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Laboratorio Montessori ISSN 1974-8787 Sabrina Scarpetta La metafisica del bello nell’ermeneutica di Gadamer

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Laboratorio MontessoriISSN 1974-8787

Sabrina Scarpetta

La metafisica del bello nell’ermeneutica di Gadamer

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INDICE

INTRODUZIONE. Pg. 4

CAPITOLO 1.GADAMER E LA PROBLEMATICA ERMENEUTICA.

− La questione dell’Interpretation. Pg. 7− Il problema della verità nelle scienze dello spirito. Pg. 17− Retorica e teoria dell’esperienza ermeneutica. Pg. 22

CAPITOLO 2.SAPERE MORALE E SAPERE ERMENEUTICO.

− L’importanza della filosofia pratica. Pg. 33− L’essere sociale e l’essere teoretico: θεωρεîn e πρáττειν. Pg. 37− L’attualità ermeneutica dell’etica di Aristotele. Pg. 45

CAPITOLO 3.IL BELLO COME ASPETTO UNIVERSALE DELL’ERMENEUTICA.

− L’esperienza estetica come esperienza extrametodica di verità. Pg. 64− Ontologia dell’opera d’arte. Pg. 70− L’esempio della tragedia. Pg. 86− lógoj e καλóν. Il percorso della metafisica occidentale. Pg. 93− Metafisica del bello. Pg. 101

BIBLIOGRAFIA. Pg. 110

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Introduzione.Per qualunque verso ci si voglia accostare al pensiero del filosofo contemporaneo H.G.

Gadamer, non si potrà evitare di trovarsi a fronteggiare la problematica ermeneutica: alla luce delle letture e delle ricerche compiute per la stesura del presente lavoro, emerge e si impone, così come continuamente è tesa a chiarire la speculazione dello stesso filosofo, il suo carattere universale.

Questo lavoro di tesi intenderà chiarire l’aspetto universale dell’ermeneutica attraverso l’analisi di uno dei tanti argomenti possibili di cui lo stesso Gadamer si serve per perseguire il suo obiettivo: il concetto metafisico di bello, e l’ideale classico di bellezza unito con quello di perfezione che si tramuta quasi naturalmente in bellezza morale secondo il pensiero degli antichi, vengono colti attraverso le concezioni etiche ed estetiche classiche di Platone e Aristotele, fondamentali nella dimostrazione gadameriana dell’importanza dell’ontologia ermeneutica.

Inquadrando la posizione ermeneutica e le riflessioni sul rapporto tra ragione teoretica e ragione pratica, si seguirà un itinerario che metterà in evidenza gli aspetti della formazione culturale filologica e classica che animano il filosofo non solo come ammiratore del mondo classico, ma anche perché egli muove proprio dal repertorio della cultura umanistica per poi trattare di problemi legati al nostro mondo moderno, grazie alle prospettive aperte, ovviamente, dall’ermeneutica filosofica.Dunque il percorso di questo lavoro si snoderà tra le tematiche individuate unendo insieme i nodi concettuali più interessanti e fecondi del pensiero di Gadamer: l’ermeneutica come aspetto universale della filosofia, l’estetica come esperienza di verità, e l’etica come ricerca di un ideale di filosofia pratica che guidi l’agire dell’uomo di oggi.

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CAPITOLO 1. GADAMER E LA PROBLEMATICA ERMENEUTICA.

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La questione dell’Interpretation.La riflessione speculativa di Gadamer prende l’avvio dall’elaborazione heideggeriana

dell’ermeneutica dell’esserci1, che riveste di nuova luce la classica teoria dell’interpretazione e le riconosce un ruolo basilare nella costruzione della filosofia.

L’ermeneutica, infatti, non si pone più solo in rapporto all’esegesi di testi letterari, religiosi o giuridici, secondo l’originaria fisionomia di disciplina tecnica che caratterizza il problema dell’interpretazione nella cultura occidentale: la prospettiva aperta da Heidegger guarda invece al processo ermeneutico come aspetto fondamentale della vita dell’uomo, che investe invero ogni aspetto dell’esistenza umana in virtù della mediazione del linguaggio2, entro il quale la vita stessa si muove, e da esso è condizionata e resa possibile.

Gadamer dunque si propone, nel panorama del pensiero contemporaneo dove il dibattito tra storia e linguaggio sta acquistando sempre maggiore rilievo, come il primo pensatore che, muovendo dall’eredità di Heidegger, ha fornito una presentazione sistematica dell’ermeneutica come posizione filosofica specifica.

La sua convinzione è che l’ermeneutica, fin dal secolo scorso, si sia allontanata gradualmente dalla semplice funzione pragmatica; la tradizione letteraria verso cui l’ermeneutica è rivolta, infatti, è come una forma di spirito che esige una nuova e più giusta interpretazione e appropriazione.

Anche l’arte e le altre creazioni spirituali del passato, secondo il filosofo, sono state estraniate rispetto al loro senso originario, e devono quindi essere indirizzate ad uno spirito che dischiuda e medii tale senso originario, uno spirito a cui non poteva essere dato un nome più idoneo se non quello di Hermes, il dio greco messaggero degli dei.

Il suo intento sarà quindi non certo quello di fissare un complesso di regole per l’interpretazione di un testo, bensì di chiarire il significato del processo ermeneutico in quanto costitutivo e fondamentale della vita dell’uomo, proprio nel senso in cui Heidegger afferma che il comprendere3 (Verstehen) non è una delle tante forme possibili di comportamento del soggetto, ma è il modo di essere dell’esistenza stessa: la questione del

1 M.Heidegger, Sein und Zeit, 1927, trad. it. Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1982.

2 M. Heidegger, Das Haus des Seins, (La casa dell’essere), trad. it. in Lettera sull’umanesimo, a cura di A. Bixio e G. Vattimo, Sei, Torino 1975.

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concreto processo del comprendere si connette così alla totalità dell’esperienza e dell’azione umana, e ciò conferma e ribadisce in tutta la sua imponenza l’importanza e l’universalità del problema ermeneutico.

Il passo decisivo per l’approfondimento del significato filosofico dell’ermeneutica, secondo Gadamer, è stato compiuto da Heidegger nel momento in cui si sforza di stabilire il carattere fondamentale dell’esistenza, che consiste appunto nel comprendere nel senso di un processo intrinsecamente temporale ed ermeneutico: emerge in questo modo il fatto che si può rendere presente il passato soltanto in virtù della intrinseca storicità della nostra esistenza, vista come un movimento unitario che allo stesso tempo è un rendere presente e un lasciar cadere nell’oblio4 (Vergessenheit); il filo conduttore della storia, in questo processo, valuta la finitezza dell’esistenza umana non più come limite della comprensione storica, ma come condizione positiva e feconda per il suo rapporto con la verità.

In altri termini, il riconoscimento della storicità del soggetto conoscente non riduce il problema della verità a quello dell’autenticità dell’espressione, ma, al contrario, lo afferma all’interno della storia e del suo dispiegarsi temporale.

Questa impostazione serve a Gadamer per avviare la sua ricerca su come un’adeguata comprensione del processo ermeneutico possa mettere in evidenza tutti i caratteri della storicità del comprendere, staccandosi definitivamente dalla problematica heideggeriana dell’ermeneutica storica intesa soltanto in senso ontologico.

La direzione più specifica della sua teoria ermeneutica si delinea man mano attraverso la critica serrata del filosofo allo scientismo e all’epistemologismo che dominavano la filosofia di inizio secolo, e che identificavano la verità unicamente con il sapere delle scienze positive, e attraverso la ferma rivendicazione della portata di verità di altre esperienze – chiave dell’esistenza, come quella estetica, quella storiografica, quella del dialogo interpersonale, esperienze, queste, che venivano completamente escluse dalla benché minima considerazione perché ritenute prive del rigorismo metodologico delle scienze positive e quindi prive di verità.

D’altronde, non è certo un’acquisizione recente la considerazione che, per indagare nei vari settori dello scibile umano è opportuno muovere di volta in volta con specifici strumenti di studio: in altre parole, è proprio ciò che sosteneva secoli fa Aristotele quando affermava

3 M.Heidegger, Sein und Zeit, op. cit.

4 M.Heidegger, Sein und Zeit, op. cit.

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che campi di indagine diversi vogliono metodi di indagine diversi per giungere ogni volta alla specifica verità di quell’ambito di ricerca.5

Gadamer sostiene quindi che il problema della verità, anche se non può mai essere scisso dalla finitezza, non deve essere ristretto al campo della verità obiettiva propria dei procedimenti scientifici. L’intento polemico contro il pensiero scientifico come si era venuto formando a partire dal XVII secolo è evidentissimo già dal titolo della sua opera più importante, Verità e metodo6, dove per mezzo del metodo, cioè lo strumento con cui un soggetto, contrapposto al suo oggetto, si assicura la possibilità di disporre di quest’ultimo, la mentalità filosofica moderna di tradizione europea ha formulato i concetti di obiettività e dimostrabilità, che escludono ogni carattere eventuale7 della verità che si vuole raggiungere.

Il primo passo di Gadamer è dunque quello di mostrare l’insostenibilità, o almeno i limiti, di questa nozione di metodo, per riconoscere che esistono delle esperienze di verità che pure sussistono e si verificano al di là dei confini stabiliti da siffatto metodo, e che l’autore definisce esperienze extra-metodiche della verità: la nozione di metodo elaborata dalle scienze della natura non è in grado di comprendere che anche le scienze dello spirito posseggono una loro specifica verità, che caratterizza altri tipi di conoscenza, non determinati affatto da criteri di dimostrabilità o di obiettività.

Le scienze umane ( o Geisteswissenschaften) si servono anch’esse, infatti, di un metodo di interpretazione, e la ricerca del senso e della portata di una teoria delle scienze umane non approda semplicemente ad una mera metodologia riguardante un certo gruppo di scienze, ma si rivela come vera e propria filosofia: infatti, sostiene ancora Gadamer, è cosa vana limitare la delucidazione circa la natura delle scienze umane ad una pura questione di metodo, in quanto non c’è da definire un metodo specifico, bensì si deve riconoscere un’idea del tutto

5 Aristotele, Methafisica, II, 3, 995 a 6-20.

6 H.G.Gadamer, Wahrheit und Methode, Mohr, Tubingen 1975, trad. it. Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983.

7 Il termine evento, (Erlibniss) è di indubbia impronta heideggeriana, come tutta la tematica riguardante il concetto stesso di verità. Si veda più avanti, al cap. II, par. 1.

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diversa di conoscenza e di verità; di conseguenza, una filosofia che abbia queste esigenze, viene mossa da ben altre pretese che quelle motivate dal concetto di verità proprio delle scienze naturali.

D’altro canto, l’esatta formulazione di una teoria delle scienze umane viene motivata da Gadamer anche a causa dell’apparizione, dopo l’avvento dell’epoca moderna, del problema della coscienza della determinazione storica, la cui portata spirituale è così imponente da caratterizzare l’uomo contemporaneo: per coscienza storica8 egli intende il privilegio dell’uomo moderno di avere piena consapevolezza della storicità di ogni presente e della relatività di tutte le opinioni. La coscienza moderna è dunque preparata a comprendere la possibilità di una molteplicità di punti di vista relativi, e anche le scienze umane si caratterizzano per questa forma di riflessione, che Gadamer definisce senso storico: partendo dal contesto specifico da cui scaturisce il passato, lo storico vince quella ingenuità culturale che lo porta a giudicare il passato secondo le pretese evidenti della vita attuale, con le sue istituzioni, valori e verità acquisite, e riesce invece a pensare espressamente all’orizzonte storico (Horizont) che è coestensivo alla vita passata e presente.

Il concetto di orizzonte acquista rilievo non tanto in campo storico quanto piuttosto in ambito filosofico: l’orizzonte è quel cerchio che abbraccia e comprende tutto ciò che è visibile da un certo punto. Applicando il concetto al pensiero, nel linguaggio filosofico da Nietzsche a Husserl il termine indica il fatto che il pensiero è legato alla sua determinatezza finita, e sottolinea la gradualità di ogni allargamento della prospettiva: chi ha un orizzonte sa valutare correttamente all’interno di esso il significato di ogni cosa secondo la prossimità o la lontananza. Conformemente a ciò, in ermeneutica si acquisisce il giusto orizzonte problematico per i problemi che si pongono nel rapporto dell’uomo con i dati storici tramandati.9

L’idea di fusione insita nell’Horizont viene sviluppata per fronteggiare il relativismo imperante nelle metodologie scientifiche, e anche come conseguenza dell’estremismo contenuto nell’opera di W. Dilthey. Muovendosi e staccandosi da Kant, Dilthey, rappresentante filosofico della scuola storica, aveva svelato le conseguenze epistemologiche dello storicismo di Ranke e Droysen contro l’idealismo tedesco, e aveva formulato una sua critica della ragione storica.

8 H.G. Gadamer, Il problema della coscienza storica, 1963, trad. it. a cura di V. Verra, Napoli, Guida 1969.

9 Gadamer, Verità e metodo, op. cit. pag. 353.

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Gadamer segue Dilthey soltanto nel carattere storico della conoscenza storiografica e nell’appartenenza alla storia come condizione di possibilità della storiografia: la conoscenza storica è un accrescimento di essere che accade alla cosa attraverso l’interpretazione, un evento ontologico che riguarda quell’essere10: la conoscenza storica è dunque un modo della conoscenza di sé.

I limiti dell’opera di Dilthey però sono ben evidenziati e rifiutati da Gadamer: Dilthey non si è mai liberato dal concetto cartesiano di scienza, e non riconosceva dunque che esiste differenza tra la certezza colta nella vita e la certezza ottenuta nelle scienze; egli coordinava le scienze umane con le scienze della natura per mezzo di un erroneo metodologismo, dove la coscienza storica si sostituiva allo spirito hegeliano, e il suo tentativo di fondare le scienze dello spirito rimase incompiuto per aver imposto il modello delle scienze della natura.

Gadamer dunque propone, attraverso il senso storico, un atteggiamento riflessivo di fronte alla tradizione che altro non è se non l’interpretazione, la sola in grado di inglobare la tradizione nel suo insieme, in virtù del suo carattere universale di cui si è trattato in apertura del presente lavoro.

Di fatto, la metodologia moderna delle scienze umane segue la concezione di Nietzsche11 secondo cui tutti gli enunciati dipendenti dalla ragione sono suscettibili di una interpretazione, poiché il loro senso vero viene inevitabilmente mascherato e deformato dalle ideologie, quindi è necessario guardare al di là del senso immediato del dato per poter scoprire il vero significato nascosto. In definitiva, il dialogo che viene così annodato con il passato offre una situazione per così dire straniera, che reclama l’utilizzo del metodo di interpretazione.

Gadamer insiste molto sull’importanza della sua ontologia ermeneutica e sul suo significato nel quadro della problematica filosofica odierna: egli ritiene che il punto di partenza resti ancora Hegel, specie quando, nella sua polemica antikantiana, afferma l’insostenibilità della descrizione dei fenomeni morali in base alla dottrina dell’imperativo categorico: la situazione in cui in generale può instaurarsi una riflessione morale è già sempre una situazione di conflitto tra dovere e inclinazione, ad opera dello spirito oggettivo. Ora, si

10 La struttura messa in luce è quella della trasmutazione in forma di cui si tratterà a proposito dell’esperienza dell’arte.

11 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, (Seconda Inattuale), nota introduttiva di G Colli, Milano, Adelphi 1974.

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chiede Gadamer, quale è l’esatto rapporto tra coscienza soggettiva e spirito oggettivo? Nietzsche, Marx e Freud rispondono in maniera radicale, ergendosi a campioni dello smascheramento del pensiero positivistico; la risposta che Hegel credeva di aver dato con la sintesi dello spirito assoluto lasciava il problema ancora aperto, infatti il rapporto della coscienza soggettiva con il mondo storico entro cui sorge e si afferma non si lascia pensare attraverso una forma di conciliazione (Versoehnung), ma richiede altri schemi, appunto, interpretativi.

Viene quindi, ancora una volta, in primo piano il problema dell’Interpretation, e la risposta di Gadamer consiste nella centralità della nozione di linguaggio12: l’essere che può venire compreso è il linguaggio.

L’universalità del problema ermeneutico rimanda infatti in ultima istanza all’ontologia del linguaggio, che si sostituisce allo spirito hegeliano, e che si presenta quale mediazione tra coscienza soggettiva e spirito oggettivo, e inoltre, in quanto adeguato alla finitezza dell’uomo, il fenomeno del linguaggio possiede il vantaggio di essere infinito come lo spirito, e tuttavia finito come ogni accadere.

Il problema della verità nelle scienze dello spirito.Nella filosofia, sostiene Gadamer, interpretare equivale a osare di confrontarsi con la

verità di un testo ed esporsi ad essa; questa affermazione è densa di parole che sono idee-guida nel pensiero del filosofo: dell’interpretazione si è appena trattato; del confronto con il testo inviterebbe a sviluppare il concetto, ma non è possibile affrontarlo in questa sede, dell’importanza de linguaggio nel suo modo di essere speculativo, luogo privilegiato dove avviene la mediazione di passato e presente13, ovvero dell’uomo con il mondo, e attraverso il quale, nella comprensione, l’ermeneutica come aspetto universale della filosofia si afferma; a proposito dell’idea di verità occorre invece soffermarsi, della verità che può e che deve caratterizzare le Geisteswissenshaften.

Si è già discusso sulla polemica di Gadamer tesa a smascherare le insolubili aporie dello storicismo otto-novecentesco, e mentre prima il filosofo demoliva le teorie, ora passa alla pars costruens: l’intento, che muove da una speculazione di chiara eredità hegeliana, è di affermare che una qualunque esperienza è valida, cioè vera, è cioè una esperienza di verità solo se modifica effettivamente chi la fa. Il diretto corollario di tale definizione soggiunge che l’esperienza di verità è tale solo in quanto è realmente evento, cioè in quanto accade.

