbondante.

Guidizzolo (formula della signora Maria Brulica moglie del masalìn Franco Boccazzi)

In una bella padella dal fondo spesso e piuttosto capiente mettere abbondante reticella di maiale ed almeno un paio di cipolle affettate finemente. Fare cuocere a fiamma bas-sa finchè la reticella si è sciolta. Addizionare le caren mate e del polmone di maiale ben nettato e ridotto a tocchi piccoli. Aggiungere, se del caso, poca acqua.Fare andare a fuoco lento ed al coperto per almeno un’ora per dare modo al polmone di diventare tenero. Controllare e rigirare ogni tanto. Ad un quarto d’ora dalla fine mettere il fegato (nella quantità che si desidera) tagliato a quadrotti dopo averlo ben nettato dalle vene interne. Salare a metà cottura. Niente pepe. Servire con polenta fresca ed accompagnare con lambrusco.

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Sequenza di una maialatura mantovana

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Nato nel borgo di Selvarizzo ma praticamente operante in tutto il contado di Guidizzo-lo e dintorni, ha fatto di questa professione un vero e proprio interesse di vita. Ha ap-preso i rudimenti della maialatura dallo zio Carlo che era di origine bresciana. Gianni è morto da poco, a 83 anni. Non ho avuto la fortuna di conoscerlo. Me ne ha parlato Zeno Roverato di Ceresara, anche lui grande masalì. È stato attento, sollecito allievo di Cargnoni e lo ricorda con grande affetto in quanto gli deve la conoscenza profonda e raffinata dei più segreti aspetti del mestiere. Me lo ha descritto come un uomo sem-plice, sempre sorridente, pacato nei modi e nei gesti capace tuttavia di alzare la voce quando vedeva che le cose erano fatte in modo approssimativo.Gianni aveva sempre l’atteggiamento del vero maestro: insegnava a superare le dif-ficoltà del momento, era prodigo di elogi per gli aiutanti che avessero operato con attenzione e perizia, sollecitava i più capaci ad approfondirsi nella pratica, ma non mancava anche di rimproverare bonariamente coloro che non lavoravano con la giusta diligenza e meticolosità.Capiva e cercava di far capire che nel “baldachìn” finale dove salami, coppe e pancet-te facevano bella mostra di sè, era racchiuso non soltanto il compenso della giornata ma anche e soprattutto il futuro di un desco familiare. Per i contadini poveri il maiale era un bene prezioso, una dote indispensabile per superare l’inverno, rappresentava la sicurezza del cibo per arrivare all’estate senza fare troppi debiti con il bottegaio. Era assiduo di Castelgrimaldo, un paesino di pochissime anime dove permangono intatti lo spirito ed i valori della campagna mantovana.

A complemento del mio lavoro ho ritenuto necessario illustrare i vari passaggi di una maialatura mantovana con una sequenza fotografica chiara ed eloquente.Tra le tante che ho visionato mi è parsa particolarmentre esplicativa quella del masalìn Gianni Cargnoni.

Gianni Cargnoni Selvarizzo

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Nella sequenza della sua maialatura l’intenditore avveduto coglie immediatamente la sua abilità e la attenzione nei passaggi fondamentali dell’operazione: stordimento con la pistola per evitare traumi all’animale, pulizia accurata della cotica, sezionatura perfetta delle mezzene, divisione precisa delle carni, macinatura ben sorvegliata delle diverse parti da destinare alle varie beatitudini e la insaccatura meticolosa per evitare la maligna formazione interna di bolle d’aria. Si noti infine – espressione eloquente della cordialità che ravvivava l’impegno – la bicchierata amicale e sorridente con tutti gli aiutanti chè sanciva la fine del lavoro.

L’autore delle fotografie e curatore del presente volume.

Andrea Dal Prato Vive ed opera a Guidizzolo. È figura attiva, dinamica, ricca di entusiasmo, molto conosciuta in paese. Sempre attento agli eventi che coinvolgono il contado locale ne diffonde la conoscenza con indefettibile spirito di servizio. Si deve infatti al suo impegno, ormai quasi ventennale, la nascita di un periodico di informazione e cultura che ha recentemente vinto il primo premio al concorso nazionale “Premio Cento” per la stampa a diffusione gratuita (oltre 170 le testate partecipanti).Figlio di Alessandro, educatore, creatore della Scuola Statale d’Arte di Guidizzolo, incisore, medaglista e pittore di fama nazionale, Andrea si distingue per la cordialità spontanea ed immediata, la concretezza dell’azione e, nello specifico, per il grande amore verso la civiltà contadina e le sue manifestazioni nell’ambito della comunità.Dal Prato vanta un curriculum professionale di grande rilievo. Segue come fotografo le manovre militari delle truppe Corazzate in Toscana, Sardegna, Sicilia e Roma. Par-tecipa a Bologna ed a Lamezia Terme a due concorsi indetti dall’Esercito italiano nei quali vince il Primo premio. Ha insegnato per oltre 25 anni Tecnica fotografica in corsi dell’ IRRSAE e dell’ELFAP. Ha ideato, con un gruppo di amici, la rivista guidizzolese “la NOTIZIA” ed è tra i fondatori del Centro culturale “San Lorenzo” di Guidizzolo.Con le sue immagini ha contribuito ad illustrare numerosi libri di spiritualità, dimore gentilizie, arte religiosa e sociologia rurale. Di particolare rilievo la sua collaborazione professionale con la Casa editrice “La Scuola” di Brescia. Per essa ha curato la ripresa di immagini presso i musei della città a complemento di testi di carattere didattico. È iscritto all’Ordine dei giornalisti dal 1991.

