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San Bonaventura Editoriale Diritti di religione e libertà di culto Fin dagli inizi della Chiesa, i cristiani sono stati pre- senti nella terra di Abramo, una terra che è parte del patrimonio comune di Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Bisogna sperare che, in futuro, la società irachena sia caratterizzata da coesistenza pacifica, in sintonia con le aspirazioni di quanti sono radicati nella fede di Abra- mo. Sebbene i cristiani siano un’esigua minoranza della popolazione irachena, possono rendere un contributo prezioso alla ricostruzione e alla ripresa economica del Paese attraverso i loro apostolati educativi e sanita- ri, mentre il loro impegno nei progetti umanitari offre un’assistenza molto necessaria nell’edificare la società. […] La storia ha dimostrato che alcuni degli incentivi più potenti per superare la divisione derivano dall’e- sempio di quegli uomini e di quelle donne che, avendo scelto la via coraggiosa della testimonianza non violen- ta di valori più elevati, sono morti a causa di atti codardi di violenza. Quando i problemi attuali saranno ormai una cosa del passato, i nomi dell’Arcivescovo Paulos Faraj Rahho, Padre Ragheed Ganni e molti altri anco- ra vivranno come esempi luminosi dell’amore che li ha condotti a sacrificare la propria vita per gli altri. […] È della massima importanza per qualsiasi società sana che la dignità umana di ognuno dei suoi cittadini venga rispettata sia nel diritto sia nella pratica, in altre parole che i diritti fondamentali di tutti vengano riconosciuti, tutelati e promossi. Soltanto in questo modo si può ser- vire veramente il bene comune, ovvero quelle condizio- ni sociali che permettono alle persone, sia a gruppi sia a singoli individui, di prosperare, di raggiungere la loro piena statura morale e di contribuire al bene degli altri. Fra i diritti che devono essere pienamente rispettati se il bene comune deve essere effettivamente promosso, i diritti di religione e di libertà di culto sono fondamentali perché sono quelli che permettono ai cittadini di vive- re in conformità con la loro dignità trascendente, come persone fatte a immagine del loro divino Creatore. Benedetto XVI Dal discorso a Habbeb Mohammed Hadi Ali Al-Sadr, ambasciatore Repubblica Iraq presso la Santa Sede (2 luglio 2010) FEBBRAIO 2021 ANNO IX - Nº 97 informa 1 In questo numero focus: papa francesco e l’iraq - p. 2 l’intervista: il nuovo preside su missione della facoltà e master “fratelli tutti” - p. 6 abitare la casa comune: francesco d’assisi e la cura dell’ambiente - p. 9 vita francescana: cardinali e vescovi che restano frati - p. 13 il padre nostro: rimetti, come anche noi rimettiamo - p. 16 santità francescana: jacopone da todi, cantore della croce - p. 20 tra penultimo e ultimo: pensare sul confine - p. 23 #tuttoèconnesso: come intendere economia e progresso - p. 27 con cuore di padre: ecosistema e coraggio creativo - p. 30 la fraternità dei laici: la scrittrice mary elizabeth herbert - p. 33 il tesoro dello scriba: lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte - p. 36 novità editoriali: consigli di lettura p. 38 francescanamente parlando: nomine al sacro convento e “in parole francescane” - p. 40

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San Bonaventura

EditorialeDiritti di religione e libertà di culto

Fin dagli inizi della Chiesa, i cristiani sono stati pre-senti nella terra di Abramo, una terra che è parte del patrimonio comune di Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Bisogna sperare che, in futuro, la società irachena sia caratterizzata da coesistenza pacifica, in sintonia con le aspirazioni di quanti sono radicati nella fede di Abra-mo. Sebbene i cristiani siano un’esigua minoranza della popolazione irachena, possono rendere un contributo prezioso alla ricostruzione e alla ripresa economica del Paese attraverso i loro apostolati educativi e sanita-ri, mentre il loro impegno nei progetti umanitari offre un’assistenza molto necessaria nell’edificare la società. […] La storia ha dimostrato che alcuni degli incentivi più potenti per superare la divisione derivano dall’e-sempio di quegli uomini e di quelle donne che, avendo scelto la via coraggiosa della testimonianza non violen-ta di valori più elevati, sono morti a causa di atti codardi di violenza. Quando i problemi attuali saranno ormai una cosa del passato, i nomi dell’Arcivescovo Paulos Faraj Rahho, Padre Ragheed Ganni e molti altri anco-ra vivranno come esempi luminosi dell’amore che li ha condotti a sacrificare la propria vita per gli altri. […] È della massima importanza per qualsiasi società sana che la dignità umana di ognuno dei suoi cittadini venga rispettata sia nel diritto sia nella pratica, in altre parole che i diritti fondamentali di tutti vengano riconosciuti, tutelati e promossi. Soltanto in questo modo si può ser-vire veramente il bene comune, ovvero quelle condizio-ni sociali che permettono alle persone, sia a gruppi sia a singoli individui, di prosperare, di raggiungere la loro piena statura morale e di contribuire al bene degli altri. Fra i diritti che devono essere pienamente rispettati se il bene comune deve essere effettivamente promosso, i diritti di religione e di libertà di culto sono fondamentali perché sono quelli che permettono ai cittadini di vive-re in conformità con la loro dignità trascendente, come persone fatte a immagine del loro divino Creatore.

Benedetto XVIDal discorso a Habbeb Mohammed Hadi Ali Al-Sadr,

ambasciatore Repubblica Iraq presso la Santa Sede(2 luglio 2010)

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aNNo iX - Nº 97 informa

1

in questo numero

focus: papa francesco e l’iraq - p. 2

l’intervista: il nuovo preside su missione della facoltà e master “fratelli tutti” - p. 6

abitare la casa comune: francesco d’assisi e la cura dell’ambiente - p. 9

vita francescana: cardinali e vescovi che restano frati - p. 13

il padre nostro: rimetti, come anche noi rimettiamo - p. 16

santità francescana: jacopone da todi, cantore della croce - p. 20

tra penultimo e ultimo: pensare sul confine - p. 23

#tuttoèconnesso: come intendere economia e progresso - p. 27

con cuore di padre: ecosistema e coraggio creativo - p. 30

la fraternità dei laici: la scrittrice mary elizabeth herbert - p. 33

il tesoro dello scriba: lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte - p. 36

novità editoriali: consigli di lettura p. 38

francescanamente parlando: nomine al sacro convento e “in parole francescane” - p. 40

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LA VISITA DI PAPA FRANCESCO IN IRAQuN gESTO DI VICINANzA AL POPOLO E A FAVORE DEL DIALOgO

di Nakia Matti Pauls*

Il logo del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq reca, in alto, la dicitura “Voi siete tutti fratelli” (citazione dal Vangelo di Matteo 23,8), scritta al centro in aramaico, a destra in arabo e a sinistra in curdo, a forma di sole sorgente sull’Iraq, con i due fiumi, il Tigre e l’Eufrate, e le bandiere del Vaticano e dell’Iraq con il suo tricolore orizzontale rosso, bianco e nero e al centro la scritta “Dio è Grande”, sormontate da una colomba che porta nel becco un ramoscello di ulivo. Alla base una palma e Sua Santità in atto di benedire questa terra, martoriata e ferita da aggressioni e violenze. Papa Francesco intende, con questo viaggio desiderato da anni e voluto anche dal suo predecessore san Giovanni Paolo II (che aveva rinnovato senza sosta e con la massima chiarezza i suoi appelli alla pace nel 2003), portare il proprio amore paterno verso un popolo da anni sofferente, e trasmettere il significato della pace e del vivere in armonia e rispetto fraterno, seppur nelle differenze religiose, etniche, culturali, ecc..., perché l’amore e la misericordia di Dio sono più grandi di ogni differenza. Le immagini del logo simboleggiano per questo la pace, l’amore, l’unità, l’armonia e il rispetto. Il logo speciale del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq (nella pagina seguente) e, in particolare, a Baghdeda (Qaraqosh), è frutto della creatività del giovane Ragheed Nnwaia e della convinzione che “È un dovere usare i simboli storici ispirati alla storia di Baghdeda, e questo è ciò che abbiamo fatto”.L’arco a volta presente nel logo è uno dei più importanti simboli di Baghdeda, denominato “Qantarat Al-Ina”, o “Arcata della Famiglia di Ina”, ora non più presente, ma che resta scolpito tuttora nella memoria e nella coscienza di tutti gli abitanti del Paese.

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L’arco a volta fa da cornice all’immagine di papa Francesco, racchiudendola sotto di sè. Tale arco è stato, in passato e per lunghi secoli, un passaggio di accesso al centro di uno dei vicoli della città antica, prima della sua scomparsa, fino a diventare, durante tutti quei secoli, uno dei simboli identitari della città e dei suoi abitanti che l’hanno costruita con le proprie braccia. Al centro di questo arco vi è il Santo Padre nell’atto di benedire. L’arco delinea, nella sua forma generale, anche il profilo della Chiesa cattolica, simboleggiante la storia del Paese ma anche l’antico disegno delle porte lignee delle case di Baghdeda, a richiamare come il Papa entri nelle case di tutti gli abitanti dell’area, come segno del loro amore per Lui. Al centro dell’arco a volta è rappresentato il Santo Padre che porta sulle spalle una stola tradizionale ricamata a mano tipica di Baghdeda (tuttora indossata nelle festività), i cui disegni raffigurano la storia di questo popolo e del Paese, la profondità della sua civiltà e delle sue radici storiche. L’anziana donna vestita di nero, nell’angolo inferiore a destra, sta a significare la terra che dona con generosità, la madre Baghdeda, madre dei martiri di tutti i tempi e, pertanto, indossa un abito nero, come vuole la tradizione del lutto nel Paese. È rappresentata nell’atto di lavorare all’uncinetto, per sostentarsi e poter sopravvivere in assenza degli uomini, come madre che deve ricostruire la storia di Baghdeda, come dovesse “ricamare”, appunto, e ricostruire la storia stessa del Paese.Si fa riferimento anche al sangue dei martiri come seme di vita: il martirio è un atto normale per i Baghdedani, in quanto cristiani fin dall’origine. Si ricorda il martirio dei due sacerdoti di Baghdeda per mano degli Ottomani, la cui commemorazione cade il 29 giugno (festa dei santi Pietro e Paolo). Essi sono il simbolo di tutti martiri del Paese, compresi quelli della guerra con l’Iran, che ha strappato alla vita migliaia di giovani e, ultimamente, i martiri uccisi dalle bande terroristiche di Daesh/ISIS. Viene poi richiamata l’immagine dell’esodo e del ritorno, degli sfollati e degli esuli, fuggiti soprattutto nella metà del 2014, quando gli abitanti del Paese hanno dovuto lasciare le proprie case, le proprie Chiese e la propria storia, in una scena di vero e proprio esodo. Ma quali sono le aspettative del viaggio del Papa? Si tratta di un viaggio molto importante, una tappa motivata dalla fratellanza universale. “Fratelli tutti” è un messaggio molto forte e profondo, una prospettiva che fa abbracciare la civiltà antica con il presente massacrato dalla violenza, dalla crudeltà, dalle guerre e dalle sofferenze. Papa Francesco è il primo pontefice a visitare questa terra e il popolo iracheno che, provato dopo tanta sofferenza e distruzione, ha bisogno di questa visita con la quale il Papa porterà la pace, l’amore, la tenerezza di un Padre verso i suoi figli smarriti e sfiniti dagli eventi vissuti durante tutti questi anni.