12 Cfr. Gadamer, op. cit. parte III, pp. 441 ss.

13 E. Grassi, Vico e l’Umanesimo, Guerini e Associati, Milano 1992.

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L’utilizzo del termine evento è sicuramente di influsso heideggeriano, infatti lo stesso Heidegger sviluppa in alcuni scritti ben noti a Gadamer14 l’idea di verità come apertura originaria (Oeffenheit) di un mondo, non certo una struttura trascendentale del soggetto alla maniera neokantiana, ma conforme alla tesi della radicale finitezza e storicità dell’essere, il quale è appunto un evento, cioè un accadimento storico che ha la sua sede in certi fatti privilegiati od epocali; questi fatti vengono definiti esperienze extrametodiche della verità, e le più significative sono per Gadamer l’esperienza della coscienza estetica e l’esperienza della coscienza storica, entrambe attentamente analizzate durante l’argomentazione ermeneutica; infatti, spiega il filosofo, l’arte e la storia si sottraggono al loro essere secondo l’interpretazione della soggettività della coscienza: soltanto nelle linguisticità dell’esperienza del mondo si verifica la mediazione tra finito e infinito, perfettamente conforme all’uomo in quanto essere finito.

Decisivo è il riconoscimento da parte di Gadamer del problema ermeneutico come problema di integrazione15: infatti, il riconoscere che l’esperienza, per esempio quella estetica, modifica realmente chi la fa, implica il problema della mediazione tra l’opera d’arte e il mondo del lettore, ovvero la fruizione dell’opera diventa un problema di mediazione tra due mondi, e questo è nient’altro che un problema ermeneutico.

Inoltre, la mediazione e l’integrazione di questi mondi si identifica con la questione del rapporto che si ha con il passato: se la verità è evento, vuol dire che questo evento, in quanto accaduto, è passato, e deve essere perciò integrato nel mondo attuale di colui che si pone a interpretarlo.

Ponendosi questo problema di integrazione, l’ermeneutica non è dunque solo una disciplina tecnica, ribadisce Gadamer, né una riflessione filosofica sulle scienze dello spirito separate dalle scienze della natura: essa rivendica invece legittimamente quella universalità che lo scientismo moderno attribuisce al solo metodo scientifico, erroneamente modello di ogni ricerca del vero, in quanto obbliga ad una limitazione della nozione di verità e ad una completa non-comprensione di qualunque esperienza del vero che si ponga sul piano extra-scientifico, cioè nel campo delle scienze dello spirito. Solo dal punto di vista ermeneutico si può raggiungere la fondazione della scienza16.

14 H.G. Gadamer, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Torino 1963, cap. III.

15 H.G. Gadamer, Essere e tempo, op. cit. pag. 204.

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Il nesso verità-integrazione è molto utile nella spiegazione dell’esperienza storiografica, che si rivela appunto esperienza di integrazione, cioè di mediazione di due mondi, e qui Gadamer si collega esplicitamente ad Heidegger e alla sua teorizzazione del circolo ermeneutico17, che, a sua volta, riprende la classica nozione ermeneutica della circolarità della comprensione.

Il circolo ermeneutico è un altro concetto cardine che Gadamer analizza attentamente per suffragare la sua teoria ermeneutica; senza addentrarsi adesso nei dettagli, si può evidenziare, come sottolinea lo stesso filosofo, che la circolarità della comprensione, cioè del processo ermeneutico, non contrappone rigidamente soggetto e oggetto –come avviene nel metodo scientifico e nella τéχνη-, e l’uomo non è estraneo al suo passato, bensì è medio tra estraneità e familiarità, e questo, ancora una volta, conferma e fonda l’universalità del problema ermeneutico.

Infine, l’integrazione tipica dell’atto ermeneutico è sui generis, perché l’oggetto non è mai davvero oggetto, in quanto non era estraneo del tutto al soggetto fin dall’inizio: il tipo di conoscenza storica rivendicato da Gadamer si definisce con l’espressione coscienza della determinazione storica, perché la coscienza è appunto consapevolezza del fatto che la cosa da interpretare è un evento storico che tocca, con tutti i suoi effetti (Wirkungsgeschichte, la storia degli effetti), l’interprete, costituendone la determinatezza storica.

La presentazione di Gadamer della teoria ermeneutica e la difesa appassionata che egli conduce, come si è notato, della propria ermeneutica filosofica, non debbono apparire come astratte speculazioni filosofiche fini a se stesse: attraverso tale attività di pensiero, infatti, il filosofo vuole accostarsi alle problematiche che vive l’uomo di oggi, capire il perché di certe crisi attuali o il crollo di certi valori, ed eventualmente, suggerire possibili soluzioni. Come spesso accade, le risposte agli interrogativi che l’uomo si pone esistono già, e il semplice gesto che deve fare non è sporgersi in avanti, ma voltarsi indietro: scoprirà così il valore dell’esperienza, l’importanza del passato, il peso della tradizione, e il pregio degli insegnamenti di chi ci ha preceduto. Nel caso di Gadamer, non certo voce isolata, la fonte inesauribile che alimenta il suo pensiero, fornendogli continue domande, come vuole il circolo ermeneutico, e modelli, e paradigmi, – in virtù dei quali la molla del sapere non si

16 H.G. Gadamer, L’universalità del problema ermeneutico, in Filosofi tedeschi d’oggi, a cura di A. Babolin, Bologna 1967, pag. 114.

17 M. Heidegger, Sein und Zeit, op.cit.

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esaurisce mai - , è l’antichità classica, e si avrà un’ampia dimostrazione di ciò nelle prossime pagine.

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Retorica e teoria dell’esperienza ermeneutica.Nel 1923 Gadamer partecipa ad un seminario tenuto da Heidegger sull’Etica Nicomachea di Aristotele: il filosofo tedesco analizzava la frónhsij in opposizione alla quale ogni técnhha nel testo aristotelico una sua limitazione interna18, e metteva quindi in discussione la differenza che divide ogni sapere di quel tipo, come la dóxa , dalla frónhsij , come Aristotele stesso scrive:

λÔθη µεν τοιαúτησ æξéωσ, φρονÔσεωσ δε οúκ æστιν19.Quello che Heidegger stava scoprendo, e che gli ha reso poi affascinante la critica aristotelica nei confronti dell’idea platonica di Bene così come il concetto aristotelico di sapere pratico, era che Aristotele descriveva in definitiva un tipo di sapere, un eôdoj γνϖσεωσ calato nella concreta situazione esistenziale, un aspetto di cui nessuno si era finora accorto.

Il grosso merito quindi che Gadamer riconosce ad Heidegger è quello di aver liberato il testo di Aristotele dall’ottica con cui la tradizione scolastica lo aveva sempre studiato, e, grazie alla forza espressiva del fenomenologismo, egli è riuscito finalmente a interpretare.

Il compito più importante da svolgere secondo Gadamer resta sempre quello dell’interpretazione, e, da buon filologo classico, non può ignorare il collegamento dell’ermeneutica con la retorica: retorica non certo nel senso odierno, intesa come arte della lusinga, ma come era considerata nell’antichità classica: Platone infatti, prima dell’avvento dei sofisti, che fecero irruzione con una nuova arte della parola (i δíσσοι− λóγοι) e una nuova concezione della cultura, sosteneva nelle pagine del Fedro, che la retorica aveva la prerogativa di poter stare in un rapporto essenziale con il ritrovamento e con la comunicazione del sapere e della conoscenza.

Secondo Gadamer, Platone ha mostrato che la retorica non si può separare dalla dialettica, questa intesa in senso originario, poiché l’arte di condurre un discorso in fondo è l’arte dell’intendersi, e dunque il comprendere serve a intendersi, e si colloca così in questo contesto comunicativo dell’atto dell’intesa.

Platone sosteneva che solo il filosofo poteva essere dialettico, cioè in grado di padroneggiare il discorso la cui funzione precipua è quella di presentare ciò che si spiega in modo efficace, ovvero in maniera appropriata alle anime che si apprestano a ricevere.

18 M.Heidegger, Essere e tempo, op. cit. pg. 225.

19 Arist. Eth. Nic. 1140 b 28-30: …di una simile disposizione vi può essere oblio, ma della saggezza, invece, no.

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Densa di risvolti pedagogici, l’affermazione rivela due presupposti platonici fondamentali: solo colui che conosce la verità (ovvero le idee) è in grado di ripetere l’elemento verosimile della argomentazione retorica, e inoltre deve essere un esperto conoscitore delle anime su cui deve agire.

Volendo accostare l’arte della comprensione al processo ermeneutico caro a Gadamer, si potrebbe risalire molto alle origini, e tuttavia non si troverebbe una esplicita teoria della comprensione, perché non sarebbe presente la presa di coscienza della necessità di captare una lontananza, di superare una alterità, di costruire un ponte tra passato e presente, tutti momenti che caratterizzano la nascita del problema ermeneutico. Infatti solo la coscienza storica, prodotto del XIX secolo, ha potuto instaurare secondo Gadamer un rapporto di dipendenza nei confronti di ogni tradizione.

Né la retorica si può identificare con l’ermeneutica, giacché questa si orientava, almeno agli inizi, verso i compiti richiesti dall’interpretazione delle manifestazioni di vita fissate per iscritto, mentre quella si regolava sul carattere di immediatezza proprio dell’arte del discorso; inoltre l’oratore ha la possibilità di trascinare l’uditore, lì compresente con lui ed avvinto dalla forza persuasiva del discorso, contrariamente a quanto accade nella lettura e nell’interpretazione di uno scritto, dove il lettore è lontano e distaccato dall’autore, dal suo stato d’animo e dalle sue intenzioni.

La giusta linea secondo Gadamer sarà dunque: retorica come arte della parola, lettura, comprensione, interpretazione, ed ermeneutica.

Nell’indicare le linee fondamentali dell’esperienza ermeneutica Gadamer porta l’esempio di come avviene la comprensione in campo storiografico, e ne ricava un interessante parallelo; quindi passa ad analizzare la storicità della comprensione intendendola come principio ermeneutico, e infine ritorna sul terreno dell’esperienza ermeneutica per ritrovare in essa quei momenti che aveva appunto evidenziato nell’analisi dell’esperienza storiografica20.

Il punto di partenza è la descrizione heideggeriana del circolo ermeneutico, del quale sottolinea il significato ontologico positivo: il compito ermeneutico, in virtù della sua stessa essenza., assume la fisionomia di un problema obiettivo, e chi vuole comprendere un testo non può abbandonarsi alla casualità delle proprie presupposizioni, ma deve mettersi il più possibile in ascolto dell’opinione del testo, pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso.

La coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all’alterità del testo, e la peculiarità di tale sensibilità consiste nel non presupporre né

20 Si segue il pensiero dell’autore così come si legge nella parte seconda di Verità e metodo, op. cit. pp.211-440.

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un’obiettiva neutralità, né un oblio di se stessi, ma una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e pre-giudizi.

Secondo la regola ermeneutica, il tutto si deve comprendere a partire dalle parti e le parti dal tutto, come declamava la retorica antica, trasferita dall’ermeneutica moderna alla tecnica del comprendere; l’importanza del circolo, come sostiene Heidegger, sta nel fatto che la comprensione del testo è continuamente determinata dallo slancio anticipativo della comprensione, che guida la comprensione del testo in base alla comunanza che lega l’uomo alla tradizione.

I vari tipi di polarità che si verificano nell’ermeneutica, come il legame di trasmissione storica e di tradizione che ha il testo da interpretare, oppure la familiarità ed estraneità allo stesso tempo dell’interprete con al cosa da interpretare, indicano che questa medietà è il luogo autentico dell’ermeneutica.

Ancora una volta Gadamer riconosce ad Heidegger la portata ontologica di queste definizioni, e afferma che la coscienza ermeneutica è quella che include in sé necessariamente una coscienza storica che metta in luce la realtà della storia anche nello stesso comprendere: questa viene definita Wirkungsgeschichte (storia degli effetti o delle determinazioni)21.

Quest’argomentazione serve a Gadamer per rivalutare quegli importanti momenti costitutivi del circolo ermeneutico che avevano ricevuto un’accentuazione negativa nell’Illuminismo, cioè i pregiudizi e i preconcetti, ed afferma inoltre che i pregiudizi dell’individuo sono costitutivi della sua realtà storica più di quanto non lo siano i suoi giudizi.

A conferma di tale tesi il filosofo riabilita i concetti di autorità, di tradizione, di distanza temporale e soprattutto di applicazione.

L’autorità di cui si tratta non ha nulla a che fare con l’obbedienza, ma con la conoscenza: essa si fonda sul riconoscimento dei limiti della ragione, la quale concede fiducia al miglior giudizio di altri; il fondamento vero dell’autorità quindi è un atto della libertà e della ragione.

Anche i concetti di tradizione e di distanza temporale sono basilari perché l’atto ermeneutico indica proprio il rapporto tra la cosa stessa, che ha in sé una sua tradizione, e la tradizione stessa; inoltre, l’interprete è costantemente dimidiato tra l’appartenenza del testo alla tradizione e la sua distanza temporale.

La distanza temporale non è qualcosa che si debba superare, perché il tempo non viene considerato come un abisso che separa, bensì come il fondamento portante dell’accadere: nella distanza temporale si riconosce una positiva e produttiva possibilità del comprendere,

21 Gadamer, Verità e metodo, op. cit. pag. 350.

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perché l’abisso viene riempito dalla continuità della trasmissione e della tradizione, nella cui luce si mostra tutto ciò che è oggetto di comunicazione storica.

L’ultimo rilievo riguarda infine il concetto di applicazione. Gadamer si riallaccia all’ermeneutica più antica, completamente dimenticata dalla metodologia storiografica post-romantica, dal momento che già anticamente il problema ermeneutico si articolava nella distinzione tra subtilitas intelligendi, cioè il comprendere, subtilitas explicandi, la spiegazione, e la subtilitas applicandi: questi erano i tre momenti costitutivi dell’atto della comprensione.

Il termine subtilitas dimostra che già allora si voleva intendere appunto una facoltà che esige una particolare finezza di spirito, quella che per Gadamer è la peculiare sensibilità che deve possedere l’interprete.

L’esempio migliore per spiegare il problema dell’applicazione viene dall’analisi aristotelica dell’etica, sulla quale Gadamer si sofferma molto a coronamento e a conclusione del percorso or ora tracciato: nel delineare la teoria dell’esperienza ermeneutica, egli ha ricostruito prima di tutto la storia dell’ermeneutica, ha poi dimostrato come questa dottrina debba a ragione essere peculiare delle scienze dello spirito; ha illustrato i pregiudizi e i preconcetti tipici del circolo ermeneutico affermandone il significato positivo, ha riabilitato i concetti di autorità e di tradizione, ha sottolineato l’importanza della necessaria distanza temporale, ed è approdato quindi al momento dell’applicazione.

Tutto questo per dimostrare, grazie all’attualità ermeneutica di Aristotele, che il momento dell’applicazione è un compito fondamentale del problema ermeneutico22.

22 L’analisi della coscienza della determinazione storica viene conclusa con una affermazione che prepara il terreno per la più recente acquisizione di Gadamer: secondo il modello della dialettica platonica, si riconosce il primato ermeneutico della domanda come fondamentale del compito ermeneutico, e si ammette che la fusione di orizzonti che accade nella comprensione è l’opera specifica del linguaggio. Cfr. Gadamer, Verità e metodo, op. cit. pag. 437.

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CAPITOLO 2.SAPERE MORALE E SAPERE ERMENEUTICO.

L’importanza della filosofia pratica.Una delle prospettive aperte dall’ermeneutica di Gadamer invoca con sempre maggiore

vigore l’urgenza di una riflessione sulla ragione pratica di fronte all’evidente venir meno dei modelli tradizionali di orientamento dell’agire.

Quello di Gadamer è un valido esempio di discorso filosofico tecnico che non rifiuta di misurarsi con i problemi della vita concreta, e soprattutto che non dimentica l’aspetto della saggezza della vita, come invece mostra di aver dimenticato molta filosofia accademica dell’attuale movimento culturale e intellettuale.

Gadamer si rifà al pensiero di Aristotele, insistendo molto sulla riscoperta ermeneutica della filosofia pratica aristotelica, che definisce un modello esemplare di razionalità al quale sarebbe più che mai al giorno d'oggi opportuno fare riferimento.

Il motivo della ragione pratica è ricorrente e centrale nella stessa misura dei continui richiami di Gadamer all’ideale classico della saggezza pratica e della frónhsij , di contro ad un atteggiamento di prudenza e di sospetto nei confronti della scienza moderna e della tecnica, e ad una critica risoluta, come si è visto, dell’ottimistica ideologia del progresso; nella sua radicale analisi dell’essenza della tecnica, Gadamer è senza dubbio l’erede più autorevole dell’insegnamento heideggeriano. E’ Heidegger, infatti, a impostare il percorso speculativo che passa per una travolgente scoperta dell’attualità della filosofia pratica aristotelica, dell’idea di πραξισ come movimento originario del vivere umano e della frónhsij come lume e sapere orientativo; è evidente, in seguito, l’appropriazione di tale pensiero da parte di Gadamer, che teorizza così il valore esemplare della filosofia pratica contrapponendolo alle aporie in cui la cultura scientifica e tecnica del mondo moderno ha condotto la filosofia, costretta a scegliere tra l’arcadia e la tecnofilia, cioè tra una celebrazione per così dire museale di valori idealizzati come classici e perenni, ma non più

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realmente vissuti nella storia degli effetti, oppure un vuoto vassallaggio al dominio del sapere scientifico e tecnico.

Attraverso la riabilitazione della filosofia pratica e del concetto di frónhsij , Gadamer vuole indicare una via da seguire per affrontare i problemi che accompagnano il cammino della finitudine umana verso quell’attitudine divina possibile e raggiungibile dall’uomo, che altro non è se non la θεορια ; sembrerebbe a questo punto esserci una incongruenza tra il significato fattuale della filosofia pratica, la prassi (πραξισ), e il significato meditativo o contemplativo, cioè passivo e non attivo, insito nell’idea di teoria (θεορια).

In realtà teoria e prassi non vengono in contrasto tra loro: come si chiarirà meglio più avanti, per Gadamer ogni prassi significa in fondo ciò che rinvia al di là di essa, e al di là di essa c’è appunto la teoria, che non è una facoltà di cui l’uomo dispone, ma un qualcosa che esige preparazione e formazione (Bildung), e che presuppone, in altre parole, la riuscita della πραξισ: allora, la filosofia pratica altro non è che l’iniziazione necessaria per pervenire alla suprema attività della θεορια.