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Abbattimento del maiale con la pistola

Dopo l’uccisione si solleva per far scolare il sangue

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Pelatura

Dopo la pelatura si cavano le unghie

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Ultima pulizia dei piedi dopo aver tolto le unghie

Issato sul Picaröl

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Bruciatura dei peli rimasti

Ultima pulizia prima della eviscerazione

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Divisione in due mezzene

Eviscerazione

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Inizio della sezionatura, viene tolto il filetto

Le due mezzene tagliate in modo perfetto

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Si spolpano le ossa

La spalla viene disossata con particolare attenzione

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Sezionatura della carne

Inizio mondatura

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la carne viene pulita togliendo i nervi, coaguli, unto ecc.

Si prepara la pancetta per la concia

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Macinatura

la carne viene pulita togliendo la pellettica

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Concia, sale e spezie

Concia, il vino

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Si insaccano i salami

Pugnatura

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Legatura

Foratura per far uscire l’aria

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Un momento di ristoro con gli aiutanti

Un momento di ristoro con la moglie Maria

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Dopo l’asciugatura (nella camera da letto) si portano in cantina per la stagionatura

I salami appena fatti vengono appesi nella stanza da letto

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INDICI

Prefazione pag. 7Presentazione pag. 9Introduzione pag. 11

Cenni di storia del maiale mantovano pag. 21

La maialatura nel mantovano pag. 33 - area collinare pag. 34 - alto mantovano pag. 45 - medio mantovano pag. 56- area di confine tra Veneto ed Emilia pag. 61

Il maiale nella letteratura pag. 65

Incontri con i masalìn pag. 87Zeno Roverato – Ceresara pag. 88Silvano Buoli – Schivenoglia pag. 101Gianni Vicini – S. Giacomo delle Segnate pag. 105Battista Toaldo – Castelbelforte pag. 110Sergio Todeschi – Soave di Porto Mantovano pag. 115Valentino Tartari – Torre di Goito pag. 119Giordano Dugoni – Roncoferraro pag. 121Giuliano Sgarbi e Lino Ferrari – Quingentole pag. 130Maurizio Buttarelli – Rivarolo Mantovano pag. 133Giancarlo Chittolini – Rivarolo Mantovano pag. 138Rolando Nadalini – Sermide pag. 143Adriano Luppi – Carbonara di Po pag. 148Vico Fava – Castelletto Borgo di Mantova pag. 153

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Luigi Bissoli – Solferino pag. 157Giancarlo Bertellini – Suzzara pag. 162Leonardo Dal Prato – Guidizzolo pag. 167Archimede Zangrossi- Castellucchio pag. 176El Santì e la scuola di Cereta pag. 181Franco Boccazzi - Guidizzolo pag. 183La Cumpagnia del fil de fer – Castiglione Mantovano pag. 188I masalìn di Gozzolina pag. 190La fritüra pag. 192

Sequenza fotografica di una maialatura mantovana pag. 199 Gianni Cargnoni Selvarizzo pag. 201

RicettePRIMI

Garganelli con l’anitra selvatica pag. 171Maccheroni alla chitarra con la salamella pag. 171Risòt dal gugét pag. 132Ris dal nimàl pag. 141Ris del pursèl pag. 94 Risòt a la pilota (Roverato) pag. 95Risòt a la pilota (Toaldo) pag. 113Risòt a la pilota (Dugoni) pag. 127Fuiade cun el pisù pag. 99Risotto con il luccio pag. 127

SECONDI

Lombo in tégia (Roverato) pag. 96 Lombo in tégia (Luppi) pag. 151Lingua di manzo salmistrata pag. 97Pulàstar in tégia pag. 98Porchetta (Buoli) pag. 104Porchetta (Boccazzi) pag. 186Prosciutto al forno pag. 104 Cuore in padella pag. 113

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Fégat, pulmù e cör in tegia pag. 126Salam in dal tegìn pag. 113 Filét in sle brașe pag. 120 Custine da puntèl pag. 126Lonza arrosto pag. 140 Sangue fritto pag. 165 Fegatelli di maiale pag. 172Arrosto di maiale pag. 172Oca selvatica arrosto pag. 173

DOLCI

Tortellini dolci pag. 96Torta di mele pag. 173Strüde pag. 174

VARIE

Macedonia sotto spirito pag. 97 Moretta pag. 126Gras pistà pag. 112 Torta di sangue (Chittolini) pag. 141 Turta de sàng (Bissoli) pag. 160 Patate al forno pag. 171 Carciofi sulla griglia pag. 172 Peperoni alle olive pag. 173

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Finito di stampare nel mese di marzo 2014presso Arti Grafice Studio 83

Vago di Lavagno (VR)

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