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Il viaggio del Santo Padre significa tanto per un popolo che proviene dal diluvio, cosi sofferente e provato da lunghi anni di guerra, afflizioni, attacchi, aggressioni settarie e terrorismo, ed è un punto di partenza per intraprendere un dialogo interreligioso, un incontro tra tutte le religioni, rompere la catena del rancore, gli ostacoli e le barriere che si frappognono, al fine di suscitare il sentimento della fratellanza, della collaborazione costruttiva tra tutte le comunità del popolo iracheno, sia a livello religioso che politico, per creare e costruire uno Stato Iracheno moderno e forte, e ridare lo spirito di speranza a tutti gli iracheni e, soprattutto, ai giovani che attendono un futuro migliore.Il Papa aprirà per tutto il popolo iracheno una porta sul dialogo e il rispetto reciproco, come era una volta: un popolo che conviveva in maniera pacifica con tutti, prima che si intromettesero i nemici nel Paese; prima dell’azione divisiva di alcuni gruppi. Il dialogo e l’intesa tra i cristiani e i musulmani in Iraq non si erano mai interrotti: il Patriarca cristiano seguiva il Califfo musulmano quando questi cambiava la propria residenza, per continuare i loro incontri nell’ambito di un dialogo continuo.La presenza del Santo Padre rafforzerà i rapporti tra tutte le componenti del tessuto sociale iracheno, sia dal punto di vista religioso, grazie all’incontro tra rappresentanti cristiani, musulmani sunniti e sciiti,

ebrei, mandei, yazidi, bahai, ecc ..., sia a livello politico: un evento straordinario, che ridisegnerà gli equilibri interni ed esterni del mondo islamico e cristiano.Questo viaggio sarà un incoraggiamento ad andare avanti e a restare attaccati alla terra dei propri antenati: alla Mesopotamia, terra del primo uomo Adamo, nel giardino di Eden; terra del padre delle genti Noè, e terra della prima rivelazione di Abramo, nato a Ur dei Caldei; terra della prima legge di

Hammurabi, re di Babele; culla dei profeti Ezechiele, Daniele, Naum e Giona (nella cui ricorrenza i cristiani ancora oggi osservano il digiuno tradizionale locale di tre giorni, chiamato digiuno di “Ba’uth Ninawa”, ovvero “Rinascita della gente di Ninive”). La presenza del Papa esorterà i profughi e gli esuli a tornare nella terra dei loro padri, dei loro nonni e dei loro avi. Il Cristianesimo in Iraq ha messo radici fin dal primo secolo dopo Cristo, per mezzo di san Tommaso apostolo.In passato, i cristiani dell’Iraq raggiungevano quasi 1,5 milioni di abitanti, ma dopo la comparsa di Daesh, si sono ridotti a circa 300-400 mila; nonostante ciò, l’elemento cristiano rimane una presenza meravigliosa e luminosa. A Mosul, nella Piana di Nineve, il Papa pregherà per tutte le vittime della guerra, nella Chiesa costruita dai Padri Domenicani italiani nel 1762, chiamata Chiesa dei Padri Domenicani; successivamente, vennero i padri domenicani francesi, i quali portarono con sé un grande orologio che fu innalzato su un torre nella piazza della Chiesa e, da allora, la Chiesa prese il nome di “Chiesa dell’Orologio”.

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Foto:Vatican News

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A Qaraqosh, il Papa reciterà la preghiera dell’Angelus nella Chiesa dell’Immacolata (Al-Tahira), costruita nel XIII secolo; sin dall’avvento del Cristianesimo nel Paese, tale Chiesa prese il nome di “Chiesa della Madre di Dio” e, successivamente, “Chiesa della Vergine” (1129), mentre oggi viene chiamata “Chiesa dell’Immacolata” ed è, attualmente, un santuario afferente all’Ordine del Sacro Cuore di Gesù; accanto ad essa, venne costruita la nuova “Chiesa dell’Immacolata”, la cui prima pietra venne posta nel 1932, per essere, in seguito, costruita dagli stessi fedeli, mossi dal proprio zelo e collaborazione reciproca.Le Chiese presenti a Qaraqosh, in ordine di antichità storica, sono la Chiesa dell’Immacolata (o Chiesa Vecchia dell’Immacolata, attualmente santuario dell’Ordine del Sacro Cuore di Gesù), Chiesa di Mar Zena, Chiesa di Sarkis e Bakos (Chiesa di Sergio e Bacco), Chiesa di Mart Bshmoni, Chiesa di Mar Korghis (Chiesa di San Giorgio), Chiesa di Mar Yuhana Al Ma’madan (Chiesa di San Giovanni Battista), Chiesa di Mar Yacob Al Muqatta’ (Chiesa di San Giacomo l’Interciso), Chiesa Nuova dell’Immacolata, Chiesa dei Martiri Bahnam e Sara (2008), Chiesa della Speranza, di cui è stata posta finora solo la prima pietra. Nell’area si trovano anche diversi santuari e conventi: Santuario e cappella della Regina del Rosario dei Padri Domenicani (Ordine di Mar Abd al-Ahd), Santuario e cappella dell’Ordine di Maria Vergine Concepita senza peccato, Santuario e Cappella dell’Ordine di Mar Polos (San Paolo), Convento di Mar Yohanna Al-Daylami o Muqertaya, Convento di Mar Qiryaqos, al cui interno è stato, di recente, costruito il “Convento della Croce”, Convento di Gesù Redentore, costruito nel 2009, afferente alla Comunità di Gesù Redentore dei Frati di Gesù Redentore. È anche interessante ricordare come Qaraqosh è una parola turca che significa “passero nero” e il Paese ha assunto questo nome durante l’occupazione ottomana; alcune leggende attribuiscono tale nome agli abiti neri che indossavano gli uomini e le donne del posto. Baghdeda è, invece, una parola persiana che significa “Casa di Dio”, o“Casa degli Dei”.È difficile parlare dell’identità e dell’antichità di Baghdeda, perché essa comprende molteplici etnie, data la sua funzione di ponte che ha visto il passaggio di moltissime generazioni e di diversi popoli. Si tramanda anche che il borgo di Baghdeda sia di origine aramaica, mentre, secondo altre versioni, sarebbe di origine araba; la lingua parlata è l’aramaico, nella sua versione dialettale locale.

*Irachena, lavora all’Ambasciata della Repubblica dell’Iraq in Italia

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Fonte: Ansa

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FORmAzIONE FRANCESCANA E SERVIzIO ALLA ChIESALA mISSIONE DEL SERAPhICum E IL NuOVO mASTER “FRATELLI TuTTI”

di Elisabetta Lo Iacono*

Il cammino di una realtà accademica non è dato una volta per tutte ma richiede un continuo rinnovamento in termini di linguaggi, di organizzazione, di interpretazione della realtà, di risposte alle domande del tempo presente. Un percorso che richiede anche uno sguardo profetico per saper intercettare esigenze, desideri e sfide, così da garantire proposte formative che sappiano coniugare tradizione e innovazione. Un passo che la Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura”, fondata nel 1905 e retta dai Frati Minori Conventuali, sta cadenzando con ancor più determinazione in questo complesso periodo storico, per garantire una formazione francescana di alto livello e per offrire un sempre puntuale servizio alla Chiesa. Con fra Raffaele Di Muro - lo scorso 23 gennaio nominato Preside dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica della Santa Sede - affrontiamo qualche aspetto cruciale per la formazione, nelle aule della Facoltà ma anche al di fuori della stessa, come espressione di quella Chiesa in uscita raccomandata da papa Francesco.

Fra Raffaele Di Muro, cosa ha significato per lei questa nomina nella Facoltà che lo ha visto per anni studente e docente?

La nomina è stata una grande gioia perché per me il Seraphicum è famiglia, è casa, dato che lo frequento sin dal 1997: qui ho fatto gli studi di teologia conseguendo i vari gradi accademici sino al dottorato. Qui ho iniziato l’insegnamento, da qui mi sono incamminato verso tante attività accademiche e di apostolato. Al Seraphicum ho ricoperto diversi incarichi, come economo, direttore della rivista e della casa editrice Miscellanea Francescana, direttore della Cattedra Kolbiana per citarne alcuni, quindi la nomina a Preside rappresenta un approdo significativo dopo un impegno di anni che mi ha permesso di conoscere a fondo questa realtà.

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l’intervista

Foto:SBi

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La lunga frequentazione e un rapporto affettivo molto saldo mi rendono particolarmente felice e grato per questa nomina che sento di poter svolgere con la necessaria conoscenza e sicuramente con grande impegno ed entusiasmo.

Una delle sfide, questa volta imposta dalla pandemia, è stata la riorganizzazione didattica tenendo conto dei lockdown e delle restrizioni che hanno rivoluzionato il tradizionale metodo dell’insegnamento in presenza. Ma c’è anche da dire che, proprio durante la pandemia, la Facoltà ha avviato un nuovo e importante progetto, ovvero la Scuola di Grafologia. Quale messaggio si può cogliere da questo anno tanto travagliato?

Stiamo vivendo un periodo lungo e difficilissimo, per i mesi di blocco alle lezioni in presenza e alle diverse attività accademiche. Ma tra le tante difficoltà e incertezze è emersa con forza la fame di cultura, di sapere, di approfondire, di ampliare i propri orizzonti in ambiti già “frequentati” o in altri nuovi. Credo che tutto ciò sia anche frutto delle restrizioni che ci hanno lasciati più soli con noi stessi, spingendoci a utilizzare positivamente un periodo che presentava e presenta tante negatività. Si è trattato di una sfida inattesa, senza precedenti, che abbiamo voluto cogliere credendo pienamente all’importanza della cultura, anche e soprattutto come antidoto all’impoverimento relazionale e motivazionale causato dal Covid-19. In questo contesto e forti di questa convinzione ha preso avvio, proprio nei mesi scorsi, la Scuola di Grafologia Seraphicum che rappresenta la conferma di quanto sia importante nei momenti bui offrire nuovi orizzonti di formazione e di speranza.

C’è, oggi, una strada maestra per l’insegnamento della teologia? Quale il punto di equilibrio tra lezioni presenziali e on line? Quali strade intende percorrere la Facoltà nel prossimo futuro?

La consuetudine delle lezioni frontali è insostituibile perché permette non solo la partecipazione diretta in aula ma anche alla vita quotidiana della Facoltà, attraverso un rapporto costante con i docenti e gli altri studenti, religiosi e laici, la frequentazione della nostra biblioteca e di tutti gli spazi messi a disposizione dal Seraphicum. Ciò non toglie che la modalità on line ha dimostrato, in questi mesi, tutta la sua valenza e potenzialità che intendiamo preservare anche per il futuro. L’incremento dell’on line, anche quando saremo tornati alla piena normalità, potrà consentire di soddisfare le richieste di quanti ci seguono a distanza, impossibilitati a seguire i tradizionali corsi in presenza. La pandemia ci ha obbligati a ricorrere a risorse divenute indispensabili per lo svolgimento delle attività che potranno, da ora in poi, rappresentare un ulteriore punto di forza per integrare le nostre offerte formative, lavorando così a una Facoltà in uscita.

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Foto:SBi

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Abbiamo numerosi strumenti di divulgazione - dalle pubblicazioni al sito web sino ai diversi canali social - sui quali potremo sempre più puntare per una capillare diffusione delle nostre attività, in una piena condivisione con quanti vorranno seguirci, nei modi preferiti.

Venendo nello specifico alla caratterizzazione della Facoltà, come realtà accademica dell’Ordine dei francescani conventuali, qual è l’apporto che può fornire al mondo francescano e alla Chiesa?

Credo che l’apporto della Facoltà possa essere notevole, soprattutto se lavoriamo per coltivare il nostro passato non come qualcosa di nostalgico e cristallizzato ma facendone tesoro, per affrontare le odierne sfide della formazione culturale e dell’evangelizzazione. La nostra realtà accademica nasce oltre cento anni fa e basta sfogliare le cronache in archivio per comprenderne la ricchezza spirituale e culturale. Una nostra vocazione caratterizzante è di approfondire le tematiche che la Chiesa ha affrontato in ogni tempo.

Oggi, quindi, vedo come un nostro impegno e responsabilità il trasmettere quanto papa Francesco sta offrendo a tutta la Chiesa e all’umanità. Abbiamo un papa che porta il nome del Santo di Assisi, che dà nomi francescani alle sue encicliche, che ha da subito riservato una grande attenzione ad Assisi, creando cardinale il custode del Sacro Convento (fra Mauro Gambetti, ndr), di recente nominato Vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano, Arciprete della Basilica Papale di San Pietro e Presidente della Fabbrica di San Pietro. Ciò significa che esiste un legame molto forte con san Francesco, con il carisma

e il mondo francescano, per questo credo che la Facoltà abbia oggi questa vocazione ancora più marcata di trasmettere il messaggio di un magistero attualissimo, molto concreto e attento a quanto sta accadendo.

In che modo, quindi, la Facoltà può contribuire a questa “ventata francescana” portata da papa Bergoglio?

Credo che sia importante lavorare sempre più a un approfondimento del magistero di papa Francesco, attraverso specifiche iniziative accademiche. Attività che siano capaci di trasmettere questo ricco pontificato attraverso una modalità che rispecchi il suo stile molto diretto, finalizzato a cogliere sempre l’essenziale. A questo proposito, abbiamo un’importante novità: a ottobre sarà attivato il master “Fratelli tutti” i cui dettagli verranno resi noti tra qualche settimana. E sarebbe bello inaugurare queste attività con una visita di papa Francesco alla Facoltà. Nella nostra storia abbiamo avuto la grazia di ricevere la visita di san Paolo VI nel 1974 e di san Giovanni Paolo II nel 1986. Potrebbe essere il momento propizio per accogliere di nuovo il “signor papa” come diceva Francesco d’Assisi, aggiungendo un altro importante anello di congiunzione tra il passato e il presente del Seraphicum.