Nel dare rilievo all’importanza dell’idea di filosofia pratica Gadamer non può prescindere dalla svolta data ancora una volta da Heidegger contro il concetto idealistico di ermeneutica, nella nuova direzione di un’ermeneutica della fatticità: essa riesce a cogliere la temporalità e la finitudine dell’uomo di fronte al compimento infinito della comprensione e della verità, perché il comprendere viene riconosciuto nella tensione in cui si trova rispetto all’accadere reale.

Specificato il sapere sotto quest’ottica, Gadamer afferma dunque che nelle scienze dello spirito l’essenziale non è l’oggettività, come è, invece, nell’indagine di tipo scientifico della realtà, bensì la relazione preliminare con l’oggetto: questo ideale della partecipazione viene ad integrarsi con l’ideale della conoscenza oggettiva basato sull’etica della scientificità.

La partecipazione alle espressioni essenziali dell’esperienza umana, come si sono configurate nell’arte e nella storia, è il vero criterio che, nelle scienze dello spirito, riconosce la ricchezza o la povertà delle stesse teorie.

Interesse e partecipazione all’esperienza umana esistevano già nel pensiero di Aristotele, che sviluppò la filosofia pratica elevando la prassi umana ad ambito di sapere autonomo. Prassi significa l’insieme delle cose pratiche, ovvero ogni comportamento umano e ogni istituzione umana in questo mondo; ma qual è il posto teoretico del sapere e del riflettere sulla prassi?

Secondo Aristotele, tra il sapere e il fare vi è al centro la prassi, oggetto della filosofia pratica. Il suo vero fondamento sta nel fatto che l’uomo ha una posizione centrale e conduce la propria vita seguendo non l’istinto, ma la ragione, e la virtù fondamentale che viene dall’essenza dell’uomo è dunque la ragionevolezza (frónhsij ) che guida il suo agire, cioè la prassi.

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Aristotele stesso si domandava come la virtù della frónhsij potesse collocarsi accanto alla virtù del sapere scientifico e del saper fare tecnico, ma qui basti accennato all’impostazione concettuale di Gadamer, mentre l’analisi delle problematiche verrà affrontato più avanti.

L’idea decisiva, che accomuna sia le scienze dello spirito sia la filosofia pratica è che in entrambe la struttura finita dell’uomo assume una posizione determinante rispetto al compito infinito del voler sapere. Questo voler sapere trova il suo miglior agio nella realtà fattuale, ovvero nella realtà costituita di convinzioni, di valutazioni, di abitudini condivise e comprensibili profondamente da tutti, cioè l’insieme di tutto ciò che forma il sistema di vita. La realtà, e tutto ciò che si diviene tramite l’esercizio e l’abitudine è l’ηθοσ, e Aristotele è il fondatore dell’etica perché ha reso determinante questo valore della realtà fattuale.

L’insegnamento della filosofia pratica viene definito da Aristotele anche politica, e il passaggio dall’etica alla politica viene sottolineato dalla continuità concettuale delle opere Etica Nicomachea e Politica.

La filosofia morale non ha come unico scopo una pura e semplice conoscenza, bensì un effettivo miglioramento dei costumi, che si verifica attraverso le abitudini imposte con le leggi. Le leggi hanno valore educativo perché costringono a prendere le buone abitudini che predispongono alla virtù, e la scienza che permette di costruire un sistema legislativo razionale ed efficace sarà necessariamente la politica.

Nel guidare rettamente la volontà dell’uomo assume importanza l’espressione sensus communis23: essa non significa solo la capacità generale che tutti gli uomini possiedono, ma è quel senso che fonda la comunità, e non è un sapere dimostrato, ma permette di scoprire il verosimile, ovviamente un verosimile non certo inteso come probabilità, bensì come per lo più, cioè come sapere inteso e condiviso dalla maggioranza: esso non è un sapere pratico né un sapere teoretico, ma, come la φρονησισ, è orientato alle situazioni concrete, e deve quindi cogliere le circostanze nella loro infinita varietà.24.

Nel distinguere tra sapere fondato sui principi generali e sapere del concreto Aristotele vuole fare agire anche un motivo positivo, etico: per cogliere e dominare la situazione concreta occorre sussumere il dato sotto l’universale, cioè sotto il fine che ci si propone, e questo presuppone che esista già nell’uomo un certo orientamento della volontà, cioè un

23 Gadamer, Verità e metodo, op. cit. pag.44 b.

24 Cfr. Aristotele, Eth.Nic. Z 9 1141 b 33.

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modo di essere morale: l’εξισ è infatti l’attitudine dell’anima a essere moralmente qualificata25.

Per questo la frónhsij è per Aristotele una virtù morale: egli non vede solo una facoltà (δυναµισ), ma una virtù che non solo distingue ciò che si può fare da ciò che non si può fare, ed è quindi una specie di intelligenza pratica, ma che nel suo saper distinguere implica e presuppone un atteggiamento morale che distingue ciò che è moralmente conveniente da ciò che non lo è.26

La filosofia pratica sprona dunque a usare rettamente, tramite la ragione, il sapere e il saper fare di ogni uomo per perseguire dei fini comuni; in questo compito, come si vedrà tra breve, la filosofia ermeneutica, ancora una volta, svolge un ruolo centrale, in quanto deve mediare tra il sapere dell’universale teoretico e il sapere della prassi: l’ermeneutica governa perciò, secondo Gadamer, l’intera dimensione dell’autocomprensione.

L’essere sociale e l’essere teoretico: θεωρεîn e πρáττειν.Il pensiero occidentale è fortemente improntato alla logica del dualismo: in qualunque

ambito di speculazione filosofica si volesse indagare, si troverebbe sempre posta in essere una contrapposizione che avvia lo sviluppo delle varie problematiche; per esempio, il dualismo nella versione metafisica separa Dio e mondo, nella conoscenza gnoseologica separa soggetto e oggetto, nell’etica dei valori modula una gerarchia dell’essere, nel centralismo antropologico separa l’uomo dal resto del mondo, e così via.

Nel mondo antico però non era così, e la difficoltà dell’ammissibilità di tale affermazione è giustificata appunto dalla caratterizzazione per così dire deviata dall’ottica del dualismo nell’approccio concettuale di noi moderni .

Si ha un bel dire dello scontro tra Platone e Aristotele, e nell’opporre le loro teorie si gratifica la voglia di dualismo certamente dimenticando, o non tenendo in debito conto, tutto il sostrato storico, culturale e ideologico in cui vivevano e di cui si alimentavano le dottrine dei due filosofi greci.

25 Cfr. Aristotele, Eth.Nic. 104 b 19.

26 Per la problematica del sensus communis cfr. G.B.Vico, De nostri temporis studiorum ratione, in Opere, I, Bari 1918, e, sempre di Vico, La scienza nuova, Giusta l’edizione del 1744, Bari, Laterza 1978.

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Gadamer dunque, in ciò rendendo un omaggio tangibile al valore della teoria ermeneutica da lui propugnata, prende atto della classica distinzione tra filosofia teoretica , comprendente fisica, matematica e teologia, quest’ultima come metafisica, e filosofia pratica, ma non le contrappone tra loro come per stabilire un ipotetico - ed erroneo – predominio di una sull’altra, né considera la filosofia pratica come l’opposto della scienza ma, anzi, πρâξισ τισ non è nient’altro se non θεορíα, è il θεωρεîn !

Certo risulta difficile accostare le due idee di teoria e prassi quando sembrano così naturalmente l’una l’opposta dell’altro, come sottolinea emblematicamente il riso della donna tracia nel vedere Talete cascare in una buca perché era intento appunto al θεωρεîn : con questo termine i Greci indicavano sia l’osservazione delle stelle, sia la partecipazione ad una delegazione solenne, e in entrambi i casi una tale azione distoglieva l’attenzione da qualsiasi altro gesto più pratico, motivo per cui Talete non vede la buca nella quale va a finire. La teoria (lat. contemplatio) non è dunque un mero vedere, ma è un atteggiamento, un esserci che vuol dire non solo essere presente, ma essere pienamente presente.

Ma come si può difendere la figura del protofilosofo immerso nella teoria di contro al dilagante riso della serva tracia?27

La risposta si trova, su due piani differenti, in Platone e Aristotele. Il primo, dando vita certamente a una sfida, proclamò l’astensione sua e dei suoi seguaci dalla vita politica, che era vista allora come l’attività pratica più importante da svolgere nella città, per vivere tutta la vita all’interno dell’Accademia assolutamente lontano dalla politica e perseguendo l’ideale della vita teoretica.

Che ciò fosse bene lasciava parecchio increduli i pragmatici politici e i loro sostenitori sofistici, che furono poi completamente spiazzati dalla monumentale risposta di Platone che, con il suo Stato ideale, capovolgeva tutte le concezioni correnti. Nel famoso mito della caverna infatti28, gli empirici e i pragmatici vivono in un mondo di ombre che considerano

27 L’aneddoto, contenuto nel Sofista di Platone e nel Teeteto, 174 a, è stato oggetto di svariate interpretazioni: la filosofia stessa è stata definita come un cadere in una buca, ossia come un precipitare, e il riso della donna evidenzia ciò che corre tra l’ovvietà e il filosofare. Husserl, in La filosofia come scienza rigorosa, sostiene che l’inizio del filosofare corrisponde all’allontanarsi dall’ovvietà, e dunque la filosofia è lontananza. Heidegger e Nietzsche esasperano il concetto: nello scritto di Heidegger Per la determinazione della filosofia, egli sostiene che solo quando il filosofo non sarà più in grado di udire il riso della donna, che rappresenta il piano dell’ovvietà, allora sarà vero filosofo.

28 Platone, Repubblica, cap. VI.

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invece come il mondo reale; con la violenza del pensiero essi devono quindi essere liberati dalle loro catene, fatti girare e costretti con la forza a salire alla luce del giorno e del sole reale, che dapprima li accecherà ancora di più, ma poi potranno finalmente vedere il mondo dei pensieri duraturi.

Anche con il paradosso del re-filosofo Platone era fortemente provocatorio, perché sottolineava che l’ideale della vita teoretica ha un ben preciso significato politico, in virtù del fatto che è più adatto a comandare sugli altri –il re- solo colui che sa e che sa fare meglio di quanto prescriva il suo ufficio –il filosofo teoretico -.

Questo elogio della vita teoretica unito alla politica fu solo un ideale, celebrato appunto nello stato ideale di Platone che non venne mai realizzato, in quanto utopico, ma che però rispecchiava l’unità e la forza della πολισ nel periodo di maggior splendore; la situazione cambiò già con Aristotele: il mondo delle città-stato e la vita culturale che in esse era fiorita si dissolveva lentamente nei grandi regni ellenistici, e non era una semplice eredità platonica la preminenza che Aristotele assegnava alla vita teoretica. Anzi, egli cercò di riequilibrare e legittimare con una più equa ponderazione l’ideale di vita pratica e politica con la vita teoretica, e la sua soluzione consistette nel rendere indipendente tutta la problematica pratico-politica riguardante il bene, orientandola verso quella disciplina che è indagine sulla prassi umana, cioè l’etica.

L’etica segue la frase lapidaria che dice: Ogni sforzo nel sapere, nel saper fare e nello scegliere è diretto al bene29. Ora, come scrive nella prima proposizione della Metafisica, tutti gli uomini desiderano il sapere30 perché la loro somma felicità consiste nella pura θεορια, ma non è solo questo: la consapevolezza che l’uomo ha di se stesso non si compie solo nelle gioie della conoscenza, del capire, del comprendere le cose del mondo e il divino, bensì è anche di grande importanza la prassi della vita, prassi che eleva l’uomo liberandolo dai vincoli di natura che hanno tutti gli esseri viventi, e che gli permette di creare, in quanto essere sociale, le sue obbligazioni, i suoi costumi, i suoi ordinamenti.

29 Aristotele, Eth. Nic. I 1094 a.

30 Aristotele, Meth. I 980 a.

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Per Aristotele l’uomo è dunque sia un essere sociale, che costruisce la sua prassi, sia un essere teoretico, che si dedica al puro sapere, vedere, pensare.

Ma l’uomo è anche l’essere vivente che possiede il lógoj : infatti il punto cruciale dell’etica filosofica di Aristotele consiste proprio nella mediazione tra lógoj ed 1θοσ, cioè tra soggettività del sapere e sostanzialità dell’essere. Nella definizione di uomo come animale razionale, lógoj non significa parola, bensì ragione, ragione nel senso di dis-corso, cioè di parola che ci si scambia, e in tal senso è appunto lógoj διδóναι 31.

Del vasto campo di significazione dell’espressione greca lógoj Aristotele fornisce larghe corrispondenze nelle sue analisi della costituzione e caratterizzazione politica dell’uomo, e naturalmente dell’ampio orizzonte in cui trova collocazione l’agire umano, cioè nella natura. Scrive nella Politica32 che il linguaggio –discorso- è la peculiarità che ha l’uomo rispetto agli altri esseri viventi, per mezzo del quale egli può manifestare ciò che è utile e ciò che è dannoso, e così pure ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, perché solo l’uomo possiede il senso del bene e del male, ed è proprio la comunanza in queste cose che costituisce l’organizzazione familiare e la città.La parola che comunica si basa su un libero accordo: κατá συνθÔκην, ed appartiene al mondo comune essendo il giusto mezzo per uno scopo che è stato scelto come adatto e utile e comune a tutti, il κοινÔ συνφερóν; va da sé che il bene si identifica con l’utile e con ciò che è giusto, perché frutto di un accordo nato da un discorso; ma c’è un altro, vasto campo comune di validità oltre al linguaggio, ed è naturalmente tutto l’insieme della vita sociale dell’uomo, con le sue leggi e con i suoi ordinamenti in uso: in questo caso l’accordo - συνθÔκη− è nómoj, cioè legge nel senso di norma convenuta e pattuita, e l’insieme della vita sociale è 1qoj , cioè etica33.

Il greco possiede due termini i cui significati distinti si sono purtroppo sfumati e persi nella traduzione italiana. 1qoj infatti, originariamente indicava l’abitazione, la dimora specificamente degli animali, da cui l’abitudine di vita degli stessi, da cui l’abitudine divenuta secondo natura: τ á ετικα, infatti, indica il luogo, ossia il tempo abitato dall’uomo transistorico che rinnova il costume attraverso il tempo. 1qoj invece, provenendo da εθω = io sono solito, sono abituato a, indica semplicemente la consuetudine, l’usanza.

31 Dal rendere ragione nel mondo greco si passerà poi al concetto di autorità sine ragione reddere del mondo romano. Cfr. H. Arendt, The uman Condition, The University of Chicago 1958; trad. it. Vita activa, Bompiani, Milano 1964 .

32 Platone, Rep. I 1252 a; Pol. I 2 1253 a 9-10.

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Con la fondazione dell’etica come disciplina, si intende qualcosa di più delle mere abitudini consolidate: come dice Aristotele, nelle possibilità dell’etica si intende un comportamento e un atteggiamento in grado di rispondere di se stesso, di rendersi responsabile di sé , e questo è l’enorme privilegio che ha l’uomo di scegliere, a tal punto da proporsi tutta la vita: la προαíρησισ , infatti, indica la conduzione della propria vita, e la maniera di cercare di realizzare, in base alle proprie scelte, una vita buona, la più giusta, la più adatta.

Questo agire ordinante e creativo dell’uomo si muove sempre nell’orizzonte della natura, nel nesso tra fúsij e nómoj , cioè non esiste un modello astratto da seguire (trascendentale o metafisico) per realizzare rettamente la nostra vita individuale e sociale34. Ovviamente questo è il pensiero di Aristotele, che, come è noto, da fondatore della fisica rifiuta ogni rimando e ogni causa da ricercarsi al di là della natura: per Platone, invece, la questione è posta decisamente in termini diversi: essendo egli metafisico per eccellenza, nella sua dottrina delle Idee e del mondo Iperuranio tutt’altro tipo di prospettiva giustifica altre, diverse posizioni. Qui però è almeno il caso di rilevare come, nella sua utopia politica,

33 Di grande interesse ed attualità è il pensiero di J. Ritter: il quale, in linea con la ripresa della tradizione aristotelica in ambito ermeneutico, ha colto anch’egli, come Gadamer, l’esercizio del metodo ermeneutico nell’Etica Nicomachea: egli definisce la filosofia pratica come una disciplina unitaria riguardante l’uomo e le cose umane (Arist. Eth. Nic.X 10 1181 b 15), che unisce etica e politica, virtù e diritto, ed è connessa con la metafisica dell’essere come orizzonte entro cui trova posto l’esistenza umana ed anche con la comprensione ermeneutica delle forme assunte storicamente dalla prassi e dalla convivenza umana. Sarebbe interessante sviluppare un confronto tra i due filosofi attraverso la lettura dell’opera di J. Ritter Metaphysic und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1969; trad. it. Metafisica e politica, a cura di G. Cunico, Marietti, Casale Monferrato 1983.

34 Nella parte intitolata Politica ed etica come filosofia pratica, Ritter presenta un’interessante analisi sul significato e sulla connessione tra

ηθοσ , νοµοσ e πολισ rivisitati da Hegel nei Lineamenti di Filosofia del diritto, riguardo al principio moderno della moralità e della determinazione etica della volontà. Cfr. Ritter, op. cit. pg. 94 ss.

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Platone desse importanza all’aspetto formativo, pedagogico, che deve improntare l’uomo per metterlo in grado di operare delle scelte, non solo le scelte etiche di cui sopra, coerenti e responsabili; egli ammetteva infatti che la natura dell’uomo avesse radicato in sé l’istinto di aggressione, e che quindi soltanto l’educazione, cioè la paideía potesse vincere questo brutale istinto e mettere in condizione l’uomo di esercitare il comando e di onorare il servizio per lo Stato.

Si notava prima che la direzione dell’etica aristotelica è rivolta al bene; quando Aristotele sostiene che la scelta dell’uomo è diretta al bene, specifica che ci sono due tipi essenzialmente diversi di beni : ci sono i beni che l’uomo cerca di procurarsi per usarli e che vanno distribuiti in maniera equa ; ma poi ci sono altri beni che non si possono avere perché non appartengono a nessuno sibbene sono di tutti e tutti possono averne parte.

In altre parole, proprio come sosteneva Platone, negli ambiti relativi all’arte, alla scienza e simili, l’uomo si libera dall’interesse della ricerca di un bene che possa essere utile a qualcosa, perché il bene diventa fine a sé stesso, e si comporta così in maniera puramente teoretica.

La vita umana vuole il bene, e la realizzazione di una vita felice (εú zÖn ) non si esaurisce nel profitto o nel successo pratico, ma è anche pensiero, dedizione a ciò che è, che si vede e che è bello a vedersi: ma qual è l’oggetto di questa contemplazione a cui mira una vita teoretica e che ricerca il bene? La risposta è nella stessa formulazione della domanda perché il θειρεîn è νοεîn, e quindi la contemplazione dell’uomo teoretico consiste nel modo dell’abbandonarsi a ciò che è, a ciò che per egli è suprema realizzazione del suo esserci.

Aristotele insomma ha accordato il primato all’ideale della vita teoretica, e al tempo stesso ha sviluppato per primo la filosofia pratica, scoprendo le leggi nell’attività umana e studiando le forme di costituzione della vita politico-sociale, e questo duplice aspetto è sintomatico di quell’unità di teoria e prassi tipica della vita di ogni uomo, che costituisce la possibilità e il compito di ciascuno. La riflessione di Gadamer a tal proposito coglie bene questa sottigliezza concettuale, allargando l’analisi all’ermeneutica: come l’uomo deve reintegrare continuamente il sapere teoretico nel suo sapere di vita pratico, così la scienza tutta ha la condizione della sua esistenza nel fatto che l’organizzazione razionale del suo apparato non è fine a se stessa, cioè alla sua teoria, ma rende possibile una vita umana vissuta civilmente e bene: ritorna l’importanza della mediazione, aspetto importante dell’ermeneutica ma anche della prassi la quale, intesa come l’agire umano nel mondo, non è altro che una mediazione tra il situarsi e l’essere situato in.

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L’attualità ermeneutica dell’etica di Aristotele.L’attualità ermeneutica dell’etica aristotelica appare a Gadamer quasi come una naturale

conseguenza di tutto ciò che si è venuto argomentando finora.Infatti, il problema posto dall’ermeneutica può essere definito con la seguente questione:

quale senso bisogna attribuire al fatto che un solo e medesimo messaggio, trasmesso dalla tradizione, sarà colto tuttavia sempre ex novo e in modo differente, cioè in relazione alla situazione storica concreta di chi lo accoglie?

L’interrogativo, che nasce dalla relatività dell’interpretazione storica, sul piano logico pone il problema del comprendere come questione del rapporto tra universale e particolare: la comprensione infatti è solo un caso particolare di applicazione di qualcosa di generale (il messaggio identico) a una situazione concreta e particolare, cioè determinata. Ora, l’etica di Aristotele acquista in questo contesto un significato speciale non certo perché egli si sia interessato di problemi ermeneutici o storici, bensì per la rilevanza che ha dato all’esatta valutazione del ruolo che la ragione deve assumere in ogni comportamento etico: e questo ruolo della ragione e del sapere manifesta, secondo Gadamer, delle sorprendenti analogie con quello del sapere storico.

In sintesi, dell’etica di Aristotele Gadamer mette in evidenza i seguenti punti: l’analisi del sapere e dell’agire morale di Aristotele si può rapportare con il problema ermeneutico delle moderne scienze dello spirito perché questi due tipi di sapere (morale ed ermeneutico) contengono in sé lo stesso principio, o compito, dell’applicazione (intesa non certo in senso tecnico) di volta in volta specifica, alle varie situazioni.

In particolare, dal punto di vista logico, entrambe le questioni riguardano il rapporto tra universale e particolare; la comprensione che viene attuata dal procedimento ermeneutico, e la comprensione o valutazione che ha la ragione nell’agire etico sono due medesimi casi di applicazione di qualcosa di universale ad una situazione concreta e determinata.

L’applicazione infatti non è una parte accidentale del sapere ermeneutico, e non è solo mettere in relazione l’universale col particolare, ma è il capire l’universale (del testo), ovvero ciò che è storicamente trasmesso (e che è il significato e il senso del testo) all’interprete, il quale non può prescindere da se stesso e dalla concreta situazione ermeneutica nella quale si trova.

Egli deve mettere in rapporto il testo con questa sua situazione, esattamente così come l’analisi di Aristotele del fenomeno etico e della virtù del sapere morale si presenta come un modello di problemi che si pongono nel difficile compito dell’applicazione, etica per Aristotele, ed ermeneutica per Gadamer, della conoscenza di ciò che è giusto e che la coscienza morale conosce, ma non sempre collima con la giusta azione da prendere, a causa della mutevolezza delle singole situazioni nelle quali concretamente si agisce.

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Nel criticare l’intellettualismo socratico- platonico nella questione del bene, Aristotele fonda l’etica come disciplina autonoma rispetto alla metafisica. Criticando l’idea platonica del bene come una universalità vuota di senso, oppone ad essa il problema del bene umano, cioè del bene in rapporto alla attività umana ( e non del bene ideale e trascendentale di Platone), e così facendo critica anche l’identificazione dell’ ÞretÔ con il lógoj , che stava alla base dell’etica socratico-platonica.

Per Aristotele, l’elemento fondamentale del sapere morale (o conoscenza etica) dell’uomo è l’3ρεξισ = impulso, desiderio, e il suo consolidarsi in atteggiamento stabile, cioè in εξισ; definito precisamente come attitudine dell’anima ad essere moralmente qualificata35.

L’essere etico, ovvero l’agire morale umano, si distingue dall’essere naturale perché nell’uomo non agiscono solo delle potenzialità o delle forze, ma l’uomo è un essere che diviene ciò che è e acquisisce il suo essere attraverso i suoi comportamenti: in questo senso, Aristotele contrappone l’1qoj alla fúsij perché il regno etico non possiede la legalità e la stabilità della natura, ma è provvisto però della regolarità relativa che caratterizza le istituzioni e i modi di comportamento umani.

La questione sollevata da Aristotele è di vedere come possa esservi un sapere filosofico dell’uomo in quanto essere etico, e quale funzione debba svolgere il sapere filosofico nella costituzione dei comportamenti etici. Se l’uomo riceve il bene, il suo proprio bene, in una situazione pratica del tutto concreta, al sapere etico non può spettare altro compito se non quello di discernere ciò che è richiesto a lui in quella specifica situazione alla luce di ciò che in generale si esige da lui. Ma allora il compito specifico della coscienza etica sarebbe quello di misurare una situazione concreta alla luce delle esigenze etiche più generali; accadrebbe però che questa conoscenza generale , non sapendo come applicarsi alla situazione concreta in ragione della sua generalità, minaccerebbe di oscurare le esigenze concrete che nella situazione si fanno sentire.

Con questo Gadamer vuole dire che ogni metodo filosofico comporta in se stesso già un certo problema etico36.

35 Aristotele, Eth. Nic. 104 b 19.

36 H.G.Gadamer, Il problema della coscienza storica, introd. di V. Verra, ed. Guida, Napoli 1969, pg 64.

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Aristotele, opponendosi alla platonica idea del Bene, vuole solo sottolineare che il problema etico non può pretendere quell’esattezza estrema che si trova invece nella matematica, ma si può ragionevolmente tentare di ordinare gli elementi di un problema etico per fornire un certo aiuto alla coscienza morale37.

Il problema morale consiste già nel fatto che uno dei tratti caratteristici dell’essenza del fenomeno etico è che colui che agisce deve sapere e decidere in modo autonomo e non può lasciare a nessun altro tali prerogative. La giusta impostazione di un’etica filosofica esige che essa, pur contribuendo alla chiarificazione dei fenomeni della coscienza etica, non vada ad occupare il posto della coscienza morale.

Come si vede, il problema del metodo è definito in funzione dell’oggetto, esattamente in conformità al principio generale di Aristotele, e l’interesse di Gadamer consiste nel vedere esattamente il rapporto tra essere etico (o morale) e sapere etico (o coscienza morale) che Aristotele sviluppa nella sua etica: poiché egli rimane ancora socratico quando ritiene che il sapere sia un momento essenziale dell’essere morale, ciò che interessa sta appunto nell’equilibrio tra questa eredità socratico-platonica e la sua concezione dell’1qoj .Il corpus aristotelico pervenuto fino a noi comprende tre trattati di scienze morali: l’Etica Nicomachea, l’Etica Eudemia e i Magna Moralia; secondo il pensiero sviluppato in questi scritti, il fine supremo della condotta umana è il raggiungimento della felicità (ε5 zÖn ) attraverso l’esercizio delle virtù peculiari dell’uomo, in primo luogo la frónhsij ; la vita morale è in sostanza la vita vissuta secondo ragione, basata sull’armonia, l’equilibrio, la scienza.

L’animo umano contiene in sé l’anima vegetativa, intellettiva e appetitiva, quest’ultima soggetta a passioni e desideri, ma che può e deve obbedire alla ragione. Da qui consegue la distinzione di due specie di virtù: quelle dianoetiche che consistono nell’adeguato impiego delle facoltà razionali e intellettuali a fini conoscitivi, e quelle etiche, come la giustizia, la fortezza, la temperanza, ecc., che devono guidare gli affetti dell’individuo sì da assicurargli sempre una scelta moderata tra i due estremi opposti (per esempio, tra impetuosità e viltà viene scelto il coraggio)38.

Scrive Aristotele proprio in apertura dell’Etica Nicomachea:

37 Aristotele, Eth. Nic. A 7, B 2.

38 Aristotele, Eth. Nic. 1106 b 25-35.

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Ogni arte esercitata non metodo e ogni azione compiuta in base a una scelta, sembrano mirare ad un bene, perciò a ragione si è affermato che il bene è ciò a cui ogni cosa tende…e poiché molte sono le azioni, le arti e le scienze, molti sono anche i fini…; orbene, se vi è un fine delle nostre azioni che noi vogliamo di per se stesso, mentre tutti gli altri li vogliamo in funzione di quello…è evidente che questo fine deve essere il bene, anzi il bene supremo.

E non è forse vero che anche per la vita la conoscenza del vero ha una grande importanza…? Se è così, bisogna cercare di precisare anche sommariamente che cosa mai esso (il bene) sia e a quale delle scienze o delle capacità appartenga…. Si ammetterà che esso appartenga alla più importante, che è manifestamente la politica: essa determina quali scienze sono necessarie nella città e quali ciascuno deve apprendere e fino a che punto… e poiché essa si serve di tutte le altre scienze, e stabilisce per legge che cosa si deve fare… il suo fine abbraccerà i fini delle altre, sicchè sarà questo fine il bene dell’uomo…. È più grande infatti perseguire e salvaguardare il bene della città: ci si può accontentare anche del bene di un

solo individuo, ma è più bello e più divino il bene di un popolo e di intere città39.Le basi per la fondazione dell’etica come disciplina autonoma si trovano appunto qui

citate; la ricerca di Aristotele procede serrata e precisa: tratta del bene in generale, poi del bene per l’uomo, cioè la felicità; l’essenza della felicità, cioè la virtù; l’attuazione della virtù, cioè l’azione.

Il libro VI, quello che Gadamer segue nella sua analisi, sembra il più organico e meglio strutturato di tutta l’opera: qui Aristotele esamina le componenti intellettive dello spirito umano nel rapporto con l’azione morale, e individua nella saggezza (frónhsij) il fondamento sia della bontà della scelta sia della normatività della legge morale, e nella sapienza (σοφía) la virtù più elevata dell’uomo: essa è conoscenza del divino, scienza, con fondamento, delle realtà più sublimi, è attività teoretica pura, squisitamente speculativa, e proprio per questo è il sommo bene per l’uomo, la cui attuazione costituisce l’essenza stessa della felicità.

La coscienza etica come la descrive Aristotele non è una conoscenza oggettiva, perché il conoscente non si trova semplicemente di fronte ad una cosa da constatare, ma si trova prima di tutto coinvolto ed investito dal suo oggetto, interessato a ciò che deve conoscere.

Esattamente così è anche per la conoscenza ermeneutica, che non affronta il problema di un sapere puro e separato dall’essere: l’interprete stesso appartiene alla tradizione con cui ha da fare, e proprio la comprensione stessa costituisce un momento del divenire storico.

È chiaro che questo non è il sapere della scienza: quando Aristotele distingue tra sapere morale o etico della frónhsij sapere teoretico o scientifico dell’ æπιστηµÔ, si deve

39 Aristotele, Eth. Nic. 1095 a 15.

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ricordare che per i Greci la scienza è rappresentata dall’ideale delle matematiche, cioè di un sapere che è scientifico, immutabile, di una conoscenza fondata sulla dimostrazione, e che perciò tutti possono apprendere.

Quando si parla di scienze umane invece non si tratta affatto di conoscenza scientifica, bensì di scienze morali, che hanno per oggetto l’uomo e ciò che egli sa di se stesso; naturalmente la conoscenza non riguarderà ciò che l’uomo è nella sua essenza, bensì ciò che fa quando agisce con cose che non sono sempre le stesse, ma possono anche essere diverse.

In altre parole, si tratta di un tipo di conoscenza che dirige l’attività, ed è questo il vero problema dell’agire morale, cioè il sapere che deve guidare l’azione dell’uomo.

È molto importante a questo punto, scrive Gadamer, sottolineare le affinità e le divergenze tra sapere etico e sapere tecnico: i Greci infatti definiscono técnh il sapere che dirige l’attività per esempio di un artigiano, il quale sa come fabbricare una certa cosa. La conoscenza etica dell’io so perfettamente come mi devo comportare è dunque simile a quella della técnh ? È simile l’uomo che si progetta in base a un eôdoj di sé all’artigiano che pure realizza un eôdoj che aveva in mente?

Innegabilmente, Socrate e Platone hanno scoperto qualcosa di vero applicando il concetto di técnh al piano del comportamento etico: è evidente che ciò che hanno in comune sapere etico e sapere tecnico è che entrambi non sono un sapere astratto, ma, determinando e dirigendo l’azione, implicano un sapere pratico.

Questo è il primo punto in cui l’analisi del sapere morale di Aristotele può essere messo in rapporto con il problema ermeneutico delle moderne scienze dello spirito: infatti è pur evidente che la coscienza ermeneutica non ha a che fare né con un sapere tecnico né con un sapere morale, ma questi due tipi di sapere contengono in sé lo stesso principio dell’applicazione, che è il compito essenziale dell’ermeneutica.

Certo, è un’applicazione che ha delle sfumature dovute alla distinzione tra insegnamento che si riceve da una tecnica e la conoscenza che si acquisisce mediante l’esperienza del tutto concreta della pratica quotidiana. In entrambi i casi comunque ciò che conta è che il sapere acquisito per esercizio o per esperienza precede l’azione, e questo modello vale anche per il sapere morale.

La sola esperienza infatti non basta a fondare un sapere etico o a prendere una decisione conforme alla morale, ma c’è bisogno sempre di un sapere anteriore che guidi la coscienza morale come accade per il sapere tecnico.

Oltre al parallelismo però vi sono radicali differenze tra sapere etico e sapere tecnico. Per esempio, l’uomo non dispone di se stesso come l’artigiano dispone del proprio materiale; dunque il sapere che si ha di sé come persona etica non è né conoscenza tecnica né conoscenza teorica: il sapere etico è un sapere per sé, che Aristotele definisce, in termini unici, un saper-si.

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La distinzione tra sapere morale e sapere tecnico definisce ontologicamente l’oggetto di questo sapere, che non è qualcosa di universale, cioè di sempre identico, ma qualcosa di particolare, che può e deve essere diverso da com’è. L’artigiano che deve produrre qualcosa sa per sé la maniera e i mezzi per passare all’esecuzione; anche chi prende una decisione etica ha imparato, attraverso l’educazione e la formazione, a possedere una conoscenza generale di ciò che si chiama un comportamento giusto e retto.

Il compito della decisione morale consiste così nel trovare ciò che è giusto in una situazione concreta; in questo senso, la messa in atto di una decisione etica dispone di un materiale che è la situazione, e di una serie di mezzi adeguati, proprio al pari dell’artigiano. Ma allora sembra svanire la distinzione che si cercava tra i due tipi di sapere!

In realtà, il genio di Aristotele consiste proprio nel fatto che le sue descrizioni prendono in considerazione la totalità delle prospettive, come aveva rilevato anche Hegel: L’empirico colto nella sua sintesi è il concetto speculativo40, e l’analisi di Gadamer a questo punto si sofferma su tre aspetti che evidenziano le differenze fondamentali tra sapere etico e sapere tecnico.

Innanzi tutto c’è il fatto che la técnh può essere imparata ma anche dimenticata, mentre nel sapere etico il soggetto della frónhsij, cioè l’uomo, si trova sempre nella situazione di dover agire ed è già costretto quindi a possedere un sapere etico e ad applicarlo secondo le esperienze della sua situazione concreta. Ma proprio per questo il concetto di applicazione è altamente problematico: infatti, si può applicare solo ciò che già prima si possiede, e il sapere morale però non è una proprietà nello stesso modo in cui si possiede una cosa.

L’immagine che l’uomo si fa di ciò che egli deve essere è costituita da idee direttrici, come il diritto, o il coraggio, o la giustizia (tutti i concetti che trovano corrispondenza nel catalogo aristotelico delle virtù), ed esse sono decisamente differenti rispetto all’immagine guida che concepisce un artigiano per prepararsi un piano di lavoro.Per esempio, circa il concetto di giusto, si nota che esso non è generale e astratto, - come lo è invece l’ eôdoj giusto di ciò che un artigiano vuole produrre –, ma di volta in volta le azioni giuste dipendono dalla situazione etica in cui ci si trova.

D’altro canto, si potrebbe obiettare, ciò che è giusto si presenta chiaramente definito nelle leggi o in regole di comportamento ben precise e obbliganti, e allora anche fare il proprio dovere è qualcosa che esige un sapere e una capacità. Non si cade di nuovo nell’analogia con la técnh? Non si tratta infatti di una applicazione di leggi e regole al caso concreto?

40 Hegel, Werke, Berlino 1832, vol. XIV, pag.341.

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Invece Aristotele indica che la forma giudiziaria della frónhsij (δικαστικÖ frónhsij) non è una técnh 41: la condizione di colui che applica la giustizia presenta una peculiare problematicità giuridica: può capitare che, in ragione delle caratteristiche di una situazione concreta, egli debba prescindere dall’esattezza rigorosa della legge e perciò addolcirla senza però rinunciarvi. Il termine che usa Aristotele è επιéκεια, l’equità nel senso di rettificazione o correzione della legge42.