*Giornalista, docente di Mass media @eliloiacono

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Fonte: San Francesco

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FRANCESCO E LA CuRA DELL’AmBIENTE “LE SuE VISCERE DI mISERICORDIA” PER LE CREATuRE PIù DEBOLI

di Pietro Maranesi*

Il Cantico delle creature di Francesco di Assisi è conosciuto non solo per la sua bellezza letteraria ma anche per l’opportunità che offre di conoscere l’animo ecologico del Santo, il quale, di fronte al mondo creato, assume un atteggiamento di lode dell’“Altissimo e onnipotente bon Signore” di cui tutte le creature “portano significazione”. Tuttavia il testo non ci permette di sapere quali effettive conseguenze questo sentimento di lode abbia prodotto nel modo di agire concreto di Francesco. Per essere aiutati in questo secondo versante della questione ecologica, cioè per gettare luce sul rapporto fattivo di Francesco con l’ambiente, possiamo appoggiarci alle narrazioni agiografiche. Tralasciando la problematicità di queste fonti, mi limiterò a un doppio episodio narrato con dovizia di particolari da Tommaso da Celano nella sua Vita del beato Francesco (opera conosciuta anche come Vita prima). In essa, ai numeri 77-79, l’agiografo, riprendendo in qualche modo quanto già detto sull’amore di Francesco verso le creature, ai numeri 58-61 e anticipando quanto riproporrà ai numeri 80-81, narra due episodi molto simili, avvenuti quando Francesco, accompagnato dal provinciale frate Paolo, era nella Marca di Ancona, dove intervenne in favore prima di una pecorella minacciata da altri caproni (77-78) e poi di due agnellini che venivano portati al mercato (79). Per avere la chiave di lettura delle due vicende occorre riascoltare innanzitutto la premessa con la quale Tommaso apre i racconti: “Ridondava di spirito di carità, assumendo viscere di misericordia non solo verso gli uomini provati dal bisogno, ma anche verso gli animali bruti senza favella, i rettili, gli uccelli e tutte le creature sensibili e insensibili” (1Cel 77: FF 455).

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abitare la casa comune

Fonte: Archivio SBi

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Insomma, la premessa è chiara: la cura con cui intervenne a favore della pecorella e dei due agnellini era il frutto diretto delle “viscere di misericordia” che muoveva il Santo nei confronti dei più deboli e indifesi; e tra di essi gli agnelli occupavano una posizione speciale perché “nella Scrittura Gesù Cristo, per la sua umiltà, è paragonato spesso e a ragione all’agnello” (ivi). I due episodi, oltre a mostrare quanto concreto fosse in Francesco lo sguardo ecologico, evidenziano a mio avviso tre atteggiamenti essenziali che dovrebbe possedere ognuno animato da una seria responsabilità ecologica. Senza poter effettuare un’accura analisi dei racconti, ci limitiamo a sottolineare i tre aspetti della “cura e salvaguardia del creato” sentita e vissuta da Francesco come “fratello maggiore” a vantaggio dei suoi “fratelli minori”. Il presupposto di partenza delle due storie tocca la sensibilità umana di Francesco che “si accorge” delle

situazioni a rischio che stavano correndo sia la pecorella, sola in mezzo ad un gregge di montoni, sia i due agnelli che, penzolanti da un palo, venivano portati al macello dal loro padrone. Le sue “viscere di misericordia” gli donavano occhi capaci di “vedere” le difficili situazioni ambientali vissute da quelle creature e “fermarsi” per prendersene cura. Nell’episodio della pecorella l’agiografo racconta che

“appena la vide, il beato Francesco si fermò” (1Cel 77: FF 456). Altrettanto avvenne per i due agnellini: “all’udire quei belati, il beato Francesco, vivamente commosso si accostò accarezzandoli come suol fare una madre con i figlioletti” (1Cel 79: FF 457). Senza questa attenzione e compassione non sarebbero avvenute le due storie: le viscere di misericordia hanno dato a Francesco un cuore capace di lodare e cantare la bellezza del mondo ma anche di accorgersi e coinvolgersi con la sofferenza e l’ingiustizia che a volte è presente in esso. È interessante il fatto poi che, nel caso della pecorella posta tra i caproni, Francesco aiuta fra Paolo, il suo accompagnatore, ad entrare nella stessa coscienza ecologica, facendogli notare come essa si trovasse nella stessa situazione di Gesù tra i sacerdoti del tempio. Francesco divenne in questo modo educatore ecologico: infatti alle parole “di pietà” del Santo anche fra Paolo “cominciò a sentire commozione” (1Cel 78: FF 456). Se però questo sentimento di solidarietà non fosse diventato anche decisione operativa, si sarebbe trasformato in puro pietismo sentimentale. Il centro del racconto è occupato proprio da questo secondo aspetto della coscienza ecologica di Francesco, che interviene concretamente per riscattare quegli animali. Non può non colpire il fatto che quell’uomo che aveva scelto la povertà assoluta, non abbia avuto difficoltà a “maneggiare” denaro pur di salvare quelle creature in difficoltà. Per la pecorella, non avendo nulla da dare al proprietario, Francesco ebbe l’aiuto di un ricco mercante che “offrì loro il prezzo considerato” (1Cel 78: FF 456).

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Fonte: San Francesco

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Nel caso dei due agnellini, che venivano portati dal contadino “penzolanti e legati sulla spalla”, cede invece al proprietario il suo mantello che “l’aveva ricevuto in prestito da un uomo proprio quel giorno per ripararsi dal freddo” (1Cel 79: FF 457). Insomma la compassione non basta se non è accompagnata da un impegno fattivo e “costoso”, con il quale intervenire nella situazione, coinvolgendosi in prima persona e pagando di tasca propria. La liberazione degli animali non avvenne cioè grazie ad una predica fatta da Francesco, con la quale convincere i proprietari ad avere sentimenti di compassione nei confronti di quegli animali indifesi, ma attraverso un’operazione economica costosa e impegnativa, con la quale di fatto il Santo verificò quanto le sue “viscere di misericordia” fossero ben più che un sentimentalismo o un buonismo ecologico, ma una convinta e determinata disponibilità ad intervenire e cambiare la situazione. Il terzo elemento delle due narrazioni da mettere in evidenza è la loro conclusione, nella quale gli animali vennero consegnati alla cura di qualcuno: nel primo caso alle donne religiose che vivevano a Colpersito, un luogo accanto alla città di San Severino, e nel secondo allo stesso contadino. Partiamo da quanto narrato in questo secondo episodio. Le parole con cui Francesco affida allo stesso proprietario i due agnellini riscattati dalla loro sorte di morte, possono essere assunte come programma ecologista di cura amorosa per il creato: “Di mantenerli, nutrirli e custodirli con amore” (1Cel 79: FF 457). La conclusione dell’altra storia, quella della pecorella, pur essendo simile nell’affidamento finale, contiene qualcosa di ulteriore, relativamente ai frutti che sgorgano da quella consegna, accolta da qualcuno con amore e attenzione; infatti le sorelle, dopo aver ricevuto la pecorella come dono di Dio

ne ebbero amorosa cura per lungo tempo, e poi con la sua lana tesserono una tonaca che mandarono al beato padre Francesco mentre teneva un capitolo alla Porziuncola. Il santo l’accolse con devozione e festosamente si stringeva la tonaca al cuore e la baciava, invitando tutti ad allietarsi con lui (1Cel 78: FF 458).

La cura del creato, in particolare delle parti più fragili e vulnerabili, non deve essere mossa solo da un principio di rispetto e di giustizia da riconoscere al mondo creato, ma anche da un’altra consapevolezza: l’ecologia avvantaggia sia la qualità della vita di tutti che la quantità del prodotto economico. E così una scelta ecologista, pur chiedendo un impegno a volte gravoso, ripaga in qualità e quantità.

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Fonte: corriere.it

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Per concludere questa breve lettura dei due episodi, mi sembra possibile porre in parallelo le loro dinamiche narrative con i tre momenti che caratterizzarono la storia del buon samaritano, quando

dopo essersi fermato per compassione presso il malcapitato, si coinvolge in prima persona pagando per soccorrere il povero, fino ad affidarlo alle cure dell’altro. Il malcapitato che giaceva ai margini della strada potrebbe essere identificato con la creazione e in particolare con gli animali, bastonati e derubati dalla cupidigia dei nostri interessi economici: noi, come dei ladroni, stiamo rubando e consumando ogni risorsa della natura, lasciandola abbandonata e mezza morta. Non si può andare oltre senza accorgerci della sua grave condizione, perché in questo caso si parteciperebbe a quell’atto di violenza anche se non ne siamo i diretti colpevoli. Occorre fermarsi e coinvolgersi in quel recupero, ognuno secondo le proprie possibilità e pagando di persona con scelte non solo di generosità ma anche di giustizia nei confronti del creato

e degli animali; oltre tutto con la cura che avremo per sorella natura potremmo non solo guarire la sua condizione malata, ma anche rendere fraterno il rapporto con il mondo, facendone uno spazio di vita con una qualità più sostenibile e umana, e dunque con vantaggi duraturi per tutti. Ad ognuno di noi viene chiesto di avere “viscere di misericordia” per il nostro ambiente, diventando per esso non solo il samaritano che si accorge, si ferma e se ne prende carico, ma anche l’albergatore a cui fu detto: “prenditi cura di lui fino al mio ritorno”. Perché quando Lui ritornerà, ci chiederà conto di come abbiamo trattato le nostre sorelle creature: se cioè con viscere di misericordia o con un cuore predatorio attento solo al proprio guadagno.

*OFMCap, docente di Teologia e Studi francescani

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Fonte: web

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CARDINALI E VESCOVI ChE RESTANO FRATII RELIgIOSI AL SERVIzIO DELLA ChIESA

di Maurizio Di Paolo*

L’ultimo concistoro, celebrato sobriamente lo scorso 29 novembre, ha visto l’elevazione di tre religiosi francescani e uno scalabriniano alla porpora cardinalizia. L’immagine che ha maggiormente suggestionato, è stata quella dell’abito cappuccino di p. Raniero Cantalamessa, coronato dal Santo Padre con la berretta cardinalizia nella tipica seta moiré color cremisi.Tuttavia non deve stupire che un frate cardinale indossi l’abito religioso proprio. Già il 7 gennaio 1566 il frate domenicano Antonio Ghisleri di Bosco Marengo (Alessandria), eletto al Soglio pontifico con il nome di Pio V, volle mantenere il suo abito bianco di domenicano, introducendo così la tradizione della veste bianca per i papi. Ancora oggi molti vescovi francescani indossano con piacere il proprio saio, soprattutto nelle visite ai conventi o chiese dell’Ordine, o nella vita quotidiana, quando la praticità dell’abito religioso è preferibile rispetto alla rigidità della talare clericale.Ciò è raffigurato anche nello stemma episcopale, nel cui scudo i vescovi francescani, generalmente nella sommità, raffigurano lo stemma serafico delle due braccia di Cristo e di Francesco, unite dalla croce di colore rosso.Dunque un frate elevato alla porpora cardinalizia o all’episcopato, è ancora frate? Certamente si! Lo afferma inequivocabilmente il Codice di Diritto Canonico al can. 705.La storia recentissima dei nostri confratelli dimostra come la Santa Sede ha chiamato le singole persone proprio in quanto membri dell’Ordine. L’esperienza maturata da fra Mauro Gambetti, quale responsabile della Basilica Papale di San Francesco in Assisi, è un patrimonio che il Santo Padre ha messo a disposizione della Basilica di San Pietro.

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vita francescana

Fonte:Wikipedia

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Le competenze, lo stile e le capacità sviluppate da fra Mauro (nella foto) sono garanzia del buon esito del suo incarico vaticano, nella organizzazione delle funzioni religiose, degli ecclesiastici,

dei dipendenti e volontari che si alternano nel garantire la celebrazione e l’animazione liturgica, l’accoglienza ai pellegrini, la sicurezza, la pulizia e la manutenzione dell’edificio. La semplicità e la trasparenza richieste nell’Ordine francescano, saranno presupposti essenziali nella gestione del personale e soprattutto degli appalti per le opere di straordinaria manutenzione che interessano la Basilica vaticana.Anche la vicenda di fra Martin Kmetech, arcivescovo di Smirne, è espressione dell’impegno che l’Ordine ha profuso nella presenza di Turchia negli ultimi decenni, creando la Custodia di Oriente con frati provenienti da tutta Europa.Ancora più significativa la nomina di Fra Dominique Mathieu (in foto nella pagina seguente), quale arcivescovo in Iran, che partirà come vero e proprio missionario, per curare i pochi fedeli cattolici che risiedono nella nazione islamica. La sua esperienza “orientale”, iniziata in Libano anni orsono, continua nel complesso oriente islamico.