La concezione di Aristotele è che ogni legge comporta una certa tensione interna, una inevitabile disparità rispetto alle concrete possibilità di azione, in quanto una legge ha sempre carattere universale e non può contenere in sé tutta la concreta possibilità di un caso particolare43.

Il problema che ora sorge riguarda la differenza tra diritto di natura e diritto positivo, cioè di ciò che è giusto e stabilito per legge.

La distinzione che fa Aristotele non si basa solo sul criterio dell’eternità e dell’immutabilità che si accorda al diritto naturale: egli ritiene che l’idea di un diritto naturale immutabile vale unicamente per il mondo divino, mentre presso gli uomini il diritto naturale è altrettanto mutevole quanto quello positivo.

In altre parole, ci sono cose che non vengono lasciate ad un accordo puramente convenzionale tra gli uomini, perché la natura della cosa si impone, e quindi tali leggi sono di diritto naturale. Ma, poiché la natura della cosa lascia ancora un certo spazio alla convenzione, anche tale diritto è, in questa misura mutevole.

Per esempio, dice Aristotele, se la mano destra è per natura più forte della sinistra, nulla impedisce tuttavia che la sinistra divenga forte quanto la destra mediante l’esercizio44.

41 Aristotele, Eth.Nic. Z 28.

42 È anche interessante la distinzione tra µεσον e ισον ; cfr. Aristotele, Eth. Nic. V.

43 Gadamer dedica proprio un paragrafo specifico alla trattazione dell’ermeneutica giuridica. Cfr. Verità e metodo, op.cit., pag.376, c.

44 Aristotele, Eth. Nic. 1134 b 30-35.

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Da questa argomentazione discende che il diritto naturale ha per Aristotele solo una funzione critica, e non è per nulla immutabile o dogmatico, ma anzi esso ha il solo compito di guidare l’uomo, grazie all’equità, verso una soluzione più conforme alla giustizia.

Tutto questo serve a Gadamer sotto il seguente aspetto fondamentale. Il concetto di diritto è, per principio, valido, per tutto l’insieme dei concetti di cui l’uomo dispone per determinare ciò che egli dovrebbe essere. Questi concetti non sono né immutabili né eterni, ma determinati dalla convenzione, e dalla situazione concreta in cui si trovano.

D’altro lato, essi riflettono anche la natura delle cose, ma la realtà delle cose si determina solo in base all’applicazione che la coscienza morale fa nelle singole situazioni di questi schemi ideali.

Chiarito così il problema dell’applicazione della coscienza etica, Gadamer passa ad esaminare la distinzione tra sapere morale e sapere tecnico sotto il profilo del rapporto tra mezzo e fine nei due tipi di sapere.

Innanzi tutto il fine del sapere etico non è una cosa particolare, ma concerne tutta la rettitudine etica della vita nel suo insieme. Inoltre, l’ambito etico si caratterizza per il fatto che il sapere tecnico viene escluso e cede il posto alla deliberazione e alla riflessione, mezzi questi che non sono contemplati nell’attività tecnica, dove si è semplicemente esperti e non si devono soppesare o valutare i mezzi che permettono di arrivare al fine.

In tutte le situazioni infatti, la coscienza etica, senza disporre anticipatamente della conoscenza dei mezzi giusti che realizzano il fine, è la sola responsabile delle proprie decisioni, e per deliberare si consiglia solo con se stessa; il processo di deliberazione è proprio del sapere etico, e viene definito ευβουλíα.

Aristotele sottolinea che la frónhsij ha a che fare con la conoscenza dei mezzi, τα προσ τελοσ, e non con la conoscenza dei fini – i τελοι -, tuttavia le sue definizioni mostrano di oscillare riguardo a questo punto, forse perché il fine a cui in generale è orientata la nostra vita, e le specificazioni delle idealità morali, non possono divenire oggetto di un sapere insegnabile.

Ad ogni modo l’etica aristotelica è una descrizione di forme tipiche di giusto mezzo valide per l’essere e il comportamento dell’uomo; ma il sapere che ha per oggetto questi schemi ideali è lo stesso sapere che deve rispondere alle esigenze della situazione del momento. Quindi non vi sono deliberazioni (βουλευσεισ) morali che mirano ad una opportunità di mezzi45, perché la rettitudine etica implica una scelta (προαíρεσισ) di mezzi

45 La deliberazione ha per oggetto solo le cose che dipendono da noi (Eth. Nic. 1112 a 18-35)… e deliberiamo sui mezzi, non sui fini (ivi, 1112 b 10), ed essa ha lo stesso oggetto della scelta, in quanto la determina (ivi, 1113 a 2 ss.).

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che già è una scelta morale: più semplicemente, riflettere sui mezzi è, eo ipso, un impegno etico46.Questo sapere – per –sé, o saper–si di cui parla Aristotele è l’applicazione perfetta del sapere morale, che si realizza solo in un sapere della e nell’immediatezza della situazione data. Ma questo sapere non è nell’ordine delle intuizioni sensibili: la percezione della situazione, o il vedere che cosa la situazione richiede sono percezioni etiche che si hanno alla luce di ciò che è giusto: nella deliberazione morale, il vedere è νο ûσ47.

Dunque il sapere morale abbraccia una peculiarissima sintesi di mezzi e fini, e comporta di per se stesso una forma fondamentale di esperienza, e si distingue in tal modo dal sapere tecnico.

Il terzo aspetto analizzato da Gadamer riguarda la σúνεσισ, cioè l’assennatezza, che è una modificazione della virtù del sapere morale, cioè della frónhsij intesa come virtù della deliberazione prudente48.

La σúνεσισ, è una modificazione intenzionale del sapere etico, e comporta una valutazione etica non di se stessi ma dell’altro: l’assennatezza è infatti lì dove, nel giudicare, ci si deve collocare pienamente nella situazione concreta in cui altri deve agire; quindi non si tratta di un sapere in generale, ma di un sapere della concretezza del momento.

Il vivere di buona intesa con qualcuno si manifesta in tutta la sua portata etica solo attraverso il fenomeno della comprensione di un altro; e certo che questa comprensione per colui che agisce non ha niente a che fare con la conoscenza tecnica e nemmeno con l’esperienza quotidiana per esempio di una persona furba. La σúνεσισ, infatti presuppone che ci si impegni per una causa giusta, attraverso la quale si instaura un legame con l’altro, legame che si concreta nel fenomeno del consiglio morale.

46 E’ la scelta dei mezzi per realizzare il fine (ivi, 1113 b 4), ed è principio dell’azione morale (1139 a 33 ss.).

47 Aristotele, Eth. Nic. 1112 a 21.

48 Aristotele, Eth. Nic. 1143 a 10-11.

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Aristotele sottolinea che il buon consiglio ha luogo solo tra amici, e che il rapporto che si stabilisce tra le due persone non è lo stesso che tra due cose: la comprensione è una questione di affinità.Anche per questo terzo aspetto è chiaro che non è in questione un sapere tecnico, e Aristotele evidenzia il carattere virtuoso del sapere etico quando descrive la forma degenerata della frónhsij : δεινósè infatti l’uomo che, usando la propria sottile intelligenza, volge ogni situazione a proprio vantaggio. Egli è πανοûργοσ, cioè dotato di talento straordinario, ma abusa delle sue capacità senza alcuna considerazione etica.

L’immagine rovesciata della frónhsij è perciò temibile: niente è più spaventevole di un genio organizzato senza tener conto del bene e del male.

Riassumendo, l’analisi di Aristotele si presenta a Gadamer come una sorta di modello di problemi che si pongono nel compito ermeneutico: l’importanza dell’applicazione, che non è secondaria al fenomeno del comprendere, ma che lo costituisce dalla sua essenza fin dall’inizio; il fatto che l’interprete che ha a che fare con un dato storico trasmesso cerca prima di capire il carattere universale del testo, poi di applicarlo a se stesso senza prescindere da sé e dalla concreta situazione ermeneutica in cui si trova.

Il compito ermeneutico dunque è quello di mettere in un rapporto peculiare il testo e l’interprete, proprio così come nell’etica di Aristotele il compito dell’applicazione risulta dal rapporto problematico tra la conoscenza di ciò che è giusto e la giusta azione da attuare, di volta in volta mutevole in base alle singole situazioni in cui concretamente si agisce.

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CAPITOLO 3.IL BELLO COME ASPETTO UNIVERSALEDELL’ERMENEUTICA

L’esperienza estetica come esperienza extrametodica di verità.Il modo in cui Gadamer concepisce e teorizza l’esperienza estetica rientra nello sforzo

del filosofo di dimostrare l’insostenibilità della nozione di metodo eleborata dalle scienze della natura: come si è già visto, secondo Gadamer essa non era in grado di comprendere la verità delle Geisteswissenschaften, per cui i tipi di conoscenza che si hanno nell’ambito delle scienze dello spirito venivano esclusi dal novero delle possibili esperienze di verità.

È la validità di tale esperienze che Gadamer rivendica, definendole esperienze extrametodiche della verità, ed esaminandone due a supporto della sua tesi: la riflessione sulla storia, di cui si è già trattato, e l’esperienza estetica.

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Egli ritiene che parallelamente all’affermarsi di un ideale scientifico della conoscenza modellato sul metodo delle scienze naturali, si afferma nella coscienza europea una mentalità estetistica che tende a relegare l’arte in una zona dello spirito che non ha nulla a che fare con il vero e il falso, o il bene e il male, cioè non ha alcun rapporto con la realtà.

Il fatto che il regno del bello fosse un mondo di apparenza accanto al mondo reale trova fondamento nella critica kantiana, e il pensiero estetico novecentesco ha continuato a ragionare sull’arte in termini di contrapposizione tra apparenza e realtà.

Ma la riflessione sull’arte o sul bello non è certo recente: il bello appartiene allo spirito umano ed alla sua civiltà, e se esso dovesse rivelarsi indissolubile dall’umana civiltà si potrebbe parlare di storicità del bello, e in questo modo lo si legherebbe radicalmente all’arte e alle produzioni artistiche.

Il bello così inteso appare come un principio produttivo, cioè di un fare che naturalmente non tende al raggiungimento di nessuno scopo (Zielles) particolare, ma è il fare entro cui ogni scopo particolare si iscrive, poiché è quel fare che appartiene al momento originario o ispiratore della civiltà49.

Questo modo di intendere il bello, non come momento puramente contemplativo, è il bello artistico, che come tale si distingue decisamente dal bello naturale.

La problematicità del rapporto tra bello di natura e bello artistico appare a Gadamer nella radice comune del termine estetica: il concetto greco di αíσθησισ accomuna e al tempo stesso divide il bello naturale dal bello artistico. Nel mondo greco il bello era stato un momento ispiratore forte e trainante, aveva assunto il ruolo guida di principio unificatore e formatore dell’intero mondo50.

Le opere d’arte però non si devono intendere come un prodotto di quella civiltà ma al contrario la civiltà va considerata come prodotto di quella attività artistica, e va compresa in base ad essa. Questo è precisamente il senso dell’affermazione di Erodoto che i poeti hanno donato ai greci i loro dei.

49 H.G. Gadamer, Die Aktualitat des Schoenen, Reclam, Stuttgart 1977; ed. it. L’attualità del bello, Marietti, Genova 1986.

50 L’argomentazione che segue è stata per la prima volta trattata da Gadamer nello scritto Platone e i poeti, del 1934, ora in Studi platonici, I, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 185- 216.

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Ma questa religione della bellezza, questo momento così perfetto del principio dell’αíσθησισ incarnato nella civiltà greca classica, si riscontrano ancora in altri momenti storici e in altre civiltà?

Gadamer vede in Kant la frantumazione dell’estetica classica, con la sua dottrina del gusto e del genio, e ancor di più in Hegel e nella sua dottrina della morte dell’arte.

Kant è stato il primo a considerare l’esperienza del bello e dell’arte una autentica problematica filosofica, sopravanzando di molto il fondatore dell’estetica razionalistica A. Baumgarten. Questi definì l’estetica in modo analogo alla retorica: ars pulchre cogitandi, l’arte di pensare in modo bello, come ars bene dicendi, l’arte di parlare bene, e non certo casualmente, ma per sottolineare l’affinità tra le arti del linguaggio e le arti figurative.

Kant cercava invece di dare una risposta alla domanda: che cosa è propriamente vincolante nell’esperienza del bello, quando cioè si trova bello qualcosa?51

Non vi è alcuna universalità nel senso di conformità alle leggi che regolano la natura, e per la quale ciò che incontriamo sensibilmente è spiegabile come un caso di essa. Allora quale verità diviene comunicabile e si fa avanti con il bello? Non si tratta certo di una verità o di una universalità per la quale ci si può servire dell’universalità del concetto e dell’intelletto, tuttavia essa solleva la pretesa di non essere valevole soltanto soggettivamente, come dice Kant: io pretendo il consenso di ciascuno52.

Kant sostiene che il trovare bello qualcosa viene constatato nel fenomeno, e pretende che sia riconosciuto da ognuno; egli dimostra ciò in primo luogo nel bello naturale e non nell’opera d’arte. Ma è proprio questa conclusione data da Kant che Gadamer rigetta, ed è per questa bellezza priva di significato che si mette in guardia dal ricondurre a concetti il bello e l’arte.

Quanto ad Hegel, nelle Lezioni di Estetica, egli espone la dottrina della morte dell’arte. L’espressione Der Vergangenheitscharakter der Kunst, ovvero letteralmente il carattere di passato che è proprio dell’arte, indica per Hegel l’appartenere dell’arte al passato.

Gadamer amplia la tesi hegeliana rilevando un doppio essere passato dell’arte: una volta come essere passato della religione greca della bellezza, e un’altra come essere passato delle forme dell’arte cristiana e occidentale.

51 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, Berlino 1790.

52 Kant, Critica del Giudizio, Laterza, Bari 1970.

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In polemica con Hegel è anche la formulazione dell’espressione religione della cultura, in cui l’arte non è più principio di civiltà, perché la cultura in senso hegeliano è il mondo dello spirito alienato, e questa alienazione dal mondo della civiltà e della storia è il destino dell’arte, intesa ormai soltanto come un che di passato.

La dottrina del genio kantiano, basata sulla pura soggettività del genio e sulla sua produttività assolutamente libera da regole, scopi, e idee cui legare la propria produzione, può superare questa alienazione della cultura che rappresenta la morte dell’arte?

Gadamer sostituisce alla nozione kantiana del gusto e del genio quella che definisce coscienza estetica e la pone come principio costitutivo del bello e dell’arte; quindi la sottopone a critica serrata ed evidenzia come alla base del modo di esperire un’opera d’arte ci sia una operazione di astrazione.

L’opera diventa visibile come pura opera d’arte, e l’astrazione operata dalla coscienza estetica viene definita da Gadamer differenziazione estetica; essa si verifica soltanto nella coscienza dell’Erlebnis estetico53.

Gadamer cerca di liberare quindi la sfera estetica da quella sorta di astoricità che la relega entro un orizzonte dove l’incontro con l’opera d’arte sembra essere un evento onirico, che slega l’osservatore da qualunque appartenenza al proprio mondo.

Liberata la coscienza estetica dal pregiudizio moderno della necessità del metodo, si deve quindi interrogare l’esperienza estetica in base a ciò che essa davvero è: essa testimonia il problema della verità dell’arte, e bisogna quindi vedere l’esperienza dell’arte in modo da intenderla come esperienza.

Essa non termina in un disinganno, come accade nel caso del sogno o dell’illusione, bensì rimane fondamentalmente certa della verità del proprio oggetto. Da questa certezza il filosofo parte per riconoscere l’esperienza di verità che è propria dell’arte screditando l’idea di conoscenza e di metodo che sta alla base della coscienza estetica, superando la dicotomia apparenza-realtà.

Nel trascendimento della dimensione estetica, nella critica all’astrazione della coscienza estetica, l’obiettivo di Gadamer è ovviamente di portata ermeneutica: ogni incontro con il linguaggio dell’arte è un incontro con un evento affatto conchiuso, ed è esso stesso parte di questo evento.

Se si ammette che l’arte è un incontro con la verità si ammette anche che in essa vediamo attuarsi una esperienza che modifica realmente chi la fa: in questo modo Gadamer apre la dimensione entro la quale si ripropone in modo nuovo il problema della verità di quel

53 È il percorso che Gadamer segue nella I parte di Verità e metodo, e precisamente ne Il trascendimento della dimensione estetica, e Ontologia dell’opera d’arte e suo significato ermeneutico, op. cit. pp. 27-131.

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comprendere che perseguono le scienze dello spirito. Quindi passa ad esaminare la questione della verità dell’arte giacchè il comprendere – non certo con il metodo scientifico! – appartiene totalmente all’esperienza che incontra l’opera d’arte, e solo in base allo status ontologico di questa si può chiarire la sua appartenenza.

Ontologia dell’opera d’arte.La critica che Gadamer rivolge alla coscienza estetica è affine alla critica della

soggettività della coscienza che Heidegger ha portato avanti nella sua analisi dell’esserci o della temporalità dell’esistenza.

Si è già visto come a livello della coscienza storica Gadamer ottiene una riabilitazione del pregiudizio quale struttura preliminare del comprendere.

Egli indica nella coscienza storica non un particolare atteggiamento condizionato ideologicamente, ma una specie di strumentazione spirituale dell’uomo, che determina anticipatamente il vedere e l’esperienza dell’arte: l’uomo riflette così le tradizioni e le formazioni di mondi e culture che sono altre da sé, e che con le loro alterità autorizzano l’artista alle proprie produzioni creative.

Il piano estetico, liberato dalla limitazione o astrazione della coscienza estetica, forma il primo stadio dell’autentica esperienza ermeneutica.

Nel tracciare l’ontologia dell’opera d’arte, Gadamer mette in luce ciò che l’opera d’arte porta sempre con sé indipendentemente dalle intenzioni particolari dell’artista, ovvero i momenti essenziali che stanno alla base di essa e alla base dell’attività dell’interprete e del fruitore, cioè dell’esperienza estetica in quanto tale54.

Tali momenti essenziali sono per Gadamer il momento ludico, quello simbolico-rappresentativo, e quello temporale dell’esistenza umana, costituito dalla ricorrenza e dalla celebrazione corale, cioè la festa.