La scelta, caduta su questi due confratelli, è frutto della stima che la Santa Sede ha per la nostra presenza francescana nella Custodia di Oriente, dove Francesco ha compiuto ottocento anni fa, il suo viaggio profetico. In tal senso è significativo quanto il cardinale Pietro Parolin ha affermato confidenzialmente, commentando la nomina dei Vescovi, rilevando che è un segno di buona salute dell’Ordine.Concretamente, come i presuli restano legati all’Ordine? Interroghiamo il Diritto.Il Codice si esprime anzitutto sul voto di obbedienza (can. 601): il frate elevato all’episcopato è soggetto solamente al Romano Pontefice (can. 705). Una antica distinzione definiva i superiori interni, ossia il ministro generale, provinciale e locale (can. 620), e i superiori esterni, ossia il Romano Pontefice e i suoi vicari. In questo senso il voto di obbedienza professato rimane valido, ma orientato esclusivamente al Papa, mentre verso i superiori dell’Ordine resta un vincolo di carità e collaborazione. Questo comporta che non eserciti nell’Ordine voce attiva e passiva, ossia la possibilità di partecipare con voto ai Capitoli, secondo quanto dichiarato nella Risposta della Pontificia commissione per l’interpretazione autentica del Codice del 29 aprile 1986, a poco più di tre anni dalla promulgazione del Codice. Non è solo una incompatibilità di uffici, ma un divieto che permane anche quando il religioso cessa dalle sue funzioni episcopali, e raggiunta la pensione e diventato emerito, sceglie di ritirarsi in convento. Il vescovo religioso è tenuto ad osservare il voto di povertà (can. 600) per cui ha effettivamente rinunciato ad avere la titolarità di beni (can. 668 §4)?

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Fonte:SBi

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Certamente sì, infatti il can. 706 spiega che il vescovo religioso ha l’uso, l’usufrutto e l’amministrazione dei beni, ma ne intesta la proprietà alla Diocesi in cui esercita il ministero o al suo Ordine.Cosa avviene quando un vescovo cessa dal suo ufficio? Arrivato all’età della pensione, il vescovo emerito può scegliere dove abitare, “anche fuori dalle case del proprio istituto” (can. 707 §1). Ciò suggerisce che il frate ritorni nel convento dove meglio si sente accolto, o dove ha vissuto gli anni più intensi della sua attività. Non meraviglia che diversi vescovi francescani abbiano fatto ritorno in convento, come attualmente è per p. Agostino Gardin a Padova e p. Paolo Atzei a Oristano. Il Codice stabilisce circa il sostentamento, che sia la Diocesi o la Santa Sede ad occuparsene in modo

“conveniente e degno”, a meno che non se ne voglia occupare direttamente l’Ordine (can. 707 §2). Queste norme non sono superflue: venendo a cessare dal proprio ufficio episcopale, il frate è felice di tornare tra i suoi confratelli se con essi ha coltivato buone relazioni, nella generosità e nella discrezione: generosità di chi sa di poter dare ancora il suo contributo concreto all’Ordine, e discrezione di chi comprende che la sua autorevolezza potrebbe condizionare i suoi confratelli ed essere percepita come una interferenza più che come un parere o un consiglio. Nella vita quotidiana poi è chiaro che il vescovo che torna a vivere da frate dovrà trovare un nuovo equilibrio, non solo negli ambienti, ma anche nella semplicità dei rapporti umani che caratterizzano i nostri conventi.In ultima analisi, un frate elevato all’episcopato sa di dover attribuire non solo a se stesso, ma in buona parte all’Ordine, la sua formazione, le numerose opportunità di crescita e maturazione umana, professionale e soprattutto spirituale. Il frate sa anche che, chi lo chiama all’episcopato, si aspetta da lui un servizio, uno stile e una spiritualità propri del suo

carisma, sperimentato e vissuto in una fraternità, e capace di creare fraternità. Nessuno pensi che un frate diventato vescovo è “uno di meno”, anzi, è un frutto sano di un Ordine generoso, che sa obbedire alla Chiesa donando al suo servizio gli uomini migliori, sapendo che saranno utili alla edificazione del Regno di Dio, e sperando che continuino ad essere di giovamento all’Ordine, come esempi e come stimolo per nuove vocazioni e per il rinnovo della nostra vocazione.

*OFMConv, Procuratore Generale dell’Ordine

[email protected]

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Fonte:Curia OFMConv

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R I m E T T I , C O m E A N C h E N O I R I m E T T I A m O RISPONDERE AL COmANDAmENTO DELL’AmORE

di Emanuele Rimoli*

Cosa affermiamo quando diciamo «rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo a nostri debitori»? Prim’ancora che scatti la richiesta di perdono, ci riconosciamo tutti debitori, o peccatori se seguiamo la versione dell’evangelista Luca. Cioè tutti in una situazione di carenza – possiamo anche dire che ci riconosciamo poveri, giacché «è povero chi non può dare un contraccambio» [Epicoco] o saldare un debito. Ora, poiché si tratta della preghiera del Signore, dobbiamo ricordare che chi parla è proprio il Signore Gesù. Egli, infatti, è il povero per eccellenza a cui appartiene il regno dei cieli (Mt 5,3). Cosa comporta questa constatazione?

Sul versante di Dio. Paolo lo spiega con parole potenti e disarmanti: «Gesù Cristo da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi della sua povertà» (2Cor 8,9), intuizione che san Francesco scopre nell’Eucaristia: «Perciò è lo spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, quello che riceve il santissimo corpo e sangue del Signore […]. Ecco, ogni giorno Egli si umilia, come quando dalle sedi regali scese nel grembo della Vergine; ogni giorno viene a noi in umili apparenze; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote. E, come ai santi apostoli apparve in vera carne, così ora a noi si mostra nel pane sacro» [Am I]. ]. In altre parole lo Spirito santo che è in noi, riceve il Figlio nel pane e vino eucaristico, e lo riceve nel suo movimento di umiliazione, di abbassamento verso l’umanità, nel suo impoverimento

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il Padre nostro, dalla fine al principio

Fonte:La Stampa

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affinché noi ne possiamo ricavare ricchezza. Perciò si tratta di un dono di vivacità che ci abilita a vivere come Gesù godendo della sua obbedienza e intimità con il Padre, stando solidali con gli altri in ogni circostanza. È questa la ricchezza evangelica che ci viene dalla povertà di Cristo, questo è il regno dei cieli: relazioni radicate in Cristo, vissute alla maniera di Cristo e non mortificate. Questo dono di vivacità corrisponde al dono che Dio ha fatto di se stesso con l’invio del Figlio, dono che si manifesta come riconciliazione: «Perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato [= lett. “ha fatto grazia di sé”] a voi in Cristo» (Ef 4,32). Il dono di grazia che è Cristo, ha rivelato che Dio è così favorevole agli uomini da non trattenere nulla per sé, neppure se stesso. Questo consegnarsi indifeso agli uomini vince le durezze e le diffidenze dei cuori, tanto da attirarli a sé (cf. Gv 12,32) per riposare in lui e finalmente godere della dolcezza di quella bontà. Si spalanca un orizzonte: «Come il Dio inaccessibile si rivela a me attraverso la sua grazia, anche l’altro inaccessibile può rivelarsi a me, e anche questa è una grazia» [Clement]. Rapportarsi secondo misericordia, a partire dall’invocazione di essere perdonati, significa accedere a un tempo alla grazia della rivelazione di Dio a noi e alla grazia della rivelazione degli altri - è l’esperienza goduta della paternità di Dio nei rapporti di fraternità. In effetti “l’altro lato della medaglia” dell’invocazione del Padrenostro è l’unico e grande comandamento del vangelo: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto [te stesso] … e il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,36-40). E “amare il prossimo come se stessi” vuol dire trattare gli altri secondo quel «rimetti a noi i nostri debiti», e chi non vorrebbe avere il suo debito condonato, essere perdonato, riscattato dai pesi che lo angustiano? Perciò perdoniamo agli altri perché venga perdonato a noi, anche da Dio - è la “furbizia” che Gregorio nisseno esprime così: «L’ordine dei valori in un certo modo viene cambiato: “Quello è il mio debitore, io sono il tuo; l’atteggiamento che ho avuto con lui mi ottenga presso di te lo stesso favore. Ho sciolto, sciogli; ho rimesso, rimetti; ho mostrato larga misericordia al mio prossimo, imita la benignità del tuo servo, o Signore!”» [Omelia V sul PN].

Sul versante dell’uomo. Il verbo “rimettere” è il greco aphíemi, ovvero “annullare, lasciare impagato”. Che cosa? I debiti o peccati. E perché chiediamo che restino impagati? Perché l’uomo non è in grado di saldare il proprio debito/peccato con Dio (vd. Mt 18,23-25). Allora la prima parte dell’invocazione suona come supplica fiduciosa: «Signore, vieni a me non come giustiziere ma, appunto, come Padre di misericordia; vieni con un verdetto di grazia verso chi ti ha voltato le spalle; vieni a ricostituirmi come figlio, non imputato» [Bruni]. Ciò che è in gioco è l’idea che abbiamo di Dio, l’immagine che di lui abbiamo ricevuto, coltivato, scoperto… Tutto si gioca appunto sulla fede, come dice Gregorio nisseno: «Cosa insegna la Parola di Dio? Anzitutto ad acquistare, attraverso le opere, il coraggio di mostrare la nostra fede e quindi

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Fonte:Archivio SBi

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a chiedere la remissione delle colpe» [Omelia V sul PN]. Gli farà eco Massimo il confessore nella conclusione del suo commento al Padrenostro: «Se vogliamo essere salvati dal maligno e non subire la tentazione, abbiamo fede in Dio e rimettiamo i debiti ai nostri debitori». Non è forse vero che ci fidiamo solo di chi non ha vergogna di noi, delle nostre contraddizioni, degli scheletri nascosti, delle brutture? Non è forse questo che desideriamo più di ogni altra cosa: cedere finalmente le armi e consegnarci ad uno sguardo benevolo? Su questo incontro disarmato poggia la seconda parte dell’invocazione, «come anche noi li rimettiamo». Sono stato perdonato, anch’io posso perdonare; ho gustato quella dolcezza, posso estenderla agli altri; sono entrato in quell’intimità, posso coinvolgervi altri. Per quanto però desiderabile constatiamo che non è così immediato godere di quella benignità coinvolgendo i vicini. Assomigliamo molto al servo insolvente (Mt 18, 23-25): attendiamo continuamente qualcosa dagli altri, pretendiamo al punto che non è tanto l’altro che ci interessa quanto la gratificazione che ci procura - preferiamo qualcosa invece che qualcuno, il dono piuttosto che il donatore, e questo non può che generare durezza

o perfino violenza. E siccome gli altri costantemente ci deludono poiché non sono in grado di pagare i loro debiti, è facile rifugiarsi nel risentimento per “fargliela pagare” con raffinate vendette, vivendo di amarezza e nostalgia. La portata è tale che è in gioco la sincerità dell’invocazione «rimetti a noi i nostri debiti». Infatti: «Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24). Non si tratta tanto della capacità di perdonare o del volersi presentare a Dio con la coscienza a posto (chi può farlo?), ma della sincerità della richiesta di perdono: si può invocare benevolenza per sé senza farne parte agli altri? Si può trattenere per sé, come cosa propria e privata, l’amore di Dio che in verità è per tutti indistintamente? Più drammaticamente: si può godere di un amore senza essere disposti a donare?La parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16,1-13) spiega definitivamente quanto stiamo dicendo. La scaltrezza lodata non è nell’impossibile tentativo di saldare il debito, ma nel condonare i debiti degli altri e trovare ancora favore presso il padrone. Appunto «procuratevi amici con la ricchezza disonesta», cioè con la misericordia: «La misericordia è il calcolo più intelligente che possiamo fare per noi e per gli altri. Se tu servirai il tuo Signore onorando il tuo fratello, qualora tu dovessi mancare in qualcosa rispetto al tuo Signore, l’onore dato al fratello richiamerà il favore del tuo Signore. Non solo, ma se il tuo fratello mancherà in qualcosa rispetto al suo Signore, l’onore che tu gli avrai portato funzionerà da intercessore per lui perché quell’onore è computato a merito» [Citterio].

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Fonte:Archivio SBi

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La misericordia, non si dà semplicemente in relazione ai peccati nostri o altrui, ma poiché è la maniera d’agire propria di Dio, essa è la verifica delle nostre relazioni, poiché ne è l’anima, la ragion d’essere, la logica, l’obiettivo e il compimento, l’intimo segreto.

Di cosa siamo debitori verso Dio? All’uomo Dio non ha dato solo il mondo e le sue cose, ma ha affidato Se stesso come “tu”. «Dio ha dato se stesso all’uomo e si aspetta che costui lo restituisca a se stesso […] come un “Dio amato”» [Guardini]. Verso Dio non siamo debitori di cose, ma della reciprocità nel rapporto, dimorando in quella intimità accessibile in Gesù e aperta a tutti gli uomini (Eb 6,19-20).Così, in punta di piedi, ci affacciamo su una questione solo accennata all’inizio: è Gesù che prega per primo le parole del Padre nostro esprimendo il suo rapporto speciale con il Padre e gli uomini. È Gesù che dice «Rimetti a noi…come noi rimettiamo» e si mette, ancora una volta - mendicante e povero - a domandare per noi, con noi e in noi (Gal 2,20; 4,6), perché sia colmata la separazione (Ef 2,14), sia abbattuta ogni accusa e accessibile il Regno (Ap 12,10).

Di cosa gli altri ci sono debitori? Alias: di cosa siamo debitori gli uni gli altri (e quindi al mondo)? Siamo debitori proprio di questa conoscenza del Signore. Fin tanto che tutti non l’avranno conosciuto come “amore del Padre per il mondo” attraverso uno stile misericordioso, la nostra stessa conoscenza resterà limitata, poiché non sapremo come quell’amore saprà riversarsi su quei fratelli, con che puntuale provvidenza e creatività. Così è di Dio, infatti così è dell’amore: se è trattenuto e non è donato, come potrà svelare le sue molteplici e intelligenti sfaccettature, la densità delle parole, la profondità degli sguardi, l’umanità dei gesti, l’intimità dei silenzi, la benevolenza nell’attesa, la non dimenticanza dei volti? Tendere a questa manifestazione rende umili e riverenti verso tutti, fino ai nemici, e risponde al comandamento dell’amore (Gv 13,34-35). È quanto desiderava Francesco per i missionari: «non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» [RnB XVI].

*OFMConv, docente di Antropologia cristiana @fratemanu

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Fonte:Archivio SBi

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JACOPONE DA TODI CANTORE DELLA CROCE DI CRISTO

di Raffaele Di Muro*

Jacopone nasce da una famiglia aristocratica di Todi, lavora come notaio ed abbraccia la vita matrimoniale. Gli studi effettuati sul suo conto non permettono una datazione certa circa la sua nascita. Si ritiene, invece, che nel 1259 risulti già sposato. A quarantasette anni muore sua moglie e successivamente si dedica alla vita penitenziale. Sembra che decisivo sia l’evento della morte della consorte sul cui corpo si scopre un cilicio. Ciò che si può ritenere certo è il fatto che esercita la professione di procuratore legale e che si dedica alla poesia. Intraprende la vita di penitente, vestito con l’abito che i bizzoconi portavano in quel tempo. Entra successivamente tra i frati minori, tra i quali emetterebbe la professione come fratello religioso, irridendo egli il valore degli studi e dei gradi accademici nell’ambito della famiglia francescana. Aderisce, dunque, alla schiera dei cosiddetti spirituali perché desideroso di un miglioramento nei costumi della fraternità francescana soprattutto relativamente alla pratica rigorosa della povertà. Il suo è un carattere fervoroso. Si schiera tra gli oppositori di Bonifacio VIII, che ritenevano invalida la rinuncia di Celestino V, e per questo sperimenta il carcere, probabilmente nel convento di Todi. Questa esperienza lo prova e gli permette una notevole crescita interiore. Il ritorno tra i confratelli, avvenuto probabilmente per volontà del nuovo papa Benedetto XI eletto nel 1301, lo riempie di gaudio e in questo contesto compone Le Laude, uno tra gli scritti mistici più ardenti della tradizione occidentale. Non è certo che abbia scritto il Tractatus utilissimus e i Dicta a lui spesso attribuiti pur se non si ha certezza assoluta circa la paternità di queste opere. L’amore verso Dio è il motivo dominante di questo componimento come di tutta la sua esperienza religiosa. È convinto assertore della contemplazione e della meditazione sui misteri di Cristo che rivelano la benevolenza divina a favore dell’umanità. Insegna che il cuore dell’uomo è grande solo se in esso domina l’amore, come lo stesso Francesco d’Assisi insegna.

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santità francescana

Fonte: Wikipedia

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Muore nel 1306 nel monastero delle Clarisse di Collazzone in Umbria, probabilmente nel giorno di Natale. Nell’itinerario proposto da Jacopone da Todi, l’ascetica e la mistica sono complementari. La contemplazione trascendente è condanna della carne, alimenta l’ardore e crea utili steccati con le attrattive del mondo. Si parte dall’annullamento del proprio egoismo e della propria fragilità per proiettarsi nell’amore di Dio. La penitenza, il disprezzo del mondo, la pratica della virtù e la meditazione sul mistero della croce vanno intesi in chiave mistica. Centrale è, nella spiritualità proposta da questo personaggio, la contemplazione dell’umanità di Cristo, in pieno stile francescano. Ammira con particolare fervore l’andare di Gesù incontro alla passione ed alla morte per la salvezza dell’uomo. Tuttavia emerge, contrariamente a quanto si legge negli scritti di Francesco d’Assisi, una sfumatura di pessimismo sempre velatamente presente in quanto scrive soprattutto in merito al disprezzo della carne e del mondo. Il suo pensiero è, però, da definirsi autenticamente francescano nel senso che il percorso di rinuncia proposto da Jacopone ha quale finalità ultima il raggiungimento della comunione con Dio.Proponiamo un brano tratto dalle Laude nel quale è evidenziato l’amore per la croce del Signore, la tensione escatologica e la comunione con Dio:

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“L’Amore sta appiso,la Croce l’ha preso

e non lo larga partire;vocce correndo

e mo mme cci apendo,ched ei non pòzza esmarrire

ca lo folgirefarìame sparire

ch’eo non forìa scripto enn AmoreO Croce, eo m’appicco

E a tténne m’aficooCh’eo gusti morendo la Vita!

Ca tu n’è adornataDa morte Melata;

tristo, ch’eo non t’aio sentita!O alma sì arditad’aver so firita

che ‘n more accorata d’Amore!”

(JACOPONE DA TODI, Laude, X, 25-40)

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Da questo brano si può notare la considerazione che il poeta francescano ha della croce del Signore che è da lui considerata espressione dell’amore di Cristo che è lì appeso per la salvezza dell’uomo. L’autore francescano riscopre la bellezza della croce quale via per giungere alla comunione con Cristo, conformandosi al suo donarsi e al suo soffrire, involandosi verso i beni eterni che Egli stesso ha conquistato all’umanità. La croce ha qui una funzione contemplativa e mistica perché consente al credente l’ingresso nel mistero della passione e in una comunione profonda con il Signore. Alvaro Cacciotti così si esprime commentando l’opera di Jacopone: «Espressione geniale della spiritualità francescana, la sua lirica intesse un universo poetico nel quale Dio e l’uomo sono gli artefici di una vita condivisa o da condividere. Satirico talvolta, senza mai entrare nelle controversie o polemiche dilaganti nelle “scuole”, capovolge totalmente la concezione dell’amore di ispirazione neoplatonica e a sfondo dualista che domina

la cultura e la letteratura del tempo. […] Così l’amore risulta il motivo conduttore di tutte le sue Laude, anche di quelle più aspre che inneggiano all’annientamento di sé, alla povertà radicale o che esprimono l’aspetto terrificante del suo peccato e l’incapacità di amare allo stesso modo in cui si sente amato da Dio» (A. Cacciotti, Jacopone da Todi, in Nuovo Dizionario di Mistica, 1030).Recentissima è l’opera di Alvaro Cacciotti, indiscusso e validissimo studioso di Jacopone da Todi, che ha pubblicato una raccolta di suoi contributi con le Edizioni Biblioteca Francescana. Si tratta di un ulteriore apporto su questa figura che merita, senza dubbio, tanta attenzione. Jacopone è un personaggio caratteristico del mondo francescano in grado di far percepire chiaramente il valore del suo cammino di conversione e la sua profonda vena poetica al servizio del Crocifisso.

*OFMConv, Preside del Seraphicum e docente di Spiritualità Francescana @raf_frate

Bibliografia:A. CACCIOTTI, Amor sacro e amor profano in Iacopone da Todi, Roma 1989A. CACCIOTTI, Iacopone da Todi, in Nuovo Dizionario di Mistica, Città del Vaticano 2013, 1029-1030A. CACCIOTTI, La teologia mistica di Iacopone da Todi, Milano 2020.

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Fonte: SBi

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PENSARE SuL CONFINE INTERROgARSI SuL SENSO PER COSTRuIRE RAPPORTI DIALETTICI

di Domenico Paoletti*

Il mese scorso, annunciando questa nuova Rubrica, indicavamo l’intento delle riflessioni che vorremmo sviluppare: collocarci sul confine tra realtà penultime - che viviamo nella nostra esistenza “immanente”, anche se orientata, con i suoi processi e i suoi snodi - e la realtà ultima come orizzonte di ricerca di senso globale: ricerca di senso che in questo tempo si è risvegliata anche in seguito alla crisi pandemica che ci ha colpito da più di un anno scuotendoci e mettendo in crisi le nostre sicurezze e autosufficienze. È vero che nel presente momento storico sembra che si sia indifferenti alle domande “intelligenti” sul senso, sulla prospettiva, sull’orizzonte ultimo. Ma scavando sotto (=oltre) la superficie, le domande fondamentali affiorano, e sono queste che vorremmo condividere. L’essere umano è l’essere che interroga e che si interroga; la ricerca del senso della vita è strutturale alla persona e scaturisce dal costatare i suoi limiti e la sua precarietà, che questo nostro tempo evidenzia in modo speciale. La scaturigine dell’interrogarsi è l’esperienza stessa del pensiero, originante e originaria. Pensiamo alla meraviglia del bambino di fronte al volto della madre, da lui riconosciuto come fonte di vita e di amore, inizio di un continuo meravigliarsi ed interrogarsi: dalla mano che si muove al colore che si riflette nei suoi occhi, al suono delle voci che lo raggiungono … Senza questo sorriso e stupore iniziale, non è possibile [ri]conoscere il mondo e la realtà, perché manca l’esodo, l’uscire, la relazione, la dinamica dell’interrogarsi che si pone sul confine tra l’io e il tu, tra l’interno e l’esterno, tra cielo e terra. «Solo lo stupore conosce» (Gregorio di Nissa), dalla meraviglia nasce il sapere che inizialmente è tutt’uno con l’amore, grazie a quel progressivo “allargamento del logos” a cui invitava Benedetto XVI nella lectio magistralis tenuta a Regensburg il 12 settembre 2006. La persona umana è relazionalità originaria: un sé centrato nel suo decentramento da sé, costituito nella propria identità dall’altro, da ogni altro, e specialmente da quell’assolutamente Altro che l’annuncio

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tra penultimo e ultimo

Fonte: web

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cristiano dichiara fattosi visibile e “prossimo” all’uomo nel volto del Cristo. Cristo rivela (dice e dona) la vita in abbondanza e la gioia piena. La fede cristiana che ci anima non è altro che “assenso al senso” cercato, e riconosciuto nel Logos fatto carne. Il confine tra penultimo e ultimo si fonda sulla dimensione trascendente del soggetto umano e si pone in prospettiva della “questione” di Dio, che non è uno in mezzo a tanti altri interrogativi, ma la questione fondamentale. Dio non è un interrogativo astratto, perché penetra e anima le fibre della nostra interiorità umana di fronte al bello, al bene e al vero. È vero che il progresso della scienza e della tecnica ha segnato un cambiamento inimmaginabile fino a pochi decenni fa, contribuendo a spiegare tanti fenomeni fino a raggiungere il centro della costituzione biologica e neurologica della persona umana, aiutando così a risolvere tanti problemi relativi al suo essere nel mondo. Rimane tuttavia radicalmente inevasa la domanda centrale e fondamentale: qual è l’origine, il significato, la destinazione della realtà? Ossia, più radicalmente, qual è il senso della mia vita?Le riflessioni intorno alle domande tra penultimo e ultimo sono elaborate, riprendiamo le parole di Benedetto XVI, all’interno di una «interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale» (Caritas in veritate, 55). La fede è risposta di senso riconosciuto nell’incontro con Gesù Cristo. Ci poniamo qui nell’ambito dei praeambula fidei, delle disposizioni. Per disposizione intendiamo l’intera area della nostra apertura o chiusura alla fede, che riguarda gli atteggiamenti più che le idee. L’importanza dell’ascolto è fondamentale per la fede, ed è anche il momento aurorale dello sviluppo della persona e del dialogo. È stato affermato che la persona umana è “ciò che ascolta” ed è anche “come ascolta”. Quando ci si dispone all’ascolto e si impara ad ascoltare si è aperti alla smentita delle precomprensioni e alla novità di nuovi orizzonti. Nei vari dibattiti di questo anno di pandemia è risultata flebile - se non assente - la voce della teologia

e della filosofia. Sembra ormai che gli unici maestri di cultura e di vita siano gli scienziati, che di solito hanno una visione naturalistica dell’essere umano. Mancano maestri sapienti in grado di offrirne una visione alta e intera. La comunità cristiana è apparsa spesso smagata e senza voce, come se la fede fosse ormai tanto affievolita da non saper più trovare le parole adatte a dire e dare una parola di senso pieno e di certa speranza. È vero che a tutti la salute è necessaria, ma tutti sappiamo che non è eterna:

con il tempo inesorabilmente deperisce … e perisce. Con la salute e più della salute è necessaria per noi la salvezza, la vita “per sempre”. Non di solo pane vive l’uomo (Mt 4,4). «Credere in Dio significa vedere che non tutto si può restringere alla realtà del mondo visibile. Credere in Dio significa che la vita ha un senso» (L.Wittgenstein).