Dall’analisi del concetto di gioco emergono delle caratteristiche di cui Gadamer si serve per determinare nel carattere ludico dell’arte un fondamentale momento ontologico dell’opera d’arte.

54 H.G. Gadamer, Arte come gioco, simbolo, festa, in L’attualità del bello, op. cit. pp. 3-60.

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Per esempio, egli ammette che il gioco ha una sua essenza propria, indipendentemente dalla coscienza di coloro che giocano: il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma è il gioco stesso che si pro-duce attraverso i giocatori; grazie poi alla moderna ricerca antropologica condotta da Huizinga55 che ha indagato il momento del gioco in tutte le culture, è emerso il nesso che lega il gioco con i giochi sacri del culto, riaffermando così il primato del gioco rispetto alla coscienza del giocatore.

Un tratto comune con cui l’essenza del gioco si riflette nel comportamento ludico è che ogni giocare è un esser-giocato; è anche importante notare il carattere partecipativo dell’essenza del gioco (Mitspielen).

Ma la peculiarità del modo di essere del gioco è l’autorappresentazione (Selbstdarstellung): questa autorappresentazione del gioco dell’uomo si fonda su un comportamento legato all’apparente fine del gioco, il cui senso non consiste però nel raggiungimento degli scopi parziali così posti; anzi, il dedicarsi ai compiti propri del gioco è in verità un giocare indefinitamente.

Questo fa sì che il giocare dell’uomo può trovare il suo compito nella rappresentazione stessa. Ogni rappresentare è un rappresentare per qualcuno, e su questo si fonda il carattere ludico dell’arte.

Che l’arte sia una forma di conoscenza non solo per chi la contempla, ma anche per l’esecutore, significa che in essa c’è ben più di quanto il soggetto vi metta, come si vedrà più avanti. Anche per l’artista l’opera è un conoscere, è l’incontro con una verità. Nella rappresentazione, a qualunque livello, viene in luce, cioè si mostra, ciò che è.

Il mutamento per cui il gioco umano giunge alla sua perfezione, che consiste nel farsi arte, è ciò che Gadamer definisce trasmutazione in forma.

Trasfigurazione dunque, e non un semplice cambiamento, perché dal punto di vista categoriale, ogni cambiamento appartiene alla sfera della qualità, mentre la trasmutazione in forma significa trasferimento in un altro mondo, non solo, ma è anche trasferimento del reale sul piano della verità.

La trasmutazione è una trasmutazione nella verità: l’opera è più vera della realtà proprio in quanto è Gebilde, forma-immagine, struttura compiuta, conchiusa e intellegibile, in quanto liberata dalla casualità e dall’indefinitezza che caratterizza l’esperienza quotidiana. Nella rappresentazione viene in luce ciò che essa è, e che altrimenti sempre si sottrae e si cela. La rappresentazione è infatti anzitutto un evento di cui l’artista, l’esecutore e l’interprete-lettore non sono autori, ma partecipi (come indica il termine Mit-spielen).

55 Huizinga, Homo ludens, Milano 1967, pag. 67.

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Il concetto di trasmutazione ha dunque il compito di caratterizzare l’autonomo e superiore modo di essere di ciò che è forma. In base ad esso la realtà si definisce come il non trasmutato, e l’arte come il superamento che colloca questa realtà nella sua verità.

Non è difficile notare che nella nozione di Gadamer di trasmutazione in forma riecheggia la teoria della µímησισ che l’antica teoria greca dell’arte pone alla base appunto di ogni arte: Gadamer infatti riprende e interpreta in senso hegeliano la nozione classica di µímησισ, liberando da tutte quelle implicanze didascalico-moralistiche del miscere utile dulci l’esperienza conoscitiva dell’arte; essa infatti non riusciva ad essere autentica perché l’autore veniva considerato demiurgicamente, cioè come colui che dispone del vero ma nell’opera si limita ad ornarlo affinché sia meglio recepito e assimilato.

Gadamer invece arriva ad affermare che il senso conoscitivo della µímησισ è il riconoscimento, rilevando che d’altronde anche per Aristotele e Platone era così: nel Fedone Platone con la sua dottrina dell’anamnesi ha sintetizzato la mitica idea del ricordo con l’itinerario della sua dialettica, che cerca la verità nell’essere dei lógoi , cioè nell’idealità del discorso56, e il fenomeno del riconoscimento contiene in sé la sostanza di questo idealismo dell’essenza.

Nella Poetica Aristotele afferma che colui che imita rappresenta una cosa che deve essere riconosciuta: si deve riconoscere che cosa essa è57; per lo stesso motivo Aristotele poteva affermare che la poesia è più filosofica della storia58: mentre la storiografia racconta soltanto come qualcosa è avvenuto, la poesia racconta invece come qualcosa possa sempre avvenire. Essa insegna a riconoscere l’universale nelle azioni e nelle sofferenze umane.

Il rapporto mimetico quindi non implica soltanto che il rappresentato è presente in esso, ma che viene messo in luce in modo più autentico e proprio: imitazione e rappresentazione non sono soltanto ripetizione e copia, ma conoscenza dell’essenza.

56 Platone, Fedone, 73 ss.

57 Aristotele, Poetica, 4, 144 8b 16.

58 Aristotele, Poetica, 9, 1451 b6.

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Sebbene poi Platone avesse enfatizzato l’insopprimibile scarto ontologico tra l’ente che è così come e la cosa a cui esso si vuole conformare, e su questa sua maggiore o minore inadeguatezza della copia al modello avesse relegato la rappresentazione e l’imitazione al terzo posto, come imitazione dell’imitazione59, tuttavia nella rappresentazione dell’arte accade un riconoscimento che ha il carattere di una autentica conoscenza dell’essenza.

La tesi di Gadamer è che l’essere dell’arte non può venire definito in quanto oggetto di una coscienza estetica, giacché all’opposto l’atteggiamento estetico è più di quanto esso stesso sa di essere. Esso è una parte del processo ontologico della rappresentazione. Ma qual è allora il modo di essere dell’essere estetico?

Gadamer ha affermato finora i seguenti punti: l’opera d’arte è gioco, cioè non ha un essere separabile dalla sua rappresentazione, e tuttavia nella rappresentazione si manifesta l’unità e identità di una forma (Gebilde); il rappresentarsi appartiene alla sua essenza, quindi per quante modifiche e travisamenti subisca nella rappresentazione, essa rimane sempre se stessa; la rappresentazione ha in modo imprescindibile il carattere di una ripetizione dell’uguale, ripetizione che significa non riportare a un originale, perché ogni ripetizione è originaria quanto l’opera stessa. L’identità dell’opera non si disperde nei suoi molteplici e vari aspetti in modo da perdere la sua identità, ma è sempre presente in essi, seppure diversa nel mutare dei tempi e delle condizioni. Gadamer parla di Variationen e di ermeneutische Identitat, mutuandone il significato dai termini musicali.

L’identità dell’opera è una identità ermeneutica; è questa che fonda l’unità dell’opera, ed è questa identità che costituisce il senso dell’opera.

Ma che cosa è ciò per cui un’opera acquista la sua identità come opera, ovvero che cosa rende la sua identità una identità ermeneutica?

Evidentemente la sua identità consiste nel fatto che in essa c’è qualcosa da comprendere, in quanto l’opera dice qualcosa.

La determinazione dell’opera come punto di identità del riconoscimento del comprendere implica che ogni opera lascia uno spazio libero che deve essere riempito da colui che accoglie l’opera; per fare ciò, bisogna compiere il continuo movimento ermeneutico che viene guidato dall’attesa del senso del tutto e che si compie alla fine nell’attuazione del senso del tutto a partire dal singolo particolare.

L’identità dell’opera non è dunque garantita da una qualche determinazione formalistica, ma viene costituita nella misura in cui si accetta come un compito la costruzione dell’opera stessa.

59 Platone, Repubblica, X, 598 b 602 a-b.

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Nel percepire il prodotto dell’opera certo non ci si sofferma alla superficie sensibile, ma si percepisce prendendo per vero, come significa la radice del termine in tedesco, Wahrnehmen.

Gadamer, dopo aver notato che in genere l’uomo eleva a criterio estetico un insufficiente e dogmatico concetto di percezione sensibile, esprime con un termine particolare la dimensione profonda della percezione: la non-differenziazione estetica; essa si oppone alla differenziazione estetica intesa come essenza costitutiva della coscienza estetica60.

Quello che Gadamer vuole spiegare è che il voler astrarre da tutto ciò per cui uno viene colpito da una forma artistica, per concentrarsi soltanto e limitarsi ad una valutazione puramente estetica, è un modo di comportarsi che è esteriore rispetto all’opera d’arte.

Invece proprio la non-differenziazione tra il modo particolare in cui essa viene riprodotta e l’identità dell’opera ad essa sottesa costituisce l’esperienza estetica. Per esemplificare, ciò che viene imitato nell’imitazione, o figurato dal poeta, o rappresentato dall’attore, o conosciuto dallo spettatore, è la sola cosa che si ha di mira, in cui risiede il significato della rappresentazione.

Secondo Gadamer quindi la rappresentazione mimetica porta all’essere ciò che l’opera richiede; alla duplice differenziazione tra opera e materia di essa o tra opera ed esecuzione corrisponde una duplice non-differenziazione come unità della verità che è conosciuta nell’arte.

Pertanto, ciò che Gadamer ha descritto come non-differenziazione estetica costituisce l’autentico senso del gioco combinato di immaginazione ed intelletto che Kant aveva scoperto nel giudizio estetico.

Certo, egli prende le distanze dalla pretesa kantiana dell’autonomia dell’estetico orientata verso il bello naturale, che ha come sottofondo il concetto teologico della creazione. Da questa Kant spiegava poi la creazione del genio, dell’artista come la più alta elevazione della potenza che possiede la natura.

Ma il bello naturale è di estrema indeterminatezza, non si può esprimere in una formula. Diversamente che nell’opera d’arte, dove si cerca di riconoscere qualcosa come qualcosa, nella natura ciò che parla è una indeterminata potenza, la quale insegna che solo gli occhi di chi è esperto ed educato artisticamente può vedere la bellezza della natura; lo stesso sosteneva Hegel nel dire che il bello naturale è un riflesso del bello artistico61.

Quello che Gadamer recupera positivamente è invece il fatto che il bello naturale ricorda all’uomo che ciò che si riconosce in un’opera d’arte non è affatto ciò in cui parla il linguaggio

60 H.G. Gadamer, Ontologia dell’opera d’arte e suo significato ermeneutico, in Verità e metodo, op. cit. pp. 132-151.

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dell’arte. L’uomo viene interpellato dall’arte proprio grazie all’indeterminatezza del rinvio. E che cosa contiene in sé questo essere rinviati nell’indeterminato? Contiene il simbolico. Il vocabolo deriva dal greco σ5µβολον, e indica il frammento di coccio dato in ricordo all’ospite il quale, ipotizzando un suo futuro ritorno presso quella stessa casa, esibendo il frammento e facendolo combaciare con l’altra metà conservata dall’ospitante potesse essere riconosciuto e riaccolto62.

Anche l’opera d’arte rimanda a qualcosa che non si trova immediatamente nell’aspetto visibile e comprensibile in quanto tale; la funzione del rimando è quella di spostare l’attenzione su qualcosa di diverso, che non si può esperimentare immediatamente.

Ma in questo modo il simbolo verrebbe a coincidere con il significato dell’allegoria, e la significatività del bello e dell’arte verrebbe spiegata in termini di seduzione idealistica, come Gadamer definisce le teorie della filosofia idealistica. Il filosofo rinnega questa direzione: di fronte alla questione di che cosa venga trasmesso nell’esperienza del bello e dell’arte, l’intuizione a suo dire decisiva è che non si può parlare semplicemente di una trasmissione o mediazione di senso.

Un idealista come Hegel definisce l’arte come l’apparire sensibile dell’idea, in ciò riprendendo la platonica unità indivisibile di Bene e Bello, costringendo quindi a supporre che si possa e si debba andare oltre questo modo dell’apparire del vero: solo il pensare filosofico che pensa l’idea è la forma più elevata ed adeguata per comprendere tali verità.

Ma l’errore o la debolezza dell’estetica idealistica secondo Gadamer consiste nel non vedere come proprio l’incontro con il particolare, e la manifestazione del vero nella forma della particolarità, contraddistinguano l’arte come qualcosa di mai esauribile e superabile.

Il senso del simbolo e del simbolico è che nell’arte vi è una paradossale specie di rinvio, che incarna in sé, e persino garantisce, il significato al quale essa rinvia. Solo in questa forma, che non è affatto comprensione concettuale, l’arte si fa incontro all’uomo.

61 Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1967, ed. II, pag. 6-7.

62 È anche molto bella la storia mitica sull’origine degli uomini che Platone fa raccontare ad Aristofane in un passo del Simposio: in origine l’uomo era sferico, ma viene dimidiato dagli dei per essersi comportato male. Da quel momento in poi ogni metà vive e si affanna alla ricerca del proprio completamento. Cfr. Platone, Simposio, 190a, 191c.

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Quindi l’essenza del simbolico consiste proprio nel fatto che esso non ha per proprio fine una significatività che deve essere recuperata intellettualmente, quanto piuttosto il semplice conservare in sé il suo proprio significato.

L’elemento simbolico dell’arte si fonda sull’inscindibile contrapposizione tra rinvio e nascondimento. Il senso di un’opera d’arte riposa sul fatto che c’è, e Gadamer sostituisce la parola opera con forma (Gebilde) perché vuole significare che il processo transitorio del fuggente flusso di un discorso viene ad arrestarsi enigmaticamente in arte, divenendo appunto una forma d’arte.

Quanto al senso dell’opera d’arte, l’uomo è in grado di percepire la pienezza d’essere e la verità che proviene dall’opera nel suo doppio risvolto di scoprire, svelare e manifestare da un lato, e di occultare dall’altro.

Questa intuizione filosofica mette in luce i limiti della concezione idealistica di una pura integrazione del senso, ed è stata formulata da Heidegger63; Gadamer sottolinea come egli abbia mostrato che il concetto greco di disoccultamento, l’ÞλÔθεια , è solo un lato della fondamentale esperienza dell’uomo nel mondo; accanto vi è il nascondimento e l’occultamento, che sono parte della finitezza dell’uomo.

In linea con Goethe e Schiller, Gadamer sostiene che il simbolico non rimanda solo al significato, ma lo fa essere presente: esso rappresenta il significato.

Attraverso il concetto di simbolo e di gioco Gadamer risponde al problema di che cosa sia l’arte, mentre con il concetto di festa (Fest) restituisce all’arte, all’interno della sua attività ludica e simbolica, la dimensione della temporalità e la sua autentica dignità ontologica, cioè il fatto di essere celebrazione.

Il problema che si pone riguarda la temporalità dell’estetico, e l’esempio che riporta Gadamer per spiegarne l’importanza è quello della struttura temporale della festa.

L’esperienza temporale della festa è la celebrazione (Begehung), un presente sui generis, come evidenzia la radice del termine tedesco, in quanto la parola porta con sé la rappresentazione di uno scopo verso il quale si va: la celebrazione è tale che non bisogna prima andare verso qualcosa per poi arrivarvi. In quanto si celebra una festa, questa è sempre stata ed è sempre per l’intero tempo, cioè non si disperde nella durata dei momenti che si susseguono l’un l’altro.

Questa peculiarità del carattere temporale della festa si evidenzia ancor più confrontandola con la normale esperienza pratica del tempo: nel normale scorrere, il tempo è sempre tempo per qualcosa, cioè il tempo di sui si dispone, i cui estremi sono il tempo vuoto,

63 Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La nuova Italia, Firenze 1968, pp. 3-69.

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che non si sa come riempire e far passare, e la cui esperienza è noia, e il tempo nel suo ritmo ripetitivo, in cui ci si affanna a lavorare e non si ha mai tempo per sé.

Invece il tempo della festa è diverso: Gadamer lo definisce tempo proprio: la festa, attraverso la sua festività, porta con sé il suo proprio tempo, e così ferma il tempo: questo è il festeggiare.

Il passaggio da tali esperienze temporali della vita all’opera d’arte è semplice. Per Gadamer, il fenomeno dell’arte occupa nel nostro pensiero uno spazio prossimo alla determinazione fondamentale della vita, che ha la struttura dell’essere organico. Anche l’opera d’arte è in un certo qual modo una unità organica, in cui tutte le sue parti non sono subordinate ad un altro scopo, ma sono intimamente unite. La bella espressione di Kant, finalità senza scopo64, si addice bene all’opera d’arte, ed è affine ad una delle più antiche determinazioni che siano state fatte della bellezza artistica: qualcosa è bello quando niente vi possa essere aggiunto e niente possa essere tolto65.

Ovviamente, ogni opera d’arte possiede un suo certo tempo proprio, che si impone, ma il rilievo valevole per l’esperienza dell’arte in generale è questo: nell’esperienza dell’arte, sostiene Gadamer, si tratta innanzitutto di imparare dall’opera d’arte un modo particolare dell’indugiare: quanto maggiore è l’indugio con cui ci si rivolge e ci si abbandona all’opera, tanto più eloquente, complessa e ricca essa ci appare.

L’essenza dell’esperienza temporale dell’arte consiste nell’imparare ad indugiare. Nell’opera d’arte ciò che non è ancora presente nella chiusa coerenza di una forma, ma scorre via, viene tramutato in una forma permanente e duratura: è nell’esitante indugio che vi è quel qualcosa di duraturo che caratterizza l’arte

Tirando le fila del discorso, emerge che: la rappresentazione di sé che si ha, tramite il gioco, nella realtà dell’opera d’arte, e che come rappresentazione si può chiamare µíµησισ , costituisce il carattere simbolico, la realtà ontologica, insomma il carattere di rappresentanza dell’opera d’arte. Il significato del simbolo viene liberato dai falsi problemi semiotici della riflessione estetica idealistica e viene colto nella sua attività simbolizzatrice.

Inoltre, circa i problemi da sempre dibattuti a proposito del verosimile, l’1ikos, e del vero, dell’imitazione e del modello originario, della realtà e della copia, Gadamer è preciso: nell’opera d’arte non appare né la realtà ideale né la copia della realtà ideale; non appare il semplice ritratto né una pura finzione che si rapporti ad una realtà esistente in misura della

64 Kant, Critica del giudizio, op. cit.

65 Aristotele, Eth. Nic. II, 5, 1106 e ss.

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sua verità o verisimiglianza; appare bensì la realtà della rappresentazione stessa, o della µíµησισ , quale condensazione del fenomeno di eccedenza della esistenza che si ha nel gioco.

Per questa funzione della µíµησισ la realtà simbolica dell’arte è, oltre che rappresentazione (Darstellung), anche rappresentanza (Vertretung); questo accrescimento essenziale della realtà rappresentata Gadamer lo definisce incremento di essere66. Nell’opera d’arte non si rimanda semplicemente a qualcosa, perché in essa vi è propriamente già ciò a cui essa stessa rimanda: l’opera d’arte significa un accrescimento di essere.

Ancora, l’opera d’arte è quella rappresentazione simbolica che presuppone una trasmutazione in forma (Verwandlung ins Gebilde) che è una mediazione totale del rappresentato.

La lettura di un’opera d’arte, in quanto è interpretazione del senso, rimanda alla visione interiore dell’immagine o della rappresentazione simbolica che è stata costruita dall’autore tramite la sua mediazione totale, la quale viene poi idealmente ricostruita dal lettore-fruitore.

Al concetto di simbolo è legato il riconoscimento: nel riconoscimento si conosce più propriamente che nella prima presa di conoscenza (Erkennung); il riconoscimento vede il permanente nel fuggevole. Il simbolo dunque è un compito: esso deve essere costruito attraverso le possibilità del suo riconoscimento.

A conclusione, Gadamer ricorda che uno dei motivi fondamentali della sua ricerca in ambito estetico è quello di far notare che il proposito primo del rapporto dell’uomo con il mondo, e del suo sforzo creativo, consiste nel cercare di tenere fermo ciò che sfugge o che è continuamente mutevole.

Questa particolare attività che è esperienza della finitezza dell’esistenza umana si ripercuote anche nell’esperienza dell’arte: essa è il sigillo spirituale che si esprime sulla trascendenza interiore del gioco, l’eccedenza di ciò che è facoltativo, di ciò che viene scelto, e scelto liberamente.

Il conferire durata contraddistingue il gioco umano dell’arte rispetto a tutte le altre forme di gioco nella natura, e il carattere di eccedenza (Ueberschuβ) del gioco è la base dell’elevazione creativa e formativa dell’uomo verso l’arte.

66 H.G. Gadamer, Estetica ed ermeneutica, in L’attualità del bello, op. cit. pp.72-79.

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L’esempio della tragedia.Gadamer a questo punto espone la teoria aristotelica della tragedia per chiarire meglio la

struttura dell’essere estetico in generale.Il modo di essere estetico è stato fin qui caratterizzato come gioco e rappresentazione; si

vuole vedere adesso in che cosa consiste l’essenza del tragico e chiarire se esso sia un fondamentale fenomeno estetico67.

Nella famosa definizione contenuta nella Poetica68 la tragedia viene definita l’unità di un corso tragico di eventi che viene esperita come tale, ed è quindi un cerchio conchiuso di significato, che rifiuta ogni intrusione o intromissione; ciò che poi viene inteso per tragico è solo da accettare.

In questo senso il tragico è un fondamentale fenomeno estetico.Aristotele ha inoltre incluso nella determinazione dell’essenza della tragedia l’effetto

sullo spettatore: la rappresentazione dell’azione tragica agisce sullo spettatore per mezzo di 1λεοσ e φóβοσ : questi sono degli accadimenti che piombano sull’uomo e lo travolgono.

1λεοσ è lo strazio che prende chi si trovi di fronte a ciò che si definisce straziante, non è semplicemente pietà come si suole tradurre, e φóβοσ non è un puro stato d’animo come il terrore, ma indica una specie di raffreddamento tale che il sangue si raggela e si manifesta un brivido69; quindi φóβοσ significa l’insieme dei brividi di ansietà che prende chi vede qualcuno correre verso la propria rovina e sta in ansia per lui.

67 Alcuni teorici moderni come R. Hamann e M. Scheler considerano il tragico come un momento extra estetico, un fenomeno etico-metafisico che penetra dell’esterno nel campo della problematica estetica.

68 Aristotele, Poetica, VI 1449 b 21-32.

69 Aristotele, Retorica, II 13 1389 b 32.

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Strazio e ansietà sono modi di essere estatici, cioè modi dell’essere fuori di sé, che attestano la potenza e il fascino di ciò che viene rappresentato.

Aristotele soggiunge che questi affetti sono quelli attraverso cui lo spettacolo produce la purificazione di tali passioni70.

La traduzione è molto controversa, potendosi interpretare ambiguamente il senso del genitivo: κατáρσισ delle passioni o dalle passioni?

La posizione di Gadamer è questa: l’essere colti da strazio e brivido rappresenta una dolorosa scissione, cioè si verifica un dissidio con ciò che accade, che non si vuole recepire e accettare, e una ribellione al tragico corso degli eventi. Ora, l’effetto della catastrofe tragica è la risoluzione della scissione tra lo spettatore e l’evento tragico; in questo modo, la catastrofe produce una universale liberazione dell’animo oppresso.

Lo spettatore viene liberato dall’incantesimo in cui l’essenza straziante e orrenda del destino tragico lo aveva avvinto, e viene al tempo stesso liberato da tutto quello che l’opponeva a ciò che è.

La mestizia tragica rispecchia quindi una forma di affermazione, un ritorno a se stessi. Ma che cosa è oggetto di affermazione da parte dello spettatore? È il superamento vittorioso della pretesa di accettazione della smisuratezza e terribile gravità delle conseguenze che si sviluppano da una determinata azione colpevole.

L’affermazione tragica ha il carattere della comunione: infatti lo spettatore sperimenta e riconosce su se stesso il proprio essere finito nei confronti della potenza del destino. L’accettazione che caratterizza la mestizia tragica non è rivolta al tragico corso degli eventi in quanto tale né alla giustizia del destino, ma a di mira un ordine metafisico dell’essere che vale per tutti. Il così è dello spettatore e l’affermazione tragica sono intelligenza del vero.

Ciò che Gadamer ha dunque rilevato è che il distacco dello spettatore appartiene all’essenza della tragedia non solo, ma soprattutto questo distacco, che determina il modo d’essere estetico, non implica la differenziazione estetica che è un carattere essenziale della coscienza estetica.

Lo spettatore, in altre parole, non si colloca nella distanza della coscienza estetica, che apprezza solo l’arte della rappresentazione bensì nella comunione del vero assistere. L’impressione di grandezza e di comunione che colpiscono lo spettatore hanno per effetto, in realtà, di approfondire la sua continuità con se stesso.

Nell’evento tragico lo spettatore ritrova se stesso perché ciò che gli si fa incontro è il suo mondo come egli lo conosce nella propria tradizione religiosa o storica. Nel sopravvivere poi

70 Καταρσισ των παθεµατων.

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di queste opere e di questi argomenti tragici si ha ben più che il semplice sopravvivere del modello letterario: in questo caso, anche se lo spettatore non ha più dimestichezza con la materia del mito, egli viene ugualmente raggiunto e toccato dal linguaggio di tale mito, di modo che l’incontro con tale materiale tragico e con tali opere possa ancora e sempre divenire un incontro con se stessi.

Ciò che vale per il tragico, riconosciuto così come un fondamentale concetto estetico, vale anche in senso molto più generale per le altre arti: per il poeta per esempio la libera invenzione è sempre solo un aspetto di una funzione mediatrice delimitata dall’esistere di una certa tradizione: la libera invenzione del poeta è solo la rappresentazione di una verità comune, che si impone anche al poeta71.

Alla luce di tutta questa lunga analisi, perviene finalmente la risposta alla domanda: qual è il modo d’essere dell’estetico?

Nel concetto del gioco e della trasfigurazione in forma che caratterizza il gioco dell’arte, Gadamer ha mostrato che la rappresentazione non è qualcosa di accidentale, ma è invece essenziale: in essa si compie solo ciò che le opere stesse già sono: l’esistenza di ciò che da esse è rappresentato.

La specifica temporalità dell’essere estetico, per cui esso ha il proprio essere solo nell’essere rappresentato, si concreta nel caso della esecuzione-ripetizione come fenomeno autonomo e individuato.

Se tutto ciò è valido in generale, il carattere ontologico dell’essere estetico può essere definito in base a questi concetti.

Gadamer prosegue quindi nell’indicare, come conseguenze estetiche ed ermeneutiche, la valenza ontologica dell’immagine (Bild), il fondamento ontologico dell’arte decorativa e d’occasione, e si sofferma sulla situazione limite della letteratura. Per quest’ultima, esiste una disciplina classica che ha a che fare con la comprensione di testi, l’ermeneutica.

Ma, sulla base di ciò che emerso, l’ermeneutica dovrebbe comprendere l’intero campo dell’arte e della sua problematica: infatti ogni opera d’arte, non solo letteraria, va compresa come ogni altro testo; in tal modo la coscienza ermeneutica acquista un’ampiezza che supera anche quella della coscienza estetica.

Piace a Gadamer concludere quindi che l’estetica deve risolversi nell’ermeneutica.Si è chiarito che la differenziazione estetica è un’astrazione che non può sopprimere

l’appartenenza dell’opera al suo mondo, e d’altro lato è indubbio che l’arte non è mai solo qualcosa di passato, ma è capace di superare, con il suo peculiare significato, le distanze temporali.

71 H.G. Gadamer, Verità e metodo, op. cit. pg.179.

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In questo senso l’esempio dell’arte appare come un caso particolarmente significativo di comprensione: essa infatti non è un semplice oggetto della coscienza storica, perché d’altra parte la sua comprensione implica una mediazione storica. E allora come si definisce nei suoi confronti il compito dell’ermeneutica? Sarà un compito essenzialmente di ricostruzione e di integrazione72.

Infatti si è ampiamente chiarito che: nella rappresentazione artistica la trasmutazione in forma conferisce alla cosa rappresentata un incremento di essere, e che questo incremento che il reale subisce non riguarda solo la soggettività dell’artista e il suo modo di atteggiarsi, ma è l’essere stesso della cosa che viene realmente modificato. Inoltre questa modificazione accade alla cosa per opera dell’artista, che quindi fa una esperienza di verità (la quale infatti è tale solo quando modifica chi la fa), ma non le conferisce egli stesso la sua nuova realtà, bensì partecipa ad un accadimento che concerne anzitutto l’opera stessa.

Per questi motivi, incontrando l’opera nel mondo e un mondo nell’opera, si impone il compito di una integrazione ermeneutica di questi mondi diversi.

Nel chiarire l’esperienza extrametodica della verità che si verifica nell’arte, ciò che si modifica è il concetto stesso di verità: l’opera d’arte ha valenza di verità in nome dell’esperienza73; l’esperienza dell’arte è evento; la verità è un evento che accade e l’esperienza dell’arte è esperienza di verità con un incremento di essere.

Dopo averla così liberata dall’isolamento in cui l’aveva relegata la coscienza estetica, la fruizione dell’opera d’arte è un problema di mediazione tra mondo dell’opera e mondo del lettore.

Il problema ermeneutico si configura quindi come un problema di integrazione.Ma, riconosciuto che il problema del valore di verità dell’esperienza estetica è un

problema ermeneutico, è avvenuto il passaggio dall’arte alla storia: nella misura in cui l’opera e l’interprete sono eventi, la questione della mediazione e dell’interpretazione di questi due mondi viene ad identificarsi con quella, più vasta, di ogni rapporto con il passato.

72 H.G. Gadamer, Verità e metodo, op. cit. pp.202-210.

73 Cfr. M. Heidegger, La casa dell’essere, op. cit.

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lógoj e καλóν. Il percorso della metafisica occidentale.Una ragionevole speranza circa la possibilità di un farsi reale della ragione dell’uomo,

non come esperienza di una semplice evidenza, bensì come esperienza di partecipazione e di appartenenza, può essere offerta alla filosofia dalla riscoperta dell’importante, originario nesso tra lógoj e καλóν. 74

Infatti, secondo Gadamer, gli errori e lo sviamento dello scientismo degli ultimi due secoli che stanno quasi portando all’oblio l’essere proprio della metafisica occidentale, possono essere corretti attraverso il recupero dell’essenza più antica del lógoj metafisico, che era presente nel pensiero greco e di cui Hegel rappresenta la continuità.Mentre il grandioso tentativo della metafisica greca è stato quello di aver cercato la ragione nel cosmo75, e di aver trovato in esso quel νο û

σ che agisce, ordinando e distinguendo, in tutte le formazioni naturali, Hegel ha cercato di riconoscere quella stessa razionalità anche nel campo della storia.

Nella nozione hegeliana di un lógoj presente nella storia c’è un esplicito nesso con la vita dei popoli e delle nazioni, intendendo per popolo una comunità linguistica: dunque è nel

74 H.G. Gadamer, La ragione nell’età della scienza, Il Melangolo 1982, pg.17.

75 Aristotele, Methafisica, II: …αστρα τιµιωτατα....

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linguaggio comunemente condiviso, parlato e parlante nella vita delle umanità storiche che vive il lógoj

Gadamer individua altresì questo lógoj non come una struttura della storia, con una logica scientificamente determinabile nel suo sviluppo, bensì come una sorta di ambito di comprensione a cui tutto viene riportato, nella ricerca di una coincidenza sempre più piena di reale e razionale.

È il lógoj nel quale anche il Socrate platonico intende rifugiarsi per sottrarsi alla caoticità confusiva della apparenze, è il δοκεí µοι di Socrate, la fuga nei λóγοι, e non è quindi una verità evidente all’uomo interiore, ma è l’incontro vissuto e già-sempre costituito dall’esserci (come la pre-comprensione heideggeriana): è un insieme di λóγοι, condivisi da una comunità e presenti nel linguaggio.

La razionalità dell’essere, ipotesi della filosofia greca, non è un tratto distintivo della coscienza dell’uomo, bensì una determinazione dell’essere stesso: ecco perché a Gadamer piace risalire ai Greci. Non solo: inoltre, nell’identificazione del bello con il vero, dogma costante della metafisica e delle estetiche razionalistiche, si può rintracciare l’origine che spiega che cosa sia il lógoj inteso come tale dai greci fino ad Hegel.

Il bello nel senso di καλóν si riscontra quando, come si è già visto, il comportamento si conforma consapevolmente a scopi su cui non c’è bisogno di discutere, perché si tratta di scopi comuni e voluti da tutti; quindi tutto ciò che oltre passa la mera utilità e il mero utilizzabile in vista di, acquista una connotazione particolare: è il καλóν strettamente connesso con il lógoj a sua volta strettamente connesso con la θεορíα, essendo rivolto a qualcosa che, sopravvenendo con la sua presenza, si offre a tutti come dono comune.

Qui per Gadamer si realizza la vera nascita del concetto di ragione: quanto più si presenta qualcosa che tutti considerano desiderabile, e gli uomini si trovano accomunati da esso, tanto più essi acquistano in senso positivo la libertà, ovvero una vera identità che è comune a tutti.

Ovviamente, tale riconoscimento di una continuità tra il lógoj metafisico greco e quello hegeliano, su cui tanto insiste Gadamer, viene qualificato espressamente in senso ermeneutico76.

Nel 1812 Hegel esclamava che un popolo senza metafisica è come un tempio privo di santuario, e rispondeva alla antica domanda circa la metafisica del tutto dandole un nuovo fondamento: essa è il linguaggio, inteso come orientamento verso il tutto, esattamente così

76 H.G. Gadamer, La filosofia di Hegel e l’influsso che ha esercitato fino ad oggi, in La ragione nell’età della scienza, Il Melangolo, Genova 1982.

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come nella filosofia greca si verifica l’atteggiamento dialettico di Socrate e la fuga nei λóγοι, di Platone e Aristotele. Infatti, che cosa è questa loro fuga nei λóγοι, se non la risposta alla filosofia presocratica?

Platone sostiene che i suoi predecessori erano solo dei narratori di favole77, e che era giunto il momento di andare verso i λóγοι, . La direzione di Platone sarà quella della metafisica e della dialettica, quella di Aristotele invece, come si è già visto, è tutta calata nella fisica.

Il pensiero di Platone si sviluppa a partire dalla domanda sull’origine dell’anima78. Nel Fedone, anticipando la risposta che ne dà Aristotele nella Fisica, si legge che la finalità interna dell’anima è il bene79, così come la realtà è fondata sull’idea del bene, e a Gadamer non sfugge di rilevare l’attualità di questa struttura teleologica della filosofia che indica un concetto di totalità in cui natura, uomo e società appartengono allo stesso sistema, certo di contro alle scienze moderne che invece accumulano solo esperienze senza mai raggiungere la totalità.

Il passaggio dall’anima al lógoj si compie nel Teeteto e nel Sofista: nell’indagine circa il conoscere, Platone scrive che i tre aspetti del conoscere sono la ψυχÖ la dóxa e il lógoj, e su quest’ultimo si sofferma abbondantemente nel Sofista, dove analizza finemente i procedimenti retorici dei sofisti e sviluppa la sua idea di dialettica, rinnovata da Hegel nello spirito oggettivo.

Per Gadamer infatti la filosofia che vuole sopravvivere nell’età della scienza è lavoro del concetto (ferme restando le pretese, in parte giustificate, di verità dell’arte), fuga nei λóγοι, ovvero collocazione di ogni linguaggio formalizzato delle scienze all’interno del reggente metalinguaggio, cioè il linguaggio della storia vivente, lo spirito hegeliano che include anche lo spirito assoluto: istituzioni, opere, forme simboliche di ogni tipo.

Hegel ha dunque sviluppato la logica trascendentale muovendo dal concetto greco di λóγοσ, ammettendo così il suo legame con le origini greche di una tradizione filosofica e

77 Platone,cfr. Teeteto e Sofista.

78 Gadamer, L’inizio della filosofia occidentale, Guerini e Associati, Milano 1993.

79 Platone, Fedone, 99c.

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scientifica che prende le mosse dalla fuga nei λóγοι, questo rivolgersi al mondo che può e deve essere compreso in quella modalità che il Socrate platonico ha indicato come altra via: comprendere il mondo così come si comprende la condotta giusta quando si è riconosciuto che qualcosa è buono.