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Fonte: Ansa

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È una verità che riguarda tutti, ma ci può essere una sordità all’humanum che si interroga; la crisi più grave è proprio questa chiusura al problema del senso. Ricercando umilmente la verità, diviene possibile riconoscere-sperimentare la quaestio Dei non in astratto, ma come la domanda da cui dipende la scoperta del senso o non senso della realtà, del mondo, e della propria vita.Interessante notare che in ogni cultura c’è una saggezza popolare che si potrebbe definire la “metafisica non riflessa” del senso. Questo perché non si può essere uomini senza essere in qualche modo filosofi, persone che interrogano, che cercano il senso talvolta anche sperimentando l’anelito come semplice curiosità. È pur vero che il clima culturale non sempre favorisce questa apertura. Resta il fatto che la simbolizzazione, proprietà essenziale dell’uomo, significa fare filosofia. È il simbolo la carta di identità dell’essere umano che, attraverso un segno sensibile, legge una realtà invisibile. Il simbolo è al confine e realizza una apertura al di là dello spazio immediato e del tempo immediato: è iniziazione all’invisibile, alla metafisica, al senso trascendente ed ultimo.Le domande ultime nascono precisamente sul confine tra penultimo e ultimo. Interessante vedere come il termine latino indicante il “confine” (finis, dal lat. figere con il significato di conficcare un paletto o una pietra che delimita il territorio) copra una trilogia di significati non affini: il “confine” come limite-frontiera, la “fine” come termine-conclusione e il “fine” come meta-compimento. Ecco perché le domande di senso sorgono sul confine (simultaneamente “limite” e “oltre”), tra penultimo e ultimo, e li mettono in contatto, in relazione. Questo contatto necessario permette la comunicazione e lo scambio, evitando ogni tipo di dualismo manicheo, come se il penultimo fosse il regno del male e l’ultimo quello del bene. Pensare sul confine è un pensare che si espone ed eccede verso l’oltre.E poiché il penultimo esiste solo se esiste anche un ultimo, interrogarsi sul senso consente di istituire rapporti dialettici molto fecondi, in un singolare gioco di rinvii tra assoluto e relativo, tra salvezza e salute, tra eternità e tempo, tra infinito e finito, tra vita e morte, tra Dio ed essere umano, tra teologia e filosofia. È da ricercare e fondare la visione teologico-filosofica che riesce a tenere insieme le due parti, in dialettica più che in antitesi, sapendo che per questo è molto più indicato il linguaggio simbolico, più connaturale all’uomo come accennato. La fede nel Cristo, l’Ultimo-Definitivo (èschatos), valorizza il penultimo. Accogliendo e vivendo con amore le realtà penultime, si arriva a quella realtà ultima come compimento. La fede nell’incarnazione di Dio abbraccia penultimo ed ultimo: è fede che ama la terra (K. Rahner), il tempo, il mondo storico, in contrasto con ogni ideale di fuga mundi, che nega valore intrinseco alle realtà penultime. La nostra fede illumina le realtà penultime, in cui l’eternità è dinamica del tempo e del creato. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto la legittima autonomia delle realtà penultime-terrene, e ha invitato a ricercarne il senso.

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Fonte: web

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È da ripensare e valorizzare di più e meglio la teologia della creazione, armonizzandola con il paradigma evoluzionista. La creazione è l’alleanza fondamentale e fondante tra il Creatore e il creato. In questo orizzonte cercheremo di focalizzare la relazione tra ultimo e penultimo nei principali problemi dell’uomo e del mondo, sulle diverse realtà penultime alla luce di Cristo con un approccio almeno tensionalmente transdisciplinare, abitando i confini per attraversare i saperi e riconoscere meglio per questa via il senso della realtà. Ci poniamo all’interno dell’orientamento che papa Francesco espone nel paragrafo 4c del Proemio della Costituzione apostolica, Veritatis gaudium (2018) sul nuovo modo di fare teologia: il terzo dei quattro criteri che dovrebbero segnare un rinnovamento e un rilancio degli studi universitari (compresi quelli ecclesiastici) è proprio «l’inter- e la trans-disciplinarità esercitate con sapienza e creatività nella luce della Rivelazione». Il richiamo è esplicito sull’«odierna riscoperta del principio dell’interdisciplinarità (EG 134): non tanto nella sua forma “debole” di semplice multidisciplinarità

[…] quanto piuttosto nella sua forma “forte” di t r a n s d i s c i p l i n a r i t à , come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio». Gli altri tre principi che papa Francesco indica per orientare il rinnovamento sapiente degli studi è il legame tra fede e vita che

si esprime con la “mistica del noi” e si allarga fino a includere “fratelli tutti”. Solo per completezza e perché essenziale all’integralità dell’humanum, ricordiamo che un altro principio per un nuovo metodo di studio è la necessità di favorire il dialogo a tutto campo. L’ultimo principio per uno studio sapienziale e generativo di senso, indicato dalla Veritatis Gaudium, è “fare rete”, ossia promuovere la ricerca scientifica attraverso la collaborazione tra diverse facoltà e centri specializzati.

*OFMConv, docente di Teologia fondamentale e definitore della Custodia del Sacro Convento di Assisi @fraterdominicus

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Fonte:SBi

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COmE INTENDERE L’ECONOmIA E IL PROgRESSOLA BuSSOLA DELL’ECOLOgIA INTEgRALE DI PAPA FRANCESCO

di Flavio Felice*

In quanto componente del Comitato Scientifico ed Organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, in cammino verso la 49° Settimana Sociale, che si terrà a Taranto dal 21 al 24 ottobre 2021, intitolata “Il Pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro #tuttoèconnesso”, credo che il nostro impegno debba incontrare l’invito rivoltoci da papa Francesco nella Laudato si’, lì dove, presentando gli “assi portanti” dell’enciclica, ci invita “a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso”; tali altri modi possono essere sintetizzati con l’espressione ecologia integrale: ambientale, politica e morale. Sul fronte ambientale e morale, tale concetto riguarda il rapporto uomo-ambiente-economia, il quale evidenzia aspetti complessi, come tra l’altro documentano le diverse prospettive presenti nel dibattito contemporaneo, di fronte alle quali la coscienza cristiana è chiamata a provocare anzitutto un chiarimento di principio e, quindi, anche una assunzione di responsabilità. Ridotta nei suoi termini essenziali, ci riferiamo alla questione dell’alterazione, ad opera dell’uomo, di quegli equilibri dinamici che garantiscono la sopravvivenza della biosfera e, dunque, anche delle risorse indispensabili alla vita umana.Tuttavia, al di là di questa determinazione minima, si può parlare - e di fatto ne parla già la Caritas in veritate - anche di una questione che affonda a livello dei significati e dei valori immateriali o spirituali connessi a tutto ciò che vede implicato l’uomo. In un tempo in cui ci si è abituati a vedere nella realtà delle cose solo il materiale del lavoro umano, si è come offuscata la trasparenza della realtà verso lo spirituale e l’eterno. Accade di fatto che la considerazione materiale della natura assuma una tendenziale egemonia teorica e pratica nella concreta vicenda sociale.

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#Tuttoèconnesso

Fonte: web

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Ora, si potrebbe dire che l’equivoco fondamentale che minaccia i rapporti dell’uomo con i beni della terra, con il loro impiego produttivo e con la loro allocazione sul mercato, sia ben evidenziato da Gesù nel Discorso della montagna, là dove è proposto all’attenzione dei discepoli il modello di vita offerto dagli uccelli del cielo e dai gigli del campo. La cura per la vita, dice Gesù, non può essere scambiata con la semplice cura per il cibo, e la cura per il corpo non può essere ridotta alla cura per il vestito. La vita, infatti non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Come a dire: la cura per la vita umana non può ridursi alla cura per i bisogni, la cui soddisfazione pure si raccomanda come urgente in ordine alla sopravvivenza. La semplice soddisfazione dei bisogni non basta a realizzare la vita dell’uomo; di pane soltanto l’uomo non vive; per vivere egli ha bisogno di una parola cioè di un senso e di una speranza.Il di più della vita, rispetto al cibo (noi qui potremmo dire: rispetto al mero sfruttamento delle risorse naturali a disposizione dell’uomo) ha nel testo del discorso della montagna quest’altra designazione precisa: il Regno e la sua giustizia. A chi cerchi prima di tutto questo Regno e la sua giustizia sono promesse tutte le altre cose in aggiunta: «Il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno». Detto altrimenti, colui che cerca il Regno di Dio e la sua giustizia troverà insieme l’autorizzazione a curarsi delle realtà materiali, ma secondo modi e misure capaci di accogliere e custodire la trascendenza della vita rispetto a tutte queste cose. In tale prospettiva, espressioni come integralità dello sviluppo e sviluppo solidale acquistano tutta la loro rilevanza. I beni cosiddetti materiali hanno bisogno di essere intrecciati e interpretati dai bisogni immateriali, per essere così riconosciuti quali veri beni dalla coscienza dell’uomo, che li conosce come segno e pegno dei beni sperati.Quali prospettive si spalancano, allora? Quali beni? Ne accenno soltanto alcuni.La vita umana, le attività dell’uomo e il dramma nel quale ogni giorno si gioca e si decide l’umana libertà, avviene su quel palcoscenico che è il mondo. Esso, in quanto uscito dalle mani di Dio, è buono

e bello. L’azione dell’uomo nel mondo non può essere quindi che rispetto ed incremento di tutto ciò che è buono/bello. L’entusiasmo con cui la bellezza e la bontà delle cose create viene affermata ne implica il rispetto, mentre l’insistenza sull’ordine che regna nel creato ne esige la conservazione. È questo il senso ultimo del cosiddetto “quinto asse portante” della Laudato si’: «il valore proprio di ogni creatura e il senso umano dell’ecologia». Questo punto ci conduce all’origine della Dottrina sociale della Chiesa e al suo principio fondamentale:

la centralità della persona umana. Ci riferiamo al cosiddetto principio del personalismo metodologico. Al centro del personalismo metodologico c’è la profonda convinzione circa il primato della persona sulla società, la quale è sempre mezzo e mai fine, poiché il fine è l’uomo. In questa prospettiva, inoltre, come ricordava nella sua domanda, la società appare come una «proiezione multipla, simultanea e continuativa di individui considerati nella loro attività».

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Fonte: Comune di Pesaro

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L’uso del termine proiezione ci appare particolarmente interessante poiché indica un elemento di continuità e di relazione tra i due soggetti, al punto che riteniamo di poter affermare che la società, in quanto proiezione della libera, responsabile e creativa azione umana, possa presentare le stesse caratteristiche dei soggetti che con le loro azioni contribuiscono alla sua costituzione. Per di più, il fatto che la proiezione sia multipla ci dice che è incompatibile con qualsiasi riduzione monistica. Il bene comune, ovvero il bene di tutti e di ciascuno, non si risolve nel monopolio di alcuna singola istituzione, ma è il risultato del concerto di una pluralità di istituzioni che contribuiscono (quota parte) a rendere accessibili le condizioni che consentono a ciascuna persona di perseguire il bene proprio e di tutti; il fatto che sia simultanea ci dice che nessuno - persona o istituzione - è nelle condizioni di agire in forza di una conoscenza perfetta e, per questa ragione, nessuna persona o istituzione può vantare un’autorità che non le derivi dalle strette competenze che ne delimitano il mandato; il fatto che sia continuativa ci dice che non esiste uno stadio perfetto, raggiunto il quale le istituzioni possano riposare sonni tranquilli e perpetuare in maniera definitiva e arbitraria la propria autorità: la spinta riformatrice è insita nel principio antiperfettista che delinea la nozione di persona umana.Per queste ragioni, il paradigma dell’ecologia integrale, perché sia tale, non può non comprendere anche la dimensione politica. Su questo fronte, un tale paradigma non si rifugia in ipotetici mondi paralleli e distingue tra regimi democratici e regimi servili, di stampo neo-feudale, individuando una serie di condizioni le quali assumono il carattere di elementi di un modello utile a misurare il grado di democraticità e, dunque, di inclusività di un determinato ordine civile. Seguendo la lezione sturziana, potremmo dire che: 1) mentre le democrazie consentono alle persone di svolgere il loro compito, di associarsi e di esprimere liberamente le loro opinioni, i regimi servili ammettono solo l’“applauso” e l’“adulazione”; 2) mentre nei primi è possibile “organizzare nuclei di resistenza”, nei secondi tutto ciò è impossibile; 3) mentre nelle democrazie, attraverso il pluralismo, è possibile contendere il potere e consentire la circolazione delle élite, nei regimi neo-feudali il suddito non potrà che offrire il proprio sacrificio, citando Sturzo, «per un avvenire che non vede».

*Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise; membro del comitato scientifico ed organizzatore delle Settimane Sociali dei cattolici italiani. È presidente del Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche e direttore della rivista Power and Democracy

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Fonte: Avvenire

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E C O S I S T E m A E C O R A g g I O C R E AT I VO LA PATERNITà PER INTRODuRRE ALL’ESPERIENzA DELLA VITA

di Guglielmo Spirito*

Ogni essere vivente ha bisogno di un ecosistema speciale: un bambino ha bisogno di un ambiente favorevole per la sua crescita, non soltanto un ambiente sano dal punto di vista ambientale (un tetto, riscaldamento, vestiti). Ha bisogno prima di ogni cosa di una madre e di un padre; poi, del resto. L’ecosistema è tutto quanto permette di crescere e di interagire con il medio ambiente, quello che consente di irrobustirsi, fiorire e fruttificare. Il padre ha il compito di garantire, coltivare e custodire un ecosistema adatto alla crescita del figlio: dal punto di vista fisico, emotivo, intellettuale, spirituale. C’è una tenerezza che si declina al maschile, che è diversa (e complementare) alla tenerezza femminile; entrambe plasmano il bimbo che cresce, avvologendolo in modo vitale, vivificante.Dice papa Francesco che «Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: “Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono” (Sal 103,13)». «La storia della salvezza si compie “nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza. […] Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza, dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza. Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. […] Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. […] Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere

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con cuore di padre

Fonte: web

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di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande». Ci sono due modi per leggere il tempo: dal passato verso il presente, oppure dal futuro verso il presente. Il tempo vitale, vivificante, parte dal futuro. Il presente non è che una risposta agli appelli che ci vengono dal futuro, dalla promessa di Dio che sempre si compie. E il Dio-che-viene, secondo il bellissimo nome che l’Apocalisse dà al Signore (Io sono colui che era, ché è e che viene). Il Totalmente Altro che viene affinché la storia diventi totalmente altra da quello che è. Solo quando vediamo la pianta pienamente cresciuta e carica di frutti possiamo valutare la promessa contenuta nel seme.«Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni. La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie».«Voglio immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-32)».«Questo Bambino è Colui che dirà: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Così ogni bisognoso, ogni povero, ogni sofferente, ogni moribondo, ogni forestiero, ogni carcerato, ogni malato sono “il Bambino” che Giuseppe continua a custodire. Ecco perché San Giuseppe è invocato come protettore dei miseri, dei bisognosi, degli esuli, degli afflitti, dei poveri, dei moribondi».«Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. […] La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!».

Semplice ombra

«Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre, ha narrato in forma di romanzo la vita di san Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi» [Il Papa non lo cita, ma il romanzo The Road (La Strada), di Cormac McCarthy potrebbe far intravedere altrettanto la forza sacrificale dell’amore paterno; oppure La pace come un fiume, di Leif Enger. Mors mia vita tua: consumare la propria di vita, perché il figlio viva la sua].

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Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della

vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti. Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri [qui si aprirebbe un ventaglio enorme: dalla paternità spirituale dei padri del deserto (cf. gli studi di Irénée Hausherr, Gabriel Bunge, Tomas Špidlik ed Elia Citterio), alle figure paterne recentissime, come un don Oreste Benzi…].Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non

possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita». A fondo perduto…«Lo scopo di questa Lettera Apostolica è quello di accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio».Se imiteremo lo slancio, lo si vedrà col tempo: possiamo incominciare con accogliere se non lo slancio almeno il lancio della sfida, con la fiducia certa che Giuseppe non ci lascerà soli e sbandati per strada…Basta provarci: un modo è farlo mettendo un bigliettino con le intenzioni di preghiera per le situazioni che ci affliggono sotto la statua di san Giuseppe (come fa il Papa stesso, mettendoli sotto il suo san Giuseppe dormiente, che ha un materassino di intenzioni), come facevano del resto diversi santi. Tra questi merita di essere ricordato sant’André Bessette (+1937), cioè il santo frère André di Montréal, Canada, canonizzato da Benedetto XVI, il più sfacciato di tutti nella sua sconfinata fiducia in san Giuseppe, al quale strappava grazie, guarigioni e conversioni a non finire. Oppure un altro modo (senz’altro, più che compatibile col primo) sarebbe usare con umile e spavalda fiducia la preghiera che papa Francesco stesso recita da più di 40 anni (riportata nella nota 10 della Lettera Apostolica), e che si conclude con notevole audacia: «Che non si dica che ti abbia invocato invano, e poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere. Amen».Provare per credere. Tocca a noi, adesso…

*OFMConv, docente di Teologia spirituale Guglielmo Spirito

Foto:Wikipedia

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mARY ELIzABETh hERBERT PROFILO DELLA SCRITTRICE, FILANTROPA E AuTRICE TERzIARIA FRANCESCANA

di Felice Autieri*

La nascita e la formazione religiosa

Nata a Londra il 21 luglio 1822, fu figlia unica del tenente generale Charles Ashe A’Court-Repington e di sua moglie, Mary Elizabeth Catherine Gibbs. Suo padre fu membro della Camera dei Comuni del Parlamento inglese, soldato e rappresentante influente dell’alta società vittoriana, mentre suo zio William A’Court, barone di Heytesbury, fu ambasciatore inglese a San Pietroburgo. Nel 1846 all’età di ventiquattro anni Elizabeth, che per lignaggio visse nei migliori circoli della società vittoriana, sposò uno dei politici più promettenti dell’epoca Sidney Herbert, secondo figlio del conte di Pembroke di dodici anni più vecchio di lei. Il marito era stato per oltre un decennio alla Camera dei Comuni, infine fu membro del gabinetto del governo conservatore del primo ministro Robert Peel. La Herbert condivise e fu partecipe degli interessi politici del marito, così quando fu nominato segretario del Ministero della guerra durante la campagna di Crimea, divenne una fedele collaboratrice di Florence Nightingale. Nel 1861 Sidney Herbert, dopo essere stato creato barone Herbert di Lea, morì di nefrite all’età di soli 50 anni, lasciandola vedova con sette figli: quattro ragazzi e tre ragazze.

Conversione al cattolicesimo e terziaria francescana

Subito dopo il matrimonio Elizabeth incontrò l’arcidiacono anglicano Henry Edward Manning, vecchio compagno di scuola di suo marito. Fu fonte di ispirazione per lei che fino a quel momento non era interessata alle questioni religiose, avvicinandola al movimento anglo-cattolico di Oxford e diventando più tardi il suo direttore spirituale. Nel 1851 il Manning, come altri influenti teologi anglicani, si convertì al cattolicesimo ed Elizabeth fece altrettanto il 5 gennaio 1866.

la fraternità dei laici

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Fonte: Wikipedia

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Dopo la sua conversione, le fu proibito dal Parlamento di portare i figli alla celebrazione eucaristica cattolica pena la perdita dell’eredità spettante ai figli. I suoi amici le voltarono le spalle, le fu tolta

ogni forma di patria potestà sulla prole, mentre solo sua figlia maggiore Mary Herbert sposata von Hügel, la seguì nella via del cattolicesimo. L’opera autobiografica How I Came Home del 1894, racconta la storia del suo percorso che la portò a chiedere il battesimo, nonché le difficoltà vissute e superate. Dal momento della sua conversione, la Herbert divenne la più zelante promotrice di tutte le opere caritative legate alla Chiesa cattolica in Gran Bretagna. Dopo essere tornata in patria alla metà del 1866, su consiglio del Manning arcivescovo di Westminster dal 1865, chiese di sostenere l’opera del p. Herbert Vaughan con cui lavorò per la fondazione della St. Joseph’s Missionary Society of Mill a Londra, nata per formare il clero missionario da inviare nelle colonie inglesi ed inaugurato nel 1869. Negli anni successivi divenne la più importante sostenitrice

della società missionaria, donando ingenti somme di denaro. Fondò e finanziò l’orfanotrofio femminile a Salisbury gestito dalle Suore della misericordia e in questo periodo professò la regola dell’Ordine francescano secolare. In seguito raccolse fondi per la costruzione della cattedrale di Westminster, la cui prima pietra fu posta nel 1895 dal Vaughan, successore del Manning e ora cardinale. Per la sua squisita generosità verso gli enti di beneficenza, fu chiamata Lady Lightening e The Mother of the Mill.

Scrittrice e giornalista

Fu traduttrice, scrittrice, filantropa ed autrice di diversi racconti alcuni dei quali autobiografici, di articoli molti dei quali furono pubblicati sul Dublin Review e di una serie di biografie e saggi. Valida scrittrice, la sua penna fu consacrata alla causa della Chiesa e dell’evangelizzazione, infatti per molti anni produsse in rapida successione un gran numero di libri, in parte originali e in parte traduzioni, che trovarono per la maggior parte una significativa diffusione. Tra le opere più note ricordiamo Impressions of Spain in 1866, il Cradle Lands sul suo viaggio in Egitto e Palestina entrambi pubblicati nel 1867, il Wives and Mothers of the Olden Time del 1871, il A Search after Sunshine, or Algeria in 1871 stampato nel 1872, il Wayside Tales del 1880 e le Edith una serie di racconti autobiografici pubblicati nel 1884. Tuttavia poté esprimersi al meglio nei racconti agiografici, riguardanti per lo più figure religiose. Furono tradotte dal francese biografie che tratteggiarono le figure di santa Monica, san Giovanni Battista de’ Rossi, il vescovo francese Félix Dupanloup, san Gabriele dell’Addolorata, Gabriel Garcìa Moreno e Francesco Saverio de Mérode.

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Sidney Herbert - Fonte: Wikipedia

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Morte

Morì a Londra il 30 ottobre 1911, dopo lunga malattia all’età di 89 anni nella sua tenuta di Herbert House. La cerimonia funebre fu celebrata il 3 novembre nella Cattedrale di Westminster e fu presieduta dall’arcivescovo Francis Alphonsus Bourne (nella foto). Venne sepolta nel St Joseph’s College insieme al Vaughan. Elizabeth Herbert fu amica intima e corrispondente di molti influenti personaggi dell’era vittoriana, tra cui politici come Benjamin Disraeli, Henry John Temple, William Ewart Gladstone, riformatori come Florence Nightingale e degli artefici della rinascita cattolica in Inghilterra come i cardinali John Henry Newman, Herbert Alfred Vaughan ed Henry Edward Manning. Fu immortalata come figura letteraria in varie opere del suo tempo, infatti apparve come Lady St. Jerome nel romanzo di Benjamin Disraeli Lothair del 1870, infine come Lady Chiselhurst nel romanzo di William Hurrell Mallock The Old Order Changes del 1886.

*OFMConv, docente di Storia della Chiesa e Storia del Francescanesimo

Bibliografia:

Herbert of Lea, Elizabeth, in Appletons’ Cyclopædia of American Biography, a cura di G. Wilson – J. Fiske, Appleton and Company, New York 1901 T. HERBERT, Lady Elizabet of Lea, in The Catholic Encyclopedia, volume XVI, The Encyclopedia Press, New York 1914.