Ma l’età della scienza, iniziata dopo il crollo e la dissoluzione della grande sintesi hegeliana, non ha più potuto accogliere quella eredità, e si manifesta così il progressivo estraniarsi reciproco di filosofia e scienza del XX secolo.

Gadamer si chiede se con la morte di Hegel, nel 1831, l’epoca della metafisica sia ormai giunta al suo compimento, e vede gli sventurati sviluppi filosofici di questo secolo e la dissoluzione del neokantismo come una conseguenza del distacco della filosofia dalla scienza80.

La filosofia dell’esistenza si sviluppa proprio sulla base della rivendicazione della filosofia dei suoi diritti. Essa crea un suo proprio concetto di esistenza mettendone in risalto il carattere razionale.

La pretesa fondativa di questa filosofia gravita nella trascendenza di metafisica, religione e arte, ed è mossa dall’inquietudine dell’esistenza provocata dalla vincolante esattezza delle scienze da cui essa aveva preso le distanze, e si riduce entro i limiti del privato.

La nuova svolta viene data da Husserl e soprattutto da Essere e tempo di Heidegger, che sostituisce alla coscienza trascendentale la temporalità dell’esserci, cioè la sua finitezza e storicità.

In altre parole, Heidegger ha forzato il senso ovvio che il pensiero greco aveva dato al concetto di essere dimostrando che il pensiero moderno non aveva mai chiarito il concetto di coscienza che pure era all’origine della filosofia dell’età moderna.

Nella sua famosa conferenza Che cosa è la metafisica? Egli sostiene che la metafisica tradizionale non si era posta affatto il problema dell’essere, ma al contrario, essa erigeva l’edificio della metafisica muovendo dal concetto di ente. Il senso della domanda che cosa è la metafisica racchiude in quell’è l’interrogativo su ciò che è realmente metafisica, in opposizione a ciò che vuole essere tale e che come tale si comprende.

Tale domanda filosofica si è posta per la prima volta quando i Greci alzarono la testa, liberandosi dalle catene del mito e dai legami della religione e osarono chiedersi perché è, che cos’è, qual è la provenienza di ciò che viene dall’essere? Così posta la domanda, all’inizio del pensiero metafisico, essa acquista per Heidegger una nuova forza provocatoria e

80 Gadamer, L’ermeneutica come filosofia pratica, in La ragione nell’età della scienza, op. cit. ppg. 69-90.

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si rivela un esempio del nuovo concetto di interpretazione, proprio quello che Gadamer delinea nella sua teoria ermeneutica, e che ne oltrepassa i limiti: il nuovo concetto di ermeneutica, infatti, racchiude un concetto completamente nuovo di comprensione e autocomprensione, come si è già visto.

Secondo Gadamer, l’ultima parola dell’ontologia greca è proprio quella della metafisica che si trova nella finitudine dell’ente, di contro alla scienza moderna, che invece ha portato alla morte della metafisica: lo scientismo difatti esclude la partecipazione (Mit-spielen) tra soggetto e oggetto perché vuole dominare quest’ultimo con il metodo e, nel fare ciò, esclude anche il fondamento della partecipazione dell’uomo al bello, bene, giusto, valori.

Il modello della conoscenza, il luogo dove si verifica il conoscere non è nell’incontro-dominio tra la soggettività autonoma e l’oggetto dominato, bensì è nel dialogo81.

Su questa linea si trova anche Heidegger quando definisce il Positivismo la forma peggiore di metafisica perché mette da parte l’uomo per la centralità della tecnica.

In origine, la metafisica degli antichi greci separava l’essere dall’ente, e affidava l’essere al super-ente, cioè al dio, cercando di soffermarsi quindi sull’essere. Dopo la speculazione medievale, la metafisica affida l’ente al soggetto, cioè all’uomo, che riduce così la totalità dell’ente a sua rappresentazione (Gestalt): è in questo passaggio che pian piano si liquefa l’ontologia e l’uomo approda al nichilismo, poiché l’ente che viene ridotto a pura rappresentazione diventa nulla.

Secondo Heidegger, questo è il nichilismo della tecnica, che ha annullato l’essere e il mondo. Con la sua filosofia dell’esserci, Heidegger si sforza di concepire in modo nuovo il problema dell’essere, accentuando la dimensione pratico-morale dell’esistenza, e cercando così di arrestare il destino della tecnica moderna, dove l’essere è uguale al padroneggiamento dell’essere inteso come Gestelt.

Riconosciuta dunque l’importanza del nesso λóγοσ−καλóν e delineato l’itinerario della metafisica occidentale, non resta che soffermarsi ad analizzare più da vicino la metafisica del bello: con questo esempio Gadamer porta a compimento la sua maggior opera sistematica e corona la sua riflessione ermeneutica evidenziandone la portata universale.

81 Cfr. M. Heidegger, Die Frage der Technik, op. cit.

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Metafisica del bello.Data la piega ontologica che ha ormai preso la nostra problematica ermeneutica,

incontriamo ora un concetto metafisico…il concetto di bello…Si vedrà come questo antico concetto del bello possa servire anche a una ermeneutica universale quale è quella che si è venuta delineando in base alla nostra critica al metodologismo delle scienze dello spirito82.

Ovviamente Gadamer intende analizzare il concetto all’origine, cioè quello che i greci intendevano e chiamavano bello: il καλóν.

Sebbene questo termine non abbia dei corrispondenti perfetti né in tedesco né in italiano (forse una certa mediazione è stata operata dal latino pulchrum), tuttavia il pensiero greco ha esercitato una forte influenza riguardo alla fortuna del significato che si attribuiva alla parola; Gadamer ancor oggi riconosce in molteplici usi del concetto di bello il senso antico della parola καλóν.

Per esempio, Gadamer ricorda l’espressione linguistica la bella eticità con cui l’idealismo tedesco aveva caratterizzato il mondo dello stato e dell’eticità greca (Schiller ed Hegel): la bella eticità intesa non come eticità piena di bellezza, ma nel senso di una bellezza che si manifesta e vive in tutte le forme della vita comune, che ordina il tutto e fa si che l’uomo, nel suo proprio mondo, incontri continuamente se stesso.

Comunemente, si ammette che qualcosa sia bello per il fatto che venga riconosciuto pubblicamente da usi e costumi, oppure si ammette che la determinazione del bello sia il riconoscimento e il consenso dato da tutti.

Perciò fa parte del sentimento naturale circa il bello il fatto che non si possa chiedere perché esso piaccia: senza avere di mira alcuno scopo e senza aspettarsi alcun profitto, il bello trova il proprio compimento in una specie di autodeterminazione.Tutto ciò che non appartiene alla sfera della necessità della vita, tutto ciò che non è utile (χρÔσιµον) in vista di qualcos’altro, bensì riguarda il come del vivere, lo εû ζ Öν, è καλóν. Le cose belle sono quelle preferibili per se stesse (διá Þυτó αêρéτον), il cui valore rifulge di per sé.

Anche l’opposizione più comune al concetto di bello lascia intravvedere il superiore rango ontologico di ciò che è καλóν : αêσχρóν, il brutto, è ciò che non sopporta alcuno sguardo, invece bello è tutto ciò che può lasciarsi vedere: per esempio, il κóσµοσ, l’ordinamento del cielo, costituisce la vera e propria manifestazione visibile del bello.

Il κóσµοσ, , subentrato al χáοσ primordiale, indica per i Greci il più alto modello e la più alta rappresentazione visibile dell’ordine che possa esserci: l’ordinamento regolare del

82 Gadamer, Verità e metodo, op. cit. parte III, 3, C, pag. 544.

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cielo, l’avvicendarsi delle stagioni o dei giorni, sono le costanti dell’esperienza dell’ordine nella vita umana.

Anche il concetto pitagorico-platonico di misura, τáξισ, è strettamente legato all’idea del bello: Platone stesso definisce il bello mediante i concetti di misura, convenienza e proporzione; Aristotele ne indica gli elementi costitutivi nell’ordine (τáξισ), nella simmetria (συµµετρíα) e nella definizione (Ëρισµéνον83) e li trova realizzati in modo esemplare nella matematica84.

Dunque l’ordine matematico del bello e l’ordine del κóσµοσ, ribadiscono che esso è il più alto esempio di bellezza nell’ambito del visibile, e misura e simmetria sono la condizione decisiva della bellezza.Nella filosofia platonica si trova un’altra strettissima connessione, quella tra l’idea del bello e l’idea del bene, Þγαθóν85. Entrambe sono al di sopra di tutto ciò che è condizionato e molteplice: il bello in sé viene incontro all’anima al termine di un cammino che essa ha percorso attraverso il bello molteplice, così come il bene in sé sta al di sopra di tutto il condizionato e il molteplice. La gerarchia degli enti che conduce all’unico bene coincide con la gerarchia del bello. Nel Simposio l’itinerario giunge al bello in sé86, come nella Repubblica giunge al bene in sé87. Inoltre, la loro separazione è all’origine di alcune distinzioni che caratterizzano la Modernitat, come per esempio il concetto di ñρθ Ïτεσ e di adeguatio.

A Gadamer preme però mettere in luce un altro aspetto del fenomeno del bello, sempre attraverso Platone, che gli serve per la sua ricerca sull’ermeneutica.

È vero che Platone ha legato l’idea del bello con quella del bene, ma è pur vero che egli ha ben chiare le differenze tra di esse, e anzi una differenza che comporta la peculiare

83 Aristotele, Poetica, VII, 1450 b 34 – 1451 a 4.

84 Aristotele, Metafisica, M 3, 1078 a 31 – b 2.

85 Platone, già a partire da Gorgia, 475 A, e nell’Ippia Maggiore.

86 Platone, Simposio, 211 C.

87 Platone, Repubblica, X .

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superiorità del bello. Infatti, nel tentativo di cogliere il bene in sé, succede che questo si rifugia nel bello88; allora il bene è inafferrabile, mentre il bello è più suscettibile di essere colto, anche perché fa parte della sua essenza il fatto di essere qualcosa che appare, cioè visibile.

Dunque, nella ricerca del bene, ciò che si mostra è il bello.Mentre le immagini esemplari delle virtù umane si lasciano riconoscere solo

oscuramente nei fenomeni, e l’uomo si lascia ingannare da semplici apparenze di virtù, invece il bello conquista immediatamente, perché possiede una peculiare chiarezza: solo la bellezza sortì questo privilegio di essere la più percepibile dai sensi e di tutte la più amabile89.

Nella ricerca del bene, ciò che si mostra è il bello, e ciò che si mostra in forma perfetta, come è appunto il bello, attira a sé l’amore.

In questa funzione anagogica del bello si manifesta un aspetto strutturale ontologico del bello, anzi, è la funzione ontologica più importante che ci sia: quella della mediazione tra idea e fenomeno.

Poiché il carattere peculiare del bello rispetto al bene è quello per cui esso si presenta da se stesso e si rende evidente nel suo essere, la funzione ontologica è appunto quella di colmare l’abisso che si apre tra reale ed ideale.

Proprio questo è il punto cruciale della metafisica platonica.Platone si concentra sulla µεθéξισ, l’idea di partecipazione, e sui rapporti del fenomeno con l’idea, e delle idee tra loro. L’idea del bello partecipa dell’idea del bene e viceversa, come illustra finemente nel Fedro, e questo serve per rendere chiara la παρουσíα dell’ eôdoj che Platone ha in mente, cercando così di superare le difficoltà logiche di una partecipazione del divenire all’essere.

Lo iato, il χωρισµóσ, tra mondo sensibile e mondo ideale viene saldato qui: non solo il bello si manifesta in ciò che esiste visibilmente, ma proprio in virtù di tale fatto si stacca dal resto come una unità. Il bello cioè è veramente ciò che di per sé è più manifesto (τó

æκφανéστατον).

88 Platone Filebo, 64 e 5.

89 Platone,Fedro, 250 d.

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Il confine netto fra ciò che è bello e ciò che non partecipa dell’idea di bello è avvertibile ancora meglio sul piano fenomenologico: le opere ben fatte, infatti, sono tali che ad esse non si può aggiungere né togliere nulla90.

Ancora, la caratteristica del bello, per cui esso attira immediatamente su di sé il desiderio dell’anima umana, è fondata nel suo essere stesso: in quanto strutturato secondo misura, l’ente fa apparire entro di sé una totalità in sé misurata ed armonica. Questa luminosità dell’apparire che si disvela appartiene all’essenza del bello, e Platone la definisce ÞλÔθεια, verità nel senso etimologico di disvelamento91.

La bellezza non è solo simmetria, ma l’apparire stesso di essa, che ha la natura del risplendere. La bellezza ha il modo di essere della luce.

La luce articola le cose belle in forme, che sono belle e buone; la luce però non si articola solo nel visibile, ma anche nel dominio intelligibile: è luce dello spirito, il νοûσ.

La metafisica della luce con i suoi risvolti successivi (la dottrina cristiana del verbum creans, le interpretazioni di Agostino, il pensiero patristico e scolastico ecc.), è di grande aiuto a Gadamer nell’indicare le conseguenze che la metafisica del bello ha per la problematica ermeneutica: infatti il compito è ora quello di mettere in luce lo sfondo ontologico dell’esperienza ermeneutica nel mondo.

In base alla metafisica del bello Gadamer chiarisce due punti che risultano dal rapporto tra lo splendore del bello e l’evidenza dell’intelligibile92.

Il primo è che il manifestarsi del bello, proprio come il modo di essere della comprensione, ha carattere di evento; il secondo è che l’immediatezza riconosciuta come caratteristica dell’esperienza del bello è la stessa immediatezza di cui partecipa anche l’esperienza ermeneutica come esperienza di un senso trasmesso e come esperienza dell’evidenza della verità.

Quanto alla prima considerazione, Gadamer vuole puntualizzare alcune analogie tra la speculazione sul bello e sulla luce e l’esperienza ermeneutica.

90 Aristotele Eth. Nic. B 5, 1106 b c.

91 Platone, Filebo, 51 d.

92 Gadamer, Verità e metodo, op. cit. pg. 552.

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Per esempio, il fatto che il bello è evidente si ricollega alla tradizione retorica del verisimile, o dell’εêκóσ, ovvero a concetti che rivendicano la propria legittimità di contro alla verità e alla certezza di ciò che è dimostrato (ovviamente si riferisce alle scienze moderne).

Il bello infatti avvince senza con questo inserirsi e coordinarsi subito con la totalità dei nostri orientamenti e valutazioni: il bello è un tipo di esperienza che si distacca dal complesso dell’esperienza umana, imponendo all’uomo il problema di una integrazione ermeneutica.

L’esperienza ermeneutica si colloca in questo ambito perché anch’essa è l’accadere di una esperienza autentica: il fatto che in un discorso qualcosa si imponga come evidente senza essere accertato si verifica proprio nel caso in cui qualcosa di trasmesso dal passato parla all’uomo.

L’accadere del bello, proprio come l’evento ermeneutico presuppone la finitezza dell’esistenza umana. Ma c’è di più: Gadamer si chiede se uno spirito infinito possa mai sperimentare il bello come lo sperimenta l’uomo: il presentarsi del bello sembra essere un’esperienza riservata alla finitezza dell’uomo.

Quanto alla seconda considerazione, Gadamer aggiunge che, oltre a rilevare il carattere di evento del bello e la struttura eventuale di ogni comprendere, ci sono altre importanti conseguenze.

Come il bello si è rivelato essere il modello di una struttura ontologica universale, lo stesso accade per il concetto di verità che adesso si ricollega.

La verità che viene tematizzata al tempo dei greci è una manifestazione dell’essere nel senso di svelamento. L’etimo della parola greca è molto chiaro ÞλÔθεια, da α − privativo e la radice di λανθáνω, io sono nascosto. Quindi la verità in greco è un uscire dal nascondimento, da se stessi, così come in tedesco il termine Un-verbongenheit rimanda a ciò che si trattiene.

L’ ÞλÔθεια, implica la stessa esperienza di verità dell’ermeneutica: tutta la dignità dell’esperienza ermeneutica risiede nel fatto che la comprensione non si realizza in un virtuosismo tecnico o nell’utilizzo di un metodo capace di comprendere qualsiasi scritto. È invece nell’incontro con ciò che viene dal passato e che dice qualcosa che si realizza l’autentica esperienza di verità.

Tale incontro si compie nell’attuarsi dell’interpretazione nel linguaggio: il fenomeno del linguaggio infatti si presenta come universale modello dell’essere e della conoscenza, e permette di determinare più precisamente, alla fine di questa ricerca, il senso della verità che è in gioco nel comprendere.

La comprensione non è una operazione di penetrazione in uno scritto o in uno stato d’animo, ma è l’oggetto che acquista la sua piena determinatezza di senso in rapporto ai caratteri contingenti della situazione. Ma questo determinarsi in base alla situazione e al contesto, che fa del discorso una vera totalità di senso, non è qualcosa che appartenga al parlante ma alla cosa espresso.

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Quando si comprende un testo, il significato di esso si impone esattamente come avvince il bello: esso si fa valere e si impone già prima che l’uomo, dice Gadamer, se ne possa accorgere; nel comprendere, l’uomo è incluso entro un accadere di verità e in un certo senso arriva troppo tardi se vuole sapere ciò che deve o non deve credere.

Le conclusioni di Gadamer che interessano in relazione a questo lavoro di tesi, ma che trovano collocazione proprio nelle pagine conclusive della sua opera maggiore, Verità e metodo, ribadiscono che la sicurezza fornita dall’impiego di metodi scientifici non basta a garantire la verità.

Per le scienze dello spirito, questo vuol dire non diminuirne la scientificità, ma legittimare la pretesa di un particolare ambito che le caratterizzi: la verità che esse raggiungono viene realizzata attraverso la disciplina del domandare e del ricercare.

E, come nell’ultimo esempio di cui si è servito Gadamer, il bello è il modello di una struttura ontologica universale, così è anche per il concetto di verità, il quale, compiendosi nell’attuarsi dell’interpretazione del linguaggio (che è un modello universale dell’essere e della conoscenza), e determinandosi a sua volta in base alla situazione e al contesto, viene veramente garantito dalla disciplina a cui Gadamer ha riconosciuto un aspetto universale: l’ermeneutica.

BIBLIOGRAFIA

Opere di H.G. Gadamer.

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