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Fonte: www.npg.org.uk/

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LO STRANO CASO DEL CANE uCCISO A mEzzANOTTE

di Emanuele Rimoli*

A p. Jean-Pierre Jossua, opche ha varcato la soglia e colmato l’attesa

Leggere significa esporsi all’esperienza altrui. Questa arte corrisponde all’esigenza del cuore dell’uomo di conoscere il mondo nella meraviglia e nel dramma della sua complessità, e qui trovare il proprio posto. Leggendo accediamo infatti allo sguardo di altri, sentiamo (con) i loro sentimenti, partecipiamo a drammi, gioie ed eventi che nemmeno fanno parte della nostra epoca. Eppure siamo restituiti più ricchi a noi stessi e al nostro tempo. Non è forse questo il mistero delle relazioni, dell’esporsi all’esperienza di vita dell’altro? Mettersi nei panni dell’altro - secondo l’espressione comune - è ciò che questo libro impone: imparare il modo di percepire e pensare del quindicenne Christopher Boone, protagonista e narratore della vicenda, affetto da sindrome di Asperger. Al lettore non sono dati altri punti di vista sulla realtà che Christopher cerca di decifrare, egli è l’unico e il solo filtro di cui si dispone - Haddon, intelligentemente, evita qualsiasi spiegazione esterna della malattia rendendo l’esperienza di lettura ancora più realistica e drammatica. Novello Sherlock Holmes, il protagonista decide di indagare su chi abbia ucciso Wellington, il cane della vicina - ne ha scoperto il cadavere infilzato da un forcone a «mezzanotte e sette minuti», in una delle sue passeggiate notturne per osservare le stelle e godere indisturbato del silenzio. Logico e deduttivo come il suo eroe di Baker Street, Christopher risolverà il caso, con l’ulteriore scoperta che la realtà non corrisponde esattamente a quello che gli avevano raccontato, a dispetto del suo desiderio che la vita sia come la matematica e che a tutto ci sia una spiegazione sensata. Il suo cervello processa dati come un computer. E quando la quantità supera la sopportazione, il cervello ha bisogno di un reset, a volte lungo delle ore piene di enigmi matematici in cui riposare, o di gemiti ritmati in modo che coprano il rumore che lo circonda. «È come quando sei triste e tieni la radio appiccicata all’orecchio sintonizzata tra una stazione e l’altra, e ti arriva soltanto un rumore indistinto, e allora alzi il volume talmente forte che non riesci a sentire nient’altro e in quel momento sai di essere al sicuro perché non senti nient’altro». Lo stile della narrazione segue la mente e i ragionamenti del ragazzino, il suo essere metodico, l’esigenza di un ritmo lineare, la paura di ogni minimo cambiamento, il conteggio delle auto dello stesso colore («4 auto rosse in fila una all’altra indicavano una bella giornata, 3 auto rosse una giornata così così, 5 auto rosse una giornata straordinaria, mentre 4 auto gialle una giornata nera»),

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il tesoro dello scriba

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il fastidio intollerabile per il contatto fisico e l’incapacità di guardare gli altri negli occhi - nel suo sogno preferito gli esseri umani sono morti a causa di un virus che si trasmette attraverso lo sguardo, gli unici superstiti sono quelli come lui, che non riescono a guardare gli altri in viso. Ora può andare dove vuole senza preoccuparsi che altri lo tocchino o gli parlino, e può godersi il silenzio.Il linguaggio è scarno, semplice e ripetitivo; le frasi sono brevi e senza metafore, poiché «le metafore sono bugie», e Cristopher non dice bugie, perciò siccome si tratta del suo libro scritto proprio da lui, figure retoriche non ce ne sono, e il lettore deve semplicemente obbedire.Il modo con cui Christopher si rapporta con la realtà potrà suonare “strano” ma non è illogico, anzi mette in crisi la sensatezza di certe abitudini comuni, anche del linguaggio. Infatti, parlando della sua scuola, Cristopher spiega che è riservata ad alunni che «hanno delle difficoltà nell’apprendimento o hanno delle esigenze particolari. Questa sì che è una cosa stupida, perché tutti hanno dei problemi nell’apprendimento, perché imparare a parlare francese o capire il principio della relatività è difficile, ed è altrettanto vero che ognuno ha delle esigenze particolari, come mio padre che deve portarsi dietro delle pillole di dolcificante da mettere dentro il caffè per non ingrassare, oppure la signora Peters che gira sempre con un apparecchio acustico color crema […], nessuna di queste persone viene classificata come Gruppo H, anche se hanno delle esigenze particolari».Il racconto è capace di strappare sorrisi e lacrime, intenerisce e innervosisce (ma solo se non si è interessati a Christopher). È una porta per rendere un po’ meno indecifrabile il mondo della sindrome di Asperger. E per sorprendere con l’ingenuo candore di certe affermazioni: «I cani mi piacciono. Si sa sempre cosa passa per la testa di un cane. I suoi stati d’animo sono quattro. Un cane può essere felice, triste, arrabbiato o concentrato. E poi i cani sono fedeli e non dicono bugie perché non sanno parlare».

*OFMConv, docente di Antropologia cristiana @fratemanu

MARK HADDON

Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte

Einaudi 2014, pp. 248

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PER UNA NUOVA PRESENZA NEL MONDO. La pastorale francescana nel dibattito contemporaneo di Orlando Todisco

La conversione, il cambiamento di vita a cui invita il vangelo, è inevitabilmente anche conversione intellettuale. Nessuno viene al mondo da sé: ognuno di noi viene dopo; prima viene l’altro, grazie al

quale esisto. Il nutrimento dell’anima non è quindi l’amore di sé, ma l’amore dell’altro.Questa è la perla preziosa, il cuore della pastorale francescana: noi e il mondo siamo frutto di un gesto divino di libertà. La libertà è il segreto del mondo che sogniamo ma che facciamo fatica a far nascere.A noi è chiesto un impegno tenace per coltivare sogni all’altezza di Colui per il quale tutto è possibile. Per il pastore francescano non è la ragione la stella polare, perché non è nella razionalità il segreto del reale. Il primo posto compete alla volontà, che ha voluto ciò che avrebbe potuto non volere, rispetto a cui la razionalità è la veste che ne traduce e rende fruibili le espressioni. Noi non siamo perché razionali, noi siamo perché voluti. È la volontà creativa di segno oblativo la stella polare. Noi e il mondo siamo un dono, frutto

di un gesto di libertà. Da qui il proposito del pastore francescano di attivare tale logica senza tradirla, facendo fronte all’onda razionale, subdola e letale, che agita l’umanità.

Edizioni Biblioteca Francescana, 2021

“FRATELLI TUTTI”. UN SOgNO DA FARE INSIEME. Commento all’enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale di ugo Sartorio

In Fratelli tutti sono raccolti i grandi temi del pontificato di papa Francesco, e c’è da dire che messi in fila dietro alla parola fraternità fanno un certo effetto: sanno di sintesi e a tratti assumono l’intensità e l’eloquenza di un magistero che prende il largo, a vele spiegate, perché finalmente unificato. L’enciclica ha una grande ambizione, quella di aggiustare, capovolgendola, la triade coniata dalla Rivoluzione francese: al primo posto la fraternità, perché la libertà riscopra la sua dimensione comunitaria e non sia mai vissuta senza l’altro, e l’uguaglianza tenga conto che ai blocchi di partenza o in certi tornanti della vita non tutti hanno le medesime possibilità. I fratelli sono diversi ma si aspettano e si danno una mano, litigano ma poi fanno pace e si vogliono ancora più bene, sono tutti unici perché nessuno è l’unico.Questo è il sogno di papa Francesco per una nuova umanità.

Edizioni Messaggero Padova, 2020

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novità editoriali

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BREVIARIUM SANCTI FRANCISCI. Un manoscritto tra liturgia e santità di Pietro messa

La vicenda storica di Francesco d’Assisi (1182 circa - 1226) coincide con un passaggio importante nella storia liturgica, ossia le riforme dovute ai pontefici Innocenzo III (1198-1216) e Onorio III (1216-1227). Infatti nel programma di riforma ecclesiale non è esclusa la liturgia e se dei due suddetti pontefici il primo in certi giorni significativi sostituisce le letture dei Padri della Chiesa con alcuni suoi sermoni, il secondo rendendoli facoltativi di fatto li toglie e ripristina le letture precedenti. Proprio a causa di tali cambiamenti ogni variante, correzione o sostituzione presente nei manoscritti liturgici risulta tanto importante quanto significativa. D’altra parte la preghiera liturgica è uno degli aspetti portanti della Regola dei Frati Minori tanto che, grazie ad essa, non solo l’Assisiate ma tutti i frati possono acquisire una seppur elementare cultura teologica che permetta loro di comunicare e trasmettere un pensiero e spiritualità.

Per questo motivo il breviario utilizzato dallo stesso Santo, esemplare di quello in uso presso la Curia pontificia, riveste una particolare importanza sia per la storia della liturgia sia per comprendere la cultura e spiritualità di frate Francesco e dell’iniziale fraternità minoritica.

Libreria Editrice Vaticana, 2021

TEOLOgIA E ARTI VISIVE - Fascicolo di CredereOggi

CredereOggi intende offrire il proprio contributo di riflessione sul rapporto tra teologia e arti visive, tra arte e fede. Per quanto possa apparire sorprendente, nei tempi recenti, da un punto di vista ecclesiale,

il tema dell’immagine non è mai stato veramente indagato. Non così nel mondo antico, in cui l’immagine era al centro delle preoccupazioni teologiche: la domanda era se e come il Dio trascendente e assoluto potesse essere rappresentato. Oggi, invece, la questione si pone in termini del tutto diversi: a secoli di distanza dalle lotte iconoclaste, non ci si interroga più se si possa o no rappresentare il divino, ma quali debbano essere le immagini di Dio da raffigurare nelle nostre chiese e soprattutto se permettano una riconoscibilità del Dio che si è incarnato nella storia. Da un lato, il riferimento imprescindibile (e insostituibile) è il vangelo, il criterio di discernimento di fronte a tutte «le immagini» che si producono; dall’altro, occorre considerare gli sviluppi della tradizione, consapevoli che ogni epoca ha cercato di indagare il mistero di Dio, a partire dalla propria

sensibilità e cultura, al fine di entrare nel cuore dell’esperienza religiosa. Inoltre, proiettando lo sguardo oltre l’ambito ecclesiale, ci si accorge che nella contemporaneità l’arte non ha cessato di indagare il sacro, ma spesso il riferimento al cristianesimo è ignorato o addirittura soppresso.

Dall’editoriale “Quali sfide per l’arte sacra?” di Andrea Dall’Asta e Germano Scaglioni - Qui il sommario.

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francescanamente parlandoNOmINE AL SACRO CONVENTO DI ASSISI

Nuovo Definitorio per la Custodia del Sacro Convento di Assisi, con la nomina dei nuovi collaboratori del Custode generale fra Marco Moroni (al centro nella foto). L’elezione è avvenuta nel corso del

Capitolo custodiale svoltosi nei giorni scorsi. Sono risultati eletti fra Teofil Petrişor, vicario custodiale, della Provincia di San Giuseppe Sposo della B.V.M. in Romania; fra Mario Cisotto, segretario custodiale, della Provincia Italiana di Sant’Antonio di Padova; fra Domenico Paoletti, definitore, della Provincia dei Santi Bernardino e Angelo (Abruzzo); fra Wiesław Pyzio, definitore, della Provincia della Madre di Dio Immacolata in Polonia; fra Jorge Rolando Fernández, definitore,

della Provincia “Rioplatense” di Sant’Antonio di Padova in Argentina e Uruguay; fra Stephen Ochieno Ochwada, definitore, della Provincia San Francesco d’Assisi in Kenya.

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San Bonaventura informa è il mensile della Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” SeraphicumPreside: Raffaele Di Muro (OFMConv)

Direttore responsabile e caporedattore: Elisabetta Lo IaconoRedazione: Oreste Bazzichi, Giulio Cesareo (OFMConv), Francesco Costa (OFMConv), Raffaele Di Muro (OFMConv), Felice Fiasconaro (OFMConv), Emil Kumka (OFMConv), Domenico Paoletti (OFMConv), Emanuele Rimoli (OFMConv), Germano Scaglioni (OFMConv), Roberto Tamanti (OFMConv), Orlando Todisco (OFMConv)hanno collaborato a questo numero: Felice Autieri, Raffaele Di Muro, Maurizio Di Paolo, Flavio Felice, Elisabetta Lo Iacono, Pietro Maranesi, Nakia Matti Pauls, Domenico Paoletti, Emanuele Rimoli, Guglielmo Spirito Direzione e Redazione: c/o Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” SeraphicumVia del Serafico, 1 – 00142 RomaTel: 06 51503209 - Fax : 06 5192067 – Email: [email protected]

Registrazione Tribunale di Roma n. 219 del 07/12/2016 (Anno V/ n.50) Numero chiuso il 27/2/2021

Foto in prima pagina: particolare di “Sant’Antonio di Padova”, ca. 1480, di Antoniazzo Romano - Museo Civico di Rieti

IN PAROLE FRANCESCANE

«In ogni suo sermone, prima di comunicare la parola di Dio al popolo radunato, augurava la pace dicendo “Il Signore vi dia la pace!”. Questa pace egli annunciava sempre

sinceramente a uomini e donne, a tutti quanti incontrava o venivano a lui».

Vita del beato Francesco di Tommaso da Celano (FF 359)

Fonte: Curia OFMConv